Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi 880644008X, 9788806440084


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Italian Pages 491 [533] Year 1981

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Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi
 880644008X, 9788806440084

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NINO PIRROTTA

LI DUE ORFEI DA POLIZIANO A MONTEVERDI

EINAUDI

Quello d’Orfeo non è il solo tema co­ mune alla letteratura drammatica del tar­ do Quattrocento e all’opera del primo Seicento; ma il livello artistico della «fa­ vola» di Poliziano e di quella messa in musica da Monteverdi, entrambe spetta­ coli mantovani di ispirazione fortemente fiorentina, le rende particolarmente adat­ te alla funzione simbolica di pilastri ai quali s’aggancia la trattazione del libro. In realtà poi la ricerca sulla funzione e il significato della musica negli spettacoli che precedettero l’opera prende le mosse più da lontano per scoprire quanta novità ci sia nell’apparente ingenuità dell’Or/^o di ottave e strambotti di Poliziano; e va oltre Monteverdi per meglio chiarire le ragioni e i modi dei nuovi spettacoli « tut­ ti in musica». Nell’intervallo tra le fasi di partenza e di arrivo vari interessi distolgono la mu­ sica dall’ideale del canto solistico intensa­ mente espressivo, chiaramente cnunziato dalla generazione di Poliziano e ritrovato oltre un secolo più tardi nello stile «reci­ tativo» e nell’opera. La musica è usata a volte in funzione realistica, col cantare, suonare o danzare fatti parte integrante dell’azione. Ma più spesso serve a funzio­ ni formali: nelle commedie classiche o classicheggiami offerte a Ferrara da Erco­ le I d’Este scandisce la divisione in atti con intermedi «apparenti» o «non appa­ renti»; più tardi, e piu sottilmente, opera una saldatura tra realtà vissuta e realtà fittizia, e contribuisce all’unità e conti­ nuità temporale dell’azione con un effet­ to di compressione prospettica del tem­ po; infine diventa ancella ad effetti gran­ diosamente spettacolari negli intermedi dei grandi spettacoli di corte. Al di là della copiosa documentazione musicale il libro ha intenti largamente in­ terdisciplinari oltre le specifiche compe-

lenze dei suoi autori. Né si propone di esaurire il catalogo e la cronologia degli spettacoli del periodo preso in esame. Mi­ ra piuttosto a riconoscere i vari propositi degli organizzatori di spettacoli, le solle­ citazioni e limitazioni imposte dalle con­ venzioni vigenti, dai luoghi teatrali e dai mezzi tecnici disponibili, e infine a indo­ vinare le possibili reazioni degli spettato­ ri di un’epoca nella quale il teatro rina­ scente rispondeva ad esperienze ed esi­ genze ben diverse dalle nostre.

Nino Pirrotta, nato a Palermo nel 1908» ha completato i suoi studi musicali e letterari a Fi­ renze, conseguendo il diploma di organo nel 1930 e la laurea in storia delParte nel 1931. In­ segnante al Conservatorio di Musica di Paler­ mo dal 1936 c bibliotecario de! Conservatorio S. Cecilia di Roma dal 1948. ha successivamen­ te insegnalo in varie università americane e par­ ticolarmente, dal 1956 al 1972, alla Harvard University di Cambridge, Massachusetts. £ ora ordinario di Storia della Musica all'università di Roma. Tra i suoi scritti: // Sacchetti e la tec­ nica musicale del 'joo italiano in collaborazione con Ettore Li Gotti (Firenze 1935); Paolo Tenotista ( Palm Spring 1961 ); Li due Orfei in col laborazione con Elena Povolcdo ( Torino 1968 ), che ora si ripubblica pressoché inalterato nel te­ sto ma largamente aggiornato nei riferimenti bibliografici. Ha curato l'edizione di un corpus di musiche trecentesche, The Music of Four teentb-Century Italy, del quale sono finora usci­ ti cinque volumi.

Elena Povolcdo, nata a Venezia, sì è laureata in lettere ali'Università di Padova nel 1945. Ha fatto parte della redazione della Enciclopedia dello Spettacolo dirigendo i settori della sceno­ grafìa e dell’illustrazione. Dal 1962 insegna all’Accademia di Arte Drammatica di Roma. Ha partecipato con numerosi contributi ed inter­ venti a convegni internazionali sui fenomeni teatrali c collaborato aH’allestimento e ai cata­ loghi delle mostre II secolo dell’intfenxione tea frale (Venezia 1951), L'espressionismo sulla scena (Maggio musicale fiorentino, 1964), l di­ segni teatrali dei Bibbiena (Venezia 1970), Il­ lusione e pratica teatrale (Venezia 1975).

Nino Pirrotta

Li due Orfei Da Poliziano a Monteverdi

Copyright © 1973 Giulio Einaudi editore s.p, a., Torino

La prima edizione di questo libro è stata pubblicata dalla Eri, Torino 1969

Nuova edizione nei « Saggi », 1975

Seconda edizione, 1981

Nino Pirrotta

Li due Orfei Da Poliziano a Monteverdi

Con un saggio critico sulla scenografia di Elena Povoledo

Giulio Einaudi editore

Indice

p. XVII

XXI

Prefazione Prefazione alla nuova edizione

Li due Orfei NINO PIRROTTA

Da Poliziano a Monteverdi. Studi sul teatro e la musica del Rinascimento 5 45

9i M3 200

276

L’Orfeo degli strambotti Teatro classicheggiante, intermedi e musiche frottolistiche Musiche in commedia in funzione realistica Prospettiva temporale e musica «La meraviglia, ohimè! degli intermedi» Inizio dell’opera e aria ELENA POVOLEDO

Origini e aspetti della scenografia in Italia. Dalla fine del Quattrocento agli intermezzi fiorentini del 1589

372 401

DeXVOrfeo di Poliziano AVOrphei Tragoedia La « città ferrarese» La commedia regolare e la scena prospettica L’intermezzo apparente e la scena mutevole

461

Indice dei nomi

337 357

Elenco delle illustrazioni

i. Il Monte delli Ebrei. Miniatura di Lionardo da Colle in Ordine de le Noze de lo illustrissimo Signor Misir Costantio Sfortia de Aragonia: et de la illu­ strissima Madona Camilla de Aragonia sua consorte nel anno mcccclxxv. Manoscritto datato 1480. Roma, Biblioteca Vaticana, Codice Urbinate n. 899.

2. Cassone di scuola fiorentina (secolo xv) con scena di nozze ritenute tradi­ zionalmente le Nozze di Boccaccio Adimari. Firenze, Galleria deirAccademia. (Foto Anderson).

3. Il Trionfo della Castità. Autore ignoto del secolo xv. Siena, Accademia di Belle arti. (Foto Anderson).

4. Carro con la Nave dei Merendanti e Borghesiani pesaresi. Miniatura di Lio­ nardo da Colle in Ordine de le Noze de lo illustrissimo Signor Misir Co­ stantio Sfortia de Aragonia: et de la illustrissima Madona Camilla de Ara­ gonia ecc. (Pesaro 1475). Roma, Biblioteca Vaticana. (Foto Eri).

5. Orfeo allTnferno. Piatto attribuito a Timoteo Viti (1476-1524). Venezia, Museo Correr. (Foto Anderson).

6. Il Tempio * Amore , commedia di Galeotto del Carretto. Incisione. Venezia, d per Zoppino e Compagno, 1524. Roma, Biblioteca Casanatese. (Foto De Antonis).

7. Tabula di Caepbalo di Niccolò da Correggio. Incisione in legno. Venezia, per Giorgio de Rusconi, 1513. Roma, Biblioteca Vaticana. (Foto Eri).

8. Leonardo da Vinci, Il Monte girevole con l’Ade (1505 c.). Particolare del foglio 224?, Codice Arundel 263. Londra, British Museum.

9. Leonardo da Vinci, Pianta del palcoscenico girevole, e interno dell’Ade con Plutone. Particolari del foglio 231, Codice Arundel 263. Londra, British Museum.

io. Ricostruzione del Monte girevole con l’Ade, dai disegni di Leonardo da Vin­ ci. Modellino di J. T. Jones su proposte di C. Pedretti. Los Angeles, Elmer Belt Library of Vinciana, University of California.

X

Elenco delle illustrazioni

n. La Rappresentazione et festa della Annuntiatione di Nostra Donna di Feo Beicari. Incisione in legno, rifacimento di altra quattrocentesca. Firenze 1552. 12. «Paradiso», particolare della miniatura di Hubert Cailleau, nel manoscritto della Passion di Valenciennes ( 1547). Parigi, Bibliothèque Nationale.

13. Leonardo da Vinci, Dispositivi per la Danae di Baldassarre Taccone rappre­ sentata a Milano nel 1496. New York, Metropolitan Museum.

14. Il Palcoscenico stabile per la Passione, costruito dalla Confraternita di San Giovanni, in Piazza San Giacomo a Velletri, tra la fine del secolo xv e l’inizio del secolo xvi. Incisione di G. A. Antolini e I. Benedetti (1780). Velletri, Collezione Ferruccio Tata-Nardi ni.

13. Palcoscenico a luoghi deputati giustapposti, per la Passion di Valenciennes (1547). Miniatura dì Hubert Cailleau. Parigi, Bibliothèque Nationale.

16. Scena tragica romana, forse ispirata alle Troiane di Seneca, proveniente dal Colombario di Numitorius Hilarus. Roma, Museo delle Terme. (Foto Istituto Germanico d’Archeologia).

17. Ercole de’ Roberti, Lo «Scudo di Enea», dettaglio dell’affresco del Mese di Settembre. Sullo sfondo, dietro la lupa capitolina, è raffigurata una piazza ideale di Roma (fine del secolo xv). Ferrara, Palazzo di Schifanoia.

18. Andria di Terenzio. Incisione in legno. Lione, per Joannes Trechscl, 1493. (Foto Theatermuseum di Monaco).

19. Phormio di Terenzio. Incisione in legno. Lione, per Joannes Trechsel, 1493. (Foto Theatermuseum di Monaco).

20. Baldassarre Peruzzi, Pianta della scena per Le Bacchidi rappresentata a Roma nel 1531. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. (Foto De Antonis).

21. Lucido da un bozzetto del secolo xvi probabilmente per I Suppositi di Ludo­ vico Ariosto. Ferrara, Biblioteca Civica. (Foto De Antonis).

22. Scena comica di Baldassarre Peruzzi. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. (Foto De Antonis).

23. UAmfiparnaso di Orazio Vecchi. Incisione. Venezia, per Angelo Gardano, I597(Foto De Antonis).

24. Heautontimorumenos di Terenzio. Incisione. Venezia, per Giovanni Maria Bonelli, 1561. (Foto De Antonis).

Elenco delle illustrazioni

XI

25. Il Donativo di quattro asinissimi personaggi di Adriano Banchieri. Incisione. Vicenza 1597. Roma, Biblioteca di Santa Cecilia. (Foto De Antonis).

26. Teatro Olimpico di Vicenza (1^80-8^). (Foto Alinari).

27. Teatro secentesco. Disegno di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino. Londra, British Museum.

28. Strada prospettica. Disegno scenografico attribuito a Francesco Salviati (se­ colo xvi ). Londra, British Museum.

29. Il Granchio, commedia di Leonardo Salviati. Incisione. Firenze, per Torrentino e Pettinato, 1566. Roma, Biblioteca Corsini. (Foto De Antonis).

30. Baldassarre Lanci, Scena per La vedova di Giovambattista Cini, rappresentata a Firenze nel 1569 per la venuta dell’arciduca Carlo d’Austria. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. (Foto De Antonis).

31. Dispositivo per fingere il mare (secolo xvin). Parma, Biblioteca Palatina. (Foto De Antonis).

32. Bernardo Buontalenti, Scena «per il primo intermedio», riferita comunemente alle feste fiorentine del 1586. In tale occasione il primo intermezzo fu Giove invia i beni sulla terra. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. (Foto De Antonis).

33. Il Teatro mediceo degli Uffizi. Incisione di J. Callot da G. Parigi, per il primo intermezzo della Liberazione di Tirreno ed Arnea autori del Sangue toscano, rappresentato a Firenze nel 1617 (more fiorentino 1616). Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. (Foto De Antonis).

34. Bernardo Buontalenti, L'armonia delle sfere, primo intermezzo alla Pellegrina di G. Bargagli, rappresentata a Firenze, nel Teatro degli Uffizi, per le nozze di Ferdinando I con Cristina di Lorena (1589). Incisione di A. Carracci. Roma, Raccolta A. Sciolla. (Foto De Antonis).

35. Bernardo Buontalenti, La disfida delle Muse e delle Pieridi, secondo intermez­ zo alla festa del 1589. Incisione di Epifanio d’Alfìano. Firenze, Biblioteca Marucelliana. (Foto De Antonis).

36. Bernardo Buontalenti, Apollo e Pitone, terzo intermezzo alla festa del 1589. Incisione di A. Carracci. Roma, Raccolta A. Sciolta. (Foto De Antonis).

37. Bernardo Buontalenti, L'Ade, quarto intermezzo alla festa del 1589. Incisione di Epifanio d’Alfìano. Firenze, Biblioteca Marucelliana. (Foto De Antonis).

XII

Elenco delle illustrazioni

38. Bernardo Buontalenti, Annitrite e Ariane, quinto intermezzo alla festa del 1589. Incisione di F. Succhielli da Epifanio d’Alfiano. Roma, Raccolta privata. (Foto De Antonis).

39. Bernardo Buontalenti, L'Armonia e il Ritmo donati agli uomini dagli Dei, sesto intermezzo alla festa del 1589. Incisione di F. Succhielli da Epifanio d’Alfiano. Milano, Raccolta Bertarelli. (Foto De Antonis).

40. Il Tempio della Pace, sesto intermezzo al Giudizio di Paride, commedia di Michelangelo Buonarroti il Giovane, rappresentata per le nozze di Cosimo dei Medici con Maria Maddalena d’Austria. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. (Foto De Antonis).

41. Francesco Guitti, «Ordigno per cinquantaquattro personaggi», macchina idea­ ta per il torneo Mercurio e Marte con cui fu inaugurato il Teatro Farnese di Parma (1628). Invenzione e versi dell’introduzione cantata furono di Claudio Achillini, le musiche di Claudio Monteverdi. Disegno. Roma, Raccolta A. Sciolta. (Foto De Antonis).

La parte iconografica è stata raccolta e curata da Elena Povolcdo.

Indice degli esempi musicali

p. 28

t.

30 31

hi.

33 34 64 67

v. vi. vii.

73

il. Michele Pesenti, Integer vitae, ode saffica di Orazio. Ben seria tempo ormai, strambotto. IV. Ite, suspiri, là, strambotto di S. Aquilano.

ix. x.

83

xi.

102 102 103

La morte tu mi dai, strambotto attribuito a B. Ugolini. Forestieri a la ventura, mascherata di romei. A la cazza, a la cazza, scena di caccia.

vili. Filippo da Lurano,So« fortuna onnipotente, frottola.

77 81

100

Ben venga maggio, ballata di A. Poliziano, musica della lauda Ecco il Messia.

Rossino Mantovano, Perché fai, donna, el gaton, frottola. Marchetto Cara, Nasce la speme mia, « aer de capitoli».

Bartolomeo Tromboncino, Crudel, fugi se sai, canto di Pan da Le nozze di Psiche e Cupidine di G. del Carretto.

Nencioza mia, aere popolare ( ?). O zano, bello zano, aere popolare (?). xiv. Cavalcha Sinisbaldo, aere popolare (?). xv. Eneas Dupré, Chi à martello (ritornello E quando andarastu al mon­ te), frottola (?). xii.

xih.

IO? 109

xvi. loan Battista Zesso, E quando andarè tu al monte, ritornello corale, xvii. Joan Pietro Mantuan, Quando andarà tu al monte, idillio rustico,

II3

xvin. De voltate in qua, ritornello della frottola (?), Poi che ’l cielo e la Fortuna. xix. E levòmi d'una bella matina, ritornello corale.

*15 120 127 129

132

xx.

Andrea Gabrieli, Como viver mil posso, greghesca (inizio).

xxi. O vecchia, tu che guardi, villanesca alla napoletana. xxi bis. Giovanni Tommaso di Maio, Ho vist'una marotta, villanesca alla napoletana. xxn. Che fa lo mio amore, aere popolare ( ?), da Alessandro Striggio, Il cicalamento delle donne al bucato. xxiii. Orazio Vecchi, E’ vero che volea precipitarsi da L’Amfiparnaso, atto II, scena v.

XIV

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293

Indice degli esempi musicali

xxiv. Philippe Verdelot, Quanto sia lieto il giorno, canzone innanzi al prologo de La Clizia di N. Machiavelli. xxv. Philippe Verdelot, Chi non fa prov’, Amore, canzone dopo Patto I de La Clizia (e de La mandragola) di N. Machiavelli (inizio). xxvi. Philippe Verdelot, Si suave è l’inganno, canzone dopo Fatto IV de La Clizia (e dopo Patto III de Li mandragola) di N. Machiavelli (inizio). xxvn. Philippe Verdelot, 0 dolce node, canzone dopo Fatto IV de La mandragola di N. Machiavelli. xxvm. Philippe Verdelot ( ? ), Quanta dolcezza, amore, intermedio ( ? ). xxix. Jacques Arcadelt, Quanto fra voi mortali, intermedio (?) (inizio). xxx. Francesco Corteccia, Bacco, Bacco, euoe, coro delFultimo interme­ dio de 11 commodo di A. Landi (inizio). xxxi. Francesco Corteccia, Hor chi mai canterà, coro dopo Fatto IV de Il commodo di A. Landi (inizio). xxxii. Francesco Corteccia, Vatten, almo riposo, canto dell’Aurora innan­ zi Patto I de II commodo di A. Landi. xxxtii. Francesco Corteccia, Vientene, almo riposo, canto della Notte do­ po l’atto V de II commodo di A. Landi. xxxiv. Francesco Corteccia, Chi ne l’à tolt’oimè?, coro dopo Patto II de Il commodo di A. Landi. xxxv. Alessandro Striggio, Fuggi, speme mia, lamento di Psiche nell’in­ termedio V de La cofanaria di F. d’Ambra (inizio). xxxvi. Alessandro Striggio, Non visse la mia vita, madrigale (parte I e inizio della parte II). xxxvii. Scipione del Palla (?), Che non può far, stanze di Cleopatra (di L. Tansillo) nell’intermedio dopo Patto III àe\V Alessandro di A. Pic­ colomini. xxxvni. Scipione del Palla (?), Dura legge d’Amor, aere su testo di F. Pe­ trarca. xxxix. Piero Strozzi, Fuor dall’umido nido, canto della Notte nel Carro della Notte di P. Rucellai. xl. Antonio Archilei, Dalle piu alte sfere, canto dell’Armonia Doria nell’intermedio I de La pellegrina di G. Bargagli (inizio). xli. Cristofano Malvezzi, Sinfonia nell’intermedio I de La pellegrina di G. Bargagli. XLii. Luca Marenzio, Sinfonia e inizio del madrigale Belle ne fe’ natura nell’intermedio II de La pellegrina di G. Bargagli. XLlii. Luca Marenzio, Qui di carne si sfama, coro nell’intermedio III de La pellegrina di G. Bargagli (inizio). xliv. Giulio Caccini, Io che dal del, canto della Maga nell’intermedio IV de La pellegrina di G. Bargagli (inizio). xlv. Giulio Caccini, Dovrò dunque morire, madrigale XI da Le nuove musiche (inizio).

Indice degli esempi musicali 294

295

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303 306

xv

xlvi.

Iacopo Peri, Mentre con mesti accenti da un canto di Orfeo nel­ l’episodio IV de L’Euridice di O. Rinuccini. XLVii. Iacopo Peri, Ninfe ch’i bei crin d'oro, inizio dell’episodio I de L’Euridice di O. Rinuccini.

XLVin. Iacopo Peri, Antri eh’a* miei lamenti, canto di Orfeo nell’episodio II de LfEuridice di O. Rinuccini. Iacopo Peri, O fortunati miei dolci sospiri, canto di Orfeo nell’epi­ sodio IV de L'Euridice di O. Rinuccini. l. Francesco Cavalli, L'alma fiacca svani, aria di Cassandra nell’atto I La Didone di G. F. Busenello.

xlix.

Prefazione

Li due Orfei potrebbe essere un titolo di commedia; ed infatti ci è stato suggerito dalla lunga frequentazione con trame e testi di comme­ die cinquecentesche, in sostituzione del titolo provvisorio che ci era servito di guida durante la preparazione del nostro lavoro: Dall'«Or­ feo» del Poliziano all «Orfeo» * di Monteverdi. L’una forma e l’altra ac­ cenna al fatto che alcuni dei temi che erano stati svolti in modi dram­ matici, o quanto meno rappresentativi, durante gli ultimi decenni del Quattrocento si ripresentano con significanti analogie nel primo perio­ do della storia dell’opera. Si potrebbe anche parlare di due o piu Cefali e di due o più Dafni converse in lauro; ma il tema di Orfeo ricorre con maggiore frequenza ed è rappresentato da opere e autori più insigni. E soprattutto si presta come nessun altro a simboleggiare l’unione e com­ penetrazione di poesia e musica, realizzata dal Poliziano con felice spon­ taneità, senza ombra di teorizzare, e ritrovata dai creatori dell’opera con altrettanta pragmatica immediatezza, anche se questi indulsero poi a velarla con cortine di futili giustificazioni teoriche. Gli Orfei e i rispettivi periodi orfici sono grosso modo i punti di partenza e di arrivo del nostro lavoro, ed inoltre i pilastri ai quali si ag­ gancia la trattazione del periodo intermedio, ancor più ricco che non pensassimo di motivi e di avvenimenti. Nell’intervallo di tutto o quasi tutto un secolo le vie maestre dell’arte drammatica e dell’arte musicale assunsero direzioni notevolmente divergenti. La prima seguì una vo­ cazione prevalentemente letteraria (non vanno però sottovalutate le sollecitazioni dell’esperienza scenica) che la condusse ad elaborare for­ me e norme che ancora oggi influenzano il nostro modo di concepire un’azione drammatica e di realizzarla sulla scena; si disinteressò, al­ meno in apparenza, dalla partecipazione della musica. La quale da par­ te sua, nelle attività che la rappresentano più vistosamente, seguì una linea di progressivo isolamento in un mondo di narcisistica contem­ plazione, sostanzialmente astratta da funzioni pratiche o sociali (inclu­ sa quella di servire al teatro), e tutt’al più compiaciuta di rispecchiarle

XVIII

Nino Pirrotta ed Elena Povoledo

talvolta quasi per gioco, con un senso di distaccata, ironica superio­ rità. Non per questo cessarono gli incontri tra teatro e musica, richie­ sti dalle necessità pratiche della rappresentazione; ma restarono il più delle volte sottintesi, anche per non limitare la possibilità di flessibili adattamenti subordinati alle circostanze e ai mezzi disponibili. I documenti non mancano, benché siano lungi dall’essere completi e di facile accesso e interpretazione; ma bisogna cercarli e individuar­ li nelle zone marginali del quadro storico più comunemente accettato, nelle manifestazioni, almeno ai nostri occhi, meno regolari e meno no­ te. Nei limiti di spazio e di tempo imposti da ragioni pratiche al nostro lavoro (resi più stringenti dal risiedere l’uno di noi lontano più delle mille miglia) abbiamo potuto seguire soltanto uno dei filoni che si offri­ vano alle nostre ricerche; ad altri - come le rappresentazioni sacre, le mascherate e trionfi, le rappresentazioni di tragedie con i loro cori e in­ termedi, la teatralità e musicalità della pastorale, le veglie e i balletti abbiamo potuto soltanto qua e là accennare. Per questo abbiamo dato al volume la forma di una raccolta di saggi virtualmente indipendenti l’uno dall’altro, uniti tra loro da un filo di continuità logica e storica ma tuttavia suscettibili di aggiunte e di sviluppi. Ciò rispecchia inoltre il fatto che uno dei saggi (Inizio dell’opera e aria) aveva già avuto pub­ blicazione indipendente ed è qui tradotto e riprodotto col cortése con­ senso del primo editore, e che un altro (Prospettiva temporale e mu­ sica) è stato concepito come contributo alle correnti celebrazioni del centenario della nascita di Machiavelli. Accanto alle molte omissioni dettate da necessità, è intenzionale quella di un saggio destinato esclusivamente alla «camerata» di Gio­ vanni Bardi, comunemente nota con impropria ma inveterata esten­ sione come Camerata Fiorentina. L’omissione non vuol negare l’im­ portanza storica della precisa formulazione e documentazione che Bar­ di, Galilei, e ancor più Girolamo Mei, seppero dare ad idee largamente diffuse tra i loro con temporanei; mira però a ridimensionare la fun­ zione di stimolo determinante, nonché di limite dell’attività creatrice, che si è voluto attribuire a tali idee. È inoltre coerente con l’indiriz­ zo generale del volume che si appoggia più a fatti, opere e dati di gu­ sto e di costume che a formulazioni teoriche. In tal luce l’attività arti­ stica di Bardi, di Cavalieri, di Caccini, di Peri, di Rinuccini - sia o non legittima per tutti l’inclusione nella Camerata - è stata largamen­ te presa in esame. Altrettanto non era possibile fare, per quanto fosse desiderabile, per l’attività di liutista e compositore di Vincenzo Ga­ lilei che esorbita dal nostro soggetto. In tema di omissioni può essere anche notata l’assenza di ogni rife-

Prefazione

XIX

rimerito a manierismo o manierismi nella descrizione e considerazione di opere musicali. Manierismo è un concetto — se di concetto unico si può parlare - legittimo nel campo delle arti figurative. Non sarebbe né impossibile né improficuo estenderlo ad altre arti, in forma di pa­ rallelo o di analogia, se esso fosse stato definito e individuato con chia­ rezza nel campo al quale più propriamente appartiene. Ma ora come ora la voga del termine ne fa un omnibus troppo affollato di elementi disparati, e la prudenza consiglia di lasciar perdere l’omnibus. Pos­ siamo tuttavia permetterci una generalizzazione, da prendere con la cautela e la diffidenza dovute a tutte le generalizzazioni: le attività che caratterizzano più vistosamente l’arte musicale nell’intervallo tra i due Orfei e i rispettivi periodi orfici sono largamente dominate da una «ma­ niera» polifonica, sostanzialmente astratta, come abbiamo già detto, da funzioni pratiche e sociali. Li due Orfei e i loro autori hanno debiti di gratitudine verso vari enti e persone. I nostri ringraziamenti vadano alla Cornell University Press per il permesso di ripubblicare tradotto il saggio Early Opera and Aria dalla raccolta di studi in onore di Donald J. Grout, New Looks at Italian Opera, editi da William W. Austin (Ithaca, N.Y., 1968); al­ la Newberry Library di Chicago per aver concesso l’uso di esempi mu­ sicali tratti da composizioni ivi esistenti in unica-, ai professori Howard M. Brown (University of Chicago) e H. Colin Slim (University of Ca­ lifornia, Irvine) e a Miss Donna Cardamone per avere consentito l’uso di materiali inediti sui quali essi stavano lavorando; a Mr Stuart Rei­ ner per amichevoli osservazioni e precisazioni, a Maria Teresa Muraro (Fondazione Cini di Venezia) e al professor Armando Petrucci (Biblio­ teca Corsini, Roma) per la cortese assistenza; al professor Remo Giazotto, ai signori Nino Porto, Stefano Ajani e Giancarlo Rostirolla del­ la Eri per la loro preziosa collaborazione alla presentazione del volume. NINO PIRROTTA

ELENA POVOLEDO

Roma - Cambridge (Mass.), settembre 1969.

Prefazione alla nuova edizione

Nel ripubblicare questa nostra raccolta di saggi, alla cui prima pre­ sentazione circostanze da noi non previste concessero una diffusione pubblica estremamente limitata, non ci siamo proposti di intraprender­ ne una nuova stesura più sistematica ed esauriente. Abbiamo lasciato sostanzialmente immutato il testo principale, consapevolmente conce­ pito con intenti non tanto specialistici quanto interdisciplinari, purgan­ dolo soltanto di quelle imprecisioni o lapsus dei quali noi stessi ci era­ vamo accorti o che ci erano stati segnalati da cortesi recensori. Interventi più ampi sono stati invece necessari nell’apparato di note, specialmen­ te in quello dei saggi di argomento musicale, per aggiornarlo con la considerazione di pubblicazioni più recenti; ciò era particolarmente do­ vuto alla pubblicazione, avvenuta simultaneamente alla nostra, di un notevole libro di Wolfgang Osthoff (Theatergesang und darstellende Musik in der italienische Renaissance, Tutzing 1969) che, pur con fini diversi, copre in gran parte aspetti e documenti da noi discussi. Anche in questi interventi abbiamo cercato di non alterare la fisionomia origi­ nale del libro: dove è apparso necessario inserire nuove note è stato per esse ripetuto il numero della nota precedente con l’aggiunta dell’in­ dicazione «a»; rimaneggiamenti ed aggiunte all’interno di note già esistenti sono resi evidenti, nella maggior parte dei casi, da riferimenti bibliografici di data posteriore al 1969. È frattanto riemerso dalla coscienza subliminare il preciso ricordo della fonte che aveva suggerito il nostro titolo — non, come pensavamo, una commedia cinquecentesca, ma il libretto de Li tre Orfei, «dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel nobile Teatro Tron in S. Cassiano nell’autunno dell’anno 1787», con musica di Marcello Bernardini detto di Capua. Non c’è niente, tuttavia, nella trama dell’anonimo li­ brettista che ci induca ad una escalation dei nostri Orfei. NINO PIRROTTA ELENA POVOLEDO

Roma, giugno 1975.

Li due Orfei

NINO PIRROTTA

Da Poliziano a Monteverdi Studi sul teatro e la musica del Rinascimento

a Lea

L’Orfeo degli strambotti

Da Romain Rolland in poi YOrfeo di Angelo Poliziano si è assicu­ rato un posto in quel capitolo o paragrafo introduttivo di ogni storia dell’opera per il quale lo scrittore francese trovò lo slogan fortunato: L}Opera avant l’Opéra'. Il più delle volte, però, tutto ciò che ne è detto è la menzione del fatto che il poeta compose la sua favola dram­ matica per Mantova, dove essa fu rappresentata con musica. Le date variano - 1471, 1472, 1474 o 1480 - e il nome del presunto compo­ sitore della musica, che a volte è aggiunto, è invece quello di un oscuro musicista dell’ottocento, Pietro Germi, il quale con manifesto gusto preraffaellita si era proposto di cimentarsi col testo del Poliziano2. Tutto sommato, la trattazione più ampia è tuttora quella di Rolland, il quale però disse poco dell’Or/eo e si distese invece (seguendo la trac­ cia del fondamentale studio di Alessandro D’Ancona sulle origini del teatro italiano) sulle analogie formali che esisterebbero tra esso e le con temporanee «rappresentazioni» fiorentine di soggetto sacro, sul­ la affinità di quelle «rappresentazioni» con i più recenti «maggi» can­ tati del contado toscano, e sugli «ingegni» teatrali disegnati e messi in opera per rappresentazioni sia sacre che profane da artisti famosi co­ me il Brunelleschi e Leonardo da Vinci3. Per la storia della musica, in fondo, il testo dell’Or/eo è come un’epigrafe commemorativa di un fatto musicale irrimediabilmente perduto. I suoi valori poetici, la sua importanza come documento letterario, acuiscono il senso della perdi­ ta senza colmarla. Potremmo dunque contentarci di mettere qualche ordine nella confusione delle date e passar oltre; ma il fascino dell’operina del Poliziano (non inganni l’ambiguità del termine e dei suoi di­ minutivi), la sua grazia esile, l’apparente semplicità, e perfino i suoi difetti, lamentati dal poeta e rimuginati anche troppo dai critici, mi tentano ad indagare fino a che punto essa meriti di essere considerata un opéra avant l’opera. E soprattutto la notorietà dell’opera e del suo autore mi aiuteranno a stabilire il contatto con le idee, che le genera­ zioni che precedettero la nascita dell’opera ebbero della musica, della

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finzione teatrale, e del modo in cui elementi musicali potevano inse­ rirsi in una azione drammatica. Le speculazioni sulla data dell’Or/eo hanno come punto di par­ tenza una lettera che si trova premessa al suo testo, a modo di prefa­ zione, nei manoscritti più antichi, nella prima stampa bolognese del 1494 e nella maggior parte delle edizioni successive; nella quale il Poliziano, con un vezzo di modestia comune a tanti autori e a tante prefazioni, lamenta le imperfezioni della sua creatura, che gli faceva­ no quasi desiderare di vederla distrutta anziché conservata e diffusa: «Così desideravo anchora io che la fabula di Orpheo, laqual ad requisitione del nostro Reverendissimo Cardinale Mantuano, in tempo di dui giorni, intra continui tumulti, in stilo vulgare, perché dagli specta­ tor! fusse meglio intesa, havevo composta, fusse di subito, non altri­ menti che esso Orpheo, lacerata: cognoscendo questa mia figliuola es­ ser di qualità da fare più tosto al suo padre vergogna che honore; et più tosto apta a dargli malinconia che allegreza»4. La lettera è indiriz­ zata a un Messer Carlo Canale, familiare del cardinale diacono di San­ ta Maria Nuova, Francesco Gonzaga (il «nostro Reverendissimo Car­ dinale Mantuano»)5, e appare scritta mentre il cardinale era ancora in vita (morì il 21 ottobre 1483); dal passo citato fu desunto che la Fa­ bula fosse stata composta ed eseguita a Mantova - escludendo arbitra­ riamente Roma, dove il cardinale ebbe abituale residenza a partire dal 1462, Bologna, della quale pur senza obbligo di continua residenza egli fu cardinale legato dal 1472, e tutti gli altri luoghi nei quali potè occa­ sionalmente fermarsi per villeggiatura o per missioni ufficiali6. Ancor più arbitrariamente l’attenzione degli studiosi si concentrò particolar­ mente su due sole delle visite che il cardinale faceva di tempo in tempo alla corte paterna: quelle dell’estate del 1471 e dell’agosto del 1472 Di queste limitazioni ci offre la chiave il Rolland, che da parte sua optò per la data del 1474: «Ainsi, en 1474, dans la fleur de la Renaissance... l’ami de Laurent de Médicis, Ange Politien, essayait sur la scène lyrique, avec un succès retentissant, le sujet que trois siècles de chefs-d’oeuvre ne devaient pas épuiser, et que Gluck devait reprendre, trois siècles, exactement, après»8. Il 1474, naturalmente, è l’anno che si presta al retorico esatto parallelo con la prima rappresentazione parigina delYOrfeo di Gluck; ma è anche la data iscritta da Andrea Mantegna negli affreschi della cosidetta Camera degli Sposi del castello gonzaghesco di San Giorgio a Mantova; in uno dei quali, tuttora descritto come In­ contro del marchese Ludovico II col figlio cardinale Francesco, per lungo tempo si credette di poter ravvisare un ritratto del Poliziano tra le figure del seguito del cardinale. Va subito detto che l’identifica-

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zionfe del ritratto del Poliziano è ormai riconosciuta infondata: il poe­ ta, nato nel 1454, mostrava meno dei suoi venti anni nel 1474, men­ tre la figura del presunto ritratto è quella di persona matura (non tan­ to anziana però da giustificare l’identificazione pure proposta con Leon Battista Alberti, quarantotto anni più vecchio del Poliziano) L’affre­ sco non ha dunque alcun valore per stabilire quando il Poliziano fu pre­ sente a Mantova; le date vanno del resto perdendo importanza per tut­ te e due le scene principali che adornano la Camera degli Sposi, per le quali si tende oggi a rigettare ogni precisa interpretazione storica e a giudicare che «meglio si intendano entrambe come una libera rievo­ cazione della vita di corte...» w; esse sarebbero un ritratto collettivo, realistico nelle fattezze individuali, ma guidato dal gusto compositivo e dalle intenzioni espressive e simboliche dell’artista nella formazione dei gruppi e delle scene. Cederò anch’io, ciò malgrado, alla suggestione degli affreschi della Camera degli Sposi, non più per trarne argomento per datare VOrfeo, ma per sottolineare due caratteristiche che essi hanno in comune con la favola pur tanto diversa del Poliziano: una è il senso di una teatralità nella quale la realtà supposta non è remota, distaccata, confinata al di là di uno schermo o della cornice di un boccascena, ma presente e im­ mediata, svolta su un piano che a dispetto di distanze di luoghi e di tem­ pi viene a collidere col piano in cui si svolge la vita degli spettatori; l’altra è la virtù dell’artista di superare con la felicità dell’invenzione condizioni di fatto improprie e perfino sfavorevoli. Per il Mantegna si era trattato di nobilitare un ambiente non vasto, scarsamente illumina­ to da anguste finestre aperte nelle spesse muraglie di una torre. L’arti­ sta vi provvide con una straordinaria trovata scenografica, che, è stato detto Uricamente, fa si che «l’occhio estasiato vede, come per incanto, allontanarsi il cerchio oppressivo delle pareti e sorgere in vece loro, con armonia supernaturale, gli sfondi più scelti e appropriati» 11. Si ha l’illusione di essere in un padiglione circoscritto da ogni lato da arcate a giorno; soltanto due pareti sono affrescate, ma sulle altre due un «ap­ parato» di pesanti cortine dorate di cuoio cordovano, appesovi ogni volta che si mostrava la stanza a visitatori di riguardo, vuol dare l’im­ pressione che il giro si completi sforando anche dietro il provvisorio riparo. Sulle pareti aperte lo sguardo si innalza da un lato verso una terrazza scoperta e balaustrata, sulla quale uno stuolo premuroso di familiari, funzionari e servitori attornia le figure sedute del marchese Ludovico e della moglie Barbara di Brandeburgo; sull’altra parete una arcata inquadra la scena dell'incontro, mentre alle altre si affacciano scudieri in attesa con cavalli e cani pronti per la caccia. Ma le figure vi­

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cine non tolgono all’occhio di spaziare verso sfondi panoramici piu lontani e argutamente variati, ben diversi dall’uniforme pianura dei domini gonzagheschi. Perfino il soffitto simula una cupola ornatissima forata al centro verso il cielo aperto da un occhio circolare balaustrato, al quale si affacciano volti di serve, una schiava mora e un pavone. Il visitatore, collocato al centro di una scena che è al tempo stesso mul­ tipla e prospettica, diviene spettatore dell’animata vita della corte, la cui azione ad ogni istante potrebbe traboccare la stretta soglia delle ar­ cate, raggiungerlo e coinvolgerlo. Più lungo discorso richiede l’Or/eo, al quale ora per consenso quasi unanime è assegnato come data più probabile il 148012. È provato infatti che il Poliziano fu a Mantova durante il primo semestre di quell’anno, mentre non si ha notizia che prima di allora egli si fosse mai allontanato dal dominio fiorentino. Contemporaneamente era a Mantova il cardina­ le Gonzaga, giunto il 20 dicembre 1479 per un breve soggiorno che invece si protrasse fino all’ottobre successivo. La corte mantovana fu più che mai «intra continui tumulti» nel giugno: sembrava imminente il fidanzamento (di fatto concluso un poco più tardi) di Chiara Gonzaga (figlia di Federico che era succeduto al padre nel 1478) con Gilberto di Montpensier; inoltre il 17 giugno si annunziava prossimo l’arrivo della duchessa di Ferrara, Eleonora d’Aragona Este, e della figlia gio­ vanissima Isabella (nata nel 1474) per partecipare ai festeggiamenti e per solennizzare il fidanzamento da poco concluso di Isabella col prin­ cipino Francesco Gonzaga. Le principesse estensi giunsero si a Man­ tova il 22 giugno e «foe apparecchiato per fare uno grande trionfo e festij»; ma dalla stessa fonte apprendiamo che «in questo tempo mes. lo sior marchexo non se achordoe con li ambaxatori [del re di Francia, Luigi XI, venuti per trattare il fidanzamento di Chiara] e niente se fece»; o almeno tutto fu rimandato13. Per questa ragione chi tende ad associa­ re la composizione délVOrfeo con i preparativi del giugno giunge anche a mettere in dubbio che esso fosse mai rappresentato11; tanto più che l’autore aveva già lasciato Mantova e già il 17 giugno era in pieno fer­ vore di ricerche filologiche a Firenze w. Che invece almeno una rappre­ sentazione dell’Or/eo avesse luogo a me pare positivamente attestato da una didascalia nella quale, abbandonando il tono di semplice pre­ scrizione che caratterizza le altre, si afferma come fatto compiuto che «Orfeo, cantando sopra il monte in su la lira e’ seguenti versi latini (li quali a proposito di Messer Baccio Ugolino attore de dieta persona d’Orfeo sono in onore del Cardinale Mantuano) fu interrotto da uno Pastore nunciatore della morte di Euridice»16. Baccio Ugolini, agente mediceo presso il cardinale legato di Bologna e presso il marchese Gon­

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zaga, fu assente da Mantova tra la Pasqua (2 aprile) e il giugno, e non è pensabile che allora si pensasse a dare una rappresentazione durante la quaresima. Occorre dunque risalire per la rappresentazione dell’Orfeo ai lieti «tumulti» del carnevale; con molta probabilità ad un ban­ chetto che il cardinale offrì ai fratelli la sera di martedì grasso, 15 feb­ braio 1480”. I «versi latini» della didascalia, una ode saffica, non contengono accenni né al marchese Federico né alle sue alleanze nu­ ziali; sono invece tutti in lode del cardinale al quale è perfino prono­ sticato il triregno papale. Francesco Gonzaga, elevato alla porpora non ancora diciassettenne il 18 dicembre 1461 nell’ultima promozione di Pio II, non fu sul piano politico ed ecclesiastico una figura di grande rilievo. Fu già un errore del padre l’avergli dato come segretario Bartolomeo Platina, che due volte riuscì, se non a comprometterlo, a metterlo in imbarazzo presso Paolo II ". Il momento di più intensa attività politica del cardinale fu il conclave del 1472, nel quale egli si adoperò efficacemente in favore di Francesco della Rovere (Sisto IV) in concerto col conclavista Pietro Riario, nipote dell’eletto e futuro cardinale di San Sisto. Per il resto del tempo il Gonzaga fu discreto osservatore degli avvenimenti politi­ ci, dei quali teneva avvisato il padre con una regolare corrispondenza; ma fu dedito sopratutto ad affermare e godere il rango di principe ad un tempo ecclesiastico e secolare, con una vita di lusso e di piacere per la quale il suo nome fu spesso associato a quelli di Pietro Riario e di Rodrigo Borgia. Al suo arrivo come legato a Bologna nel 1471 i croni­ sti si fecero scrupolo di annotare che «condusse seco honoratissima compagnia et portò seco una credenza d’argento estimata di valore di 20 000 ducati et una bellissima tapezzaria, nella quale vi era un panno ove era effigiata la battaglia di Alessandro con Pirro [leggi Poro], e le figure parevano esser vive» ". Dal poco che si sa dei suoi gusti emer­ gono un certo interesse per gli studia humanitatis, una passione di rac­ coglitore di «camaini» (cammei) e «figure di bronzo»”, e l’amore, do­ vunque prendesse dimora, per giardini possibilmente cinti da alte mu­ ra - «horticelli segreti», per uno dei quali egli voleva che le mura fos­ sero decorate con «la battaglia de Laphyti e Centauri... la historia de Theseo... la fabula de Meleagro» e dava istruzioni che si prendesse consiglio per eseguirle da Lelio Cosmico, il quale doveva anche deci­ dere «se a lui patirà che Hercules se li habbia a mettere»1'. Questi fu l’uomo presso il quale Poliziano, disperando di riconqui­ stare il favore del Magnifico Lorenzo, aveva forse deciso intorno al 21 aprile 1480 di allogarsi come «cappellano e continuo commensale»”, se non gli fosse giunto alfine il sospirato messaggio che lo riportò con

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la maggior possibile celerità a Firenze, alle letture dello studio fioren­ tino e alla concezione delle Sylvae. Questi fu anche l’uomo al cui sfarzo conviviale dobbiamo la creazione della Fabula de Orpheo. L’associa­ zione agli sfarzi conviviali non desterà meraviglia sol che si legga il pa­ ragrafo De conviviis per dominos cardinales faciendis in un progetto di riforma del costume curiale, mai divulgato, ma probabilmente sug­ gerito al papa Sisto IV dalla morte immatura nel 1474 del cardinale nepote Pietro Riario: «Poiché nasce scandalo dai conviti fatti dai pre­ detti signori cardinali, stabiliamo e ordiniamo che d’ora innanzi i predet­ ti conviti si svolgano con sobrietà e moderazione; e che bastino due ge­ neri di portate, cioè di lesso e di arrosto... A mensa sia recitata qual­ che lettura sacra... non suoni musicali, non canti profani, non fabule di istrioni»". Uno dei conviti contro i quali la riforma era diretta fu offerto «in casa de Mantoa» (cioè del cardinale Gonzaga) per gli am­ basciatori del re di Francia il 16 luglio 1472; il vescovo di Novara, Giovanni Arcimboldi lo descrisse a Galeazzo Sforza, riferendo che «tra le altre cose degne se gli è facto l’historia de lason secondo l’andò a rapire aureum vellum et corno l’amazò el serpente et seminò li denti e arrò con li bovi»". Offriva «Monsignor de Santo Sixto», cioè il cardi­ nale Pietro Riario, ma il «disnare» ebbe luogo in casa del Gonzaga o perché la stagione estiva facesse preferire «la logia in lotto» («coperta de veluto cremisi: a torno alle mura panni di raso, lavorati tutti d’oro fino et de seta con altri dignissimi ornamenti») “, o perché il cardinale Riario, da poco eletto, non aveva ancora una sede conveniente. Ne ebbe di lì a poco una sontuosissima in piazza Santi Apostoli, descritta con femminile attenzione rivolta a stoffe e parati da Eleonora d’Aragona, che vi fu ospite nel giugno del 1473 nella sosta romana del viag­ gio che la conduceva sposa ad Ercole I d’Este. In quell’occasione la piazza Santi Apostoli fu ricoperta da un velario e vi furono erette due piattaforme; per descrivere i banchetti e le rappresentazioni che vi fu­ rono dati due poeti, Emilio Boccabella e Porcellio Pandoni, misero in­ sieme non meno di ottocento versi latini". Il cardinale Gonzaga non fu certamente da meno del Riario, anche se dei suoi banchetti resta una sola notizia precisa, ancora una volta in una lettera indirizzata al duca di Milano il 2 gennaio 1476; anche in questo caso alla «cena regalie» fu associata «una representatione come le virtù sono contrarie ali vici]», che includeva «una disputatione inantc alo Re» Il re di carnevale (in realtà un giovane cameriere del cardinale, soprannominato Brugnolle) è un tardo riflesso della tradizione medievale dei ludi stultorum»n. Rappresentazioni conviviali, il più delle volte di elementare sempli­ cità, rientravano tra le varie forme di intrattenimento (musiche, danze,

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esibizioni di giocolieri, lazzi di buffoni) che venivano offerti ai convi­ tati nell’intervallo tra una portata e l’altra, le cui entrate formalmente solenni erano pure un motivo spettacolare; ne venivano i nomi di in­ frangesse, tramesse, o tramezzi, e simili, in parte forse influenzati dal più preciso termine francese, entremets, È probabile invece che fossero riservati per la fine del convito gli spettacoli ai quali si voleva dare maggiore ampiezza, che però di solito si risolveva nel chiamare un mag­ gior numero di figure a recitare o a cantare gli elogi delle persone fe­ steggiate — si pensi alla parata di Dei, Grazie e Virtù in cui consistè, dieci anni dopo VOrfeo polizianesco, la rappresentazione milanese co­ sidetta del Paradiso per gli «ingegni» disegnati per essa da Leonardo da Vinci. Converrà tuttavia soffermarsi un poco su certe rappresenta­ zioni bolognesi del 1475, una delle quali, derivata alquanto libera­ mente da un racconto di Ovidio, è forse il precedente più prossimo alla Fabula del Poliziano”. Furono tre, associate ai banchetti dati per le nozze del conte Guido Pepoli con una contessina Rangoni modenese, ed è probabile che vi assistesse il cardinale legato, Francesco Gonzaga. L’azione della prima è semplicissima: «Al principio del desinare... fu finto che love Dodoneo venisse in la selva Dodona a dare responsi et ad onorare le noze. Et primo per domino Tomaso Beccadello fu reci­ tato l’argumento de la fabula in versi volgari... et dito l’argumento e fatte stare le persone attente love in forma de colomba descese dal cielo ne la detta silva...» L’argomento recitato dal Beccadelli, poeta, notaio e ufficiale del comune bolognese, consta di diciannove versi (non è facile decidere se siano un sonetto caudato o due ottave con una giun­ ta); e diciannove sono pure i versi dell’oracolo di Giove Dodoneo, solo che si tratta di lenti esametri latini, nei quali trova posto, insieme alle lodi degli sposi, un accenno alla «Bentivolia regnans domus». Dovette destare particolare interesse la discesa della colomba nella selva; le da­ va voce, attraverso una «lanza forata», un altro poeta, e probabile au­ tore, il parmigiano Francesco Dal Pozzo, lettore di retorica e poesia a Bologna dal 1468 al 1477. «La seconda fabula fu de Cephalo e Procris posta da Ovidio nel suo magiore. L’argumento de la quale fu recitato dal dicto Tommaso Beccadello non cantando, ma recitando molto ele­ gantemente et statim dopo desenare...» (aveva dunque cantato l’argo­ mento della prima favola?) Di questa, la più complessa delle tre fabule, il solo «argomento» consta di sette ottave; ma della rappresentazione vera c propria il memoriale che la descrive riporta soltanto sei ottave, e non è chiaro se e quanti altri versi siano omessi, o se buona parte del­ l’azione fosse gestita senza parole. Nel memoriale è senza parole la sce­ na iniziale, nella quale «Cefal vestito da caciatore con cani corni com-

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pagni archi faretre e dardi andò al bosco e a la caccia» — scena animata e affollata, dunque, ma per la quale soltanto il riferimento a corni e cani suggerisce suoni e rumori onomatopeici. Poi «l’Aurora inamorata de Cefalo vestita da vecchia andò a Procris e disse queste parole...», tre ottave di calunnie contro Cefalo poste nel memoriale sotto il titolo Verba linguae susurrae. Un lamento accorato, in una sola ottava, è la risposta; detto il quale «Procris andò con la vecchia al bosco per vede­ re Cefalo; la quale sentita da lui, li passò el core col dardo...» E qui il testo si anima in una parvenza di dialogo: un’ottava è di Cefalo che, accortosi del tragico errore, impreca contro se stesso: O Cefal traditor, o dispietato che con toa mano hai pur sommesso a terra costei che amavi piu ch’el tuo gran stato! Fulmina, love! in me tuo arco s[f]erra! Non me lassar, o viso mio rosato; se lassime convien che teco perra. Dime, te prego, o dolce anima mia, chi t’ha condutta in questa silva ria?

Un’altra ottava, mutila in qualche verso, è detta da Procri morente tra le braccia di Cefalo, e finisce con la richiesta: Per quel amor te prego, per cui moro, che Aura non togli, sol per mio ristoro.

In fine «Cefalo stando a sedere e tenendola cosi morta suoso le cosse et braze piangendo disse la infrascripta canzone in questa rima, che veramente non fu persona che non piangesse». Ma, aggiunge subito il memorialista: «ditta canzone fu robata, onde non l’ho possuta ponete qui». Della terza fabula il resoconto dice soltanto che «fu la sera doppo cena et fu Apollo e le Muse et le tre Parche che cantarono tutti in laude di convitati et le Parche deteno loro auguri a li novi maritati»; almeno una volta, auspici Apollo e le Muse e le Parche, prevalse il canto. Avremo modo anche in seguito di vedere che la tradizione di ele­ menti spettacolari inseriti nel costume conviviale durò a lungo, sì che qualche trattato di cucina o di scalco del secolo seguente è anche fonte di utili informazioni per la storia del teatro. Banchetti e rappresenta­ zioni erano offerti in ogni occasione di visite, o nozze, o altri festeg­ giamenti; ma di carnevale erano consentiti anche senza speciale moti­ vo. «Pesti sese dies offerunt. Personatas licet adducete...» proclama il prologo dell’ira di Francesco Ariosto, una «elegia» latina rappresen­ tata a Ferrara al cospetto di Leonello d’Este in tempo di carnevale, che è notevole oltre che per la data (1443) per gli accenni a un «rex» car­ nevalesco, a danze, suoni e canti, e perfino a «montes» fatti sorgere per

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la rappresentazione ”. Alla tradizione di rappresentazioni conviviali ap­ partenne anche la «fabula» del Poliziano, e non importa se fosse ve­ ramente rappresentata nel carnevale del 1480 o semplicemente pro­ gettata per il giugno successivo; va in ogni caso ricollocata nella pom­ pa elaborata e cerimoniosa del convito, nella calcolata progressione delle sorprese visive che accompagnavano le entrate delle vivande e degli scalchi, tra gli apparati di stoffe preziose e di arazzi, di insegne araldiche, e le credenze luccicanti di argenti o di maioliche multicolori. Non sarà sostanzialmente modificato il giudizio che si può dare dei suoi valori di poesia; ma si potrà, avendo presenti le necessità funzionali del tipo di rappresentazioni a cui appartenne, trarre argomento per ri­ considerare le «imperfezioni» che il Poliziano volle attribuire alla ste­ sura affrettata; e avremo ragione di dubitare della sincerità della con­ danna che egli ne diede, solo che si confronti la sua favola non con un ideale drammatico maturato piu tardi ma con la lineare semplicità delle rappresentazioni bolognesi che la precedettero e di non poche di quel­ le piu recenti. «Fabula», come latinamente e forse con preciso intento filologico, scrisse il Poliziano, è il termine che meglio si addice all’Or/eo. Altri preferì «festa» e nelle fonti manoscritte si incontrano anche «egloga» e «commedia», per non dire adesso del titolo «tragcedia» dato ad una rielaborazione nella quale il Poliziano non ebbe parte”; ma il primo termine fu quello più spesso usato ai tempi del Poliziano ed ebbe, anche senza l’aggiunta di un aggettivo «personata», significato di rappresen­ tazione. La legittimità del termine festa si appoggia anch’essa all’uso che ne fece il Poliziano nella didascalia iniziale: «Mercurio annunzia la festa»; ma a parte il fatto che è istanza unica, il termine è legato alla teoria da me respinta, che fa dipendere la fabula dai modi di rappresenta­ zione del teatro religioso fiorentino”. Le due ottave di Mercurio sono perfettamente analoghe agli «argomenti» delle favole bolognesi e di tan­ te altre consimili rappresentazioni non religiose; ma tutt’al più, dacché Mercurio è il messaggero, e quindi l'angelo di Giove, si può vedere nell’analogia con la cosidetta «annunciazione» delle rappresentazioni sacre, una intenzione parodistica autorizzata dalla occasione carnevale­ sca, uno spunto analogo a quello del re carnevalesco. Certamente cari­ caturale è l’intenzione degli ultimi due versi della seconda ottava (che non sono più di Mercurio) se si accetta la versione che li assegna a «un pastore schiavone» che cianciuglia e storpia le parole”. Stat’attanto, brigata, bono argurio che di ciavolo in terra vien Marcurio.

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Si potrebbe essere tentati di vedere in questo primo esempio di reali­ smo villanesco (che avrà poi maggior fortuna) un accenno alle «frot­ tole» vivacemente realistiche che a un certo punto sostituirono l’an­ nunciazione dell’angelo nelle rappresentazioni sacre fiorentine; ma non c’è nessuna indicazione che tali frottole (da non confondere con l’omonimo genere di poesia per musica) fossero già entrate in uso nel 1480 In ogni caso il breve accenno qui non soppianta l’annunciazione e forse non ebbe altro scopo che far si che l’identità di Mercurio «dagli spoe­ tatoti meglio fusse intesa». La brevità dell’annunciazione o argomento - 16 versi, compresi quelli del pastore - è il primo indice della scala ridotta dell’opera. L'Orfeo è una versione ampliata e raffinata delle «fabule» inserite nel corso di un banchetto, di un ricevimento ufficiale o di una veglia dan­ zata; rappresenta un progresso notevole sulle semplici entrate di figu­ re che si fanno riconoscere per il tale o tal altro personaggio soltanto per tessere le lodi del signore o dell’ospite illustre. Ma né la maggior perizia e cultura del Poliziano, né la sua volontà di dare alla favola uno svolgimento piu seguito e articolato potevano andare oltre i limiti di un breve actus destinato non ad essere fine a se stesso ma ad adornare una più complessa funzione sociale. Ne derivano la rapidità delle tran­ sizioni, le brusche giustapposizioni non mediate, che la critica giudica, a seconda delle inclinazioni, come deficienze di intuizione drammatica (che il Poliziano certamente non possedeva) o come grazie di primiti­ vismo acerbo. L’autore stesso, passando dalla fase pratica della rappre­ sentazione a quella di rilettura del suo testo come opera letteraria può averle annoverate tra le imperfezioni della sua creatura, benché, da quel cesellatore di immagini che egli era, sarà stato maggiormente sen­ sibile a difetti di scelta e accordo di parole e sonorità verbali, o a qual­ che asimmetria della versificazione. Al confronto delle rappresentazio­ ni sacre la brevità delVOrfeo è ancor più sensibile che non appaia alla lettura perché in esso prevalse la recitazione parlata, mentre nelle con­ temporanee rappresentazioni sacre monologhi e dialoghi erano ancora svolti su moduli di recitazione cantata, certamente semplicissimi ma più lenti della nuda parola35. Anche questa è una distinzione della quale non è stato abbastanza tenuto conto; ma ancor più importa aver pre­ sente che i temi delle rappresentazioni sacre sempre furono l’evocazio­ ne visiva e uditiva di avvenimenti lontani nel passato e svolti su un piano di esistenza diverso e remoto da quello dello spettatore, mentre al mondo della favola mitologica o allegorica l’irrealtà fantastica non vietava di venire momentaneamente a coincidere con la realtà del pre­ sente: lo spettacolo è altrettanto vicino, allo spettatore quanto quello

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della Camera degli Sposi di Mantegna - il più delle volte anzi è portato allo spettatore e si svolge a tu per tu con esso lo coinvolge con apo­ strofi dirette e può perfino (nel caso di una veglia nella quale la parte rappresentativa servisse da introduzione alle danze sociali) trascinarlo nell’azione. Detto questo sulla tradizione a cui appartiene YOrfeo, non è possi­ bile esimersi almeno dall’accennare ai tratti che lo caratterizzano come opera individuale. Nell’Or/ó’o, a mio parere, confluiscono, e non sem­ pre si armonizzano, tre componenti del gusto dell’autore, letterario, figurativo e musicale. Letteraria è la scelta del tema principale - anzi puramente letteraria nel senso che è decisamente immune dagli echi di misticismo orfico ficiniano che qualcuno ha tentato di riconoscervi. Più volentieri cederei all’amore «per i procedimenti armonici», e alla «tentazione di collocare sotto il segno d’Orfeo la linea ideale di svi­ luppo del Poliziano, facendo convergere il tema del dramma volgare e i Nutricia, de poetica et poetis, la Sylva che raccoglie una specie di professione di fede nella virtù formatrice della poesia»J7. Ma nel «dram­ ma volgare» soltanto il simbolo è proposto; la professione di fede an­ drà maturando più tardi, mentre qui l’apparire di Orfeo è preceduto dalla rappresentazione di una civiltà bucolica consapevole di vari pia­ ceri, non ultimo quello del canto, e nulla indica che essa sia il risultato dì una azione educatrice di Orfeo. A Mantova — dove il mito è inscritto in alcuni dei lacunari del soffitto della Camera degli Sposi - più che il ricordo di Orazio prevalse sul Poliziano quello dei racconti del manto­ vano Virgilio e di Ovidio che egli si propose di visualizzare e vocaliz­ zare per i suoi spettatori. Quanta parte egli avesse nella visualizzazione non sapremo mai; nel testo soltanto la figura di Euridice è accennata, fermata nell’atto di coglier fiori o, ancora più vividamente, in quello di una fuga mossa ed immobile. Ma i vari episodi sono ognuno un ri­ lievo parlante, e non trapassano dall’uno all’altro ma piuttosto si alli­ neano come i pannelli simmetrici di un fregio; il che può essere un di­ fetto dal punto di vista drammatico, ma non lo è come senso di poesia perché è il modo più autentico di esprimersi del Poliziano. Il fregio, tutto in tessuto di ricordi, di allusioni, perfino di citazioni classicheg­ giami, rispecchia l’uomo che della frequentazione dei classici aveva fat­ to il motivo principale della sua vita, ed è inimitabile nella precisione con la quale ogni immagine è fissata in un contorno nitido e studiatamente armonizzata nel suono e nell’accento con quelle che le stanno vicino. I racconti classici del mito d’Orfeo non sono la sola fonte di ispira­ zione letteraria della fabula. Scomparso Mercurio, e ritrattosi forse il

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pastore schiavone nell’anonimità di un gruppo di figure di sfondo, il modulo dell’annunciazione o argomento, al quale si può concedere una analogia con quelli delle «feste» religiose, cede il posto a quello del­ l’egloga, che col teatro sacro non ha piu nulla in comune, ma comincia­ va a divenire un tema favorito della poesia umanistica latina e volga­ re", Al Poliziano, Mantova non poteva non suggerire temi bucolici virgiliani, tanto più che egli forse sperava di aver trovato in Francesco Gonzaga, «Maecenas atavis editus regibus», un riparo alle traversie di tempi difficili. Né a Firenze gli erano mancati esempi bucolici in volga­ re, ricchi anche di suggerimenti rappresentativi; dovevano essergli già note le traduzioni da Virgilio di Bernardo Pulci e le egloghe di Girola­ mo Benivieni, entrambi fiorentini, e forse anche le egloghe dei senesi Iacopo Fiorino dei Buoninsegni e Francesco Arsocchi, tutte raccolte di li a poco nelle Bucoliche elegantissimamente composte di varii autori (Firenze 1481, 1482 stile moderno). La ricerca del vitello perduto con k quale si apre l’azione dell’Or/eo, gli sfoghi amorosi ai quali si abban­ dona nell’attesa Aristeo «pastor giovane», e i consigli di saggezza che gli dà Mopso «pastor vecchio» sono tutti motivi consueti dell’egloga; né è nuovo il trapasso dal dialogo alla Canzone di Aristeo, che ha già precedenti in egloghe di Leon Battista Alberti, del romano Giusto dei Conti e dell’Arsocchi; sicché non c’è bisogno di ricordare (se non per indicare quanto fosse un motivo comune) il frequente cantare intro­ dotto nelle egloghe delVArcadia dal Sannazzaro, o quello dell’egloga quinta del Boiardo, delle quali il Poliziano non poteva ancora avere co­ noscenza. Alla visualizzazione della storia di Orfeo si associa dunque quella del mito letterario dell’egloga, indicato anche dalla versificazione che al verso 17 abbandona l’ottava per il metro, anzi la varietà di metri, dei quali si erano già serviti gli autori bucolici sopra citati. Si parte dal metro più usuale dell’egloga, la terza rima; si passa poi con la Canzone di Aristeo ad una ballata vera e propria, come nell’egloga dell’Alberti; si fa ritorno all’ottava (che è pure propria dell’egloga) per la ripresa del dialogo, animata dal ritorno di Tirsi «servo di Aristeo» che ha re­ cuperato il vitello e descrive l’incontro con Euridice (vv. ioi-8)w: Ma io ho vista una gentil donzella che va cogliendo fiori intorno al monte: i’ non credo che Vener sia più bella, più dolce in atto, o più superba in fronte; e parla e canta in si dolce favella ch’e’ fiumi svolgerebbe in verso el fonte; di neve e rose ha il volto e d’or la testa, tutta soletta e sotto bianca vesta.

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In sostanza i versi dal 17 al 137 sono un’egloga, che non ha in comune con le rappresentazioni religiose né motivi, né svolgimento, né metro (tra le ottave ce n’è una di sdruccioli, uno dei modi nei quali si tendeva a caratterizzare la maniera bucolica). E alle frottole che pure ricorrono nell’egloga (ancora un altro impiego dello stesso termine, per significa­ re una successione irregolare di versi brevi con rime frequenti e vicine) può essere assimilata la conclusione più mossa, nella quale «Ariste© ad Euridice fugiente dice così»40: Non mi fuggir, donzella, chT ti son tanto amico, e che più t’amo che la vita e ’1 core. Ascolta, o ninfa bella, ascolta quel ch’io dico; non fuggir, ninfa, ch’io ti porto amore. Non son qui lupo o orso, ma son tuo amatore; dunque raffrena il tuo volante corso. Poi che ’1 pregar non vale e tu via ti dilegui el convien ch’io ti segui; porgimi, Amor, porgimi or le tue ale!

La ninfa qui, appena apparsa, si sottrae e fugge senza parola; in altre egloghe alletta col canto o tormenta con lusinghe e dinieghi. E non c’è motivo di ravvisare nel «monte» intorno al quale ella ha raccolto fiori e poi si dilegua un elemento specifico della tecnica del teatro religioso. Le didascalie delle rappresentazioni sacre non fanno accenno al monte tanto spesso da indurci a credere che esso fosse un dato permanente e indispensabile della loro messa in scena; mentre il suo impiego in rap­ presentazioni profane corrisponde all’esigenza di elementi scenici che prendessero poco posto in superficie e potessero così facilmente fare la loro «entrata» montati su un qualche veicolo41. Dietro il monte si era disperso il vitello di Mopso; «del monte sdrucciola» Tirsi, in comici versi sdruccioli, dopo il ritrovamento; in­ torno al monte Aristeo insegue il «volante corso» di Euridice; ma Or­ feo «appare cantando sopra il monte». Forse è simbolizzata così la superiorità dei versi eroici latini cantati sulla lira rispetto allo stile mediocre della ballata amorosa in volgare che Aristeo ha cantato poco prima «al suon di nostra fistula»42. Ma in un certo senso l’ode cantata da Orfeo (vv. 138-89, la più lunga tra le saffiche del Poliziano che si conoscono, per la maggior parte laudatone) è ancora parte dell’egloga perché ne precisa l’allusione in una lode diretta al cardinale «qui colit vates citharamque princeps». Opportunamente l’intervento del pasto­

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re «nunciatore della morte di Euridice» non giunge prima che il Po­ liziano abbia avuto modo di versare a piene mani dal corno dell’adu­ lazione le lodi del nuovo Mecenate. Con quella breve ottava si passa di colpo dall’egloga che ha servito ad ambientare la favola (se ne potrebbe far merito al Poliziano, ma io per me sono sicuro che furono altre le considerazioni che la dettarono) all’illustrazione del mito vero e pro­ prio. Il canto di Orfeo riprende subito dopo, in volgare ora e in ottave, che non sono però dialogiche ma liriche (vv. 198-299). Dialogiche sono due ottave di stupore di Plutone e di Minosse (vv. 230-45) e un poco più tardi altre due di Proserpina che intercede e di Plutone che accon­ sente (vv. 286-301); ma non possono essere altro che canto, e quindi non ottave ma stanze o strambotti, le cinque della preghiera di Orfeo. Il resto della scena infernale, col ritorno iniziato e fatalmente interrot­ to e la perdita definitiva di Euridice, si svolge in metri vari e inconsue­ ti: il canto vittorioso di Orfeo in due distici latini («certi versi allegri che sono di Ovidio, accomodati al proposito») e l’episodio finale in tre strofette non veramente drammatiche, ma certamente concitate, irre­ golari e asimmetriche: Euridice si lamenta con Orfeo per essergli tolta sforzatamente. Oimè, che 4 troppo amore n’ha disfatti ambedua. Ecco ch’i’ ti son tolta a gran furore, né sono ormai più tua. Ben tendo a te le braccia; ma non vale, che indreto son tirata. Orfeo mio, vale.

Orfeo, seguendo Euridice, dice còsi. Oimè, se’mi tu tolta, Euridice mia bella? O mio furore, o duro fato, o ciel nimico,.0 morte! o troppo sventurato el nostro amore! Ma pure un’altra volta convien ch’io tomi alla plutonia corte.

Volendo Orfeo di nuovo tornare a Plutone, una Furia se gli oppone e dice cosi. Più non venire avanti; anzi el piè ferma, e di te stesso ormai teco ti dole. Vane son tue parole, vano el pianto e ’1 dolor; tua legge è ferma.

Un rifacimento posteriore cercò di trasformare VOrfeo in una pre­ sunta «tragoedia» in cinque atti43; ma chi ciò fece dovette inserire nuo­ vi brani e nuovi personaggi e sforzare la struttura dell’originale, che in

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sostanza si articola in tre episodi (potremmo chiamarli, imitando i ti­ toli dati poi agli atti della tragedia, bucolico, eroico, e bacchico). Ab­ biamo già visto procedere i primi due episodi da un inizio calmo e disteso ad una conclusione concitata; lo stesso accade nel terzo. Orfeo, tornato al mondo dei vivi (ma non c’è didascalia che lo dica) «si duole della sua sorte» in quattro ottave ed esprime il proposito di ripudiare il «femminil consorzio» e preferire in sua vece «la primavera del sesso migliore». È udito, evidentemente, dalle Baccanti comparse non si sa da dove, e alla vendetta bastano due sole ottave; quella in cui «una Baccante indignata invita le compagne alla morte d’Orfeo» e l’altra per la quale già «torna la Baccante con la testa d’Orfeo». Conclude la fabula il «Coro delle Baccanti» (in una variante anche intitolato «Sa­ crificio delle Baccanti in onore di Bacco») che è un vero e proprio canto carnascialesco in ottonari piani, tronchi e sdruccioli, e delinea anche nel testo la scomposta pittoresca pantomima, o, come allora si diceva, la «moresca» che doveva accompagnarlo. Anche da questa rapida scorsa al testo non mi pare che risulti con­ fermata la tesi cosi spesso ripetuta che la tecnica teatrale delVOrfeo segua sostanzialmente quella del teatro sacro con temporaneo 44. Am­ mettendo pure che siano parodiate la formula e la didascalia della co­ sidetta annunciazione (che è però tanto simile all’«argumento» delle rappresentazioni nuziali bolognesi del 1475), la dipendenza si ferma lì. Quel che segue non corrobora la recisa affermazione del D’Ancona, il piu autorevole assertore di quella tesi, che il Poliziano conservas­ se il metro dell’ottava «nella massima parte del suo componimento»45. Nell’Or/eo c’è una varietà di metri sconosciuta alle coeve rappresenta­ zioni sacre, e se l’ottava vi ha una leggera prevalenza, va considerato che essa è, anche al di fuori del teatro sacro, il metro piu comune della poesia quattrocentesca. Né si può fare di ogni ottava, come di ogni er­ ba, un fascio; la maggior parte di quelle dell’Or/eo non sono discorsive o dialogiche, ma liriche. Più sostanziale è la mancanza di una prospet­ tiva dell’azione nel tempo e di una caratterizzazione dei personaggi; ma sono generiche qualità negative di una mentalità teatrale intesa non a creare e rappresentare ex novo, ma a ripresentare una storia della quale luoghi, tempi e personaggi sono già noti agli spettatori e. sono inoltre richiamati alla memoria dall’argomento o prologo preposto al­ la rappresentazione. Il ritmo della presentazione visiva è rapido e conciso nell’Or/^o, mentre nel teatro sacro è disteso e placido e tende a dilungarsi in epi­ sodi accessori. Se poi guardiamo alla componente musicale, alla quale finora ho soltanto accennato, di musica nelle rappresentazioni sacre ce

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n’è, a seconda del punto di vista, o troppa o troppo poca. Ce n’è trop­ pa se teniamo conto della recitazione intonata del dialogo - che è però, se così si può dire, musica senza intenzione musicale, sopravvivenza ri­ tuale, ridotta ai minimi termini, di un più antico abito di canto laudistico che ormai aveva preso un altro indirizzo Ce n’è troppo poca se ci riferiamo ai casi sporadici nei quali i personaggi si pongono vera­ mente a cantare un inno, una canzone o una preghiera Se VOrfeo aves­ se adottata la tecnica di recitazione del teatro sacro avrebbe offerto un interessante precedente rispetto all’opera dell’alternarsi di recitativo e arie; seguì invece la tradizione delle rappresentazioni di corte alter­ nando declamazione puramente verbale e canto, e fu particolarmente ricco di canto in omaggio alla tradizione bucolica, alla figura del prota­ gonista e alla tradizione del canto carnascialesco. Sicuramente cantata è la «Canzone di Aristeo»; se non lo indicasse il titolo lo confermerebbero i versi che la precedono, nei quali Aristeo chiede la collaborazione musicale di Mopso: Ma se punto ti cal delle mie voglie deh tra’ fuor della tasca la zampogna e canterem sotto l’ombrose foglie, ch’i’ so che la mia ninfa il canto agogna.

La «canzone» è una regolare ballata di endecasillabi: quattro stanze inquadrate dal ritorno regolare della ripresa di due versi e accompa7 gnate, a quanto pare, dal suono della zampogna di Mopso. Meno certo è se la partecipazione di Mopso si esaurisca in quell’accompagnamento strumentale, o se invece il «canteremo» non sia un invito al canto alterno tipico della tradizione bucolica; se questo è il caso, la rispo­ sta dell’interlocutore, meno apollineo di Aristeo, è uno strambotto di sdruccioli, che si presume naturalmente improvvisato, dacché l’ultimo verso registra il ritorno proprio in quel momento del servo che era sta­ to inviato alla ricerca del vitello. Mopso pastore risponde.

E’ non è tanto el mormorio piacevole delle fresche acque che d’un sasso piombano, né quando soffia un ventolino agevole fra le cime dei pini e quelle trombano, quanto le rime tue son sollazzevole, le rime tue che per tutto rimbombano; s’ella l’ode verrà come una cocciola. Ma ecco Tirsi che del monte sdrucciola.

All’altro estremo della fabula il coro bacchico che fa coincidere la rie­ vocazione classicheggiante col contemporaneo costume carnascialesco

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tipicamente, ma non esclusivamente, fiorentino, è un equivalente, o forse un antecedente, del notissimo Trionfo di Bacco e Arianna di Lo­ renzo dei Medici, ma è più ricco di quello di suggerimenti mimici. Di musiche di canti carnascialeschi ne sopravvive una larga messe in poli­ fonia a tre e ancor più spesso a quattro voci; ma io dubito che si possa guardare utilmente a queste intonazioni polifoniche per avere un’idea di quello che concluse la fabula del Poliziano. Contrariamente all’opi­ nione più comunemente accettata, le musiche carnascialesche che so­ pravvivono non rappresentano l’epoca del Magnifico; pochissime di esse appartengono agli ultimi anni della sua vita, e la maggior parte sono invece del primo quarto del Cinquecento". All’epoca dell’Or/eo io penso che canti carnascialeschi e canzoni di maggio avessero una sola linea di canto, sostenuta, come nel caso della ballata di Aristeo, da una o due parti strumentali". Per il canto delle Baccanti il modo più pro­ babile di esecuzione dovette essere quello tradizionale per la canzone a ballo: la corifea avrà intonato i primi due versi (la ripresa), ripetuti subito da tutte le baccanti (ma non in polifonia); e avrà poi cantate l’una dopo l’altra le stanze, ciascuna conclusa dalla ripetizione corale della ripresa. Sulla scena, se di scena si può parlare, dovettero compa­ rire soltanto strumenti a percussione come cimbali e tamburelli, tradi­ zionalmente associati alla danza bacchica; se vi furono altri strumenti a sostegno del canto, dovettero essere collocati altrove o nascosti. Questa mia tesi si accorda con l’altra più ampia, da me più volte asserita, secondo la quale la polifonia artistica che accaparra cosi esclu­ sivamente la nostra attenzione di storici rappresenterebbe in realtà un’attività speciale e di diffusione, almeno in Italia e fino a tutto il Quattrocento, notevolmente circoscritta”. L’interesse che essa desta è giustificabile per i suoi valori intrinseci e perché essa rappresenta con­ cezioni e modi di espressione musicale che ebbero grande influenza sugli svolgimenti successivi - e infine, naturalmente, perché essendo l’unica attività legata ad una tradizione scritta i suoi documenti sono quasi tutto quello che a noi è dato di conoscere della musica di quei tempi. Ciò non toglie che accanto ad essa esistessero altre forme di attivi­ tà che ebbero ben più larga parte nella comune esperienza musicale e anche in quella delle classi sociali più elevate; ma che tuttavia non lascia­ rono una corrispondente traccia di sé, sia perché erano in tutto o in parte basate sull’improvvisazione, sia perché erano trasmesse dall’uno all’altro esecutore senza il sussidio di una notazione scritta. Questa altra tradizione non scritta (quindi orale, ma nel caso di musiche stru­ mentali si potrebbe anche dire manuale) ci elude e delude, ma non può essere dimenticata; essa poi è tanto più da considerare con attenzione

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quando si ha da fare con le manifestazioni della civiltà umanistica, nella quale esisteva un senso perfino di diffidenza verso le pratiche «scola­ stiche» della tradizione scritta a noi più familiare. Il Poliziano e i suoi pari vedevano non a torto negli scritti di teoria musicale, dai quali ema­ nava la pratica polifonica, uno degli esempi più tipici dell’involuto pensiero scolastico verso il quale essi reagivano; delle musiche corri­ spondenti a quegli insegnamenti conobbero poco, e quel poco non erano forse preparati a intendere e valutare. Per loro il concetto di mu­ sica si concretava essenzialmente in pratiche meno artificiose e più spontanee. Musica era, innanzi tutto, la poesia stessa - ogni forma di poesia - che nasce e si distingue dall’espressione prosastica in quanto la parola si armonizza e accoglie proporzioni di durate, ricorrenze di accenti, accordi di rime, simmetrie di versi, di elementi metrici e di strofe, per non dire di quelle orchestrazioni di suoni e di cellule ritmi­ che «que... pulcram faciunt armoniam compaginis» sulle quali richia­ ma la nostra attenzione in modo esemplare la teoria dantesca della ver­ sificazione. Le immagini retoriche così spesso ricorrenti del canto, del­ la lira o della cetra, delle sue corde e del plettro che le fa vibrare, come strumenti del poeta esprimono in fondo il sentimento che la parola poe­ tica è già musica; ma dicono anche l’affinità e la congenialità che esisto­ no tra quella musica verbale e l’ulteriore dimensione musicale che essa può ricevere dall’aggiunta di una melodia e di un accompagnamento di suoni strumentali. In noi è radicata l’abitudine di pensare testo e mu­ sica come elementi, se non opposti, eterogenei, che vengono associati da una decisione arbitraria (che generalmente spetta al musicista). I poeti umanisti erano invece indotti da una tradizione ancor viva (non per nulla la maggior parte delle forme poetiche hanno nomi musicali), e forse anche dall’illusione di un ritorno ai modi della civiltà antica (nutrita dall’antichità di quelle immagini retoriche) a vedere nell’ese­ cuzione musicale dei loro versi una estensione del processo in cui la parola prende forma poetica. Non oserò affermare che Lorenzo dei Medici o il Poliziano fossero completamente insensibili a musiche polifoniche (nulla so delle incli­ nazioni musicali del cardinale Francesco Gonzaga). Il Magnifico corri­ spondeva a volte con Dufay attraverso l’organista Antonio Squarcialupi, e certamente teneva d’occhio il buon andamento delle musiche religiose a Santa Maria del Fiore e al Battistero. Ma anche lo scrittore contemporaneo che si mostra più aperto verso la polifonia, Paolo Cor­ tese (un toscano trapiantato a Roma, dove l’ambiente della curia fu il più propizio al riavvicinamento tra umanesimo e polifonia), loda Josquin Després e cita con vari giudizi altri polifonisti contemporanei,

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ma pone al più alto grado dell’attività musicale il canto ad lembum (cioè al liuto) e ne indica come sommi esempi Francesco Petrarca (!) e Serafino Aquilano 50. D’altra parte Vincenzo Calmeta, più giovane del Poliziano di soli sei anni ed emulo dell’Aquilano, ci fa intravvedere un costume dei poeti di rendere pubblici i loro versi o cantandoli per­ sonalmente, o affidandoli appena composti ad un cantore provetto; e altrove, a proposito delle Opere d'amore di Antonio Tebaldeo, apparse a stampa nel 1500, dice essere diverso il giudizio che si può avere «sen­ tendo oggi di un poeta qualche sonetto, elegia, stramotto o epigramma cantare o recitare, poi da qui a diece o quindeci giorni sentirne un. altro e da indi ad otto giorni un altro, e cosi discorrendo», da quello più preciso e meditato (e nel caso particolare meno favorevole) derivante dalla lettura delle stesse opere raccolte in volume51. La forma più con­ sueta e più gradita di far musica era, come si è già intravisto, il canto ad lyram o ad citharam, che poi generalmente si traduce, quando la penna si lascia andare ad espressioni più familiari, in canto alla viola (o «vihuola»)52 o al liuto. Cantava il magnifico Lorenzo - e inoltre si dilettava di dettare coreografie per bassedanze, oppure si compiaceva, durante un viaggio in provincia, dopo alquanto «musicare», di «iscorgere e dirozare un certo modello di ballerino che è qua»53; cantavano nella sua cerchia Marsilio Ficino, Domenico Benivieni, Antonio Naldi e Bac­ cio Ugolini; cantavano il Poliziano e due dei suoi allievi prediletti, Piero dei Medici e Lorenzo TornabuoniM; e in generale i cantori fioren­ tini erano ricercati un po’ dappertutto per la loro prontezza e versati­ lità. Faceva parte dell’arte loro l’improvvisare versi cantandoli su sche­ mi melodici già noti e mostrare in ciò facilità e arguzia «rimbeccando ­ si» a gara temi poetici e rime. Per composizioni più meditate a volte erano utilizzate melodie già esistenti, ma altre volte i poeti stessi com­ ponevano espressamente nuove melodie o se le facevano comporre da altri più musicalmente dotati. L’amore per i «procedimenti armonici» (come io l’intendo) mi por­ terà dunque a ravvisare nell’Orfeo del Poliziano (parlo adesso del perso­ naggio) il simbolo o la personificazione di questa più ampia concezione della poesia come canto. Che Orfeo dovesse cantare lo dice già il fatto che fu scelto a sostenerne la parte Baccio Ugolini, lodato anche in altre occasioni dal Poliziano per i suoi grandi meriti di cantore; e che al suo canto si attribuisse grande significato è confermato dal fatto che anche nel 1490, quando si tentò di riprendere a Mantova V Orfeo, uno dei mag­ giori problemi, benché a Mantova non mancassero i cantori, fu trovarne uno che potesse bene sostenere la parte principale55. L’Ugolini, prete e membro della cancelleria di Lorenzo, non fu cantore di professione; abile

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e sagace nel condurre missioni politiche e amministrative, fini poco pri­ ma di morire, dopo avere rappresentato Giovanni dei Medici nell’ab­ bazia di Montecassino, con l’ottenere per sé il vescovato di Gaeta; ma soprattutto era ovunque benvoluto e richiesto per la sua amabile gio­ vialità e per la sua perizia nel cantare sulla lira36. Appunto la lira, lo strumento al quale il nome classico dava un’aura di classicità, benché fosse diverso dalla lira classica, è quello col quale, stando alla didasca­ lia già ricordata, egli appare «sul monte» cantando l’ode saffica latina in lode del cardinale Gonzaga. Il canto è pure esplicitamente asserito per l’altro testo latino (vv. 302-5), quando «Orfeo ritorna, redenta Euridice, cantando certi versi allegri che sono de Ovidio accomodati al proposito». Ma fra questi due canti latini un’altra sola didascalia è altrettanto esplicita nell’asserire che «Orfeo cantando giugne all’in­ ferno». Dovrebbe a rigore riferirsi alle due ottave che la seguono (vv. 214-29); ma non mi pare possibile che non si estenda anche alle due che la precedono (vv. 198-213), il primo prorompere del dolore di Orfeo, che si rivolge al suo strumento e gli chiede per quel dolore una nuova forma di canto: Dunque piangiamo, o sconsolata lira, che più non si convien l’usato canto...

Più avanti, nella didascalia premessa alle cinque ottave della preghiera d’Orfeo, «Orfeo genuflesso a Plutone dice così», l’espressione generi­ ca «dice» non afferma il canto, ma nemmeno l’esclude; mi sembra che lo affermino invece i due ultimi versi (291-92) dell’intercessione di Proserpina, Dunque tua dura legge a lui si pieghi, pel canto, per Famor, pe’ giusti prieghi

e gli ultimi due (300-1) dell’ottava nella quale «Plutone risponde ad Orfeo e dice cosi»: r son contento che a sì dolce plettro s’inchini la potenzia del mio scettro.

Dubito invece che fossero cantate le quattro ottave nelle quali Orfeo, tornato al mondo dei viventi, «si duole della sua sorte» (vv. 322-53); ne dubito perché mi pare logico che lo spiegarsi del canto fosse riserva­ to al momento eroico in cui Orfeo affronta morte e fato, e perché il canto avrebbe dovuto aver forza di ammansire anche le Baccanti infu­ riate. Ma che si faccia maggiore o più ristretto il numero dei versi che furono cantati da Baccio Ugolini in veste di Orfeo, ciò che conta è

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che si tratta sempre di ottave e che dunque lo strambotto si affianca ai «versi latini» a rappresentare la forma più nobile della poesia cantata. Non è questo il luogo più adatto per investigare l’origine oscura e controversa dello strambotto; né per tornare ad insistere sulla neces­ sità, alla quale ho già accennato, di distinguerlo dalle varie altre forme dell’ottava rima; né di avanzare supposizioni se lo strambotto lettera­ rio derivasse da quelli popolari o se l’esempio di quelli aristocratici discendesse tra i cantori meno colti, o se vi fossero infine scambi ancora più complessi e riecheggiamenti reciproci tra uno strato e l’altro. Im­ porta invece mettere in rilievo che dal tempo di Leonardo Giustinian fino alla fine del secolo, e quindi per la maggior parte del Quattrocento, lo strambotto fu la forma di poesia per musica più assiduamente colti­ vata dai letterati italiani come veicolo dei sentimenti più appassionata­ mente lirici. Si faceva probabilmente preferire ad ogni altra per la sua brevità che, mentre offriva ai musicisti il destro di dare all’occasione al canto un corso più disteso e magari più florido, invitava i letterati ad una precisa e non di rado preziosa concisione di epigramma. Sta di fatto che un buon numero di testi di strambotti entrarono a far parte delle raccolte poetiche del tempo sia manoscritte che a stampa, e vi figurano attribuiti, non sempre correttamente o concordemente, ai poe­ ti più noti. Ma il loro canto rientrava piuttosto nel numero di quelle pratiche musicali che tendevano a rifuggire dalla notazione; soltanto verso la fine del secolo se ne cominciano a trovare esempi in codici musicali, e presto si ebbe perfino qualche raccolta dedicata prevalen­ temente, se non esclusivamente, ad intonazioni di strambotti”. Fino a che punto questi strambotti scritti riflettono la realtà della pratica non scritta è una domanda alla quale non è facile dare una ri­ sposta sicura, dato che uno dei termini di confronto è per definizione assente. Un punto da chiarire è che l’avere identificato, come io ho fat­ to qui e altrove, la tradizione scritta con la polifonia artistica non im­ plica che la musica della tradizione non scritta fosse esclusivamente monofonica. Vi sono indicazioni che a partire dagli ultimi decenni del Trecento, se non già prima, si era trovato il modo di aggiungere alla melodia cantata l’accompagnamento, magari non troppo ortodosso dal punto di vista dell’insegnamento musicale ufficiale, di una seconda par­ te di sostegno “. Né vi era una assoluta separazione che impedisse i con­ tatti tra le due tradizioni e che impedisse a quella meno vincolata da regole di assimilare qualunque procedimento dell’altra che fosse con­ facente ai suoi fini; è probabile infatti che alcune delle composizioni «regolari» di Francesco Landini, il cieco luminare dell’ara nova italia­ na trecentesca, fossero incorporate nell’altra tradizione, magari sem­

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plificate e certamente soggette alle modifiche e varianti che sono insite nel processo di una tradizione non scritta Per un processo del quale non è facile rintracciare passo per passo le singole fasi è da ritenere che nel periodo corrispondente alla fioritura dello strambotto il cantare alla cetra, alla viola, o al liuto (che non era limitato al canto di strambotti) fosse giunto ad implicare normalmente l’aggiunta di una seconda parte di accompagnamento, un tenore, alla melodia del canto. Un «tenorista» (e si trattò di persone diverse in tempi diversi) soleva seguire nei suoi viaggi il virtuoso che è l’esempio più rappresentativo del successo delle pratiche musicali non scritte, il liutista ferrarese Pietrobono dal Chitarrino ", che era stato dapprima un cantore uso ad accompagnarsi da sé sul suo strumento. Il rapporto canto-tenore restò infatti un ele­ mento fondamentale di tutte le musiche che direttamente o indiretta­ mente riflettono la pratica non scritta, quelle appartenenti al tipo frottolistico (accedo ormai all’uso musicologico più comune del termine frottola, derivato dalla preminenza che esso ha nei titoli delle raccolte a stampa di Ottaviano Petrucci) anche se in esse sorprende la prontezza con cui esse accettarono l’estensione del numero delle voci o parti a quattro che era una novità anche per la tradizione artistica della polifo­ nia profana41. L’apparente contraddizione è risolta dal fatto che le ag­ giunte alla struttura base canto-tenore sono sempre dettate da un senso accordale e armonico, e si differenziano dunque dalla tendenza a co­ struire linearmente e contrappuntisticamente che è caratteristica del­ l’altra corrente41. È inoltre chiaramente accertato che la quarta parte, il contratenor altus, era una aggiunta non essenziale, omessa nella for­ ma di esecuzione più fedele al costume della tradizione musicale non scritta (canto accompagnato dal tenore e contratenor bassus suonati da un solo strumento a corda) “. Vincenzo Calmeta, il cui volubile interesse salottiero per gli avveni­ menti contemporanei è per noi provvidenziale, ci informa anche della considerazione in cui erano tenuti i vari tipi di composizioni frottolistiche. Lo fa in uno scritto che prende forma di consigli impartiti ai «giovanetti che pigliano dilettazione delle opere in lingua volgare, non per stil di componete, ma per potersi nelle amorose imprese con quelle prevalere» “. Non ha interesse per noi il comporre in prosa, per il qua­ le il modello suggerito è quello del Boccaccio; ma entriamo in tema quando Calmeta passa a considerare quei giovani innamorati «i quali, dilettandosi d’arte di canto, disirano col cantar, massimamente diminui­ to, gratificar la sua donna». A costoro è dato avviso che «circa le stan­ ze, barzelette, frottole e altri pedestri stili devono essercitarsi, e non fondarsi sopra arguzie e invenzioni,... le quali, quando con la musica

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s’accompagnano, sono non solo adombrate, ma coperte per modo che non si possono discernere»65. Altri ancora, infine, potranno mirare più in alto che ai «pedestri stili»; e questi «nel modo di cantare deveno Cariteo e Serafino imitare, i quali a’ nostri tempi hanno di simile essercizio portata la palma, e sonosi sforzati d’accompagnar le rime con mu­ sica stesa e piana, acciocché meglio la eccellenza delle sentenziose e argute parole si potesse intendere, avendo quel giudicio che suole avere un accorto gioielliere, il quale, avendo a mostrare una finissima e can­ dida perla, non in drappo d’oro la terrà involta, ma in qualche nero zendado, a ciò che meglio possa comparire». In questi consigli, posti, si noti bene, sotto il titolo «Qual stile tra’ volgari poeti sia da imita­ re»66, è delineata una estetica musicale che distingue il piacere che si può trarre da elementi puramente musicali da quello più complesso e raffinato che nasce dalla interpenetrazione di valori poetici e musicali. Nel primo caso erano preferite le musiche che avevano più «aria» o più «spirito»: musiche di danza, delle quali come ho già detto si dilet­ tava anche il Magnifico; melodie popolari, che non è escluso possano aver servito per accompagnare anche le poesie di tono e forma volutamente popolare che formano una parte non piccola della produzione letteraria del Poliziano e della sua cerchia; o le facili melodie, chiara­ mente disegnate ed equilibrate nel pronto rispondersi e corrispondersi delle frasi-verso, che caratterizzavano le stanze, barzellette e frottole; o il virtuosismo quasi strumentale del «cantare con diminuzione»; o quello tutto affatto strumentale del suono del liuto, dell’organo, o delVinstrumentum che sarà poi più comunemente detto clavicembalo o «gravicembalo». Ma nel secondo caso, quando si volevano mettere in evidenza i valori poetici, si richiedeva che la musica in certo modo rinunziasse alle sue prerogative e le usasse solo per quel tanto che po­ tesse servire a valorizzare e intensificare la poesia; sicché, continua il Calmeta, «sono da essere essistimati di sommo giudicio coloro che cantando mettono tutto lo sforzo in esprimer bene le parole..., e fanno che la musica le accompagna con quel modo che sono i padroni da * servidori accompagnati,... facendo non gli affetti e le sentenze della musica, ma la musica delle sentenze e degli affetti esser ministra»67. Nell’Or/eo la situazione descritta dal Calmeta, del giovane innamo­ rato che vuole col canto «gratificar la sua donna e in quella musica parole amorose inferire», è realizzata da Aristeo, che è «pastor gio­ vane» e ricco (gli è dato infatti un servo). Ma Aristeo è anche «figliuol d’Apollo» e forse per questo il Poliziano evitò di dare al suo canto la forma più popolaresca della barzelletta e scelse quella più letteraria del­ la ballata. La scelta è forse anche un voluto arcaismo perché la ballata 3

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vera e propria ormai sopravviveva quasi soltanto a Firenze e nemmeno l’ondata cinquecentesca di petrarchismo riuscirà a rimetterla in onore (finirà infatti con l’essere assorbita e soppiantata dal madrigale cinque­ centesco)68. Non di meno il canto di Aristeo sarà stato di quelli nei quali le ragioni della musica - anzi, nel suo caso, gli allettamenti sen­ suali della musica — tendevano ad avere il sopravvento su quelle della poesia. Delle pochissime intonazioni musicali di ballate di quel tem­ po — che sono poi quelle che restano di Arrigo Isaac su testi del Poli­ ziano e del Magnifico -69 nessuna si presta ad illustrare nemmeno per analogia la ballata di Aristeo, dacché nessuna è come quella su un testo tutto di endecasillabi. L’invito di Aristeo ad Euridice «che sappi usar suo’ forma bella» sarà stato in polifonia a due voci, facendovi il tenore la zampogna di Mopso, e quindi acquistando anche dal suono strumen­ tale un appello sensuale, meno puro è nobile di quello della lira di Or­ feo. Per il coro finale delle Baccanti ho già suggerita l’analogia col Trion­ fo di Bacco e Arianna del Magnifico, del quale di recente è stata offerta una attendibile ricostruzione basata sulla musica a tre voci di una lauda pure del Magnifico70. Ma nel Trionfo, o almeno nella musica così rico­ struita, la quadratura ritmica e il tempo moderato imposto da un breve passaggio di note più rapide risultano in un effetto complessivo delu­ dentemente sobrio e pacato. Meglio suggerisce l’ebbrezza panica, se non bacchica, la musica ricostruibile con lo stesso procedimento del notissi­ mo Ben venga maggio del Poliziano (es. i), che è veramente notevole per la sua spigliatezza ritmica e per le insolite cadenze con l’accordo di dominante senza terza; alle quali caratteristiche poterono aggiungere altro vigore mimico la vivacità della declamazione e l’uso di strumenti più aggressivi che il liuto, di quelli «qui teretes aures vocum insolentia sonoque perturbato ledunt»71. Esempio i. Angelo Poliziano, Canzone di Maggio. Musica della lauda Ecco il Messia, su testo di Lu­ crezia dei Medici. Dal ms Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 173, f. i$8r.

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Pittori e incisori rinascimentali, nel rappresentare Apollo, le Muse, Orfeo, o Arione, poterono a piacere o sbizzarrirsi in ricostruzioni ar­ cheologiche di strumenti classici o presunti tali (producendo talvolta forme fantastiche che sono assolutamente remote da ogni verosimi­ glianza acustica o musicale), o riprodurre strumenti in uso ai loro tem­ pi, aiutati in ciò dal fatto che anche i letterati loro contemporanei spes­ so applicavano nomi classici a tali strumenti. La seconda soluzione era inevitabile per l’Orfeo della favola del Poliziano, il cui strumento oltre ad essere simbolo visibile dell’attività poetica doveva essere fonte reale di suoni in sostegno al canto. Orfeo può dunque essersi presentato por­ tando l’uno o l’altro degli strumenti reali con i quali è piu spesso rap­ presentato: con un liuto, con una «viola» di forma simile a quella della vihuela spagnuola e come quella suonata pizzicando le corde, o con lo



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strumento che durante tutto il Cinquecento (e anche più tardi) fu co­ munemente conosciuto in Italia come lira da braccio, suonato anch’es­ so a volte a pizzico ma più spesso per mezzo di un arco71. Le maggiori probabilità stanno per quest’ultimo dacché Baccio Ugolini fu sempre ricordato come cantore alla lira (benché poi nulla sia detto delle carat­ teristiche del suo strumento) ed egli stesso promise una volta di cantare su di essa, «versu ad lyram», le lodi del marchese Ludovico Gonzaga”. Sulla lira egli avrà dunque cantata anche l’ode saffica in lode del cardi­ nale figlio di Ludovico; ma per la musica il modello più prossimo che io possa offrire è una composizione del veronese Michele Pesenti sul­ l’oraziano Integer vitae scelerisque purus {Carmina I 22) (es. 11), pub­ blicata da Ottaviano Petrucci nelle Frottole libro primo del 1504, qua­ si un quarto di secolo dopo la composizione dell’Or/eo ". La sobrietà con cui in essa è trattato il testo oraziano, benché il compositore Mi­ chele Pesenti fosse uno dei più vivaci ed estrosi tra i cosidetti frottolisti, deriva evidentemente da una persistente convenzione stilistica. Più difficile è trovare un esempio analogo ai due distici elegiaci «d’Ovidio accomodati al proposito» che Orfeo canta non appena ha ottenuto da Plutone la restituzione di Euridice; l’intonazione di Marchetto Cara per Quicumque ille fuit di Properzio (Elegie II 12) non fu pubblicata prima del 1517 ed è quindi troppo lontana dal tempo di composizione dell’Or/eo, ed ha inoltre un lungo interludio (o ripetizione del secon­ do verso) tra un distico e l’altro che non si addice all’urgenza della si­ tuazione nell’Or/eo ”. Possiamo dunque soltanto immaginare una into­ nazione che seguisse i principi di piana declamazione applicati dal Pe­ senti all’ode saffica. Il secondo canto latino celebra la vittoria che Orfeo ha proprio al-

Escmpio 11. Michele Pesenti, Ode-sadica. Testo di Orazio. Da Frottole libro primo (O. Petrucci, Venezia 1504), f. 44r (parzialmente omessa la parte dell’alto).

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Iota conseguita col suo canto. Ma quale sarà stato lo strumento di quel­ la vittoria? Si tratta, l’abbiamo visto, del canto di strambotti, per il quale gli esempi, benché tardi, si contano a centinaia; qui è forza limi­ tarsi ad una scelta ristretta, e ne darò dunque tre soltanto, rappresen­ tativi di tre diverse tendenze tra le molte che si affacciano nella lette­ ratura strambottistica. Il primo (es. in) è tratto da un manoscritto della Bibliothèque Nationale di Parigi (Rés. Vm.7 676) che porta la data 1502 e proviene dall’ambiente di una corte dell’Italia settentrionale:

Esempio in. Strambotto. Testo e musica anonimi. Dal ms Parigi, Bibliothèque Nationale, Rés. Vm.7 676, ff. 33t>-34r (omessa la parte dell’alto).

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o Mantova, o Ferrara, o una delle minori che gravitavano intorno ad esse”. Testo e musica sono anonimi, e specialmente nella musica, nella irregolarità del ritmo che rende difficile e problematica la collocazione del testo, io credo di ravvisare un tipo popolare o popolareggiante di strambotto che alterna momenti di recitazione piana e quasi esitante a slanci incisivamente ritmati (e perfino anche ad un breve spunto di vo­ calizzazione, quello che il Calmeta descriveva come «cantar diminui­ to»). Dallo stesso manoscritto traggo anche il mio secondo esempio di strambotto, scegliendolo dal piccolo gruppo ivi contenuto di intona­ zioni i cui testi sono quasi certamente di Serafino Aquilano - uno dei due poeti che il Calmeta additava come modelli, tra i contemporanei, a chi volesse «uscir fuora della volgar schiera» e «poterle [le parole

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poetiche] meglio non solo negli amorosi ma ancora negli eruditi cuori imprimere». La musica di Ite, suspir(i), là dove Amor vi mena (es. iv) è anonima (come lo è quella degli altri testi attribuibili a Serafino) e non si ritrova in nessuna altra fonte né manoscritta né a stampa; vi è dunque qualche probabilità, tenendo presente che l’Aquilano fu nel 1495 a Mantova, che si tratti di quella che il poeta soleva eseguire, composta dunque da lui stesso ”, Se cosi è sarebbero ben giustificate le lodi tributate all’Aquilano oltre che come poeta come musicista; lo

Esempio iv. Strambotto. Testo di Serafino Aquilano. Dal ms Parigi, Bibliothèque Nationalc, Rés. Vm? 676, ff. 74^-75f (omessa la parte dell’alto).

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strambotto ha una linea melodica efficacemente espressiva, dai contor­ ni ben delineati, e pur ritenendo qualche cosa dei contrasti ritmici che abbiamo visti nell’esempio precedente, li inquadra meglio nella equili­ brata economia dell’insieme. Potrei dare anche un saggio dell’altro dei due poeti citati dal Calmeta come ottimi esempi; uno strambotto del Cariteo è infatti incluso sotto il suo nome nelle Frottole Libro Nono (1^09 stile moderno) del Petrucci, ed è in complesso piu pianamente declamato dei due strambotti già esaminati, benché pure indulga in qualche semplice melisma7*. Ma preferisco in sua vece trarre da un altro manoscritto contemporaneo una intonazione che è più delle altre vicina all’ambiente del Poliziano e che dunque forse meglio rispecchia lo stile dei canti dell’Or/eo: si tratta della musica per uno dei pochi testi di strambotto attribuiti al cantore della parte di Orfeo, Baccio Ugolini (es. v), ed è conservata anonima e in unicum nel tns 55 della Biblioteca Trivulziana di Milano”, anch’esso largamente dedicato alla raccolta di strambotti. Comincia «piana e distesa» come quella dello strambotto del Cariteo ed è ancor più sobria di quella, con appena qual­ che accenno di inflessione melodica, è quindi ancor più vicina alla «clas-

Esempio V. Strambotto. Testo attribuito a Baccio Ugolini. Dal ms Milano, Biblioteca Trivulziana, 55, ff. i^tAiór (omessa la parte dell’alto).

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sica» semplicità dell’ode di Orazio messa in musica da Michele Pesen­ ti. Si può anche supporre, ponendo mente all’attività di improvvisa­ tore nella quale l’Ugolini eccelleva anche a detta dell’ultra-critico Pao­ lo Cortese “, che si tratti di uno dei moduli melodici che egli adattava all’occorrenza ad altri testi di strambotti con gli aggiustamenti richie­ sti ogni volta dal vario tono e dalla varia accentuazione dei versi — ag­ giustamenti che, va tenuto presente, erano richiesti anche nel canto di ogni singolo strambotto per adattare la stessa melodia a tutti e quattro i distici. Se la musica del codice Trivulziano sia veramente di Baccio Ugoli­ ni, e fino a che punto essa possa rispecchiare i canti che l’Ugolini esegui sulla lira impersonando Orfeo, sono domande alle quali ancora una vol­ ta non possiamo dare certa risposta. Potrò soltanto indicare che cosa il Poliziano si attendesse dai canti eroici del suo Orfeo, citando qualche passo di una sua lettera che testimonia delle sue reazioni come ascolta­ tore di musica. La lettera in questione fu indirizzata a Pico della Mi­ randola presumibilmente da Roma, ed è di una decina d’anni più recen­ te dell’Or/eo”. Descrive, come è caratteristico del tempo, musiche udi­ te durante un convito offerto da Paolo Orsini; e ancor più caratteri­ stico è il fatto che finché si tratta di musica polifonica il Poliziano si li­ mita a descrivere il piacere sensuale (anzi addirittura viscerale) prodot­

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to dalla voce dell’undicenne Fabio, figlio dell’ospite; ma il suo entu­ siasmo non ha più confini quando Fabio passa ad esibirsi in un canto a solo: «Non appena ci sedemmo a mensa [Fabio], comandato a cantare insieme a qualche altro esperto alcuni di quei canti che son messi per iscritto con quei tali segnucci della musica [difficile è rendere il senso di diffidenza che si avverte in quel «quaedam... notata Musicis accentiunculis carmina»]”, subito si insinuò in siffatto modo nelle nostre orecchie, anzi nel nostro petto [«immo vero in praecordia»], con una sua soavissima voce, che (degli altri non so) me quasi tolse a me stesso, e senza dubbio mi toccò con la sensazione tacita di una voluttà affatto divina. Eseguì poi un canto eroico che egli stesso aveva appena compo­ sto in lode del nostro Piero dei Medici... Fu la voce non del tutto di uno che leggesse e non del tutto di uno che cantasse, ma avresti potuto sentirvi l’uno e l’altro e pure non distinguere l’uno dall’altro; era tut­ tavia o piana o modulata, mutando come lo richiedesse il passaggio, ora variata ed ora sostenuta, ora esaltata ed ora moderata, ora sedata ed ora veemente, ora rallentata ed ora accelerata, sempre precisa, sempre chiara e sempre gradevole; e il gesto era né indifferente né torpido, ma nemmeno smorfioso e affettato. Avresti detto che un Roscio adole­ scente desse spettacolo sulla scena»". La richiesta profetica del Calmeta, che la musica fosse «ministra degli affetti e delle sentenze» del testo poetico, non è dunque una pro­ posizione isolata; la vediamo confermata e precisata dal Poliziano co­ me esigenza di uno stile intermedio tra quello della parola parlata e quello del canto, al quale l’esecutore possa dare una adeguata colora­ zione espressiva attraverso la varietà e duttilità dell’interpretazione. I concetti fondamentali della riforma monodica - la dipendenza della musica dalla parola, lo stile recitativo o rappresentativo, la «sprezzatu­ ra» dell’esecuzione — erano già non solo formulati, ma pienamente at­ tuati oltre un secolo prima dalla nascita dell’opera.

1 È il titolo del primo saggio nella raccolta Musiciens dlautrefois 2 , Paris 1908. 2 Giosuè Carducci, nell’introduzione alla sua edizione de Le Stanze, VOrfeo e le Rime, Firenze 1863, p. lxiii, pose in guardia chi volesse «riconoscere nell’Or/eo il pri­ mo esempio di dramma propriamente detto». Si può, egli scrisse, chiamarlo tragedia o favola pastorale, «vantarlo il primo melodramma», o «ammirare la creazione di certi caratteri e la sapienza della favola»; «non però cessa l’Orfeo di essere in so­ stanza una rappresentazione: e come tale... non altro dà che una narrazione in dia­ logo». Toccando del «melodramma», egli accennò a «un maestro di musica, il si­ gnor Germi», il quale evidentemente si proponeva di «vestirlo [il testo deWOrfeo]

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d’armonie, aprendo forse un nuovo campo o uno obliato riaprendone all’arte sua». Che cosa ne fosse di questo progetto non si sa; ma l’accenno fu frainteso da Pietro canal, Della Musica in Mantova, in «Memorie del R. Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti», xxi, 1879, pp. 655 sgg., e fece passare l’oscuro contemporaneo del Carducci alla storia di un secolo che non è il suo. L’equivoco era già stato notato da Ferdinando Neri nell’introduzione a L’Orfeo e le Stanze, Strassbourg 1911, p. 14. 3 rolland, Musiciens d’autrefois cit., pp. 21-31. 4 Cito dal testo dato da F. Neri nell’edizione già citata de L’Orfeo e le Stanze, p. 33. Una descrizione dellW/7/o princeps del 1494 fu data dal Carducci nell’introduzione già citata de Le Stanze, l’Orfeo e le Rime, pp. lxxxii-lxxxv. Per i manoscritti an­ tichi della Fabula vedi Vincenzo prrnicone, La tradizione manoscritta dell’Orfeo del Poliziano, in Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano 1963, pp. 362-71; le singole fonti sono descritte da ida maì’er, Les manuscripts d’Ange Politica, Genève 1965. 5 II Canale rimase a Roma dopo la morte del cardinale Gonzaga e divenne nel i486 il terzo marito della famosa favorita di Rodrigo Borgia, Vannozza Cattane!; vedi Alessandro Luzio, Isabella d’Este e i Borgia, in «Archivio storico lombardo», serie V, 41» *PP 476 sgg. 6 La legazione bolognese fu conferita al Gonzaga da Paolo II c poi riconfermata da Sisto IV, il quale per gratitudine vi aggiunse anche l’abbazia di San Gregorio. Fran­ cesco Gonzaga villeggiò talvolta a Viterbo e ai Bagni della Porretta vicino a Bologna. 7 Altre visite più antiche non avrebbero potuto essere prese in considerazione per l’età del Poliziano che nel 1471 aveva appena diciassette anni. 8 rolland, Musiciens d’autrefois cit., p. 21. 9 Su progetto *dell Alberti fu condotto il rifacimento della chiesa di Sant’Andrea il cui inizio diede occasione alla visita del cardinale nel 1472. 10 luigi coletti, La Camera degli Sposi del Mantegna a Mantova, Milano 1959, p. n. 11 Giuseppe fiocco, Mantegna, Milano 1937, p. 37. 12 g. battista picotti, Sulla data dell’«Orfeo» e delle «Stanze» di Agnolo Poliziano, in «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei», Classe di scienze morali, storiche e filologiche, serie V, xxin, 1914, pp. 319-57, ristampato dall’autore in Ricerche umanistiche, Firenze 1955, pp. 87 sgg., alla quale ristampa mi riferirò d’ora innanzi. 13 Ibid., pp. 102-5. 14 Cosi il picotti, ibid., pp. 104 e 105, in contrasto con quanto ha detto in preceden­ za, pp. 90 e 91. 15 ida maìer, Ange Politien, Genève 1966, pp. 388-90; la Maier pur rilevando la data della subscriptio apposta dal Poliziano ad un incunabolo di Plinio, ritiene ancora possibile che V Orfeo fosse scritto tra il 12 e il 15 giugno. 16 La didascalia, il cui verbo al passato discorda con quelli al presente di tutte le altre, ha l’aria di una aggiunta o modifica posteriore, nella quale U Poliziano, pur non omet­ tendo l’encomio del cardinale Gonzaga, tiene ad attribuire l’omaggio, se non il testo, a Baccio Ugolini. Per l’Ugolini che si recava spesso presso il cardinale Gonzaga o presso il marchese di Mantova per missioni dategli da Lorenzo dei Medici non vi era nulla a ri­ dire che facesse in modo di ingraziarsi i destinatari dei messaggi affidatigli dal suo si­ gnore. Al Poliziano invece doveva rimordere il ricordo del suo soggiorno a Mantova in un momento delicato dei suoi rapporti con Lorenzo; tanto delicato che, disperando di rientrare in favore, egli aveva probabilmente deciso di porsi al servizio del car­ dinale Gonzaga. Dell’episodio il Picotti dà un resoconto dettagliato in un altro dei saggi raccolti in Ricerche umanistiche (Tra il poeta ed il Lauro, pp. 3-86). 17 Di Baccio Ugolini dirò in seguito; anche dei suoi viaggi tra Firenze é Mantova nel periodo che interessa per la composizione dell’Or/eo il Picotti diede minute infor­ mazioni nei due saggi citati. A lui risale anche la notizia del banchetto offerto dal

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cardinale il 15 febbraio (ibid., p. 101, dove sono indicate anche altre occasioni di quel carnevale propizie ad un banchetto e ad una rappresentazione). ia II Platina fu incarcerato una prima volta nel 1464-65 per un violento libello che aveva scritto contro Paolo II per protestare la soppressione del collegio degli abbreviatoti; ancor piu a lungo stette in carcere nel 1468-69 quando fu coinvolto nel processo con­ tro i membri dell *Accademia pomponiana. Sotto Sisto IV invece divenne bibliote­ cario della Vaticana. La sua associazione col cardinale Gonzaga, del quale era forse anche stato per qualche tempo precettore, è un indice degli interessi umanistici del cardinale. 19 cherubino GHIRARdacci, Historia di Bologna, in Rerum lialicarum Scriplores, XXXII, parte I, Città di Castello 1915 sgg., p. 207. Ibid., p. 218, è riportato che nel 1478 il legato «fece minare alcune case che erano a canto il palazzo de’ signori [dove egli abitava], et ivi dirizzò un bellissimo giardino et lo cinse di alte mura». 20 Nel 1472 il cardinale scrisse al padre chiedendo che gli fossero mandati incontro ai Bagni della Porretta il Mantegna, a cui vuole mostrare gli oggetti, e il musico Malagise «per non dormire»; nell’autunno dello stesso anno il Mantegna invitava il car­ dinale a desinare «di fuora al bastione». Vedi PAUL kristeller, Andrea Mantegna, Berlin 1902, docc. 45 e 48. 21 Vittorio rossi, Niccolò Lelio Cosmico, poeta padovano del secolo xv, in «Gior­ nale storico della letteratura italiana», 13, 1889, p. ni. Vedi anche le note 18 e 24. 22 Un documento che contiene questo titolo è riprodotto in ricorri, Studi umanistici cit., pp. 95 e 96. Benché l’espressione sia quella consueta per indicare gli intimi col­ laboratori di un alto prelato, può anche darsi che fosse puramente onorifica nel caso del Poliziano, un segno di magnanimità usato dal cardinale nell’atto di restituire il poeta al suo legittimo signore. Per tutto l’episodio vedi le indicazioni date nelle note 12 e 16. 23 Eccone il testo, dal ms Vaticano 3884, f. 122: «Item cum ex conviviis quae per eosdem Cardd. fiunt scandalum oriatur, statuimus et ordinamus quod de cetero sobrie et modeste praedicta convivia fiant; sufficiantque duo genera ferculorum fissati videlicet et assali. Poterunt etiam in principio mensae aliquibus pasteriis uti et in fine tortibus et fructibus et aliis tali bus... Recitetur in mensa aliqua lectio... non soni musici, non cantus saeculares, non histrionum fabulae»; da camillo corvisieri, Il trionfo romano di Eleonora d’Aragona, in «Archivio della Società Roma­ na di Storia Patria», 1, 1878, p. 479, nota. 24 Emilio motta, Un pranzo dato in Roma dal cardinale di Mantova agli ambasciatori di Francia, in «Bollettino Storico della Svizzera Italiana», vi, 1884, pp. 21 e 22; il titolo non corrisponde esattamente al contenuto della lettera. “ Non so dove il cardinale avesse allora residenza in Roma, se ne «la casa o vero palazo del cardinale Mantua », a San Lorenzo in Lucina, o vicino alla chiesa di Santa Prassede, o altrove. 24 Le lettere della giovane principessa e i testi poetici che descrivono il convito sono riprodotti da C. Corvisicri in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», x, 1887, pp. 629 sgg., continuazione dell’articolo citato nella nota 23. Un utile con­ tributo dà anche in questo campo w. osthoff, Theatergesang und darstellende Musik, Tutzing 1968, vol. I, pp. 33-38, e II, pp. 34-44, discutendo e ricostruendo un canto eseguito verso la fine di una verbosa allegoria attribuita a Giovanni Santi e rappresentata nel 1474 per Federico da Montefekro (vedi A. saviotti, Una rap­ presentazione allegorica..., in «Atti e Memorie della R. Accademia Petrarca... in Arezzo», N. S., 1, 1920, pp. 180-236). Si tratta di una quartina di ottonari che Pudicitia, Amore, due spiritelli (tutti soprani), un contra e un tenore cantano sulla musica del rondeau a 3 voci ^ay pris amour pour ma devise (notissimo in Francia e in Italia; si legge anche negli intarsi dello «studiolo» di Urbino), e danzato da sei regine co­ me una bassadanza. La stessa musica era già stata cantata, forse con altro testo, verso l’inizio della rappresentazione, durante la quale dodici ninfe danzarono anche al canto

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di un virelai (Gente de Corps, ricordato da Jean Molinet come una chanson rurale-, vedi H. M. brown, Music in the French Secular Theater, Cambridge [Mass.] 1963, p. 109). Infine, dopo un altro ballo, «... cominciando a sonare tutti i strumenti, se ne andarono con dio». 17 Vedi le informazioni piu precise date da Elena Povoledo piu avanti, a p. 341. u Di «uno che era in habito regale intitolato lo re di Macedonia» in un convito del cardinale Riario del 1473 dà notizia una relazione riportata da p. ghinzoni, Alcune rappresentazioni in Italia nel secolo xv, in «Archivio storico lombardo», serie II, x, 1893, p. 962. Un altro testo ivi citato, p. 964, accenna alla stessa consuetudine come «la festa del re de la Fava». M II memoriale anonimo che le descrive è pubblicato da Filippo cavicchi, Rappre­ sentazioni bolognesi nel 147$, in «Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna», serie III, xxvn, 1909, pp. 71 e sgg., da cui derivo i brani citati. 30 guido stendardo, Lj«Iside» di Francesco Ariosto, in «Archivum romanicum», xx, 1936, pp. 114 sgg. Il prologo (p. 117) inizia con l’apostrofe; «Dive Leonelle noster et Princeps inclyte, Spectatoresque optimi...», ai quali annunzia poi «Hic mihi Caliopio volenti novam dclcgavit provinciam, vobis offerrcm veridicam fabellam». L’accenno ai monti è nello scherzo, sempre del prologo (p. 118): «Agereque [?] non montes parere, et nasci mures: sed mures parere, monies inde nasci...» 51 Vedi lo scritto del Pernicone citato nella nota 4. Della Orphei tragoedia dirò piu avanti. 32 «L’Angiolo annunzia» o «annunzia la festa» è formula comune nelle rappresenta­ zioni fiorentine quattrocentesche. Si vedano i tre volumi delle Sacre rappresentazioni dei secoli xiv, xv e xvi editi da Alessandro D’Ancona, Firenze 1872. Nella Rappre­ sentazione di Costantino imperatore, che è già cinquecentesca, «un giovane con la citata annunzia» (ibid., pp. 187 e 211). 33 «Schiavone», come fu chiarito da isidoro del lungo, Florentia, Firenze 1897, pp. 350-56, vale per dalmatico o illirico. Se questa nota coloristica fosse suggerita da un incontro avuto durante la recente visita del Poliziano a Venezia, o dalla pre­ senza a Mantova di qualche servo, o schiavo, o bullone di quelle parti, è impossi­ bile decidere; essa è presente nei manoscritti più antichi ma fu eliminata nell’edi­ zione bolognese del 1494. 3 < La Rappresentazione di San Giovanni e Paulo di Lorenzo dei Medici (c. 1490) ha ancora la consueta annunciazione in ottave, che però è messa in bocca ad uno dei giovanetti della Compagnia di San Giovanni che la rappresentavano. Gli esempi di «frottole» citati da Alessandro d’ancona, Le origini del teatro italiano, ed. To­ rino 1891, I, pp. 379 sgg., sono tutti cinquecenteschi. Secondo Vincenzo Borghini (citato ibid., p. 395) una di queste «frottole» recitata senza musica, quella premessa alla Rappresentazione di Abramo e Agar, diede il primo avvio all’abbandono della recitazione cantata anche per l’azione principale delle rappresentazioni. Il nome di «frottole» certamente deriva dall’essere in versi brevi (settenari) e con rime vicine. 33 Vedi il capitolo Metro e canto delle rappresentazioni, in d’ancona, Le origini cit., I, PP- 391 sgg-> fll quale non sarebbe difficile aggiungere altri esempi c considera­ zioni. Le formule tradizionali di canto dovevano essere ben note agli esecutori e forse aiutare a caratterizzare personaggi o situazioni; ma esse dovettero derivare da quello che altrove fu detto «canto passionale», in contrasto al più gioioso e più fe­ stoso «canto pasquale». Oltre queste formule di recitazione altre musiche (inni, laudi, o anche canti profani, suono di strumenti e danze) erano introdotte dove erano richieste dallo svolgimento deU’azione. 36 Un esempio quanto mai suggestivo di elementi scenici « portati » agli spettatori è questo brano àeWHymeneo di Giovanni Sabbadino degli Arienti (descrizione delle feste nuziali di Annibaie Bentivoglio e Lucrezia d’Este, Bologna 1487): «...subito

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al suono de le tube in la sala aparve uno homo peloso come silvano vestito... cum uno troncho in mano; cum lo quale facendo far largo a la gente, fu portata artificio­ samente una torre de legno bene intesa ballando, che non si vedea da chi fusse por­ tata... in la quale torre era la dea lunone cum due legiadri gioveni... Posata la tor­ re, sen^a indusia venne uno palazo ballando, che proprio parea venisse, non veden­ dosi ch’el portasse, in lo quale era Venus cum el faretrato Cupido et cum due don­ ne... Di poi similmente ne venne una montagna de bosco circondata, nel cui corpo era a modo una speloncha, dove Diana cum octo nymphe dimorava... Di poi venne uno saxo anchora danzando, in lo quale era una bella giovene cum octo a fogia moresca vestiti. Et, possati che furono quisti edificii, fu facto porre scilentio al grande nume­ ro de li astanti, del cui parlare per la venuta de li aedifidi forte la sala rimbombava... » La descrizione ripetutamente indica la cura con la quale i vari atti erano « presentati al tribunale» sul quale erano i banchettanti; da parte sua l’Arienti ebbe la fortuna di trovare posto «sopra il pogiolo» riservato ai cantori (in numero di sei). La rap­ presentazione fu per la maggior parte recitata dai personaggi, ma comprendeva an­ che danze accompagnate o dal canto dei sei cantori o dal suono di strumenti. Vedi Giovanni Zannoni, Una rappresentazione allegorica a Bologna nel 1487, in «Rendi­ conti della R. Accademia dei Lincei», vii, 1891, pp. 414 sgg. 37 La frase è di Eugenio Garin, L’ambiente del Poliziano, in II Poliziano e il suo tempo, Atti del IV Convegno internazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze 1957, p. 37. M L’Orfeo appare spesso associato ad egloghe nella tradizione manoscritta e ne porta addirittura il titolo nel ms Vaticano Gipponi 193. 39 Cito, qui e in appresso, seguendo l’edizione già citata del Carducci. Non mi è stato possibile consultare tempestivamente il testo quasi critico edito dal Perniconc in s. battaglia e v. PERNICONE, Antologia della Letteratura Italiana dalle origini a Leonardo, Torino 1959» né quello stabilito da Natalino Sapegno nella edizione delle Rime del Poliziano, Roma 1965. Le divergenze comunque sono minime. 40 Nell’Egloga V del Boiardo «canta per sé Menalca in frotola»; il metro del suo can­ to continua ad essere la terzina, con l’aggiunta però di una rima al mezzo in ogni ver­ so. L’invocazione di Aristeo ad Euridice è il primo esempio di versificazione piu sciolta nella fabula; un altro ne occorre alla fine della scena in inferno. Il procedi­ mento dovette trovar favore perché è ampliato nel rifacimento noto come Orphei tragoedia. 41 Vedi la nota 36. 42 L’Affò nella sua Osservazione IV (riprodotta neH’cdizione carducciana de Le Stanze, l’Orfeo e le Rime cit., pp. 172-74) e nell’intento di mostrare che VOrphei tragoedia fosse versione piu autentica che la Fabula notò una discordanza tra la fistola nomi­ nata da Aristeo nel testo della ballata e il precedente verso 51 nel quale Mopso è in­ vitato a trar «fuor de la tasca la zampogna». Ma la sua derivazione di zampogna da sambuca è errata; l’etimologia corretta è da symphonia ed è corretto l’uso del termine per indicare lo strumento che l’Affò descrive come fistola, cioè il cosidetto flauto di Pan. 41 Vi ho già accennato nelle note 40 e 42; dovrò ritornarvi nel saggio che fa seguito a quello presente. 44 Ne fu il piu autorevole assertore il d’ancona in Le origini cit., vol. Il, 2-5. In un certo senso era già stato anticipato dal Carducci nell’introduzione a Le Stanze, l’Orfeo e le Rime, dove però (vedi il passo citato nella nota 2) non è detto che l’Orfeo adotta i procedimenti tecnici delle rappresentazioni, ma, con più ragione, che è come quelle narrazione dialogata. 45 Vedi la nota precedente. 46 Questa derivazione appare evidente nel trapasso dei testi drammatici sacri dal me­ tro di ballata (canto pasquale) alla sesta o ottava rima (canto passionale). 46< Non c’è da stupirsi che il problema della musica nelle rappresentazioni sacre non sia mai stato adeguatamente esaminato: fino verso la fine del Quattrocento era normale

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che fossero interamente cantate, ma i modi e le formule (probabilmente semplicis­ sime, ma diverse da un luogo all'altro) appartenevano a quella che io chiamo la mu­ sica della tradizione non scritta e si prestano soltanto a congetture. A volte generiche, a volte più precise sono le indicazioni relative al cantare e al suonare in funzione rea­ listica (un fenomeno analogo è discusso in uno dei saggi seguenti in riguardo alle rappresentazioni di commedie). Generiche sono, per es., le seguenti della Regina Ester (a. d’ancona, Sacre rappresentazioni dei secoli xiv, xv e xvi, Firenze 1872): «ballasi e fassi festa» (p. 141), o «Cantasi, e fassi festa; et è finita la Istoria» (p. 166). Didascalie più precise hanno permesso a Wolfgang Osthoff di identificare nel ms Panciatichiano 27 la musica della lauda-ballata Chi serve a dio, cantata e ballata alla fine della Rappresentazione di Abramo e Isacco di Feo Beicari (1449) e quella di una canzone di cacciatori, Jamo alla caccia, nella più recente Rappresentazione di Santa Margherita (w. osthoff, Theatergesang cit., I, pp. 31 e 43-44» H, pp. 33 e 45-49). Dubbio è il caso della lauda O vaghe di Jesu, o verginelle, pure dalla Santa Margherita, alla quale Osthoff (ibid., vol. II, pp. 38-44) adatta la musica di una tar­ da villota (lontana derivazione di una ballata di Sacchetti) prendendola da una stam­ pa del 1529; non è escluso tuttavia che la villota possa avere tratto spunti tematici dalla melodia della canzone popolare che servi per la lauda (e anzi per più laude). 47 Vedi Joseph j. gallucci, Festival Music in Florence ca. 1480 - ca. 1520 (disserta­ zione non pubblicata, Harvard University, 1962). 44 Vedi più avanti, nota 70. ° Più particolarmente in Ars nova e stil novo, in «Rivista Italiana di Musicologia», 1, 1966, pp. 3 sgg., e Music and Cultural Tendencies in 15th-Century Italy, in «Jour­ nal of the American Musicological Society», xix, 1966, pp. 127 sgg. 50 De cardinalato libri tres, Castel Cortese 1510, f. 74r. Vedine facsimile, traduzione e commento nel secondo degli articoli citati nella nota precedente alle pp. 151, 155 e 161. 51 Vincenzo calmeta, La poesia del Tebaldeo, in Prose e lettere edite e inedite, a cura di Cecil Grayson, Bologna 1959, pp. 15-19; l’altro passo al quale pure accenno è nel saggio S’egli è lecito giudicare i vivi o no (il Calmeta non se ne faceva scrupo­ lo): «Un altro nuovo modo ancora, oltre gli stampatori, è trovato col quale le com­ posizioni, massimamente in lingua volgare, vengono in luce; imperocché... sono riu­ sciti molti citaredi, i quali con le fatiche d’alcuni poeti sostentandosi, quelle per ogni corte di principi, cittadini e terre vanno publicando... » (ibid., p. 4). 52 Riporto questa grafia da una lettera del 1468; vedi franca brambilla ageno, Una nuova lettera di Luigi Pulci a Lorenzo *de Medici, in «Giornale storico della lette­ ratura italiana», 141, 1964, p. 107. Non v’è bisogno di essa tuttavia per conferma­ re l’affinità tra la vihuela e la viola italiana quattrocentesca. “ Il De Pratiche, seu arte tripudi}, vulghare opusculum di Guglielmo ebreo da Pesa­ ro, edito dal ms Magliabechiano XIX, 88 da Francesco Zatnbrini (Trattato dell’arte del ballo, Bologna 1873) dà la descrizione delle bassedanze Venus c Zauro (?), Puna e l’altra precedute dalla dicitura «composta per Lorenzo di Piero di Cosimo de’ Medici». L’episodio del ballerino di provincia è descritto in una lettera del Po­ liziano da Acquapendente, in Prose volgari inedite e poesie latine e greche, ed. da Isidoro Del Lungo, Firenze 1867, p. 47; il Del Lungo attribuisce la lettera al 1476. Devo aggiungere che «musicare» e «dirozare» furono la conclusione del «leggere un poco di santo Agostino». 34 Ho già riferito in altro scritto la frase che riguarda Piero in una lettera del Poliziano a Pico: «Canit etiam, vel notas musicas, vel ad cytharam carmen » (Epistole inedite di Angelo Poliziano, ed. da Lorenzo D’Amore, Napoli 1909, pp. 38-40). Pure il Po­ liziano il 5 giugno 1490 scriveva cosi a Lorenzo che si trovava al Bagno a Morbo: «Udii cantar improviso, non ierser l’altro, Piero nostro, che mi venne assaltare a casa con tutti questi provisanti. Satisfecemi a maraviglia, et praesertim ne’ motti e ne *1 rimbeccare, e nella facilità e pronunzia, che mi pareva tuttavia vedere e udire

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V.M.» (Prose volgari inedite cit., p. 78). Di Lorenzo Tornabuoni parla con affetto in un’altra lettera a Pico e aggiunge: «Dat & Musicis operam». 55 d’ancona, Le origini cit., II, pp. 358 sgg. * Su Baccio Ugolini vedi isidoro del lungo, Florentia cit., pp. 307 sgg., g. b. picotti, Ricerche umanistiche e La giovinezza di Leone X, Milano 1927, ai luoghi citati nei rispettivi indici analitici. Per lo strumento che egli adoperava vedi emanuel winternitz, Lira da braccio, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, voi. Vili, Kassel i960, coll. 935 sgg., notevole anche per le illustrazioni che si riferiscono all’uso umanistico dello strumento; il quale è particolarmente riconoscibile per la scatola piatta, di forma (vista dall’alto) o rotonda o a mandorla, nella quale i piroli che ten­ dono le corde sono inseriti verticalmente. Una traduzione inglese, dello stesso arti­ colo, abbreviata nel testo ma completa di illustrazioni, è inclusa nel volume dello stesso autore Musical Instruments and their Symbolism in Western Art, New York 1967. 57 Vedi i codici Montecassino, Badia, 871, Perugia, Biblioteca Comunale, 431 (G 20), Parigi, Bibliothèque Nationale, Reserve Vm.7 676, Milano, Biblioteca Trivulziana, 55 Modena, Biblioteca Estense, a. F. 9. 9, ai quali si possono aggiungere alcune deUe composizioni piu recenti aggiunte al ms Siviglia, Biblioteca Colombina, 5. 1. 43 e al suo complemento in Parigi, Bibliothèque Nationale, nouv. acq. fr^. 4379. H Vedi Musica polifonica per un testo attribuito a Federico II, in L'Ars nova italiana del Trecento, II, Certaldo 1968, pp. 97-112, e l’altro mio saggio New Glimpses of an Unwritten Tradition, in Words and Music: The Scholar's View (studi in onore di A. T. Merritt) a cura di L. Berman, Cambridge (Mass.) 1972, pp. 271-91. 59 Vedi per esempio i testi di ballate landiniane che figurano nel repertorio semipo­ polare del ms Treviso, Biblioteca Comunale 43; Vittorio cian, Ballate e strambotti del secolo xv, tratti da un codice trevisano, in «Giornale storico della letteratura italiana» iv, 1884. 60 Su di lui vedi in particolare emile haraszti, Bono, Piero, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., vol II, coll. 117-19 e ciò che ne scrivo nel mio articolo già ci­ tato, Music and Cultural Tendencies in 15th Century Italy; per il tenorista, ibid., p. 141, n. 53. Il tipo di esecuzione Autistica prevalente al tempo di Pietrobono as­ segnava ancora ad ogni esecutore una sola linea melodica. ° Parrebbe che la forma a 4 voci fosse accettata per lo strambotto ancor più pronta­ mente che per la frottola o barzelletta; tuttavia vi sono esempi di strambotti a 3 voci, oltre che nei mss sopra citati, anche nel Libro quarto (1305) della serie del Petrucci, che ha l’insolito titolo Strambotti, Ode, Frottole, Sonetti, Et modo de cantar versi latini e capitali. “ Che il duo canto-tenore fosse il primo nucleo della composizione è indicato dal fat­ to che di regola si regge musicalmente da sé, senza l’aggiunta delle altre voci; le poche eccezioni sono dovute al fatto che il compositore sapeva già che avrebbe ag­ giunto a quel nucleo almeno un contratenor bassus. Il senso accordale viene dal fatto che la prima aggiunta, il basso, è dominata dalla scelta di quei suoni che me­ glio completano gli accordi delineati dalle altre due voci; la quarta voce, il centratenor alias, arricchisce eventualmente l’armonia ma non aggiunge nulla alla sua de­ finizione. Naturalmente il nucleo fondamentale canto-tenore è presente anche nella polifonia artistica del Quattrocento nella quale tuttavia già nel tenore è presente una ricerca contrappuntistica che poi si estende anche alle altre voci e fa passare in secondo piano la definizione armonica delle combinazioni verticali. M Questa pratica è resa evidente dal titolo delle due raccolte del petrucci, Tenori e contrabassi intabulati col sopran in canto figurato per cantar e sonar col lauto (Libro primo, 1509, e Libro secundo, 1511) e inoltre dalla lettera di Bartolomeo Tromboncino pubblicata in Alfred einstein, The Italian Madrigai, Princeton 1949, I, 48. M Prose e lettere inedite cit., pp. 20 sgg. 65 Ibid., p. 21.

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“ Ibid., p. 22. * Ibid. “ I componimenti poetici ai quali è dato il nome di ballate nei Madrigali del magni­ fico Signor Luigi Cassola (Venezia 1544; ma la maggior parte dei testi devono essere considerevolmente piu antichi della date di pubblicazione) non hanno piu nulla della struttura di ballata, sia letteraria che popolaresca; invece molti dei madrigali messi in musica da Verdelot, Arcadelt e dai loro contemporanei, senza essere regolari bal­ late, ne hanno il ritorno al tema poetico iniziale a guisa di ripresa. In proposito si veda don harran, Verse Types in the Early Madrigai, in «Journal of the American Musicological Society», xxn, 1969, pp. 27 sgg. 49 Della maggior parte delle quali è da credere che fossero composte nel periodo della restaurazione medicea dopo il 1512. 70 walter H. rubs amen, The Music for « Quant1è bella giovinezza» and other Carni­ vai Songs..., in Art, Science, and History in the Renaissance, ed. da Charles S. Singleton, Baltimore 1968, pp. 163 sgg., assegna con ragione al Trionfo la musica della lauda Quanto è grande la bellezza, a 3 voci in serafino razzi, Libro Primo delle Laudi Spirituali (Firenze 1563), a 2 sole voci nel ms Firenze, Biblioteca Na­ zionale, Rossi-Cassigoli 395, f. (datato 1522), che in precedenza era stato sug­ gerito provenisse dalla Canzone delle Forese pure del Magnifico. Già prima del Rubsamen, J. J. Galiucci era arrivato alla stessa conclusione nella dissertazione ine­ dita citata piu sopra, nota 47. rubs amen, The Music for « Quant1è bella giovinez­ za» cit. p. 171, riproduce l’iscrizione apposta al testo del Trionfo nel ms Firenze, Biblioteca Nazionale, Magi. VII, 1225, f. 45, «Chantjona chonposta dal magnifico lorenzo de medici che questo charnascale fece fare el trionfo de bacho dove Canta­ vano l’infrascritta chan^one Composte da leu to: fu choxe bellissime», dalla quale viene confermato, a mio parere, che soltanto la parte superiore era cantata (proba­ bilmente in alternazione tra solista e coro) e le altre sonate. Ibid., al Trionfo è asse­ gnata la data 1489 (che forse diviene 145)0 nel computo moderno). 71 La restaurazione della musica di Ben venga maggio dalla lauda Ecco il Messia è pure opera di J. J. Galiucci (vedi nota precedente), da razzi, Libro Primo delle Laudi Spirituali, cit. f. 15. La stampa delle Laudi fatte e composte da più persone spirituali... (Firenze, i° marzo 1485-86) contiene varie altre laudi da cantare sulla musica di Ben venga maggio, di Feo Beicari, Francesco d’Albizo e Lucrezia dei Me­ dici; Ecco il Messia è tra quelle di Lucrezia dei Medici e dovette quindi essere scritte prima del 1482, anno di morte della madre del Magnifico. Ben venga maggio è dunque coevo, se non anteriore all’Or/eo. La frase sugli strumenti è di Paolo Cor­ tese, riferite da lui a strumenti che egli chiama classicamente «barbiti e pentades»; vedi il mio articolo già cit., Music and Cultural Tendencies, pp. 149, 153 e 157. 72 Vedi la nota 56. 75 Da una lettera latina del 1459 che mostra la buona cultura dell’Ugolini, riprodotta da 1. del lungo, Florentia cit., p. 309. 74 Già pubblicata in rudolph schwartz, Ottaviano Petrucci, Frottole, Buch I und IV, Leipzig 1935, p. 34, e in Le Frottole nell'edizione principe di Ottaviano Petruc­ ci, trascr. di Gaetano Cesari, ed. da Raffaello Monterosso, vol. I, Cremona 1954, p. 35. La precede un’altra ode Ialina pure composta da Pesenti su un testo attribuito al Tebaldeo, che è indicazione dell’appartenenza del musicista alla cerchia ferrarese o mantovana. La mia trascrizione, come quelle che seguiranno, riduce i valori delle note a metà dell’originale e dispone le stanghette di battuta non in base al metro, ma in base a quella che a me pare la piu probabile interpretazione del ritmo. Allo stesso criterio si conforma la disposizione del testo sotto le note (e il suggerimento di possibili ripetizioni di parole). Inoltre per le musiche che si suppongono cantate sul liuto, la lira o simili strumenti, è omesso il contratenor altus (cfr. la precedente nota 62). 75 Fu inclusa nelle Frottole libro tertio di andrea antico (Roma 1517?) che pure contiene un’altra intonazione di Integer vitae ad opera di Bartolomeo Tromboncino.

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L’intera raccolta fu pubblicata modernamente da A. Einstein, sulla base della ri­ stampa Canzoni, Sonetti, Strambotti et Frottole, Libro tertio (Andrea Antico, 1517), Northampton 1941. 74 Dà una accurata descrizione e discussione del suo contenuto nanie bridgman, Un manuscrit italien du début du xvie siècle à la Bibliothèque Nationale, in «Annalcs Musicologiques», 1, 1953, pp. 177 sgg. 77 Ibid., pp. 185 e 186. n Ne è dato un facsimile ad illustrazione di Walter h. rubsamen, Frottola, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., vói. IV, coll. 125 e 126. w Ne diede per primo il contenuto e le concordanze knud jeppesen, t)ber einige unbekannte Frottolenhandschriften, in «Acta musicologica», xr, 1939, pp. 81 sgg. Trascrizioni e commenti sulle composizioni che esso contiene sono offerti da remo giazotto, Onde musicali nella corrente poetica di Serafino dall *Aquila, in Musurgia nova, Milano 1959, pp. 3-119. La musica dello strambotto di Baccio Ugolini è ivi data alle pp. 36 e 37. Non mi è stato possibile controllare la fonte dell’attribuzione del testo all’Ugolini. 80 De cardinalatu, III, f. 164V. 81 È inclusa nel Libro XII della raccolta delle lettere e può riferirsi, al piu prestò, al viaggio per Roma compiuto nel 1488 per le nozze di Piero dei Medici con Alfon­ sina Orsini. 82 L’espressione ricorda quella usata dal Poliziano nei riguardi di Piero dei Medici già riferita nella nota 54. 81 La lettera del Poliziano non è l’unico testo che descrive una tale intensità « reci­ tativa o rappresentativa». Qualche decennio prima Antonio di Guido, un cantimpanca fiorentino non privo di cultura e di doti poetiche, aveva stupito dotti ascol­ tatori per la vividità che col suo canto riusciva a dare a racconti che alla semplice lettura riuscivano insignificanti. Più recenti di quelli del Poliziano sono invece gli elogi tributati da Baldassare Castiglione al cantore e compositore Bidon per la sua maniera di porgere «tanto artificiosa, pronta, veemente, concitata, e di cosi varie melodie, che i spiriti di chi ode tutti si commovono e s’infiammano...» (Il Cortegiano I xxxvii). E Angelo Colocci scriveva di Serafino Aquilano: «Li concedeno el proferir singulare, ma che cercava concordare le parole al leuto per più impri­ merle nello animo delle genti & per hor inflamare horà remectere, come Gracco ne’ senati la sua lyra adaptava» (Apologia, in Le rime di Serafino de' Ciminelli dal­ l'Aquila, Bologna 1894, p. 27).

Teatro classicheggiante, intermedi e musiche frottolistiche

Si sogliono chiamare drammi mescidati un certo gruppo di lavori teatrali degli ultimi due decenni del Quattrocento e dei primi del Cin­ quecento le cui rappresentazioni furono sporadicamente associate a quelle ben più frequenti di commedie latine tradotte in volgare. Rien­ trano nel loro numero azioni mitologiche come la Fabula de Caephalo di Niccolò da Correggio e la Danae di Baldassare Taccone, e dramma­ tizzazioni di racconti classici come il Timone di Matteo Maria Boiardo e la Comedia de Timon greco di Galeotto del Carretto, entrambi deri­ vati da un racconto di Luciano, o le Nozze di Psiche e Cupidine tratte dal racconto di Apuleio pure da Galeotto del Carretto. Il quale inol­ tre ricorse a Livio per una sedicente tragedia, la Sofonisba, dedicata, come già il Timon greco, a Isabella d’Este Gonzaga. Vi si aggiungono azioni derivate da novelle del Boccaccio, come il Filostrato e Panala di Antonio Cammelli detto il Pistoia (dedicato al duca di Ferrara, Erco­ le I d’Este, e inviato dall’autore anche alla figlia marchesa di Mantova) o la Virginia di Bernardo Accolti Furono detti drammi mescidati per­ ché, spiegò chi per primo usò questo nome, i loro autori «tentarono di piegare, per quanto era possibile, a una certa regolarità classica o al­ meno a qualche apparenza di classicismo le libere fogge del teatro sacro popolare»’. In altri termini, gli autori seppero osservare e imitare al­ cune caratteristiche esteriori dei drammi classici: il prologo, l’esposi­ zione dell’argomento, la licenza e la divisione in atti, normalmente in numero di cinque. Ma continuarono a dipendere dai modi delle rappre­ sentazioni religiose nella scelta dei metri, nell’uso della scena multipla, e nella condotta dell’intreccio, che ancora non ha nessun rispetto per le esigenze di unità di azione e di tempo. Non è il caso di ripetere qui le riserve che ho già avanzate a propo­ sito dell’Orfeo del Poliziano sulla presunta dipendenza da «le fogge del teatro sacro popolare», basata su caratteristiche che sono, se mai, proprie di tutta la mentalità teatrale dell’epoca, e non prerogativa del solo teatro sacro o di quello profano. Mi pare invece che sia da riesami­

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nare il concetto di classicismo del quale i drammi mescidati difettereb­ bero. Non riesco infatti a vedere come si possa legittimamente ricerca­ re in questa fase di attività teatrale una «regolarità classica» della qua­ le le idee fondamentali e le norme pratiche di applicazione si andarono chiarendo gradatamente - quando non furono addirittura inventate nel corso di tre o quattro decenni ancora a venire. A ben riflettere mi pare che si debba considerare mescidata tutta la fase di attività teatrale che prende le mosse dalla nuova voga di rappresentazioni plautine o terenziane instaurata a Ferrara nel i486, includendovi naturalmente anche quelle rappresentazioni ferraresi. Si partì infatti da una cono­ scenza puramente libresca del repertorio classico e si applicarono ad esso criteri non meno ibridi di quelli che guidavano la composizione dei nuovi drammi; e soltanto attraverso insostituibili preziose espe­ rienze pratiche di rappresentazione si cominciarono a vedere nuovi problemi e si sentì la necessità di riflettere sui modi della composizio­ ne e rappresentazione teatrale e di approfondire lo studio dei testi an­ tichi sul teatro e i suoi generi. Il 25 gennaio i486 a Ferrara, ad iniziativa del duca Ercole I, «fu recitata la comedia di Menechini, che fu beletissima e piacevole, in lo cortile novo de la corte Ducale... E durò insino a l’avemaria, zoè 4 hore, e infine fu facto fogo in uno arboro o zirandola, che in uno medemo tempo butò piu razi de foco in aere, alti, cum gran strido e vampa stu­ pendissima. Et cusì cum letitia, applauso e commendatione, se finì la comedia, dove intervene de le persone dexemilia, a vedere con tacitur­ nità». Così riferisce il diarista Bernardino Zambotti’; e un altro cro­ nista ferrarese gli fa eco descrivendo anch’egli il palcoscenico con «ca­ se merlade», sul quale fu rappresentata «una facezia di Plauto», e ag­ giungendo di nuovo un solo particolare: «poi venne una fusta... e tra­ versò il cortile con dieci persone dentro con remi e vela del naturale» ’. Ai Menechini (traduzione dei Menaechmi) seguì nel 1487 VAmphitrione pure di Plauto, e tra i due si insinuò anche la Favola di Cefalo di Niccolò da Correggio. Ma Menechini e Amphitrione incontrarono tal­ mente che furono piu e più volte replicati per molti anni; non così ac­ cadde del Cefalo e della maggior parte dei cosidetti drammi mescidati, 1 quali, quando pure giunsero ad essere rappresentati, furono presto lasciati cadere. La fama delle rappresentazioni ferraresi ebbe rapida dif­ fusione e il loro esempio fu presto seguito nei maggiori centri culturali italiani (eccettuati temporaneamente, per avverse condizioni politiche e sociali, Firenze e Napoli) anche perché agli spettacoli della corte estense assistettero spesso personaggi appartenenti ad altre corti. Fin dal 1486, e poi spesso anche dopo il suo matrimonio con Isabella d’Este,

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ne fu assiduo spettatore il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga. Frequentò spesso Ferrara anche il protonotario apostolico e vescovo­ eletto Ludovico Gonzaga, zio del marchese, il quale a sua volta si fece promotore di spettacoli nella sua residenza di Gazzuolo. Nel carneva­ le del 1491 le due solite commedie plautine furono date a Ferrara in­ sieme all’A^dria di Terenzio per festeggiare le nozze del quattordicen­ ne principe Alfonso d’Este con la quindicenne Anna Sforza; del grup­ po di gentiluomini milanesi che aveva scortato la sposa faceva parte anche Giovanni Francesco Sanseverino, conte di Cajazzo, il quale nel 1496 si fece promotore di un altro dei drammi mescidati, la Danae del Taccone, «comedia rappresentata in casa del signor conte di Cajazzo allo illustrissimo signor Duca [Ludovico il Moro] e populo di Milano». Ma già prima della rappresentazione della Danae lo Sforza, marito di Beatrice d’Este, aveva visitato Ferrara nel 1493 e aveva assistito a rap­ presentazioni di commedie (inclusi, ancora una volta, i Menechini); e il suocero gli restituì la visita tre mesi dopo recandosi a Milano con personale e attrezzature per la rappresentazione di tre commedie (Cap­ tivi, Mercator e Penulo). La discesa in Italia di Carlo Vili e le agitate vicende guerresche che ne derivarono interruppero per qualche tempo le rappresentazioni ferraresi. Esse furono però riprese con nuovo fer­ vore nel 1499, nel 1501, e, con particolare solennità, in occasione delle nuove nozze di Alfonso d’Este con Lucrezia Borgia nel 1502 ’. La loro novità principale fu l’essere concepite non più come appen­ dice ed ornamento ad una cerimonia o trattenimento della corte, ma come una funzione a sé stante e per di più, almeno nominalmente, pub­ blica. Ho già sottolineato il riflesso di questo concetto nel titolo della milanese Danae. Ma esso parte da Ferrara: in una operetta intitolata Spectacula, il letterato e astrologo che fu il principale consigliere di Ercole I d’Este per le rappresentazioni ferraresi, elogia enfaticamente la «Celsitudine» del suo duca, «la quale [Celsitudine] cum tanti et tan­ to ordinati spectaculi congregi questo tuo fidissimo et dolce populo: lo delecti: lo ammaestri in questo suo mondano vivere: lo jnciti al studio et al farsi docti homini ad honore et beneficio non mediocre de tutta la Republica» ‘. Gli danno la conferma i cronisti ferraresi registrando gli spettacoli del i486 e del 1487 con insolita dovizia di particolari (che poi si andrà attenuando man mano che si attenuerà la novità della co­ sa), dando stime esagerate del numero degli spettatori presenti, ed elogiandone, malgrado la moltitudine, l’essere stati «a vedere con ta­ citurnità». Rinasce dunque, almeno in superficie, l’idea del teatro come funzione della polis, e ad essa si associa quella, ben più difficile da rea­ lizzare, di un edificio esclusivamente destinato alla celebrazione di quel­

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la funzione. L’operetta del Prisciano è infatti essenzialmente uno stu­ dio della forma dei teatri antichi greci e romani; ma le realizzazioni pratiche per il momento erano soluzioni di ripiego che coincidevano con le strutture dei teatri antichi soltanto nell’essere il luogo prescelto per la rappresentazione o scoperto o coperto soltanto parzialmente da un velario. Il 25 gennaio 1487 un violento temporale disturbò, e per la maggior parte degli spettatori interruppe, la rappresentazione dell'Atnphitrione, che si svolgeva al solito nel cortile del palazzo ducale; l’interruzione mostrò che la fedeltà all’ideale dei modelli antichi non si accordava bene con l’esigenza del costume contemporaneo che richie­ deva che le rappresentazioni, tranne circostanze speciali, fossero date soprattutto di carnevale, cioè nel cuore dell’inverno. L’Amphitrione fu replicato e portato a termine senza inconvenienti il 5 febbraio, ma negli anni seguenti gli spettacoli furono dati nella sala grande del ca­ stello, o, occorrendo, in una sala ancor piu capace del Palazzo della Ragione’. Non spetta a me seguire l’idea del teatro come edificio, polarizzata ora verso l’interpretazione tutt’altro che facile dei dati desunti dai mo­ numenti antichi o dai trattati classici di architettura, ora dal bisogno di adattare le nuove strutture a nuove concezioni e condizioni di vita. Mi limiterò dunque a constatare che nella fase iniziale si cercò almeno che gli spettatori, stando all’interno del luogo nel quale si svolgeva la rappresentazione, avessero l’illusione di trovarsi in un edificio apposi­ tamente creato, una illusione che ricorda quella della Camera degli Sposi di Mantegna dalla quale abbiamo preso le mosse nel capitolo pre­ cedente. La descrizione poetica dell’apparato del i486 fatta da Batti­ sta Guarini fa vedere che l’aspetto consueto del cortile del castello era profondamente alterato, oltre che dalle strutture della scena, dalle gra­ dinate per gli spettatori e da parati che dissimulavano tutti gli accessi: Et remis puppim et velo sine fluctibus actam Vidimus in portus nate, Epidamne, tui; Vidimus effictam celsis cum mccnibus urbem, Structaque per latas tecta superba vias. Ardua creverunt gradis spectacula multis Velaruntque omnes stragula pietà foros '.

Anche i cronisti descrivono i parati e i gradi che rialzandosi verso la parete opposta alla scena, erano destinati ad accogliere gli spettatori di maggior riguardo, «lo illustrissimo duca nostro, il marchese de Mantoa, Fracasso fiolo del signore Roberto Sanseverino e dui ambassatori del duca di Milano e molti altri cavalieri e zintilhomini forastieri, e anche citadini e doctori e scholari». La maggior parte dei «dexemilia»

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si accalcava scomodamente in piedi nello spa2io intermedio tra gradi e scena; e forse anche per questo le dame erano poste bene al sicuro «a le fenestre de le camere et suzo il pozolo novo» Ma il documento piu suggestivo della tendenza al trompe-l’ceil dell’edificio teatrale non è ferrarese ma mantovano, o almeno inviato da Mantova nel 1501 ad Ercole d’Este da un suo gentiluomo; è la descrizione, non sempre facile da interpretare, «de lo apparato facto da questo Ill.mo Sig. Marchese [Francesco Gonzaga che, rivaleggiando anch’egli col suocero, in quel­ l’anno faceva rappresentare quattro lavori teatrali in altrettanti giorni del febbraio] sumptuosissimo et meritamente da essere equiperato ad qual se voglia temporaneo theatro delli antiqui o moderni» Stando alla descrizione la sala prescelta era decorata in modo da apparire cin­ ta tutt’intorno da archi, «con colonne ben conrispondenti alla largheza et alteza de dicti archi: le base et capitelli pomposissimamente con finissimi colori penti, et de fogliami ornati, representavano alla mente un edificio eterno ed antiquo, pieno de delectatione». Gli archi di una delle pareti maggiori erano ornati «delli sei quadri del Cesareo trium­ ph© per man del singulare Mantengha»", e sugli architravi «erano piu alte statue argentate, aurate et de piu colorj metallici, parte tronche, parte integre, che assai ornavano quel loco: poi ultimo era il cielo de panno torchino, stellato con quelli segni che quella sera correvano nel nostro hemisperio...» Potrebbe bastare, ma altri particolari rendono questa descrizione particolarmente interessante. «Al jongere del angulo de un de grandi et minorj lati, se vedevano quactro altissime co­ lonne colle basi orbiculate, le quali sustentavano quactro venti princi­ pali: fra loro era una grocta, benché facta ad arte, tamen naturalissi­ ma: sopra quella era un ciel grande fulgentissimo de vari] lumi, in mo­ do de lucidissime stelle, con una artificiata rota de segni, al moto de’ quali girava mo il sole, mo la luna nelle case proprie: dentro era la rota de Fortuna con soi tempi: regno, regnavi, regnabo-. in mezzo resideva la dea aurea con un sceptro con un delphin». A quale scopo fos­ sero destinati i segni astrologici e la grotta di Fortuna non sappiamo. Della scena è detto soltanto che ai suoi piedi erano disposti altri dipinti del Mantegna, i Trionfi del Petrarca dei quali non si ha nessuna altra notizia, e che «dentro nel prospecto eran panni d’oro et alcune verdu­ re, si come le recitazioni recerchavano». Si direbbe dunque che l’ambientazione dell’azione fosse sommariamente accennata e che tutto lo sforzo di creare una illusione di realtà fosse concentrato nella grotta «naturalissima» e nella suggestione dell’edificio «eterno ed antiquo». Il fatto che la scena mantovana era evidentemente divisa in due segmenti perpendicolari l’uno all’altro, con all’angolo di incontro la

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grotta di Fortuna, suggerisce che si trattasse — per una tragedia e tre commedie classiche, e ancora nel 1501 - di una scena multipla. Il che non sorprende, perché non è l’unica indicazione di un tale modo di rappresentarle. I versi dianzi citati del Guarini e le descrizioni dei cro­ nisti suggeriscono che anche la scena dei Menechini si svolgesse su due livelli, come quelli rimproverati all’uno e all’altro Tintone-, il livello della città dalle case merlate in alto, e in basso quello del porto al quale arrivava la fusta. Lo stesso può dirsi dell’Amphitrione, per il quale alla scena di «città» che era servita in precedenza per il Cefalo del Correg­ gio fu aggiunto «uno celo alto a uno cantone verso la torre de l’arlogio con lampade che ardevano a li lochi debiti de drio de tele negre subtile e radiaveno in modo de stelle; e ge herano fanzuli picoli vestiti de bian­ co in forma de li pianeti,... il quale celo operò a tempo per quello che hera necessario per la comedia, con commendatione de tuti li homini in­ telligenti» u. Questo antecedente del Paradiso di Leonardo da Vinci e della grotta mantovana coi segni zodiacali del 1501 era richiesto dalla scena finale della commedia, in cui Giove appare e profetizza sui due gemelli che nasceranno da Alcmena (vv. 1131 sgg. del testo latino). Il testo stesso delle commedie, del resto, era recitato in volgare e le traduzioni erano condotte con una notevole libertà, dettata oltre che da necessità di rima, dalla convenienza di sostituire termini e usanze moderni in luogo di quelli antichi che la maggior parte degli spettatori non avrebbero saputo comprendere. Prevalse in sostanza l’atteggia­ mento di Battista Guarini, il quale, essendovisi adoperato fin dal 1479, definiva cosi il criterio delle sue traduzioni: «Io mi forcio andare die­ tro ad le parole del testo, benché in certi luoghi mi pare melgio pilgiare lo tenore e formargli uno buono soprano»IJ. In definitiva a queste tra­ duzioni si applicavano procedimenti non molto diversi da quelli segui­ ti nei drammi mescidati: erano condotte come quelli prevalentemente nei metri dell’ottava o della terza rima quello ben lungi dall’essere pre­ rogativa esclusiva delle rappresentazioni religiose, questo fondamental­ mente estraneo a quelle rappresentazioni; e, fatta eccezione per i ca­ ratteri formali del prologo, della licenza e della divisione in atti, erano svolte senza consapevolezza alcuna di regolarità classica, se per essa si intendono le «classiche» unità di luogo, di tempo e di azione. Volente o nolente il Poliziano - a mio parere più volente che no­ lente - la sua Tabula di Orfeo dovette essere conosciuta per tempo se per tempo cominciò a servire di modello ad alcuni dei drammi mesci­ dati, due dei quali ne sono rielaborazioni ". Uno di essi, anzi, la Orphei tragoedia, sulla quale sono stati versati fiumi di inchiostro, non è altro propriamente che la Tabula stessa, ampliata in qualche punto, abbre-

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vista altrove, ma soprattutto paludata del titolo di tragoedia e divisa in cinque atti che anch’essi si fregiano di titoli e di didascalie in lati­ no L’Actar primus corrisponde all’egloga della favola ed è intitolato Pastoricus. Il secondo atto Nymphas habet, perché come nella favola vi si scorge Euridice fuggente, e vi è aggiunto inoltre un coro di Driadi che ne annunziano e lamentano la fine. Una delle Driadi si assume an­ che l’incarico di portare l’annuncio ad Orfeo, e lo fa (con le parole affi­ date nella Fabula a un pastore) nell ’Actus tertius, che è detto Heroicus per i canti laudatori di Orfeo (esaltazioni di personaggi ai quali si attri­ buiscono qualità enfaticamente dette eroiche) e per la sua pronta risolu­ zione di tentare il riscatto di Euridice. Insieme al precedente questo atto è quello che presenta le più notevoli alterazioni, tra le quali è la sostitu­ zione dell’ode saffica in onore del cardinale Gonzaga con due soli di­ stici latini (l’unico accorciamento), derivati da Claudiano e inneggianti ad Ercole, il dio e il duca; vi è introdotto inoltre un satiro che è spet­ tatore e commentatore del dolore di Orfeo. Il quarto atto, all’inferno, è detto Necromanticus, e il quinto Bacchanalis', l’uno e l’altro divergo­ no in minimi particolari dal testo del Poliziano. Riceve un titolo latino anche l’introduzione, rubricata Argumentum che potrebbe anche esse­ re il nome del personaggio astratto che doveva recitarne le due ottave in luogo di Mercurio e del pastore schiavone. I due versi tolti a que­ st’ultimo sono opportunamente modificati per ribadire la principale innovazione del rifacimento: Or stia ciascuno a tutti gli atti intento, che cinque sono, e questo è l’argomento.

In verità non si può dire che le modifiche introdotte avessero altro sco­ po che quello di aggiungere qualche nuovo elemento di interesse visivo (Driadi e fauno) e un nuovo brano musicale (il coro delle Driadi) e soprattutto di far si che divenisse possibile la divisione in cinque atti, peraltro brevissimi, dei quali soltanto l’ultimo è concluso da un coro “. Certamente le parti aggiunte, circa un centinaio di versi, non intese­ ro correggere «imperfezioni» dell’originale, perché, mentre eliminano qualcuna delle transizioni più brusche dell’azione, creano altrove altri ingorghi. Antonio Tebaldeo è generalmente indicato come il più pro­ babile autore del rifacimento; ma non è da escludere che esso sia stato l’opera di qualcun altro dei poeti della corte di Ferrara; di Niccolò da Correggio, per esempio; o anche di Matteo Maria Boiardo, se si pone mente come nel ritocco della versificazione sono ripresi e sviluppati certi moduli metrici inconsueti che il Poliziano aveva appena accen­ nati”. Chiunque fosse deve avervi posto mano prima del i486, prima

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cioè che le rappresentazioni ferraresi dessero allo spettacolo teatrale una nuova impronta e una nuova dimensione delle quali non c’è ancora segno nella Orphei tragoedia. Del secondo rifacimento dell’Or/eo, la Favola di Orfeo e Aristeo, fu autore un anonimo letterato, forse umbro di origine, ma quasi certa­ mente anch’egli operante a Ferrara Il quale si rese conto che la ma­ teria della Fabula era troppo esigua per il nuovo tipo di spettacoli tea­ trali; se ne servi dunque incorporandola nel secondo e terzo atto del suo dramma e aggiungendovi altri tre atti, uno antecedente e due con­ seguenti, derivati dagli stessi racconti di Ovidio e di Virgilio ai quali aveva attinto il Poliziano. Nel primo atto Mercurio, inventore della cetra, la dà ad Apollo per il figlio appena nato di questi e della musa Calliope; ma entro la fine dell’atto Orfeo è già tanto cresciuto di anni e di fama da ottenere che Diana consenta alle sue nozze con Euridice. L’atto si conclude con un coro a Imeneo. Il secondo aito corrisponde ai primi due della Orphei tragoedia e si conclude con un coro, Piangiam, Ninfe, il nostro male, molto simile al coro delle Driadi della tragoedia, indicando che l’autore conosceva anche (o forse soltanto) il precedente rifacimento. Il terzo atto include il resto dell’azione dell’Or/eo e si conclude con una Canzona de le Rachidi che è una ripetizione quasi letterale del Coro delle Baccanti del Poliziano. Il quarto atto è accen­ trato sul dolore di Aristeo. E il quinto su racconti di prodigi: le Menadi cangiate in tronchi d’albero, e un drago che voleva divorare il capo d’Orfeo, mutato in sasso; il capo stesso, portato da Apollo in cielo, diviene una stella. Di pari passo all’arricchimento della materia svolta e alle dimensio­ ni molto più ampie date agli atti va notato un altro notevole cambia­ mento rispetto alla tragoedia. Questa aveva conservate intatte tutte le parti della Fabula del Poliziano che presumibilmente erano destinate al canto, e vi aveva aggiunto anche un nuovo brano corale; sicché la mu­ sica continuava ad avere funzione preminente, ed infatti anche le nuove didascalie latine suggeriscono spesso l’esecuzione cantata. Nella Favola di Orfeo e Aristeo l’unico personaggio al quale sia assegnato esplicita­ mente un brano lirico è Aristeo; la Canzona di Aristeo del secondo atto è un perfetto equivalente di quella del Poliziano ed ha infatti lo stesso metro e un inizio quasi uguale: S’io canto, i fiumi e omni vento tace: solo a la Nimpha mia odir non piace.

Dovrebbe cantare, e probabilmente cantò, anche Orfeo, ma non ne dànno specifica indicazione né didascalie né metro; anche le parti cor­

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rispondenti alle ottave, o strambotti, del Poliziano, sono tutte converse (pur con ampie evidentissime reminiscenze) in terza rima, che è il me­ tro prevalenteJ’. Sembra dunque evidente che allo sviluppo più ampio della rappresentazione corrisponda anche una esecuzione prevalente­ mente recitata durante tutto il corso degli atti. In compenso Fautore della Favola di Orfeo e Aristeo fu molto più solerte di quello della tragoedia nelFassegnare alla fine di ogni atto un brano corale che ha la forma metrica di una ballata di ottonari. Nella maggior parte dei casi la conclusione corale è intitolata Canzona de le Nitnphe; il terzo atto ha, come si è già detto, una Canzona de le Bachidi probabilmente an­ che danzata; il quinto non ha né coro né licenza, forse perché il mano­ scritto è incompleto (infatti alcune pagine furono lasciate in bianco co­ me se si sperasse di aggiungervi le parti mancanti). Cori concludono gli atti della Favola di Cefalo di Niccolò da Cor­ reggio, rappresentata il 21 gennaio 148720. Vi accenna già una ottava del prologo, spesso citata come un primo accenno del teorizzare, se non altro, sulla distinzione dei generi teatrali: Non vi do questa già per comedìa, ché in tutto non se observa il modo loro; non voglio la crediate tragedia, se ben de Ninfe gli vedrete il coro. Fabula o historia quale essa si sia, io ve la dono e non per precio d’oro. Di quel che segue Fargomento è questo; silentio tutti, e intendereti il resto.

Riecheggia questi versi il diarista ferrarese Bernardino Zambotti dicen­ do del Cefalo-. «E tal festa fu facta con soni de diversi instrumenti intermedii a li acti, perché fu facta in modo de sciena o tragedia»21. Già da allora si vedeva nel coro un carattere distintivo della tragedia, ma si trovava conveniente applicarlo anche alle favole o drammi mescidati (benché fossero spesso chiamati commedie, come abbiamo visto per la Danae}, che cosi tendono ad assumere la funzione di genere medio tra commedia e tragedia che sarà poi caratteristica anche, delle pastorali cinquecentesche. Nel Cefalo, come già nella Favola di Orfeo e Aristeo, il compito di introdurre canti e danze per interrompere la continua re­ citazione degli atti è affidato prevalentemente, ma non esclusivamente, ad un coro di Ninfe. Alla fine del primo atto vi si aggiunge Aurora, dicendo alle ninfe: «Vui cantate, io ballerò»; alla fine del secondo atto il coro è sostituito da una egloga di due pastori (in canto alterno?); e alla fine del terzo un fauno e i suoi confratelli si mettono a suonare e ballare «cum strani et disusati instrumenti».

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Nelle parole più sopra citate dello Zambotti compare per la prima volta, con funzione di aggettivo, un termine classicheggiante che il Cin­ quecento preferì adoperare come sostantivo. Non è chiaro se i suoni «in­ termedi! a li acti» ai quali il cronista si riferisce fossero i cori del Cefalo o intermedi introdotti nella rappresentazione in aggiunta ai cori, come avvenne abbastanza spesso anche per le tragedie cinquecentesche n. Cer­ to è che fin dall’inizio delle rappresentazioni ferraresi le commedie di Plauto furono divise in atti (quattordici anni prima che tale divisione fosse sancita per Plauto dall’edizione dei testi latini fatta da Giovanni Battista Pio nel 1500), e che la divisione fu resa evidente da interruzio­ ni dell’azione principale - ma non della rappresentazione, dacché l’in­ tervallo fu colmato da intermedi. I cronisti ferraresi li chiamarono quasi sempre feste («fra li acti forno facte alcune feste»), indicando una volta di più che tale denominazione non era per niente ristretta alle rappre­ sentazioni sacre (allo Zambotti serve anche infatti per risolvere i dub­ bi del Correggio tra comedia e tragedia). Pure frequentemente usati sullo scorcio del Quattrocento furono i termini intramesse, tramesse> tramezzi e introdutti (che tutti ricordano gli entremets conviviali in­ trodotti nella sala del banchetto). Si potrebbe dire, come in un raccon­ to mitologico, che le feste - fossero esse commedie o drammi mescida­ ti - crebbero oltre misura e divorarono gli entremets dai quali avevano preso origine; ma questi continuarono a vivere entro di loro come in­ termedi, e non tardarono a prendersi la loro rivincita. La maggior parte delle descrizioni di intermedi sono fornite da lettere che quasi sempre accennano appena di sfuggita allo spettacolo principale e si dilungano invece sui suoi accessori. Il destinatario della lettera probabilmente conosceva già il testo principale da precedenti rappresentazioni o dalla lettura in manoscritti o stampe; ma non si può evitare il sospetto che ben presto gli accessori, gli intermedi, cominciassero a destare negli spettatori un interesse ancor maggiore di quello suscitato dall’azione alla quale si accompagnavano. Il sospetto diviene poi certezza verso la metà del Cinquecento per esplicite e ripetute asserzioni di contempo­ ranei. In contrasto, i testi pubblicati di commedie, tragedie, egloghe e simili contengono raramente indicazioni di intermedi; le poche volte che queste sono presenti è solo per registrare in che modo il lavoro drammatico era stato presentato in una speciale occasione, ma non hanno carattere di prescrizione per future rappresentazioni. Il più del­ le volte non ve ne è nessuno accenno, non perché la rappresentazione potesse farne a meno, ma perché si trattava di un elemento variabile, dipendente dal gusto, dalla disponibilità di mezzi e dalla capacità di realizzazione di chi volesse eventualmente allestire una rappresentazio­

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ne. Già nelle rappresentazioni ferraresi del 1499 s* diede il caso di una commedia, VEunuco di Terenzio, che fu replicata con intermedi diffe­ renti a soli quattro giorni di distanza dalla rappresentazione prece­ dente23. Un raro esempio di indicazioni non descrittive ma prescrittive è quello offerto da una anonima Farsa recitata agli Eccelsi Signori di Fi­ renze in una stampa fiorentina senza data che deve risalire al periodo di esilio dei Medici; anche l’eccezione conferma la regola, perché le dida­ scalie poste alla fine di ciascuno dei cinque «tempi» suggeriscono gene­ ricamente la soluzione più semplice (e democratica): «suonasi o can­ tasi»24. È il tipo di intermedio che fu più tardi detto «non apparente» perché nulla avviene sulla scena, che rimane aperta ma vuota mentre da un’altra fonte si ode il suono di strumenti, o di voci, o di voci e stru­ menti insieme. Fin dall’inizio si manifestò la tendenza a far si che la fonte dei suoni fosse invisibile. Nella Danae del Taccone (Milano 1496) si parla più di una volta di strumenti «ascosi dietro a quelle macchine della scena» o di «pifari, cornamuse et altri strumenti occulti». Nella Danae (che malgrado il nome di commedia e la divisione in cinque atti, è tra i drammi mescidati più vicini ai modi delle precedenti rappresen­ tazioni allegoriche o mitologiche) la preferenza per gli intermedi non apparenti fu probabilmente dettata dal fatto che abbastanza spesso fu­ rono eseguite musiche anche nel corso degli atti; la divisione in atti do­ veva dunque essere indicata più chiaramente ricorrendo ad un interval­ lo a scena vuota, colmato dal suono di musiche nascoste. Vi furono pe­ rò anche intermedi apparenti: alla fine del secondo atto, dopo il suono dei pifferi e cornamuse, fu recitato un capitolo d’amore «da uno che portava un laberinto d’amore, per intermediare»; alla fine dell’atto se­ guente vi fu un capitolo, anch’esso recitato, «di uno che andava semi­ nando», ovvia allusione all’azione precedente che si era conclusa con la leggendaria pioggia d’oro: «... se vide un pezo piovere oro dal cielo, e Giove discomparve visibilmente ( ! ? ), e qui sonorono tanti {strumenti, che è cosa inumerabile e incredibile»25. In altri casi è difficile determi­ nare che cosa facesse preferire gli intermedi non apparenti; e benché essi fossero in complesso la soluzione più facile non sempre è da rite­ nere che fosse questa la ragione della scelta. Le prime rappresentazioni ferraresi alternarono i due tipi, ma più tardi prevalsero gli intermedi apparenti. A Urbino nel 1513 la prima rappresentazione della Calan­ dria di Bernardo Bibbiena ebbe «intromesse» apparenti; ma un’altra commedia recitata sulla stessa scena (che fu forse uno dei primi esempi di scena prospettica) ebbe «musiche bizzarre... tutte nascoste e in diver­ si lochi»2*. E per la rappresentazione dei Suppositi di Ludovico Ario­

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sto, dati a Roma nel 1519 alla presenza di Leone X, «per ogni acto se li intermediò una musica di pifari, di cornamusi, di due cornetti, di vio­ le et leuti,. dell’organetto che è tanto variato di voce, che donò al Papa Monsignore illustrissimo di bona memoria [il cardinale Luigi d’Aragona, morto al principio di quell’anno] et insieme vi era un flauto, et una voce che molto bene si commendò: vi fu anche un concerto di voci in musica, che non comparve per mio juditio cosi bene come le altre musiche. L’ultimo intermedio fu la moresca, che si rappresentò la fa­ vola di Gorgon, et fu assai bella»27. L’informatore ancora rispecchia la preferenza umanistica per il canto di voci soliste e il suono di strumen­ ti e la scarsa simpatia per composizioni piu rigorosamente polifoniche, il «concerto di voci in musica». Intermedi apparenti sono ovviamente quelli nei quali qualche cosa accade che sia visibile e non puramente audibile - ed occorre aver sem­ pre presente a questo riguardo che la linea di demarcazione tra scena e teatro era ancora ben lontana dall’essere tracciata in modo ben defi­ nito. Le indicazioni piu antiche riguardano intermedi finali, ai quali in verità non spetterebbe il nome di intermedi che pure fu loro dato. Do­ po i Menechini del i486 vi fu la girandola di fuoco e i razzi luminosi; dopo VAmphilrione, il 2 febbraio 1487, «Veneno tutte le forteze de Hercule per suxo il tribunale..., zoè Anteo, le Colonne de Hercule, el Tauro, le Amazone, Centauro, lo Apro, Idra, Cacho con le vache tirate a drieto per la coda e altre molte» Questa processione finale dell’Awphitrione, in realtà un ampliamento della scena dell’apparizione di Gio­ ve e della sua profezia, non fu piu ripetuta nelle repliche frequenti che la commedia ebbe in anni successivi; ma continuò a fare effetto sul pub­ blico la scena finale «con uno celo se apri in tondo in la sumitade de la sala»3’. Della apparizione di Giove si era fatto un vero e proprio in­ termedio finale con musiche, che veniva ricordato in un sol tratto di penna «con altre feste intermedie a tu ti li acti, beatissime». Nel 1491 una buffonata servi come intermedio finale ai Menechini \ «El fine de la comedia fu che... esso Menechino fece mettere alla crida tutti li soi beni, dicendo di volerli dare per millesetecento onze d’oro con la mogliera sopra el pretio, et qui epso trombetta confortò ognuno che avesse mogliere retrosa et che non li piacesse, a fare el medesimo» M. Una pos­ sibile spiegazione dell’uso di questi intermedi finali è suggerita a pro­ posito di una rappresentazione ferrarese dell’Asinaria (del 1500), da una lettera nella quale è accennato come «uno di essi tramezi fu pre­ sentato nel fine e doppo el fine di essa comoedia, acciò che fusse freno a ritenere il popullo che cum tanto tumulto non sorgiesse a disordinato rumore come suole»31. Qualunque ne fosse il pretesto, l’aggiunta del­

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l’intermedio finale e quella di un intermedio premesso o associato al prologo abbastanza spesso fecero salire a sei il numero normale degli in­ termedi, in luogo dei quattro che sarebbero stati sufficienti a segnare la divisione in cinque atti. Testimonio delFimportanza assunta dagli intermedi ancor prima del­ l’inizio del secolo xvi è un certo Giano Pencaro, regolare informatore di Isabella d’Este, alla quale nel 1499 scrisse da Ferrara una serie di lettere descrivendole minutamente i sedici intermedi offerti con le quat­ tro rappresentazioni ferraresi di quel carnevale (Eunuco, Prinummo} Penulo e replica delPEunuco)32. Per volere del duca Ercole I l’intera serie di rappresentazioni ebbe un preludio, e cioè «primo longo il tri­ bunale passeggierò tucti quelli che havevano a rapresentar tucte le comoedie, che furono centotrentatre, vestiti tucti di vesti nove facte a po­ sta... Appresso a questi comparseno queli da li tramezi, che furono centoquarantaquatro, vestiti similmente con habbiti tucti novi, chi vil­ lani, chi paggi, chi nimphe, chi buffoni et chi parasiti». Il resto della prima lettera, alla quale il passo appartiene, è dedicato ai quattro inter­ medi della prima sera; ma della commedia stessa, dice l’informatore, «più oltre non è da parlare perché nel proprio auctore ognun la vede». Lo stesso accade nelle lettere successive, benché lo scrivente, che dove­ va conoscere bene la marchesana di Mantova, non sia alieno dal dare anche precisi particolari sui più begli abiti delle dame presenti. La na­ tura degli intermedi è varia, ma in tutti prevale la danza: «Nel primo tramezo [della prima rappresentazione deìl’Eunuco] comparse una com­ pagnia di deci vilani quali per sei exercicij cavorno fructo della loro ben coltivata terra, imperò che primamente in un subito saltati fuora in acto di moresca cum zappe comincioro zappare la terra, sempre ogni acto, moto et misura serbarsi col tempo alla proporcione dii suono, che pareva che tanti huomini se movessero cum uno spirito solo concordati al tempo del sonatore. Così usciti e zappata la terra, di semente d’oro la riempirono cum quella misura e tempo ch’io ho sopra detto, tal che ogni mover di pede, pieghare di mano, volgere di faccia sempre era col suono concordato. Nasciuta la seminata biada comincioro con il mede­ simo modo e misura a tagliarla, tal che uno menar di segetto, un rac­ coglier de biada, un ligare di manipulo era tucto tempo et misura: poi cum sopraditti tempi la batterono, poi aventorono cum le pale, poi insachata prepararono per ultimo refrigerio uno bello convito con canti, balli e danze et cum zoia e canto dierono loco al secondo acto. Nel se­ condo tramezo comparsero guidati da uno buffone dodexe vestiti de vesti leggiadre di zendado cum tagliamento calze a nove divise, sonagli oro e tremola assai, quali doppo la chiaranzana sonata ferono una mo­

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resca gagliarda et bellissima. Nel terzo tramezo uscirono sei nimphe guidate da uno sonatore, tucte aiegre e libere, et apresso loro alcuni gioveni dogliosi cantando cum suave armonia lamentevoli cancioni do­ lendosi di sua perversa sorte che servi fussero di donne, a cui nulla del suo male premeva, cum catene a guisa di servi». Nel quarto, troppo lungo da riferire per disteso, l’imbandigione di un convito all’aperto è interrotta da «uno orso, quale tanto aptamente fece Pofficio suo che a molti parve esser naturale»; ci scappa un morto, ma finalmente Porso è preso e legato e il convito ripreso «cum acti exteriori pieni di alegreza». Come intermedi delle altre commedie vi furono damigelle che lu­ singarono amanti vecchi e danarosi ma preferirono i giovani e leggia­ dramente vestiti, moresche di danzatori con torce infocate, luminarie di doppieri accesi che si disposero in vari disegni, scene di caccia. Una «dama vagha amorosamente danzando et cum gran bellezza et honestade facendo di sé mostra al popullo» fu minacciata con dardi da «octo gioveni leggiadri», ma salvata da Amore «da cui cum forza et cum mi­ sura la voleva pigliare». Dietro a una Fortuna «da uno canto saltoe fuori un pazo folleggiando, indi a poco un tamburino suonando uno dordoglione», e poi anche «deci gioveni gagliardi cum vesti legiadre e riche, cum la misura del suono si accostarono a dieta fortuna, ma lei hora a questo et hora a quello pareva sempre in mano et sempre da tucti libera fuggiva»; fin tanto che «el pazo picolino per disperacione facto gagliardo... presa costei pel crine che in fronte havea la trassinoe in una casa. La gioventù dolorosa disperata e furiosa si partite». A volte l’azione degli intermedi è pacata. Nel quarto del Penula «uscirono musici sei, li quali altretante donne seco conducevano cum passeggiare venusto e in acto de continuo attente al canto alle parole agli acti et cosi senza lite diero la volta armonizando et poi uscirono». Similmente nel secondo intermedio della replica dell’B^wco, «segui­ tando el tamburino, e ’1 pazzo uscirono sei huomini da sei donne cum disusati habiti menati in catena cum dolce et suave melodia cantando le loro amorose passioni». Ma nella maggior parte si tratta di azioni vivaci e varie, il cui ritmo è spesso scandito dal suono di un tamburino sulla scena. Ricorre così spesso il termine moresca che in breve esso divenne un quasi perfetto sinonimo di intermedio. Isabella d’Este, de­ scrivendo al marito assente le commedie rappresentate a Ferrara nel 1502 per l’arrivo di Lucrezia Borgia, non usa altro termine: VEpidico «de voci et versi non fu già bello; ma le moresche che fra li acti furono facte, comparsero molto bene et cum grande galanteria»; la Bachide «fu tanto longa et fastidiosa et senza balli in tramezzi... Due moresche solamente furono tramezate»33. L’uso del termine moresca si compren­

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de facilmente quando si fa riferimento a comparse «de soldati vestiti a la antiqua», o «de fanti armati de celatoni, gorzarino, corazina, falda et fiancali», i quali danzando simularono di combattere in vari modi con varie armi; ma in altri casi l’intreccio è quanto mai involuto, come nella seconda «moresca» della Rachide, che fu «de dece homini, fincti nudi, cum un velo a traverso: il capo capillato di stagnolo, cum corni de divi­ da in mano, cum quatto dopiroli accesi dentro, pieni di vernice, quali nel movere de li corni se avampavano. Nanti a questi era uscita una giovane che passò spaventosamente senza sono, et andò in capo de la scena. Uscitte poi uno dracone, et andò per divorarla: ma appresso lei era uno homo d’arme a pede che la difese, et combattendo col dracone, lo prese, et menandolo ligato, la giovene a brazo cum uno giovene lo seguitava; et intorno andavano quelli nudi, ballando et gettando in foco quella vernice» È una complessa pantomima della quale la mar­ chesa di Mantova, stanca e annoiata e soprattutto mal disposta verso la nuova cognata che si festeggiava, non riuscì o non curò di interpretare il significato mitologico o allegorico In un certo senso i soggetti importavano fino a un certo punto, e potevano anche essere ripetuti, perché quel che più contava era la no­ vità del modo di realizzarli. È ciò che in sostanza afferma Giano Pencaro quando avverte la marchesa di Mantova che «benché spesso se dica uno tamburino et uno pazzo intrare in scena, non è però quel che l’altre volte, né quelli acti, né quel suono, ma sempre mutando inventiva, habiti e suono»". Quanto varia fosse l’inventiva si è già cominciato a vedere; praticamente ogni genere di «divertimento» andava bene, e non si esitava a mescolare le esibizioni di buffoni e giocolieri non solo alle moresche comiche (di villani che si percuotono tra loro, di cuochi che battono sulle loro pentole) o esotiche (il più delle volte di un eso­ tismo geograficamente indeterminato), ma anche alle rievocazioni mi­ tologiche e alle allegorie morali o politiche. Dell’interesse per i costu­ mi il Pencaro dà un bellissimo saggio quando descrive quelli «di vechij innamorati ben petinati cum brette alla borsescha, zornioni dalle frappe e calze aperte cum camise pendenti, et uno poco di verdura ne’ bretoni facti a bataglie», quasi un’anticipazione della maschera del «magnifico» Pantalone. La penna lo aiuta meno per le musiche; ai pochi accenni già citati possiamo aggiungere «il sonare di un brando gagliardo et allegro», il «cantare in acto di lamento alcune parole dol­ ce», e una «sonata alla sguizera» del solito tamburino, in un interme­ dio al quale partecipano poi anche «dui tampani sonando alla ongaresca». Non è molto, e forse il dato più importante che si ricava dalle sue lettere è quello della occasionale temporanea assenza di musica: come la 4

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giovane della seconda «moresca» della Rachide «passò spaventosamen­ te senza sono», cosi anche la Fortuna, già ricordata, «cum octo versi pronuncioe chi lei fusse e gli effecti suoi»; Amore, dopo avere liberato la dama virtuosa, «pronuncioe» anch’egli le ragioni del suo intervento, «perché, Amore disse, non voglio nel stato mio altro che ingegno e fede»; alla fine di un intermedio nel quale «cacciatori sempre serbando l’ordine e misura ferono la caccia sua gratiatamente... si scoperse uno cacciatore, quale parlando todesco faceva dello ebrio, et cum corno e dardo cercando e’ boscheti smachioe la simia che rinselvata se era»17. Delle musiche del 1502 avrebbe potuto dirci di più la marchesa Isabella che, superata dalla invisa cognata in eleganza e in leggiadria del danzare, potè almeno prendersi una rivincita quando «col leuto in mano cantò diverse canzonette con melodie e suavità grandissima»58. Ma svogliata e contrariata com’era ella si limitò a nominare quasi esclu­ sivamente le musiche eseguite da artisti della sua corte: «Al tertio acto [dell’Asinaria} uscì la musica del Tromboncino, Paula, Pozino e com­ pagni, cum la quale si fece magior honore a Mantuani che a Ferraresi»; nella Casina «prima uscì la musica dii Tromboncino cantando una barcelletta in laude degli sposi», e «al tertio atto venne la musica de le viole a sei fra le quali era el Sr. Don Alphonso...»5’. Da un’altra fonte apprendiamo che il terzo intermedio delTEpÀ/zco, bollato dalla marche­ sa di Mantova come «musica tristissima», fu una «moresca» presen­ tata «sopra uno caro, menato da un cavalo in forma de unicorno, conducto da una gioveneta, sopra il quale herano alligati ad uno troncho alchuni homini, e quattro cantarmi con uno leuto... Quali poi forno disligati da dieta damixella e usciti fecero la morescha cantando quatto canzone belissime»40. Né meno interessanti sono altri intermedi passa­ ti sotto silenzio da Isabella: il primo dell’Asinaria di «quattordici satiri, fra quali havea uno in mano uno capo de asino deargentato cum una fistula entro e uno altro uno tamburo a la turchescha e uno zuffolo, qua­ li sonando uscèteno ad uno ad uno. E interim in tra ti, uscèteno cum una fistula di canna sorda per uno in bocha, quali tuti sonando baiavano a la morescha»; e un altro (forse non apparente) che fu «una armonia de zuffoli con grande elegantia»; della Casina quello in cui «venne fora uno homo salvatico cum uno corno sonando cum una bella damixella, ch’el seguitava cum altri homeni salvatichi, baiando a la morescha tuti dignamente. E subito ivi apparse il Dio d’amore, che scazava e percoteva dicti homini salvatici, accompagnato da certi musici, quali tolsero dieta damixella in mezo cantando suavemente». Sempre nella stessa fonte il concerto di viole al quale partecipava anche il principe Alfonso è descritto più suggestivamente che da Isabella: «venne fora una gros­

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sissima pala, qual in mezo del proscenio se aperse in doe, e ivi dentro ge hera una bellissima musica cum lyre et armonie suave cantando»41. Il carro delT£pft//co e la palla della Casina sono tra i primi esempi di suonatori e musiche portati in scena con un qualche veicolo. Dopo tanto seminare di citazioni vorremmo ora, come i villani di piu d’uno degli intermedi, poter raccogliere «con il medesimo modo e misura» una lauta messe, e gioire della sua abbondanza. Ahimè, le mu­ siche quasi continue e quanto più possibile variate con le quali gli inter­ medi bilanciavano la prevalenza quasi altrettanto esclusiva della parola parlata negli atti dell’azione principale, non sono altro ormai che una messe di gusci vuoti, di segni che hanno perduto la maggior parte del loro significato, e non riescono a metterci in contatto con concrete en­ tità musicali. Possiamo vedere che prevaleva l’uso di strumenti impie­ gati a scandire il ritmo, cominciando dal quasi onnipresente tamburino, la cui entrata in scena insieme al pazzo sembra far parte di un rituale ri­ petuto in vari intermedi; ma quali fossero i ritmi col quale il tamburino accompagnava le smorfie e piroette del buffone doveva dipendere caso per caso dalla personalità del buffone e dalle caratteristiche del suo re­ pertorio. Il tamburino, e in un caso i timpani «all’ongaresca», sembra­ no essere stati in grado di sostenere abbastanza spesso da soli lunghi tratti dell’azione danzata e mimata - una possibilità confermata anche per danze non sceniche, dacché proprio in occasione delle nozze di Lu­ crezia Borgia è detto che «madama spoxa danzòe molte danze al sono de li soi tamburini, a la romanescha e spagnola»42. Ma è anche possibile, benché non esplicitamente indicato, che mentre il tamburino o i timpa­ ni restavano il solo strumento «apparente» sulla scena, strumenti di altro genere intervenissero «non apparenti» da fuori la scena. A volte lo strumento apparente è uno diverso dal tamburino, indeterminato nel caso delle «sei nimphe guidate da uno sonatore», meglio identifica­ to nel caso di «un piva sonando a la vilanescha e octo vilani dreto». I corni posti in mano a «uno homo salvatico» o a cacciatrici e cacciatori sembrano far parte di un realismo più onomatopeico che musicale delle scene di caccia; i loro possessori infatti «cum strepito e suono di corni smachiorno d’alcuni boschetti orsi, leoni, pantere e una simia», ben­ ché sia anche detto che altri strumenti non nominati (e quindi verosi­ milmente non apparenti) davano «ordine e misura» all’azione. La funzione ritmica a volte si concreta in determinati ritmi di dan­ ze: la «chiaranzana», il «brando allegro e gagliardo», o una «moresca gagliarda e bellissima» (che forse è da intendere come una «gagliarda»). A volte si passa improvvisamente da un ritmo all’altro: «et subito mu­ tato el suono cominciò uno brando gagliardo»; ma altrove la transizio­

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ne è graduale: «usciti che furono [dieci danzatori con torce accese] se strinse la misura quale sin qui fu molto larga»; ovvero «cominciossi a stringere la misura e questi [dexe vestiti a bianco cum camisotti alla ongaresca ad oro ricamente lavorati et cum fogge in capo belle a vedere] cominciarono a percuotersi l’uno l’altro... Stringiendo di novo la mi­ sura moltiplicava el battersi et era più bello a l’occhio e più grato al­ l’orecchio,... e cosi furiosamente battendosi sottosopra usciron del tri­ bunale... non perdendo però mai misura imperò che il suono anch’ei fece quel medesimo»". In due casi, entrambi già citati, moresche di satiri furono accompagnate da «strani et disusati instrumenti» (Favola di Cefalo, 1487) e da «fistule di canna sorda» e zufoli (Asinaria, 1502). Nel secondo caso è anche menzionato «uno capo de asino deargenta­ to» " che fa pensare alla lira in forma di teschio di cavallo, parimenti decorata con intarsi d’argento che Leonardo da Vinci portò con sé da Firenze a Milano; ma lo strumento dell’intermedio è una «fistula» (che può significare sia un singolo flauto che quello multiplo detto flauto di Pan) dissimulato entro il teschio dell’animale". In ogni caso ci tro­ viamo di fronte alle prime manifestazioni di una fantasiosa archeologia musicale, delle quali le arti figurative contemporanee offrono non po­ chi esempi. Indubbiamente la maggior parte dell’azione fu mimata senza pa­ rola; fu dunque vera e propria pantomima, nella quale perfino la mu­ sica potè a volte tacere dove il gesto, fosse esso simbolico o realistico, assumeva importanza culminante. Il più del tempo, tuttavia, l’azione doveva essere stilizzata e subordinata alla regolarità ritmica della musi­ ca, meritandosi dunque di essere detta moresca nel senso più ristretto e preciso della parola, che è quello di una danza rappresentativa i cui esecutori impersonino un gruppo esotico, o bizzarro, o comico (danza in origine di schiavi mori, ma poi anche, come si è già visto, di fauni e di guerrieri antichi, di villani e di cuochi, di moderni venturieri di varia nazionalità: svizzeri, stratioti o lanzichenecchi). Degno di nota è il fatto che tra le poche indicazioni che accompagnano le descrizioni di scene mimate non una sola volta ricorre il nome della bassadanza, che pure era sovrana tra le danze di società (è infatti nominata dal Pencaro l’unica volta in cui egli parla di danze eseguite ad un ricevi­ mento, al di fuori delle rappresentazioni). È possibile che essa fosse usata anche in qualcuno degli intermedi, per esempio per il presentarsi della «dama vagha amorosamente danzando» o dei cavalieri e dame che ragionano d’amore «cum passeggiare venusto». Ma per le more­ sche vere e proprie troviamo nomi che o non entrarono mai nel reper­ torio delle danze di società, come la chiaranzana, o vi entrarono più

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tardi in forma probabilmente attenuata e fatta piu consona al decoro cortigiano, come il «dordoglione», che dovrebbe essere il tordiglione o il francese touràion. Il termine che ricorre con maggiore frequenza è brando, quasi sempre «gagliardo» o «allegro»; doveva essere carat­ terizzato da «prestezze di piedi e duplicati rebattimenti» che il Casti­ glione riteneva adatti a chi danzasse per professione, ma non al Cortegiano. Il Castiglione fa tuttavia immediatamente seguire al divieto un compromesso, anzi una serie di interessanti compromessi, concedendo che «in camera, privatamente,... licito gli sia... ballar moresche e bran­ di; ma in publico non cosi, forche travestito... perché lo esser travestito porta seco una certa libertà e licenzia... ed una certa sprezzatura circa quello che non importa» *. Il brando, per quanto io sappia, è menzio­ nato una sola volta come ballo non teatrale, in una lettera di Girolamo Muzio (1525) che descrive il carnevale a Valperga in Piemonte: «Si ballò il ballo che chiamano il brando, dove tutti gli uomini ballano con tutte le donne, e in lasciando quella che hanno, bacian quella che pi­ gliano, e così vanno continuando infine che ripigliano la sua e in ripi­ gliandola la baciano». Il che fa pensare a una origine paesana della dan­ za, connessa o non al francese branle al quale è generalmente assimila­ ta. Infine là piva, citata in un intermedio come strumento che accom­ pagna l’entrata e le danze di un gruppo di villani e villane, è anche il nome di una danza dal ritmo il doppio più veloce della bassadanza, che il trattato di Domenico da Piacenza (altrove detto da Ferrara) di­ chiara essere tipica di villani ". Si è già potuto vedere che il significato di alcuni intermedi risultava a volte poco chiaro anche per persone di una certa cultura. In un caso per aiutare la comprensione la Fortuna comincia col dichiarare con otto versi il proprio essere e i propri attributi; sono convinto che pos­ sano essere servite allo stesso scopo composizioni che ricorrono con una certa frequenza dal Libro Sesto in poi delle raccolte di frottole di Ottaviano Petrucci, nelle quali un gruppo, evidentemente una masche­ rata, comincia col dichiarare il mestiere o la condizione che accomuna i suoi componenti. Il Libro Sesto (1506) ne ha quattro, tutte con mu­ siche delle quali non è indicato l’autore: due di romei, una di mendi­ canti e una di venditori di pane di miglio. Il Libro Ottavo (1508) ne ha una di Antonio Stringaci da Padova (Nwz siamo segatori) e una di Bartolomeo Tromboncino (Ai maroni, ai bei maroni). Il Libro Nono (1508) ne ha due di Filippo da Lutano (Noi l'amazone siamo e De paesi oltramontani) e una anonima (Gionti siamo a la vecchiezza)-, una dialettale (Fabbe e fasoi) il Libro Undecimo (1514) che l’attribuisce a un A. T. non meglio identificabile. Inoltre se ne trovano tre di un An-

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sano Senese (Noi siamo galeotti, Chi volessi turchi siamo e Logiumenti noi cerchiamo) in Canzoni Sonetti Strambotti et frottole Libro Primo (Siena, 1515). Come esempio di testi valga il seguente dal Libro Sesto: Forestieri a la ventura giunti siam a Roma sancta; ciascheduno nui si canta a più modi cum misura.

Nui cantiamo per b molle, per b quadro et per natura; cosa alcuna a nui non tolle il cantar che sempre dura, cum ingegno e gran mesura, giorno e note, hor alto hor basso, ch’ogni cor afllicto e lasso levarem d’ogn’altra cura. Forestieri, etc.

Seguono altre 4 stanze. La musica (es. vi) evidentemente destinata al canto in tutte e quat­ tro voci, dà grande evidenza al testo con la recitazione strettamen­ te sillabica e con un fortissimo senso di verticalità armonica non tur­ bati dal leggero sfasamento ritmico prima tra le due voci acute e le due gravi, poi tra il soprano e le altre tre voci. L’inizio-presentazione è in tutto simile a quello della maggior parte dei canti carnascialeschi fiorentini, e così pure e la musica; un breve passaggio di ritmo ternario Esempio vi. Mascherata di romei. Testo e musica anonimi. Da Frottole libro Sexto (O. Petrucci, Ve­ nezia 1506), ff. 43t/-44r.

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chi voi venir si spaza. Non aspectar el zorno, sona el corno, o capo de caza; spaza, spaza, spaza!

Te’ qui, Balzan, te’ qui, Liom, te’ qui, Fasam, te’ qui, Falcom, te’ qui, Tristam, te’ qui, Pizom, te’ qui, Alam, te’ qui, Carboni! Chiama li brachi del monte, babiom!

Te’ qui, Pizolo, te’ qui, Spagnolo, habi bon ochio. al capriolo! A te, Augustino, a te! a te, Spagnolo, a te! Vidila, vidila, vidila, a spalla, a spalla, pilgiala, Che li cani non la stracia.

La musica (es. vii) segue la varietà del ritmo, partendo da un inizio con misura piuttosto larga e stringendo il tempo sempre piu fino ad al­ largarsi nuovamente sul verso finale. Anche qui prevale la recitazione sillabica e l’andamento accordale; e ancor più che nella mascherata le quattro voci tendono a dividersi in gruppi che si rispondono. Consi­ mile, ma più variamente suddivisa tra varie voci e gruppi di voci (e quindi più difficile da eseguire sulla scena), è una scena di pesca, attri-

Esempio vii. Scena di caccia. Testo e musica anonimi. Dal ms Parigi, Bibliothèque Nationale, Rés. Vm? 676, ff. Ó3^-65r.

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buita a uno sconosciuto «lannes plice» (che si direbbe francese, a giu­ dicare dalla forma del primo nome). L’unico manoscritto che la con­ tiene, e che include anche la caccia e una mascherata di Lanzi {Sergonta bergonta), porta la data 1502 e contiene varie composizioni pro­ venienti dall’ambiente ferrarese-mantovano”. Altre composizioni - tra le quali includerei Dal letto me levava di Michele Pesenti e II grillo è buon cantore di lusquin d’Ascanio, rispettivamente del Libro se­ condo e tertio della serie frottolistica del Petrucci ” — poterono essere usate come musiche teatrali, ma non è detto che fossero composte espressamente per tale uso. Più probabile è che fosse espressamente composta per un intermedio una frottola del Libro tertio del Petrucci, nel cui testo, come nell’intermedio già più volte citato, chi parla in prima persona è la dea Fortuna:

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Son Fortuna onnipotente, son regina all’universo; se a me piace, fia submerso chi non crede al mio talento. Son Fortuna, etc. Però creder el bisogna: esser ben sempre a cavallo e lassare l’altrui rogna per exempio longo è fallo. Se -tu prendi questo ballo sarai grato a nostra gente. Son Fortuna, etc.

In soli dieci versi ci è presentato non un gruppo ma un personaggio singolo; potrebbe dunque trattarsi non di una mascherata collettiva ma di un trionfo che fa pensare ai dipinti mantegneschi dei Trionfi del Petrarca che adornavano la scena mantovana del 1501, e al trionfo (non petrarchesco) della Fortuna posto in quell’occasione quasi come fulcro tra due segmenti della scena. La musica51 è di Filippo da Lutano, uno dei più dotati e versatili tra i cosidetti frottolisti, che dà buona prova di sé fin dall’inizio della composizione (es. vili) con l’imperioso virtuosismo che caratterizza efficacemente la parte vocale, col gioco imitativo delle parti strumentali (che si direbbero eseguite da viole o da cornetti), e soprattutto col preciso ed energico senso di direzione armonica e ritmica. Le mie esemplificazioni non pretendono di stabilire sicuri collega-

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menti tra le composizioni musicali e determinati avvenimenti teatrali; ma il confronto tra la frottola di Fortuna e l’intero svolgimento della moresca ferrarese del 1499 che si impernia sullo stesso personaggio, fa vedere come ciascuna delle composizioni portate come esempio po­ tesse costituire soltanto un breve segmento dell’azione totale di un intermedio. Anche per questa limitata funzione non sono molte le com­ posizioni nella letteratura frottolistica manoscritta o a stampa che per sé suggeriscano la possibilità di un uso teatrale. In verità, benché non possa escludere che ve ne siano altre, a me non ne vengono in mente che due di un tal Rossino da Mantova. La prima è inclusa nella raccol­ ta petrucciana delle Frottole Libro secondo (1505) e comincia con una imitazione vocale del suono della piva: Lirum, bililirum lirum \ po­ trebbe adattarsi ad una delle molte scene di villani ed ha infatti an­ che il titolo o didascalia: «Un sonare di piva in fachinesco» (cioè in dialetto bergamasco). L’altra (es. ix) fa parte delle Frottole Libro ter­ tio (1505) e benché non propriamente dialettale ha il sapore di una rustica serenata: Perché fai, donna, el gaton, s’io t’amo, anci t’adoro?

L’una e l’altra ” si direbbero, a giudicare dallo stile delle quattro parti, destinate ad essere cantate da un solista con accompagnamento di stru­ menti (a fiato nel caso della «piva»); ma testo e struttura delle parti sug­ geriscono come una possibilità anche l’intervento qua e là delle voci de­ gli strumentisti oltre alla voce principale, nella prima composizione per l’imitazione vocale del suono dello strumento (vedi l’incipit riportato piu sopra), nella seconda per far eco allo gnaulare con cui il personag­ gio che è attore principale della serenata dà sfogo alla pena amorosa:

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... Gnao, gnao, vo cridando, gnao, per tutto el dolor mio; e col gnao vo suspirando, ma al morir col gnao m’invio. Gnao, gnao! è *1 mio desio per haver conclusion? Perché fai, etc.

L’impiego teatrale è più fortemente suggerito per Luna e l’altra com­ posizione dal sentore di mimo che viene all’una e all’altra dall’onomatopeia abilmente sottolineata dal compositore. Ma non mancano nel repertorio frottolistico altre serenate, anche se meno caratteristicamen ­ te buffonesche (vi è sempre però una tendenza ad esagerare caricaturai-

Esempio ix. Rossino Mantovano, Frottola. Da Frottole Libro tertio (O. Petrucci, Venezia 1505), ff. 9tMir.

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mente l’espressione della pena amorosa): per esempio, Udite voi, fine sire di Marchetto Cara nel Libro primo della serie petrucciana, Pano nimo Ite caldi suspir mei del Libro secondo, e del Libro tertio un’altra composizione anonima, Se non dormi, donna, ascolta, e Aldi, donna, non dormire di Filippo da Lutano. Similmente, numerose altre compo­ sizioni poterono o essere composte espressamente per un intermedio (ma è impossibile determinarlo perché degli intermedi per lo più ci restano non testi ma «scenari») o essere prelevate dal repertorio cor­ rente perché si adattavano alle situazioni previste per l’intermedio; il repertorio a noi noto include oltre che le rituali lodi al dio d’amore testi e musiche per le suppliche, gli scherni, i lamenti e i disdegni del duello amoroso quali li abbiamo intravisti nelle descrizioni di inter­ medi, una delle quali infatti specifica che vi furono cantati «uno stram­ botto et una barzeletta». Inoltre nelle raccolte a stampa del Petrucci, che provvedono il più ampio paradigma del repertorio musicale corti­ giano di quel periodo, figura un certo numero di composizioni designa­ te specificamente come moduli utilizzabili per ogni altro testo di una data struttura metrica. Un Modus dicendi capitula di Michele Pesenti è già reperibile nelle Frottole libro primo-, il Libro quarto specifica anche nel titolo il suo contenuto di Strambotti, Ode, Frottole, Sonetti, Et modo de cantar versi latini e capituli (ha infatti un Aer de versi la­ tini di Antonio Caprioli da Brescia, un Aer de Capituli di Filippo da Lurano, e un anonimo Modo de cantar sonetti); altri modi «per sonet­ ti», tutti anonimi, sono nel Libro quinto e nel Libro sesto; sono invece indicati gli autori di «aeri» per capitoli nel Libro Vili (I. Battista Zesso), Nono (Marchetto Cara) e Undecimo (Joannes Lulinus Venetus). Dei tre tipi di composizione quello che è ricordato più spesso nelle de­ scrizioni di intermedi è il capitolo; e anche quando la descrizione di

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un intermedio parla di un capitolo «detto» esiste la possibilità che la recitazione fosse musicale, perché la natura del testo imponeva una re­ citazione prevalentemente sillabica che lasciasse chiaramente percepi­ re le parole ed una breve melodia ben equilibrata e diretta, qual è quel­ la dell’«Aer de capitoli» di Marchetto Cara (es. x). I soli nomi di musicisti che siano piti precisamente associati a de­ terminati intermedi di questo periodo sono quelli di un Gian Pietro della Viola, fiorentino emigrato nell’Italia settentrionale, e di Barto-

Esempio x. Marchetto Cara, Aer de capitoli. Da Frottole Libro nono (O. Petrucci, Venezia 1509), f. iv (omessa la parte delimito).

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lomeo Tromboncino. Della produzione musicale del primo non soprav­ vive nulla, a meno che non sia sua una composizione della quale di­ scorrerò altrove". Fu autore di una Festa de Lauro, rappresentata a Mantova per l’Ascensione del i486, che il D’Ancona ritenne potesse essere tutt’una cosa con una Rappresentazione che un poco è detta di Phebo e di Phetonte (leggi Pheton, cioè Pitone), un poco di Phebo et Cupido, e un poco di Daphne. Dovrebbe trattarsi di una breve azione molto simile a quella della Favola d’Orfeo, con Apollo citaredo, che canta, forse, un lamento amoroso in terza rima e uno strambotto in memoria di Dafne convertita in lauro. Questi brani vocali saranno sta­ ti composti ed eseguiti dallo stesso autore, che era uno di quei tanti fiorentini cantori e verseggiatori che, come l’Ugolini, e come il Bellincioni a Milano, si facevano apprezzare e ricercare nelle corti setten­ trionali ". È interessante notare che fin da allora era in atto la divisione di compiti, che poi divenne tradizionale, tra coloro che provvedevano le musiche vocali per una azione teatrale e gli esperti di danza che com­ ponevano o sceglievano le musiche per le parti coreografiche della stes­ sa azione: dall’autore stesso sappiamo che la «moresca» finale della Rappresentazione di Daphne fu commissionata a Lorenzo Lavagnolo, il ballerino piu in auge nelle corti di Ferrara, Mantova e Urbino". Una tradizione che non ho potuto controllare attribuisce a Gian Pietro della Viola la musica degli intermedi per la rappresentazione della Fa­ vola di Cefalo del Correggio nel 1487; se la notizia è corretta penserei che si riferisca ai cori che concludono gli atti, perché gli intermedi veri e propri, se ve ne furono, furono o danze o musiche strumentali. Me­ glio noto che Gian Pietro, ma non abbastanza noto quanto vorrem­ mo, è Bartolomeo Tromboncino, che con Marchetto Cara forma il duo più famoso tra gli autori di musiche frottolistiche in senso ampio, e anzi supera il suo collega per l’abbondanza della sua produzione. Era figlio di un Bernardino Piffero che già nel 1487 era al servizio della corte dei Gonzaga, sicché è evidente che Tromboncino (in un caso «Trombetino») non è nome ma soprannome derivato dalla pratica di uno strumento. Il diminutivo parrebbe indicare che la sua notorietà cominciasse quando egli era ancora molto giovane, e infatti anch’egli era già al servizio della corte mantovana nel 1489 e ne fece parte, con brevi interruzioni, almeno fino al 1512; si trasferì poi a Venezia ed era ancor vivo e attivo come compositore nel 1535. Non sappiamo quando cominciasse a comporre ed eseguire musiche per intermedi, tanto sono frammentarie e fortuite le notizie su di lui e sugli intermedi; si vuole che si recasse nel 1499 a Casale per partecipare all’esecuzione della Beatrice, commedia (?) di Galeotto del Carretto di cui il testo è perdu-

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to’6; ma più sicura,- per concorde testimonianza di tutti i resoconti, è la sua partecipazione agli intermedi ferraresi del 1502. Dello stesso anno dovrebbe essere l’unica tra le molte composizioni che gli sono at­ tribuite che ha un testo sicuramente teatrale; la frottola o barzelletta Crudel, fuggi se sai (es. xi) fa parte con altri due testi dello stesso ge­ nere della favola mitologica Le Nozze di Psiche e Cupidine di Galeotto del Carretto, rappresentata anch’essa a Casale nel 1502 per Guglielmo IX Paleologo; è una serie di brevi strofette di 4 versi, che non fanno parte però di un intermedio perché le canta Pan «cum una fistula in mano» a Siringa, un riflesso di Aristeo ed Euridice nella favola del Po­ liziano”. Il personaggio stesso richiede, come per la canzone di Aristeo, un accompagnamento di strumenti a fiato che simulasse il suono della zampogna. Ironicamente mentre il testo è sicuramente teatrale, l’at­ tribuzione al Tromboncino è contestata; alla stampa che la attribui­ sce a lui se ne contrappone un’altra che la assegna al suo collega nel­ l’impiego della corte di Mantova, Marchetto Cara”. È certo però che il Tromboncino deve avere avuto qualità come esecutore che lo ren-

Esempio xi. Bartolomeo Tromboncino, Canto di Pan da Le nozze di Psiche e Cupidine di Galeotto del Carretto. Da Frottole Libro tertio (G. Mazzocchi, Roma 1518), f. 42^ (omessa la par­ te dell’alto).

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devano più adatto a comparire sulla scena; quando invece, come è il caso delle conversazioni del Cortigiano, si tratta di canto da camera, allora il Tromboncino non è nemmeno menzionato, ed è lodato invece «nel suo cantar il nostro Marchetto Cara», il quale «per una via pla­ cida e piena di flebile dolcezza intenerisce e penetra le anime, impri­ mendo in esse suavemente una dilettevole passione»5’. I due compo­ sitori hanno entrambi al loro attivo frottole sui vari casi e mutevoli stati di fortuna che, come abbiamo già visto, si prestavano in modo particolare come commento alle vicende e peripezie di una commedia: di Marchetto sono Non è tempo d’aspettare del Libro Primo di frot­ tole del Petrucci e Ogni ben fa la fortuna del Libro tertio; del Trom­ boncino è Chi se fida de fortuna pure nel Libro tertio. Ma alla do­ manda se anche Cara componesse musiche per la scena non si può ri­ spondere altrimenti che con l’inizio di un’altra sua frottola, che coinci­ de con un ben noto motto gonzaghesco: Porsi che si, forsi che no.

1 La miglior fonte per una visione di insieme c di sfondo di questo particolare pe~ riodo e aspetto della storia culturale italiana è tuttora il capitolo Le corti deirItalia superiore alla fine del secolo, in Vittorio rossi, Il Quattrocento, *3 ed. Milano I933> PP- ^23 sgg-

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2 Ibid., p. 531. J b. zambotti, Diario ferrarese dall’anno 1476 sino al 1504, ed. da Giuseppe Pardi, Bologna 1934-37 (Appendice in volume separato a Rerum Italicarum Scriptores, tomo XXIV, parte VII), pp. 171 sgg. 4 Diario ferrarese di autori incerti, ed. da Giuseppe Pardi, Bologna 1927-33 (Rerum Italicarum Script ores, tomo XXIV, parte VII), pp. 121 sgg. 5 Vedi i diari ferraresi citati nelle due note precedenti, passim, e d’ancona, Origini cit., II, pp. 13-15 e 127-37. 6 Citato da Giulio bertoni, L’Orlando Furioso e la Rinascenza a Ferrara, Modena 1919, pp. 23 sgg. 7 Vedi i soliti diaristi ferraresi, passim. 8 BAPTISTA GUARINUS, Carmina, IV, citato da d’ancona, Origini cit., II, 128, n. 2. * Da B. ZAMBOTTI, Diario ferrarese cit., p. 187. Fracasso Sanseverino, citato tra gli spettatori che intervennero alla rappresentazione dei Menechini, era fratello del conte di Cajazzo; fu suo cancelliere il lucchese Francesco de Nobili, detto Cherea, che fu quegli che piu attivamente concorse a lanciare l’uso di rappresentazioni di com­ medie a Venezia. In casadi Fracasso, alla Giudecca, nel 1513 «fu fato certa Demonstratione di Comedia di Pastori, per il suo cancelliere Cherea»; ne dà notizia marin sanudo, Diarj, vol. XV, Venezia 1889, p. 531. 10 Lettera di Sigismondo Cantelmo da Mantova, 13 febbraio 1501, in Lettere artistiche inedite, per cura di G. Campori, Modena 1886, p. 5. Furono rappresentati il Philonico (cioè probabilmente il Philodico), il Penalo, \Tppolito (probabilmente quello di Seneca) e gli Adelphi di Terenzio. 11 I pannelli del Trionfo di Cesare, emigrati in Inghilterra nel secolo xvn, sono pro­ priamente nove, dipinti su carta incollata sulla tela; misurano ognuno m 2,74 x 2,74, corrispondenti alle 4 braccia indicate dal Cantelmo come apertura di ogni arco; la dimensione della sala adattata a teatro sarà stata dunque circa m 24 x 19. 12 b. zambotti, Diario ferrarese cit., p. 179. 13 Citato da Alessandro luzio e Rodolfo renier, Commedie classiche in Ferrara nel 1499, in «Giornale storico della letteratura italiana», xi, 1888, p. 178; si vedano anche le osservazioni di Niccolò Cosmico riportate in d’ancona, Origini cit., II, PP- 372-7313,1 II testo adoperato nel 1487 per la rappresentazione fu probabilmente quello dell’Awfitrione, commedia di Plauto voltata in terza rima da Pandolfo Collenuccio, Milano 1864, nel quale l’apparizione e profezia di Giove, notevolmente ampliata, si presta alla visualizzazione descritta dal cronista Zambotti (vedi piu avanti, p. 56). Il Filostrato e Panfila del Pistoia (rappresentato, pare, nel 1499) è pure tutto in terza rima, tranne gli intermedi cantati che sono in una forma modificata di ballata. Del secondo di essi, Porta ognun del nascimento, osthoff, Theatergesang cit., I, pp. 131-43, e II, pp. 55-57, discute e riproduce la musica di Bartolomeo Tromboncino dalle Frottole Libro Nono del Petrucci (1508-509). La cantano appropriatamente quattro sirene platoniche (non marine, come pensa Osthoff) che presiedendo al vol­ gere dei cieli influenzano i destini e le fortune umane. L’intermedio I è cantato da Amore, il III dalle tre Parche, il IV da Atropos, in conformità con lo svolgimento dell’intreccio. È mia opinione che nei due intermedi corali (II e III) fosse cantata all’unisono la parte superiore e le altre fossero eseguite da strumenti (cfr. osthoff, Theatergesang cit., I, p. 135). 14 Non mi pare possibile prendere per buone né le riserve del Poliziano sulle imper­ fezioni della Fabula, né la pretesa che la stampa bolognese delle Cose volgare del Politiano del 1494 avvenisse ad insaputa dell’autore e avrebbe potuto perfino di­ spiacergli. La stampa fu curata da Platone de Benedetti che nei tre anni precedenti aveva stampate o ristampate varie opere latine del Poliziano; se ne fece iniziatore Alessandro Sarti che il Poliziano aveva lodato appena un anno prima per la diligenza

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e perizia dimostrate nella revisione di quelle pubblicazioni; ed è dedicata dal Sarti al protonotario apostolico Anton Galeazzo Bentivoglio che, insieme al Poliziano, avrebbe dovuto essere in quel momento candidato favorito di Piero dei Medici per la porpora cardinalizia; è dunque un affare in famiglia, e la scelta delle Stanze, dcll’Orfeo, della stanza dell’Eco, e di una sola castigatissima ballata è ben calcolata per mostrare i meriti poetici del Poliziano senza offrire il destro ad accuse di futilità. Quanto all’Or/eo, la lettera a Carlo Canale ha forse polarizzato un po’ troppo la no­ stra attenzione sulla unica possibilità di un manoscritto rimasto a Mantova (senonché il Canale si era nel frattempo ben allogato a Roma). Come mai la piu antica copia manoscritta che se nc conosca, che non è però certamente la prima che fosse esemplata, è quella contenuta nel ms Riccardiano 2713, che è fiorentino (anzi mediceo, anche se non del ramo principale) c porta la data del 1487? Sull'attività pubblicisti­ ca del Sarti vedi giuliana hill cotton, Alessandro Sarti e il Poliziano, in «La Bibliofilia», xliv, 1962, pp. 225 sgg. ,s L’attribuzione del rifacimento al Poliziano ha trovato fautori e oppositori fin da quando il padre Ireneo Affò ne scopri il testo e lo pubblicò come Orfeo Tragedia di Messer Angelo Poliziano tratta da due vetusti codici e alla sua integrità e perfezione ridotta, Venezia 1776 (prefazione, testo e appendici furono poi riprodotti nell’edi­ zione del carducci de Le Stanze, l’Orfeo e le Rime, pp. 113-88; il solo testo in quella di f. neri de L’Orfeo e le Stanze, pp. 35-50). La questione sembra definitivamente risolta in senso contrario alla paternità del Poliziano dalle osservazioni linguistiche di margherita bianca novaro, L’«Orpbei tragoedia» e la questione della sua at­ tribuzione, in Scritti vari, pubblicati dall’università degli Studi di Torino, Facoltà di Magistero, II, 1951, pp. 209-61, dove il testo è pure riportato per intero secondo la versione del Codice Estense a M. 7. 15, che l’autrice ritiene autografo del Tebaldeo. Conferma il giudizio della Novaro anche Vincenzo pernicone, Sul testo delle opere in volgare di A. Poliziano, in II Poliziano e il suo tempo, Atti del IV Conve­ gno Internazionale di studi sul Rinascimento, Firenze 1957, pp. 83-87. 16 II Corus Dryadum introdotto nel secondo atto non lo conclude, ma è seguito da una transizione parlata, nella quale una delle ninfe annunzia l’arrivo di Orfeo «con la citata in man, si lieto in volto». Che le Driadi cantino è specificato dalla dida­ scalia al principio d’atto: «...interloquuntur item planguntque flebili cantu Dprades» (il coro è infatti, oltre che seguito, preceduto da un brano parlato). Altre dida­ scalie musicali sono: nel primo atto il « Cantus Aristei», il quale ha prima chiesto a Mopso Fami tenor con toa fistula alquanto', nel terzo «Modulatur lamentaturque cithara Orpheus...» che accenna cosi al distico latino dell’inizio e alle due ottave che esprimono il dolore di Orfeo; nel quarto nuovamente « Verbis flebilibus modulatur Orpheus...»; nel quinto del protagonista è detto soltanto «Lamentatur Orpheus...», ma «...interloquuntur agunt et cantant Menades». 17 È un suggerimento che a me viene dalla considerazione dei metri e che andrebbe confermato o rifiutato considerando lo stile delle nuove parti della tragoedia’, ora come ora non saprei indicare che come succisa rosa I e come collo ziglio del coro delle Driadi e Di corimbi e verdi edere | cinto el capo, da confrontare rispettivamen­ te coi w. 5-6 del «dialogus» Chi te contrista e 58 dcll’Egloga VII (m. m. boiardo, Opere volgari, ed. da Pier Vincenzo Mengaldo, Bari 1962, pp. 108 e 158). Quanto ai metri si comincia con la inconsueta forma di ballata del Coro di Driadi (AbaB CddC; ceDDA col terzultimo verso «interciso») e con i due «mandriali» di Mnesillo (abCcaB DD l’uno e l’altro) e cosi via nei vari interventi della scena infernale. 18 guido Mazzoni, La favola di Orfeo e Aristeo. Festa drammatica del secolo xv, Firenze 1906, p. vii, dice «culto il verseggiatore... il suo linguaggio permette di determinarne la patria nella regione umbra, a mezzogiorno-oriente di Siena»; nota inoltre, a sostegno dell’origine ferrarese della favola, che lo stesso codice (ms Ric­ cardiano 1616) contiene, della stessa mano, una traduzione in terzine del Formione di Terenzio con un prologo che il Mazzoni attribuisce a Ludovico Ariosto, suppo­ nendolo composto per rappresentazioni ferraresi del 1508 o 1509.

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w Per il secondo e terzo atto si può parlare di una riversificazione in terza rima del testo di Poliziano; anche negli altri il metro predominante è interrotto soltanto dai brani lirici. Per questi ultimi il metro preferito dal rifacitore è la ballata di ottonari aa bcbcca-, ne divergono soltanto i due piu fortemente influenzati dal modello, cioè la Canzona d'Aristeo (stesso schema metrico ma in endecasillabi) e la Canzona de le Rachidi, che essendo quella del Poliziano ha lo schema di ottonari abba ededdb. Al principio deiratto IV, dopo cioè che le Baccanti hanno soppiantato le ninfe nella conclusione dell’atto precedente, queste riaffermano la loro funzione con un Corus Nimpharum che però è in terza rima. 20 Per il Cefalo vedi d’ancona, Origini cit., II, pp. 5-8, c ora il testo in niccolò da Cor­ reggio, Opere a cura di A. Tissoni Benvenuti, Bari 1969; la stampa originale dice, la favola «composta dal signor Nicolò da Correggio a lo illustrissimo Don Hercole, et da lui representata al suo fiorentissimo populo di Ferrara nel mcccclxxxvi a di xxi Januarii». A. Tissoni Benvenuti, in nota al Cefalo nell’edizione teste cit. (pp. 496-99), rileva acutamente le analogie della metrica rispetto a quella dell’Or/eo del Poliziano e specialmente il ricalco di caratteristici metri irregolari (per i quali vedi più sopra, pp. 17-18). Vi si può aggiungere l’analogia dell’ottava di sdruccioli (vv. 142-49) con quella di Mopso nella Fabula del Poliziano (w. 85-92). Concordo nel pensare che il Cefalo dipenda piuttosto dal rifacimento in «tragedia» che dalla Fa­ bula, nel porre cosi un termine ante quem per il rifacimento, e nel porre in dubbio l’attribuzione di esso al Tebaldeo (vedi più sopra, p. 51 e nota 17). 21 zambotti, Diario ferrarese cit., p. 178. 21 Ma rileggendo il testo del Cefalo mi convinco che «suoni intermedi» furono quelli richiesti in accompagnamento ai canti. Sugli intermedi vedi nino pirrotta, Interme­ dium, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., vol. VI, Kassel 1957, coll. 1310 sgg.; cd elena POVOLEDO, Intermezzo: Dalle origini al secolo xvm... Italia, in Enciclopedia dello Spettacolo, vol. VI, Roma 1959, pp. 572 sgg. “ luzio e renier, Commedie classiche in Ferrara nel 1499 cit., pp. 188 e 189. 24 d’ancona, Origini cit., II, pp. 37 sgg. Il titolo continua: «et prima in luogho di Prolagho, di Proemio et Àrgumento, uno in sulla lira dice»; quel che è detto «in sulla lira» è non soltanto, come nota il D’Ancona, un lungo sproloquio sulla varietà delle umane voglie, ma anche una lunga serie di ottave, che risolleva il problema della recitazione cantata di lunghi poemi in ottave o in altro metro, inclusi i cantari e i poemi epici, particolarmente fiorente a Firenze sia presso i cantimpanche di San Martino che presso gli araldi o canterini della Signoria. Sull’ottava finale di questa tiritera ritornerò più avanti, nel saggio Prospettiva temporale e musica. La divisione in tempi, anziché atti, è dovuta alla consapevolezza che la Farsa non rispetta l’unità di tempo, ma forse anche al fatto che tutto ciò che sapesse troppo di classicismo era sospetto nella Firenze post-savonaroliana. 25 d’ancona, Origini cit., II, pp. 13 sgg.; non ho potuto consultare La Danae comme­ dia di B. Taccone, pubblicata per nozze, da A. Spinelli, Bologna 1888. Il Taccone fu anche autore di una egloga pastorale e dell'Atteone, una «rappresentazione» di stampo antico, il cui testo consiste di 5 ottave e poche terzine (cfr. rossi, Il Quat­ trocento cit., p. 538). La Danae comprende più di una volta l’apertura di «uno cie­ lo bellissimo... dove era Giove, con li altri Dei con infinite lampade in guisa de stel­ le»; Mercurio, ambasciatore di Giove, fa i suoi « descendimenti » a volo (quindi per mezzo di meccanismi teatrali). Come esempio, e non è l’unico, di musiche nel corso dell’azione si può citare l’atto quinto, nel quale «certe ninfe che andavano a caza, vedendo in cielo una stella inusitata, con una musica, domandarono a Giove che gli facesse intendere il caso». Mi pare evidente nella Danae l’influenza deWAmphitrione che il conte di Cajazzo aveva visto rappresentato a Ferrara nel 1491. * augusto vernarecci, Di alcune Rappresentazioni drammatiche alla Corte di Urbi­ no nel 1513, in «Archivio storico per le Marche e l’Umbria», m, 1886, pp. 181 sgg. 11 Lettera dell’oratore estense Alfonso Paolucci citata dal d’ancona, Origini cit., Il,

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pp. 89 e 90; da Giuseppe campori, Notizie inedite di Raffaello da Urbino, Mode­ na 1863. 2R Diario ferrarese di autori incerti cit., p. 133. 19 zambotti, Diario ferrarese cit., p. 221. 30 Lettera degli ambasciatori milanesi presenti alle rappresentazioni del 1491, citata in d’ancona, Origini cit., II, pp. 130 e 131, nota. 31 Citata da luzio e renier, Commedie classiche in Ferrara nel 1499 cit., p. 180, n. 3. 32 Ibid., pp. 182 sgg. L’informatore della marchesa di Mantova è anche autore della lettera citata nella nota precedente. Il codice Estense X. *. 34, che contiene anche una traduzione dei Menechini, gli attribuisce due sonetti; e inoltre il Pistoia ha a sua volta un sonetto che comincia Rincaro, io ho veduto un tuo capitolo. 33 Citata da d’ancona, Origini cit., p. 385. 34 Ibid. ” È interessante confrontare il suo racconto con quello ancora più confuso che ne fa un tal Niccolò Gagnolo, appartenente al seguito dell’ambasciatore francese, una Memoria del quale sui festeggiamenti del 1502 è incorporata nel Diario ferrarese dello Zambotti (p. 326): «... vene fora una altra morescha che erano io vestiti de biancho con capelli azurri a modo a la turchescha e in mano una cannuza, sive mantica, in forma d’una zucha asay longa, con uno homo nudo, salvo le calze, qual batcvano con diete mantiche, e lo tolsero a cavalo tirandoge giù le calze e lo percotevano; succedendoge una presentatione de uno drago grande allato et con gran sbatere le alle andava verso una giovenetta per offenderla. Et tunc venne fora uno homo armato, comba tendo con epso drago, feritelo nel colo cum una lanza e subito ligòe cum una catena al colo, conducendolo per lo proscenio fazendo la morescha». * luzio e renier, Commedie classiche in Ferrara nel 1499 cit., pp. 188 e 189. 37 Ibid., passim. * Relazione del Gagnolo in zambotti, Diario ferrarese cit., p. 327. 39 a. luzio, Isabella d’Este e i Borgia, in «Archivio Storico Lombardo», serie V, vol. XLI, 1914, p. 545, nota 1. 49 Relazione del Gagnolo in zambotti, Diario ferrarese cit., p. 325. Come già nel 1499, il primo giorno, 3 febbraio 1502, «fonno apresentate cinque comedie con tute le soc persone larvate e acomodate a la recitatione... fu da uno de loro, nommato Plauto, recitato lo argumento solum de diete comedie, e poi una sola intitulata Epidico con la soa compagnia se inviòe in una alta grandissima sala, ornata e accomoda­ ta in forma de scena, con le sue sedie in cercho alte e basse, et da uno canto el proscenio con parechie camere tute merlate e ornate con li soi camini, dove stavano li mimi e histrioni che representavano la comedia, e in mezo la orchestra, dove se­ devano tuti li illustrissimi signori e Oratori» (ibid., pp. 324 e 325). Il passo è notevole, oltre che per la descrizione del prologo generale (recitato in luogo diverso), per l’uso dei termini «compagnia» e «orchestra», per l’indicazione della forma circolare (o semicircolare) delle gradinate, e dell’orchestra al centro come sede privi­ legiata. Dell’intermedio giudicato «tristissimo» da Isabella c’è da chiedersi se non fosse stato eseguito da personale inviato da Cesare Borgia; d’ancona. Origini cit., Il, pp. 72 e 73, accenna a pantomime eseguite in Vaticano prima della partenza di Lucrezia «alle quali prese parte anche Cesare camuffato da simbolico Liocorno». Cesare Borgia non era presente ai festeggiamenti di Ferrara, ma vi aveva una rap­ presentanza che includeva anche «Nicolò musico con 1 compagno» (zambotti, Diario ferrarese cit., p. 336). 41 Ibid., pp. 329-31. Il Gagnolo informa inoltre che all’arrivo della sposa alle porte della città vi furono quattro rappresentazioni (ibid., p. 323). 42 Ibid., p. 324. 43 Attingo principalmente alle descrizioni del Pencaro in luzio e renier, Commedie classiche in Ferrara nel 1499 cit., passim.

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44 Diario ferrarese di autori incerti cit., p. 285, e Memoria di N. Gagnolo in zambotti, Diario ferrarese cit., p. 329. ' 4J Sulle conoscenze e abilità musicali di Leonardo vedi l’articolo di Emanuel Winternitz in Die Musile in Geschichte und Gegenwart cit., vol XIII, 1966, coll. 1664 sgg. Sui bizzarri prodotti di vari tentativi di archeologia musicale vedi dello stesso autore Musical Instruments and their Symbolism in Western Art, New York 1967. ° baldesar Castiglione, Il Cortegiano II xi. Numerose sono le indicazioni della par­ tecipazione di gentiluomini alla esecuzione sia di commedie che di intermedi; il Tebaldeo e l’Ariosto sostennero parti principali; Cesare Borgia, secondo quanto è ri­ ferito nella precedente nota 39, prese parte a intermedi; la partecipazione di Alfon­ so d’Este a quelli del 1502 è confermata oltre che dal Gagnolo dai Diarj di Marin Sanudo (vol. IV); dall’accenno che ne fa Isabella d’Este si direbbe che egli parte­ cipasse anche ad altri intermedi insieme al fratello Don Giulio (cfr. nota 38). 47 « Io sono piva per nome chiamata e de le misure son la piu trista perche da gli villani sono adoperata e per mia presteza tanto me faccio inanzi che tengo el mezo de la bassadanga»; cosi Domenico da Piacenza nel manoscritto Parigi, Bibliothèque Nationale, fonds ital.972, ripor tato da dante bianchi, Un trattato inedito di Domenico da Piacenza, in «La Bibliofilia», lxv, 1963, p. 119. Lo riecheggia ancora thoinot arbeau (cioè Jean Tabourot), Orchésographie, Langres 1589, pag. xix: «Je suis appelée cornemuse, et de mesures je suis la plus triste parceque je suis employée par les paysans, et la prestcssc me fait tellement défaut que je tiens le milieu de la mesure de la basse dance». Pure interessante è il testo di Antonio Cornazano: «Que­ sta [la piva], quantunche presso gli precessori nostri fusse principale sono a dannare, hóggidf, per gl’ingegni assottigliati in piu fiorite cose, è abiecta e vilipexa da per­ sone magnifico e da bon danzatori. Ma se pur questa si viene a dannare, non è bello alla donna altro che gli suoi passi naturali, et aiutare l’huomo nelle volte sicondo gli sgambitti e salti che ’1 vegnirà a fare, dritti e riversi, e dentro e fuori; et si richiede che sia presta e ben pratica in quello per la sua misura che vola più de l’altre»; da Curzio mazzi, 1/ «Libro dell’arte del danzare» di Antonio Cornazano, in « La Bi­ bliofilia», xvii, 1916, p. 11. 41 II testo da me dato è quello del ms Siviglia, Biblioteca Colombina, 5.1. 34, fi. 32-34, per il quale vedi dragan plamenac, A Reconstruction of the French Chansonnier in the Biblioteca Colombina Seville, in «The Musical Quarterly», xxxvu, 1951, e xxxviii, 1932, più particolarmente xxxvui, pp. 98 e 99. La musica fu pubblicata (da un’altra fonte, per la quale vedi la nota 49) da fausto torrefranca, Il segreto del Quattrocento, Milano 1939, pp. 412-15. La lauda, insolitamente non strofica e polimetrica, è il n. cclxiv in Laudi spirituali di Feo Beicari, di Lorenzo de’ Medici... e di altri, Firenze 1863; l’incipit ]amo a Maria meglio corrisponde alla variante Jamo a la caza data come incipit nel ms Firenze, Biblioteca Nazionale, Panciatichi 27, ff. 44z-45. w. 0STH0FF, Theatergesang cit., I, pp. 52-65, analizza questa versione del ms fiorentino, ritenendola ovviamente più prossima al canto di cacciatori richiesto per la fiorentina Rappresentazione di Santa Margherita (si veda a questo proposito la nota 46 a del saggio precedente); ingiustificato mi pare invece che ne dia la tra­ scrizione (ibid., Il, pp. 45-49), premettendola come «Erster Teil» alla versione dei mss di provenienza nordica, nei quali testo e colore dialettale sono notevolmente di­ versi. Il canto di Su alla caccia è richiesto anche da una didascalia della prima gior­ nata della Rappresentazione di Santa Uliva (pure fiorentina), la quale ha numerose altre indicazioni di inserti musicali di tipo realistico, e, in più, elaborati intermedi alle­ gorici che anch’essi richiedono musiche (tutte caratteristiche che decisamente spo­ stano la d$ta della rappresentazione oltre i limiti del secolo xv). 49 È il codice Parigi, Bibliothèque Nationale, Musique, Rés. Vm.7 676, descritto da nani e Bridgman, Un manuscrit italien du début du xvi * siècle à la Bibliothèque Ra­ tionale, in «Annales musicologiques », 1, 1953, pp. 177-267. Include alcune compo­ sizioni su testi d’occasione, tra le quali O triumphale diamante, in lode di Ercole d’Este e Apresso il santo ucel(lo) di G. L. (Giorgio Luppato?), entrambi strambotti;

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di un altro è dato il solo incipit, Turcho Turcho et Isabella. Lo Zambotti, descrivendo 1’arrivo di Isabella d’Este a Mantova, nel 1490, dice che « la fu rccevuta con gran letitia e festa, chiamando Hisabella e Diamante », e ricorda anche una giostra alla quale assistette Ercole d’Este «vestido in maschara a la turchescha» (Diario ferra­ rese cit., p. 215); ma è più probabile che il soprannome Turco si applicasse a Fran­ cesco Gonzaga come già ad altri della sua famiglia. 50 Entrambe pubblicate in Le Frottole nell’edizione principe di Ottaviano Petrucci, tomo I (unico pubblicato), Libri I, II e III, Cremona 1954 (ed. da Gaetano Cesari e Raffaello Monterosso, con prefazione di Benvenuto Disertori), rispettivamente alle pp. 22-23 e 140. 51 Ibid., pp. 93 e 06. Era già stata pubblicata da rudolph schwartz, Nochmals «Die Frottole im 15. fahrhundert », in « Jahrbuch der Musikbibliothek Peters», xxxi, 1924, Notenbetlage, pp. 1-2. ” Vedile in Le Frottole nell’edizione principe cit., I, rispettivamente pp. 69-70 e 100-2. w Si veda la nota 47 del saggio seguente. M d’ancona, Le origini cit., II, pp. 350-52, nota. “ Ibid., p. 351, nota. 56 a. luzio e R. renier, Niccolò da Correggio, in «Giornale storico della letteratura italiana», xxi, 1893, p. 247. 57 Già pubblicata da A. Einstein nella sua edizione di Canzoni, Sonetti, Strambotti, et Frottole Libro Tertio (Andrea Antico, 1517), Northampton (Mass.) 1941, pp. 56 e 57, ed ora da w. osthoff, Theatergesang cit., II, pp. 58-59. L’affermazione che questa sia l’unica composizione che ha un testo sicuramente teatrale tra quelle attri­ buite a Tromboncino va modificata per le aggiunte segnalate da Osthoff della musica per il secondo intermedio del Filostrato e Panfila (cfr. più sopra, nota 13 a) e della ballata Queste lacrime mie dall’egloga Tirsi del Castiglione. Per la musica di quest’ultima vedi osthoff, Theatergesang cit,, II, pp. 60-63. Anche nelle Nozze di Psiche abbondano le musiche nel corso degli atti (che dovrebbero essere cinque, ma è incerto dove cada la divisione perché, almeno nella stampa senza data da me vista, è indicato soltanto l’inizio del terzo e del quinto atto); le più sorprendenti sono quel­ le, decisamente non in funzione realistica, affidate alle due sorelle di Psiche. 58 È l’adattamento per strumenti a tastiera contenuto nella raccolta Frottole inta­ bulate da sonar organi, libro primo, pure di Andrea Antico, datata da Roma il 17 gennaio 1517. Della stessa composizione esiste anche una versione anonima nel ms Venezia, Biblioteca San Marco, Itai. Cl. IV, 1795-98, n. 59. ” b. Castiglione, Il Cortegiano, I, xxxvn.

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Gli intermedi che durante i due ultimi decenni del Quattrocento cominciarono ad essere sempre più spesso intercalati tra un atto e l’al­ tro di una commedia o di uno dei cosidetti drammi mescidati servirono a segnalare agli spettatori quella che allora appariva essere una delle principali caratteristiche del nuovo tipo classicheggiante di spettacolo: la divisione in atti, preferibilmente in numero di cinque. È facile però rovesciare questa proposizione e affermare che gli organizzatori di spet­ tacoli classicheggianti si lasciarono più facilmente indurre ad accettare la divisione in atti — fosse o non la sua classicità veramente autenticata da dati filologici1 - in quanto essa e gli intermedi fornivano una solu­ zione quanto mai pratica ed efficace per distrarre temporaneamente l’attenzione degli spettatori dallo spettacolo principale e riportarvela poi rinnovata e ravvivata dalla diversione. Occorre tener presente che il teatro classicheggiante aveva in comune con quello antico l’abitudine, o piuttosto la necessità, che lo spettacolo (non necessariamente l’azio­ ne principale) si svolgesse ininterrottamente dal principio alla fine, per una durata che spesso raggiungeva e non di rado superava le quattro ore2. Durante questo tempo alla quasi totalità del pubblico era prati­ camente impossibile allontanarsi dal luogo della rappresentazione, e ad una buona parte di esso occorreva anche starsene tranquillo ed ascol­ tare «con taciturnità» rimanendo sempre in piedi. Divisione in atti ed intermedi sono dunque classici almeno in questo senso, in quanto ri­ spondono ad un fondamentale bisogno umano di varietà nell’esercizio prolungato dell’attenzione, ed inoltre perché attraverso la diversione soddisfacevano ad un’altra fondamentale esigenza psicologica, quella di dare ordine e ritmo alla percezione degli avvenimenti. L’esercizio della funzione formale degli intermedi richiedeva che i loro modi si distinguessero nettamente da quelli degli atti tra i quali essi venivano ad intercalarsi. Negli atti aveva quasi assoluto predomi­ nio la recitazione parlata, eminentemente realistica ed essenzialmente prosaica ad onta dei vari metodi di versificazione che furono di volta

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in volta sperimentati per rispecchiare quelli dei modelli classici3; negli intermedi per contrasto prevalsero i modi della musica e del gesto rit­ mato, e l’uso della parola, specialmente della parola parlata, fu ridotto al minimo Malgrado questa fondamentale distinzione, tuttavia, qual­ che elemento musicale entrò a far parte anche dello spettacolo princi­ pale e dell’azione degli atti; vi fu soggetto però ai dettami della lezione fondamentale di realismo che era stata di recente appresa dai modelli classici. La concezione del teatro come specchio o imitazione della vita e dei costumi umani si traduceva nel caso della commedia, le cui rappre­ sentazioni furono di gran lunga le più frequenti, nella riproduzione sulla scena della vita quotidiana cittadina borghese o artigiana - a tutta prima, almeno nominalmente, quella dei tempi classici4; ben presto anche dichiaratamente quella dei tempi moderni. Uno dei primi sinto­ mi di questo realismo fu il rivolgersi - nel tentativo di uscire dai temi classici e di avvicinare l’azione all’esperienza contemporanea - all’uni­ ca forma letteraria, tra quelle già esistenti, in cui l’osservazione di caratteri e costumi aveva avuto qualche parte, la novellistica. Vi ricor­ rono già la Virginia di Bernardo Accolti, rappresentata a Siena nel 1494, e (benché aspirasse ad essere non commedia ma tragedia) il Filostrato e Panfila di Antonio Cammelli detto il Pistoia, che è del 1499. L’una e l’altra sono tratte da novelle ben note del Boccaccio, il che mostra che fin dall’inizio il criterio principale dei commediografi non fu tanto l’invenzione di nuovi personaggi e di nuovi intrecci, quan­ to il modo di dar loro la parvenza immediata di vita vissuta. Parallelamente l’attenzione si volse alla rappresentazione realistica del luogo in cui si svolge l’azione. La sua più immediata conseguenza, l’adozione della prospettiva scenica (e conseguentemente della nozione dell’unità di luogo) è già chiaramente indicata nella descrizione della rappresen­ tazione della prima commedia di Ludovico Ariosto, la Cassaria, avve­ nuta nel 1508 a Ferrara sotto gli auspici del cardinale Ippolito d’Este: «... Quello che è stato il meglio in tutte queste feste et representationi, è stato tute le scene, dove si sono representate, quale ha facto uno M * Peregrino depintore, che sta con il Sig." [Pellegrino da Udine, allora al servizio del nuovo duca di Ferrara, Alfonso I d’Este, fratello del car­ dinale]; ch’è una contracta et perspettiva di una terra cum case, chiesie, campanili e zardini, che la persona non si può satiare a guardarla per le diverse cose che ge sono, tute de inzegno et bene intese...»’. In quell’.occasione la scena cittadina realisticamente rappresentata si supponeva fosse Taranto4; l’anno seguente, 1509, l’impegno realistico fu anche maggiore per 1 Suppositi dell’Ariosto «comedia... per moder-

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na tuta delectevole» il cui argomento «fo recitato per lo compositore et è bellissimo et multo accomodato a li modi et costumi nostri, perché il caso accadete a Ferrara...» \ Nove anni più tardi il prologo della Man­ dragola di Niccolò Machiavelli dirà’: Vedete l’apparato: quale or vi si dimostra questa è Firenze vostra; un’altra volta sarà Roma o Pisa...

E continua additando «quello uscio che mi è qui su la man ritta... quel­ la via che è colà in quel canto fitta... el tempio che alTincontro è posto», e così via, sottolineandone la sensibile evidenza. Risponde pure all’e­ sigenza realistica l’adozione frequente della prosa che finì col prevalere sui tentativi di versificazione. E del resto, in prosa o in verso, l’uso vivace, idiomatico della lingua fu tanto esasperato anche dai men dotati tra i commediografi fiorentini da fare del loro teatro l’orto ideale per il collezionista di variopinte farfalle linguistiche e folkloristiche. Autori non fiorentini si servirono invece dell’inserzione di vari dialetti e ger­ ghi particolari come di un mezzo efficace non solo per dare vivacità al dia­ logo comico ma anche per caratterizzare tipi, ceti e categorie sociali. Dall’esigenza di adeguarsi alla realtà vissuta dipese infine la necessità di restringere entro certi limiti la durata dell’azione rappresentata, con­ cretatasi anch’essa in una delle famose unità aristoteliche, l’unità di tempo, della quale avremo motivo di discorrere in seguito. In queste condizioni l’inserzione della musica nell’azione principale assume anch’essa una funzione realistica: i personaggi possono esser posti a cantare, a suonare o a danzare sulla scena nei modi e nelle circo­ stanze in cui canto, suono e danza sono accettabili e plausibili nella vi­ ta ordinaria. L’esempio più classico, ed anche il più antico che io sia in grado di citare è il «garzonaccio» che di notte «viensene solo in pitoc­ chino suonando il liuto» nella scena nona dell’atto IV della Mandra­ gola, ed è acciuffato, portato in casa di messer Nicia e introdotto nella camera di Lucrezia. Si tratta naturalmente dell’esecuzione di uno stra­ tagemma amoroso che era stato concertato in anticipo ed è compendia­ to da Ligurio nella precedente scena terza con una sola rapidissima bat­ tuta: «Come tu sarai comparso in sul canto, noi sarem quivi, torrenti el liuto, piglierenti, aggirerenti, condurrenti in casa, metterenti a letto, e ’1 resto doverrai tu fare da te! » Il garzonaccio, che è poi l’innamorato Callimaco sotto panni mentiti, viene avanti cantando due versi che, o inventati dal Machiavelli, o presi dal corrente repertorio9, non possono

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voler essere altro che l’inizio di uno sgarbato strambotto o rispetto to­ scano, conforme alla natura del travestimento: Venir ti possa el diavolo allo letto, dapoi che io non ci posso venir io.

Similmente l’azione del Marescalco di Pietro Aretino, composto per Mantova tra il 1526 e il 1527, si apre col canto di una strofetta che ha le interruzioni e riprese e ripetizioni tipiche dei modi popolari di canto: Il mio padron to’ moglie... il mio padron to’ moglie in questa terra, in questa terra. La torrà, non la torrà, ei l’avrà, e’ non l’avrà in questa sera, in questa sera.

Chi canta - e col suo canto immediatamente caratterizza l’ambiente padano (si suppone che la scena sia pure a Mantova) e annunzia il te­ ma della burla che si sta giocando a spese del marescalco protagoni­ sta - è Gianicco, un ragazzetto servitore del marescalco che il prologo ha appena finito di additare come un «sottil ladroncello» e un «gran ghiotto». Il frequente cantar canzoni fa parte della sua sfacciata petu­ lanza: ne accenna infatti ben tre, una dopo l’altra, nell’atto II, scena in, tutte e tre reperibili nel repertorio contemporaneo popolare o po­ polaresco. La prima è l’inizio (parte della ripresa) di una lunga barzel­ letta dialogata tra una cortigiana e un suo corteggiatore, essa stessa scena da farsa se non da commedia10: - Deh, averzi, Marcolina. - Va con Dio, scarpe pontie! - Deh, averzi, Marcolina. -

Un’altra è sul tema comunissimo della fanciulla che vuol marito": Cara mare, maridemi, che non posso più durar. Caro pare, maridemi, ch’io la sento...

Anche la terza è su un tema che ricorre abbastanza spesso": La vedovella quando dorme sola lamentarsi di me non ha ragione, non ha ragione, non ragione.

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Nella scena x dell’atto III deWlpocrito (1542) pure dell’Aretino uno dei servi canta una strofetta che è certamente la ripresa di una frot­ tola”: Tempo fu che bene andò: vissi lieto senza pene. Bene andò che l’andò bene, or va mal quanto la può.

Un altro servo gli risponde con un accenno ad un testo di carattere piu decisamente popolare, che è però noto attraverso qualche elaborazio­ ne musicale polifonica che fa parte della letteratura frottolistica tra­ mandataci: «E quando... quando andrastu al monte»1*. Una caricatura è invece quella del «Pedante solo che vien cantan­ do» alla fine dell’atto III, ancora una volta del Marescalco dell’Areti­ no. Il suo canto è uno strampalato distico latino, un poco parodia di metodi didattici e mnemonici, un poco degli atteggiamenti musicali degli umanisti di qualche decennio precedente: Scribere clericulis paro dottrinale novellis rectis as es a a, tibi dat dedinatio prima.

Ma tanto il canto che il cantore, che nella commedia dell’Aretino han­ no importanza secondaria, hanno sviluppi più cospicui nel Pedante di Francesco Belo, rappresentato a Roma nel 1529, in una serenata che il protagonista organizza in onore della sua bella e che è abilmente sfruttata per dar tempo alla beffa che si sta preparando contro di lui. Prudenzio, il pedante, ha racimolati tutti i cantori che gli è stato pos­ sibile reclutare. Ha con sé un veneziano suonatore di liuto che non manca di prosopopea nel vantarsi (atto IV, scena 1): «Mi... no ghe ho invidia a persona al mondo per saver fare una romanzesca, una pavana, alle guagnelle de San Zacharia»; ma alla prova dei fatti quanto di più commovente egli sa contribuire è una frottola che ricorda un poco quella di Rossino Mantovano nelle Frottole Libro tertio del 1504 (1505)”: Mi s’è tanto inamorao in sta donna mia vicina, che me dà gran disciplina, che me vedo desperao. Gnao, gnao, gnao, gnao, mi s’è tanto inamorao.

La seconda recluta è più recalcitrante: è il ragazzo Luzio, allievo del pedante, dal quale al principio della commedia gli è stata somministra­ ta una punizione corporale; ed è chiamato ora a cantare una serie di

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distici latini messi su alla brava con reminiscenze classiche. Ancor piu restio, il servo Malfatto si è ostinatamente rifiutato di prender parte, ma ora all’ultimo momento interviene irrepressibilmente da una fine­ stra della casa del pedante con un distico di strambotto o di villanesca alla napoletana: O fatte alla finestra dello muro e mostrarne lo pertuso dello...

Anche negli Ingannati, la anonima prima commedia della senese Accademia degli Intronati (1531), c’è un pedante, ma sproposita senza cantare. Canta invece la fante Pasquella per tenere a bada le suppliche amorose di un ardente Giglio «spagnuolo» (che dà anche l’occasione a qualche puntata contro tutti i suoi connazionali). Il primo canto sem­ brerebbe la ripresa di una qualche forma di.ballata, ed era forse popo­ lare a Siena perché è ricordato anche in una novella del senese Pietro Fortini Che fa lo mìo amor ch’egli non viene? l’amor d’un’altra donna me lo tiene.

Dell’altro canto la commedia dà un solo verso, «Non ti posso servir, signor mio caro»; è difficile dire da dove provenga, ma si attira subito una battuta irosa dello spagnolo: «Aze musiga està male awenturada. Ya non se accuerda que aqui sto...» Un altro membro degli Intronati, Alessandro Piccolomini, non esitò ne Vamore costante (1536) a porta­ re più volte in scena Vabbattimento, cioè il duellare (atto IV, scena xi; atto V, scena 1) e il canto (atto II, scena vii); ma soprattutto è notevo­ le la conclusione festosa con danze: «Qui va la moresca in pietosa col bacio» (atto V, scena xi), «Qui va la moresca gagliarda» (ivi, scena xii), «Qui va lo intrecciato» (ivi, scena xin). L’accompagnamento stru­ mentale di pifferi o cornamusa e tamburi è delineato dalle battute di due personaggi comici: «Più ballar, più ballar. Suona! tifr, tru lu ru u u u! Allegri allegri» (il «Todesco») e «Soneys, soneys tambur, se­ niores» (ancora una volta uno «Spagnuolo»), Va subito detto che questi esempi e tutti gli altri che si potrebbero anche aggiungere rappresentano piuttosto l’eccezione che la regola17. Nella maggior parte delle commedie pubblicate durante il Cinquecento sono raramente menzionati gli intermedi eseguiti o da eseguire tra un atto e l’altro; ma ancor più raramente vi sono contenute indicazioni di musiche facenti parte del corso stesso degli atti. Se ne deve trarre, da un lato, la conclusione che il crescente formalismo tendesse a salva­ guardare il contrasto tra l’azione principale e la sua cornice formale

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riservando alla seconda, cioè agli intermedi, Fuso della musica. Gli esempi che abbiamo passato in rivista provengono infatti da autori che tendono a staccarsi dalle vie più solitamente battute: da Machiavelli, il quale oltre che ai modelli latini aveva occhieggiato ad Aristofane,B; dal Belo e dallo spregiudicatissimo Aretino i quali certamente ebbero pre­ senti i modi di rappresentazione vivaci ma non ortodossi dei comici sene­ si più volte chiamati a Roma da Leone X o da senesi, membri del?Ac­ cademia degli Intronati, e certamente consapevoli dei precedenti sta­ biliti dai loro più «rozzi» predecessori e contemporanei. Da un’altra parte non si può escludere che la mancanza di riferimenti alla musica, tanto in funzione formale che realistica, fosse determinata da conside­ razioni puramente pratiche: gli intermedi erano in certo modo una ne­ cessità ineluttabile di ogni rappresentazione di commedia, ma non erano prescritti perché soltanto gli esecutori potevano farne la scelta in base alle loro possibilità; analogamente è possibile che i commediografi non vedessero malvolentieri l’inserzione realistica di elementi musicali co­ me un ornamento aggiunto ai loro testi, ma ne lasciassero ancora una volta la responsabilità agli esecutori. Questa possibilità è corroborata dalla tendenza del teatro cinquecentesco italiano a svolgersi su due piani distinti: quello dell’attività letteraria (che naturalmente è più spesso riflesso nelle opere pubblicate a stampa) e quello dell’attività pratica principalmente governata dall’intento di piacere e divertire. Il che non vuol dire che i letterati autori di commedie non mirassero anch’essi alla rappresentazione e quindi alle reazioni favorevoli del pub­ blico; ma la qualità di letterati, oltre a renderli consapevoli, anche se non sempre osservanti, dei precetti che si andavano elaborando in sede teorica e polemica, li portava a concentrarsi su ciò che era più essenziale dal loro punto di vista, sull’invenzione dell’intreccio (purtroppo rara­ mente notevole per vera originalità), sulla sceneggiatura e sul dialogo. Su molti altri elementi dell’esecuzione - scene, costumi, luci, modi e ritmi di recitazioni, intermedi, e, aggiungiamo noi, inserzioni musicali realistiche - essi si rendevano conto di non avere nessun controllo. Sotto tali riguardi il testo letterario di una commedia è già sol­ tanto una traccia da integrare al momento della rappresentazione, e cioè una anticipazione di ciò che ben presto divenne la pratica degli «scenari» della commedia dell’arte. Per quello che ci riguarda, per la musica, la pratica di coloro che pur non essendo ancora comici «del­ l’arte», cioè di professione, si andavano specializzando nell’esercizio dell’arte scenica è molto più generosa di quella delle commedie lette­ rarie. L’atto unico della Comedia di Pidinzuolo del 1517 w, anonima ma certamente senese, comprende canti in chiesa (probabilmente ber­

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ciati in modo caricaturale come è caricaturale la figura di Ser Adagio, il celebrante) e balli in piazza per festeggiare la promozione al cardina­ lato di Giovanni Piccolomini; inoltre il protagonista prima canta insie­ me ad un socio uno strambotto, e poi vi aggiunge per soprammercato una serenata che fa cantare per la sua «Dolovica»; la scelta della musica è lasciata agli esecutori e la didascalia dice soltanto «Fanno la serenata e cantano i cantori...» Il «ballo alla martorella» (cioè alla contadine­ sca) e lo strambotto di Pidinzuolo sul «cetarino» sono tra i primi, ma non i primissimi, tra i molti portati in scena nella varia produzione teatrale dei dilettanti senesi, per lo più artigiani, che nel 1531 si costi­ tuirono in accademia, anzi Congrega, dei Rozzi”. Lo storico della Con­ grega riporta vari esempi di strambotti, cantati da uno solo o alternati tra due cantori che cercano di sopraffarsi a vicenda; in un caso nel Sol­ finolo di Pier Antonio della Stricca Legacci (Siena 1521), i due cantori alternano quartine e terzine di un sonetto, proposte dall’uno e parodia­ te dall’altro". Nel Vitio muliebre di Mariano Maniscalco da Siena (Sie­ na 1519) due fanciulle, Virginia e Camilla, cantano strambotti per cacciare «il cordiale assedio»; e quando l’una chiede all’altra «chi darà del nostro dir iuditio», la risposta rispecchia la cultura varia ma orec­ chiata dell’autore: Imolo (!) e Pan con diritta ragione come altra volta eletti a questo offitio.

Anche il ballo ricorre spesso: «alla martorella» con strumenti, o «ballo tondo» accompagnato dal canto, e perfino in qualche caso l’abbatti­ mento a suon di musica e la moresca. Nello Scanniccio di Giovanni Roncaglia (Siena senza data), la scena di un «pastore» che suona e di un altro che fa «un ballo a uso di Etiopia» (altro nome per la moresca) è vista attraverso la descrizione e i commenti del «villano» protago­ nista”: Io so’ stato a veder più di due ore se costoro han la febbre tedesca Deh, mira come [e’] van saltellando; oh, ch’io non veddi mai la maggior tresca! E’ va co’ piedi e con le man naspando; or cade, or no, e fa mille aitategli; attienti, eccolo giù va giocolando; oh, mira, mira, quanti campanegli! Alle guagnel, che questo è un bel gioco! quanto a me, mai n’ho visti de’ si begli! Io vo’ stare a veder un altro poco s’i’ potessi imparare. Oh, i* Pare’ caro più che aver l’amicizia di un cuoco!

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Questi erano i numeri musicali di quei comici senesi che, sia pure in formazioni raccogliticce, furono chiamati più d’una volta a Roma ad allietare il carnevale di Leone X, e che poi recitarono a Napoli nel 1540, se non già nel 1536 ** . Ma il loro modo di ravvivare la recitazione con canti e suoni ha riscontro anche in altre commedie che non si in­ quadrano nella tradizione erudita, come gli Errori d'Amore di Marco Guazzi mantovano (Venezia 1525) o I tre tiranni di Agostino Ricchi. Quest’ultima, una moralità classicheggiante più che vera e propria com­ media, ebbe la fortuna di essere «recitata in Bologna a N. Signore, et a Cesare, il giorno de la Commemoratione de la Corona di Sua Maestà», cioè nel febbraio del 1530; è notevole che a tale data essa tra l’altro presenti un innamorato in atto di cantare sul liuto un vero e proprio madrigale: «Non vedrà mai queste mie luci asciutte | in alcun tempo il cielo...»”. Infine, particolarmente notevole fu l’abbondanza di ta­ lento musicale di cui disponevano Ruzzante e i suoi associati, la cui at­ tività teatrale a Padova, a Venezia e a Ferrara fu uno dei maggiori in­ coraggiamenti (forse con la mediazione di Andrea Calmo) alla forma­ zione dei primi gruppi di comici di professione. Con danze terminano la Pastorale e la Vaccaria di Ruzzante; l’Anconitana è tutta piena delle prodezze di cantore e ballerino del protagonista, delle quali l’esuberan­ te attore-autore aveva già dato prova nellaMoscheta * . Oltre Ruzzante, «che fo bon cantarino», cantavano certamente due dei suoi principali associati, Menato (Aurelio Alvarotto) e Vezzo (Girolamo Zanetti), e probabilmente anche altri che sostenevano parti sia maschili che fem­ minili; infatti anche fuori di commedia «Ruzzante et cinque compagni et due femine» potevano intrattenere con «canzoni et madrigali alla pavana bellissimi»”. Con questi precedenti non desta meraviglia che un Francesco «da la lira» sia tra «li infrascripti compagni» che il 25 febbraio 1545 costituirono a Padova una delle prime vere e proprie compagnie di comici”; né che Guglielmo Per ilio napoletano, Angelo Michele da Bologna e Marcantonio Veneto, stipulando nel 1567 a Genova la formazione di una «societatem insimul recitandi comedias», assumessero l’impegno «sonandi, cantandi, balandi»2*. Della recitazio­ ne improvvisata dei comici dell’arte - aperta facoltà a ciascun esecuto­ re di attingere ex tempore a un suo vasto repertorio di battute caratte­ ristiche, di «tirate», di «lazzi», e magari scherzi acrobatici, piroette, canzoni e danze - non resta quasi altro documento che le numerose raccolte di scenari, che si limitano a stabilire i punti d’accordo tra i vari attori, il loro entrare e uscire di scena e gli elementi essenziali che cia­ scun personaggio deve contribuire al progredire dell’intreccio. È dun­ que naturale che anche le indicazioni relative alla musica siano scarse

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e generiche; ed è ancor più naturale che gli elenchi di «robe» necessarie alla rappresentazione non includano quasi mai strumenti, perché è ov­ vio che ogni interprete preferiva servirsi dei propri”. Evidenti attestazioni di una estesa pratica musicale provengono dal­ le fonti figurative della commedia dell’arte: dalle rare illustrazioni li­ bresche, dalle stampe del «recueil dit de Fossard», dalle decorazioni pittoriche del castello di Trausnitz, dai quadri di scuola franco-fiam­ minga che ricordano le prime visite di comici italiani alla corte francese, e, un poco più tardi, dalle incisioni dei Capricci e dei Balli di Sfessania di Jacques Callot, che riproducono soprattutto tipi e maschere napole­ tani. Ma di musiche vere e proprie che si possano con sicurezza ricon­ nettere alla pratica teatrale non esistono che pochi esempi, per la mag­ gior parte di epoca troppo tarda per essere qui considerati. Cinquecen­ teschi sono soltanto una Aria della Comedia e una della Comedia Uova ne II secondo libro d’intavolatura, di balli d’arpicordo di un Marco Facoli veneziano (Venezia 1588); giunte a noi dunque in una versione strumentale, senza un testo che aiuti a determinare la loro funzione teatrale ”. Per il resto dobbiamo ricorrere a un sussidio analogo a quel­ lo delle fonti figurative, al quale appunto per sottolineare l’analogia potremo dare il nome di iconografia musicale. Nella letteratura musi­ cale del tardo Quattrocento e del Cinquecento non poche opere, pur

Esempio xii. Mencioza mia, Mencioza baiarina. Tenor della composizione omonima. Dal ms Siviglia, Biblioteca Colombina, 5.1. 43, f. 130V.

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non essendo esse stesse le musiche eseguite in commedia, ne sono in vario modo un riflesso; da esse, tenendo il dovuto conto della natura del mezzo che le riflette, si ha un’immagine abbastanza fedele degli originali. Il caso più semplice è quello delle strofette o ritornelli, evidente­ mente popolari, canticchiati senza accompagnamento da un personag­ gio intento alle sue occupazioni, o citate qua.si a modo di proverbio nel mezzo del dialogo per dar forza al discorso. Dei testi gli studiosi di folklore letterario hanno raccolto un buon numero di citazioni e perfino registrato in qualche caso l’eco della voga ossessiva che le canzoni da cui provengono ebbero al culmine della loro fortuna32. Le fonti sono, ancora più che commedie, novelle, poemi narrativi e «incatenature», componimenti poetici nei quali qualche bello spirito si compiacque di accozzare tutti i frammenti che gli venivano a memo­ ria secondo un tenue pretesto o magari soltanto i richiami delle rime; di qualche canzone si è potuto rintracciare il testo completo, o almeno una versione di esso, grazie alle stampe popolari che al tempo di ori­ gine avevano appunto la funzione di renderlo meglio noto a chi già ne avesse appreso qualche parte, cogliendola ad orecchio insieme al moti­ vo musicale”. Alle incatenature poetiche corrispondono quelle musi­ cali, che hanno però un carattere più erudito, dacché il lavoro di com­ binazione simultanea di vari temi già esistenti richiedeva una abilità notevole di contrappuntista; sicché i frammenti sono per lo più brevi (come lo sono del resto quelli delle incatenature letterarie) ed è diffi­ cile determinare, dopo l’inizio caratteristico, dove comincino le modi­ fiche richieste dalla consonanza con i temi proposti dalle altre voci. Anche per la musica un notevole lavoro di ricerca e di confronti è stato già fatto”; non cosi completo tuttavia che non sia possibile aggiungere qui tre esempi che sono un po’ più che semplici inizi e che provengono da un repertorio ancora sicuramente quattrocentesco35. Nencioza mia (es. xn) dovrebbe essere un canto toscano, usato come tenore per una composizione a 4 voci di Johannes Martini di Armentières, cantore a Milano nel 1474 e a Ferrara dal 1475 a circa il 1490 e maestro di musi­ ca di Isabella d’Este Gli altri due canti, tenori di composizioni ade­ spote dello stesso codice, sembrano invece di provenienza padana”. La melodia di O zano, bello zano (es. xni) si ripete sette volte, variando il testo; quella di Cavalcha Sinisbaldo (es. xiv) si adatta a due duode­ nari seguiti da un ritornello e dovrebbe poi essere ripetuta con altri quattro distici poco edificanti, tutti seguiti dallo stesso ritornello. In tutti e tre gli esempi è notevole il sopravvenire del ritmo ternario com-

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Esempio xiii. O zano, bello zano. Tenor della composizione omonima. Dal ms Siviglia, Biblioteca Colombina, 5. I. 43, f. 131V.

0

na

U la

za. no ro _ sa

fil.gio . la

bel .lo za. no, ca .za l'al . tra ne.gra, fai. tra de

lo

re

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Fa . re

D’un a . gne . lo, d'un por. ce . lo, Chi se tro .va se . cha ca . na

0 U

_ na

za . no, ro _ sa,

bel .lo Pai. tra

fo _ ra me. za u . na

le

ca . bian . tor .

pre, cha. ta

d’u . na ca . pra mo . si po . rà trln . ca .

za _ no, ca .za ne . gra, fai.tra

fo. ra le ca . me. za bian.

za. re.

pre, cha.

Esempio xiv. Cavalcha Sinìsbaldo. Tenor della composizione omonima. Dal ms Siviglia, Biblioteca Colombina, 3.1. 43, f 1331/ (omessa una parte del testo).

Trovo bella fantina, basar

la volse

Fantina fo cortese, bochim li porse El cavalier vilan interra la pose Fantina tenerella i echi stravolse

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posto, nei primi due come variante ritmica della melodia principale, nel terzo come caratteristica del ritornello. Frammenti più o meno estesi di canti popolari sono pure reperibili in un piccolo gruppo di composizioni che appartengono ab periodo frottolistico (benché propriamente non siano frottole) e compaiono nelle stampe musicali del primo Cinquecento a partire dalle Frottole Libro Septimo del Petrucci (Venezia 1507). Il modo nel quale essi sono pre­ sentati può essere esemplificato da questo testo di una composizione anonima: Forzato dal dolore che Palma mi tormenta, a ciò che lei mi senta, che intenda il mio martire, disposti tutto dire una canzon novella tra l’altre la più bella: La vedovella quando dorme sola lamentarsi di me non ha ragione, lamentarsi di me non ha ragione.

Purtroppo della stampa senza data che la contiene sopravvive soltanto il fascicolo con la parte dell’alto, la cui melodia non è certamente quella del distico citato nel Marescalco dell’Aretino In compenso abbiamo più fortuna con un altro testo che è ricordato (ma non cantato) nelVlpocrito (atto III, scena x) dello stesso autore”; ce ne dà la musica

Esempio xv. Eneas Dupré, Canzone con ritornello. Da trottole Libro Septimo (O. Petrucci, Venezia 1507), f- 33^

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una composizione del quasi sconosciuto Eneas Dupré dalle Frottole Libro Septimo (es. xv): Chi à martello Dio gl’il toglia, ch’io ne son al tutto fore. Ho mutato stile e voglia, ho raccolto mecho il core. Cantian donque con amore, con serena e lieta fronte: E quando, quando andarastu al monte, bel pegoraro, jradel mio caro, oimè.

Il caso più fortunato è quello di una composizione del bolognese Ales­ sandro Demophon, Vidi hor cogliendo rose49, nella quale la stessa di­ sposizione con citazione in fine si ripete per ben cinque strofe. Se ne ricava un intero rispetto di io versi, che è citato in una enumerazione

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di «balli» nella cosidetta Egloga rusticale (1508), una breve rappre­ sentazione di Cesare Nappi, anch’egli bolognese, non molto dissimile dalle rappresentazioni popolaresche senesi41. Eccone il testo completo: Deh, levate la stringa dallo pecto e lassami mirar quelle viole, e lassa star el paradiso aperto dove se leva la luna col sole. El sol se leva e la luna se posa, dagli la buona sera a quella rosa. Dagli la buona sera e ’1 buon dormire, e chi usa falsità possa morire; possa morire e far la mala morte, star in pregion e far la mala sorte.

Se questi ritornelli erano balli come appare dalla lista del Nappi che ne include parecchi, dobbiamo pensare che le strofe delle composizioni di questo tipo incluse nelle raccolte di frottole imitassero le strofette cantate o dette nel ballo tondo da chi guidava la danza, strofette che regolarmente riconducevano al ritornello danzato. Conferma questa supposizione l’esistenza di un terzo gruppo di composizioni su testi brevissimi, di sapore dialettale, messi in musica in una polifonia pre­ valentemente accordale, che non sono altro che i soliti ben noti ritor­ nelli, con la melodia il piu delle volte data alla parte di tenore42. Ne fa parte, ancora una volta, E quando andarè tù al monte di I. B. Zesso (da Frottole Libro Septimo) (es. xvi) e inoltre D'un bel mattin d'a-

Esempio xvi. loan Battista Zesso, Ritornello corale. Da Frottole Libro Septimo (O. Petrucci, Vene­ zia 1507), f.

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more pure dello Zesso (Frottole Libro Septimo), E d'un bel matin d'amore del bresciano Antonio Caprioli (Frottole Libro Nono) e A pe’ de la montagna di Rossino da Mantova (Frottole Libro Vili). La loro brevità e la mancanza di testi suppletivi per ripetizioni strofiche mi fan­ no pensare che potessero essere usate in commedia come ritornelli corali per il ballo tondo; gli additamenta, cioè le strofette di chi dirigeva la danza, saranno stati recitati senza canto, un poco come si usava ancora pochi decenni or sono per l’ormai tramontata contradanza. Il risultato sarà stato una strana mistura di realismo (la danza) e convenzione (l’ela­ borazione polifonica del ritornello). Che la letteratura musicale offra la possibilità di rintracciare alcune delle melodie usate in commedia non è dovuto a un caso. Fin dall’ini­ zio del Cinquecento si delinea un forte parallelismo tra musica, o al­ meno tra certi tipi di musiche, e teatro Mi sono occupato fin qui

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principalmente del teatro di imitazione plautina o terenziana; ma ac­ canto ad esso va considerato anche il sottobosco delle rappresentazioni minori, egloghe, farse, frottole, gliommeri o mariazi, che fanno da sfondo al teatro più consapevolmente letterario, e almeno in un caso, quello del Ruzzante, divengono esse stesse teatro maggiore. Vi prevale una voga del genere pastorale che oscilla tra espressioni arcadiche, idealizzate di ninfe e pastori, e osservazioni più realistiche nelle quali i pastori sono rustici, villani e villane, con i loro modi e passioni a volte non privi di gentilezza, ma il più delle volte crudamente elementari. Questa ambiguità e oscillazione tra pastorale idillica e villanesca è evi­ dente, per esempio, nel teatro popolaresco fiorito a Siena, ed è proba­ bile che caratterizzasse molte delle rappresentazioni veneziane delle quali ci restano soltanto sparsi ricordi e accenni laconici, come {'Eglo­ ga pastoral data nel 1508 da Francesco Cherea, o la Comedia, et... Demonstration vestiti a la vilota offerta nel 1512 da «una compagnia di zentilhomeni Zardinieri». Quest’ultima fu data a Murano perché nel 1509 la Signoria aveva decretato «quod Comoediae, Recitationes, et Representationes comoediales seu tragoediales, Eglogae, omnino banniantur»; ma ciò non impedì che sempre nel 1512, per nozze Conta­ rmi, fosse «fato la Demonstration di una Tragedia et Egloga pastoral assa’ bella» messa su da Francesco Cherea; il quale l’anno dopo orga­ nizzava «certa Demonstratione di Comedia di Pastori»44. Si potrebbe continuare la serie includendovi anche, sotto la data del 13 febbraio 1520, la «comedia a la vilanesca, la qual fece uno nominato Ruzante padoàn qual da vilan parla excelentissimamente», cioè la Pastorale di Angelo Beolco, al quale proprio dalla parte sostenuta in quella rappre-

Esempio xvn. Joan Pietro Mantuan, Idillio rustico. Da Tenori e contrabassi intabulati col sopran in canto figurato per cantar e sonar col lauto Libro Secundo. Francisci Bossinensis Opus (O. Petrucci, Fossombrone 1511), fi. 4ir-42r.

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sentazione rimase il soprannome di Ruzzante". Ma a me preme so­ prattutto indicare l’ispirazione parallela del gusto musicale. Alla ninfa che col suo canto apre l’azione della Pastorale fa riscontro (almeno tre­ dici anni prima) la solitaria ninfa cacciatrice il cui aggirarsi nel bosco dà luogo nella composizione del Demophon al canto di un rispetto, o la «legiadra nimpha» della composizione analoga del Caprioli. Ma que­ sti ed altri quadretti idillici di gusto giorgionesco - in un’altra compo­ sizione del Caprioli la figura femminile è campeggiata «sotto un verde alto cipresso» - sfociano poi in canti che decisamente appartengono al tipo della chanson rustique"-, a tal punto che uno di essi, quello del «pegoraro», si ritrova ampliato e drammatizzato in un vero e proprio dialogo di rustica seduzione posto in musica da un tale Joan Pietro Mantuan (es. xvn)". Gli studiosi del Ruzzante non hanno trovato facile rintracciare cor-

Esempio xvm. De voltate in qua, ritornello della composizione anonima Poi che 7 cielo e la Fortuna. Da Frottole Libro Septimo (O. Petrucci, Venezia 1J07), fi. 240-2^.

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rispondenze letterarie precise (e non semplici approssimazioni) per le molte canzoni e danze eseguite, o anche semplicemente citate, nel cor­ so delle sue commedie. Per la musica le sole identificazioni sicure che io posso offrire sono quelle di tre canzoni tra le molte elencate da Naie nella Betta. D’un bel mattin d’amore è un breve ritornello noto in più di una versione. De voltate in qua e do, bella Rosina (es. xvm) ricorre come ritornello «in canto», alla fine di ogni strofe di Poi che l del e la Fortuna del Libro Septimo della serie del Petrucci". Di E levòmi d’una bella matina (es. xix), che è citata oltre che da Naie anche da Ruzzante (il personaggio) neB.'Anconitana, il Torrefranca diede in fac­ simile e in trascrizione una intonazione a quattro voci che è classificata

Esempio xtx. Ritornello corale su E levòmi d'urta bella matina. Dal ms Venezia, Biblioteca San Mar­ co, Itai., Cl. IV, 1795-98.

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tra le vilote nell’indice del codice veneziano che la contiene49; in realtà si tratta ancora una volta di un ritornello corale con la melodia popo­ lare nel tenore. Non rientra dunque nel tipo della villota in «contrap­ punto arioso», fiorita soprattutto nel decennio 1^20-30 (benché se ne trovino anche esempi di data anteriore), alla quale il Torrefranca at­ tribuiva invece una antichità molto maggiore c un ruolo decisivo nella formazione del madrigale cinquecentesco. Allude probabilmente a que­ sto tipo di polifonia la testimonianza relativa alle «canzoni e madrigali alla pavana bellissimi» cantati nel 1529 a Ferrara da Ruzzante e soci; oppure si può ammettere che «madrigali» fossero le composizioni in contrappunto arioso50, e «canzoni» quelle prevalentemente accordali con la melodia popolare nel tenore. In favore di questa distinzione sta il fatto che la «Canzone di Ruzzante», Zoia zentil che per segreta via, messa «in musica» (o piuttosto «redatta a regola d’arte musicale») da Adriano Willaert, pure corrisponde al secondo tipo51. Che di tante al­

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tre «canzon ch’ha compondue Ruzante» non si trovi traccia la ragione è che da autentico cantore, oltre che autore comico, ne componeva egli stesso i versi in una vena popolare e ne adattava le musiche, secondò le regole e gli usi della tradizione non scritta.

Un’altra traccia da seguire è la frequente partecipazione di musici­ sti ad attività teatrali e di autori o attori di commedie ad attività musi­ cali. Alle soglie del Cinquecento fu rappresentato a Venezia lo Siephanium, una commedia latina che diede al Sabellico l’occasione di vantare in un Carmen la superiorità della vita veneziana del suo tempo su quel­ la dei classici e di affermare tra l’altro: ...saltamus aptius: sonamus dulcius lyra: monaulo: barbito psalterio...

Dello Stephanium fu autore (ed attore) l’abruzzese fra Giovanni Ar­ monio, che fu poi assunto come organista in San Marco il 16 settem­ bre 1516 e tenne il posto fino al novembre del 1552 ”, Pure a Venezia nei primi anni del secolo furono rappresentate farse di un Antonio Ric­ co napoletano, che ebbe anche rapporti con i Gonzaga e che mi piace­ rebbe identificare con un D. Antonio Rigum del quale si conosce al­ meno una composizione musicale53. Ben più noto, come commedio­ grafo, novelliere e musicista è il piacentino Girolamo Parabosco, che fin dal 1540 era a Venezia allievo di Adriano Willaert e nel 1551 di­ venne organista del primo organo di San Marco. Nel 1546 apparvero per le stampe del Cardane i suoi Madrigali a cinque e furono anche pubblicate le sue prime commedie, la Notte e il Viluppo, seguite nel volgere di pochi anni da altre sei, una delle quali in versi, e da una tragedia, la Progne. Un altro commediografo, Andrea Calmo (1510-71), pur senza essere egli stesso attore di professione, fu tra quelli che ad­ ditarono la strada al professionalism©. Il suo più antico biografo scris­ se di lui che «s’introdusse nelle famose compagnie de’ comici, che al­ lora fiorivano in Italia, dove facendo la parte del Pantalone e del can­ tore, tanto in breve s’avanzò, che ne consegui fra gli altri il grido prin­ cipale». Il linguaggio è anacronistico perché suppone una molteplicità di compagnie e un cristallizzarsi di ruoli che appartengono alla gene­ razione successiva; ma l’interesse per la musica è attestato dai cheribizzi del Calmo, bizzarre lettere dialettali, alcune delle quali sono indi­ rizzate a musicisti e cantanti. In una, in particolare, di tono evidente­ mente autobiografico, egli si vanta di avere «redrezao la idioma d’i antighi [cioè il dialetto che egli chiama altrove vulgar antiqua lengua Veneta] e tornao el strambotizar musicalmente»51. Lo stesso può dirsi

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del mercante, attore e commediografo Antonio Molino detto Burchie!' la, la cui abilità di suonatore di vari strumenti (viola o lira, lirone e liuto) è attestata nelle narrazioni che fanno da cornice al novellare delle Piacevoli notti di Gianfrancesco Straparola (una serie di riunioni car­ nevalesche svolte a Murano verso il 1536, alle quali avrebbero parteci­ pato anche Pietro Bembo e Bernardo Cappello). Il Molino fu anche promotore insieme a fra Giovanni Armonio di una Accademia di mu­ sica (forse quella ricordata da Anton Francesco Doni) che riuniva il fio­ re dei musicisti veneziani e un buon numero di dilettanti; è significa­ tivo che «per più stabilir la detta Academia, [il Molino] volle mostrar, quanto in rappresentar comedie valesse. E fu il primo che le mutò in più lingue... contrafacendo la Greca e la Bergamasca...»55. Si potrebbe pensare che la connessione tra arte musicale e comica si esplicasse principalmente negli intermedi; ma a me pare che il caso del Calmo e del Molino indichino altrimenti. Del primo dobbiamo pen­ sare che si specializzasse in parti nelle quali si andavano delineando le caratteristiche di senilità irosa e brontolona, la testardaggine, l’avari­ zia sospettosa e l’uso costante del dialetto veneto (in contrasto col fre­ quente toscaneggiare degli innamorati di commedia e col dialetto ber­ gamasco della maggior parte dei servi), caratteristiche che poi diven­ nero essenziali della maschera di Pantalone; associando a queste parti la qualifica di cantore che gli fu pure attribuita e Io «strambotizar mu­ sicalmente» che egli stesso confessa, possiamo pensare che il Pantalone-Calmo, qualunque nome assumesse sulla scena, fosse indotto in qual­ che sua smania amorosa a cantare canzoncine comicamente anfananti del tipo che una raccolta musicale del 1570 chiama «justiniane»56. Una di esse è parodia di un famoso madrigale, non soltanto storpiato nei versi (come vari personaggi di commedia fanno pur senza canto) ma fiorito dall’insistente ripetizione di una sillaba nasale che sembra essere stato uno dei vezzi o vizi fonetici del personaggio”: Anchonononor che col partire me senenenento sgagiolire, scampar vorave ogn’hora ogni momcnenenenento Tant’è ’1 furor che sento che coro intorno intorno e cusì mille schite schito al zorno, e qualche volta ogn’hora buto per vu, crudel cara signonononora.

In un’altra justiniana lo «strambotizar» assume pretese di cono­ scenza tecnica:

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Chi nde darà la bose al solfizar per dirve a vu, brigenti, una canzon? Amor, ti priego, fande scomenzar musicalmente qualche dolce ton, ma del be quadro non send’impazemo perch’el bemole è quel che sempre usemo. Ut re mi fa sol la, la sol fa mi, e po la sesquialtera in driana, golizanando, fradei, ti e mi c ti per favorir questa stella diana che nde fa consumar la nott’e ’1 di. Fande, te prieg’, Amor, zusta rason e traghe nella panza un vereton.

Una situazione analoga è quella del Molino. Nessuna delle sue com­ medie ci è stata tramandata e non sappiamo dunque quanto spesso vi ricorresse la parte del bravaccio stratioto, versione locale del lanzi­ chenecco o del capitano spagnuolo delle commedie non veneziane; fu pubblicato invece il suo poema eroicomico in lingua «greghesca» I fat­ ti, e le prodezze di Manoli Blessi, Strathioto (Venezia 1561). A sua volta l’eroe del poema appare come presunto autore dei testi della rac­ colta Di Manoli Blessi II Primo Libro delle Greghesche Con la Musicha disopra, composta da diversi Autori (Venezia 1564). Di Manoli Bles­ si, che non può essere altro che uno pseudonimo del Molino è anche la dedica « Alti eccellenti musici Messer Paulo Vergeli, M. Claudio da Currezo [Claudio Merulo], M. Francesco Bunardi», i quali tutti sono rappresentati nella raccolta insieme a parecchi altri che comprendono perfino Willaert e Rore; predomina numericamente Andrea Gabrieli Va subito detto che né le musiche quivi raccolte, delle quali può dare un saggio l’inizio di una composizione di Andrea Gabrieli (es. xx), né quelle delle Distintane del 1570 o quelle delle Greghesche et Disti­ ntane di Andrea Gabrieli a tre voci del 1571, sono (tranne forse in uno o due casi) le musiche cantate dal Calmo o dal Molino nelle loro rispettive parti60; ne sono un riflesso, o sotto forma di mascherata, o come rievocazione ideale attraverso la musica di figure e di canti che evidentemente si erano imposti sulla scena con tanto pittoresca vividità da stimolare energicamente la fantasia dei musicisti più famosi del­ l’ambiente veneziano. Sotto altro cielo, qualche cosa di simile accadde a Napoli sotto il governo del viceré Don Pedro di Toledo, il quale, pur reggendo la città con mano ferrea in nome di Carlo V, favori una ripresa delle atti­ vità letterarie e artistiche disperse e soffocate durante le guerre e i

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tumulti dei primi tre decenni del secolo xvi. È degno di nota il fatto che nel «tentativo di promuovere in Napoli il gusto pel teatro e por­ tarlo all’altezza a cui si era già levato in altre città d’Italia» si distinse in modo particolare il principe di Salerno, Ferrante Sanseverinoél, niEsempio xx. Andrea Gabrieli, Inizio di una Greghesca a 5 voci. Da Di Manali Blessi II Primo Libro delle Greghesche Con la Musicba disopra, composta da diversi Autori (A. Cardano, Venezia 1564).

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potè del conte di Cajazzo e di Fracasso Sanseverino i quali erano stati ai loro tempi promotori di alcune delle prime rappresentazioni date al modo classico a Milano e a Venezia Tanto piu è interessante veder risorgere in lui, sia pure per amore di popolarità, il senso della funzione civica del teatro: «Fu egli il primo che in Napoli introducesse il recitar Comedie con apparati sollennissimi, con i quali augumentò molto l’amor del Popolo, perché nel di che le Comedie si rapresentavano, egli haveva pensiero di star alle porte per far entrare i Cittadini a vedere,

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& sentire commodamente quelle...»". La prima impresa teatrale di qualche rilievo del principe fu la «bellissima commedia» che egli of­ fri nel 1536 per la venuta a Napoli dell’imperatore . ** Altre due egli ne diede nel 1540, il Calando e il Beco, per le nozze di Maria di Cardona, marchesa della Padula, con Francesco d’Este, rappresentate da comici fatti venire da Siena, ai quali egli forse aveva già fatto ricorso nel 1536 Abbiamo già vista la festevolezza musicale che caratterizzava il teatro senese, e dunque non ci meraviglierà di leggere i nomi di un buon nu­ mero di musicisti nella lista degli esecutori della prima commedia che sappiamo essere stata rappresentata a Napoli da elementi locali. La commedia fu Gli ingannati, senese, già ricordata più sopra; nella rap­ presentazione napoletana del 1545 due parti di servi furono sostenute dal napoletano Luigi Dentice (autore di un noto trattato) e dal senese Scipione delle Palle, famoso per essere poi stato maestro di Giulio Caccini; Fabrizio Dentice, figlio di Luigi e compositore di madrigali, ebbe la parte di Pasquella, la fante anziana furba e trafficona; l’abate Giovan Leonardo Salernitano (Giovanni Leonardo dall’Arpa?) ebbe quella di uno dei vecchi e Giulio Cesare Brancaccio quella dell’inna­ morato Flaminio". Lo storico Antonino Castaldo, che pure parteci­ pava alla rappresentazione ed ebbe quindi particolare interesse a de­ scriverla, aggiunge che «Zoppino celebre Musico e giudizioso di quei tempi, ebbe cura della Musica scelta, ed anco dell’accordo degli stru­ menti; onde la Musica fu veramente celeste; e massime perché il Den­ tice col suo falsetto, ed il Brancaccio col basso ferno miracoli». La stessa fonte inoltre riporta che «l’anno seguente 1546 si recitò un’altra Commedia, Opera del Mariconda [anch’egli uno degli esecutori di quel­ la del 1545], detta la Filenia, rappresentata da quasi tutti i medesimi recitanti con una eccellente Musica, che riuscì buonissima»; incaricato della musica fu questa volta un tal Vincenzo da Venafro, con la colla­ borazione, nuovamente, del «divinissimo signor Luigi Dentice» * ’. Benché la commedia degli Ingannati sia già ricca di musiche nella versione stampata nel 1537, mi pare evidente che altre in maggior numero ne dovessero essere inserite nella versione napoletana per ac­ comodare l’estro di tanti musicisti. Il testo del 1537 già offre un appi­ glio ad aggiunte con la descrizione che un servo fa del rimbambito Gherardo: «...or che gli è entrato in questa frenesia d’amore, egli si spela, si pettina, passeggia intorno alla dama, va fuor la notte a’ veglini con la squarcina, canticchia tutto ’1 dì con una voce rantacosa, ribalda e con un leutaccio più scordato di lui. E èssi dato infino a far le fistole... e i sognetti e i capogirli, gli strenfiotti, i materiali e mill’altre comedie» (atto I, scena v)“. Non vi è alcun accenno a canti né nelle parti dei

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servi, né in quella di Flaminio; eppure a Napoli vi furono impiegate due delle voci più famose del secolo, quella di Scipione delle Palle e il «basso del Brancaccio», celebrato perfino in un madrigale di Gio­ vambattista GuariniNé la musica dei canti già suggeriti dal testo fu uguale a quella delle rappresentazioni originali, altrimenti non vi sa­ rebbe stato bisogno di una «Musica scelta» (scelta è il sostantivo e Musica l’aggettivo). Inoltre, benché la scena degli Ingannati sia posta a Modena, e tale fosse anche a Napoli70, ho il sospetto che, almeno dal punto di vista musicale, la Modena del 1545 fosse fortemente napoletanizzata. Non saprei dire se fossero eliminate, o almeno attenuate, le punte ironiche contro gli spagnuoli che si leggono nel testo pubblicato a Venezia; ma mi pare più che probabile che Pasquella (Fabrizio Den­ tice) tenesse a bada il suo spagnuolo col canto di qualche derisoria «na­ poletana» e che anche i canti di altri personaggi possano essere stati «villanelle alla napoletana», specialmente quelli del Brancaccio e di Giovanni Leonardo Salernitano, se la sua identificazione col dalTArpa è corretta71. Tra le varie manifestazioni del.risveglio di attività culturali a Na­ poli non è priva di significato la pubblicazione nel 1537 di una raccoltina intitolata Canzoni Villanesche Alla Napolitana... Libro Primo”, mai seguita per quanto ci risulti da un Libro secondo, ma punto di partenza per la copiosa fioritura di «napolitane», pubblicate per la mag­ gior parte a Venezia, alla quale ben presto contribuirono, oltre che napoletani, musicisti d’ogni parte d’Italia e d’oltr’Alpe. Le Canzoni Villanesche del 1537 sono anonime, senza dedica, e senza nessuna in­ dicazione di chi ne promuovesse la stampa; ma proprio l’anonimità fa pensare che fossero, o volessero essere credute, composizioni popo­ lari, manifestazioni di «quel naturale istinto [per la musica], di che», a detta di una contemporanea descrizione delle bellezze di Napoli e delle sue tradizioni, «pare che il Cielo habbia ogni Napoletano spirito dotato, onde quasi ciascuno alla natura l’arte giungendo, di giorno e di notte, tal’hora con voci, tal’bora con strumenti, diverse armonie in diversi luochi si sentono con dolcezza mirabile»73. Molte delle napole­ tane degli anni seguenti furono pubblicate sotto nomi di autori, ma ciò non toglie che parte di esse potesse utilizzare melodie correnti tra il popolo; così mi pare che attesti una richiesta di privilegio inoltrata nel 1559 dal napoletano Massimo Troiano al Senato milanese per la pubblicazione di canzoni «in dialetto e accordo musicale napoletano» che egli aveva «ridotto per iscritto a regola di musica»74. Dovrebbe trattarsi delle musiche che ebbero poi una ristampa a Venezia nel 1568 presso Girolamo Scotto ”, 6

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Al 1568 appartiene pure il resoconto - non scenario - de La cor­ tigiana innamorata, una commedia recitata all’improvviso alla corte di Monaco su una trama ideata dal Troiano. Orlando di Lasso - il cui soggiorno giovanile in Italia incluse un periodo trascorso a Napoli nel 1549-50 e contatti con l’accademia dei Sereni76 - sostenne la parte del «magnifico messer Pantalone di Bisognosi... con giubbóne di raso cremisino, con calze alla veneziana di scarlatto et una veste nera, lunga in sino a terra, con una maschera ch’in vederla forzava la gente a ridere, con un liuto alle mani, sonando e cantando»: Chi passa per questa strada e non sospira, beato se...

Il Troiano si attribuì tre parti: «il prologo da goffo villano, il Poli­ doro innamorato e lo Spagnuolo desperato»; il suo resoconto in forma di dialogo ci ha già fatto sapere in precedenza che il prologo era «un villano alla cavaiola, tanto goffamente vestito che parea l’ambasciatore delle risa»77. Le altre parti furono sostenute da persone di varia con­ dizione, tra le quali un giovane musicista, Ercole Terzo, sostenne la parte della serva, presumibilmente vecchia, della cortigiana71. Alfred Einstein definì La cortigiana innamorata «una specie di commedia ma­ drigalistica», il che è inesatto perché si trattò di una commedia di di­ lettanti recitata ad imitazione dei modi dei comici «dell’arte» anche nella divisione in tre, anzicché cinque, atti, con intermedi d’altra parte più degni di una corte che della «stanza» dei comici di professione7’. Nel corso dell’azione l’unica canzone specificamente ricordata è quella di Pantalone, cantata e sonata da Orlando di Lasso ’** ; vi fu musica anche in fine perché «fu dato la Camilla [la cortigiana] per moglie al Zanne [servo di Pantalone], e per onor di queste nozze fecero un ballo all’i­ taliana». Ma mi pare impossibile che il Troiano da «cavaiolo» e da innamorato si astenesse dal cantare qualche «napolitana», magari di tono ironico come quella, di allettamento ad una vecchia mezzana, che ci è offerta dalle Canzoni Villanesche del 1537 (es. xxi). Da Spagnuolo «desperato» potrebbe aver cantato (in riduzione solistica accompagnan­ dosi su uno strumento a corde) l’«Aria alla Spagnola a quattro voci», O passos esparzidos, che è annunziata fin dal frontispizio nel quarto libro delle sue Rime, & Canzoni Alla Napolitana a tre voci (Venezia 1569). È una traduzione del sonetto del Petrarca O passi sparsi e sarà risultata una appropriata caricatura cantata per una cortigiana contesa fra molti spasimanti, ma da ultimo accasata al servo Zanni. Riflessi letterari e magari petrarchismi non sono rari nella poesia

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della villanella alla napoletana: nella raccolta del 1537 un testo che comincia toscaneggiando, Dove nascesti, 0 viso angelicato> sta accanto alle colorite espressioni dialettali di Voccuccia de no pierzeco apre tu­ ro, | musillo de na fico lattarola. Ma non direi che gli accenni a prezio­ sismi letterari abbiano intento parodistico, cosi come già da parecchi anni mi sono opposto all’interpretazione delle famose quinte parallele

Esempio xxi. O vecchia, tu che guardi. Da Canzoni Villanesche Alla Napolitana, Novamente stam­ pate. Libro Primo (Joanne de Colonia, Napoli 1537). La parte del basso manca nel­ l’unico esemplare conosciuto.

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che abbondano nelle napolitane come una sfida alle regole del contrap­ punto e alla polifonia raffinata del madrigale Per i testi — e mi riferi­ sco a quelli autenticamente dialettali, non a quelli che si aggiunsero poi quando la napolitana divenne un genere imitato da non napole­ tani - bisogna pensare che il «villanesco» in questo caso non ha niente di rustico: è poesia popolare cittadina, e Napoli nella sua storia seco­ lare di capitale, di trovatori illustri ne aveva visto e udito non pochi. Per la musica io vedo in quelle quinte non uno sberleffo irriverente a messer Adriano o al suo allievo Zarlino, ma un tentativo di riprodurre, «ridotti in musica» attraverso il mezzo madrigalistico del canto a più

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voci, i modi di armonizzazione e la tecnica di accompagnamento stru­ mentale di cantori popolari, gli uni e gli altri strettamente compene­ trati a formare un linguaggio musicale caratteristico. Le quinte erano già ampiamente presenti nella «napolitana» riportata più sopra. Ma per togliere ogni dubbio che esse nascessero soltanto dalla mia mani­ polazione del tenore, mancante in quel primo esempio anonimo, ne aggiungo un’altra, dal testo pittorescamente estroso, tutta autentica e di autore certamente napoletano (es. xxi bis). Certamente le «napolitano», anche se le riportiamo alla forma ori­ ginale del canto a solo con accompagnamento strumentale, sono sol­ tanto un riflesso evocativo dei canti popolari accompagnati dalla cetola o dal colascione. Cosi come sono riflessi tutte le rielaborazioni poli­ foniche che abbiamo passato finora in rassegna. Il gusto della rievoca­ zione pittoresca attraverso la musica si accentua nelle «moresche» (il solito termine ha trovato un nuovo impiego per designare comici ab­ bozzi di dialogo nel gergo degli schiavi mori), pubblicate e ripubbli­ cate più volte per lo più senza nome di autore, tranne una che è attri-

Esempio xxi bis. Giovanni Tommaso di Maio, Napoletana. Da Canzon vilanescbe di Giovati Thomaso di Maio Musico Napoletano Libro primo A tre voci (A. Gardane, Venezia 1546). ■

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buita da una stampa del 1562 a Orlando di Lasso”. Una moresca è in­ clusa anche nel Libro terzo (Venezia 1567) delle napolitane di Massi­ mo Troiano, insieme a una «Battaglia de la gatta e la Cornacchia» e una «Amascherata alla Turchesca». Dello stesso anno è la prima stam­ pa del Cicalamento delle donne al bucato et la Caccia di Alessandro Striggio (Venezia 1567), ai quali nella ristampa del 1569 si aggiunge anche un «Giocò di Primera». Come fu giustamente asserito da Alfred Einstein, il Cicalamento è «un divertimento musicale non una antici­ pazione del dramma musicale»82; contiene elementi di dialogo, ma il musicista non si propone di seguirne il filo se non per quel tanto che serve a richiamare all’immaginazione dell’ascoltatore il sovrapporsi del­ le voci, il trambusto delle esclamazioni, il quadro di insieme delle ba­ ruffe e delle pacificazioni. È interessante ai fini di questo saggio che sul vario cicaleccio delle buone massaie si librino di tanto in tanto spunti di canzoni, una delle quali permette di ricostruire la melodia di un canto usato alcuni decenni prima in commedia H, Che fa lo mio amore che non viene? (es. xxn). Tra le rievocazioni suggestive delle lavandaie in baruffa, della par­ tita a carte, della caccia, prende posto anche quella del teatro, colto in uno degli aspetti piu pittorescamente caratteristici; il dialogo tra Zan­

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ni e Pantalone, trattato da Orlando di Lasso (a 8 voci!) in una stampa parigina del 1581 e dal suo presunto allievo Johannes Eccard nei Netue Lieder, pubblicati a Kònigsberg nel 1589“. E ancora una volta si tratta, specialmente per le udienze esotiche alle quali le composizioni furono destinate, di dialoghi nei quali ciò che i personaggi dicono non ha importanza per se stesso, ma è solo un pretesto all’effetto impres­ sionistico del sovrapporsi e intrecciarsi dei suoni, dello squittire di Zanni in falsetto di contro al brontolare di Pantalone nei bassi con toni di minaccia o di esasperazione; l’Eccard completa l’evocazione col far risuonare a mezz’aria una canzoncina affidata alla parte del «quin­ to» e ripetuta piu volte a diversi livelli tonali: E la bella Franceschina, ninina, bufina, la filibustachina1'. La scena cosi è pronta per L’Amfi-

Esempio xxn. Alessandro Striggio, Frammento da 11 defilamento delle donne al bucato (G. Scotto, Venezia 1567). Sono date soltanto le parti di canto e basso.

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parnaso Comedia Harmonica di Orazio Vecchi (Venezia 1597; ma era già stato eseguito prima della pubblicazione). La scena è pronta ideal­ mente, s’intende, perché, come dice il prologo: ...la città dove si rappresenta quest’opra, è ’1 gran Theatro del mondo, perch’ognun desia d’udirla: Ma voi sappiaf intanto, che questo di cui parlo spettacolo, si mira con la mente, dov’entra per l’orecchie, e non per gl’occhi...

Per un momento il Vecchi si prende sul serio nel suo compito di commediografo e disquisisce (nel discorso «Ai Lettori») sulla com­ media che, «come specchio dell’humana vita, ha per fine non meno l’utile, che ’1 diletto, e non il muovere solamente al riso, come forse alcuni si faranno a credere che sia per fare questa mia Comedia Musi­ cale». Subito dopo, tuttavia, comincia ad ammettere che «l’attione è piu breve del dovere, perché essendo il nudo parlare piu spedito del canto unito alle parole, non era bene discendere a certi particolari del­ la favola»; ma anche questa è piu scusa che ragione, perché la necessi­ tà di fare il testo breve non impedisce al Vecchi di ripeterne a volte le frasi per pura convenienza di effetto musicale. Colpisce meglio nel se­ gno il passo nel quale egli aggiunge: «Ma chi desiderasse di più in questa attione, rimetta ogni mancamento al presupposto sottointeso di dentro, e non espresso di fuori, che cosi si formerà nell’idea una favola compiuta... Così io alcune parti di questa mia Comedia Harmonica, che necessariamente sono richieste, rappresenterò pienamente, altre tratterò con modo più ristretto, & altre accennerò solo». In altri ter­ mini ciò che egli si propone non è svolgere ordinatamente una comme-

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dia ma evocare nella mente dello spettatore la visione di una rappre­ sentazione comica. Anche nei brevi squarci di dialogo il tentativo di identificare ciascun personaggio con un differente raggruppamento di voci è a volte accennato, ma poi quasi immediatamente abbandonato perché ciò che più interessa all’autore è lo svolgimento musicale delle sue idee. Le parti che sono più coerentemente sviluppate in pezzi a sé stanti sono gli sfoghi lirici dei personaggi seri, che prendono la forma di veri e propri madrigali a cinque voci: ma non meno madrigalesco è il trattamento a volte anche dei punti più salienti del dialogo, come per esempio quello in cui Frulla rivela ad Isabella disperata che Lucio non è morto (es. xxin). Una vecchia conoscenza è la parodia del madrigale di Cipriano de Rote, Ancor che col partire, che qui diventa Anchor ch’ai partorire al se stenta a murirc, patir vurrei agn’hor senza tormiente. Tant’è ’1 piaser Vincenze l’acqua vita m’ha pist’e pur ai tome. E cosi mille mele al far del zorne padir agn’hor vurrei, tanto son dolci i Storni ai denti miei.

Lo canta il Dottor Graziano su invito di Pantalone (Cantè su un pòchetin | un Madre gale tin), dopo che questi gli ha concesso la mano di Isabella. La xilografia che precede il madrigale a quattro voci, mo­ stra il dottore che canta sul liuto sotto la finestra della bella, mentre Pantalone e Francatrippa si tengono in disparte; è una volta di più una testimonianza figurativa delle inserzioni realistiche in commedia; ma la musica, per quanto non possa dirsi impossibile ridurla per canto e liuto, non è intesa per questo proposito che adombrerebbe l’efficacia dello scherzo; il compositore infatti conserva inalterata la voce supe­ riore della composizione di Cipriano e vi costruisce sotto un tessuto diverso e tutto suo di contrappunto madrigalistico. VAmfiparnaso è altrettanto poco una vera commedia quanto poco è un vero banchetto il Convito musicale dello stesso autore, che non ci offre vivande ma gli entremets musicali che abbiamo già imparato a conoscere come progenitori degli intermedi teatrali. La commedia Amfiparnaso è il pretesto scelto dall’autore per una serie di qua­ dretti di genere, ora pittoreschi, ora parodistici, ora sentimentali, che tutti testimoniano della estrosa duttilità del compositore. Vecchi si guardò bene dall’usare due volte lo stesso pretesto; ma non altrettan­ to discreto fu un suo ammiratore e imitatore che ritentò l’unione dei

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due Parnasi almeno tre volte (ancora di piu se si tiene conto che qual­ cuna delle sue cosidette commedie madrigalistiche fu ripubblicata più volte, ogni volta con modifiche, aggiunte e sottrazioni). Il candido Ban­ chieri, nel suo zelo di poligrafo, oltre che di musicista compositore, esecutore e teorico, scrisse anche, sotto lo pseudonimo di Camillo Sca­ ligeri della Fratta, tutta una serie di commedie, miste di lingua e di dia­ letto, con i relativi intermedi a volte «inapparenti», altre volte «appa­ renti». Di commedie dunque se ne intendeva; ma in quelle musicali i suoi procedimenti sono ancora più schematici di quelli di Orazio Vec­ chi e gli intrecci, i personaggi, le situazioni loro non sono che ripeti­ zioni pochissimo variate di quelli dell’Am fiparnaso. Tutt’al più sono invertiti a volte i ruoli dei due vecchi: Pantalone anziché concedere la figlia in moglie al Dottor Graziano, è l’aspirante anziano alla mano del­ la fanciulla che finisce coll’essere deluso; soprattutto ogni volta è dato come scena all’azione della commedia un luogo diverso, permettendo cosi ogni volta al compositore di dare, specialmente con gli intermedi (che nell’Amfiparnaso mancano e qui hanno un posto importante), una diversa pennellata di colore ambientale, una diversa mascherata ri­ ferita ad un mestiere caratteristico. Se vogliamo, la Pazzia senile (1598), la Metamorfosi musicale (1600) e la Saviezza giovanile (1608) sono tre diverse rappresentazioni di uno stesso scenario, riempito ogni volta con diverso dialogo e diverse trovate e lazzi musicali. Ma queste pseu­ do-commedie ci confermano quali fossero le occasioni ritenute piu ido­ nee all’intervento della musica in commedia - realistico nel corso delEsempio xxin. Orazio Vecchi, Frammento del racconto di Frulla. Da L’Amfiparnaso Comedia Harmonica (A. Cardano, Venezia 1597), atto II, scena v.

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l’azione, con canzoni, serenate e danze, richieste dall’intrigo o almeno compatibili col suo svolgimento -; formale sotto specie di intermedi, i quali tuttavia sono anch’essi in qualche modo collegati all’azione quan­ do consistono in mascherate di mestieri o figure tipiche della vita citta­ dina. Sia VAmfiparnaso che le commedie di Banchieri lasciano anche intravedere in modo ambiguo la possibilità di qualche brano musicale inserito a formalizzare dialoghi amorosi o soliloqui; se veramente brani musicali di questo tipo furono usati in commedia, come pare lo fos­ sero le «chiusette» in versi in fine di una tirata della commedia dell’ar­ te, avranno contribuito a rendere piu tardi piu facilmente accetta la con­ venzione dei pezzi chiusi, «ariette» o «scherzi», che interrompevano il corso del recitativo operistico. L’ultima indicazione che dobbiamo a Banchieri è il fatto che egli non segui il modello dell’Amfiparnaso nell’utilizzare il normale coro madrigalesco a cinque voci. Non solo egli si attenne in ognuna delle sue commedie musicali ad una scrittura a tre sole voci, ma si prese inol­ tre la briga di ridurre a tale scrittura anche il suo modello. Ciò egli fece con lo Studio dilettevole fiorito dall’Amfiparnaso (Milano 1600) che egli elencò tra le opere proprie come Libro Terzo delle Canzonette a 3 voci. Soltanto il Libro primo della serie è composto di semplici canzonette (tra le quali una «Napolitana», una «Villetta» e una «Vil­ lanella», una mascherata e un balletto); la Pazzia senile nelle sue varie ristampe è sempre numerata come Libro secondo, la Metamorfosi mu­ sicale come Libro Quarto e la Saviezza giovanile come Quinto Libro degli Terzetti. È evidente che il Banchieri era consapevole di una tra­ dizione che ricollegava le musiche di commedie al genere facile e melo­ dioso della linea villotta-villanesca-villanella-canzonetta.

1 La divisione in atti è indicata da Orazio e da Donato, che ne fissano il numero a cinque; ma è dubbio che le commedie di Plauto e Terenzio osservassero tale norma. 2 Vedi il saggio precedente. 3 Le prime traduzioni di commedie classiche (per esempio quella de\VAnfitrione, fatta da Pandolfo Collenuccio, per servire alle rappresentazioni del 1487, già citata nella nota 13a del saggio precedente) adottarono di solito la terza rima. Le commedie di Iacopo Nardi usarono terzine e ottave, attribuendo di solito queste ultime ai per­ sonaggi di maggior dignità. Piu tardi prevalsero gli endecasillabi sciolti, ai quali tor­ narono occasionalmente anche gli autori di commedie in prosa. Il piu tipico esempio del contrasto tra il desiderio di trovare una veste metrica paragonabile a quella dei modelli classici e l’impulso verso la forma più realistica della prosa lo dà FAriosto; il quale forse parti da una versificazione irregolare e con rime frequenti (vedi la nota 6 piti avanti), adottò poi la prosa, ma più tardi rielaborò anche le commedie già scritte e rappresentate in endecasillabi sciolti sdruccioli che tentavano di riprodurre

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il ritmo del trimetro giambico. A questo tentativo corrisponde quello compiuto piu tardi da Luigi Alamanni con la Flora (1549) che è in sdruccioli di sedici sillabe. 4 I tentativi di modernizzazione hanno inizio fin dalle prime traduzioni di commedie plautine. Vedi in proposito i testi di Battista Guarini e di Niccolò Cosmico indicati nella nota 13 del saggio precedente. 5 Da una lettera, spesso riprodotta, di Bernardino Prosperi a Isabella d’Este, pubbli­ cata da G. CAMPORi, Notizie per la vita di Ludovico Ariosto, Firenze 1896, p. 51. 4 Ibid. Nella versione in prosa della Cassaria tramandata dalle stampe la scena è Metellino; in quella in versi Sibari. L’indicazione che la scena del 1508 rappresentava Taranto, e l’altra pure contenuta nella lettera del Prosperi, che la commedia era «traducta in forma di barzeleta 0 sia frotola» ha suggerito la possibilità di una pri­ ma redazione in versi; vedi ireneo sanesi, La commedia, Milano 1954,1, pp. 222-25. Se si accetta questa tesi, che ha incontrato notevole opposizione, l’espressione « bar­ zeleta o frotola» dovrebbe indicare o una versificazione in endecasillabi con fre­ quenti rime a mezzo verso, o distici di settenari o ottonari dei quali il secondo dà la rima al primo della coppia successiva: ab, bc, cd, ecc. 7 Da un’altra lettera del Prosperi a Isabella in campori, Notizie cit., p. 58. 8 Per la datazione della prima rappresentazione della Mandragola al 1518 vedi il saggio seguente. ’ Alessandro d’ancona, La poesia popolare italiana, Livorno 1906, p. 101, nota che il primo verso è adoperato nell’incatenatura che va sotto il nome di Serenata del Bronzino (il pittore Angelo Allori); potrebbe essere soltanto un’eco della comme­ dia, e quindi piu importante è la somiglianza con testi popolari marchigiani c istriani. 10 Vittorio rossi, Falli e canzoni del secolo xvi, appendice III alla edizione di andrea calmo, Le lettere, Torino 1888, ne dà, pp. 441 e 442, il testo completo secondo una stampa del primo Cinquecento. 11 Ne dà parecchi riscontri d’ancona, La poesia popolare cit., p. 108, n. 2. “ Ibid., p. 106, sono riscontri meno precisi ma frequenti; notevole è la citazione ne I tre tiranni di Agostino Ricchi. Si veda inoltre piu avanti, p. 103. 13 Da confrontare con E la va come la va di Bartolomeo Tromboncino, trascritta da A. Einstein in Canzoni Sonetti Strambotti et Frottole, Libro tertio (Andrea Antico, 1517), Northampton 1941, pp. 47-50. 14 Anche questa canzone è ricordata nell’Argomento de 1 tre tiranni del Ricchi; per altre citazioni vedi lovarini, Studi sul Ruzzante cit., p. 216. 15 Vedi piu sopra, pp. 77 sgg. 16 d’ancona, La poesia popolare cit., p. no, n. 1. 17 Non si può sfuggire a questa conclusione quando, dopo aver consultato numerose stampe di commedie, ci si trova ad aver raccolti su per giu gli esempi già segnalati dal D’Ancona, dal Rossi e dal Lovarini. Le inserzioni di tipo realistico si fanno sem­ pre piu rare quanto piu tarda è la data, sicché sono eccezioni i canti di Ciacco ne II ragazzo di Ludovico Dolce (atto II, scena 1) e i due strambotti dell’atto II del Ro/fiano pure del Dolce, cantati da un servo che attribuisce il primo a «un cherico del Petrarca; & messa in canto sul liuto dal Tromboncino», e il secondo al Bembo. 18 Secondo la testimonianza di Giuliano de Ricci, il Machiavelli «compose... ad imitatione delle nebule et altre commedie di Aristofane un ragionamento a foggia di Commedia et in atto recitabile et lo intitolò le Maschere». Cito da sanesi, La commedia cit., I, p. 253. ,9 d’ancona, Origini cit., II, pp. 81 e 84. 20 In Commedie del Cinquecento, ed. da Aldo Borlenghi, Milano 1959, II, pp. 905 sgg. 21 Curzio mazzi, La congrega dei Rozzi di Siena, Firenze 1882, I, pp. 84 sgg. “ Ibid., pp. 153-54. Negli Errori d'Amore di Marco Guazzi mantovano (Venezia 1525)

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non vi è esplicita divisione in atti, ma tra gli interlocutori sono elencati Berto e Bertun «vilani intermedi», i quali in una delle loro sortite in scena cantano stram­ botti, alternandone i primi distici e unendosi per l’ultimo. 21 Curzio mazzi, La congrega dei Rozzi di Siena, I, p. 207. Sui Rozzi si veda ora Ro­ berto alonge, lì teatro dei Rozzi di Siena, Firenze 1967. 24 Per le recite napoletane vedi più avanti, pp. 119 sgg. 25 La prima stampa di madrigali che si conosca è il Libro primo de la serena pubblicato a Roma pure nel 1530 (ne rimane soltanto la parte di «alto» nella Biblioteca Co­ lombina di Siviglia). Oltre che il madrigale di Chrisaulo potrebbe essere anche can­ tata la lauda di un pellegrino in partenza per San Iacopo di Galizia nell’atto IV (e già di ritorno nell’atto V). La commedia, già citata per le canzoni che sono ricordate nell’argomento, fu pubblicata nel 1533 «con privilegio Apostolico, et Venitiano» e dedicata dall’autore da Ferrara al cardinale Ippolito dei Medici. 24 Si vedano le abbondanti indicazioni fornite dal Lovarini in alcuni degli studi ora riuniti nel volume Studi sul Ruzzante e la letteratura pavana. Il Ruzzante dovette il più delle volte inventare se non le melodie i versi dei suoi canti perché per nesnuno di quelli inseriti in commedie mi è stato possibile rintracciare una corrispon­ dente intonazione musicale. 27 Dalla descrizione di un banchetto ferrarese del gennaio 1329 in Cristoforo da messiburgo, Banchetti, composition di vivande e apparecchio generale, Ferrara 1549 (ristampata in facsimile a cura di F. Bandini, Venezia i960), c. yr. Si veda inoltre ibid., c. 4, la descrizione di un banchetto del giugno dello stesso anno nel quale « vi furono cinque, che cantarono certe canzone alla pavana in villanesco che fu maravigliosa cosa ad udire». 28 ester cocco, Una compagnia comica nella prima metà del secolo xvi, in «Giorna­ le storico della letteratura italiana», 65, 1915, p. 55. 29 Cito da sanest, La commedia cit., II, p. 2. w Per un’ampia bibliografìa si veda Enciclopedia dello Spettacolo, III, sub voce, par­ ticolarmente la sezione II (Italia) che fornisce anche, col. 1202, un elenco di raccolte di scenari. Non sono rari negli scenari gli elenchi di «robe per l’opera» (si noti l’uso generico del termine opera). 31 Trascrizione in notazione moderna edita sotto lo stesso titolo da Willi Apel, Roma (?) 1963. Si veda anche più avanti l’articolo citato nella nota 43. 32 Oltre gli scritti già citati di A. D’Ancona, V. Rossi ed E. Lovarini si vedano vari studi di Severino Ferrari e il Contributo alla storia della lirica musicale italiana po­ polare e popolareggiante..., di Francesco novati, in Miscellanea Rodolfo Renier, Torino 1912, pp. 899-980. M In mancanza di una bibliografia più comprensiva si vedano Arnaldo segarizzi, Le stampe popolari della Biblioteca Marciana, Bergamo 1907; carlo angeleri, Biblio­ grafia delle stampe popolari... nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Firenze 1953; Caterina santoro, Stampe popolari a carattere profano della Biblioteca Trivulziana, Milano 1964. La maggior parte delle stampe sopravvissute tendono ad essere di data relativamente recente e attestano dunque la persistente popolarità di una canzone ma non aiutano a stabilirne la cronologia. 34 Mi riferisco soprattutto allo studio di knud jeppesen, Venetian Folk-Songs of the Renaissance, in «Papers... of the American Musicological Society for 1939», 1944, pp. 62 sgg., e al volume di fausto torrefranca, Il segreto del Quattrocento, Mi­ lano 1939. Ad essi si è aggiunto, dopo la prima pubblicazione del presente saggio, uno studio di Jeppesen più ampio e sistematico di quello già citato: Frottola und Volkslied, in K. jeppesen, La Frottola, III, Copenaghen 1970, pp. 9-140. I riferi­ menti ad esso nelle note seguenti conterranno soltanto il nome dell’autore é il numero da questi assegnato ad ogni melodia. M È il codice Siviglia, Biblioteca Colombina 5.1.43, dal quale jeppesen, Venetian

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Folk-Songs cit., riporta la melodia di Villana che sai tu far. I tre tenori non sfuggirono a Dragan Plamenac, il quale però vi accennò fuggevolmente nella prima parte (p. 527) del suo prezioso studio A Reconstruction of the French Chansonnier in the Biblio­ teca Colombina, in «The Musical Quarterly», xxxvu, 1951, pp. 501 sgg.; xxxvm, 1952, pp. 85 sgg., pp. 245 sgg. Il codice, che è francese per buona parte del suo con­ tenuto, ma di origine italiana, è pure edito in facsimile, sempre a cura del plamenac, Sevilla 5. 1. 43 & Paris ÌLA.Fr 4379 (Pt. I), Brooklyn (New York) 1962. Vedi anche Jeppesen, 293-95. 34 Siviglia 5. 1.43, f. i3ot,-i3ir. L’incipit Lenchioza mia è facilmente rettificato sulla base della concordanza in Canti C (Venezia 1503, 1504 st. mod.) del Petrucci; la melodia sostanzialmente corrisponde a quella usata da un altro oltremontano, Johan­ nes Japart, riscontrabile in Harmonice Musices Odhecaton A, ed. da Helen Hewitt, Cambridge (Mass.) 1942, pp. 233-34. Sul Martini si veda l’articolo di Ludwig Finscher in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., voi. Vili (ma il codice litur­ gico che induce il Finscher a supporre un soggiorno a Modena è di provenienza esten­ se). 37 Ibid., ff. i3ip-i32r e 133^-134^, entrambi unica. Ibid., ff. 134^-1351’ è una composi­ zione sul tenore Che fa la rama(n)zina che fala che la non vem, la cui melodia è nota da altre fonti. Tutto il gruppo di composizioni sembrerebbe destinato all’esecuzione strumentale. 31 Vedi piu sopra, p. 94. La stampa, senza data, ma non anteriore al 1530, è il Libro Primo de la Fortuna. Il poco che sopravvive della musica è trascritto da f. torre­ franca, Il segreto del Quattrocento cit., p. 571. Vedi anche jeppesen, n. 148. 39 Sulle occorrenze letterarie di questo ritornello e del precedente si veda lovarini, Studi sul Ruzzante cit., p. 216 e 170. 40 Pubblicata, dalle Frottole Libro Septimo, in luigi torchi, L'arte musicale in Italia, I, Milano 1897; in redazione per voce e liuto da Tenori e Contrabassi Intabulati... libro secando (Fossombrone 1511) in benvenuto disertori, Le frottole per canto e liuto ecc., Milano 1964, pp. 493-05. Non sono certo che la melodia del soprano, data da jeppesen, n. 83, sia quella del canto popolare. Allo stesso tipo appartengono tre composizioni di Alessandro caprioli: Sotto un verde alto cupresso (citazione E d'un bel mattin d'amore), Una legiadra nimpha (citaz. Cavalcha) e Chi propitio à la sua stella (citaz. La viianela), la prima dal Libro octavo, le altre dal Libro Nono del Pe­ trucci. Vedi jeppesen, nn. 91 e 98; a quest’ultimo si applica la riserva già espressa per il n. 83. Altre sono in Frottole libro secondo (Roma 1516 [?]) della serie pubblicata da Andrea Antico; tra queste Per fuggir d'amor le ponte di Marchetto Cara (citaz. Deh tiente alora, tiente alora ruzenenta), già in Tenori e Contrabassi Intabulati... libro secundo (e quindi accessibile in b. disertori, Le frottole per canto e liuto). Non inclusa nell’elenco di jeppesen, che invece cita altre fonti (nn. 87-90, 92 e 94). 41 Per la natura più rusticale che arcadica dell’egloga si veda il riassunto datone da sanesi, La commedia cit., I, pp. 407-8. Per l’elenco di balli si veda l’articolo del Fra­ ti citato nella nota seguente. 42 L’elenco include anche el Pegoraro; el Turluru, Tiente alora; Me livava un bel mat­ tino; Torala mo, villan e Fortuna d'un gran tempo; vedi luigi frati, Un'egloga ru­ sticate del 1308, in «Giornale storico della letteratura italiana», 20,1897, pp. 186 sgg. Lo strambotto era già stato segnalato da F. no vati, Contributo alla storia della lirica popolare, pp. 926 c 927, 43 Vi avevo accennato già parecchi anni or sono in Commedia dell'arte e melodram­ ma, in «Manifestazioni culturali dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia», 1954, poi ripubblicato come Commedia dell'arte and Opera, in «The Musical Quarterly», lxi, 1955, pp. 305 sgg. 44 d’ancona, Le origini cit., II, pp. in sgg. 45 Ibid., pp. 120 e 121, e lovarini, Studi sul Ruzzante cit., pp. 81 sgg. 44 Uso intenzionalmente questo termine per sottolineare una situazione analoga a quel­

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la che esistè in Francia tra «chansons rustiques» e «chansons musicales», recen­ temente discussa da Howard m. brown, Music in the French Secular Theater, 14001550, Cambridge (Mass.) 1963, pp. 113 sgg. 47 Da Tenori e contrabassi intabulati... libro secundo e quindi incluso nell’edizione di disertori, Le frottole per canto e liuto cit., pp. 548-51, che comprende un testo pii! completo di quello dato con la musica. Non è citato da jeppesen. Sarebbe sedu­ cente identificarne l’autore col Gian Pietro della Viola, fiorentino, ma al servizio della corte di Mantova, autore del testo e delle musiche (?) di una Festa de Lauro rappre­ sentata a Mantova nel i486; vedi d’ancona, Le origini cit., II, pp. 351 e 352, nota. 41 jeppesen, nn. 65-70, elenca questa ed altre composizioni nelle quali in vario modo compaiono 0 la melodia completa, o almeno un frammento di essa. 49 11 segreto del Quattrocento cit., pp. 356 e 357 (facsimile), 451 e 452 (trascrizione), dal ms Venezia, Biblioteca Marciana, It. Cl. IV, 1795-98. Una anomalia della melo­ dia del tenore, quale è data nella composizione, è che essa comincia in una tonalità di fa (il si bemolle è sottinteso in base a regole di solmisazione) e finisce in una tona­ lità di do, abbracciando un ambito di una nona; è probabile che l’originale intonas­ se tutta la ripetizione del testo una quarta sopra di come è nella composizione, ri­ pristinando l’unità totale e riportando l’ambito a quello di una sesta, piu usuale in questo tipo di canti. Vedi anche jeppesen, nn. 50-52. 50 È nota la tesi del Torrefranca, che la villota contrappuntistica, alla quale egli attribui­ va notevole antichità, fosse, per dirla con un bisticcio, la matrice del madrigale. Come è stato piu volte notato, la maggior parte degli esempi ai quali egli si appoggiò o non corrispondono alle caratteristiche che egli indicò, o provengono da manoscritti e stampe non anteriori al 1520; il «contrappunto arioso» (la definizione è precisa ed acuta) ha tuttavia un precursore in un musicista che sono lieto di potere qui ricor­ dare, Michele Pesenti, veronese o vicentino, il quale fin dal primo libro delle Frot­ tole del Petrucci (1504) compare non solo come armonizzatore di una filastrocca po­ polare, ma anche come iniziatore della villota contrappuntistica che usa materiale melodico popolare un po’ in tutte le voci. Quali siano i rapporti del «contrappun­ to arioso» con la contemporanea chanson francese non è qui il luogo adatto per in­ dagare. Ma è interessante notare che, di fronte alla tendenza erudita che moveva verso il madrigale con giustificazioni petrarchesche, ve ne è un’altra, forse influen­ zata dall’etimologia mandriale da mandria di Antonio da Tempo (il cui trattato trecentesco fu stampato nel 1507), che tende al pastorale e popolaresco. Anche qui c’è un parallelismo col teatro dove, accanto all’imitazione dei classici, aveva gioco la teoria esposta da Alessandro Vellutello, «essere la Comedia stata trovata... da i Pa­ stori... che in quella lingua [la greca] comi significa villa» *(nell «Avviso ai Lettori» che precede I tre tiranni di Agostino Ricchi). 51 Trascritta da Fernando Liuzzi e rivista da R. Cumar e P. L. Petrobelli in lovarini, Studi sul Ruzzante cit., taw. xxvi-xxxii, da Canzoni Villanesche Alla Napoletana di Messer Adriano a Quattro Voci Con la Canzon di Ruzante, Venezia 1548. Vedi an­ che A. willaert, Volkstumliche Italienische Lieder a cura di E. Hertzmann, Wolfenbuttel s. a. («Das Chorwerk», quad, 8), pp. 810. Per la storia delle precedenti stampe, nelle quali la Canzone manca, vedi l’articolo del Lovarini che precede la trascrizione. Non ho potuto esaminare la musica di altre due composizioni di Willaert, pubblicate nel 1563, che potrebbero pure essere condotte su melodie del Ruzzante (ibid.t pp. 259 c 270, nota). 52 emanuele a. cicogna, Delle iscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, pp. 551 e 552, dà notizia di versi latini da lui composti e musicati in onore di Anna d’Ungheria, che furono cantati nel 1502 da Pietro de Fossis; anche il Bembo ne ricercava la com­ pagnia. 51 Donna, ascolta in Frottole libro primo, Venezia 1504. Fu maestro di cappella a Fer­ rara. Per il Ricco vedi 1. sanesi, La commedia, I, pp. 206 e 207; i rapporti con i Gon­ zaga sono indicati dalle dediche delle sue rime nel 1518 e 1520.

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M ANDREA calmo, Le lettere, con introduzione ed illustrazioni di Vittorio Rossi, Tori­

no 1888, p. 29. Le informazioni biografiche sono quelle di Alessandro Zilioli ripor­ tate a p. xxx dell’introduzione del Rossi. Il Calmo fu certamente amico del Parabosco (ibid., p. xi) e indirizzò lettere oltre die a lui a Giammaria del Cornetto, An­ ton Francesco Doni, Ippolito Tromboncino e Adriano Willaert. 55 Dalia dedica de I Fatti, e le prodezze di Manali Elessi, Strathioto, Venezia 1561, poema eroicomico in «lingua greghesca» (cioè il miscuglio di greco e veneziano usato dagli stratioti al servizio della Serenissima) del Molino. La dedica è scritta da Ludovico Dolce, un’indicazione del rango notevole, anche se non nobile, del­ l’autore. In lingua bergamasca il Molino racconta la novella 4 della quinta delle Piacevoli notti dello Straparola. Nel 1568 il Molino pubblicando un suo volume di madrigali a 4 voci parla della sua «grave età». “ Il Primo Libro delle Justiniane a Tre Voci Di diversi Eccellentissimi Musici (Vin­ cenzo Bell’haver, Francesco Bonardo, Donato Baldissera, Andrea Gabrieli, Claudio Merulo e Gasparo Vinciguerra). La raccolta, come altre, ha un contenuto misto del quale l’esempio scelto da einstein, The Italian Madrigal cit., Ili, n, 60, non è molto rappresentativo. Contiene una mascherata di mendicanti, e alcune delle justiniane sono pure mascherate di tre vecchietti, mentre altre sono espressioni amorose indi­ viduali e quindi adatte al personaggio di Pantalone (e appartengono al tipo dello strambotto); un paio sono «zorziane», cioè canti di un personaggio giovane, scioc­ co e vanesio, pure adatti a figurare in commedia. 57 II testo originale di Alfonso d’Avalos fu reso famoso dalla musica a quattro voci di Cipriano de Rote, già pubblicata fin dal 1547. 51 einstein, The Italian Madrigai cit., p. 528, nota che Mandi è anagramma di Molino (approssimativamente) e ne riporta la dedica scherzosa; ma la migliore conferma è la dedica delle Greghesche e lustiniane di Andrea Gabrieli a tre voci del 1571 (vedi la nota 55). 59 Con sette composizioni, mentre gli altri ne hanno una o due ciascuno, e soltanto Annibaie Padovano tre. w Maggiore probabilità avrebbero le composizioni a 3 voci, ma Gabrieli se ne attri­ buisce la paternità e non vi è motivo di dubitarne. “ Il padre fu reintegrato nei suoi possedimenti in seguito al trattato dell’ottobre 1505 e sposò Maria d’Aragona. Il principe, «per natura liberalissimo... teneva nella sua fioritissima Corte uomini di Lettere, di Musica, e d’Armi»; orgoglioso della sua preminenza tra i nobili del regno, si mise in urto col viceré di Toledo, lasciò Napoli nel 1552 e fu dichiarato ribelle. él Vedi il saggio precedente. " Gio. ANTONIO SUMMONTE, Historia della Città, e Regno di Napoli, Napoli 1675, IV, P W M Carlo V giunse a Napoli nel novembre 1535 c vi si trattenne fino a tutto il carnevale seguente; il 6 gennaio furono celebrate le nozze di Mar|frerita d’Austria, «figlia deio Imperatore, benché picciolissima d’età, con lo duca di Fiorenza Alessandro de Medici... Alli 2. di Febraro giorno della Candelora l’imperatore... magnò quella mattina in casa de lo Principe di Salerno, dove la sera ci vennero tutte le Signore e gentildonne de Napoli, e si fece una bellissima Comedia... Il resto dello Carnevale fini in continue maschere, festi, banchetti, musiche, commedie, farze & altre recrea­ zioni»; da Gregorio rosso, Istoria delle cose di Napoli, Napoli 1770, pp. 66-70. 65 benedetto croce, I teatri di Napoli, Bari 1926, pp. 21 sgg., suppone che si trat­ tasse della Calandria del Bibbiena e del Beco di Francesco Belo. 64 Dell'Istoria di Notar Antonino Castaldo Libri Quattro, Napoli 1769, pp. 71-72. luigi dentice è autore di Duo dialoghi della musica, Napoli 1352; Fabrizio, suo figlio, doveva essere ancor giovanissimo nel 1545; il Brancaccio dopo una vita av­ venturosa era ancora ammirato come gentiluomo cantore alla corte di Ferrara ver­ so il 1580; di Scipione delle Palle, maestro di Caccini, riparlerò nel saggio La me­

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raviglia, ohimè! degli intermedi; Giovanni Leonardo dall *Arpa, se si tratta di lui, fu noto soprattutto come compositore di villanelle alla napoletana, ed era ancora elogiato come liutista dal conte Fontanelli nel 1594. 47 Dell’Istoria cit., p. 72. Il croce, I teatri di Napoli cit., p. 23, pone questa rappre­ sentazione al 1547 e suppone che nel 1546 le commedie fossero date da «certi modanesi»; in realtà l’accenno contenuto nel prologo della Philenia, dal quale il Croce fu indotto a spostarne la data e a supporre per il 1546 la venuta di una compagnia mode­ nese, si riferisce invece alle recite de Gli ingannati, la cui scena si suppone sia Modena. 41 La commedia è inclusa in Commedie del Cinquecento, ed. da A. Borlcnghi, vol. I; il passo citato è alle pp. 186 e 187 e vi si accenna burlescamente a epistole, sonetti, capitoli, strambotti e madrigali. " Intitolato appunto II basso del Brancazio. Del Brancaccio parla anche il Discorso sopra la musica di VINCENZO GIUSTINIANI, c. 1628. 70 Vedi la nota 67. 71 Giovanni Leonardo dall’Arpa è citato insieme a Scipione delle Palle, allo spagnuolo Cornelio, cantore della cappella vicereale, e a una Phomia (madonna Eufemia) tra gli esecutori degli intermedi dell’AZwtfMJro di Alessandro Piccolomini, fatto rap­ presentare nel 1558 dalla marchesa del Vasto, croce, I teatri di Napoli cit., p. 26. 72 È il primo esempio che si conosca di stampa musicale italiana con caratteri mobili, « Stampato in Napoli per Joanne de Colonia Alli xxiii. de Octobr. mdxxxvii ». 71 benedetto DI falco, Descrittione dei luoghi antichi di Napoli e del suo amenissimo distretto, Napoli s. a. (ma c. 1535). 74 « Maximus Troianus neapolitanus musicus, in aula IH. Ducis Suessae in provincia Mediolanensis Gubernatoris multum acceptus, cum quasdam cantiones neapolitano idiomate et concentu scriptas in artem musicam redegisset et edere vellet, ne suis laboribus et sumptibus frauderetur, petit a nostro Senatu Mediolanensi facultdtem, et privilegium sibi concedi», ecc., da Mariangela donà, La stampa musicale a Milano fino all’anno 1700, Firenze 1961, p. 127. 75 Di Massimo Troiano di Corduba da Napoli II Primo et Secondo Libro Delle Can­ zoni alla Napolitana, a tre voci, Venezia 1368; la mancanza di una dedica indica che si tratta di una ristampa. 74 Wolfgang B0ETT1CHER, Lasso, Orlando di, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., voi. Vili, col. 252. 77 Dai Discorsi delti triomfi... nell’anno 1568 a’ 22 di febraro, Monaco 1568, nei quali il Troiano sostiene che la commedia sarebbe stata messa su col preavviso di un solo giorno. Cito da enzo petraccone, La commedia dell’arte, Napoli 1927, pp. 297 sgg. n K. m. lea, Italian Popular Comedy, New York 1962, p. 7, indica che Battista Sco­ lari di Trento che faceva il Zanni era un orafo. La parte di Camilla fu fatta dal marchese Malaspina. Ercole Terzo appare nei registri di pagamenti della corte di Monaco nel 1568 come «Lucio geigers sonn», dal 1569 in poi come «Hercules», spesso con la qualifica di trombonista, e con salario dapprima molto basso, che con­ ferma che fosse ancora molto giovane; il nome in pieno «Hercole Tertzio» appare tra i suonatori di trombone nel 1577. Anche Simon Gatto die non figura tra gli attori ma ricevette un pagamento per la commedia era uno strumentista. ” Gli intermedi furono: dopo il prologo «un dolce madricale a cinque», dopo il pri­ mo atto «una musica di cinque viole da gamba et altre tante voci», dopo il secondo atto «una musica di quattro voci, con due liuti, un strumento da penna, un fiffaro et un basso di viola da gamba». Per un concetto piu preciso della commedia madriga­ lesca si veda più avanti, pp. 131 sgg. Si tratta di una canzone già nota (jeppesen, nn. 403-6); se ne ha una elaborazione già in f. azzaiolo, Il Primo Libro de Villotte alla Padoana Con alcune Napolitane a quatro voci, Venezia 1537, e una citazione nella Serenata di a. striggio (parte I, a

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5) nel suo Primo libro de Madrigali d sei voci, Venezia 1560 (già una ristampa). Numerose elaborazioni per liuto, a volte ritmate come gagliarde, padoane, passemezzi o saltarelli, mostrano che ebbe una risonanza internazionale; vedi H. M. BROWN, Instrumental Music Before 1600. A Bibliography, Cambridge (Mass.) 1967, passim, e, per il primo Seicento, j. m. ward, Apropos The British Broadside Ballad and its Music, in «Journal of the Amer. Musicological Society», xx, 1967, p. 34. Dell’elabo­ razione di Azzaiolo jeppesen, n. 405, riporta il cantus, mentre a me sembra che piu vicino alla melodia popolare sia il tenor. 80 Nell’articolo Tragèdie et comédie dans la Camerata Fiorentina, in Musique et poésie au xv 1* siècle, Paris 1954, p. 202. Per la sua prima fioritura vedi d. g. cardamone, The Canzone Villanesca alla Napolitana..., dissertazione non pubbl., Harvard Uni­ versity, 1972. 11 Della quale tuttavia einstein, The Italian Madrigai cit., I, p. 373, mette in dubbio l’attribuzione. c Ibid., vol. II, p. 766; nella pagina successiva einstein chiama addirittura una ro­ manesca il canto popolare citato più sotto. M Già ricordato a proposito dell’anonima commedia Gli ingannati degli Intronati di Siena, e di una novella del senese Pietro Fortini (cfr. la precedente nota 16). Va ricordato che la moglie di Striggio, Virginia Vagnoli, era senese. w Vedi j. eccard, Neve geistliche und weltliche Lieder... Konigsberg 1589, a cura di R. Eitner («Publikationen àlterer... Musikwerke», voi. xxi), Leipzig 1897, pp. 95-97. Va notato che Eccard nel ripetere la canzone a diversi Livelli di intonazione ne modifica ogni volta il senso modale. ° jeppesen, nn. 333-34, dà due versioni diverse da quelle di Eccard; la seconda di esse è quella di un ballo strumentale del ms Venezia, Bibl. Marciana, Itai. IV. 1227, per il quale Jeppesen rimanda anche ad una propria edizione di Balli (ne dà Panno, 1962, senza più precise indicazioni bibliografiche). Il ms Marciano fu noto anche a F. Tor­ refranca, il quale accenna più volte alla canzone ne II segreto del Quattrocento cit., e inoltre riferì, in una conferenza tenuta il 7 maggio 1953 a!TAccademia nazionale di Santa Cecilia a Roma, che Annibai Caro l’aveva sentita fino in Belgio; A. caro, Lettere familiari edite da A. Greco, Firenze 1957, I, p. 311, accenna a «concerti di campane» in una lettera da Bruxelles del 29 ottobre 1544, subito aggiungendo: «Vostra Eccellenza [Pierluigi Farnese] non si rida ch’io abbi notata questa musica perché in questo paese le campane suonano fino a la bella Franceschina ». Nella let­ tera è anche interessante la descrizione di una mascherata di Amazzoni alla quale pre­ se parte Ottavio Farnese; si festeggiava l’arrivo a Bruxelles della figlia di Carlo V che andava sposa al duca d’Orléans a suggello della pace di Crespy.

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Non so se alcuno abbia mai attribuito uno speciale significato alle vignette che adornano i frontespizi delle due piu antiche stampe della Comedia di Callimaco: & di Lucretia, cioè La mandragola di Niccolò Machiavelli'. L’una e l’altra rappresentano «uno che suona la lira», e per essere più precisi una lira rinascimentale, suonata ad arco, del tipo di quella di Orfeo nella favola del Poliziano. Nella prima stampa — che è certamente fiorentina, ma senza indicazioni tipografiche, e che Ro­ berto Ridolfi, avendo proposto il carnevale del 15x8 come data della prima rappresentazione della commedia, assegna pure a quell’anno - il suonatore è un centauro, senza dubbio il saggio ChitoneNell’altra edizione, stampata a Venezia nel 1522 da Alessandro Bindoni, chi suona è un cieco Omero mancino ’. La seconda stampa fu condotta sul­ la prima e può averne seguito il suggerimento illustrativo senza avere un’altra precisa ragione; ma per la prima non mi sembra del tutto da escludere la possibilità che la figura del frontespizio rifletta il modo in cui la commedia fu originariamente presentata al pubblico. La presentazione fatta da un personaggio che canta sulla lira ricor­ re in altre rappresentazioni fiorentine dello stesso periodo. L’attesta­ zione più precisa è quella della Farsa recitata agli Excelsi Signori di Firenze, senza data ma anteriore al 1512, nella quale «in luogo di Prolagho, di Proemio et Argumento, uno in su la lira dice...» una lunga serie di ottave che il D’Ancona descrisse come «un lungo sproloquio sulla vanità delle umane voglie»'. Altre due commedie si concedono anch’esse il lusso di un canto «in sulla lira» senza rinunziare né al pro­ logo, né all’argomento. Una è la Comedia di Amicitia di Iacopo Nardi, rappresentata quasi certamente nel 15125, che ha in fine la didascalia: «Le infrascripte stanze si cantarono sulla lyra davanti alla Signoria quando si recitò la predetta comedia». Le «infrascripte stanze» sono quattro ottave di omaggio «al santo seggio excelso & degno», e non è probabile che fossero recitate, come figurano nella stampa, in fine alla commedia, quando già il pubblico si agitava per uscire dal luogo

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dello spettacolo; vanno ricollocate dove sono quelle della Farsa, tra i preliminari della rappresentazione. Lo stesso può dirsi de I due felici rivali, pure del Nardi, rappresentata il 17 febbraio 1513; solo che, essendo nel frattempo mutata la situazione politica fiorentina, «la co­ media fu recitata nel conspecto del R.mo Monsignor Cardinale et il Magnifico Giuliano et Lorenzo de Medici»6, e l’omaggio è indirizzato eloquentemente alla risorta costellazione medicea. Le stanze che «si cantarono su la lyra in persona di Orpheo poeta, venuto da’ campi Elisij», esordiscono cosi: Dal loco della eterna primavera, che nel suo sen le felici alme accoglie, gode tra l’altre una honorata schiera, libera hormai dalle terrestri spoglie, di sé contenta, e di sue opera altera, a l’ombra delle verdi e sacre foglie; qual m’ha commesso che io demonstri, e vuole, la mente sua con mie roze parole.

Come Orfeo, qualunque altro poeta avrebbe potuto esser chiamato a «demonstrate»: Omero, o Ovidio, o Virgilio - o anche, benché non poeta, il saggio centauro Chirone, dacché si trattava anche di festeg­ giare il giorno «nel qual le cose antiche» erano ancora una volta «di­ mostre et celebrate». Sono parole della «canzone» che precede la Cli­ zia di Machiavelli. Machiavelli riprese infatti la stessa idea quando, nel carnevale del 1525, si trattò di presentare la Clizia agli amici e ai curiosi che si affol­ lavano nell’orto di Jacopo di Filippo Falconetti, detto il Fornaciaio. Solo che la funzione di mediazione tra finzione scenica e pubblico, e quasi di medianica evocazione, non è più affidata ad un solo cantore ma ad un gruppo - una ninfa e tre pastori, «felici alme» venute fuori da un’altra «honorata schiera», quella degli Arcadi: Quanto sia lieto il giorno nel qual le cose antiche son hot da voi dimostre et celebrate, si vede perch’intorno tutte le genti amiche si sono in questa parte ragunate. Noi che la nostra etate nei boschi e nelle selve consumiamo, venuti anchor nui siamo - io ninfa - e noi pastori e giam cantand’insieme i nostri amori.

Chiari giorni e quieti, felice c bel paesr

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dove del nostro canto il suon s’udia! Pertanto, allegri e lieti, a queste vostre imprese (arem col cantar nostro compagnia con si dolce armonia qual mai sentita più non fu da voi: e partiremci poi - io ninfa - e noi pastori e torneremci ai nostri antichi amori.

Qual mai sentita più non fu da voi non è vanto di vuote parole. La musica della «canzone» è stata identificata e parzialmente pubblicata da Alfred Einstein’; ne è la fonte 11 primo libro de Madrigali di Verdelotto, che fu una novità otto anni dopo la rappresentazione della Cli­ zia quando fu pubblicato a Venezia, incisore Andrea Antico. A mag­ gior ragione lo furono, certo, nel 1525 i cinque «madrigali» della Cli­ zia, quello innanzi il prologo e i quattro in fine di ciascun atto tranne l’ultimo ’. E alla novità del genere madrigalesco si aggiungeva probabil­ mente quello del suo uso in commedia, del quale, che io sappia, non si conosce nessun esempio anteriore alla Clizia u. Per questo non so trovarmi d’accordo con un illustre studioso di Machiavelli, il quale, pubblicando una bella edizione de La mandragola «per la prima volta restituita alla sua integrità», senti il dovere, come parte di tale integrità, di relegare in una appendice le Canzoni fatte per la rappresentazione di Faenza *. Da un punto di vista strettamente filologico - l’eterna nostalgia dell’età dell’oro dell’Urtexf - non si può non dargli ragione: le «canzoni» non sono presenti nel testo mano­ scritto, datato 1519, sul quale l’edizione è condotta, né in alcuna delle edizioni antiche e delle meno antiche anteriori al 1782-83l0. Ma chi si interessi a La mandragola nella sua piena dimensione di opera di teatro non potrà altrettanto facilmente dismettere la «soprastruttura aggiunta occasionalmente per i begli occhi della Barbera, che avrebbe dovuto can­ tarle, e per quella sola rappresentazione» ". Poiché un qualche genere di intermedi era in ogni modo necessario alla rappresentazione della com­ media — non meno necessario che l’apparato scenico11 - è una fortu­ na che per La mandragola se ne abbia una serie concepita dallo stes­ so autore, anche se non son quelli della prima rappresentazione. Tanto piu che essi rappresentano, insieme a quelli della Clizia, il punto di partenza per un nuovo modo di concepire gli intermedi. Degli intermedi usati nelle rappresentazioni precedenti non si sa nulla; e ancor meno di quelli della prima, della quale si ignora anche la data, benché sia ragionevole l’ipotesi del Ridolfi che la pone al carnevale del 1518 °. Chitone avrà forse fatta la presentazione iniziale

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con una serie di stanze cantate sulla lira; per il resto inclino a credere che a Firenze prevalesse ancora la flessibile pratica indicata nella stam­ pa della Farsa... agli Excelsi Signori di Firenze dalle didascalie «qui si suona o si canta», poste in fine ad ogni «parte». Didascalie consimili ha l’anonima Commedia di Adulazione, che ha in comune con La man­ dragola il nome di un personaggio, Ligurio14. La novità inaugurata con la Clizia e continuata con la Mandragola fu innanzi tutto di natura mu­ sicale: il sostituire la presentazione fatta da un solo cantore che si accompagnava con la lira con la «dolce armonia» della polifonia ma­ drigalesca eseguita da un gruppo; e in secondo luogo quella, in parte anch’essa di natura musicale, di unificare le musiche «intermedie» tra gli atti facendole eseguire dallo stesso gruppo. L’esempio delle commedie di Machiavelli non restò isolato. Un ci­ clo consimile a quelli della Clizia e della Mandragola è riconoscibile ne Il terzo libro de i Madrigali novissimi d’Archadelt a quattro voci, pub­ blicato a Venezia da Girolamo Scotto nel 1539. Non mi è riuscito di trovare a quale commedia appartenessero; ma malgrado la data della pubblicazione e le sue proteste di superlativa novità, direi che sia di alquanti anni piu antico del 1539l5. Lo canta un gruppo di poeti an­ tichi, a giudicare da quella che sarà stata la «canzone innanzi la com­ media»; e «questa in gonna» sarà stata Saffo: Dai dolci campi Elisi, ove tra’ fiori viviam, sempre ridendo in festa e canti, vegniam sol per udir le gioie e pianti * liet’afflitt’amanti; de e, come fummo già, cosi cantori siam oggi; e questa in gonna fu si leggiadra donna, ch’ancor molti di qua par ch’inamori. Hor voi, cortes’e benigni auditori, s’Amor vi face ogn’hor contenti e lieti, ch’a noi dat’ audienza intenti e cheti.

Gli altri elementi del ciclo, nell’ordine più probabile che poterono ave­ re in commedia, sono i madrigali che cominciano: Foil'è chi crede la prudenz’e gli anni | ponghin il freno all’amorose voglie (machiavellico a suo modo, forse da cantare dopo il primo atto), Ecco che pur doppo si lungh affanni, * | doppo tante fatich’, angosce pianti, | i desiosi aman­ ti | verran’al fin de gli amorosi inganni (dopo il quarto atto?) e Quanto fra voi mortali | poss’un accorto e virtuoso ingegno, | si vede ne’ pas­ sati vostri mali (certamente l’ultimo elemento della serie, alla quale mancherebbero dunque i madrigali dopo il secondo e il terzo atto)

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Ne II vecchio amoroso di Donato Giannotti, scritto tra il 1533 e il !336, la mascherata che introduce e commenta è un gruppo di eremiti: Dal più solingo loco del vostro almo paese, ov’al Rettor del ciel devoti siamo, per celebrare il gioco a cui sono oggi intese le menti vostre, qui venuti siamo; e come noi prendiamo de’ leti aspetti vostri uno immenso diletto, cosi non sia interdetto il simil fare a voi de’ canti nostri.

Questo primo loro «coro» precede il prologo, che è in prosa; gli altri sono anteposti a ciascun atto a cominciare dal primo; sicché anche senza un intermedio finale si raggiunge il numero di sei intermedi che poi divenne abituale in quelli che io amo designare come intermedi ' «aulici»l7. Sei intermedi ha anche L’ammalata di Giovanni Maria Cecchi (in versi, data incerta), cominciando con uno prima del prologo: «Intermedio Primo. - Esca la Verità che dica, ed abbia seco che can­ tino, il Tempo, il Cimento, ITnnocenza, ed Esculapio dio della medi­ cina...» I versi della Verità, da recitare, sono infatti seguiti da un

Madrigale. - Càntino Venite lieti, e del nostro valore gustate.quante sian Fopere, e quali...

Altri intermedi, dal «secondo» al «sesto», precedono i cinque atti, e anche in essi la Verità per prima recita, e gli altri quattro personaggi allegorici cantano18. La ìAaiana dello stesso autore prende addirittura il titolo non dall’intreccio o dai personaggi della commedia ma dal personaggio principale degli intermedi: «Maia dea, madre di Mercu­ rio, che dica, e seco le sei Pleiadi sue sorelle figlie d’Atlante, che can­ tino»1’. La stampa contiene soltanto il primo madrigale, che già co­ mincia ad assumere un tono diverso: Vivi eterna e felice, bella e gioconda Flora, sott’il manto di Cosmo e Leonora...

Anche Antonfrancesco Grazzini avrebbe avuto in mente nuovi mo­ tivi per la rappresentazione de La gelosia (1550), ma «furono impe­ diti dalla cortezza del tempo, dalla difficoltà e dalla spesa,... e in loro vece si fecero gli stampati con essa» ”; cioè si ripiegò sui soliti sei «ma­ drigali», che ormai non erano piu una novità, i cantori dei quali di­

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chiarano: Del gran tempio d'Amore | antichi siam ministri e sacerdo­ ti... L’unica variante è che il «Madrigai Primo» è posto dopo il pro­ logo, anzi è annunziato dalle sue ultime parole: «...già veggo compa­ rire il coro, attendete alla musica voi, ch’io me ne torno dentro». Il «Madrigai Sesto ed Ultimo» viene ad esser cantato dopo il quinto at­ to; ma che ancora vigesse anche l’uso precedente è testimoniato dai madrigali intermedi de L'errore di Giovambattista Gelli («Recitata al­ la Cena che fece Roberto di Filippo Pandolfini alla Compagnia dei Fantastichi, l’Anno 1555»)n, che furono cantati da «stiavi... d’Amore», e dagli intermedi di Andrea Lori per la recita fiorentina de La Flo­ ra di Luigi Alamanni (1556)n. Ho già accennato alla funzione di mediazione tra il pubblico e la finzione rappresentata, svolta dapprima da un singolo personaggio del­ l’antichità e divenuta poi funzione di un gruppo. Essa è però soltanto accennata in qualche testo e non fu mai teorizzata; sicché le si sovrap­ pongono facilmente altri motivi. Uno è quello di dare alla ri-presenta­ zione dei vari casi della commedia (i quali nella Mandragola si imma­ ginano svolti nel 1504 e nella Clizia nel 1506) una cornice che ricorda quelle delle raccolte novellistiche - altro indizio dell’influenza della novellistica, e specialmente del Decameron, sul teatro. Senonché li, la cornice è realistica, mentre le storie narrate, benché realistiche anch’esse, sono evocate nella fantasia degli ascoltatori e dei lettori, dalle pa­ role del narratore. Nella commedia l’irrealtà della cornice (benché anch’essa sia fatta sensibile e quasi tangibile dal miracolo della realizza­ zione scenica) si contrappone al realismo dei personaggi e dell’azione principale e pare quasi esser destinata a facilitare la giuntura tra il tem­ po in cui si muovono gli spettatori e si svolge lo spettacolo e quello diverso dell’azione rappresentata. È anche possibile che a questo rovesciamento di termini contribui­ scano in parte le ragioni della musica, il bisogno di giustificarne l’intro­ duzione come elemento di varietà e di diversione tra gli atti. Ma, se è vero che il canto è più facilmente posto in bocca ad Orfeo, ai poeticantori dell’antichità, ai pastori e ninfe arcadi, o ad ogni sorta di crea­ ture allegoriche, mitologiche e fantastiche, va tenuto anche presente che il Trissino ne I simillimi (pubblicati nel 1548) fa cantare un coro di semplici marinai che durante il corso degli atti fanno parte della realtà rappresentata e dialogano con gli altri personaggi. Vero è che al Trissino dava licenza di farlo il precedente di Aristofane, da lui preso a modello. Gli intermedi erano sconvenienti per lui perché «... sono cose diversissime dalla attione della Comedia» e perché a volte diventano, tumultuosamente, «un’altra Comedia... che non lascia gustare la dot­

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trina della Comedia» ma ogni dubbio se fosse conveniente o scon­ veniente che un gruppo di normali persone si mettesse all’improvviso a cantare in perfetto miracoloso accordo di opinioni e di espressione musicale era risolto anche per lui dalla magia della parola coro e del precedente classico. Quella di giustificare il canto è dunque una delle ragioni della cornice irreale, ma non ne è la sola né la principale ragione; più importante a me pare un effetto di prospettiva temporale alla qua­ le la cornice contribuiva col senso di irrealtà e con la musica. Alle cosidette unità aristoteliche il teatro rinascimentale cominciò ad assoggettarsi lungo tempo prima che esse fossero formulate teorica­ mente e appoggiate all’autorità del filosofo per antonomasia. Che la scena fissa e prospettica determini l’unità di luogo è ovvio non soltanto perché essa esclude il cambiamento di scena, ma anche perché la co­ struzione in prospettiva definisce e limita le distanze, escludendo la molteplicità di «luoghi» precedentemente accettata’4 e vietando di rap­ presentare un lungo viaggio tra paesi distanti con pochi passi da un «luogo deputato» all’altro. Quasi altrettanto ovvio è che la relativa angustia della scena e il suo essere una specie di passaggio obbligato per i personaggi principali - nel caso de La mandragola è richiesto che la scena includa le case di Messer Nicia e di Lucrezia, quella di Calli­ maco e la chiesa di fra Timoteo - influisce sull’unità di azione. Meno chiaro è per noi il significato fondamentale dell’unità di tempo perché ce l’oscura la nostra familiarità con convenzioni teatrali più moder­ ne e con le formulazioni teoriche cinquecentesche, anch’esse più recen­ ti delle prime spontanee applicazioni. Dell’esigenza dell’unità di tempo i contemporanei di Machiavelli avranno cominciato a divenir consapevoli attraverso le prime rappre­ sentazioni di tragedie classiche, nelle quali il coro resta, o ritorna, sem­ pre sulla scena e non finisce di sentenziare sugli avvenimenti già svolti che già accenna al sopravvenire degli attori per un altro episodio ”, Ciò stabiliva una continuità senza salti del tempo della rappresentazione, dalla quale naturalmente poi derivava la necessità che l’azione rappre­ sentata fosse contenuta entro una ragionevole misura di durata. La soluzione più ovvia sembrò stabilire come normale la durata tra il le­ varsi e il cadere del sole, cioè tra il risveglio di tutti i personaggi (inclu­ si i componenti del coro) dal riposo notturno e il momento in cui, dopo una giornata di travagli e di emozioni intense, essi dovevano inevita­ bilmente cedere alla stanchezza e al sonno. Si trovò magari verosimile che le circostanze eccezionali degli eventi rappresentati potessero a vol­ te portare scompiglio nelle abitudini giornaliere e prolungare l’attività e la rappresentazione di essa al corso della notte e anche ad una parte

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del giorno successivo. Ma anche il limite piu ristretto, quello della gior­ nata di quindici o sedici ore, è una durata almeno tre volte maggiore di. quella che si potesse concedere ad una rappresentazione che fosse - e abbiamo visto che lo era — continua e senza interruzioni. Occorre­ va quindi che le quattro o cinque ore di rappresentazione dessero l’im­ pressione di coprire sedici, e magari ventiquattro e più ore di azione, il che era possibile attraverso un effetto di compressione artificiale del tempo, di prospettiva temporale, analogo all’artificiale compressione dello spazio attuata dalla prospettiva lineare o scenica. Non tutti gli autori di commedie si posero chiaramente i problemi dai quali doveva poi derivare la regola dell’unità di tempo24. Ma i fio­ rentini furono portati dal loro spirito di realismo ad esserne più pron­ tamente consapevoli. Anche l’anonimo autore della Farsa più volte ricordata non osservò le regole di unità, ma sentì il bisogno di avver­ tire, nello sproloquio cantato sulla lira che tiene il luogo del prologo, che la sua non è «una ordinata Comedia,... distinta a punto in cinque Atti,... raccolto in un sol di del tutto il sunto»; si svolge invece «per modo di storia imaginata, partita in tempi, più di cinque un punto»27. Si concede cioè quei salti da un «tempo» all’altro, che un narratore può chiedere all’immaginazione dei suoi ascoltatori, ma che avrebbero do­ vuto essere esclusi, a rigore, da una azione rappresentata”. Da parte sua Iacopo Nardi conclude il quarto atto de I due felici rivali mandan­ do a dormire i vecchi Menedemo e Cremete, e lasciando solo sulla sce­ na il servo Strobilo ad apostrofare il pubblico con uno di quegli am­ miccamenti che diverranno poi caratteristici dei servi della commedia dell’arte In casa dunque: non partite voi, o spectator, che noi vogliam finire questa comedia; e non resta per noi, ma quei vecchi han bisogno di dormire. Questo dico io, che alcun non dica poi che non si debba, o possa, trasferire ne Taltro giorno il nodo dell’errore, e cosi incolpi a torto il nostro autore.

Il caso di Machiavelli non è dunque isolato quando pone in bocca a fra Timoteo, alla fine del quarto atto de La mandragola, questo mono­ logo: «E’ sono intanati in casa, e io me ne andrò al convento. E voi, spettatori, non ci appuntate30: perché in questa notte non ci dormirà persona, si che gli Atti non sono interrotti dal tempo. Io dirò l’uffi­ zio. Ligurio e Siro ceneranno, che non hanno mangiato oggi, el dottore andrà di camera in sala, perché la cucina vadia netta. Callimaco e ma­

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donna Lucrezia non dormiranno, perché io so, se io fussi lui, e se voi fussi lei, che noi non dormiremmo» JC“. Sulla pagina accanto (dacché La mandragola noi siamo abituati a leggercela), o magari sulla stessa pagi­ na, il quinto atto comincia con un altro soliloquio del frate: «Io non ho potuto questa notte chiudere occhio, tanto è il desiderio che io ho di intendere come Callimaco e gli altri l’abbian fatta. Ed ho atteso a consumare el tempo in varie cose: io dissi maturino, lessi una vita de’ Santi Padri, andai in chiesa ed accesi una lampana che era spenta, mu­ tai uno velo ad una Nostra Donna che fa miracoli...» Similmente l’atto quinto della Clizia comincia con un soliloquio di Doria: «Io non risi mai più tanto, né credo mai di ridere tanto... Sofronia, Sostrata, Olean­ dro, Eustachio ognuno ride. E’ si è consumata la notte in misurare il tempo, e dicevano: - Ora entra in camera Nicomaco, ora si spoglia, ora si corica a lato della sposa, or le dà battaglia, ora è combattuto ga­ gliardamente -». Per noi questi sono tocchi di colore o sprazzi della vis comica dell’autore; delle ore che sono trascorse tra la fine del quarto atto e l’inizio del quinto non ci diamo pensiero, abituati come siamo ad inserirvi mentalmente una chiusura e riapertura di sipario e un inter­ vallo trascorso nei corridoi a fumare. Per un autore ed un pubblico abituati ad uno svolgimento continuo dello spettacolo essi servono a stabilire che la vita dei personaggi non si è interrotta un sol momento e che la loro coscienza è rimasta sempre desta. Gli «atti non sono in­ terrotti», ma il tempo dell’attesa vigile tra l’uno e l’altro è compresso e ridotto dall’intervento degli intermedi, dal «sonasi o cantasi» degli intermedi non apparenti, o, in una soluzione piu raffinata e meno gene­ rica, dal ritorno delle ninfe e dei pastori della cornice con un nuovo commento corale:

Canzone dopo il quarto Atto [della Mandragola]: Oh dolce notte, oh sante ore notturne e quete ch’i disiosi amanti accompagnate; in voi s’adunan tante letizie, onde voi siete sole cagion di far Palme beate. Voi giusti premi date alTamorose schiere, delle lunghe fatiche; voi fate, o felici ore, ogni gelato petto arder d’amore.

Riabilitiamo dunque le «canzoni dopo gli atti» che hanno una loro precisa funzione e formano, tra i vari tipi di intermedi che allora si

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usavano, quello in cui è più assiduamente ricercato un rapporto con le vicende della commedia. Anche quelle della Clizia dovettero essere scritte per i begli occhi della Barbera Salutati, che era in grande dime­ stichezza col Fornaciaio nel cui orto la commedia fu rappresentata31. La musica di Verdelot per la «canzone» innanzi alla commedia (es. xxiv) rispecchia in un gesto del soprano, subito riecheggiato dalle tre voci più gravi, l’inchino garbato che ella e i cantori suoi compagni do­ vettero fare, alla fine di ciascuna delle due strofe, alle parole io ninfa e noi pastori. Lo stesso impianto vocale, per soprano e tre voci maschi-

Esempio xxiv. Philippe Verdelot, Canzone innanzi al Prologo de La Clizia di Niccolò Machiavelli. Da Il primo libro de Madrigali di Verdelotto (O. Scotto, Venezia 1537).

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li, si ritrova nella musica delle canzoni da cantare dopo il primo e il quarto atto (es. xxv e xxvi), che Einstein non conobbe, ma che sono contenute in un manoscritto ora alla Newberry Library di Chicago e benché vi siano senza nome di autore certamente appartengono a Ver­ delot12. Le altre tre, che io sappia, mancano11. Dopo avere forse inno­ vata la pratica degli intermedi con quelli della Clizia, era naturale che Machiavelli pensasse di far lo stesso per La mandragola. Il progetto di una rappresentazione a Faenza, dove Francesco Guicciardini si trovava a rappresentare in Romagna il governo papale, potè nascere duran­ te una visita di Machiavelli nell’estate del 1^25, durante la quale egli dovette parlare delle sue commedie che Guicciardini ancora non cono­ sceva; ed è argomento che ricorre spesso nel carteggio intercorso tra i due amici tra l’agosto del 1525 e il febbraio dell’anno seguente. Degli 7

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intermedi si parla per la prima volta in una lettera di Machiavelli senza data che Ridolfi attribuisce al 20 ottobre34: «Mentre che voi sollecita­ te costi, e noi qui non dormiamo perché Lodovico Alamanni e io ce­ nammo a queste sere con la Barbera e ragionammo della commedia, in modo che lei si offerse con li suoi cantori a venire a fare il coro in fra gli atti-, e io mi offersi a fare le canzonette a proposito degli atti». La rappresentazione non ebbe poi luogo, ma ancora il 3 gennaio 1526 Ma­ chiavelli pensava che potesse farsi, tanto che vi accluse i testi delle «canzonette»35; non aveva però del tutto mantenuta la promessa di

Esempio xxv. Philippe Verdelot, Inizio della canzone dopo il primo atto de La Clizia di Niccolò Ma­ chiavelli (e dopo il primo atto de La mandragola). Dal ms Chicago, The Newberry Li­ brary, Ry 14. La parte di alto manca nel manoscritto.

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scriverle «a proposito degli atti», perché due, quelle dopo gli atti pri­ mo e terzo, sono le stesse che erano già servite dopo il primo e il quarto atto della Clizia . * Si adattano però bene alla nuova destinazione; e del resto la promessa fu mantenuta nei punti più essenziali, per la «canzone innanzi la commedia», per quella dopo il secondo atto che è «a proposito» di messer Nicia, e per quella dopo il quarto atto che, evocando le gioie segrete di Lucrezia e di Callimaco, ha il compito di colmare ogni possibile soluzione di continuità temporale”. La canzone innanzi la commedia doveva premere a Machiavelli an-

Esempio xxvi. Philippe Verdelot, Inizio della canzone dopo il quarto atto de La Clizia di Niccolò Machiavelli (e dopo il terzo atto de La mandragola). Dal ms Chicago, The Newberry Library, Ry 14. La parte di alto manca nel manoscritto.

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che perché l’amico Guicciardini gli aveva annunziata la sostituzione del suo prologo, cosi personale ed amaro, con un altro che fosse meglio inteso dagli attori e dal pubblico3’. Machiavelli si vendicò dando un tono non meno amaro all’inizio della «canzonetta»: Perché la vita è brieve e molte son le pene che vivendo e stentando ognun sostiene, dietro alle nostre voglie andiam passando e consumando gli anni; che chi il piacer si toglie per viver con angosce e con affanni, non conosce gli inganni del mondo; o da quai mali e da che strani casi oppressi quasi - sian tutti i mortali.

Le ninfe e i pastori della Mandragola non son diversi nell’apparenza e per il pubblico da quelli della Clizia venuti dalla lontana Arcadia3’. Ma per il poeta pare che rappresentassero le larve di una soggettiva Arcadia della meditazione solitaria, provvido asilo a «fuggir questa noia»; sicché fa senso udirle, nella terza strofe, tessere mondanamente le lodi del Guicciardini, accennando anche a Clemente VII. Non ne è rimasta la musica, come non è rimasta quella da cantare dopo il secon­ do atto, con l’accenno a messer Nicia e alla sua smania di aver figli. Invece le due canzoni trasferite dalla Clizia sono proprio quelle di cui resta la musica; ed inoltre II terzo libro de Madrigali di Verdelotto (Ottaviano Scotto, Venezia 1537) contiene quella della canzone dopo il quarto atto, che possiamo ben dire la canzone della Notte (es. xxvn). «Canzoni» le chiamò sempre Machiavelli; Verdelot, o almeno il suo editore veneziano, usò invece il nome, da poco entrato nelle consue­ tudini dell’editoria musicale, di «madrigali»10. Dal punto di vista dei testi il termine nuovo, o rinnovato41, si addice bene a tutte le brevi canzoni dopo gli atti, che hanno la forma sciolta, libera da schemi me­ trici predeterminati, che è caratteristica del madrigale cinquecentesco. Meno bene si adatta invece alle due «innanzi la commedia», che sono entrambe strofiche. Per quella della Clizia abbiamo visto che il mu­ sicista semplicemente ripete per la seconda stanza la musica della pri­ ma; lo stesso egli potè fare per le tre strofe di quella innanzi La man­ dragola, che però sono precedute da un inizio in foggia di ripresa di ballata (benché ripresa non sia, come il resto non è ballata). La ripeti­ zione strofica fu di solito evitata nella composizione madrigalistica, che

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si fece obbligo di interpretare con nuova musica il nuovo senso poetico di ogni strofe; ma d’altra parte proprio queste due canzoni nelle quali il gruPP° di cantori proclama la propria pastoralità arcadica ed idillica sono quelle che meglio corrispondono alla definizione del madrigale come canto di pastori e alla sua presunta etimologia da mandra . * Se ne può concludere che la definizione del madrigale - un problema che allora nessuno si poneva con l’ansia nostra di veder tutto chiaro e ra­ zionale - non si era ancora irrigidita sulle preclusioni che noi le attri­ buiamo e che anche in seguito non furono mai troppo perentorie”. Si

Esempio xxvn. Philippe Verdelot, Canzone dopo il quarto atto de La mandragola di Niccolò Machia­ velli. Da II terzo libro de Madrigali di Verdelotto (O. Scotto, Venezia 1^37).

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appoggiava forse principalmente ad una esigenza di completa vocalità di tutte le parti “ e di raffinamento artistico della musica. Nelle composizioni per le commedie di Machiavelli prevale una scrit­ tura accordale che è in complesso una caratteristica predominante nella maggior parte dei madrigali della fase iniziale, ma che è qui ancor piu giustificata per l’esigenza di chiarezza della declamazione del testo ne­ cessaria per la presentazione sulla scena. Ma il compositore può distac­ carsene e ritornarvi senza sforzo quando meglio conviene al suo discor­ so. Si direbbe anzi che lo faccia programmaticamente in Quanto sia lieto il giorno (es. xxiv) che si apre alternando tra due coppie di voci, e anche in seguito è la piu sciolta contrappuntisticamente tra le canzoni per le due commedie. È anche l’unica che accenni ad un vero e proprio madrigalismo, non tanto nel passo già citato che contrappone la voce della ninfa a quella degli altri cantori, quanto nelle onde di vocalizza­ zione nelle quali subito dopo si distende, traendo spunto dalle parole e giam cantand’insieme i nostri amori. Il gesto di io ninfa è ripetuto in tutte e due le strofe; ma il madrigalismo del «cantare» perde il suo significato nella ripetizione strofica che lo ripresenta sulle parole e torneremci ai nostri antichi amori. Anche in Chi non fa prov’, Amore (es. xxv) è notevole la scioltezza contrappuntistica dell’inizio e la scorre­ vole cantabilità di tutte le parti. Si suave è l’inganno ha una funzione ambigua ed ironica nella sua destinazione originaria dopo il quarto at­ to della Clizia-, colma un intervallo notturno inneggiando all’inganno che dà vittoria ad Amore (al fin condotto imaginato e caro); ma la sperata notte d’amore è intanto una burla atroce per messer Nicomaco (si vedano le parole di Daria riportate piu sopra). Il musicista non se ne diede pensiero: il madrigale (es. xxvi) è prevalentemente accorda­

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le - notturno e misterioso nell’inizio mormorato e grave, più sonante e spiegato nella proclamazione delle lodi di Amore. Pure prevalente­ mente accordale è O dolce notte (es. xxvn), e compensa la sonorità più acuta, quindi meno notturna, della sua orchestrazione vocale col lieve trepidare della dissonanza e delle false relazioni cromatiche dell’inizio; è ancor più diretto che St suave nel senso misterioso di invocazione-evo­ cazione dell’inizio sommessamente recitato, e nel successivo incalzare della declamazione verso la semicadenza che prepara la triplice ripe­ tizione del verso finale. Verdelot, o Philippe Deslouges, è un misterioso musicista. Deve essere stato ancor giovane quando giunse a Firenze, qualche anno dopo il 152045, per essere riuscito ad acclimatarvisi rapidamente fino a spo­ sarne la causa repubblicana negli anni che condussero all’assedio del 153044. Una delle caratteristiche che più colpiscono nei suoi madrigali è la padronanza della lingua italiana, che si rivela — in lui francese, abi­ tuato alle cadenze più angolose della lingua natia - nella varietà e dut­ tilità della declamazione, e nella giustezza del modo in cui essa si pro­ ietta in una linea oratoria. Persistono in questi madrigali del 1525 l’e­ videnza recitativa, il fare ritmico e il fraseggio dei «modi dicendi» per capitoli, per strambotti, per sonetti (e magari per versi latini), che ave­ vano rappresentato il lato non popolaresco, ma recitativo e classico, dell’umanesimo musicale dei decenni prima e dopo il 1500; ed anzi hanno acquistato nuovo valore liberandosi dai limiti delle ripetizioni di segmenti metrici consimili e distendendosi sulla metrica più varia e più libera del madrigale47. Parimenti il senso armonico si è liberato dall’ossessiva ricerca di una precisa direzione tonale che aveva domi­ nato i frottolisti, per svolgersi, coerente e diretto ma più vario, metten­ do a partito l’esperienza acquisita nella pratica contrappuntistica in un discorso musicale che è invece prevalentemente accordale. Ho elencato più sopra un certo numero di testi di madrigali da cantare come intermedi per commedie di autori fiorentini, di nessuno dei quali, tuttavia, mi è riuscito di identificare la musica corrisponden­ te. Che essi dovessero essere ancor più numerosi e si applicassero o alle repliche di quelle commedie, o alla rappresentazione di altre le cui stampe non ne danno indicazione, si vede dal fatto che la letteratura madrigalistica include composizioni certamente destinate ad essere usa­ te in tal funzione. Un esempio, ancora una volta di Verdelot, è il ma­ drigale Mandati qui d'Amor noi siatn venuti nella raccolta dei suoi Madrigali a sei voci pubblicata nel 1546 a Venezia da Antonio Car­ dano48. Pure suo è probabilmente un brevissimo ma soave e delicato madrigale adespoto sul seguente testo4’:

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Quanta dolcezza, Amore, arrechi seco il tuo dolce veneno, se non è gentil core no’l può sentir, non che ritta rio appieno; ché un sol sguardo sereno seco ha tanto di bene che ristora tante onte e mille pene.

È un’altra lode di Amore (es. xxvni), cantata questa volta da quattro voci bianche (ninfe? amorini?). Vi ritroviamo le voci divise in coppie

Esempio xxvm. Philippe Verdelot (?), Madrigale per quattro voci bianche probabilmente per intermedio di commedia. Dal ms Chicago, The Newberry Library, Ry 14. La seconda voce manca nel manoscritto.

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che abbiamo già visto in Quanto sia lieto il giorno e in Chi non fa prov", Amore ; solo che di fronte all’uniforme colore delle voci e alla loro uniforme tessitura il musicista sente il bisogno di continuare più a lungo il dialogo, di dare maggior slancio allo spunto iniziale, e di ri­ durre al minimo la scrittura accordale. Vi ritroviamo inoltre la ripeti­ zione precisa, o quasi, della frase corrispondente ai primi due versi, ripresa per i due successivi che sono similmente rimati e ritmati, già presente in Quanto sia lieto il giorno e Si suave è l’inganno. Ne risulta sottolineata la struttura metrica del madrigale, formata di due piedi simmetrici e sirima indivisa; ed è infatti ancora un residuo di una tec­ nica che aveva prevalso nelle intonazioni di stanze di canzone fin dai primi decenni del secolo " Ma il musicista non se ne fa una legge e l’a­ dotta quando più conviene alla chiarezza del discorso musicale e poe­ tico; ne è esente infatti O dolce notte benché il suo testo abbia una struttura metrica consimile. «Dietro alle pedate del quale [Verdelot] caminando poi Archadel, si andava in quei tempi che stette a Firenze assai bene accomandando». La frase è di Cosimo Bartoli51 e mentre non lascia dubbi su un sog­ giorno di Arcadelt a Firenze ne lascia indeterminati la durata e l’epoca. Il Terzo libro de i Madrigali Novissimi d’Archadelt, quattro madrigali del quale, come ho già accennato, derivano probabilmente da una com­ media, fu pubblicato a Venezia nel 1539; ma a dispetto del titolo di «novissimi» i madrigali del Terzo libro sono probabilmente più an­ tichi di quelli dei primi due libri, che erano stati pubblicati pure a Venezia nel febbraio dello stesso anno52. È probabile dunque che i quattro intermedi appartengano ad una commedia fiorentina, tanto più che uno di essi (Foli *è chi crede la prudenz’o gli anni) accenna ad una situazione analoga a quella della Clizia e che tutti riecheggiano le «can­ zoni» di Machiavelli". Si direbbe invece proveniente da una tragedia un madrigale de II vero secondo libro di Madrigali d’Archadelt (Vene­ zia 1539) sul testo seguente54: Deh fuggite, o mortali, metter il piè su l’amoroso varco, cagion di tutti i mali, ché strai non tien poi scoccato l’arco. O periglioso incarco, che tragge l’huom alla sua morte interna! Ma chi la mente volta al ciel, dove ogni pena è ascosa e tolta, sgombr’e scem’ ogni doglia sempiterna, poi gode gloria eterna.

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Anche in queste composizioni di Arcadelt prevale la declamazione ac­ cordale; ma almeno una di esse mostra che non vi era nessuna preclu­ sione per il tipo di inizio fugato che presto divenne una caratteristica del madrigale piu maturo (es. xxix). Sono inoltre evitate le ripetizioni suggerite dalla metrica o dalla rima (del resto soltanto il testo dato qui sopra ha una struttura con piedi e sirima). Per brevi che fossero queste composizioni - la loro durata di solito non è maggiore di un paio di minuti, ai quali vanno aggiunti i pochi

Esempio xxix. Jacques Arcadelt, Inizio di un madrigale probabilmente composto per intermedio di commedia. Da II Terzo libro de i Madrigali Novissimi di Archadelt (A. Cardane, Ve­ nezia XJ41).

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secondi richiesti dal presentarsi del gruppo sulla scena e dal partirsene dopo il canto - fu affidato ad esse il compito di effettuare la più forte riduzione delle dimensioni temporali e di conseguire così l’effetto pro­ spettico dell’unità - più propriamente continuità - di tempo. Altrove si indulgeva ancora in intermedi-moresche o in buffonate, che sono una sopravvivenza delle più antiche «feste»” e che veramente costituisco­ no, come lamentava il Trissino, una commedia entro la commedia (al­ meno quattro di esse per ogni commedia). Anche gli intermedi fioren­ tini hanno qualche addentellato col passato - li abbiamo visti maturar fuori dalla presentazione dell’«uno che canta sulla lira», che in fondo non è altri che l’araldo della Signoria; ma essi acquistano una compo­ stezza classica dall’essere equiparati - come Machiavelli aveva fatto, d’istinto e senza teorizzare, fin dal 1525 - a cori tragici”. È vero che della parola coro i teorici cinquecenteschi, a partire da Bernardino Da­ niello ”, si servirono fin troppo volentieri per esorcizzare e canonizzare anche i tipi più scomposti di intermedi, che nulla hanno di classico. Ma quelli fiorentini sono veramente cori, e riprendono dai cori tragici la funzione di commentare l’azione e perfino quella di dare alla rappresen­ tazione un senso un poco ieratico di celebrazione ”. L’irrealtà dei loro componenti — ombre di un mondo fuori del mondo e fuori del tempo — rende più plausibile il loro esprimersi in canto, nel polso ritmico di un tempo musicale regolato dall’arte che si sostituisce al polso realistico dell’azione e ne colma e compendia gli interstizi. Che l’uso degli intermedi in funzione di prospettiva temporale fos­ se una creazione prevalentemente fiorentina - anche se, forse, non esclu­ sivamente ” - lo prova anche il fatto che la sua espressione più inte­ grale ed esplicita ebbe luogo a Firenze, nel primo dei grandi spettacoli di corte cinquecenteschi nei quali gli intermedi rappresentarono il non plus ultra del raffinamento e della magnificenza dell’avvenimento tea­ trale, la rappresentazione data in occasione delle nozze di Cosimo dei Medici con Eleonora di Toledo nel 1539. Per ragioni di politica estera ed interna la celebrazione delle nozze del nuovo duca aveva bisogno di circondarsi di ogni possibile splendo­ re. La scelta della sposa, se non imperiale vicereale", confermava il suo agganciamento alla politica di Carlo V, un decorso inevitabile che occorreva accettare con la miglior grazia possibile per trarne più che possibile i maggiori frutti. In politica interna la minaccia più immedia­ ta era stata da poco eliminata con la sconfitta dei fuorusciti antimedi­ cei a Montemurlo. La fedeltà dei sudditi fu espressa allegoricamente nella parata delle principali città toscane - Firenze, Volterra, Arezzo,

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Cortona e Pistoia - e del fiume Tevere, che si presentarono in elabora­ ta processione durante il banchetto del 6 luglio a cantare madrigali in omaggio degli sposi61. Li aveva preceduti il coro deUe Muse, ciascuna con uno strumento musicale in mano, cantando anch’esse un madrigale a nove voci di Francesco Corteccia62, e li aveva introdotti, uno per uno, Apollo, vestito di porpora e d’oro e incoronato di lauro, con una lungtóssima serie di ottave esplicative ed elogiative cantate ancora una volta sulla lira ad arco “. Il banchetto si svolse nói palazzo mediceo della via Larga, oggi det­ to palazzo Riccardi, nel secondo cortile, ricoperto per l’occasione da «un ben tirato Cielo di Cilestri rovesci» e fastosamente ornato di araz­ zi su tre lati; restava scoperto il lato settentrionale affinché si potesse ammirare la scena già preparata per la commedia che sarebbe stata ese­ guita tre giorni dopo, alla fine di un altro banchetto. La commedia, rappresentata il 9 luglio 1539, fu II commodo di Antonio Landi, che è ancora ricordato soltanto in grazia della solenne occasione. L’azione si svolge a Pisa, ma poiché il resoconto ufficiale delle nozze omette di de­ scriverne la scena possiamo facilmente supplire con la descrizione da­ ta dal prologo, di pochi anni piu antico, de II vecchio amoroso di Do­ nato Giannotti: «...L’apparato rappresenta quella parte di Pisa dov’è il tempio di San Nicola, il quale è questo che v’è a fronte. La strada che gli è dalla destra, è la via di Santa Maria, che mena al Duomo. Quell’altra che con essa si attesta, è una via che mena alle mura... Quel­ la via che risponde lungo la faccia del tempio, è la via dell’ulivo... E noi vi recitiamo questa commedia in su la piazza del tempio. La strada che m’è in fronte, è il Lungarno. E voi spettatori vi trovate a vedere questa festa in Arno. Ma siate sicuri che sì andranno le cose che non vi bagnerete»61. Anche nella rappresentazione del 1539 la parte an­ teriore della scena rappresentava un lungarno pisano, ai cui piedi si vedeva «uno assai spatioso canale, dipinto dentro et dintorno in tal modo che pareva l’Arno. Nel quale dalla banda di mare apparsero in un tratto tre Serene ignude..., tre Nimfe marine..., tre Monstri mari­ ni...» È l’intermedio dopo il secondo atto (terzo della serie, perché uno aveva preceduto il prologo), nel quale «tutti questi insieme mostrando cercare della Illustrissima Signora Duchessa, come partita di Napoli, venivano allo insù soavemente cantando...» Al duca (potremmo dire il Duca-Sole) rese omaggio l’intermedio seguente, nel quale un virgi­ liano Sileno, accompagnandosi su un violone da gamba dissimulato dentro un guscio di testuggine65, cantò questa «canzonetta», in realtà un «madriale» di taglio altrettanto trecentesco quanto il nome66:

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O begli Anni de FOro, o secol divo! alhor non rastro, o falce; alhor non era visco, né laccio; et no ’1 rio ferro e’1 tosco; ma sen già puro latte il fresco rivo; mel sudavan le querce; ivano a schiera Nymfe insieme et Pastori, al chiaro e’1 fosco. O begli anni del Or, vedrovvi io mai? Tornagli, o nuovo Sol, tornagli homai.

Gli intermedi dunque pagarono il dovuto omaggio alla coppia du­ cale (alla quale veramente il futuro riserbò anni ragionevolmente fe­ lici, anche se non fu sempre latte ciò che scorreva in Arno). Ma il loro tema principale è la continuità del tempo; e la loro funzione fu quella di creare l’illusione di quella continuità, ristretta dalla prospettiva tem­ porale entro il tempo più breve della rappresentazione. Cominciò l’intermedio innanzi al prologo con l’apparire in cielo dell’Aurora dal lato sinistro della scena, cioè dall’oriente, dacché la scena era disposta sul lato settentrionale del cortile. «Dopo le spalle dell’Aurora, si vide a poco a poco surgere un Sole nel Cielo della Prospettiva: il quale soa­ vemente camminando ne fece Atto per Atto conoscere l’hora del finto giorno: et cosi poi si nascose alla fine del quinto Atto: poco prima che la Notte comparissi». Alla fine del primo atto «passarono su per la Scena dodici Pastori, di coppia in coppia diversamente vestiti & abbigliati», i quali cantando un madrigale chiesero al dio del sole che temprasse nel giorno appena iniziato le gran fiamme estive... e 7 gran foco, e 7 fero ardore. Le sirene, ninfe e mostri marini dell’intermedio dopo il secon­ do atto si affrettarono, dopo il canto in onore della sposa, a rifugiarsi al­ l’ombra; e nel quarto intermedio «il Sileno da Virgilio descritto nella VI Egloga sua, trovato al Meriggio da Mnasillo & Chromi, & dalla bellissima Egle, in uno antro a dormire... dimostrò, come già era per la Comedia, l’hora del mezo giorno». Alla fine del quarto atto «per dimostrare che già si avvicinava la sera, passarono su per la Scena, otto Nymfe cacciatrici... et mostrando di tornarsene dalla caccia, veni­ vano cantando». E da ultimo, finalmente, ecco apparire in cielo la Not­ te, «vestita di nero velo di seta, con una Cilestre acconciatura stellata in capo, & con la Luna sopra la fronte». Anch’essa canta invitando al riposo; ma «fu cosi dolce questo canto, che per non lasciar gli Spetta­ tori addormentati, vennero subito in su la Scena xx Baccanti, che dieci ve n’erano Donne, & Satyri gli altri. Et di tutti questi, otto sonavano, otto cantavano & ballavano nel mezo della Scena, & due da ciascuna parte facevano l’Ebbro... Quelli otto che cantando ballarono furono quattro Satyri, & quattro donne... Le parole che sempre replicando

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cantavano furono queste BACCO Bacco euoè, con altissime risa & di­ versi atti & giuochi pieni di letitia & da ebbri, come a loro si conve­ niva». Così, per l’amore di un finale gaio (occasione che anche al pub­ blico fossero distribuiti cibi e vini gelati), la serie ebbe anche un set­ timo intermedio, anche se si evitò di dargliene il nome. Anche il dialogo della commedia mostra la preoccupazione dell’au­ tore per lo scorrere del tempo, e ad un certo punto suggerisce anche la soggettività della valutazione delle durate per cui un breve intervallo può parere eterno (e viceversa ciò che appare una breve durata rap­ presentare un più lungo lasso di tempo). Al principio dell’atto II Lean­ dro, che era entrato in casa alla fine dell’atto precedente, ne riesce di­ cendo: «Io volevo aspettare la risposta del sensale, per vedere che speranza m’era data: ma io sono stato in casa manco d’un hora, & mi è parso stare più di cento...» Al principio dell’atto III il servo Currado ritorna due volte sul fatto che è passata l’ora del «desinare». Parados­ salmente, mentre si poneva così fortemente l’accento sull’osservanza della classica o pseudo-classica unità di tempo, fu infranta l’unità della cornice, cioè del ritorno dello stesso gruppo di personaggi alla fine di ogni atto a commentare sullo svolgimento dell’azione principale; è co­ sì cancellata ogni reale analogia tra intermedi e cori tragici, i quali con la loro continuata presenza sulla scena (nella tragedia) furono i più veri custodi di tutte le unità. Personaggi e temi di ogni intermedio sono nuovi e non hanno nessun rapporto né tra loro né con l’azione princi­ pale (tranne quello di far le veci di un orologio). Comincia a sgretolar­ si perfino l’unità di luogo: i pastori dopo l’atto I, e le ninfe cacciatrici dopo l’atto IV, «passarono» sulla scena rappresentante Pisa; su di es­ sa danzarono e «fecero l’ebbro» i Baccanti del finale; ma per l’Aurora e per la Notte in cielo, per le creature marine che risalgono l’Arno, e per il Sileno dormiente nell’antro, sono già chieste estensioni della scena verso l’alto e verso il basso. Alle musiche per le nozze del 1539 collaborarono alcuni minori mu­ sicisti locali e uno dell’ambiente romano, Costanzo Festa"; ma ne fu il maggiore protagonista, e fu autore di tutte quelle per gli intermedi per la commedia del Landi Francesco Corteccia (1502-71)". Ciò che a pri­ ma vista maggiormente colpisce è la ricchezza e varietà di colori, di disposizioni e di raggruppamenti, tanto più se posti a confronto con la sobrietà dei cori madrigaleschi a quattro voci degli intermedi che ab­ biamo precedentemente esaminati. Se ne distaccano meno l’interme­ dio di ninfe cacciatrici, e il coro bacchico finale, che sono anch’essi a quattro voci; l’uno e l’altro però richiedono un raddoppio per ciascuna parte w, e il secondo aggiunge agli otto cantori-danzatori altrettanti suo­

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natoti con un tamburo, uno zufolo, due cornetti, due storte, un ribechino e un’arpa, tutti variamente dissimulati™. La scrittura è semplice e tutta accordale nel coro bacchico (es. xxx), che doveva essere cantato e danzato in un vivace ritmo ternario, scandito dal timpano, l’unico strumento a percussione impiegato durante gli intermedi. Il coro di ninfe (es. xxxi) invece è scritto nella più moderna «misura di breve»; ha inizio contrappuntistico e ritmo particolarmente frastagliato e ner­ voso (anche se vuole indicare gaiezza), ma poi si distende in una più piana coralità accordale’1. Più sostenuto e più vario è invece il con-

Esempio xxx. Francesco Corteccia, Musiche per II commodo di A. Landi. Inizio della canzone «can­ tata e ballata da 4 Baccante e 4 Satiri, con varij strumenti tutti ad un tempo, la quale... fu fine della comedia». Da Musiche fatte nelle nozze dello Illustrissimo Duca di Firenze (A. Gardane, Venezia 1539).

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trappunto della «canzonetta» a sei voci che servi da intermedio dopo il primo atto e fu eseguita da dodici pastori - sei cantori e sei suona­ tori. Malgrado il gioco di imitazioni (come sempre in Corteccia, più ritmiche che melodiche) la tessitura tutta grave — due bassi, tre tenori e un contratenore o falsetto - risulta in una coralità compatta che forse fu concepita avendo in mente il suono agreste di strumenti pastorali ad ancia; fu infatti eseguita una prima volta da soli strumenti - quat­ tro storte, una stortina e un cornetto dritto72 - tutti camuffati come canne, rami, o corna d’animali, sicché il suono doveva sembrare pro-

Esempio xxxi. Francesco Corteccia, Musiche per II commodo di A. Landi. Inizio della canzone «can­ tata alla fine del 4. atto da otto nimphe cacciatrici». Da F. Corteccia, Libro Secondo de Madriali a quattro voci (A. Cardane, Venezia 1547).

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dotto dagli unici che avessero l’aspetto esteriore di strumenti antichi, una cornamusa e un flauto di Pan”; seguì poi la ripetizione in canto accompagnata dagli stessi strumenti. Si ritorna alla scrittura a quattro voci col canto di Sileno dopo il terzo atto; ma tanto il resoconto di Giambullari che la stampa delle musiche concordano nell’indicazione che soltanto la parte superiore fu cantata da un esecutore il quale con­ temporaneamente suonava tutte le parti su un violone; lo strumento è affine alla lira ad arco ma più grave74, ed infatti la sua classicità fu accentuata col dargli la forma esterna di un guscio di testuggine, in ri­ cordo della leggenda dello strumento inventato da Mercurio. Per con­ sentire questo modo di esecuzione la fattura del pezzo fu necessaria­ mente semplice e piano il modo della declamazione73. I canti dell’Au­ rora e della Notte ripetono l’effetto di sonorità compatta della «canzo­ netta» a sei voci; nel primo, tuttavia, che è pure in «misura di breve (es. xxxii), il centro della sonorità è spostato verso la regione media, e

Esempio xxxn. Francesco Corteccia, Musiche per II commodo di A. Landi. Canzone «cantata dall1Au­ rora, et sonata con uno grave cimbalo coti organetti et con varii registri per principio della comedia». Da F. Corteccia, Libro Secondo de Madriali a quattro voci (A. Carda­ ne, Venezia 1547).

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la voce sola che canta la parte superiore è campeggiata contro la sono­ rità variegata (difficile da ricostruire) di «un grave cembalo a duoi re­ gistri, sottovi Organo, Flauto, Arpe, et voci di uccegli, et con un Vio­ lone» — un miscuglio in cui si intrecciano motivi simbolici, intenti na­ turalistici e necessità musicali, e che è reso più interessante dal fatto che gli strumenti erano invisibili Parimenti invisibili furono quelli che accompagnarono il canto della Notte, librato all’acuto contro la sono­ rità oscura, soffice e ipnotica di quattro tromboni (es. xxxin)”. Corteccia avrà avuto un compito tecnicamente più impegnativo nel­ lo scrivere la musica a otto voci del mottetto Ingredere che salutò Far-

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rivo di Eleonora di Toledo, o quella a nove voci per il coro delle Muse che apri il banchetto del 6 luglio 1.539. Artisticamente, tuttavia, la sua impresa maggiore fu l’essere riuscito, sia pure col consiglio di Gio­ vambattista Strozzi, a caratterizzare fortemente e variamente gli in­ termedi della commedia — caratterizzazione e varietà che andarono in massima parte perdute quando egli ripubblicò le sette composizioni nel 1547 come semplici «madriali»71. Si deve alla ricerca di varietà il fatto che tre di esse fossero eseguite coralmente (almeno due anche con Esempio xxxin. Francesco Corteccia, Musiche per II commodo di A. Landi. Canzone «cantata a la fine del j. atto dalla Notte, et sonata con quattro tromboni». Da F. Corteccia, Libro Primo de Madriali a Cinque & a Sei Voci (A. Cardane, Venezia 1547).

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due cantori per parte) e tre a voce sola accompagnata da strumenti. Quest’ultimo modo è stato spesso considerato, e non del tutto a torto, come un preannuncio della monodia di fine secolo; ma è anche una continuazione dell’uso umanistico del canto su uno strumento a corda o di quello frottolistico del canto accompagnato da varie linee strumen­ tali (per lo meno come possibile alternativa all’esecuzione con tenore e basso «intabulati» per liuto). E infatti lo stile di Corteccia nel 1539, se non si può più chiamare frottolistico, ha ancora il contrappuntare più ritmico che tematico su un tessuto fondamentalmente armonico che è caratteristico delle frottole più elaborate; solo che l’armonia non ha più il senso immediato di sicura direzione tonale della frottola ed è invece intenzionalmente deviata per consentire diversi e più artistici sviluppi. Alla voce superiore Corteccia accorda anche nei pezzi corali un predominio quasi indiscusso, e un accento recitativo derivato dai modi umanistici di declamazione dei primi decenni del secolo, anche se la ri­ cerca di varietà lo porta a contrazioni del ritmo e a più forti contrasti che lo intorbidano e lo fanno convulso. In complesso dunque è una ricer­ ca che si innesta su una tradizione più antica e cerca di rinnovarla. Il pezzo che a mio parere presenta maggiore modernità, tra gli intermedi del 1539, è quello dopo il secondo atto (es. xxxiv). In se stesso, come

Esempio xxxiv. Francesco Corteccia, Musiche per II commodo di A. Landi. Canzone «cantata a la fine del 2. atto da tre sirene, et da tre monstri marini sonata con tre traverse, et da tre Ninfe marine con tre liuti tutti insieme». Da F. Corteccia, Libro Primo de Madriali a Cinque & a Sei

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composizione a sei voci, è quello che ha maggiore scioltezza contrap­ puntistica; ma lo rende ancora più interessante, se la mia interpreta­ zione è corretta, il modo «concertato» dell’esecuzione con le tre voci superiori cantate dalle tre Sirene, e le tre più gravi (o forse anche tutte le parti) suonate dalle tre ninfe e dai mostri marini Anche in questo caso gli strumenti furono camuffati: delle ninfe è detto che «portava ciascuna di loro un Leuto nascosto dentro a un nicchio [cioè una con­ chiglia], &. soavemente sonandolo si accordava col canto delle Sirene»; quanto ai mostri marini, «sonava ciascuno di costoro una traversa tran­ sfigurata: Imperoche la prima pareva una lunga spina di Pesce, col capo e con la coda, ma senza Lische. L’altra una chiocciola marina: e la terza una canna di palustre sala». Tra i due gruppi i liuti nascosti avevano una funzione praticamente musicale, quella di dare il fonda­ mentale sostegno armonico al canto; la caratterizzazione era affidata al liquido suono delle traverse, che agli ascoltatori doveva sembrare pro­ venisse dalla «chiocciola» o «tromba» marina. Nove anni dopo le feste nuziali di Cosimo I, una commedia per più riguardi fiorentina, benché non rappresentata a Firenze, si apri ancora una volta con l’apparire dell’Aurora sopra un carro tirato da due galli e si chiuse col sopraggiungere della Notte su un carro tirato da due gufi. L’Aurora cantò il seguente madrigale, accompagnato il suo canto «da due spinette e quattro flauti d’Alemagna»": Io son nuntia del sol, che la prim’ora imperlo, ed egli indora: spenga il cielo ogni stella, rend’al mondo i color che ’1 vespro invola; ch’ornai, gelata e sola, all’opre usate appella ciascun la casta Aurora e ’nvita a sospirar chi Amore adora.

La Notte le rispose similmente con un canto a solo81. Ma tra il pri­ mo e l’ultimo intermedio (che è poi l’ottavo!) non vi fu, come vi era stato ne II commodo, un continuo richiamarsi al progresso delle ore del giorno; il concetto di «continuità» del tempo sembra ormai essersi irrigidito in quello di «unità», cioè la prescrizione di un termine tem­ porale definito dall’inizio e fine del giorno solare. La commedia, di au­ tore mediceo se non fiorentino, fu la Calandria del cardinal Bibbiena, rappresentata a Lione il 27 settembre 1548, per festeggiare l’ingresso solenne in quella città del re di Francia, Enrico II, e della regina Cate­ rina dei Medici. La «fece recitare la Natione Fiorentina à richiesta di 8

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Sua maestà Christianissima»; fiorentini furono gli artisti incaricati del­ l’addobbo della «gran sala di San Gianni e delle scene»; e anche i co­ mici erano stati fatti venire a posta dall’Italia L’impronta fiorentina dello spettacolo è tanto più notevole in quanto ne era stato il princi­ pale promotore un illustre rappresentante della cultura dell’Italia set­ tentrionale, il cardinale Ippolito II d’Este. La rappresentazione lionese della Calandria raggiunse il numero di otto intermedi sdoppiando quello innanzi al prologo e l’altro dopo la fine del quinto atto. Si può dire che Aurora e Notte facessero da cor­ nice alla cornice; o meglio, che la cornice ampliata consistesse di più fa­ sce concentriche. Apollo che si presenta nel secondo e nel settimo in­ termedio (anch’essi prima del prologo e dopo l’atto V) rinnova la fi­ gura dell’«uno che canta sulla lira»; canta infatti una serie di «stanze» e si assume l’incarico di rendere omaggio agli spettatori di maggior riguardo e di presentare lo spettacolo; sceso hoggi sol dall’immortal soggiorno | come cui cosa desiata appella, egli enunzia la propria fun­ zione di presentatore nella seconda delle sei ottave che gli sono affida­ te nel secondo intermedio: Et per farvi l’honor che mai non soglio ad altri far che cosa sia mortale, quant’opratilo già mai mostrar vi voglio da poi che per l’Olimpo apersi l’ale; e 'n un momento innanzi a voi raccoglio quel che gran tempo a ripensar non vale: le tre passate età, con quella ch’ora (benché dispiaccia a voi) qua giu dimora.

Ma la sua funzione di presentazione e l’effetto di prospettiva tem­ porale non si applicano più alla commedia, ma agli intermedi; lo ac­ compagnano infatti, ed egli le indica ad una ad una, quattro figure che rappresentano coi loro attributi le quattro figure che si ripresenteran­ no poi una per una nei quattro intermedi veri e propri tra gli atti: e cioè, risalendo indietro nel tempo, l’età presente, ferrea crudel, però che vive in cima | d’ogni bruttura, l’Età del Bronzo, nella quale fur quei che chiamaste Heroi, | Jasone, Hercol, Teseo..,, l’Età d’Argento dedita all’agricoltura, e l’Età dell’Oro ove nullo era | dolor, tema, fa­ tica, caldo o gielo. Dopo il primo atto venne fuori l’Età del Ferro ac­ compagnata dalla Crudeltà, dall’Avarizia e dall’invidia, e disse una stan­ za di canzone, cioè un madrigale; poi mentre avveniva una sfilata di personaggi allegorici «era dentro da quattro voci cantato in musica quei versi che poco innanzi aveva recitato l’Età del Ferro, e nel medesimo tempo sonata la medesima musica da quattro violoni da gamba e da

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quattro flauti d’Alemagna. Et finita la musica, FEtà del Ferro fatta di nuovo riverenza al Re... se ne ri tornò, con le compagne dentro». Negli intermedi successivi FEtà del Bronzo fu accompagnata da Fortezza, Fama e Vendetta, FEtà dell’Argento da Cerere, Pales e FAgricoltura, FEtà dell’Oro da Pace, Giustizia e Religione. Dopo il quinto atto Apol­ lo si ripresentò insieme all’Età dell’Oro, cantò quattro stanze e usci di scena; altre sette ne cantò FEtà dell’Oro, finite le quali scese dal palcoscenico e andò a presentare alla regina un giglio d’oro massiccio che aveva in mano, dono della nazione fiorentina. Tutte le musiche sap­ piamo che «furono composte e gli strumenti consertati da messer Piero Mannucci qua organista della Nazione Fiorentina in Nostra Dama». Né Apollo, né le quattro Età dicono nulla che abbia riferimento ai casi della commedia. Similmente gli intermedi ideati due anni dopo da Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca per la Gelosia (ma non rappre­ sentati) sono vari e fantasiosi ma hanno come solo legame con la com­ media l’esser notturni, che è anche l’unico filo che li collega tra loro stessi II Lasca, che allora dovette contentarsi a malincuore di ripie­ gare sulla consueta cornice di commenti corali (di «stiavi d’amore»), non aveva di che lamentarsi degli abusi ai quali accenna il suo ben noto madrigale burlesco La Comedia che si duol degli Intermezzi: Misera, da costar che già trovati fur per servirmi e per mio ornamento lacerar tutta e consumarmi sento. Questi empi e scelerati a poco a poco preso han lena e vigore, e tanto hanno or favore ch’ognun di me si prende scherno e gioco, e sol dalla brigata s'aspetta e brama e guata la meraviglia, ohimè! degli intermedi; e se tu non provvedi, mi fia tosto da lor tolto la vita; misericordia, Febo! aita, aita!

1 Su questo titolo vedi Roberto ridolfi, Composizione, rappresentazione e prima edizione della Mandragola, in «La Bibliofilia», lxiv, 1962, pp. 285-300, nonché l’introduzione pure di Ridolfi a niccolò machiavelli, La mandragola per la prima volta restituita alla sua integrità, Firenze 1965, pp. 17-18. I due scritti furono ripub­ blicati in diversa forma e con aggiunte in r. ridolfi, Studi sulle commedie del Ma­ chiavelli, Pisa 1968. 2 Riprodotto in tutti e due gli scritti citati nella nota precedente. 1 Riprodotto in machiavelli, La mandragola, cd. cit., p. 21 e in ridolfi, Studi cit., p. 53. Ma, mi fa osservare il collega H. C. Slim, si tratta di un disegno che ricorre

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in varie stampe all’incirca coeve, non sempre però prodotto dalla stessa matrice; si vedano, per es., le due figure riprodotte in «La Bibliofilia», X, 1908-909, p. 429. Può essere una mia illusione riconoscere Omero nel suonatore; non v’è dubbio però che l’immagine sia rovesciata dacché regge Parco con la mano sinistra. Ciò che più importa, comunque, è che Punico elemento comune con la vignetta della prima edizione è il suonare la lira; tanto più in quanto, come mostra ridolfi, Studi cit., p. 56, «Indizione veneta non dipende dalla prima soltanto per il testo, ma ne è una vera e propria... copia tipografica,... pagina per pagina, rigo per rigo». 4 d’ancona, Le Origini cit., II, pp. 37 sgg. 5 Senza luogo né data, ma certamente stampata a Firenze, è preceduta da una dedica latina a Lorenzo di Filippo Strozzi. Ne pongo la data di rappresentazione al 1512, malgrado le riserve espresse da sanrsi, La commedia cit., I, p. 470, per una invo­ cazione del prologo che già fa presentire l’imminente restaurazione medicea: Ma sia chi a me insegni I in questa nostra etate I Augusto 0 Mecenate I il qual conforti e sproni; alla quale le ottave cantate sulla lira rispondono auspicando un futuro che, mutato il cielo in lieto aspecto I renoverà nel mondo il secul d'auro (vedi in propo­ sito la nota seguente). Dal confronto tra il prologo dell’Amicitia e quello della Co­ media di Justitia di Eufrosino Bonini (fortunato pintor, Una commedia politica per la restaurazione medicea del 1512, in Dai tempi antichi ai tempi moderni, Mi­ lano 1904, per nozze Scherillo-Negri, pp. 404-3) risulta che il Bonini aveva fresca la memoria ddVAmicitia. 6 Alessandro ferraioli, I due felici rivali. Commedia inedita di Jacopo Nardi, Ro­ ma 1901 (per nozze Pizzirani-Sterbini), p. 71. Il Nardi è ricordato da Vasari come l’ideatore dei sei trionfi fatti nello stesso carnevale del 1513 dalla compagnia del Broncone, guidata da Lorenzo dei Medici; l’ultimo dei trionfi fu quello dell’Età dell’Oro. La commedia sta nel ms Vaticano Barberini XLV, 5, esemplare di dedica offerto a G. Battista della Palla; nella dedica è detta «Laurentii Medicis auspicis acta». 7 The Italian Madrigai, Princeton 1949, I, pp. 250-51, e inoltre da osthoff, Thea­ tergesang cit., II, pp. 68. • Tra canzonieri formati sul modello di quello petrarchesco c la stampa del Trattalo dei ritmi volgari di Antonio da tempo (1507), il termine madrigale era nell’aria fin dall’inizio del secolo; ma la prima stampa musicale che ne porta il nome è quella dei Madrigali de diversi musici libro primo, Valerio Dorico, Roma 1530, dei quali esiste la sola parte di alto, trovata nel 1929 da Knud Jeppesen nella Biblioteca Co­ lombina di Siviglia. Ia I madrigali intermedi furono una novità rispetto agli intermedi eseguiti nel 1518 con la prima commedia di Lorenzo di Filippo Strozzi (cioè, pare accertato, la Com­ media senza nome già attribuita a Machiavelli), che sono essi stessi definiti nuovi nella descrizione che ne dà una incompleta biografia dell’autore premessa a l. stroz­ zi, Le vite degli uomini illustri della casa Strozzi, a cura di P. Stromboli, Firenze 1892, p. xiu: «...avendo di varii luoghi fatta la provvisione di diversi strumenti, gli divise in questo modo: che avanti la Commedia incominciassero i suoni grossi, come trombe, cornamuse, pifferi, che destassero gli animi degli auditori: il secondo Atto fece introdurre tre Mori riccamente abbigliati con tre liuti, che nel silenzio dilettarono soavemente ciascuno: nel terzo cantarono su quattro violoni, voci so­ prane, alzandosi secondo la Commedia. Al tumulto che nel quarto romoreggiava, accomodò li più acuti strumenti di penna: la ultima musica, furono quattro trom­ boni, modulando artificiosamente e con dolcezza le loro voci. Le quali musiche di poi sono state più volte imitate; ma per allora non erano mai venute in uso, nè torse in considerazione». Il biografo, Filippo Zefli, fu maestro dei due figli di Fi­ lippo Strozzi junior, al minore dei quali rivolge il suo incompiuto Ragionamento; ricorda la partecipazione dei suoi allievi alla rappresentazione e la lode riportatane ed è quindi un testimone diretto. Novità potè essere che almeno alcuni dei cinque intermedi di Strozzi fossero «apparenti» (certamente quello innanzi l’atto II, pro-

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babilmente anche il successivo) ed inoltre il loro rapporto con Fazione principale: il cantare «secondo la Commedia» nell’atto III, gli strumenti accomodati «al tumulto che nel quarto romoreggiava », il «dolce» suono dei tromboni (che vedre­ mo sempre associati all’oscurità notturna) nell’atto V. Lo Zeffi {ibid., pp. xm-xiv) riferisce che Lorenzo « mirabilmente si dilettò della musica, e nel cantare adempiva con molta grazia la parte sua, tanto che alcune volte pareva lascivo, massime quan­ do col suo liuto conferiva i suoi amori»; aveva avuto come maestro il polifonista Baccio degli Organi (f. d’accone, Alessandro Coppini and Bartolomeo degli Organi in «Analecta musicologica», 4, pp. 38 c sgg.), ma, benché più giovane del Poliziano, apparteneva ad una generazione che amava ancora il canto espressivo sul liuto. 9 È l’edizione citata nella precedente nota 1; le «canzoni» stanno alle pp. 195-99 e furono scritte per una progettata rappresentazione a Faenza che poi non ebbe più luogo. 10 L’edizione è condotta sul testo, indipendente da quello delle stampe, trovato da RiDOLFi nel ms Laurenziano Rediano 129 (vedine la tavola in appendice a emilio pasquini, Una bucolica anonima del primo Cinquecento, in «Giornale storico della letteratura italiana», 144, 1967, pp. 224-31). Le «canzoni» appaiono la prima volta nel 1782-83 nell’edizione del Gambiagi; Ridolfi pensa che fossero tratte dal carteg­ gio del Guicciardini, disperso in quegli anni dagli eredi. 11 ridolfi, introduzione a machiavelli, La mandragola, ed. cit., p. 47; nella pagina seguente è aggiunto: «Né mi par dubbio che l’autore, se fosse vissuto tanto da po­ tere ancora far rappresentare e stampare la commedia, avrebbe lasciato cadere quella effimera struttura». Resta comunque il fatto che almeno di uno dei nuovi testi fu anche composta la musica. 12 Sull’apparato per La mandragola si veda, nella rivista diretta da Ridolfi, il lungo e interessante, anche se non convincente, articolo di Alessandro parronchi, La pri­ ma rappresentazione della «Mandragola». Il modello dell'apparato. L'allegoria, in «La Bibliofilia», lxiv, 1962, pp. 37-86. La tesi del Parronchi sul primo dei temi enun­ ciati dal titolo è che La mandragola fosse la prima di tre commedie che furono rap­ presentate nel settembre del 1518 per festeggiare l’arrivo a Firenze di Lorenzo dei Medici junior e della sua novella sposa francese, Madeleine de la Tour d’Auvergnc. La seconda sarebbe stata la «commedia senza nome» (riceverebbe adesso quello tortuosamente attribuitole di Falargo), già attribuita a Machiavelli ed ora a Lorenzo di Filippo Strozzi; e la terza la Pisana pure dello Strozzi. Chiave di tutta l’argomen­ tazione è la frase del prologo: Quest'è Firenze vostra; I un'altra volta sarà Roma o Pisa, ma, a parte ciò che ne dice qui a p. 398, nota 20, Elena Povolcdo, è una chiave tautologica. Si fonda cioè sulla presunzione improbabile che La mandragola, anche se prescelta per l’occasione, avesse potuto conservare quel prologo personale ed amaro, senza il minimo accenno alla gloria dei Medici, e senza alcun auspicio per gli sposi festeggiati. Caduto il prologo, cade anche la dimostrazione, trascinando con sé l’interpretazione allegorica. Parronchi riporta ampiamente il passo del Ragio­ namento di Filippo Zeffi citato più sopra, nota 8a; ma gli è sfuggito che lo Zeffi parla di una sola commedia di Lorenzo Strozzi eseguita nel palazzo dei Medici (la sua prima, dunque la cosidetta Commedia senza nome). Cade cosi anche la Pisana e con essa un altro elemento dell’ingegnosa costruzione. u Composizione, rappresentazione e prima edizione della «Mandragola», in «La Bi­ bliofilia» lxiv, 1962, pp. 285-300 e poi incluso nel volume Studi sulle comme­ die cit., pp. 11-35. M fortunato pintor, Un'antica commedia fiorentina, in A. Della Torre e P. L. Rambaldi editori, Miscellanea di studi critici... in onore di Guido Mazzoni, Firenze 1907, I> PP- 433 sgg. 15 Vedi più avanti, p. 169. 16 In Jacques arcadf.lt, Opera omnia, ed. da Albert Seay, vol. V, American Institute of Musicology, 1968; sono rispettivamente i madrigali 17, 8, 6 e 14 dell’edizione. Anche osthoff, Theatergesang cit., I, pp. 270-74, riconosce tre dei quattro madri­

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gali di Arcadelt come appartenenti ad una serie di intermedi (non vi include Folle è chi crede, malgrado l’evidente riferimento ad un amore senile). Non sono però d’accordo nell’assegnare l’ultimo posto della serie a Ecco che pur; vi si oppone il «verran’al fin» del quarto verso che annunzia futuro lo scioglimento della tra­ ma nel corso dell’ultimo atto. Al ruolo di «canzone dopo l’ultimo atto» si presta meglio Quanto fra voi mortali (del quale Osthoff dà il testo completo) con l’elogio dcll’« accorr’e virtuoso ingegno» che ha saputo condurre l’intrigo amoroso «in por­ to, al desiato segno»; occorre però mettere il terzo verso in accordo con l’apostro fe iniziale leggendolo «Si vede ne passati vostri mali». 17 d. giannotti, Opere politiche e letterarie, Firenze 1850, vol. Il, pp. 195, 199, 211, 231, 249, 265. 11 G. m. cecchi, Commedie, pubbl. per cura di G. Milanesi, Firenze 1836, vol. I, pp. 91-92, 107-8, 122-23, 142-43, La cronologia delle opere del (Zecchi è quanto mai incerta. 19 Ibid., I, pp. 301-2. 20 A. f. grazzini, Teatro, a cura di Giovanni Grazzini, Bari 1953, PP- 15-16, 31, 45, 66, 85-86, 106-7, Gli intermedi sono diversi nelle stampe del 1551 e del 1568; que­ sti ultimi, gli originali che non poterono essere eseguiti, hanno i seguenti titoli: 1) Sacerdotesse di Diana; 2) Satiri che vanno per far preda; 3) Streghe; 4) Spiriti Folletti; 5) Satiri eh’abbiti Rapite Ninfe, e Ninfe menate via per forza; 6) Sogni, e benché appaiano slegati hanno anch’essi un riferimento al tempo della commedia. L’autore spiegò infatti di averli fatti tutti notturni perché notturna è l’azione prin­ cipale. Piu antica è forse un’altra serie di 5 madrigali per intermedi che si trovano tra le rime del Grazzini, senza indicazione della commedia alla quale etano destina­ ti. Comincia la serie il testo: «Le stesse Ninfe siam che voi pur dianzi | vedeste un’altra volta, I che per farvi passar con gioia molta I questo bel giorno, vi venghiamo innanzi; I dove alla vostra festa, compagnia I farem, cantando con dolce armo­ nia | e con soavi accenti, | purché voi stiate ad ascoltare intenti». 21 G. B. gelli, Opere, a cura di I. Sanesi, Torino 1952, pp. 503, 513, 525, 533 e 541. 22 l. alamanni, Versi e Prose, per cura di Pietro Raffaelli, Firenze 1589, vol. II, pp. 321-22, 336-37, 35I-J2, 365-66 e 388. Anche le stampe de La suocera di benedetto varchi riportano cinque madrigali, senza però indicare da chi siano cantati. 23 GIAN Giorgio trissino, La quinta e la sesta divisione della Poetica, Venezia 1562, c. 32^-33. 24 Ne sopravvive una vestigia nel fatto che la scena generalmente include le «case» dei personaggi principali. 25 È il caso, per esempio, deXTIppolito di Seneca, rappresentato a Ferrara nel carne­ vale del 1509, del quale Bernardino Prosperi 1’8 febbraio dava la seguente descrizio­ ne a Isabella d’Este: «...la tragedia de Fedra et Hipolito... fo recitata, representata de voce et gesti ben is."’0, ni passoe senza lacrime de multi per la crudeltà che se con­ tiene in epsa; et per il coro se presentoe tute quatto fiate X vestiti de biancho de doppie veste, l’una fino al genochijo, l’altra fino al basso, de li quali nel primo uno cantoe uno terzeto et un altro sonava la lira, il secundo coro li dicti X partiti in tre parte dixeno in canto pur certi versi et lo 30 et lo 40 divisi in due parte pur cantorno, ma diversi toni et che piu tendevano a mestitia che a suavità. Altri intcrmezi non ge forno facti ma fo ordinata et sumptuosa et tanto ben conducta quanto representatione ch’io habij visto fare a li df miei»; riportato da A. luzio e R. renier, Cultu­ ra e relazioni letterarie di Isabella d’Este, in «Giornale storico della letteratura ita­ liana», 33, 1899, p. 54, nota 3. 26 Ho già citato, a p. 99 e nota, il caso de I tre tiranni di Agostino Ricchi, che è del 1530. Il Ricchi dichiarò nel prologo che gli era piaciuto «scostarsi cosi alquanto I dal modo e da l’usanze de gli Antichi» e di aver voluto «che la presente Scena I (se­ condo che richiede la sua favola) I servi a piu giorni, et notti, in fine a uno anno». 27 d’ancona, Le Origini cit., II, p. 39.

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28 Si arriva alla stessa conclusione anche se si voglia interpretare I’csprcssionc «storia imaginata» nel senso di una raffigurazione pittorica di più scene, ognuna delle qua­ li illustra un episodio del racconto, tralasciando gli eventi intermedi, 29 A. ferraioli, I due felici rivali. Commedia inedita cit., p. 58. 30 Cioè «non ci muovete appunto». 30“ Il passo aveva già attirata l’attenzione di r. ridolfi, Studi cit., p. 21 (nonché la prima redazione dello scritto in «La Bibliofilia», lxiv, 1962, pp. 285-300), che lo considera come un accenno semiserio all’unità di tempo (ibid., p. 173). 31 Quale fosse la condizione della giovane Barbera Salutati (che più tardi sposò un Raffacani e ne rimase vedova) non è ben chiaro. Cantava, scriveva versi, e forse era mantenuta dal ricco plebeo Jacopo di Filippo Falconetti, detto il Fornaciaio, nella cui villa fuori la porta a San Frediano la Clizia fu rappresentata il 13 gennaio 1525 con gran concorso di pubblico. Machiavelli si era invaghito della Barbera e ci scher­ zava su tra il dolce e l’amaro fino a compendiare nel nome di Nicomaco, l’anziano personaggio della commedia che è deluso nelle sue velleità amorose, l’inizio del pro­ prio nome e cognome. Forse fa pure parte dello scherzo la battuta di Palamede (Cli­ zia, atto I, scena 1) «... ho sempre inteso che tre sorte di uomini si debbono fuggire: cantori, vecchi e innamorati». O è diretta contro qualcuno dei cantori della Barbera? 32 È un bel manoscritto coevo, purtroppo mancante del volume della parte di alto; contiene una raccolta di mottetti e madrigali a 4, 5 e 6 voci, senza nomi di autori, in gran parte riconoscibili da altre fonti. Verdelot vi è largamente rappresentato. Per un dovuto riguardo al collega H. Colin Slim, il quale da vari anni preparava un approfondito studio del ms e l’edizione del suo contenuto, diedi nel 1969 e do anche ora trascrizioni parziali dei due intermedi di Machiavelli-Vcrdelot non repe­ ribili in altre fonti. I due pezzi sono ora pubblicati in H. c. slim, A Gift of Ma­ drigals and Motets, Chicago (Ill.) 1972, vol. II, pp. 344-49; il bellissimo ms sarebbe stato compilato con incerta destinazione a Firenze tra il 1525 e il 1529, miniato da G. Boccardi, c infine inviato in dono ad Enrico Vili d’Inghilterra (in onore del quale fu aggiunto un mottetto alla serie già predisposta); il gesto, di evidente in­ tento politico, non può essere stato compiuto da altri che dalla Signoria fiorentina, intenta a difendere la minacciata indipendenza della città, osthoff, Theatergesang cit.» pur senza conoscere i madrigali del ms della Newberry Library, ha un intero capitolo (I, pp. 213-49) su Verdelots Musik zu Machiavelli-Komodien und das Madrigai, e corrispondenti trascrizioni (II, pp. 65-73). Non mi sembra probabile che l’isolato madrigale a 5 vv. Si soave è Vinganno di A. Marri (ibid., II, pp. 79-84) possa ricollegarsi a rappresentazioni di una delle commedie di Machiavelli. 33 La Clizia ha una canzone innanzi la commedia ed una alla fine di ogni atto, incluso l’ultimo. 34 r. ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, 2a ed. Roma 1954, p. 465, nota 6. 33 Ibid., nota 9. 36 Sono, per nostra fortuna, le due contenute nel manoscritto della Newberry Library (es. xxv e xxvi), nel quale sono anche presenti Quanto sia lieto il giorno della Cli­ zia e Quanta dolcezza, Amore della Mandragola, e una ballata di Machiavelli per la Barbera, Amor, io sento l’alma. È in ogni modo risolto il dubbio se la musica degli intermedi de La mandragola fosse stata mai scritta, h. c. slim, A Gift cit.» I, pp. 92-100, discute minuziosamente le circostanze della collaborazione teatrale tra Machiavelli e Verdelot; ibid., II, pp. 333-35 c 34149, dà le trascrizioni dei quat­ tro madrigali. Altre due composizioni di Verdelot che egli pensa possano essere state destinate ad usi teatrali sono (ibid., I, pp. 100-4) un coro della Tullia di Ludo­ vico Martelli (Quante lagrime, oimè, quanti sospiri in II terzo Libro de Madrigali di Vcrdelotto, Venezia 1537) e un’ottava di Orfeo, vv. 322-29, della Fabula del Poliziano (Qual sarà mai si miserabil canto, in Madrigali a cinque Libro primo, Venezia 1535?). Ma è impensabile che il testo del Poliziano fosse ancora rappresen­ tato più di quarant’anni dopo la sua nascita; e la tragedia del Martelli restò incom-

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pietà per la morte del suo autore (l’attribuzione dei due madrigali è del resto discutibile), osthoff, Theatergesang cit., I, pp. 179-80, discute un altro madrigale, Fuggite Vamorose cure acerbe (anch’esso di dubbia attribuzione), come un possi­ bile canto di tragedia (non un coro); ma slim, A Gift cit., I, p. 101, ne identifica il testo come un Epitaphio di Bernardo Accolti. 37 La mandragola, a differenza della Clizia, non ha intermedio finale dopo la conclu­ sione della commedia. 38 Anche i prologhi, come gli intermedi, venivano spesso sostituiti; ma verso di loro non si esercita l’istintiva diffidenza dei critici letterari per ciò che era destinato ad associarsi alla musica. 39 L’Arcadia è il «felice e bel paese» dal quale vengono la ninfa e i tre pastori della Clizia (vedi il testo della canzone innanzi la commedia a p. 144): ed è strano che personaggi appartenenti a un mitico passato preistorico siano chiamati a introdurre la rievocazione di un passato relativamente recente (l’azione della Clizia si svolge a Firenze nel 1506). Piu logica è l’Arcadia senza tempo del primo «coro» de La man­ dragola-, il quale non indica la provenienza dei personaggi, ma chiarisce nella se­ conda strofe che si tratta di «giovin leggiadri e vaghe ninfe» (nella musica due voci maschili e due femminili). 40 Vedi piu sopra, nota 8. 41 Sotto il nome di madrigali convergono le più svariate forme metriche, sulle quali si veda l’informatissimo studio di don harran, Verse Types in the Early Madrigai, in «Journal of the American Musicological Society», xxii, 1969, pp. 27 sgg. 42 Inventata da Antonio da Tempo per il madrigale trecentesco. 43 Sui vari elementi che convergono nel madrigale, in parte anche per le suggestioni che provengono dalle varie interpretazioni del termine, vedi il saggio precedente alla p. 116 e nota 50. 44 Anche questo dato tuttavia non è senza eccezioni. Citerò soltanto, perché riguarda da vicino le musiche che sto discutendo, il caso della edizione veneziana di una scelta di ventidue madrigali di Verdelot con le voci piu gravi intabulate per liuto e sol­ tanto la parte superiore affidata ad una voce (sia la stampa del 1536 che una succes­ siva ristampa del 1540 attribuiscono l’adattamento a Willaert). Vi è compresa la prima canzone della Clizia, e poiché soltanto la parte della ninfa è cantata, il suo «io ninfa» resta senza la risposta dei pastori. Vedine la trascrizione in osthoff, Thea­ tergesang cit., II, pp. 69-73. 45 Piu precisamente prima del i° luglio 1523, data nella quale fu assunto come mae­ stro di cappella del battistero di San Giovanni. Tenne il posto fino al io agosto 1525, ma rimase a Firenze anche in seguito; fu forse a Roma al principio del decen­ nio seguente, e poi a Venezia a partire all’incirca dal 1533. Ancor più avvolto di oscurità è un altro suo soggiorno a Firenze dopo il 1540. Su di lui si veda la mo­ nografia di anne-marie bragard, Etude bio-bibliograpbique sur Philippe Verdelot, musicien franqais de la Renaissance, Bruxelles 1964, e gli aggiornamenti dati dalla stessa scrittrice sub voce in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., vol. XIII, coll. 1421-26. Dubbia mi pare l’ipotesi della Bragard che ne pone la morte circa 1552; la frase del Catalogo dei Musici di Ortensio Lando, pubblicato in quell’anno, «Verdelotto francese fu nei suoi giorni raro», mi pare che indichi un passato al­ quanto remoto.. La più recente e accurata discussione di tutti Ì dati in nostro pos­ sesso, quella di h. c. sllm, A Gift cit., I, pp. 41-65, mette in dubbio le ipotesi della Bragard di un soggiorno di Verdelot a Roma dopo Firenze, e di un ritorno a Firenze dopo il 1540. Slim pensa che Verdelot possa essere morto a Firenze du­ rante l’assedio del 1529 (vedi la nota seguente) o a Venezia durante il decennio successivo. È generalmente ammesso che Verdelot giungesse a Firenze da Venezia (o anche, penso io, da Padova); ma mi sembra improbabile l’ipotesi di Slim che Verdelot fosse nato verso il 1470, che poggia su dubbie interpretazioni di un

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poema di Jean Molinet e di un quadro attribuito a Sebastiano del Piombo, oggi non più esistente (più probabile mi sembra una data intorno al 1485). 46 Verdelot appare perfettamente ambientato sulla scena fiorentina in uno dei dialo­ ghi de I Marmi, di anton Francesco doni (si veda Indizione a cura di ezio chiorboli, Bari 1928, vol. I, pp. 202 sgg.), nel quale tiene testa alla vivacissima Zinzera e racconta due novelle: da un passo {ibid., p. 208) traspare che da buon francese non aveva simpatia per gli spagnuoli. anton Francesco grazzini ha un «madrigalone» indirizzato «Alla Nannina Zinzera Cortigiana» (Rime burlesche, Firenze 1882, p. 244). h. c. slim, A Gift cit., I, p. 55, rileva, sempre da 1 Marmi, che la Zinzera si esibiva come cantante durante le riunioni degli Orti Oricellari alle quali partecipava anche Machiavelli. L’intensa partecipazione di Verdelot alla causa di Firenze repubblicana durante l’assedio del 1529-30 fu per primo segnalata da E. E. lowinsky, A Newly Discovered Sixteenth-Century Motet Manuscript at the Bi­ blioteca Vallicelliana in Rome, in «Journal of the American Musicological Society», n, 1950, pp. 173-232; è ridiscussa, insieme alle opinioni in parte discordanti di À.-M. Bragard, da Slim (A Gift cit., I, pp. *55 62), dato che anche il codice della Newberry Library contiene alcuni dei mottetti nei quali Verdelot sposa la causa fiorentina. 47 L’opera di Verdelot è tuttora soltanto in piccola parte pubblicata e ne manca uno studio critico di insieme. È interessante riportare il giudizio di un contemporaneo, Cosimo Bartoli, il quale cosi scrive: «... già sapete che qui in Firenze Vcrdelottc era mio amicissimo del quale io ardirei di dire... che ci fussino, come invero ci sono, infi­ nite composition! di Musica, che ancor hoggi fanno maravigliare i piu giudiziosi com­ positori che ci sieno. Perché elle hanno del facile, del grave, del gentile, del compas­ sionevole, del presto, del tardo, del benigno, dello adirato, del fugato, secondo la proprietà delle parole sopra le quali egli si metteva a comporre. Et ho sentito dire a molti che si intendono di queste cose, che da Josquino in qua non ci è stato alcuno, che meglio di lui habbia inteso il vero modo di comporre» (dai Ragionamenti acca­ demici, Venezia 1567, c. 36). Anche questo giudizio punta più sul tono espressivo generale che sull’interpretazione minuta (e spesso forzata) di ogni singolo concetto poetico subentrata nel madrigalismo successivo. 41 A sei voci cantano anche le Pleiadi dell’unico intermedio della Maiana di Giovanni Maria Cecchi (vedi più sopra, p. 147), e benché fossero Pleiadi non è pensabile che le voci fossero tutte femminili. La musica del madrigale di Verdelot è pubblicata da osthoff, Theatergesang cit., II, pp. 180-86. 49 Come per i due «cori» di Machiavelli l’attribuzione si basa sul fatto che il mano­ scritto della Newberry Library nel quale si trova contiene adespote numerose opere di Verdelot, ed inoltre sulla delicatezza e precisione della fattura. Il madrigale è ora pubblicato da h. c. slim, A Gift cit., II, pp. 336-37. M Se ne vedono altre tracce in Chi non fa prov’, Amore nella uguaglianza della musi­ ca dei passi corrispondenti a indarno, spera e mai fede vera. Le corrispondenze tra frasi musicali e rime derivano dalla tecnica frottolistica, che a sua volta deve averle ereditate da una precedente tecnica di improvvisazione. 51 Fa immediatamente seguito nei Ragionamenti accademici al passo su Verdelot ci­ tato più sopra (nota 47). einstein, Ù he Italian Madrigai cit., I, pp. 159 sgg., ricorda una composizione che lamenta la partenza da Firenze di un personaggio innominato, e un’altra su un testo attribuito (non senza contestazioni) a Lorenzino dei Medici. " Il gran successo dei primi due libri di madrigali di Arcadelt pubblicati da Antonio Gardane nel febbraio 1539 dovette muovere il suo concorrente Ottaviano Scotto a mettere insieme un Terzo libro racimolando composizioni di Arcadelt che non fos­ sero già incluse nelle prime due raccolte. Anche per Arcadelt le informazioni bio­ grafiche sono incerte o lacunose, specialmente per il periodo precedente al 1539, nel quale anno si sa che era a Roma, cantore nella cappella Giulia. Il 30 dicembre 1539 (o 1540) entrò nella cappella papale c vi rimase fino al 1552. Prima del 1539 fu certa­

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mente a Firenze e poi a Venezia, ma non è possibile precisarne né le date né le circostanze. ” Notevoli sono anche le somiglianze di linguaggio e di immagini poetiche rispetto alle canzoni di Machiavelli. 54 Incluso in Opera omnia, edite da A. Seay, vol. IV. 35 Si veda il saggio Teatro classicheggiante, intermedi e musiche frottolistiche. 56 Si veda piu sopra il brano della lettera attribuita al 20 ottobre 1525, nel quale Ma­ chiavelli riferisce Sofferta della Barbera «a venire a fare il coro in fra gli atti». Di «coro» (il gruppo) e «cori» (le canzoni) parlano rispettivamente a. f. grazzini ne La gelosia e, piu vicino a Machiavelli, donato «annotti ne II vecchio amoroso. Un poco più recente deve essere l’anonimo autore de II cocchio, il quale già si lamenta che «si facciano eccessivi intermedi e stupendi, sproporzionati all’azione principale, trattandola in questa parte come tragedia», cioè assegnandole gli intermedi con fun­ zione di cori. Lamenta inoltre l’anonimo «che altro non chieggano gli spettatori che Tintermedio, e la povera commedia, che è fazione principale e la base di tutto il rappresentato, è con tedio lasciata passare». Secondo l’anonimo, infine, gli antichi non avevano intermedi «se non per dar pausa a gli ’strioni e spazio a rivestirsi, con­ durre qualche cosa dentro e come volgarmente si dice per far otta cioè per prender tempo: e se pure ne diedero una canzonetta si cantò dentro». È difficile decidere quali siano le implicazioni temporali del «far otta». 57 B. Daniello, La Poetica, Venezia 1336, p. 39. 51 Per Machiavelli è «il giorno | in cui le cose antiche | son hor da voi dimostre e celebrate»; per Giannotti si tratta di «celebrare il gioco I a cui sono oggi intese I le menti vostre...» Ma che le radici siano più antiche lo dimostra la solennità della celebrazione della festa detta delle «Palilie» a Roma (ma in onore di Giuliano e Lorenzo dei Medici) il 13 e 14 febbraio 1514, che incluse anche la rappresentazione del Ptenulus. M Non posso escludere che ve ne siano esempi anche al di fuori di Firenze, ma tutti gli esempi a me noti sono fiorentini. 40 Cosimo avrebbe dapprima pensato a Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V e vedova di Alessandro dei Medici, che andò invece sposa a Ottavio Farnese; la scelta ricadde quindi su una delle figlie di don Pedro di Toledo, viceré di Napoli, ed uno dei più potenti rappresentanti dell’imperatore in Italia. Anche in questa scelta, che lo era fino a un certo punto, Cosimo dei Medici ebbe la fortuna dalla sua parte e riusci ad ottenere in sposa non la maggiore, ma la più giovane delle figlie del viceré, l’altera bellezza della quale lo aveva colpito tre anni prima a Napoli in occasione delle nozze di Alessandro dei Medici con Margherita d’Austria. 61 Ne diede una descrizione ricchissima di particolari e corredata di tutti i testi pierfrancesco giambullari, Apparato et feste nelle nozze del Illustrissimo Signor Du­ ca di Firenze... con le sue Stanze, Madriali, Comedia, et Intermedii, in quelle reci­ tati, Giunti, Firenze 1539. Sintomaticamente la descrizione prende la forma di una lunghissima lettera indirizzata da Giambullari all’ambasciatore fiorentino presso la corte imperiale. Le citazioni nelle note seguenti sono tratte da Antonio landi, Il Commodo «Comedia... Nuovamente ristampata», Firenze 1366. 62 A ciascuna Musa è dato come attributo uno strumento, che però non pare fosse adoperato per l’esecuzione; eccone l’elenco: a Talia un trombone, ad Euterpe una dolzaina, a Erato un violone, a Melpomene un piffero, a Clio un flauto, a Tersicore un liuto, a Polimnia una storta, a Urania una cornetta. 63 Apollo canta sulla lira ad arco non meno di quaranta «stanze», che si alternano ai «madriali» cantati polifonicamente dalle muse e dalle varie città e fiumi toscani. Le sue stanze sono pure riportate, ma senza musica, nella stampa di cui alla nota 61. 64 Opere politiche e letterarie cit., II, p. 197. La scena de II commodo è descritta da vasari (vedi il saggio di Elena Povoledo, pp. 408 sgg.).

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landi, Il commodo cit., p. 56: «...come pregato di cantare, si recò tra le sue ca­ prine gambe una testuggine, nella quale era uno ottimo Violone; & con uno Archetto a modo d’uno Aspido secco, cominciò soavemente a sonare & cantare la seguente Can­ zonetta...» Il guscio di testuggine è naturalmente un ricordo della leggenda della in­ venzione della lira da parte di Mercurio; ma non è il primo strumento che appare camuffato negli intermedi de II commodo. Nell’intermedio dopo il primo atto in al­ cune delle coppie di pastori «portava l’uno di loro in mano, un pezzo di fogliuta canna fresca per quanto si dimostrasse di fuori: ben che dentro ella fussi una stor­ ta», in altre il camuffamento variava, e nell’ultima coppia «sonava l’uno di costoro quello istrumento di sette canne che porta Io Dio della Villa nel quale era maestre­ volmente commessa una stortina...» Anche nell’intermedio dopo il secondo atto ninfe e mostri marini ebbero strumenti «transfigurati». Vedi anche la nota 70. “ Poeta e ideatore degli intermedi e dei loro costumi fu Giovambattista Strozzi il vec­ chio, figlio di Lorenzo di Filippo (più volte ricordato nel presente saggio per le sue commedie); la scelta di uno schema petrarchesco per il canto di Sileno è probabil­ mente intenzionale. Anche il termine «madriale» o «mattiate» in luogo di madri­ gale risale all’uso trecentesco fiorentino. 47 Parallelamente alla pubblicazione della descrizione di Giambullari, le musiche per le feste nuziali videro la luce a Venezia nell’agosto del 1539 per la stampa di Anto­ nio Cardane sotto il titolo di Musiche fatte nelle nozze dello. Illustrissimo Duca di Firenze il signor Cosimo de’ Medici et della illustrissima consorte sua mad. Leonora da Toltelo. Festa compose i due madriali per Firenze e Arezzo; Ser Mattia Rampollini due madriali pure a quattro per Pisa e Pistoia; Gio. Pietro Masaconi il madriale a cinque per Volterra; Baccio Moschini quello a quattro per Cortona e quello a cinque per il Tevere. À Corteccia furono assegnati, oltre che tutte le musiche degli intermedi, il mottetto a otto voci Ingredere («cantato sopra l’arco del portone della porta al prato da vintiquattro voci da una banda, et da l’altra da quatto tromboni, et quatto cornetti...») e il madriale a nove delle Muse. Tutte le musiche delle festi­ vità nuziali del 1539 sono state recentemente trascritte e pubblicate da Andrew c. minor e bonner mitchell, A Renaissance Entertainment. Festivities for the Mar­ riage of Cosimo I, Duke of Florence, in 1539, University of Missouri Press, Columbia (Miss.) 1968, che include anche la traduzione inglese della descrizione di Giambullari e del testo della commedia, e una estesa introduzione storica. Si vedano inoltre osthoff, Theatergesang cit., I, pp. 334-41, e II, pp. 90-109, e h. w. kaufmann, Mu­ sic for a Noble Florentine Wedding, in Words and Music (già citato più sopra, p. 42, nota 58), pp. 161-88. 61 La data di nascita di Corteccia è stata di recente rettificata e arricchita di nuovi dati da Mario fabbri, La vita e l’ignota opera-prima di Francesco Corteccia..., in «Chigiana», xxii, 1963, pp. i8> sgg. Nato a Firenze nel 1502 (non ad Arezzo nel 1504) e di famiglia fiorentina, fu fanciullo cantore dal 1515 al 1522 in San Gio­ vanni Battista, dove studiò con Bernardo Pisano, e cappellano ivi dal 1527. Nel 1531 divenne prima cappellano e poi organista della basilica di San Lorenzo, del­ la quale fu fatto canonico «supranumerario» nel gennaio del 1549-50 c «asso­ luto» nel 1563. Nel 1540 (dunque poco dopo te festività nuziali) fu nominato maestro di cappella di San Giovanni e della corte medicea con decorrenza dal principio dell’anno. Oltre te musiche per la commedia del 1539 Corteccia scrisse quelle per II furto di Francesco d’Ambra, rappresentata dalTÀccademia Fioren­ tina nel 1544, e cioè cinque madrigali «intermedìi» che non sono ricordati in nes­ suna edizione della commedia, ma sono compresi nella ristampa del Libro primo de madriali a quattro voci... Con l’aggiunta d’alcuni Madriali Novamenté fatti per la Comedia del Furto; con essi si ritornò a quanto pare al tipo consueto degli in­ termedi fiorentini, affidando la presentazione della commedia e i commenti sui suoi casi ed un coro di «zingare» (vedi i primi due intermedi in Federico ghisi, Feste Musicali della Firenze Medicea, Firenze 1939, pp. 65-73). Vari altri «ma­ driali» di Corteccia possono essere stati composti per servire come intermedi di commedie o anche come cori tragici; tra questi ultimi includerei A che ne stringi,

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o scellerata fame I dell'oro, l'appetito de' mortali! per un coro tutto maschile (Li­ bro primo de madriali a quattro). Dirò più avanti della partecipazione di Cortec­ cia agli intermedi del 1565. 69 Per il primo vedi landi, Il commodo cit., p. 72, dove si parla di «otto Nymfe cacciatrici» che cantarono, mentre, il madriale è a quattro voci; per il secondo vedi la descrizione riportata nella nota seguente. 7 * Ibid., pp. 93-94: «...Vennero subito in su la Scena xx Baccanti, che dicci ve n’erano Donne, & Satiri gli altri. Et di tutti questi, otto sonavano, otto cantavano [dunque raddoppiati erano voci e strumenti] & ballavano nel mezzo della Scena & due da ciascuna parte facevano l’Ebbro... E gli instrumenti de sonatori furono questi. Uno otre da vino che vestiva un Tamburo & una cannella da botte in luo­ go di bacchetta da sonarlo, & uno stinco humano secco, dentrovi il zufolo che l’accompagna. Una testa di Cervio, dentrovi un Ribechino. Un corno di capra, dentrovi una cornetta. Un stinco di Grò, col piè, dentrovi una Storta. Un cerchio da botte con giunchi, dentrovi una Arpe. Un vello di cecero, co’l capo & collo, dentrovi una cornetta diritta. Una barba & rami di Sambuco, dentrovi una Storta. Quelli, otto che cantando ballarono, furono quattro Satiri, & quattro Donne...» 71 ghiri, Feste Musicali cit., pp. 58-62, dà la musica del coro di ninfe, che è inol­ tre pubblicata da minor e mitchell, A Renaissance Entertainment cit., pp. 319-23. Ibid., pp. 351-52, è il coro bacchico finale, del quale dànno ulteriori trascri­ zioni Osthoff e Kaufmann (vedi la nota 67). 72 Come altrove (cfr. nota 70) Giambullari parla di «cornetta» riferendosi certamente ad uno strumento della famiglia del «cornetto» di legno o avorio, con bocchino metallico e sei fori. Storte e stortine sono strumenti della famiglia del cromorno, ad ancia doppia e canna cilindrica che termina in una curvatura somigliante a quella di un manico di bastone. 72 Vedi il passo relativo alFintermedio dopo il primo atto, riportato nella nota 65. 74 Era suonato non tenendolo tra le gambe, ma stando in piedi e poggiandolo a terra. 75 Si veda la musica in minor e mitchell, A Renaissance Entertainment cit., pp. 299-303. Era già pubblicata in Arnold schering, Geschichte der Musik in Beispielen, Leipzig 1931. 76 Clavicembalo, organo e violone dovettero avere la funzione musicale di dar cor­ po alle armonie (col violone incaricato di rafforzarne il basso) pur serbando una sonorità discreta e quasi eterea, in ciò aiutati dalFessere nascosti fuori di scena; al tempo stesso clavicembalo e arpa furono spesso usati per caratterizzare scene celesti (vedi Robert l. weaver, Sixteenth-Century Instrumentation, in «The Mu­ sical Quarterly», xlvii, 1961, pp. 262 sgg.). Flauto c voci di uccelli erano desti­ nati ad evocare naturalisticamente i suoni del primo risveglio della natura all’au­ rora. Non direi che le «voci di uccegli» fossero veri e propri strumenti musicali, ma piuttosto zufoli o altri arnesi imitanti le voci di determinati pennuti. La mu­ sica è pubblicata nella versione madrigalistica da minor e mitchell, A Renais­ sance Entertainment cit., pp. 225-28, e da osthoff, Theatergesang cit., II, pp. 90-93. 77 minor e mitchell, A Renaissance Entertainment cit., pp. 343-48, e osthoff, Thea­ tergesang cit., II, pp. 101-7. Anche per i tromboni si veda l’articolo di weaver cita­ to nella nota precedente. I tromboni a tiro in uso durante il Rinascimento avevano un suono più morbido, soffice e scuro di quelli moderni ed evocavano immagini di oscurità misteriosa e notturna (cfr. la descrizione riportata più sopra, nota 8a); ne deriva anche l’associazione a personaggi infernali dei quali esprimono piuttosto che l’orrore la natura sotterranea. 78 Cioè con le parti tutte provviste di testo, come del resto già nella stampa del 1539, ma senza alcuna indicazione che suggerisca l’esecuzione «per cantare e sonare» c tanto meno i colori strumentali desiderati.

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19 Che soltanto le tre sirene cantassero mi pare espresso chiaramente sia dalla descri­ zione di giambullari che dalla Tavola della stampa musicale del 1539; quest’ultima dice «... cantata a la fine del secondo atto da tre sirene, et da tre monstri ma­ rini sonata con tre traverse, et da tre Ninfe marine con tre liuti tutti insieme». Quindi le tre voci superiori erano cantate dalle sirene, le tre inferiori suonate dai mostri marini sulle traverse e il tutto accompagnato dalle armonie dei liuti. Le traverse sono flauti suonati, come quelli moderni, tenendoli disposti trasversalmen­ te al corpo; non avevano chiavi, ma soltanto fori che erano tenuti chiusi o aperti dalle dita. La descrizione del loro camuffamento nell’intermedio del 1339 suggeri­ sce dimensioni sensibilmente maggiori di quelle dei flauti moderni e quindi un ambito grave che corrisponde a quello delle voci piu basse della composizione. La musica è in minor e mitchell, A Renaissance Entertainment cit., pp. 277-88 e inoltre in osthoff, Theatergesang cit., II, pp. 94-100. w Ne diede notizia angelo solerti, La rappresentazione della «Calandria» a Lione nel 1548, in Raccolta di studi critici dedicata ad Alessandro D'Ancona, Firenze 1901, pp. 693 sgg., traendola da La Magnifica et Triumphale Entrata Del Christianiss. Re di Trancia Henrico secondo... Colla particulare Descrittone della Comedia che fece recitare la Hattone Fiorentina, Lione 1349. Le due spinette e i flauti sono un riflesso semplificato della strumentazione che accompagnò l’Aurora fiorentina del 1339. «Per chiudere... venne la Notte su carro tirato da due gufi e cantò essa pure una strofa» (solerti, La rappresentazione cit., p. 696). Non sono indicati gli stru­ menti che Taccompagnarono. M La rappresentazione ebbe luogo il 27 settembre 1548. La Particulare Descrittone della Comedia tratta a lungo dell’addobbo e della scena, opera di maestro Nannoccio fiorentino, che ebbe Valuto di un maestro Zanobi scultore; grazie a costoro la «sala di San Gianni» fu trasformata. Brantòme, citato da solerti, La rappre­ sentazione cit., p. 694, cosi si esprime: «ceste belle salle, que parest encor, qu’il [il cardinale d’Este] fit ainsy accomoder comme l’on la void; car paradvant c’estait une chose vaste, layde, et sans aucune forme de beauté ny gentillesse». 83 Vedi la precedente nota 20,

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Di Antonfrancesco Grazzini, autore del verso posto qui sopra co­ me titolo è rimasta autografa una «Tavola delle opere...» nella quale il fecondo scrittore elenca tra le Rime Petrarchesche, di seguito a So­ netti circa cinquecento, anche Madrigali circa Quattrocento, con que­ gli composti per Intermedi delle Commedie mie, e d’altrui2. Delle sei o sette commedie di Grazzini soltanto una, La gelosia, fu stampata con gli intermedi1; né io so di alcuna altra stampa di commedia nella quale siano riportati versi di intermedi composti dal Lasca. Abbiamo così una nuova prova che il silenzio delle stampe di commedie nei ri­ guardi degli intermedi non significa che esse dovessero essere rappre­ sentate senza. Un altro indizio consimile ci viene da un altro fecondo scrittore, da Ludovico Dolce, le commedie del quale furono tutte stam­ pate senza intermedi. Ma in fine all’atto I de II capitano Truffa, «fa5 miglio», dopo aver commentato sugli avvenimenti dell’atto, conclude cosi4: Ma, che genti son quelle che compaiono in Scena? s’addimandano intermedi} che ’1 mondo usa di por ne le Comedie.

Questo vuoto, nel quale inconsciamente noi proiettiamo una chiu­ sura di sipario e un intervallo che non facevano parte del costume tea­ trale cinquecentesco, ha avuto come conseguenza che la nostra imma­ gine degli intermedi sia oggi soprattutto associata ad un tipo speciale che, malgrado la sua importanza storica e artistica, rappresenta piut­ tosto l’eccezione che la regola. Sono i grandi intermedi destinati a fe­ steggiare un avvenimento particolarmente solenne di una corte, ed an­ che a far colpo sugli ospiti con la ricchezza di invenzione e la profusio­ ne dei mezzi impiegati per la loro realizzazione; dei quali spettacoli, perché l’eco si allargasse e giungesse alle corti amiche e alle rivali, si stampava quasi subito una descrizione minuta e profusa, annotando ogni particolare dell’apparato, delle decorazioni, degli attributi dati ad

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ogni personaggio e dei loro significati simbolici, descrivendo la qualità e i colori delle stoffe impiegate, le meraviglie delle macchine sceniche, e magari in qualche caso gli strumenti che accompagnavano le musiche. Spettacoli di questo tipo, con intermedi che ho proposto di chia­ mare «aulici»’, furono offerti da varie corti; ma con più frequenza di ogni altra tenne a diramarne la notizia e tramandarne il ricordo la cor­ te fiorentina, spinta a questa forma di esibizionismo dalla data ancor recente della sua affermazione politica e un poco anche dal desiderio di far dimenticare le tradizioni mercantili e bancarie dei Medici. Vi rien­ trano anche gli spettacoli fiorentini del 1539 e lionesi del 1548 che mi è convenuto trattare in altro contesto; ma a dimostrarne il carattere eccezionale basta il fatto che anche a Firenze trascorse più di un quarto di secolo prima che si verificassero eventi teatrali paragonabili a quelli del 1539. Non mancarono nel frattempo, e anzi ebbero luogo forse ancor più spesso che non se ne abbiano notizie, le rappresentazioni, diciamo cosi, ordinarie di commedie, delle quali il più delle volte prese l’iniziativa l’Accademia fiorentina, protetta e incoraggiata da Cosimo I ma nessuna ebbe la presentazione solenne e sfarzosa della quale aveva beneficiato 11 commodo. Un nuovo periodo di più intensa attività tea­ trale si apri il giorno di Santo Stefano (26 dicembre) del 1565 con la rappresentazione de La cofanaria di Francesco d’Ambra, con interme­ di di Giovambattista Cini, e fu incoraggiato dal temperamento irre­ quieto e avido di piaceri del primogenito di Cosimo I dei Medici, Fran­ cesco, cui il padre aveva affidato la condotta della maggior parte degli affari ordinari di governo. La cofanaria fu rappresentata infatti «nelle nozze dell’illustrissimo S. Principe Don Francesco de’ Medici, e della Serenissima Regina Giovanna d’Austria», sorella dell’imperatore Mas­ similiano II. Seguirono, quasi come un prolungamento delle festività nuziali, le mascherate del carnevale del 1566’, durante il quale anche l’Accademia fiorentina offri una rappresentazione del Granchio di Leo­ nardo Salviati con intermedi dell’accademico Bernardo de Nerli. Mi converrà cominciare da questi ultimi, perché, anche se vennero dopo quelli de La cofanaria, sono più vicini a procedimenti già noti, e anzi o furono ispirati da quelli offerti a Lione nel 1548 con la Calan­ dria, o discendono da un modello comune al quale anche gli intermedi lionesi si erano ispirati. L’Accademia però non volle strafare — ben­ ché tanto il duca Cosimo che il principe Francesco avessero «sommini­ strato favori e denari a questo pubblico spettacolo»7 - sicché gli in­ termedi non furono otto ma sei. Anzi la «Dichiarazione» degli inter­ medi aggiunta alla stampa della commedia dal loro autore’ si dilunga a parlare della somiglianza tra gli intermedi e il «coro dell’antiche fa-

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vole de * Greci» e sostiene che «poi che gl’intermedi corrispondono alle canzoni, che erano cantate dal coro, & quelle non erano ne avanti, ne doppo alla favola, ma cantate solamente nel mezzo, cosi pare ragio­ nevole, che gl’intermedii... habbiano solamente luogo tra l’uno atto, & l’altro:... Per le sopradette ragioni quattro sono gl’intermedii della presente commedia; i quali sono le quattro età della vita humana, cioè Fanciullezza, Gioventù, Virilità e Vecchiaia». Per Bernardo de Nerli «i due Madrigali delle Muse, de quali uno è avanti che la commedia incominci, e l’altro doppo la fine di lei, non sono intermedii», ma sono «oltre à quattro intermedii aggiunti di piu... per non ci dipartire dal­ l’usanza, & per compiacere oltr’à ciò al Teatro... avvezzo vedere, ed’ avanti, e doppo la commedia alcuna cosa». L’accademico de Nerli in­ siste inoltre, forse con un’intenzione critica nei riguardi degli interme­ di della Cofanaria poco prima rappresentati, su due qualità dei suoi intermedi veri e propri (i quattro centrali): «La prima è la chiarezza e l’agevole cognizione...»; la seconda è l’avere evitato che «trattando la commedia di private, è casalinghe azzioni... per intermedii si debbano rappresentar’ personaggi Illustri, & ammirabili molto; com’i Re sono, gli Dii e somiglianti». Ciò non si applica altrettanto bene ai «madrigali delle Muse», sia perché esse sono personaggi né «privati» né «casa­ linghi», sia perché la loro comparsa sulla scena richiede la conoscenza di un lunghissimo antefatto nel quale partecipa un personaggio ancora più illustre, Apollo, e indirettamente è implicato perfino Giove. Sia come piacque al Nerli, è evidente la distinzione tra una cornice e gli intermedi centrali, i quali come vedremo, ancora una volta scan­ discono il tempo dell’azione. Ma la cornice è distratta e casuale. Le Muse, su consiglio di Apollo, hanno «lasciato il bel Parnaso, ove si ria | gente Barbara vive» (un’allusione all’occupazione turca della Gre­ cia) e in nuvola si sono dirette a Firenze. Apollo le ha avvertite «che esse entrino nella Città, e di fatto se ne vadano nell’Accademia, piena d’huomini virtuosi, e che molto le hanno in venerazione; e quivi doppo il loro arrivo aspettino la mattina seguente»; egli mostrerà loro Fie­ sole «che in veruna parte non ha invidia à Parnaso». È cosi che le Muse «coperte da una nugola... arrivano... nell’Accademia... in quel punto che si faceva opera d’incominciare senza indugio à recitare la commedia; essendo le cortine abbattute, che coprivano la prospettiva». Avendo cantato il loro madrigale le Muse «si dipartono dalla Scena... ed intanto si recita la commedia, la quale essendo fornita, e la mattina venuta, tornano le muse,... & andando verso i Fiesolani Colli loro nuovo Parnaso, lodano in tanto il Paese, ed i Principi suoi». Come la cornice è casuale, cosi anche il riferimento al tempo della commedia

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da parte degli intermedi veri e propri non è realistico, ma allusivo e analogico. La commedia «dura poco meno, che un giro di Sole; co­ minciando quasi in sul mezzo giorno, & avanti il tempo predetto nel seguente di terminando: & perché in cosi fatto spazio di tempo si con­ siderano, e ci hanno quattro hore realmente diverse, la Mattina, il Mezzo di, la Sera, e la Notte... & perché ciascuna di quest’età [le quat­ tro età dell’uomo] s’assomiglia a una dell’hore predette;... ciascuna età s’introduce nella sua bora propria... simile à lei». Per amore della cor­ rispondenza tra le età e il tempo dell’azione della commedia il de Nerli fu costretto a cominciare dopo il primo atto con l’intermedio di Gio­ vani e a porre quello di Fanciulli dopo il quarto. Non gli si perdona facilmente, l’avere, malgrado la prolissità del suo «Discorso», comple­ tamente omesso ogni informazione sulle musiche, i loro autori e il mo­ do in cui furono eseguite. Sulla rappresentazione de La cofanaria se si è scritto molto in tem­ pi moderni, si.era già scritto parecchio in tempi antichi9, a cominciare dalla prefazione sentenziosa di un tal Alessandro Ceccherelli alla prima edizione della commedia19: «È comune opinione dei piu saggi... che fra tutti gli spettacoli che si rappresentino, il più giovevole & degno d’essere ascoltato, & visto, sia la Comedia... E tanto più quanto da qualche tempo in qua si è costumato renderle vaghe, & adorne con grand’arte; rappresentando fra atto & atto Intermedi di mirabil’inventione & artifizio». Sembra quasi che ci debba scappare una giustifica­ zione degli intermedi sulla base del loro potere educativo e moraleg­ giante; ma Ceccherelli si contenta di dire che grazie ad essi «una Co­ media oggi in un tempo medesimo diversi casi rappresentando; non rende minor meraviglia à gli ascoltanti, che già si facessero anticamen­ te le Tragedie con i loro Cori». A dire il vero gli intermedi de La cofa­ naria, pur contenendo brani corali, non hanno più nulla in sé che so­ migli alle funzioni del coro tragico. È invece esatto che per essi si rap­ presentano «in un tempo medesimo diversi casi»; i sei intermedi di Giovambattista Cini svolgono infatti una loro trama che continua dal­ l’uno all’altro, sicché mentre essi fanno da intermedi agli atti, gli atti fanno loro da intermedi. Tra le due azioni si pretende che ci sia una certa correlazione: «Furono tutti gl’intermedi... Tratti dalla novella di Psiche e d’Amore... e s’è andato pigliando le parti che son parse più principali accomodandole con quella maggiore destrezza, che s’è saputo alla Commedia, con intenzione di far parere che quel, che operavano gli Dii nella favola de gl’Intermedii operassino, quasi costretti da su­ perior potenza, gl’huomini ancora nella commedia»11. È il primo esem­ pio, che io sappia, di una compenetrazione tra l’azione degli intermedi

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e quella della commedia, e si risolve in uno svolgersi dell’azione alter­ nativamente su due piani - il divino e l’umano - dei quali il secondo è soggetto all’influenza del primo, anche se i suoi personaggi non se ne rendono conto. Queste almeno sarebbero le intenzioni; che in realtà la storia di Psiche è delineata così tenuemente e slegatamente che non sarebbe comprensibile senza una precisa conoscenza del mito e della novella di Apuleio, conoscenza che i vari Cini, Grazzini e Ceccherelli si saranno curati di rinfrescare nella mente del maggior numero possibile di spet­ tatori. Né è molto evidente come i suoi casi influiscano su quelli dei personaggi de La cofanaria. Nel primo intermedio «viddesi... breve spazio dopo il cader delle cortine12, che ascondevano à gl’occhii de’ Riguardanti la Prospettiva, nel concavo Cielo d’essa, quasi aprendosi il primo [cielo], apparire un secondo molto artifizioso Cielo ”, di cui à poco à poco si vide uscire una Nugola, in cui era con singoiar maestria congegnato un dorato, & ingemmato Carro, cognosciuto esser di Ve­ nere, percioche da due bianchissimi cigni si vedeva tirare, in cui, come Donna e guidatrice si vedeva quella bellissima Dea con molta maestà sedendo tutta nuda inghirlandata di rose e di mortella... Haveva costei in sua compagnia le tre Grazie cognosciute anch’esse dal mostrarsi tut­ te nude da’ capegli biondissimi... E le quattro Hore con l’ali... Vedevansi tutte queste... sedere su la descritta nugola, la quale à poco, à poco scendendo pareva che nel Cielo lasciasse Giove, Giunone, Satur­ no, Marte, Mercurio, e gl’altri Dei, da quali si sentiva uscire non pur una dolcissima Armonia più somigliante à divina, che ad humana cosa, ma... odori soavissimi, e preziosissimi. Videsi nel medesimo tempo da un capo della Prospettiva, pur come se per terra camminasse, venir Amore con l’ali... in compagnia del quale si vedevano le quattro sue principali passioni... cioè [era accompagnato] Dalla Speranza... Dal Ti­ more... Dall’Allegrezza... E dal Dolore... Questi giunti vicini al carro, che in questo tempo era fino su’! pavimento arrivato, si fermarono, mentre che l’Hore, e le Grazie à poco, à poco della Nugola discesero, le quali intorno a Venere, che in piedi levata s’era... gl’aiutarono can­ tare le due prime stanze della seguente ballatetta; tirando l’Hore sem­ pre sopra i circustanti Ghirlande conteste di mille, e mille variati fio­ retti, le quali fornite, & al suo luogho ciascuna ritornata, si vide à po­ co, à poco la Nugola, il Carro, & i Cigni ritornarsene in verso il Cielo, ove arrivata, in un momento si chiuse senza rimanerci pur un vestigio... Amore in questo tempo attraversando coi compagni suoi la Scena, che gli facevano quasi tenore, seguitò di cantar l’ultima stanza della Bal­ lata, tirando anch’egli diverse saette, onde diede materia di credere che

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gl’Amanti, che seguitarono di recitare, da esse morsi partorissero la seguente Commedia...» Anche sfrondata e alleggerita di una miriade di particolari sui costumi e gli attributi, la descrizione ha come tema dominante una lentezza quasi ieratica: «à poco, à poco» scende la nu­ vola col carro di Venere; «à poco, à poco» ne discendono le Ore e le Grazie; e «à poco, à poco» la nuvola le riporta in alto per essere rias­ sorbite, questa volta «in un momento», dal concavo cielo. La lentezza sarà stata magari imposta dalle necessità meccaniche della ponderosa macchina; ma è soprattutto richiesta perché gli spettatori possano as­ sorbire la varietà delle sensazioni visive, auditive e olfattive, penetra­ re l’artifizio, discernere i particolari, assaporare l’illusione provocante dei nudi femminili. In sostanza lo spettacolo non è tanto una panto­ mima'4, quanto piuttosto un quadro vivente, nel quale il moto deve essere tenuto entro limiti ristretti che non nuocciano al quadro. Un riferimento pittorico abbastanza preciso è quello delle Grazie, «cognosciute... dal mostrarsi tutte nude da’ capegli biondi»15; ancor piu preciso fu il riferimento del quarto intermedio di una commedia rap­ presentata l’anno dopo, nel quale si vide «La Calunnia, già dipinta da Apelle Pittore antico in mezzo a due donne che le parlano nelle orec­ chie»16; altri senza dubbio se ne potrebbero trovare investigando la produzione fiorentina dello stesso periodo1’. In tanta ricchezza e lentezza, tutto ciò che si svolge nel primo in­ termedio de La cofanaria è un breve dialogo tra Venere e Amore: VENERE

A me, che fatta son negletta, e sola, non più gl’altar, né i voti; ma, di Psiche devoti, a lei sola si danno, ella gPinvola.

Dunque, se mai di me ti calse, ò cale, figlio, Tarmi tue prendi, e questa folle accendi di vilissimo Amor d’huomo mortale. AMORE

Ecco, Madre, andiàn noi: chi l’Arco dammi? chi le saette? ond’io con Paltò valor mio tutti i cor vinca, leghi, apra, & infiammi?

L’una e l’altro si esprimono in modo conforme alla stilizzata solen­ nità della scena, in quanto quello di Venere è un madrigale a otto voci, e la risposta di Amore un madrigale a cinque: Venere, le Ore e le Grazie «gl’aiutarono cantare le prime due stanze»; Amore cantò la

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sua strofetta «coi compagni suoi [Speranza, Timore, Allegrezza e Do­ lore] che gli facevano quasi tenore» Inoltre la discesa di Venere fu accompagnata da «una dolcissima Armonia, più somigliante à divina, che ad humana cosa», che sembrava provenisse dai simulacri degli dei nel cielo più lontano - dunque una musica di strumenti nascosti, che fu forse ripetuta durante la riascesa e scomparsa della dea 19. Le musiche per La cofanaria - di Alessandro Striggio quelle del I, II e V intermedio, di Francesco Corteccia quelle del III, IV e VI avrebbero dovuto essere pubblicate”. Probabilmente non lo furono mai, né sono state rintracciate in fonti manoscritte, con qualche fortu­ nata eccezione della quale dirò più avanti. Dovettero comprendere, ol­ tre i testi vocali, gran copia di musiche strumentali. Nel secondo inter­ medio «si vide da una delle quattro strade... uscire un picciolo Cupidino, il quale pareva che in braccio vezzosamente tenesse un Cigno, in cui molto maestrevolmente era congegnato un non molto gran vio­ lone21; il quale con una verga di palustre sala che nell’una mano havea, sotto à cui era nascosto l’Archetto, quasi con lui scherzando, veniva dolcissimamente sonando». La Musica che apparve subito dopo non ebbe bisogno di dissimulare il suo strumento, «il bello, e gran Lirone, con che ella veniva sonando»22. Dietro a lei e ad altri personaggi (Ze­ firo e il Gioco e il Riso anch’essi rappresentati come cupidini) «quattro altri Cupidi... con quattro ornatissimi liuti venivan sonando». Si eb­ bero dunque tre diversi generi di musica strumentale «apparente»: so­ listiche quelle del violone e del lirone, d’insieme quella dei liuti23. Dopo di che tutti i personaggi già indicati, più altri quattro cupidini cantori, si unirono a «cantare e sonare» un madrigale sul tema come Amore «di sé stesso e di Psiche oggi sia preda»24. Nel terzo intermedio «si vide à poco, à poco uscire [dal suolo] prima sette, e poi altri sette In­ ganni», scatenati dall’essere Amore invischiato nell’intrico del suo amo­ re per Psiche. «In mano Altri di loro havea Trappole, Altri ami, & altri Oncini, ò Rampi, sotto ciascun de’ quali erano ascose Storte musicali»; con esse, prima sonarono e poi sonarono e cantarono un madrigale a sei voci25. Il sorgere dei personaggi del quarto intermedio (Discordia, Ira, Crudeltà, ecc.) da voragini fumose sarà stato accompagnato o da silenzio, o piuttosto da rumori; dopo di che «due Antropofaghi, o Le­ strigoni... sonando sotto forma di trombe ordinarie due tromboni pa­ reva che volessero eccitare i riguardanti a combattere»26. Sono in sce­ na anche i Furori «di Tamburi, di ferrigne sferze, e di diverse armi forniti sotto le quali erano diversi strumenti nascosti»27; dopo che gli altri ebbero sonato e cantato un madrigale, i Furori «fecero in foggia di combattenti una nuova e stravagante Moresca»28. Infine nel sesto

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intermedio si vide sorgere sulla scena il colle d’Elicona e discenderne tutti i personaggi «buoni» della favola insieme a Imeneo; furono can­ tate e sonate due «canzonette», la seconda delle quali accompagnò un «nuovo, & allegrissimo ballo». Gli strumenti, sonati da Pan e nove satiri, furono «Pastorali... sotto cui altri musicali strumenti si ascon­ devano» Psiche, perno di tutta la storia, non compare fino al quinto inter­ medio; nel quale «di disperazion vestita», è «mandata da Venere all’Infernal Proserpina». La accompagnano la Gelosia, l’invidia, il Pen­ siero o Cura, e lo Scorno (tutti personaggi femminili) che la tormen­ tano e poi lottano con quattro serpenti usciti dal suolo, finché «quegli percotendo in mille guise con-le spinose verghe che avevano in mano, sotto cui erano quattro archeti nascosti... si senti in un momento (can­ tando Psiche il seguente Madrigale) un mesto, ma soavissimo, e dol­ cissimo concento, percioche ne i Serpenti erano con singolare artifizio congegnati quattro Violoni, & ella poi cantò con tanta grazia, che si vide trarre à piu d’uno le lagrime da gl’occhii»”. L’intermedio si ac­ centra sul lamento di Psiche: Fuggi, spene mia, fuggi, e fuggi per non far piu mai ritorno. Sola tu, che distruggi ogni mìa pace, à far Vienne soggiorno, Invidia, Gelosia, Pensiero, e Scorno, meco nel cieco Inferno ove l’aspro martir mio viva eterno.

Ma non si arresta lì; dopo il lamento «si vidde con non poca paura delle risguardatrici Donne una grande apertura nel pavimento; di cui usciva fumo, e fiamma continova, e grande; & in un momento si vide con le tre teste, e si senti con ispaventoso latrato Finfernal Cerbero, à cui si vide Psiche gittare una delle due schiacciate, che haveva in mano; e poco dopo con diversi Monstri si vide apparire Caronte con la sua barca, in cui entrata la disperata Psiche, gli fu dalle quattro predette sue stimulatrici tenuta noiosa, e dispiacevol compagnia...» Siamo fortunati che proprio del patetico madrigale di Psiche un gio­ vane musicologo americano abbia potuto sagacemente ricostruire la musica (es. xxxv), che fu accompagnata, oltre che dai quattro violoni sulla scena da quattro tromboni c da un lirone”. Ma è evidente che tutta Fazione che lo precedette e quella che lo segui si svolgessero sen­ za musica. L’antica identificazione degli intermedi con i «madrigali» o «cori» ha dato posto ad un nuovo rapporto, nel quale la musica, an­ che se ricca, varia di combinazioni di voci e di strumenti, e perfino,

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come nel lamento di Psiche, commossa e commovente, è appena uno dei molti elementi che concorrono alla «meraviglia degli intermedi» ed è nettamente subordinata alla ricchezza delle figurazioni plastico-pitto­ riche, alle aperture dei cieli, ai «dii ex machina» o «ex nube», e alle «uscite di sotto ’1 palco», che ad ogni intermedio si sovrappongono al­ la prospettiva disegnata per l’azione della commedia e ne alterano pro­ fondamente l’aspetto’1. Lo «ispaventoso latrato di Cerbero», o, in un intermedio più recente, il «tumulto del Caos» che fa «un tuono simi­ le a quello che fa lo schioppo» ”, sono elementi dello spettacolo non meno del Krone suonato dalla Musica in persona. Negli intermedi fiorentini del 1567-68 e del 1569 — gli uni rappre­ sentati per il battesimo della primogenita di Francesco, e gli altri «per honorar la Illustratissima presenza della Serenissima Altezza dello Ec­ cellentissimo Arciduca d’Austria» e quasi in anticipazione della con­ cessione imperiale che elevava il ducato a granducato — la ricerca della varietà e della sorpresa torna a porre in secondo piano l’idea di dare agli intermedi se non una vera e propria trama un filo ideale di con-

Esempio xxxv. Alessandro Striggio, Inizio del lamento di Psiche, dal V. intermedio de La cotonaria di F. d’Ambra. Ricostruzione di H. M. Brown dall’intavolatura per liuto in Vincenzo Galilei, Fronimo (G. Scotto, Venezia 1568).

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tinuità. In quelli del 1567-68, in verità, prevale su ogni altra una preoc­ cupazione moraleggiante (forse gli intermedi del 1565 erano apparsi in qualche sede troppo pagani nel clima di accentuata severità sancito dal Concilio di Trento); ma gli ammonimenti riversati sulla innocente Eleonora con abbondanza di riferimenti a personaggi e autori classici (mentre sarebbero stati meglio indirizzati a Francesco o a Cosimo) non sono, almeno nella descrizione di Alessandro Ceccherelli ”, unificati in una morale complessiva, ma soltanto qua e là messi in rapporto coi casi delia commedia di Lotto del Mazza “. Né gli intermedi brillarono, come un anno prima aveva richiesto il Nerli, per «chiarezza e agevole cognizione»; in più di un caso anzi allegoria e riferimenti filologici fu­ rono al di là della facoltà di comprensione del Ceccherelli". Più pre­ cise, per nostra fortuna, sono le informazioni sulle musiche, che egli aveva avute direttamente dallo «Eccell. M. Alessandro Striggio di Pietoni Mantovano, il quale le fece, et concertò di tutti gli strumenti che in tal cosa si possano adoperare». Nel primo intermedio tre Furie, due Belidi, uno dei Lapiti (che personificava la Gola) e una schiera dei «più famosi huomini stati viziosi» (sono nominati soltanto Issione, Tantalo, Tizio, Sisifo, Salmoneo e Phlegia) uscirono da una bocca d’inferno («...con lunghi, & acuti denti, e aperta la gola ne usciva fuoco, & fiamma») per spargersi «per tutte le strade della Scena»; ma prima «à passo, à passo, pel palco fecero Luna, &... cantarono, & sonarono due volte un madrigale a voci pari, a sei cantato da sei voci, et sonato da cinque Dolzaine, e un Trombone»” (le sei voci furono probabil­ mente un basso e cinque tenori, che anticipano la pratica operistica secentesca di dar voce tenorile a vecchie o a personaggi femminili senza femminilità, come le Furie, la Discordia, ecc.). Nel secondo intermedio il Piacere in abiti femminili (un soprano), dialogò con Ercole (un bas­ so; un’altra anticipazione delle convenzioni operistiche); «et dentro [cioè tra le quinte, o dietro la prospettiva] si sonava tre Gravicembali, tre Liuti, quattro Tromboni, quattro viole d’Arco, due Flauti e una Traversa» ", PIACERE

Perché, giovine, a te perigli, oltraggio cerchi, che bello sei oltra misura? ERCOLE

Che mi giova beltà senza ’1 bel raggio di vertii ’n questa vita, o m’assicura? PIACERE

Io che beato altrui rendo e felice. ERCOLE

Donna, chi siete voi ?

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Quella che dura mai sempre, d’ogni ben viva radice.

piacere

ERCOLE

Ditemi il nome vostro, c per qual via seguir vi deggio dunque, alma Beatrice. PIACERE

Per questa piana, amor, che dolce invia al contento, e tralascia ogni fatica. ERCOLE

Dunque l’Hidra, il Leone, c l’aspra ria schiera domar non deggio, empia nemica a Thuomo in questa vita? o qual mercede dar mi potete a par di questa, amica? PIACERE

Il Piacer, ch’ogni ben nel mondo eccede. ERCOLE

Non impedir, malvagia, il mio viaggio, ch’io per seguirti mai non torco il piede, seguendo sol virtude e ’1 suo dir saggio.

Assistevano al dialogo i mostri delle imprese erculee, i quali, dopo che l’eroe ebbe respinte le lusinghe del Piacere, «cantavano un Mandrigale a dieci, con dieci voci fuora in Scena, senza altri strumenti». Nel terzo intermedio comparvero quattro pastori e quattro ninfe, «i quali come apparsero fuori, in un tratto si vide apparire una pergola in botte nel mezzo della Scena...»39 sotto la quale entrati a sedere i Pastori, che quattro violoni havevano, & le Ninfe in piedi, due da capo, & due da piedi, cantando dolcissimamente, & quelli sonando», eseguirono un madrigale a otto, quattro soprani e quattro «bassi di violoni»40. Tutto bene fin qui, per i pastori e per noi; ma non c’è indicazione di musiche vocali o strumentali per la conclusione dell’intermedio, nella quale «venuti quattro Satiri, & fuggendosi per la paura i Pastori, le Ninfe furono da quelli rapite, & portate via»41; ecco comunque il testo del canto delle ninfe: In questi verdi prati e ballando, e cantando, chiare e snelle, a i piu soavi e grati canti de i dolci uccelli, a questi amati presso, lete sem noi; haggia le belle gemme, e l’oro chi ’1 vuole, poi che noi sen felici, o quanto, e sole. Poni a te, Dafne, hor questa, a te quest’altra, o biondo Aminta, o nostro Tirsi, ghirlanda in testa, di ben mille viole e fior contesta.

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Ma quel nemico là, quel fero mostro che sguarda? ecco le belve! fuggian, misere, oh, oh, fuggian le selve.

Nel quarto intermedio, dice il Ceccherclli, «era figurato la Calumnia già dipinta da Apellc Pittore antico»; e aggiunge poi, dove parla della musica, che «era a cinque, cantato da cinque voci, et sonato da una Storta per basso, due Tromboni, et due Cornetti muti». Non si può evitare il sospetto che la scelta degli strumenti, particolarmente quella della storta c dei cornetti muti, sia un madrigalismo sui generis che allude alle distorsioni dei fatti e al sussurrio delle due donne (Igno­ ranza e Paura) nelle orecchie del re Mida42; e anche qui qualcuno dei personaggi femminili deve aver cantato con voce tenorile41. Il fatto più strano è che i personaggi malvagi concorrono nel canto di un testo che prende le parti del calunniato o della Verità, che è anch’essa presen­ te - «una Donna bellissima, ma tutta nuda, cinta di veli in qualche parte». Chi abbia in mente la Calunnia d'Apelle di Botticelli con la sua fuga di moti immobili da sinistra verso destra, troverà difficile imma­ ginare come le figure dell’intermedio, «giunte tutte, & fatto Luna so­ pra la Scena», si disponessero «mettendo in mezzo il Re... posto a se­ dere sopra una sedia Regale, la quale in un subito uscì di sotto il pal­ co44, & tutti insieme cantarono, & suonarono la seguente Canzone»: D’ogni altra furia e peste sicur’ è l’innocenza, non già, non già da queste fiamme, che ’1 buono, e’ >1 rio n’hanno temenza, e guai a chi pel crine tengon legato, e stretto: Calumnifl, Livor, Fraudo, Onta e Sospetto. Ma Penitenza pur ne stringe alfine; alle piu delle genti queste si trovan chiuse regali orecchie, à noi cosi patenti. E ben tal’hor deluse sem dalla Veritade ch’assedia nostre strade.

Il quinto intermedio, scrisse Ceccherelli, «corrisponde al primo che i vizii, essendosi sparti hanno viziato il mondo»45. Entrano ad uno ad uno Amore, Paura, Speranza, Invidia, Honore, il Contento, la Gloria, il Premio e la Virtù, «guardando verso il Cielo, dal qual si partiva una nugola, che tutta la Scena copriva, nel mezo della quale si vedevano le nove Muse, & le tre Grazie...44 le quali nella detta nugola scendevano

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à poco, à poco...»; altrove, dove si tratta delle musiche è detto che «dal Cielo ne calava dodici, et cantavano un Madrigale a cinque, et si so­ nava quattro Viole, un Cornetto muto, due Tromboni, una Lira et un Liuto; quegli di Terra rispondevano con un Madrigale a quattro can­ tato da quattro voci, et sonato da dua Tromboni, et tre Flauti, che erano nove... et poi tutti insieme, cioè numero ventuno, con tutti i det­ ti strumenti, et voci cantavano un’altra Canzone a sei, dipoi dodici si partivano, et nove ne rimanevano che cantavano la canzone: Vatten’ o bella schiera». Tanta gloria di voci e di strumenti" cela però una morale pessimistica dell’intermedio : Muse e Grazie sono costrette a partirsi dalla Virtù perché i vizi le hanno tolto il Contento, il Premio e la Gloria! In compenso la nuvola risollevandosi verso il cielo rivelò che durante l’intermedio «si voltò l’altra Prospettiva dove apparve la piazza di S. Giovanni che faceva più riccho e bel vedere» "; e dopo l’atto quinto svolto su questa scena si apri il cielo e si videro apparire gli dei riuniti a convito per festeggiare il natale di Venere “. Ma poiché si trattava di fantocci, «di cartoni dipinti, e isolati, che facevano un bel vedere;... chiuso il Cielo vennero [di persona] tutti gli Dei, che furono 29 per non essere capace la scena di capirne più». Cantarono e repli­ carono «una Canzona a sei, sonata da due Cornetti, quattro Trom­ boni, sei Liuti, un basso e un Soprano di Viola, due Flauti, una Tra­ versa et dal resto delle voci [cioè dodici] cantata, i quali tutti erano tramezzati voci et istrumenti, secondo che dal giudizioso parere del detto M. Alessandro [Striggio] fu giudicato, et furono le dette Musi­ che meravigliose, et rare» ", Gli ultimi intermedi in questa serie di spettacoli furono quelli della Vedova di Giovambattista Cini, rappresentata nel 1569. Ne fu inven­ tore (e descrittore) lo stesso Cini”; ma come nella «favola» della sua commedia si fa un «meschuglio» di linguaggi (veneziano, bergamasco, napoletano, siciliano e toscano)52, cosi anche nell’invenzione degli in­ termedi le velleità classicheggianti dell’autore (anzi il suo «superamen­ to dei classici») si mescolano a suggerimenti derivanti volta a volta dalla collaborazione con gli scenografi e col musicista, che fu ancora una volta lo Striggio. Un tenue filo di collegamento esiste soltanto tra due coppie di intermedi, tra il primo e il secondo, e tra il terzo e quar­ to; ma in complesso prevalse il desiderio di varietà e di effetti spetta­ colari. La cortina del sipario era appena caduta, e gli spettatori erano ancora intenti ad ammirare «la città di Fiorenza» e «il canto degli Antellesi con la faccia del Ducale Palazzo che di qui si scuopre con i tre giganti à pie di quella» a, quando da un lato si vide entrare un trion­ fo della Fama su «un leggiadrissimo carro d’oro a ovato... guidato

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dal Tempo presente vestito di raso rosso significante la Vivacità, & dal Tempo passato vestito di raso turchino significante la Divinità»; ag­ giungiamo, dacché siamo entrati nella descrizione dei costumi e dei loro significati allegorici, che la Fama era anch’essa «vestita di raso turchino, tutto fornito d’oro, con leggiadri calzaretti d’oro, con sgon­ fi di velo bianco in sulle spalle, ali d’oro: il capo... coperto da ricca ac­ conciatura d’oro, che finiva in un leggiadro ordine di stelle; percioche quella inalza l’huomo insino alle stelle» - chi fosse da «inalzare» alle stelle, li di fronte al Palazzo Ducale, nessuno stenterà ad indovinare. Con la Fama vennero «molte persone» non nominate, che tuttavia rap­ presentavano «i famosi»; e dall’altro lato si fecero incontro nove gio­ vani e nove fanciulle fiorentini, «i quali supplicando alla Fama, & ella rispondendo alle supplicazioni di essi empierono di suave armonia con si piacevol Dialogo tutto quel luogo». Seguono i testi, dai quali risulta che di fatto il dialogo sulla piazza gremita fu iniziato e concluso dalla Fama; ma non è detto se ella cantasse a solo, o se si unisse a lei il suo seguito M. Fu invece quasi certamente un madrigale a sei, con tre can­ tori per parte, il brano dei supplicanti fiorentini. Né per questo, né per gli altri intermedi è indicata la partecipazione di strumenti, che saran­ no dunque stati «non apparenti». In dialogo è anche il secondo intermedio: «Eritone (maga famosis­ sima per i versi de’ Poeti) venuta in Scena, facendo mentre cantava,con la magica arte sua alcuni circoli in terra in un istante si viddero uscire da quella infinita moltitudine di spiriti d’ogni sorte,... i quali dopo il loro cantare, furono da lei risospinti trà i morti, e con maraviglioso modo la ond’erano usciti, fatti ritornar dentro»55. In questa pri­ ma scena di evocazione magica avant l’Opéra, la maga certamente can­ tò a solo, accompagnata da strumenti nascosti; scopo dell’intermedio fu aggiungere alla visione del Tempo passato e del presente, che si era avuta nell’intermedio precedente, la profezia del Tempo futuro: Ombre, fuor dallo scuro abisso, a ripigliar l’antica veste venite, e non vi tenga fossa, ò muro; dite se le moleste cure haran fine “. Hor preste uscite; io vel comando, Eriton maga, che del tornarvi in terra son sf vaga.

La risposta delle anime (di poeti, pittori e scultori, musici e alchi­ misti) è rassicurante: ... il gran travaglio tosto si cangia, e torna dolce, eterno gioire...

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Il terzo intermedio fu tutto corale, di Nuvole e Venti: apparenze di nuvole che dovettero invadere tutta la scena, «mostrando di quei viluppi, che vedere si sogliano quando spesse insieme per l’aria si ur­ tano»; e personificazione di Nuvole «à guisa di donne con le trecce bionde, & humide, vestite di quel colore che in loro si vede, cioè ar­ gentino, rosso, giallo, verde... acconcie in una [nuvola] che da Ponente si partiva verso Levante». Uno dei due cronisti ci rivela l’intento di questo intermedio scrivendo: «veduto habbiamo in atto leggiadrissi­ mamente appresentarsi, quel che il facetissimo Aristofane nelle sue Nefele introdusse, quando in quella facetissima commedia finse il coro di Nugole. Ma in questo resta egli superato e vinto, che qui dopo il lo­ ro canto levatisi i Venti... con il loro soffiare le cacciarono, e resero il cielo sereno, cantando dolcissimamente; che fu à vedere, & à sentire cosa di maraviglioso diletto»”. Il «superamento degli antichi» si ri­ pete nel quarto intermedio, nella «trasformazione de Contadini in Ra­ nocchie à preghiera di Latona (come racconta Ovidio)». Anche questo intermedio è in dialogo: comincia con un coro di allegri contadini (dai costumi sfarzosi), interrotto dal giungere di Latona «che assetata con i piccioli figli in braccio si avviava verso l’acqua per satiar la sua sete». Qui il dialogo diventa, se non drammatico, serrato: CONTADINI

Non toccar l’acqua, o folle. LATONA

Perché, se l’è comun non vuoi ch’io brami questa? CONTADINI

I nodosi rami tu aspetti, et esser molle di pianto. latona Questo no; poi che satolle non fien le brame mie, quetate i figli. CONTADINI

Che ci torbi, o scompigli? LATONA

O sommo Giove, i tuoi dolci figli non vedi in che dispregio questi malvagi hor hanno? e giusto vuoi soffrir Tempio collegio di cosi ingrati? o fa, Padre, che puoi ciò che tu vuoi, che mai non gustin chiaro il rio; ma torbo in guai.

Le parole della preghiera sono di colore oscuro; ma forse il ricordo dantesco trovò grazia presso Giove, sicché «si vide con maestrevole

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arte tutta quella turba trasformata in Ranocchi, tanto simili a’ veri che più simili non sono i naturali, saltare subitamente nella pozza, e ripre­ sa la canzone attuffarsi con mille naturalissimi gesti nell’acqua, e gor­ gogliando cantare». Ne ebbero «maraviglioso piacere» tutti gli spetta­ tori, ancor più i «litterati, vedendo in atto, e colla trasformazione su­ perato quel che dal Greco Poeta Aristofane fu introdotto nella come­ dia, il cui Titolo è le Rane dal coro di cui è composto». Il quinto intermedio fu «un bellissimo Coro, & un gran drappello accolto di ninfe... vestite della più leggiadra e gratiosa foggia che mai si vedesse. Queste di numero 36, seguendo Diana in ordinanza per la Campagna, cantando alcune, & le altre sonando, si trassero in disparte quelle che sonavano, & le altre mentre dolcemente accompagnavano co’l canto gli stromenti ballarono gentilissimamente intorno a Diana che (come fingono i Poeti) di altezza di persona da gli omeri in su, so­ pravanzava ciascuna». Nell’ultimo intermedio «si aperse incontanente il Cielo, il cui splendore per i lumi riverberanti nell’oro, ferivasi gli occhi d’una luce tremoleggiante che sopportare non la potevano... Den­ tro à questo Cielo diviso in più gradi... gran numero di Dei... con bellissima canzone in modo, di Dialogo cantarono con armonia dolcis­ sima, movendo primieramente Giove con i superiori Dei, e rispondendo appresso gli inferiori, e... alla fine ripigliando tutti l’ultimo verso»”. Tutto considerato, l’invenzione degli intermedi de La vedova è me­ no libera di quanto sembri; è condizionata non dalle vicende della commedia quanto dalle richieste della scenografia e della musica. Le nuvole del terzo intermedio non si avviluppano senza motivo sulla prospettiva; mentre essi la nascondono, gli elementi della scena, rivol­ gendosi rapidamente su perni e venendo a mostrare un’altra superfìcie dipinta, mutarono la scena da cittadina in agreste; sicché, fugate le nu­ vole dal soffio dei sedici venti, comparvero alla vista «alcune delle più magnifiche ville e de’ più vezzosi giardini dell’amenissimo Arcetri». Sui due intermedi successivi, ancor più che il ricordo di Aristofane, influì l’esigenza che essi fossero di soggetto «conforme alla nuova pro­ spettiva», anche se a suggerire le rane del quarto poterono influire le nuvole del terzo, e se alla scelta del quinto potè contribuire l’avere una Diana di non comune altezza. L’ultimo intermedio, infine, riutilizzò ancora una volta in onore dell’ospite imperiale il sistema che il Vasari aveva escogitato nel 1565 per l’apertura del cielo concavo e l’apparire di un secondo più remoto cielo. Da parte sua la musica influì più che sulla scelta dei soggetti, sul modo di svolgere gli intermedi. Il tipo del­ l’intermedio a dialogo che aveva fatto la sua prima comparsa nel 1565, ha un assoluto predominio negli intermedi del 1569; soltanto le tren-

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tasei ninfe di Diana, che cantarono e suonarono (oltre che danzare) nel quinto intermedio, non svolsero, a giudicare dalle descrizioni, il mini­ mo spunto di dialogo drammatico o anche puramente musicale. Il dia­ logo è invece chiaramente indicato per gli altri, anche se nel primo non è ben chiaro, come si è già detto, se si svolgesse tra solista e coro, tra due gruppi corali, o magari tra due cori e un solista. Il secondo inter­ medio si dispose in una sequenza solista-coro-solista" ; * nel terzo dialo­ garono i gruppi delle Nuvole e dei Venti; nel quarto, il più vario, il coro di contadini, la supplica-aria di Latona, la sua preghiera-aria e il co­ ro finale di ranocchi si dispongono simmetricamente intorno al dia­ logo recitativo del quale ho dato il testo. Nell’ultimo intermedio il gio­ co di proposta e risposta tra gli dei gerarchicamente superiori e spa­ zialmente più remoti, e gli inferiori e più vicini”, associati da ultimo nella ripetizione del verso finale, non può non richiamare alla mente l’analoga ricerca di spazialità che Alessandro Striggio doveva essersi proposta un anno prima, componendo, per le nozze del duca Gugliel­ mo di Baviera e di Renata di Lorena, un mottetto per quaranta voci (distribuite in quattro cori, a 6, a 8, a io e a 16 voci) accompagnate da otto tromboni, otto viole da arco, otto flauti grossi, un «istrumento da penna» e un liuto grosso". Alessandro Striggio, solo autore delle musiche degli intermedi del 1567 e del 1569, e di molte delle mascherate fatte in quegli stessi anni, è un artista che merita meglio che l’attenzione che gli è stata fin qui accor­ data, concentrata soprattutto sul capriccio (non sul merito artistico) del Cicalamento delle donne al bucato "; il quale oltre tutto era stato pubbli­ cato, già prima della rappresentazione degli intermedi per La vedova, insieme ad un Lamento di Didone di Cipriano de Rore. Fu abile ese­ cutore, oltre che compositore: «non solo eccellente, ma eccellentissimo nel sonar la viola e far sentir in essa quattro parti a un tratto con tanta leggiadria et con tanta musica che fa stupire gli ascoltanti; ed oltre a questo le sue composizioni sono tenute cosi musicali e buone, come altre che in questi tempi si sentino» ". Musicali e buone devono essere apparse a Cosimo Bartoli, che cosi scriveva, quelle del Primo libro de madrigali a cinque voci e del Primo libro a sei voci, entrambi pub­ blicati verso il 1560 e più volte ristampati l’uno fino al 1585, l’altro fino al 1592“; e se vogliamo leggere nel suo elogio, egli ammirava che alla sapienza della composizione (1’arr musicae) esse associassero la bontà e leggiadria dell’invenzione - ciò che evidentemente non sempre avveniva. Striggio può non essere stato un innovatore dal punto di vista strettamente tecnico dell’armonia e del contrappunto; ma lo fu certamente nella ricerca delle combinazioni vocali e strumentali, nella

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scelta e dosatura dei timbri appropriati alle condizioni dell’esecuzione e all’effetto espressivo da conseguire, nella distribuzione spaziale dei gruppi vocali e strumentali e dei singoli elementi di ciascun gruppo (il «tramezzare» giudizioso di voci e strumenti lodato dal Ceccherelli) e nell’uso vario e insistente del dialogo, che sono emersi dall’analisi delle descrizioni degli intermedi. Nella scala ridotta consentita dal coro madrigalistico queste qualità sono evidenti nei pochi madrigali acces­ sibili in edizioni moderne64; il saggio che ne posso dare (es. xxxvi) è squisito nell’abile condotta delle voci e, nella prima parte, nella im­ mediatezza recitativa dell’insieme e delle singole linee melodiche; le voci si dissociano nella seconda parte con effetti, ancora una volta, di dialogo musicale. Striggio è additato come un pioniere dell’uso del basso continuo — il che è vero, e lo confermano gli intermedi, nel senso che egli anticipò l’uso di strumenti «perfetti», cioè capaci di produrre armonie (clavicembali, liuti, e forse anche il lirone), per garantire la fusione di elementi separati o anche contrapposti della composizione; anticipò cioè l’uso del continuo nello stile concertato e lo stesso stile

Esempio xxxvi. Alessandro Striggio, Madrigale (prima parte e inizio della seconda parte). Da I lieti Amanti, Primo Libro de Madrigali a cinque voci, di diversi eccellentissimi Musici (G. Vincenzi e R. Amadino, Venezia 1586).

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concertato. Avrebbe forse potuto anticipare il continuo a sostegno del­ la singola voce cantante, usato più tardi da Caccini e Peri, se non fosse stato portato dalla propria abilità di violista ad accompagnare la voce sul suo strumento, sul quale egli espertamente realizzava varie linee contrappuntistiche: il che forse può anche spiegare il relativo conser­ va tivismo delle sue concezioni armoniche e contrappuntistiche65. Più limitata è la sua importanza come precursore della monodia, anche se egli usò largamente negli intermedi le voci di solisti soste­ nute da strumenti «apparenti» o «non apparenti». Abbiamo già visto che quest’uso ha origini ben più remote, e che non fu mai abbando­ nato nella pratica musicale cinquecentesca, anche se stampe e mano­ scritti sono piuttosto orientati nella direzione dell’esecuzione polifo­ nica tutta vocale66. Tra i madrigali a cinque e a sei voci di Striggio è probabile che alcuni, nei quali prevale la scrittura omofonica, siano stati concepiti per una esecuzione solistica accompagnata da uno stru­ mento che compendiava le parti più gravi - più precisamente dallo strumento nel quale egli eccelleva, la viola67. Ciò non sarebbe altro, del resto, che una continuazione della prassi documentata dalla inta­ volatura dei madrigali di Verdelot per voce sola e liuto fatta da Willaert. D’altra parte anche il canto a solo di personaggi scenici aveva almeno un precedente a noi noto, quello del primo, terzo e ultimo intermedio del 1539. È da rimpiangere che né manoscritti né stampe ci abbiano tramandate le musiche solistiche composte da Striggio per gli intermedi fiorentini nel periodo 1565-69, ma sul loro conto non dobbiamo nemmeno farci troppe illusioni; la lettura dei testi, elabo­ ratamente scialbi, ci assicura che egli non potesse far di meglio che rivestirli di suoni piacevoli e garbati, ma in ultima analisi decorativi; tutt’al più ci premerebbe di sapere come Striggio avesse risolto i dia­ loghi di battute più serrate, quali quelli tra Ercole e il Piacere e tra Latona e i contadini. Solo quando un testo, o piuttosto una situazione, si staccò per un attimo dai consueti compiti illustrativi e decorativi proposti alle musiche degli intermedi - solo nel lamento di Psiche, e forse anche nella preghiera di Latona - semplicità, naturalezza ed eco­ nomia di mezzi, alle quali io aggiungerei anche la precisa declamazione e l’uso discreto ma efficace del cromatismo, riuscirono ad esprimere «con tanto meraviglioso affetto quei versi così mesti»68. Anche l’uso espressivo della monodia accompagnata non è nuovo; si ricollega, per una via che si comincia ad intravedere non interrotta, agli ideali umanistici dell’ultimo Quattrocento e del primo Cinque­ cento6’. Né Striggio ne era l’unico rappresentante a Firenze. Sarebbe interessante esaminare le musiche di Stefano Rossetto, un irrequieto 9

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musicista originario di Nizza che nel 1564 era maestro di cappella del duomo fiorentino, e nel 1566 dedicava alla Serenissima Principessa di Fiorenza e Siena, Giovanna d’Austria, la sua Musica nova... A cinque voci (fratelli Dorici, Roma) ed era già al servizio del giovanissimo car­ dinale Ferdinando dei Medici”. Meriterebbero di essere esaminati nel suo Primo Libro de Madrigali a quattro voci. Insieme alquanti Madregali ariosi & con alcuni versi di Virgilio (A. Cardano, Venezia 1560) le composizioni di sonetti petrarcheschi che sono designate specifica­ tamente come madrigali ariosi", e quella sul lamento di Coridone, O crudelis Alexis, dalla seconda egloga di Virgilio (vv. 6 sgg.); ed inoltre il lamento d'Olimpia che dà il titolo ad un’altra stampa di composi­ zioni del Rossetto (pubblicata da G. Scotto a Venezia nel 1567) e che, seguendo il filo delle stanze ariostesche, alterna la narrazione e gli sfoghi patetici dell’eroina. Nel carnevale del 1567 il Rossetto si alternò con lo Striggio nel comporre le musiche delle mascherate ed ebbe a collaboratore per una di esse il maestro di Caccini, il musicista senese Scipione del Palla”. Quest’ultima notizia, stranamente sfuggita all’attenzione mia ed al­ trui”, oltre che precisare dove e quando Caccini potè studiare col Pal­ la, inserisce nel quadro della situazione musicale fiorentina prima della monodia un filo tenue, finora insospettato, di rapporti con l’ambiente napoletano. Abbiamo già incontrato Scipione del Palla tra i musicistiattori che avevano partecipato a rappresentazioni di commedie a Na­ poli ancor prima della metà del secolo xvi"; nel marzo del 1558 egli prese parte almeno ad uno degli intermedi con i quali fu eseguito l’A­ lessandro di Alessandro Piccolomini (anch’egli senese), fatto rappre­ sentare dalla marchesa del Vasto «nel suo bel palazzo di Ghiaia» (e nel suo «si ricco teatro») in onore della viceregina duchessa d’Alba che lasciava Napoli. Dell’intermedio resta una lunga serie di stanze di Lui­ gi Tansillo”, «recitate dalla signora Regina Cleopatra», mentre la nave sulla quale ella appariva sulla scena, «finito il terzo atto, entrava nel­ l’Arno, fiume che corre per Pisa» (scena dell’Alessandro). Degli ese­ cutori sappiamo che «la regina Cleopatra era Fomia, la quale nel can­ to non si può comparare a cosa terrestre, ma all’armonia del cielo. Il Marc’Antonio e gli altri, dentro e fuora della Nave, erano tutti musici eccellentissimi e famosissimi: Cornelio era il Marc’Antonio; Scipion delle Palle era Proteo fuor della Nave; Giovan Leonardo dell’Arpa, unico in questo strumento, era de’ servitori di Marc’Antonio. Giunta la Nave al cospetto di quelle signore [la duchessa viceregina, la mar­ chesa del Vasto, ecc.], Cleopatra si levò in piè e disse le... stanze, con un modo, mezzo tra cantare e recitare, ad ora ad ora, nel chiuder de’

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versi, intonando, non già sonando gli istrumenti: il che dava grazia e maestà» w. Le stanze cantate da Cleopatra costituirono il momento di maggior interesse musicale in una serie di intermedi per piu rispetti insolita, in tre dei quali è evidente il ricordo degli intermedi rappresentati a Firen­ ze nelle nozze del 1539; sono appunto i tre che ebbero come poeta il Tansillo e come promotore don Garcìa di Toledo, i quali nel 1539 avevano condotto Eleonora sposa a Cosimo dei Medici, scortandola nel viaggio da Napoli a Firenze (compiuto in nave, risalendo l’Arno alme­ no fino a Pisa)n. Ho sottolineato, nella descrizione dell’intermedio di Cleopatra, la frase che sembra riecheggiare parole citate altrove del Poliziano ”, e insieme anticipa il recitar cantando o il cantar recitando dell’inizio del nuovo secolo; il suo interesse è accresciuto dal fatto che una composizione anonima col testo delle prime due stanze del Tan­ sillo è inclusa in una raccolta stampata a Napoli nel 1577 da un tal Giuseppe Cacchio dell’Aquila ed edita da Rocco Rodio, gli Aeri racolti

Esempio xxxvn. Scipione del Palla (?), Musica per le stanze cantate da Cleopatra in un intermedio di Luigi Tansillo per L'Alessandro di A. Piccolomini, rappresentato a Napoli nel 1558. Da Aeri racolti insieme con altri bellissimi aggionti di diversi (G. Cacchio dell’Aquila, Napoli 1577). La parte di tenore manca nell’unico esemplare conosciuto.

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insieme con altri bellissimi aggionti di diversi Dove si cantano Sonetti, Stanze, & Terze Rime73. La brevissima composizione (es. xxxvn) consta di due frasi musi­ cali, corrispondenti ai primi due versi della prima delle stanze, che dovevano evidentemente essere ripetute per gli altri tre distici e poi ancora per tutti quelli delle stanze successive. La parte mancante del tenore può essere ricostruita con grande approssimazione, data la na­ tura accordale dell’accompagnamento, resa evidente dal fatto che il basso segue fedelmente il ritmo della voce cantante80; piu difficile è invece immaginare che forma potesse assumere l’interludio strumen­ tale al quale accenna l’ultima frase della descrizione. Doveva essere brevissimo, dacché è detto che gli strumenti più che suonare «intona­ vano»; anche breve, tuttavia, avrebbe rallentato troppo la recitazione della lunga serie di ottave del Tansillo se fosse stato ripetuto dopo ogni coppia di versi; è invece più probabile che gli strumenti interve­ nissero soltanto alla fine di ogni stanza per dare una breve pausa alla voce cantante e prepararle l’avvio ad una nuova stanza. Ritroviamo dunque, eseguito nel 1558 e ancora ristampato nel 1577, un tipo di intonazione analoga a quelle che erano servite all’ini­ zio del secolo per il canto di strambotti; la somiglianza è inoltre ac­ cresciuta dal fatto che alla voce cantante sono aggiunte soltanto altre due parti, tenore e basso, riproducendo l’essenziale combinazione alla quale si era ricorso anche al principio del secolo per accompagnare il canto su un singolo strumento, un liuto, una lira o una viola81. Né la somiglianza è ristretta al frammento proveniente dall’intermedio delVAlessandro; lo stesso atteggiamento recitativo appare nella maggior parte delle vefitotto composizioni (ventitré a tre voci e cinque a quat­ tro voci) che sono incluse negli Aeri racolti del 1577 e testimoniano dell’esistenza di una scuola di cantar recitando a Napoli, poco dopo la metà del secolo xvi. Tra i compositori figurano con due composizioni ciascuno Pietro de Ysis e Luigi Dentice82, con una sola Rocco Rodio, Fabrizio Dentice, Francesco Menta e Tarquinio del Pezzo; venti com­ posizioni sono anonime, ma l’unica copia esistente della stampa del 1577 porta il nome di «Scipione delle Palle», iscritto a penna in testa a Dura legge d'Amor, ma bench'obliqua (es. xxxvni), una composi­ zione a tre voci il cui testo è tratto dal Trionfo d'Amore del Petrarca (III, vv. 148 sgg.). Del Petrarca sono anche ben undici dei sedici sonetti inclusi nella raccolta; le altre composizioni comprendono tre esempi di ottava rima (uno dei quali con l’iscrizione «Qui sopra si può cantare ogni altra stanza»), due di terza rima entrambi del Petrarca (uno di essi, l’inizio

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del Trionfo d'Amore, con la dicitura «Qui sopra si può dire ogni sorta di capitoli in terza rima»), quattro canzonette strofiche, e tre sole com­ posizioni su testi che hanno la metrica libera del madrigale cinquecen­ tesco. Inoltre tutte le composizioni, eccettuati i tre madrigali ed uno dei sonetti (Pien d'un vago pensier, con la seconda parte Ben, s'io non erro, di pietat'un raggio) seguono il procedimento di dar musica uguale agli elementi del testo che hanno uguale forma metrica, estendendone

Esempio xxxvin. Scipione del Palla (?), Aere su testo del Petrarca (dal Trionfo dfAmore). Da Aeri racolti insieme con altri bellissimi aggionti di diversi (G. Cacchio dell’Aquila, Napoli 1577). La parte di tenore manca nell’unico esemplare conosciuto.

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l’applicazione fino ad usare la musica della prima quartina di un sonet­ to non soltanto per la seconda quartina ma anche per le terzineCiò risponde ad una concezione della musica come «ministra dell’orazio­ ne», puro veicolo del testo; cosi almeno essa appare a noi, priva com’è del calore che doveva infonderle, come disse Caccini, «la nobile manie­ ra del cantare, dal famoso Scipione del Palla mio maestro appresa», Caccini, primo e maggiore responsabile del mito della Camerata fiorentina come punto di partenza della monodia e dell’opera M, non ci indurrà in tentazione di crearne un altro, il mito di una Camerata na­ poletana accentrata intorno a Scipione del Palla e progenitrice di quella fiorentina. La verità è che concetti e criteri dell’uno e dell’altro gruppo hanno origini ben pili lontane che risalgono alla pratica musicale quat­ trocentesca. Indipendentemente da Napoli e da Firenze un testo che descrive il canto dei cori di una tragedia a Reggio nell’Emilia, YAlidoro di Gabriele Bombasi, rappresentatovi il 2 novembre 1568 per onorare la duchessa di Ferrara, Barbara d’Austria, parla un linguaggio che non si esiterebbe ad attribuire ad un componente della Camerata fiorentina (tanto più che l’anonimo descrittore, forse il Bombasi stesso, tende a toscaneggiare) se non sapessimo che fu scritto e stampato ancor prima che la «camerata» di casa Bardi cominciasse a tenere le sue riunioni, mu­ sicali e non”. «Il choro era di donne di Londra, delle quali una, se­ condo l’ordinario, ragionava alternatamente con l’altre persone della Tragedia quando occorreva, et a i riposi della favola, cantava poi, o pure recitava quelle canzoni, che volgarmente sono chori chiamate. Queste furono ben considerate da musici eccellentissimi, i quali, pe­ netrato nell’interno de’ loro concetti, vi composero sopra i canti ch’i­ mitavano così felicemente le parole, che si potevano quasi più tosto dimandar ragionamenti che canti. Perch’essendo di musica cromatica et con pochissime alteration!, se n'andavano a un corso consueto nel parlare ordinario senza mai replicare cosa alcuna^. Nelle orazioni, nelle suppliche agli dei, nelle essagerationi, nelle querele, nelle interrogationi, nel pianto e ne’ sospiri, esprimevano gli affetti dell’animo come se fuori d’ogni fintione fossero venuti da’ veri sentimenti del cuore. Composti dunque i canti di questa sorte, il basso et le parti di mezzo s’erano concertate insieme con istrumenti tutti dolci et di poco spirito, toccati da valentissimi huomini con infinita discrctione, i quali erano posti co’l loro concerto in parte lontana et ascosa. Solo il sovrano, che proferiva le parole, era cantato dalla medesima donna, la quale, es­ sendo fra l’altre del choro, nella prima parte del pulpito, quand’era tempo di cominciare, movendosi in un istante ella con h voce et il con­ certo con l’armonia, una vicina, l’altro lontano, quella apparente et

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questo nascosto, faceva restare in dubbio gli spettatori, se con la voce di lei fosse altro concerto accompagnato; o vero se il riverbero della medesima voce cantasse quel dolce suono nell’aria, o pur se qualche lontana armonia a caso venisse a fare così dilettevole accordo. Basta, che in qualunque modo si fosse creduta la cosa, il cantare in questa guisa faceva tanto bello udire, et vedere, che per mio credere, ne re­ sterà per lungo tempo al mondo memoria, et forse imitatione. Haveva questa donna, oltre la voce delicatissima, alquanto di naturai disposi­ none regolata dall’arte, con sommo giuditio. Et mentre l’andava spar­ gendo a certi luoghi, accompagnava sempre il volto, gli occhi, i gesti et i movimenti alla varietà de’ concetti così gentilmente ch’innamora,va, et volgeva gli animi di ciascuno a temere, a sperare, a rallegrarsi et attristarsi, come piu le piaceva»’7. Saranno magari le parole di un au­ tore compiaciuto di se stesso e un poco innamorato della cantante; ma quel che importa non è tanto che le musiche per VAlidoro corrispon­ dessero alla sua descrizione, quanto il fatto che egli potesse formulare ed esprimere concetti e aspirazioni che sono di solito attribuite ad un periodo piu recente. Per il resto, anche se non possiamo giudicare delle musiche che non ci sono pervenute, e delle quali non sono nemmeno indicati gli autori ”, va tenuto presente che anche il concetto di espres­ sività è relativo; in un clima di prevalente decoratività e descrittività musicale anche una minima inflessione, un gesto più marcato, e una tenue esitazione o accelerazione del ritmo possono avere avuto per gli ascoltatori intimazioni affettive che a noi, troppo assuefatti a più sa­ pidi ingredienti, sarebbe difficile ravvivare. Il documento musicale che più direttamente si ricollega, per la da­ ta e per la persona del suo autore, alla cosidetta Camerata fiorentina è una composizione (es. xxxix) di Piero Strozzi - un nobile dilettante ed uno dei due interlocutori ai quali Vincenzo Galilei affidò l’esposi­ zione delle sue ricerche storiche e teoriche nel Dialogo della musica an­ tica e della moderna del 1582 (l’altro è Giovanni Bardi). È uno dei due madrigali composti per il Carro della Notte, uno dei carri, trionfi, o mascherate con i quali furono festeggiate nel 1579 le nozze di Fran­ cesco dei Medici, ormai granduca di Toscana, con Bianca Capello: Fuor dell’umido nido uscita colle mie presaghe schiere di fantasmi, di sogni, c di chimere, la Notte io son(o), che qui nel vostro lido di tante liete altere pompe e di tanti fregi ne vengo a render grade, o sommi Regiw.

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Lo cantò, impersonando la Notte e accompagnato dal suono di un gruppo di viole, Giulio Caccini, allora al sommo della sua carriera di cantante; è dunque ancora una volta un esempio di composizione poli­ fonica eseguita monodicamente, anche se nel manoscritto Magliabechiano XIX, 66 della Biblioteca Nazionale di Firenze, attraverso il qua-

Esempio xxxix. Piero Strozzi, Canto della Notte su testo di Palla Rucellai. Eseguito nel 1579 da Giulio Caccini «sopra la sua e molte altre viole». Dalla versione per voce e continuo del ms Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano 66, cl. XIX, £. 64.

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le lo conosciamo, ci si presenta in una versione modernizzata per voce e basso continuo”. Pur senza essere particolarmente espressivo — la Notte non fa che dichiarare il suo essere e rendere omaggio ai «sommi regi», e tutt’al più avrà accennato alle «presaghe schiere» con la sonorità velata delle viole nascoste dentro il carro - il pezzo è agevolmente discorsivo, specialmente nell’abile saldatura dei primi tre versi, che preparano la duplice affermazione «la Notte io son». È difficile dire se fosse intenzionale la scelta del quinto modo e quella di un giro di modulazioni che porta a toccare tutti i suoni cromatici nell’ambito dell’ottava di fa Tra gli intermedi del 1539 e la breve stagione di feste nuziali e carnevalesche del 1565-69, ispirate da Francesco dei Medici, c’è il distacco di una intera generazione. Dopo il 1569 anche a Firenze non vi furono altri spettacoli di tale solennità e importanza che si volesse informarne le corti amiche e quelle rivali - le due cose spesso si fon­ devano in una - attraverso la stampa di una descrizione. E poiché le seconde nozze di Francesco, che regolarizzarono la lunga relazione con Bianca Capello, non furono festeggiate con rappresentazioni di com­ medie ma con spettacoli all’aperto ”, occorse attendere ancora una vol­ ta l’affacciarsi di una nuova generazione alla vita di corte prima che si verificassero ancora una volta eventi teatrali del tipo di quelli che sia­ mo andati esaminando. Per quanto io sappia il primo segno della nuova fase fu la rappresentazione de Le due Persilie, «commedia di Giovan­ ni Fedini Pittore Fiorentino. Fatta recitare da... Il Signore Girolamo, e ’1 Signor Giulio Rossi, de’ Conti di San Secondo. Alla presenza delle Gran Principesse di Toscana. Il di 16. di Febbraio 1582» (stile fioren­ tino, quindi 1583)”. Le principesse di Toscana (essendo Maria, la futura regina di Francia, ancora troppo giovane) dovettero essere Eleo­ nora, primogenita di Francesco e di Giovanna d’Austria, che andò sposa l’anno seguente 1584 a Vincenzo Gonzaga, e Virginia, figlia na­ turale di Cosimo, che sposò nel 1586 don Cesare d’Este, erede pre­ suntivo del ducato di Ferrara, e futuro cognato di Carlo Gesualdo, principe di Venosa. Anche per le nozze di Eleonora, che doveva più tardi presiedere a spettacoli famosi della corte mantovana (le rappre­ sentazioni del Pastor fido di Guarini nel 1598, dell’Or/eo di Montever­ di nel 1607, àeXP Arianna e del Ballo delle ingrate pure di Monteverdi nel 1608) non vi furono né commedie né intermedi”; ebbero invece intermedi Le due Persilie del 1583 e L’amico fido rappresentato nel­ l’occasione delle nozze di Virginia. Le musiche dei sei intermedi del 1583 (tra i quali non pare che esistesse alcun filo conduttore)” furono affidate a sei diversi compo­

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sitori, tre dei quali non ebbero altro compito che scrivere un madri­ gale polifonico da cantarsi da vari personaggi che la descrizione iden­ tifica uno per uno ”, ma che non poterono essere altrettanto facilmente conosciuti dagli spettatori, a meno che non fosse loro distribuito uno scenario che riassumeva Fazione della commedia e degli intermedi97. Gli altri tre ebbero da fare con situazioni più complesse e ancor meno chiare. Iacopo Peri «alias Zazzerino» scrisse la musica del primo inter­ medio, che cominciò col canto «in musica... in Dialogo» di Demogorgone, padre degli dei, e delFEternità, e finì, dopo varie sorprese sce­ niche ”, con un canto di tutti i personaggi successivamente sopraggiunti, nel quale canto tuttavia Demogorgone «cominciò a cantare seguendo gli altri». Il quinto intermedio, del quale scrisse la musica Cristofano Malvezzi «maestro di Cappella di loro AA. Serenissime», si svolge in tre distinti episodi: a) un dialogo tra le Muse e il Piacere (il quale era già apparso nell’intermedio precedente «seguito dalla Gioventù. Sardanapalo. Ricchezza. Ignoranza e Superbia»); b) un monologo del Do­ lore, il quale dapprima «cantava solo accompagnato dalla sinfonia di diversi strumenti dietro alla Scena», e poi «presa la veste del Piacere... tutto se n’adornò»; c) una conclusione nella quale, essendo il Dolore «sopragiunto da Sardanapalo etc. [tutto il seguito del Piacere] e cre­ duto per il Piacere, lo seguitano così cantando: Questo è idolo no­ stro...» Nel sesto intermedio «apparve in iscena Amore, Himeneo, le tre Grazie, Giunone c Venere... & Amore così cominciava cantando: Vien desiato nume»-, ne scrisse la musica Alessandro Striggio. In com­ plesso lo spettacolo del 1583, che non potè certamente competere con la ricchezza di mezzi di quelli organizzati dalla corte, interessa ancora una volta per la varietà di forme che vi assunse il dialogo musicale (purtroppo le musiche sembrano, ancora una volta, perdute), oltre che per le allegorie moraleggianti del quinto e del sesto intermedio che in qualche modo anticipano quelle della Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio dei Cavalieri del 1600. Non molto di più si può dire dello spettacolo offerto per festeg­ giare le nozze del 1586; tranne che, quasi per rifarsi della lunga pausa intercorsa dall’ultimo evento teatrale dello stesso genere, ma più pro­ babilmente per far colpo sugli ospiti appartenenti alla corte amica e rivale di Ferrara, si volle profondervi una ricchezza inaudita di mezzi e una cura meticolosa di ogni particolare; alla quale fa riscontro la verbosa, minuziosissima Descrizione del magnificentissimo apparato, de’ meravigliosi intermedi di Bastiano de Rossi (G. Marescotti, Firen­ ze 1585-86). Si volle che «la commedia... fosse recitata da’ più perfetti strioni di che oggi s’abbia notizia, e con la più lunga, più continuva,

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piu solenne esercitazione, che sia stata fatta ancor mai»; ma piu an­ cora, essendosi provveduto «alla ’nverizione degl’intermedii... così stu­ penda, così nuova, così magnifica, e così vistosa...», fu «fatta... esa­ mina de’ più sufficienti maestri, e artefici della Città», e furono adu­ nate «per l’esecuzione di quest'opera, oltre à quattrocento persone, che infino a questo giorno [presumibilmente il 16 febbraio 1585-86, data della dedica della Descrizione ad Alfonso II d’Este], vi si son quasi di continuo esercitati... e condottola à quella perfezione, che da tutti non senza eccessiva maraviglia, si può vedere»”. La commedia fu L'a­ mico fido di Giovanni Bardi, che, se fosse stata pubblicata, avrebbe potuto mostrarci un nuovo aspetto della multiforme personalità del­ l’animatore della «Camerata»100; un aspetto però al quale lo stesso Bardi non attribuì altrettanta importanza che all’attività esplicata come ideatore e poeta degli intermedi, compositore della musica dell’ultimo di essi e supremo ordinatore di tutto lo spettacolo; tanto è vero che gli intermedi ebbero il sopravvento sulla commedia anche nel titolo della Descrizione. Tre anni più tardi, nel 1589, Bardi giudicherà più impor­ tante concentrarsi sull’invenzione e sulla messa in atto degli intermedi, che furono rappresentati quattro volte con tre diverse commedie; pur lasciandone la redazione ad altri, non rinunziò però a comporre anche questa volta musica per uno di essiTanto maggiore fu il suo impe­ gno nel 1586 in quanto la commedia L'amico fido fu «la prima che sia stata in detta sala rappresentata, e la prima che il predetto Granduca [Francesco I], abbia fatto, dopo la morte del padre, rappresentare». La sala di cui si parla - «una... fatta dal predetto Granduca Cosimo nella magnifica ed eccellentissima fabbrica, che in Firenze de’ Magistrati s’appella... e che da esso fu cominciata con tanta spesa, e con tanta magnificenza condotta quasi al suo fine» - è quella che fu poi detta «delle Commedie» nel palazzo degli Uffizi, quasi,’ma non ancora, un teatro,w. La sua vastità101 si prestava, a vantaggio degli intermedi ancor più che della commedia, a «far l’Architetto abbondantissimo d’inven­ zione... con quantità di macchine saglienti e discendenti dal Cielo, pas­ santi per l’aria, e uscenti di sotto ’1 palco, e con ispessi mutamenti di IM scena» . Gli intermedi del 1586 non ebbero altro tema comune che la glo­ rificazione degli sposi105, alla quale furono chiamati a contribuire, sia pure con variazioni e perfezionamenti, tutti i temi e personaggi già noti dagli intermedi precedenti. Cominciò l’intermedio primo con la con­ sueta visione celeste; il cielo fu aperto dalle Ore e lasciò vedere le noz­ ze celesti di Mercurio e Filologia — trascurata quest’ultima da Mercu­ rio che trovò più urgente cominciare «incontanente, e solo, a cantare

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al suono di Viole, di Liuti, di Gravicembali, e Organi di legno... co­ mandando per quel suo canto alla schiera de’ Beni... che in quel giorno... velocissimamente se ne scendessero in terra... riportandoci... il secol del­ l’oro»; al che «cominciò la nugola a venirsene giuso, e i Beni, in iscendendo, in su Liuti, Viole, Arpi e Traverse, non meno dolcemente... cantavano questo Madrigale: O fortunati eroi»,w. Nel secondo inter­ medio «si vide comparire in scena tutti i Mali... e in su certi scogli, quasi miracolosamente quivi appariti, a seder si posero in semicircolo»; da una apertura nel suolo «tutto in un tempo, uscì su la città di Dite con Furie e diavoli», e quindi si vide «una barca... solcar la liquida gora: e dentro v’era Flegias... e accostatosi, e fermata la detta barca, cominciò con una armonia alla sua persona appropriatissima, al suon di tromboni e di bassi di vivuole, a cantare»; Flegias si dispose quindi a prendersi in barca i Mali (rimandati all’inferno dalle nozze MediciEste), i quali prima d’imbarcarsi cantarono anch’essi un madriga­ le; ma poi, meno musicalmente, «discostatasi dalla riva la barca, con grandi stridori e urli si precipitarono, insieme con la spaventosa Città: e immantinente si gittarono i Diavoli dietro a loro nella predetta ca­ verna. La quale, ogni cosa inghiottita... miracolosamente si chiuse» * 07. Si potrebbe continuare l’elenco con Flora e Zeffiro che cantarono l’uno dopo l’altra nel terzo intermedio «al suon d’un liuto, e d’un arpe», evocando la Primavera, ninfe che danzano e il sorgere sulla scena di «un giardino con alberi carichi», nel quale si udivano cantare gli uc­ celletti *“; con Teti che nel quarto intermedio «cominciò... tutta sola dolcissimamente a cantare al suon di liuti», dopodiché Nettuno, emer­ so dal mare sul suo carro, a sua volta «cominciò tutto solo, al suono di liuti, arpi, tromboni e traverse... a cantar», ordinando che si acquie­ tasse il mare,w; con Giunone che placò la pioggia e fece comparire l’arco­ baleno «al suono di liuti, d’arpi, e gravicembali»,w; e da ultimo con le due schiere festose di pastori e pastorelle toscani, diciannove per ogni schiera, che in coro interpellarono «la gran Fiesolana Maga» chie­ dendole il perché «della rinnovellata stagione», e ripresero più gioiosi il loro canto e le danze dopo avere appreso che In questo lieto giorno congiunto ha insieme il ciel coppia divina1,1.

Bastiano de Rossi evidentemente non aveva particolari inclinazioni musicali; era forse più pronto a discutere se Varpe avesse genere ma­ schile o femminile che a distinguerne il suono da quello, poniamo, di una dolzaina. Cita molti strumenti con quella fascinazione che tanto spesso si incontra tra i letterati per il suono dei loro nomi; ma rara­

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mente cura di darcene il numero, né di precisare se suonassero sulla scena o fossero nascosti fuori di essa, o fossero dissimulati in fogge inconsuete; analogamente, mentre riporta i testi e indica da quale per­ sonaggio o gruppo di personaggi fossero cantati, non dà nessuna infor­ mazione tecnica sul numero delle parti e sui raddoppi. Oltre i nomi dei compositori - Striggio per il primo, secondo e quinto intermedio, Cristofano Malvezzi per il terzo e quarto, e Giovanni Bardi per l’ulti­ mo - Tunica informazione di notevole interesse musicale, anche se evi­ dentemente diretta ad adulare Bardi, è che questi «volle principalmen­ te, che risplendesse la pompa, e la finezza del suo poetna, perciocché, e copiosissima, pienissima, vanissima, dolcissima, e artificiosissima, ol­ tre ad ogni altra, ed insieme (il che s’ha quasi per impossibile) chiaris­ sima ed agevolissima ad intenderne le parole, volle che riuscisse quel­ l’armonia, come anche di questo, per la pubblicazione, gl’intendenti s’accerteranno». Gl’intendenti furono delusi, e noi con loro, perché la promessa pubblicazione delle musiche ancora una volta non ebbe luogo; privandoci ancora una volta delle musiche di Striggio, che cer­ tamente furono quelle di maggior valore artistico, di quelle del Mal­ vezzi, che fu buon musicista anche se non di primo piano, e, particolar­ mente interessante da un punto di vista storico, della maggiore im­ presa musicale di Giovanni Bardi. Saremmo ugualmente in inganno se volessimo classificare Bardi co­ me un ultraconservatore o come un ultraprogressista. Per quel che a noi appare, fu un uomo aperto alle idee del suo tempo, pur essendo, come spesso accade ai fiorentini, tenacemente attaccato a certe tradi­ zioni. L’atteggiamento critico verso la polifonia del suo tempo, che egli certamente condivideva pur senza l’aggressività polemica di un Vincen­ zo Galilei, era in fondo comune ai molti che avrebbero voluto rifor­ mare la polifonia sacra; ma in lui, Bardi, la critica, pur colorandosi dei motivi moraleggianti di ispirazione controriformista 112, si innestava sul­ la più complessa tradizione umanistica del platonismo fiorentino, nel quadro della quale musica non è tanto, o soltanto, l’accordo sensibile dei suoni, quanto il rapporto intimo e profondo che fa la parola poe­ tica specchio di qualche frammento del mondo trascendente e armo­ nioso delle verità cosmiche, eco dunque dell’armonia universale. Per conseguenza l’interesse di Bardi si rivolgeva soprattutto ad un ideale di poesia cantata, nel quale il canto si conformasse a tutti i valori poe­ tici, piuttosto che a musiche strumentali, .o a musiche che trattassero anche le voci come strumenti, i più duttili e perfetti. Non discordava con questi concetti Tammirazione di Bardi per Dante, cui il dono del­ l’ispirazione poetica aveva concesso di essere interprete delle armonie

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universali; e si spiega cosi la scelta di un canto delVInferno fatta da Vincenzo Galilei in uno dei due tentativi nei quali egli cercò di appli­ care alla musica sacra (le Lamentazioni di Geremia) e alla non sacra (l’episodio del conte Ugolino) le sue idee di riforma musicale. Meno certo è che Bardi fosse anch’egli d’accordo nel vedere in una rinascita della musica antica il rimedio infallibile contro le deviazioni della mo­ derna; indubbiamente i suoi interessi di grecista erano stimolati dal desiderio di conoscere quale fosse stata la musica di quei secoli lontani; ma è probabile che egli non vi vedesse un modello al quale occorresse conformarsi strettamente, ma piuttosto un esempio che additasse in senso piu ampio la direzione da seguire. Tanto più deve essersi confer­ mato in questa opinione dopo il risultato deludente dei tentativi di Ga­ lilei di ripristinare i modi e i sistemi di intonazione antichi, compiuti intorno al 1581-82 ,,J. L’estetica musicale di Bardi è fondata sulla fiducia nella virtù rive­ latrice della parola poetica, alla quale il dono dell’ispirazione ha per­ messo di avvicinarsi alle supreme verità teoriche e alle supreme armo­ nie; a questo corrisponde una sfiducia negli allettamenti immediati del senso uditivo e nelle piccole nozioni pratiche della tecnica, dell’artificio musicale. Sul piano pratico, tuttavia, una completa rinuncia all’artifì­ cio sarebbe stata in contrasto con la continua esaltazione dell’artificio nel campo delle altre arti; ne deriva il compromesso espresso già nel 1586 dalla caratteristica successione di superlativi usati da Bastiano de Rossi: la richiesta di una armonia «copiosissima, pienissima, vanis­ sima, dolcissima, e artificiosissima». I primi quattro aggettivi precisano il senso dell’ultimo, e tutti sono redenti dalla condizione aggiunta («il che s’ha quasi per impossibile») che il testo risulti chiaramente intel­ ligibile. Da uomo di mondo, e anche da dilettante non del tutto insen­ sibile alle attrattive dell’odiata polifonia, Bardi non dovette imporre ai collaboratori un’osservanza troppo rigorosa delle sue condizioni. Da parte sua si attenne come compositore (per la verità, né abbondante né particolarmente dotato) ad una polifonia accordale nella quale il testo il più del tempo è pronunziato simultaneamente da tutte le voci; si preoccupò inoltre di «comporre col verso intero», cioè di rispec­ chiare nella sua musica l’unità ritmica di ogni singolo verso, forse fidu­ cioso che in essa e nel rapporto con gli altri versi del poema fossero misticamente rispecchiate le proporzioni di superiori armonie11*. Bardi fu dilettante soprattutto nel senso che non ebbe mai a porre nella musica l’impegno di chi ne avesse fatto ragione di esistenza, ma potè accordarle un’attenzione condiscendente condivisa con le altre cure della sua posizione di aristocratico di alto rango, di cortigiano, e

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di arbiter di molte artistiche eleganze. Quest’ultima qualità, sancita dall’incarico degli spettacoli del 1586, sembrò riconfermata nel 15881589, quando, preparandosi le nozze del nuovo granduca Ferdinando I, gli fu nuovamente affidata l’organizzazione degli spettacoli richiesti dall’occasione. Ma in realtà il suo prestigio, se non ancora la sua auto­ rità, era stato gravemente intaccato dalla nomina, nell’autunno del 1588, di un soprintendente a tutte le attività artistiche della corte me­ dicea, nella persona del nobile romano Emilio dei Cavalieri, anch’egli uomo di rango elevato e di vari talenti artistici, e per dippiù amico personale del nuovo signore"5. Degli attriti che non mancarono di sorgere tra due personalità ugualmente gelose del proprio prestigio e privilegi, ma che dovettero anche allora essere contenuti in apparenza dalle regole della convivenza in una stessa corte, restano poche tracce soprattutto nella disparità tra la descrizione ufficiale degli spettacoli, affidata ancora una volta a Bastiano de Rossi, e quella contenuta nella pubblicazione, questa volta finalmente avvenuta, delle musiche degli intermedi. L’una "6, ispirata da Bardi, ne rispecchia più fedelmente le intenzioni originali, ma non registra le modifiche apportatevi nella fase finale di allestimento; pecca inoltre nei riguardi della musica per il solito scarso interesse del redattore, e non ci dà nemmeno la notizia che sanziona definitivamente il prevalente interesse per gli interme­ di: che questi furono ideati per La pellegrina del senese Girolamo Bargagli, rappresentata il 2 e il 15 maggio da membri dell’accademia se­ nese degli Intronati, ma furono replicati altre due volte con due com­ medie dei Comici Gelosi, La zingara (6 maggio) e La pazzia (13 mag­ gio) "7. L’altra, la stampa musicale, ordinata dal granduca per il tramite di Cavalieri "8, riflette più fedelmente le modifiche imposte da questi al­ lo spettacolo, ed è naturalmente più precisa circa gli autori delle musi­ che, gli strumenti adoperati e gli esecutori. L’una e l’altra colpiscono con intenzionali omissioni alcuni dei personaggi minori collegati col partito avverso"9. C’è da chiedersi che parte avrebbe avuta in questa schermaglia di ripicchi il vecchio Alessandro Striggio se fosse anch’egli stato presente Non si può attribuire all’intervento di Cavalieri la mancanza di un tema unico per tutti gli intermedi, dacché Bardi se ne assume piena responsabilità attraverso le parole di de Rossi: «non gli parve a propo­ sito una favola d’un sol filo, giudicando che gli uditor non faranno po­ co, se a quello della commedia staranno attenti. Oltreché, pigliando una sola favola, era sforzato a mostrare e a seguir continuamente quel filo, nel quale sempre del buono e del cattivo par che si trovi: legava le mani dell’artefice e agli scienziati non gli pareva mostrare alcuna

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cosa di nuovo »,2‘. Quale avrebbe potuto essere la «sola favola», se Bardi veramente ne aveva avuto una in mente, non è detto; le sei pre­ scelte hanno una certa unità solo in quanto cinque di esse sono va­ gheggiamenti di miti musicali classici. L’unità avrebbe potuto essere fino a un certo punto riconfermata anche dalla sesta trama, quella del­ l’intermedio di demoni celesti e infernali (IV), se la maga non meglio identificata che canta per «chiamare e costringere i Demoni della re­ gion più pura dell’aria, appellata fuoco, a dire quando il mondo dove­ va godere suprema felicità», avesse indicato più chiaramente che il canto è il mezzo del suo incanto. I demoni celesti compaiono immedia­ tamente su una delle solite nuvole e profetizzano: Or che le due grand’alme insieme aggiunge un saldo amor celeste, d’ogni alta gioia il mondo si riveste, ogni alma al bene oprar s’accende e punge. Volane lunge la cagion del pianto. Felice eterno canto che più che mai soave in ciel risuona di sua felicità speranza dona.

Ma anche sulla scena il «felice eterno canto» tardò un poco a farsi sentire; li per li, e senza alcun nuovo comando magico, la scena si mutò in una visione dantesca di inferno, e Furie e diavoli «posersi pianamente e dolenti in su gli scogli a sedere, e con una musica malin­ conica e lamentevole [opera del nostro poeta] cominciarono cantando sopra arpi, viole e cetre, a lamentarsi... del bene che n’avevan prono­ sticato i Demoni della nugola»122. A questa scena infernale che inter­ rompe la serie dei miti musicali il dantista Bardi accordò un segno spe­ ciale di distinzione scegliendola per il suo unico intervento come com­ positore. Suo è il madrigale delle Furie e dei diavoli che conclude l’in­ termedio; una analoga distinzione è accordata comprensibilmente al primo intermedio, del quale Bardi scrisse anche i versi iniziali, destinati ad essere cantati daH’Armonia Doria; meno chiaro è perché mai egli scegliesse di scrivere quelli del coro di ninfe marine del quinto inter­ medio. Anche i cinque intermedi che illustrano favole musicali non pos­ sono essere interpretati come una formulazione, o allegoria, intesa ad asserire una estetica e poetica musicale. Se tale fosse stata l’intenzione, de Rossi non avrebbe mancato di accennarvi nella sua Descrizione, mentre invece enunzia chiaramente soltanto l’intento di Bardi di prov­ vedere al pubblico le attese sorprese122, sia pure infiorandole di pre-

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ziosità filologiche, astrologiche e letterarie per propria soddisfazione e per la delizia degli «scienziati». La ricchezza di miti musicali trova se mai giustificazione in una sorprendente affermazione di idee che precorrono quelle esposte undici anni più tardi da Cavalieri nella in­ troduzione alla stampa della Rappresentazione di anima, et di corpo (N. Mutii, Roma 1600); scrisse infatti de Rossi che «il facitor d’essi [intermedi], a tutto suo poter s’è sforzato che l’operazioni che si deon far nella favola, tutte vengan fatte per loro natura: per esemplo, che se nello intermedio si ballerà o si canterà, la favola lo richiegga» 124. Non sappiamo se la paternità di questa idea fosse uno dei motivi di discor­ dia tra Bardi e Cavalieri; né l’una né l’altra parte ha in proposito ac­ cenni polemici, benché la «naturalezza» della danza dell’ultimo in­ termedio, quale era stata concepita da Bardi, fosse poi sovvertita da Cavalieri. «Ma vegniamo ormai a raccontar delle maraviglie degl’intermedi», scrisse il de Rossi dopo undici pagine di stampa spese soltanto per descrivere il nuovo apparato del teatro allestito dal Buontalenti nella Sala delle Commedie agli Uffizi125. I loro temi sono noti: l’Armonia delle Sfere (I), la vittoria delle Muse sulle Pieridi in una sfida canora (II), la vittoria di Apollo sul serpente Pitone (IH), la comparsa di demoni celesti e infernali (IV), Arione salvato dalle onde in virtù del suo canto (V), ed infine il Dono agli uomini dell’Armonia e del Ritmo, divenuto nella versione che fu realmente rappresentata il dono del Ballo e del Canto (VI). I loro testi poetici e i passi più essenziali della Descrizione erano già stati pubblicati al principio di questo secolo da Angelo Solerti1,6 ; ma una considerazione completa delle musiche cor­ rispondenti è stata resa possibile soltanto in questi ultimi anni da una edizione critica integrale della stampa musicale del 1591'”. È imme­ diatamente evidente l’estensione e soprattutto l’impegno tecnico delle parti assegnate a compositori di professione, rispetto alle contribuzio­ ni di dilettanti o di cantanti che scrissero essi stessi i brani dei quali era loro affidata l’esecuzione; Luca Marenzio compose da solo tutte le musiche del secondo e terzo intermedio (con una sola eccezione della quale dirò in seguito); Cristofano Malvezzi la maggior parte di quelle del primo, del quarto, del quinto e del sesto; tra gli altri Cavalieri eb­ be la parte più notevole, componendo circa la metà del sesto interme­ dio, mentre Bardi, la coppia Archilei, Giulio Caccini e Iacopo Peri si limitarono a intervenire con un pezzo per ciascuno. Una ulteriore di­ stinzione è che Marenzio e Malvezzi ebbero assegnate le parti di mag­ giore complessità contrappuntistica, mentre gli altri scrissero musiche di carattere prevalentemente accordale o destinate all’esecuzione per

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una voce solista e strumenti. Queste ultime furono certamente me­ no numerose che non fossero state in intermedi precedenti, ma la dif­ ferenza non è tale che vi si possa scorgere un intento deliberato,M. Che si tratti di opera composita non diminuisce il valore e l’interes­ se; sia perché l’effetto degli intermedi puntava essenzialmente sulla varietà e non poteva non trarre vantaggio dalle varie doti dei diversi artisti chiamati a collaborarvi; sia perché anche dove la collaborazione è piu minutamente frazionata gli interventi musicali sono separati tra di loro da intervalli. Gli intervalli sono di varia lunghezza, ma sempre ricchi degli eventi e portenti scenici nei quali più che in ogni altro elemento era concentrata l’essenza degli intermedi comò spettacolo. Non è senza ironia il fatto che l’unico accenno alla teoria musicale greca, il canto a solo déll’Armonia Doria all’inizio del primo interme­ dio (es. xl), sia attribuito nella Descrizione di un partigiano di Bardi al maggiore antagonista di questi, Cavalieri, polemico assertore del­ l’eccellenza de «la nostra musica»"’. Più attendibile è l’attribuzione

Esempio xl. Antonio Archilei, Inizio del canto delTArmonia Doria ncirintermedio I de La pelle­ grina di Girolamo Bargagli, cantato da Vittoria Archilei «sonando ella un Leuto grosso accompagnata da due Chitarroni». Da Intermedii et Concerti, Fatti per la Commedia rappresentata in Firenze, ecc, (G. Vincenti, Venezia 1391).

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della stampa musicale del 1591 che dà il brano ad Antonio Archilei, la cui moglie, la celebre Vittoria, lo cantò dall’alto di una nuvola li­ brata contro un velario che rappresentava una veduta di Roma; ma la diversa attribuzione non cambia molto la situazione, dato che anche gli Archilei, da vari anni al servizio del cardinale dei Medici, facevano parte come Cavalieri del gruppo importato da Roma dal nuovo signore. Il pezzo non fa alcun tentativo di ricostruzione archeologica delVarmonia antica; riesce tuttavia con la semplicità trasparente delle ar­ monie di un liuto «apparente» e di due chitarroni nascosti, e soprattutto con la filata levità delle colorature vocali, a creare un ethos non grave e solenne, ma serenamente etereo e cristallino, meglio corrispondente alla allegoria musicale cosmica di Platone che non la risposta delle Si­ rene. Della minore felicità di queste non si può però dare colpa a Mal­ vezzi, il quale, per motivi probabilmente pratici, dovette servirsi di otto voci di registro particolarmente grave, in due cori, che a noi non sembrano molto adatte alle mitiche creature che nella cosmologia pla­ tonica presiedono al moto dei pianeti no. A questa loro funzione accenna invece il madrigalismo discreto del gruppetto che esse inarcano ripe­ tutamente al punto giusto:

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Noi che cantando le celesti sfere dolcemente rotar facciam intorno...

Scomparsa in alto la nuvola con l’Armonia Doria, e discese verso il basso quelle che portavano le Sirene, si aprì, com'era ormai tradi­ zione, il cielo e «in esso e in terra cominciò a sentirsi una così dolce, e forse non piu udita melodia, che ben sembrava di Paradiso»131. Con questa Sinfonia a sei di Malvezzi (es. xli) ha inizio la seconda parte

Esempio xli. Cristofano Malvezzi, Sinfonia dell’intermedio I de La pellegrina di G. Bargagli (per

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dell’intermedio, che sviluppa, più che non appaia nella partitura, un dialogo tra il gruppo apparso in alto attraverso lo schiudersi del cic­ lo - Necessità, le tre Parche, Astrea e i sette Pianeti, i quali ultimi probabilmente avevano il compito di provvedere il sostegno strumen­ tale — e le dieci Sirene divise in due gruppi più vicini e più bassi. Comincia, dopo che la Sinfonia è stata ripetuta due volte, «un putto di ottima voce e grazia [che probabilmente rappresentava Astrea] ac­ compagnato da vari strumenti di corde»: Dolcissime Sirene, tornate al cielo, e in tanto facciam cantando a gara un dolce canto.

E quelle, docili, raccolgono l’invito e intonano a sei un distico (Non mai tanto splendore) che dà l’avvio al canto di quindici parti reali di­ vise in tre cori (quello in alto di Necessità, Astrea e le tre Parche, e i due delle dieci Sirene sulle loro nuvole che lentamente risalgono verso l’alto; ognuno accompagnato dal suo gruppo strumentale)1”; finché i tre gruppi, ormai «avvicinatisi in alto sulla scena, si uniscono anche musicalmente nel madrigale ultimo a sei, «cantato e sonato con gli medesimi strumenti e voci raddoppiando tutte le parti a proporzione l’una dell’altra, con il quale si die’ fine al primo intermedio»

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Coppia gentil d’avventurosi amanti, per cui non pure il mondo si fa lieto e giocondo, ma fiammeggiante d’amoroso zelo canta, ridendo e festeggiando, ’1 cielo.

Occorre dar credito a Malvezzi di esser riuscito a rendere ridente e festeggiarne questa complessa struttura impiegandovi con grande abi­ lità e flessibilità tutte le risorse della scrittura policorale, dalle sonorità accordali più massicce, alle contrapposizioni di blocchi sonori (nelle quali va tenuto costantemente presente il contrasto tra sonorità lon­ tane e vicine), fino a passi di trasparente concertato nei quali singole voci si svincolano dalla massa sonora con fioriture vocali e intrecci con­ trappuntistici. Non ultimi fattori che concorrono al successo dell’in­ termedio sono le transizioni dal metro binario (che spesso esprime una flessibile varietà di ritmi),M al ternario, e la gentilezza della prevalente modalità minore. In confronto deludono i risultati conseguiti da Marenzio nel se­ condo intermedio, che parte anch’esso da una Sinfonia (a cinque, ese­ guita da «due Arpe, due lire, un basso di viola, due leuti, un violino, una viola bastarda et un chitarrone»)1,5 e culmina con un triplo coro di sei voci ciascuno. Ma va considerata la debolezza del tema, non sen­ tito dal poeta, Rinuccini, né spiegato in alcun modo al pubblico e al­ l’artista che doveva interpretarlo musicalmente; il quale o avrebbe dovuto avvilire se stesso nel dar voce alle Pieridi, o trovare accenti di sovrumana bellezza per il canto delle Muse e giustificarne cosi la vit­ toria. Anche Bardi nell’ideare quest’intermedio non dovette in fondo avere altro intento che fare il Buontalenti «abbondantissimo di inven­ zione»; più precisamente si trattò di offrirgli il destro per ripetere la metamorfosi improvvisa dei personaggi sulla scena già sperimentata con successo nel 1^69 coi ranocchi di Latona. Questa meraviglia ha luogo dopo che la parte musicale dell’intermedio si è conclusa e le Amadriadi, giudici della contesa canora, hanno finito anch’esse di can­ tare il verdetto favorevole alle Muse; allora «miracolosamente si vide le donzelle perdenti diventar piche, e gracchiando e saltellando per la scena nascondersi agli occhi altrui, e in quel tanto sparire il monte e le grotte e dileguarsi il giardino». La musica, prevalentemente accor­ dale, è condotta con sicurezza ed è efficacemente distribuita tra i gruppi presenti sulla scena (manca qui il sollievo di una più varia e sparsa di­ slocazione spaziale), o tra i sottogruppi che il musicista stesso forma per maggior varietà; si snoda facilmente, accennando perfino ad imita­ zioni in canone tra i vari cori, ma le manca un afflato poetico, e non

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fa che mascherare con fregi sonori la vacuità del tema. Vietatagli anche la possibilità di alternare solisti e cori (Pieridi e Muse devono cantare in gruppo, e il verdetto delle Amadriadi richiede una corale unanimità) il compositore dovette richiedere come compenso l’introduzione (non molto abilmente condotta per la parte del testo) di un coretto iniziale di voci bianche che spesso si imitano all’unisono, e al quale la Sinfonia fa da preludio (es. xlii); il successo dell’inserzione è attestato dalla Esempio xlii. Luca Marenzio, Sinfonia («composta di dua Arpe, due Lire, un Basso di viola, due Leuti, un Violino, una Viola bastarda & un Chitarrone») e inizio del primo madrigale (accompagnato «dal suono di un’Arpa, e due Lire» dell’intermedio li de La pellegrina di G. Bargagli. Da Intermedii et Concerti ecc. (G. Vincenti, Venezia 1591).

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imitazione che ne fece già nel sesto intermedio Cavalieri, e da quelle piu recenti che appaiono nelle prime opere di Peri e di Caccini. Un compenso piu importante fu per Marenzio l’avere avuto affidato il terzo intermedio, ben piu ricco di temi poetici e di sviluppi musicali, che occorse se mai sfrondare per evitare che la lunghezza eccessiva ne diminuisse l’efficacia. Finito il secondo atto della commedia «furono ricoperte le case da querce, da cerri, da castagni, da faggi... e tutta la scena diventò bosco. Nel mezzo del bosco una scura, grande e diroc­ ciata caverna, e le piante vicine a quella senza foglia, arsicciate e guaste dal fuoco... Apparita (nuova maraviglia) la selva, si vide dalla sinistra venire nove coppie di uomini e donne, in abito quasi alla greca;... e al suono di viole, di traverse e tromboni cominciarono, giunti in iscena, a cantare»i37. Il testo assegnato dalla Descrizione a questo primo grup­ po è omesso nella stampa musicale, nella quale l’intermedio comincia invece con la musica di quello assegnato da de Rossi ad altre nove cop­ pie uscite dopo le prime dal lato opposto della scena; la divisione dei personaggi in due gruppi è però mantenuta e il lamento dei Delfici è cantato da un doppio coro (es. xliii). L’effetto di tragica desolazione è ottenuto da Marenzio non con armonie patetiche, ma con la nudità arida delle ottave e delle quinte dei due brevi passi a due soprani, tra i quali si inquadra la descrizione, scattante ma anch’essa brevissima, del mostro. Stabiliti così l’antefat­ to e la scena del dramma, subentrano le ansie del presente e le inquiete domande che i due cori intrecciano ancora una volta quasi in canone, economicamente mantenute su un piano di quasi assoluta consonanza che dà vigore alle dissonanze espressive riservate all’ultimo interroga­ tivo: Forse avrà Giove udito il pianto nostro? E a questo punto ci si offre un insolubile problema di interpretazione: secondo la Descrizio­ ne «non appena ebber quest’ultime parole mandate fuora, che un ser­ pente, drago d’inestimabil grandezza, dal poeta figurato per lo serpente Pitone, vomitando fuoco e col fumo d’esso oscurando l’aria d’intorno, cavò fuori dell’orrida e tetra caverna il capo... Onde i miseri, veduta la cruda fiera, tutti insieme... con flebile e mesta voce cantarono queste parole, pregando Iddio che volesse liberargli da così acerbo e strano infortunio». La stampa musicale ha invece soltanto una breve pausa, nella quale preferiremmo non inserire l’apparizione del Fafner cinque­ centesco «con l’aliacce distese, pieno di rilucenti specchi e d’uno strano colore tra il verde e il nero, e con una smisurata boccaccia aperta, con tre ordini di gran denti, con lingua fuori infocata, fischiando, e fuoco e tosco vomendo». Senza apparizione il canto può riprendere dopo l’ulti­ ma domanda angosciata con una splendida transizione dall’accordo di

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sol a quello di fa che gonfia di trepidazione la preghiera nel canto della quale i due cori per la prima volta sono pienamente accomunati: O padre, o Re del cielo, volgi pietosi gli occhi a l’infelice Deio: a te dimand’aita, e piang’e plora. Muovi lampo e saetta a far di lei vendetta contro *1 mostro crudel che la divora

È un discorso musicale recitativo e madrigalistico al tempo stesso: tragicamente recitativo, simile ai cori di Andrea Gabrieli per VEdipo

Esempio xliii. Luca Marenzio, Inizio dell’intermedio III de La pellegrina di G. Bargagli («con un’Arpa, due Lire, due bassi di Viola, quattro Leuti, un Basso di Trombone, un cornetto, un violino, e dodeci voci»). Da Intermedii et Concerti ecc. (G. Vincenti, Venezia 1591). Qui

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'Tiranno per la precisione ritmica e la quasi assoluta simultaneità della declamazione in tutte le voci; madrigalistico per la sobria ma precisa caratterizzazione di ogni frase ancor piu che per le dissonanze espressive di piang’e plora o per gli scatti di crome ascendenti di saetta (che di sostantivo è fatto intensamente esortativo dalla musica). Per la Descrizione di de Rossi questo è soltanto un preludio: il momento culminante dell’intermedio è quello nel quale «volle il poeta in questo intermedio rappresentar la battaglia Pitica nella guisa che c’insegna Giulio Polluce, il quale dice che in rappresentandosi con l’an­ tica musica questa pugna, si dividea in cinque parti. Nella prima rimi­ rava Apollo se il luogo era alla battaglia conveniente; nella seconda sfidava il serpe, e nella terza col verso iambico combatteva... Nella quar­ ta col verso spondeo, con la morte di quel serpente si rappresentava la vittoria di quello iddio; e nella quinta, saltando, ballava un allegro ballo significante vittoria. Essendo a noi dalla malvagità e dalla lun­ ghezza del tempo tolto di poter cosi fatte cose rappresentar con quei modi musici antichi, e stimando il poeta che tal battaglia, rappresen­ tata in iscena, dovesse arrecare, si come face, sommo diletto agli spet­ tatori, la ci rappresentò con la nostra moderna musica, a tutto suo po­ tere sforzandosi, come intendentissimo di quest’arte, e d’imitare e di rassomigliare quell’antica». Segue la lunga descrizione dell’apparizione del dio dal cielo «con incredibil maraviglia di chiunque lo rimirò, perciocché con piu prestezza non sarebbe potuto venire un raggio; e... niente si vide che il sostenesse», e delle cinque fasi della battaglia mi­ mata e danzata. La stampa musicale ha invece la laconica annotazione «Qui manca una sinfonia» senza nessun accenno alla moderna emula­ zione dei modi antichi; né dice se la sinfonia fosse di Marenzio (al qua­ le attribuisce tutta la musica dell’intermedio, ma potrebbe anche in­ tendersi di tutta quella pubblicata), o di Bardi (cui sembra attribuirla la Descrizione), o, come a me pare più probabile e come accadde poi spesso nei tempi seguenti, di un anonimo e probabilmente mediocre musicista specializzato in musiche da ballo. Poiché la «malvagità» del tempo e la pervicacia o indifferenza degli uomini ci tolgono di dare ri­ sposta a tanti interrogativi, potremo soltanto osservare la disposizione di Bardi (confermata del resto dal suo Discorso mandato a Giulio Cac­ cini) 140 favorevole ad accettare quanto di meglio offriva la musica con­ temporanea, dacché i «modi musici antichi» risultavano ancora una volta irrepetibili. Quanto a Marenzio, non dovette essergli troppo con­ geniale la conclusione dell’intermedio nella quale uomini e donne del coro uscirono «carolando e cantando... per la medesima via ond’eran venuti»; il doppio coro finale a otto voci è svolto con corretto impegno

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dai due gruppi ora uniti ora contrapposti, e infiorato di discreti accen­ ni madrigalistici (i melismi su fiamma e su cantiam} sulla sobria scan­ sione accordale; ma è più una marcia che una carola - alla danza ac­ cenna soltanto un breve passaggio in ritmo ternario sul verso Cantiamo dunque a l'amoroso ballo. Corrispose meglio alle inclinazioni del mu­ sicista la preghiera di ringraziamento al dio vittorioso, 0 valoroso dio, che secondo la descrizione avrebbe dovuto essere cantata da «due cop­ pie di quegli uomini che erano lungo la selva a veder la pugna»; Maren­ zio ne fece un altro elegante trio di voci acute che si rincorrono in imitazioni all’unisono, aggiungendovi inoltre, per raggiungere il nume­ ro prescrittogli di quattro voci, una parte di basso che è come una par­ te di continuo vocalizzata. La concertazione fu lieve e gentile: un’arpa ed una lira. Dopo la novità della «moresca per combattimento» il quarto inter­ medio ripresenta associati due motivi tradizionali: l’evocazione magi­ ca che provoca in risposta un fausto presagio e l’encomio degli sposi, e la scena infernale con la solita barca, l’accompagnamento di trombo­ ni, e il precipitare finale del tutto «con urli e strida lamentevoli». La maga (Lucia, moglie di Caccini), giunta in scena sopra un carro, «pren­ de un liuto ch’ella v’ha dentro, e a quel suono e all’armonia di lire grandi, e di bassi, di viole, di liuti, d’un violino, d’arpe doppia, bassi di tromboni, e organi di legno che sonavano dentro... cominciò soave­ mente a cantare». Cosi afferma la Descrizione, aggiungendo che il canto e «l’ordine della melodia degli strumenti predetti fu opera di Giulio Caccini musico pregiato dei nostri tempi»; nella stampa musicale in­ vece Malvezzi rivendicò a se stesso la Sinfonia che dovette precedere e non seguire il canto, ed omise quest’ultimo, che però è stato rinvenuto da Federico Ghisi, ancora una volta nel manoscritto Magliabechiano 66 Ul. Il canto (es. xliv) forma un intermedio di solistico virtuosismo inserito tra la Sinfonia e il coro Or che le due grand'alme, entrambi di Malvezzi, entrambi festosi nella tonalità di sol minore e nello sciolto contrappunto, e collegati tra di loro dal comune impianto a sei voci, dalla comune strumentazione e perfino dal ricorrere delle scale ascen­ denti che nel pezzo corale traducono madrigalescamente il s'accende del testo. L’aria non è ancora del miglior Caccini per mancanza di una chiara organizzazione formale; è già personale tuttavia l’abbondanza e varietà ritmica della coloratura e qualche accenno di sprezzatura ar­ monica (si veda il melisma che ricorre nelle misure 2,304 dell’esem­ pio xliv). Il mutare della scena da celeste a infernale e l’abbondanza di ele­ menti visivi di quest’ultima non hanno altra risposta nella musica che

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il madrigale a cinque voci di Bardi Miseri abitator del cieco Averno del quale si è già parlato, riuscito non troppo vario di armonie forse per l’intenzione dichiarata di farlo «malinconico e lamentevole». Nel quinto intermedio Anfitrite (sorella a Teti del quarto inter­ medio del 1586) si presentò con regale maestà (si veda il discendere e il riascendere della linea melodica sulla frase finale) a rendere omag­ gio agli sposi: ... ad inchinarvi, o regi sposi, vegno fin dal profondo del mio vasto regno.

Lo stesso intento è espresso dal corteo di tritoni e di ninfe (o al­ meno dalle ninfe) che è con lei: ... siamo a ’nchinar a voi, gran regi, uscite.

Cantano infatti le quattro strofette di un epitalamio, intonando Anfi­ trite la prima da sola e la terza con altre due voci, e rispondendo il coro la seconda e la quarta, che hanno uguale musical42. Impersonava Anfitrite Vittoria Archilei, che, parrebbe, cantò la sua parte senza ag­ giunte virtuosistiche; le si associarono nel trio Antonio, suo marito, e Margherita, loro allieva143. Ma ancora una volta va ammirato il talen­ to col quale Malvezzi seppe costruire una svelta architettura decora­ tiva su un testo puramente ed enfaticamente elogiativo, puntando so­ prattutto sul contrasto sonoro e ritmico tra le brevi sezioni. Oltre che l’omaggio cortigiano, la presenza di Anfitrite e del suo seguito non ha

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altra ragione che quella di disporre una scena marittima; si dileguano infatti all’avanzarsi della nave di Arione al suono di una Sinfonia a sei pure di Malvezzi1". E qui ancora una volta la Descrizione si mo­ stra malfida, per la confusa narrazione dell’episodio, per l’errata cita­ zione del testo, e per l’omissione del nome del cantore e compositore del canto di Arione, Iacopo Peri'". Anfìone è salvato, oltre che dai delfini, dalla stampa musicale, forse non meno partigiana, ma almeno piu sicuramente informata nei riguardi della musica1". Il suo canto, quasi più cacciniano di quello cacciniano della maga, è un notevolis­ simo documento, innanzi tutto, della straordinaria duttilità delle voci tenorili del tempo, più scure e fonde delle moderne, e in compenso più uguali e più fuse, perché tendevano a sviluppare le qualità naturali della voce piuttosto che i suoni artificiali del registro acuto La parte vocale segue prevalentemente (ma non esclusivamente) la parte di te­ nore dell’accompagnamento strumentale a quattro voci adomandola di festoni sonori che a noi parrebbero soverchi e monotoni se non fossero punteggiati dalle risposte di due altre voci in eco (altro effetto spaziale consentito dall’ampiezza della sala); così il pezzo fondamen­ tale solistico, in qualche modo si atteggia pure come una risposta te­ norile ai trii concertanti di soprani dei quali si è già parlato. Arione canta stando «sopra la poppa della galea a sedere, in abito di musico, e di poeta all’antica, inghirlandato d’alloro, e la vesta di teletta rossa con fondo d’oro, quasi da Re: in mano una lira fatta a guisa della no­ stra arpa» In tal pompa regale egli punta sulla magia del virtuosi­ smo canoro più che sulle corde del pathos umano e sulla forza persua­ siva dell’implorazione; non ha però il successo dell’Orfeo di Monte­ verdi (nella versione ornata dell’aria Possente spirto) «i marinai an­ dando con le coltella ignude alla volta sua, egli precipitosamente, cosi vestito, si gittò in mare, e si vide l’acqua schizzare in alto, nel suo ca­ dere, ed egli stare alquanto a ritornar sopra, portato da un delfino che lo conduceva alla riva». A parte gli spruzzi d’acqua che schizzano in alto, è l’episodio più drammatico, che io sappia, in tutta la letteratura degli intermedi aulici; ma dopo l’eco di Peri non c’è altra musica nella stampa che il coro finale a sette (di Malvezzi) dei marinai «pieni d’al­ legrezza» per i conquistati tesori. Non c’è musica per il dramma; né lo stesso Peri avrà messo eccessiva fede nella morale dell’intermedio: che gli dei, se non gli uomini, favoriscono i musici. Il sesto intermedio presenta le più grandi divergenze - di esecu­ zione più che di concezione - tra il resoconto di de Rossi e i dati forniti dalla stampa musicale. Mutato (e più breve) è in questa il testo che accompagna la solita lenta discesa di nuvole che portano Apollo, Bac­

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co, Grazie, Muse e amorini, secondo de Rossi, Imeneo e Venere se­ condo la stampa musicale151. Scendono perché Giove, «avendo com­ passione al legnaggio umano affaticato e ripieno d’affanni... mandògli in terra» a portarvi il dono dell’Armonia e del Ritmo (o, stando alla stam­ pa musicale, del Canto e del Ballo)151’. Immutato è invece il testo della risposta data da terra da «venti coppie tra uomini e donne» che non dànno segno di essere né affaticati né ripieni d’affanni: O quale, o qual risplende nube nell’aria di si bei colori? Accorrete, pastori, e voi, vezzose e liete belle Ninfe; accorrete accorte e preste al dolce suon dell’armonia celeste.

Nella musica di Malvezzi l’uno e l’altro testo prende la forma di un madrigale a sei, dei quali il primo fu eseguito da strumenti (per dar più tempo alla discesa) e poi replicato «con le voci raddoppiate»,M, l’altro fu «concertato con 4 leuti, quattro viole, due bassi, quattro tromboni, due cornetti, una cetera, un salterio, una mandola, l’arciviolata lira, un violino con ventiquattro voci»153. Né si arresta li la ri­ cerca del colossale anche in musica che abbiamo visto profilarsi durante tutta la storia degli intermedi aulici: cielo e terra si uniscono nella lode degli sposi medicei in un pezzo a trenta voci, divise in sette cori, ese­ guito da sessanta cantori e da tutti gli strumenti disponibili,5 pp. 140-42); la seconda va da Che porti o drappel nobile a E i gigli e le viole I si vedranno fiorire (pp. 142-45); la terza da O felice stagion a Tessin Ninfe e Pastori I dei piu leggiadri fiori (pp. 145-48); la quarta da Ferdinando hor va felic’ e altero a Hor te, coppia reale | il del rend’immortale (pp. 148 51); la quinta e la sesta corrispondono alle due stro­ fe citate più avanti nel testo (pp. 152-54). ,w Designando le frasi che compongono il «Ballo» con le lettere A A B C D D't e quel­ le della «Risposta» con aabcdd, la parte seconda ha la struttura AAaaBb c D D' d d, che si ripete per la terza (dando però ritmo ternario ai brani che nel «Ballo» erano in ritmo binario e ritmo binario ai brani ternari della «Risposta») e per la quarta (tutta ternaria, ma con contrastanti accentuazioni per Ì brani derivati dal «Ballo» e dalla «Risposta»); la parte quinta è una replica del «Ballo» con testo di­ verso, e la sesta, in ritmo ternario, ne è un’estensione, fortemente ripetitiva e caden­ zale. Del ballo dànno più ampie analisi d. p. walker, La musique des intermèdes florentins de 1589 cit, pp. 139-41, e w. kirkendale, L’Aria di Fiorenza cit., pp. 46-49. Vedi sulla romanesca l’articolo di John M. ward, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., vol. XI, coll. 778-79. w. kirkendale, L’Aria di Fiorenza cit., p. 20, concorda nel constatare l’affinità. ,M Edizione moderna di parte del primo episodio e del testo completo a cura di Giuseppe vecchi, Bologna 1954.

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Pochi altri generi hanno un inizio altrettanto precisamente deter­ minato che l’opera. Il suo punto di partenza può esser fatto coincidere con la prima esecuzione deWEuridice di Ottavio Rinuccini, musica di Iacopo Peri, che ebbe luogo la sera del 6 ottobre 1600 a palazzo Pitti a Firenze, nell’appartamento di Don Antonio dei Medici fratellastro della futura regina di Francia, Maria. Va scartata ogni proposta di prendere in considerazione come punto di partenza la Dafne, musica di Iacopo Corsi e Iacopo Peri pure su testo di Rinuccini. Non perché le date delle sue varie esecuzioni sono incerte e perché ne manca una completa partitura, ma perché il suo testo e i pochi frammenti soprav­ vissuti della sua musica2 la fanno apparire immatura e preliminare in confronto alla piena vitalità deWEuridice. Va anche respinta ogni pre­ tesa del Rapimento di Cefalo, testo di Gabriello Chiabrera e musica per la maggior parte di Giulio Caccini, che fu eseguito tre giorni dopo YEuridice, il 9 ottobre 1600, ma fu dato nella grande sala delle Com­ medie nel palazzo degli Uffizi e costituì lo spettacolo principale (offer­ to dallo stesso granduca Ferdinando I) nella serie di eventi che cele­ bravano il matrimonio di Maria dei Medici con Enrico IV di Francia e di Navarra’. L’Euridice era stata semplicemente un omaggio reso alla nuova regina da un privato cittadino, il cavaliere Iacopo Corsi; pure il Rapimento fu quasi completamente dimenticato poco dopo la rap­ presentazione 4, mentre VEuridice ebbe il piu grande successo di stam­ pa tra le prime musiche operistiche, rivaleggiato soltanto da quello delY Orfeo di Monteverdi5. * Il presente saggio» già apparso sotto il titolo Early Opera and Aria nel volume New Looks al Italian Opera. Essays in Honor of Donald J. Grout, edito da William W. Austin, Ithaca (N.Y.) 1968, è qui riprodotto per gentile concessione della Cornell University Press.

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Nata sotto il segno della discordia. Anche se non avessimo a nostra disposizione la partitura stampata faXPEuridice di Peri un indizio della sua importanza ci sarebbe fornito dalla tempesta di gesti e documenti polemici che accompagnarono e seguirono la sua rappresentazione. La rappresentazione stessa ebbe a subire l’intrusione di Caccini, che riuscì a sostituire una parte della musica di Peri con musica propria, col pretesto che i cantori che erano suoi allievi potevano cantare soltanto musica scritta per loro dal loro maestro. Ma non bastò a Caccini l’avere violata l’unità artistica di quel­ la che noi consideriamo come la prima vera opera, e l’avere imposto a Peri lo stesso genere di promiscuità artistica (allora molto comune) al quale era contemporaneamente soggetto il Rapimento * \ ben presto egli si mise ad avanzare per proprio conto pretese di esclusiva paternità artistica. Poco dopo la fine delle cerimonie nuziali fiorentine, egli aveva infatti già composta e pubblicata una completa partitura de VEuridice posta in musica in stile rappresentativo da Giulio Caccini. detto Ro­ mano (Marescotti, Firenze 1600), e già in data del 20 dicembre 1600 era in grado di dedicarla al suo antico patrono, Giovanni Bardi, conte di Vernio7. In nessun posto in questa stampa è menzionato Rinuccini, è ricordata l’esistenza e la recente rappresentazione della partitura di Peri, o è riconosciuto il fatto che «favole in musica» erano già state composte e messe in scena a Firenze fin dal 1591 da Emilio dei Cava­ lieri. Invece un riferimento a certe conversazioni su argomenti con­ cernenti la musica che erano state tenute molto tempo prima in casa di Bardi - nella cosidetta Camerata - serve a Caccini a lusingare il de­ dicatario e a dar credito alla propria asserzione, che egli era andato scrivendo «tal maniera» di musica da almeno quindici anni, asserzione che egli avrebbe presto riaffermata con maggior copia di parole, anche se non con maggior vigore, nella prefazione de Le Nuove Musiche . * Nel frattempo Peri aveva reagito facendo pubblicare Le musiche di Jacopo Peri... sopra l’Euridice del signor Ottavio Rinuccini (Marescot­ ti, Firenze 1600, ma 1601) ’. La modestia ostentata in questo titolo fu un’evidente risposta all’insolenza di Caccini, non meno che un rico­ noscimento dei meriti di Rinuccini. Pure messi in rilievo - nel fronti­ spizio, nella dedica alla nuova regina (datata 6 febbraio 1600 [1601]), e nel consueto indirizzo al lettore - furono l’evento e l’occasione della rappresentazione dell’ottobre. Finalmente, e di nuovo in forte contra­ sto con le cattive maniere di Caccini, Peri fa un garbato inchino ad entrambi i suoi oppositori, Cavalieri e Caccini.

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C’era infatti nella disputa una terza parte: Emilio dei Cavalieri, un gentiluomo romano che il Granduca aveva condotto con sé da Roma al tempo della sua ascesa al governo di Firenze e al quale aveva affidato nel 1588 la sorveglianza su tutte le attività artistiche della corte fioren­ tina 10. In tale funzione, Cavalieri aveva dapprima contenuto e infine annullato l’autorità del conte Bardi nel campo del teatro e della mu­ sica. In tempi più recenti tuttavia Cavalieri aveva trovato modo di al­ lontanarsi da Firenze e ritornare a Roma, per quanto i suoi legami con la corte fiorentina non fossero mai stati interrotti e la sua carica di superintendente mai revocata". I suoi atteggiamenti di grandezza ave­ vano fatto si ch’egli non cercasse pubblicità e non curasse di avere stampate le musiche pastorali che aveva composte per Firenze nel de­ cennio 1590-1600; ma nel 1600 fu proprio lui ad iniziare la gara di pubblicazioni concedendo, col suo fare di aristocratica condiscenden­ za, che uno sconosciuto editore desse alle stampe La rappresentatione di anima, et di corpo novamente posta in musica dal sig. Emilio del Cavaliere per recitar cantando (Mutii, Roma 1600) ", Il lavoro era stato eseguito in febbraio nell’oratorio della Chiesa Nuova a Roma; ma la dedica della stampa al cardinale Aldobrandini fu datata da Ales­ sandro Gujdotti, l’editore prescelto, il 3 settembre 1600, proprio al momento in cui avevano luogo le prove degli spettacoli per le nozze fiorentine'3. La scelta del momento dà alla stampa il carattere di un silenzioso rimprovero rivolto al Granduca, il quale nell’occasione delle nozze reali aveva dimenticato i meriti del Cavalieri, come vecchio ami­ co e come fedele servitore; tra i quali meriti c’erano anche gli spettaco­ li che egli aveva ideati, messi in musica e portati in scena a Firenze nel 1591 e 1595, ripetutamente menzionati sia nella dedica che nell’indi­ rizzo al lettore. Cavalieri fu presente alle nozze fiorentine e probabilmente collaboro alla messa in scena delTEuridice ma ritornò a Roma subito do­ po. Sarebbe stato inconcepibile per lui impegnarsi in pubbliche pole­ miche con gente comune come Caccini, Peri e magari Rinuccini; ma egli continuò ad esprimere il suo disappunto in una serie di lettere in­ viate da Roma al segretario del Granduca, il contenuto delle quali è stato reso noto recentemente ", Sua Altezza aveva trascurato la provata esperienza teatrale del Cavalieri per servirsi di consigli inesperti - più precisamente di quelli del suo fratellastro don Giovanni dei Medici; in conseguenza aveva non solo sperperato il suo denaro, ma anche «per­ so la riputatione, che teneva Fiorenza in far cose simili» w. Nel frattem­ po salta fuori un nuovo elemento di amarezza, causato dalla dedica ap­ posta da Rinuccini alla stampa del libretto delTEuridice (Giunti, Fi­

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renze 1600). Il io novembre 1600 Cavalieri si rammarica che Rinuccini «tratta... che lui sia stato inventore di questo modo di rappresentare in musica, mai più da altri trovato»; ma «questo è inventato da me, che ciascheduno lo sa, et io mi trovo haverlo publicato [nell’introduzione de La rappresentatione, della quale Cavalieri ammette cosi di essere il vero autore]. Hora chi vede la stampa del Ranocchino mi terrà per un bugiardo»17. Meno dure, benché egualmente altezzose, sono le reazioni di Cava­ lieri alla stampa dell9Euridice di Caccini, che egli aveva già ricevuto a Roma il 20 gennaio 1601, quando scriveva: «Non vi è cosa che mi dia noia; poicé la mia rapresentatione, che è si è stampata, essendo stam­ pata tre mesi e mezzo prima, chiarisce tutte le partite» Cavalieri deve avere comunque realizzato che il punto di Caccini non stava nel riven­ dicare una priorità nello scrivere «rappresentationi in musica», ma nell’asserire che queste «rappresentationi» erano in uno stile che egli, Cac­ cini, aveva inventato. A sua volta, anche Peri asseriva di avere inven­ tato e applicato all9 Euridice uno stile appassionato di canto mai prima udito. A queste rivendicazioni, se la mia interpretazione è corretta, Ca­ valieri diede una risposta indiretta, incoraggiando la pubblicazione dei Madrigali... per cantare, et sonare a uno, doi, e tre soprani di Luzzasco Luzzaschi (Verovio, Roma 1601 )15. Dell’arrivo di Luzzaschi a Roma al seguito del cardinale Aldobrandini Cavalieri dà notizia il 6 aprile 1601 ; e in maggio in un’altra lettera nella quale critica Caccini, accenna di avere discusso i recenti eventi musicali con Claudio Merulo e con Luz­ zaschi30. La tardiva decisione di quest’ultimo di pubblicare qualche saggio del repertorio solistico «riservato» delle famose cantatrici di Ferrara mi sembra che voglia sottintendere — in accordo col pensiero di Cavalieri e possibilmente su suo suggerimento - che uno stile raffi­ nato di canto solistico era esistito già da molto tempo indipendente­ mente da Caccini. A sua volta, la pubblicazione di Luzzaschi può avere spinto Caccini a ribadire le sue rivendicazioni con la stampa de Le nuove musiche. La sostanza di tutta la questione mi pare sia che ciascun contenden­ te era profondamente convinto della legittimità delle proprie rivendi­ cazioni di priorità e, o non riusciva a vedere le differenze tra i propri vanti e quelli dei rivali, o temeva che le rivendicazioni leggermente di­ verse degli altri potessero offuscare la sua preziosa gloria personale. Fra quelli che non erano direttamente coinvolti nella disputa, il senti­ mento generale era che vi fosse una fondamentale unità nello stile fio­ rentino di canto. A sua volta questo stile era considerato come non molto diverso dallo stile di canto a solo praticato in altre parti d’Italia;

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abbastanza diverso tuttavia da giustificare la riluttante ammissione fat­ ta verso il 1628 da un imparziale osservatore romano, che Caccini era stato, dopo tutto, «quasi inventore d’una nuova maniera di cantare»21. Quali che fossero le differenze esistenti tra le opposte rivendicazio­ ni, e non importa quanto fortemente queste differenze fossero sentite dai vari pretendenti, essi trovarono difficile definirle in precise parole. Noi possiamo trovarci in una posizione migliore col vantaggio che ab­ biamo della conoscenza storica degli sviluppi posteriori; dobbiamo guar­ darci però dall’applicare indiscriminatamente alla musica del princi­ pio del secolo xvn criteri che ci sono suggeriti da manifestazioni di periodi più recenti.

«Recitar cantando» e «cantar recitando».

L’espressione «recitar cantando», generalmente ritenuta tipica del­ la cosidetta Camerata fiorentina, ha origine da Cavalieri, il quale pro­ babilmente non frequentò mai le conversazioni musicali del salotto di Bardi22. Lo stesso Cavalieri usò il termine senza dargli importanza, per esempio nel titolo de La rappresentatione («posta in musica... per “re­ citar cantando”»), senza altro significato che quello di indicare una azione drammatica eseguita cantando; infatti tutto ciò che egli preten­ deva era di essere stato il primo a inventare e mettere in scena azioni drammatiche che potevano essere svolte completamente in canti e mu­ siche, contrariamente all’uso teatrale precedente della musica come ele­ mento accessorio23. È vero che la prefazione de La rappresentatione tratta come «questa sorta di Musica, da lui [Cavalieri] rinovata com­ mova à diversi affetti, come à pietà & à giubilo; à pianto & à riso»24; ma queste parole furono scritte da Guidotti, o dettate da Cavalieri, sotto l’influenza delle notizie che arrivavano da Firenze degli spetta­ coli che si stavano preparando in quella città e delle molte discussioni che si facevano al loro proposito sul potere emotivo della musica. Mal­ grado ciò Cavalieri in questo suo manifesto insiste più su varietà e contrasto di emozioni che sulla loro intensità; né pretende di aver tro­ vato uno stile speciale per esprimerle. Al contrario, l’accenno ad una scena de La disperatone di Fileno, in cui il canto di Vittoria Archilei «mosse meravigliosamente à lagrime, in quel mentre che la persona di Fileno movea à riso»25, suggerisce che la mimica era uno dei mezzi di espressione. Grande rilievo è dato da Guidotti (o Cavalieri) agli «or­ namenti», particolarmente danze, che devono «avvivare al possibile queste rappresentationi» senza però essere aggiunte accessorie all’in­

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treccio; «i quali Balli, overo Moresche se si faranno apparir fuori del­ l’uso commune havrà più del vago, e del nuovo: come per esempio, la Moresca per combattimento, & il Ballo in occasione di giuoco, e scher­ zo» Come esempio del primo è citata una scena de La disperatione di Fileno, nella quale «tre Satiri vengono à battaglia, e con questa oc­ casione fanno il combattimento cantando, e ballando sopra un’aria di Moresca»; al secondo gruppo appartiene la scena centrale de II giuoco della cieca, nella quale «ballano, e cantano quattro Ninfe, mentre scher­ zano intorno ad Amarilli bendata, ubidendo al giuoco della Cieca»”. L’ultimo esempio è una ovvia derivazione dal Pastor fido di Gua­ rini, atto III, scene 11 e ni. Cavalieri e la sua devota amica, Laura Guidiccioni, che provvide i testi per le rappresentationi del 1591 e 1595, si proclamavano seguaci dello stile pastorale dei poeti di Ferrara, seb­ bene questi fossero violentemente avversati dalla Accademia fiorenti­ na della Crusca, di cui Bardi era uno dei fondatori”. È impossibile dire se i prodotti della collaborazione tra Cavalieri e la Guidiccioni avesse­ ro qualche originalità artistica o se fossero soltanto imitazioni dei loro famosi modelli, perché sia i loro testi che la loro musica sembrano es­ sere irreparabilmente perduti. Dovevano comunque armonizzarsi al­ l’ideale di una vita pastorale artificiale e idealizzata, per il quale ideale l’eleganza, l’ingegnosità ed un tenue sentimentalismo leggermente co­ lorato di sensualità, erano più essenziali che la evidenza realistica delle passioni e dei dolori umani. Giudicando dagli scarsi accenni negli scrit­ ti di Cavalieri e dalla partitura della sua tarda allegoria spirituale, nel­ la quale egli cercò di aggiornare il suo stile con tratti derivati in modo piuttosto maldestro da Peri e da Cacci ni”, possiamo condividere l’o­ pinione di Giovanni Battista Doni sulla sua musica: «ariette con molti artifizi di ripetizioni, echi e simili, che non hanno che fare niente con la buona e vera musica teatrale» M. Ciò non di meno, Cavalieri aveva ragione di vantarsi di aver creato un nuovo genere teatrale - tutto in musica — e di essere stato il primo a renderlo pubblico con la stampa de La rappresentatione. La sua invenzione, o quasi-invenzione, allar­ gava la componente musicale già notevole nella letteratura pastorale, e ne accentuava la tendenza verso un’organizzazione formale, mentre d’altra parte riduceva e semplificava la forma pastorale per adattarla alle particolari esigenze e al ritmo più lento di una rappresentazione musicale. Questi risultati, però, sebbene siano importanti se si parago­ nano al rigido rituale ed ai gesti simbolici dei macchinosi intermedi « aulici» ”, dovevano essere più simili a ciò che noi diremmo balletto o pantomima, che ad un’opera. Mentre le rivendicazioni di Cavalieri si appuntavano sul genere,

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Caccini e Peri insistevano invece maggiormente sullo stile di canto. Ciò è indicato più chiaramente da Peri, il quale, dopo avere riconosciuto che da Cavalieri «prima che ogni altro che io sappia, con maravigliosa invenzione ci fosse fatta udire la nostra musica sulle scene», immedia­ tamente aggiunge: «piacque tuttavia à signori Iacopo Corsi ed Ottavio Rinuccini (fin Fanno 1594), che io adoperandola in altra guisa, met­ tessi sotto le note la favola di Dafne, dal signor Ottavio composta»32. È probabile che nelle precedenti polemiche tra Cavalieri e Bardi fosse entrata la questione di provare che «il canto dell’età nostra» era al­ trettanto efficace che l’antico sulla scena; ma Corsi e Rinuccini andaro­ no oltre a dimostrare con l’aiuto di Peri che la musica moderna poteva essere efficace sulle scene anche in un genere di drammatica intensità paragonabile a quello della tragedia antica. La prova di questo è data senza volerlo da Cavalieri in una lettera nella quale riferisce l’opinione espressa a Roma da Bardi, che essi [i fiorentini, incluso il Granduca] non avrebbero dovuto «intrare in parole tragiche, et soggetti da potervi op­ porre»33. I vecchi antagonisti erano almeno temporaneamente riconci­ liati nella comune avversione verso le tendenze più recenti della musica a Firenze. La rinascita della tragedia antica sarebbe stata tentata otto anni più tardi a Mantova, da Rinuccini e Monteverdi34. Nel 1600 nessuno meglio di Rinuccini sapeva che VEuridice non era una tragedia; eppu­ re, anche in una cornice pastorale, la morte di Euridice e la disperazio­ ne di Orfeo hanno una pungente immediatezza di tragico pathos, ed anche i momenti meno emozionanti dell’azione rifiutano di sottomet­ tersi a vantaggio della musica, alle accorte manipolazioni ed alle pro­ cedure formalistiche che pare avessero caratterizzato i lavori di Cava­ lieri. In conseguenza, il «recitar cantando» di Peri (per quanto egli non abbia mai usato questa espressione) è «un’armonia superiore a quella della semplice parola, ma tanto inferiore alla melodia del canto da diventare una forma intermedia»35, cioè, uno stile di canto regolato generalmente (vedremo in seguito le eccezioni), dall’accento e dall’e­ spressività del testo e dalle necessità dell’azione, più che da principi di organizzazione musicale. La soluzione di Cavalieri era stata una stiliz­ zazione e formalizzazione degl’intrecci e dei dialoghi per adattarli alle esigenze della musica di danza e del canto; la soluzione di Peri è pro­ prio l’opposto, e può essere descritta come realistica, in quanto modi­ fica il canto in modo da farlo vicino alla parola, a quella più comune e meno commossa come, e ancora meglio, a quella intensificata dalla ur­ genza di passioni veementi. Per quanto io sappia, né il gruppo di Bardi, né Caccini avevano mai

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considerato prima del 1600 il problema del «recitar cantando». Ma in quell’anno le parole di Caccini furono altrettanto rapide quanto le sue azioni; avendo dichiarato, proprio nella prima frase della dedica della sua Euridice, di averla composta «in musica in stile rappresen­ tativo», si affretta ad aggiungere: in «quello stile usato da me altre volte, molti anni sono, come sa V. S. Illustrissima, nell’ecloga del Sannazzaro Iten’ alVombra degli ameni faggi, ecc., ed in altri miei madri­ gali di quei tempi»36. L’egloga è andata perduta, ma le altre sono com­ posizioni che più tardi entrarono a far parte delle Nuove musiche di Caccini (1601 [1602]), nella cui introduzione l’ordine del discorso è invertito ma il senso è lo stesso: questi «studi della musica... et altre mie composizioni di più madrigali et arie, composti da me in diversi tempi... [sono] in quello stile proprio, che poi mi servi per le favole che in Firenze si sono rappresentate cantando» * 1. Ho sottolineato le parole corrispondenti al «recitar cantando» di Cavalieri; ma Caccini sosteneva che su questo punto il suo merito consisteva nell’avere ap­ plicato alla scena uno stile che egli aveva già usato in precedenza per pezzi che noi classificheremmo come musica da camera. Per il bisogno di distinguere, non per inventare un nuovo termine, chiamerò qui quel­ lo stile un «cantar recitando». La seconda tesi implicita nelle afferma­ zioni di Caccini era, naturalmente, che Peri avesse semplicemente se­ guito le sue orme. Potrà sorprenderci l’uso del termine «stile rappresentativo» per pezzi di musica da camera, ma ne abbiamo altri esempi indipendente­ mente da Caccini. «Stile rappresentativo» e «stile recitativo», il pri­ mo ancor più comunemente usato che il secondo, si diffusero presto come termini di moda e praticamente sinonimi, perché «recitare» una azione drammatica è il termine generalmente usato nelle fonti contem­ poranee per «rappresentare»38. Tutti e due i termini coprivano la va­ sta gamma di sfumature comprese tra quegli estremi che noi ora chia­ miamo recitativo e aria - includendo anche, quando erano applicati a una partitura teatrale, cori, danze e pezzi strumentali. Ma all’atto pra­ tico la frequenza della loro applicazione ad un lavoro teatrale era scarsa e dipendeva da contingenze della vita di corte sulle quali i compositori avevano ben poco controllo. Molto più spesso si verificava il caso di lavori concepiti per essere eseguiti in un concerto (o recital), che pro­ iettavano su un palcoscenico ideale una scena drammatica o le reazioni affettive di un personaggio ad una situazione drammatica Fu questa la direzione verso la quale Caccini si senti maggiormente portato, per­ ché non c’è dubbio che le sue Nuove musiche del 1602 e del 1615 e i pezzi del suo Fuggilotio musicale del 1613 (?) J9‘, seppur dotati di una XI

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qualità «recitativa» o «rappresentativa», furono essenzialmente canti composti da un provetto cantante e maestro di canto in uno stile tale che nessun pubblico avrebbe potuto dimenticare che la loro esecuzio­ ne era l’impresa di un cantante, e cioè «cantar recitando». Possiamo dunque contrapporre Caccini come maestro del «cantar recitando» ai campioni del «recitar cantando», Cavalieri e Peri. Non dobbiamo però dimenticare che da un altro punto di vista l’eminente qualità cantabile della musica di Caccini è più^vicina alle ariette di Cavalieri che non all’eloquenza realistica dello stile di Peri, una «cosa mezzana» tra il canto e il parlare. Infine una comune tendenza espres­ siva fa di Caccini e Peri i primi rappresentanti (se è lecito usare questa parola) del nuovo stile «rappresentativo» o «recitativo», dal quale dobbiamo escludere Cavalieri, malgrado il suo sforzo di aggiornamen­ to all’ultima ora nella partitura de La rappresentatione.

I problemi estetici del nuovo stile.

«Stile rappresentativo» e «stile recitativo» entrambi designano un modo di esecuzione, sia esso chiamato una rappresentazione o una re­ citazione; e infatti la novità essenziale del nuovo stile, sia che lo con­ sideriamo dal punto di vista di Caccini o da quello di Peri, si accentra sul momento di comunicazione con gli ascoltatori. Caccini descrisse la sua particolare varietà del nuovo stile come una «nobile maniera di cantare» che, egli asserì, era destinata non soltanto a dar piacere, ma anche a cattivare il pubblico con la sua «grazia» e a «muovere l’affetto dell’animo». Collegati al proposito di comunicare sono i due aspetti tecnici che tanto egli che Peri additano come più caratteristici delle loro opere, la sprezzatura e l’accompagnamento di basso continuo È impossibile determinare quale dei due compositori introdusse per primo questi due termini, che tutti e due adoperano più o meno allo stesso modo. Indipendentemente da chi per primo li mise a stampa, essi devono avere sviluppato il loro particolare significato durante una fase preliminare di polemica verbale della quale ci manca ogni docu­ mentazione. Sprezzatura, sia stato o non Caccini il primo ad usarlo con un intento musicale, si adatta perfettamente alla vernice di platonismo con la quale egli amava accreditare la sua adesione e fedeltà agli ideali classicheggianti del gruppo di Bardi. La parola aveva goduto di una certa risonanza fin dal primo quarto del secolo xvi, da quando era stata usata da Baldassare Castiglione nel suo classico, sostanzialmente pla­ tonico trattato sul modo di comportarsi e di agire aristocratico, per de­

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scrivere la spontaneità apparentemente innata e la disinvolta sicurezza di sé che dovevano caratterizzare il contegno del perfetto cortigiano, qualunque fosse in realtà la difficoltà dei suoi compiti4*. In un senso parallelo a quello del Castiglione sprezzatura era stato usato durante quello stesso secolo per designare la disinvoltura e naturalezza del per­ fetto danzatore42. Anche Caccini è dell’opinione che una completa pa­ dronanza delle tecniche vocali più raffinate sia un elemento essenziale del suo stile; ma non è il solo. Lo scopo principale del cantante è quel­ lo di dar piena attuazione a quel tale spirito che possa esistere al di là della lettera o nota della musica - cioè della musica di Caccini. Questo scopo può essere raggiunto attraverso la sprezzatura, cioè attraverso gli imponderabili elementi di slancio ritmico e flessibilità dinamica del­ l’esecuzione. Allo stesso scopo mira la riduzione dell’accompagnamento polifo­ nico ad un essenziale minimo lineare, il continuo, che così consente la massima flessibilità anche all’accompagnatore e assicura il predominio e la libertà espressiva della voce cantante. Per Caccini la situazione ideale era quella del cantante che sapesse accompagnarsi da sé e po­ tesse così esercitare un controllo unico sia sulla sprezzatura della voce che sull’accompagnamento strumentale — esplicitamente egli nomina la pratica del «cantar solo sopra l’armonia di chitarrone o di altro stru­ mento di corde»41. Il che non avrebbe potuto accordarsi meglio con le idee di Peri, il quale era egli stesso altamente apprezzato come uno straordinario cantante e provetto nell’accompagnarsi da sé44. Se questo genere di esecuzione unificata non era attuabile, era compito di un abile accompagnatore non soltanto di aderire quanto più possibile all’esecu­ zione del cantante, ma anche di usare il suo buon giudizio per decidere in quale miglior modo e fino a che punto la linea del continuo dovesse essere integrata «con le parti di mezzo tocche dall’istrumento per espri­ mere qualche affetto, non essendo buone per altro»45. L’ultima frase è degna di attenzione non soltanto per la sua carica anticontrappuntistica, ma anche per l’implicita ammissione che l’ag­ giunta delle «parti di mezzo» era ad libitum, giustificata soltanto da speciali intenti espressivi; ché infatti le due linee principali, voce e continuo, tendono a formare da sole una struttura sufficiente a se stes­ sa. La nostra educazione musicale e le nostre abitudini di esecuzione ci portano, quando realizziamo una parte di continuo, a ricercare l’ag­ giunta di due o tre parti che mantengano uno scorrevole andamento lineare, benché la loro funzione sia fondamentalmente armonica. Que­ sto fu il punto di vista probabilmente anche di Cavalieri, determinato dalla sua maggiore familiarità con strumenti a tastiera che con quelli

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a corde pizzicate. Al contrario Caccini e Peri, come tutti i musicisti del loro tempo che erano abituati a realizzare il continuo sul chitarrone, sulla tiorba o sul liuto, devono avere avuto soprattutto in mente il so­ stegno di una linea di basso colorata in modo discontinuo da accordi, la cui ricchezza e disposizione dipendeva in misura eguale dai bisogni espressivi dell’accompagnamento e dalla tecnica e diteggiatura dello strumento. Il «basso continovato» di Caccini (fiorentino per «continuato» o «continuo») può somigliare sulla carta al «basso seguente» usato dai suonatori di strumenti a tastiera che avevano l’incarico di accompagna­ re pezzi polifonici sacri o profani. E di fatto deve il suo nome a questa somiglianza46, accresciuta dal fatto che anche quel tipo più antico di continuo può avere avuto occasionalmente delle cifre aggiunte al basso come guida all’accompagnatore nei passi nei quali più di una armoniz­ zazione era possibile. I due procedimenti però sono fondamentalmente differenti dal punto di vista della composizione. Il vecchio «continuo», o «seguente», non era altro che una notazione stenografica (in luogo di una completa partitura o di una intavolatura) di successioni armo­ niche che erano state formulate come risultato di considerazioni con­ trappuntistiche; mentre invece il nuovo continuo è una linea compo­ sta espressamente tenendo conto delle esigenze ritmiche, armoniche ed espressive della parte superiore. Per esprimerci nel linguaggio di quel tempo, il nuovo continuo e le sue implicazioni armoniche - fossero o non indicate da cifre, e fossero o non completamente realizzate come accordi dall’accompagnatore - erano interamente subordinati all’«aria» della parte vocale. Tocchiamo così un termine di gran momento, che i musicisti ave­ vano usato per lo meno fin dal principio del secolo xiv47, ma che diven­ ne veramente.una parola-chiave del linguaggio musicale durante il Cin­ quecento e il Seicento. Nulla può essere causa di maggiore perplessità che la sua ubiquità e la sua oscillazione tra significati generici e signi­ ficati speciali. * Il tentativo di districarli può essere aiutato rendendosi conto che «aria», per quanto coincida in forma e suono con la parola che indica l’ambiente atmosferico nel quale viviamo, ha un diverso si­ gnificato fondamentale48, che possiamo cercare di spiegare con un pa­ rallelo con la parola inglese countenance. Come countenance può esse­ re usato per indicare i lineamenti che dànno ad un volto la sua fisiono­ mia individuale, così «aria» può essere usato per indicare i lineamenti che caratterizzano una particolare successione di note, e può essere quindi l’equivalente di «melodia». Ma countenance indica pure il com­ portamento di una persona, determinato dalla sua intima natura o

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dalle sue abitudini acquisite; e così pure «aria», applicato a qualunque elemento musicale (benché di preferenza ad uno melodico), indica la qualità di precisa definizione che questo sembra possedere, e il suo essere, per così dire, avviato su un decorso inevitabile - sia che questa inevitabilità derivi da tradizione, da ripetizione e abitudine, o da un intimo senso di coerenza e di direzione4** . Era sentimento generale che vi fosse una profonda contraddizione tra la natura e qualità di un’aria e le qualità melodiche delle molte li­ nee di una composizione polifonica. In quest’ultima il compito del compositore era quello di disegnare, distendere e intrecciare a suo pia­ cere un certo numero di linee melodiche, ciascuna delle quali poteva essere plausibile in se stessa ma usualmente mancava di aria, cioè di un senso di autonoma determinazione. Nel processo della composizio­ ne polifonica quel qualsiasi carattere melodico che ciascuna linea melo­ dica poteva inizialmente possedere - di solito più fortemente afferma­ to in punti di particolare importanza come l’entrata o il rientro di una parte - si affievoliva presto nella funzione meno impegnativa di prov­ vedere uno sfondo o un contrasto all’emergere di altre parti. Così, ben­ ché la parola fosse raramente pronunziata, il concetto di aria è profon­ damente inserito nel substrato delle persistenti e multiformi critiche cinquecentesche contro la polifonia. Se eliminiamo da queste critiche ogni elemento extra-musicale, sia esso il desiderio di riforma ecclesiastica o il sogno di far rivivere un’ar­ te classica, resta come residuo costante una profonda insoddisfazione prodotta dal fatto che la polifonia poteva accarezzare l’orecchio con morbide consonanze o con dissonanze ingegnosamente manovrate, po­ teva destare ammirazione per la perizia dei cantanti e per l’abilità inventiva del compositore, ma mancava del potere di cattivare e com­ muovere l’uditorio. Di questo stato di cose si davano di solito due spiegazioni. Secondo la prima di esse, la struttura e i modi di esecu­ zione della musica polifonica ostacolavano la comprensione del testo, col quale le concezioni estetiche del tempo identificavano il messag­ gio affettivo della composizione. Sebbene questa critica fosse ancora spesso ripetuta anche da coloro i quali, come Caccini, propendevano verso la seconda spiegazione, lo stato di cose non era gran che miglio­ rato dall’adozione di modi solistici di esecuzione del tipo di quelli indicati dalla frase «per cantare e sonare», né da nessun altro di quei tipi di esecuzione per i quali è stato coniato il termine «pseudo-mono­ dia». Così veniva ad apparire più appropriata la seconda, più classi­ cheggiante spiegazione; secondo la quale il suonare simultaneo di mol­ te linee melodiche aveva come risultato di neutralizzare il messaggio

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espressivo, Vethos, che ciascuna di esse presa individualmente avrebbe potuto trasmettere all’ascoltatore. La più chiara formulazione che io conosca di questa seconda opinione è quella di ima lettera, datata 16 febbraio 1549, di un tal Bernardino Cirillo, arciprete della Santa Casa di Loreto e più tardi commendatore dell’ospedale di Santo Spirito in Saxia di Roma, nonché amico del cardinale Marcello Cervini (poi papa Marcello II). Cirillo concludeva coll’invocare una riforma della musica religiosa che restaurasse la pratica del canto liturgico monofonico". Tra i vari meriti di Girolamo Mei, il vero mentore della cosidetta Camerata fiorentina, vi fu anche quello di aver capito che non era pos­ sibile neanche che singole linee possedessero un ethos fintantoché esse erano determinate dai criteri combinatori del polifonista e non dalla loro intima coerenza ad un modo ". Non abbiamo che da sostituire la parola «modo» con «aria» (e il suo ethos) per ritornare al nostro pun­ to di partenza. Perché nel Cinquecento il modo aveva da lungo tempo cessato di essere una forza che potesse influenzare la formulazione di una melodia, tranne che nella misura limitata dell’osservanza rituale di certe cadenze intermedie e di certi punti di arrivo. Né potevano gli scomparsi modi ecclesiastici essere sostituiti dal ripristinamento delle scale e dei sistemi di accordatura da gran tempo dimenticati degli an­ tichi; dacché malgrado i vari tentativi di risuscitarli (compresi quelli di Vicentino e di Vincenzo Galilei) il loro vero significato musicale era, allora come oggi, inafferrabile. L’unico concetto disponibile era quello piuttosto vago di aria; si sentiva e si affermava che certe melodie pos­ sedessero un’aria, mentre altre si negava che l’avessero (particolarmen­ te quelle di una composizione polifonica), sulla base di criteri intuitivi la cui validità non era menomata dalla mancanza di una definizione verbale. Cominciamo cosi a discernere nella sprezzatura e nel continuo di Caccini qualche cosa di più che i loro aspetti più ovvii collegati col mo­ mento dell’esecuzione”. Sprezzatura è non solo la sicurezza di se stesso dell’esecutore provetto, ma anche la naturalezza non imbrigliata e non deviata della melodia stessa, la sua «aria» di avere in sé la sua norma direttiva e la sua forza di propulsione. Ancora una volta l’orientamen­ to platoneggiante di Caccini lo porta a servirsi di una espressione alla quale l’essere filosoficamente dilettantesca non toglie di essere sugge­ stiva; la sua musica realizza in suoni «quella intera grazia ch’io sento nel mio animo risonare» ”, presupponendo quasi per ciascuna melodia un corso prestabilito, determinato da un modello nel mondo delle idee platoniche. Da parte sua il continuo contribuisce al fine estetico in quanto limita la propria definizione ad un minimo che, senza interfe­

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rire col libero corso (l’aria) della parte vocale, lo sostiene e lo intensi­ fica. Nel far questo il continuo esercita una sua particolare sprezzatura. Caccini aveva già fatto riferimento a questo aspetto, in base al quale la sprezzatura diventa una qualità armonica del continuo, nella prefazio­ ne de L'Euridice, là dove dice di avere «legato alcune volte le corde del basso, affine che nel trapassare delle molte dissonanze ch’entro vi sono, non si ripercuota la corda e l’udito ne venga offeso» M. Ma ancora più chiaramente egli stabilisce una relazione tra sprezzatura e procedi­ menti armonici nella introduzione a Le nuove musiche, nella quale egli dichiara di avere usato «una certa nobile sprezzatura di canto, tra­ passando talora per alcune false, tenendo però la corda del basso ferma, eccetto che quando io me ne volea servire all’uso comune...» M. Già molto tempo prima di Caccini e di Peri erano stati fatti tenta­ tivi di liberare l’invenzione melodica dalle strettoie della scrittura poli­ fonica. Fin dalla prima metà del secolo xvi si era tentato di colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa del senso modale con sostituti quali un’aria padovana, bergamasca o napoletana; i risultati tuttavia erano innanzitutto troppo impregnati di colore locale e di sottintesi umori­ stici per arrivare a trascendere il livello del divertimento piacevole e diventare criteri universali di pratica artistica. A questo riguardo è par­ ticolarmente istruttiva la storia della «canzone villanesca alla napole­ tana» o «aria napoletana»55. Composta inizialmente da compositori veramente napoletani che si proposero di catturare nella parte melo­ dica più acuta delle loro composizioni i modi e i manierismi dei cantori popolari, la napoletana si sviluppò presto come un genere di gran voga e fu sempre più spesso praticato da musicisti di ogni parte d’Italia ed anche stranieri. In questo processo però il suo particolare sapore me­ ridionale e il suo carattere popolare si andarono gradualmente atte­ nuando; il nome stesso acquistò un suono più gentile come «villanella alla napoletana», e fu poi anche sostituito da «villanella», tout court, o «canzonetta». Finalmente il genere si fuse con la voga più generica delle cosidette «musiche ariose», che giunse ad influire sullo stesso madrigale, fossero o non le sue collezioni a stampa esplicitamente inti­ tolate «madrigali ariosi»54. Durante tutto il processo la caratteristica costante è la presenza di un diretto impulso ritmico (che però non ha niente da fare con la danza) e di contorni melodici semplici e ben dise­ gnati della parte superiore, che non è che minimamente influenzata dall’insorgere delle voci più basse57. Anche nelle «musiche ariose», tuttavia, l’abitudine del composi­ tore di pensare nei termini tradizionali dei procedimenti contrappunti ­ stici (la «prima pratica») si riafferma nella continua osservanza di pre-

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cisi rapporti negli intervalli tra le varie parti. La stretta armonizzazione di ogni singola nota che ne veniva a risultare, spesso con ripetizioni di note rese necessarie nelle parti inferiori per adattarvi il testo”, è violentemente criticata da Peri in un passo che costituisce un parallelo alle osservazioni di Caccini sulla sprezzatura armonica. Peri afferma anche lui di aver tenuto il basso «fermo tra le false e le buone propor­ zioni»; ed egli ha fatto questo «perché il corso del ragionare non fe­ risse l’orecchio (quasi intoppando negli incontri delle ripercosse note, dalle consonanze più spesse) * e non paresse in un certo modo ballare al moto del basso...» Caccini riconobbe il proprio debito alla precedente letteratura di «musiche ariose» - oltre tutto Scipione del Palla, al quale egli fa spes­ so riferimento come suo famoso maestro e riconosciuto modello, è no­ to a noi come compositore di pezzi che appartengono a quella catego­ ria. Ma la maggior parte delle lunghe tirate di Caccini si riferisce ad un particolare sviluppo di quel genere; nel quale sviluppo i testi più facili, dialettali o popolari, cominciarono ad essere evitati, mentre l’at­ tenzione si concentrava sempre più su un’abbondante coloratura im­ provvisata". A questo punto il critico d’oggi si trova di faccia al proble­ ma di dare o rifiutare pieno credito all’insistenza con la quale Caccini descrive la coloratura come un essenziale elemento espressivo della sua musica. Personalmente sono propenso ad ammettere la sincerità delle sue asserzioni, prendendo in considerazione da una parte la vividità che una efficace esecuzione poteva infondere a «quei lunghi giri di voci semplici e doppi, cioè raddoppiate, intrecciate l’una nell’altra...»41, e dall’altra le reazioni di un uditorio condizionato da tradizioni, abitu­ dini e associazioni mentali diversi dai nostri. Occorre inoltre rendersi ben conto di quali fossero con precisione le intenzioni espressive di Caccini e che cosa egli intendesse dire quando parlò di «muovere l’af­ fetto dell’animo» del suo pubblico. La scelta di testi fatta da Caccini - fatta eccezione per L'Euridice, che egli intraprese a comporre per evidenti ragioni polemiche - è ge­ neralmente molto moderata dal punto di vista dell’intensità emotiva. Ancora più moderato è il modo nel quale egli li tratta. Il più delle vol­ te egli stabilisce uno stato d’animo misuratamente affettivo con un inizio recitativo della frase musicale (recitativo in senso moderno) e poi lo prolunga e lo inflette voluttuosamente verso una cadenza con ampie onde declinanti di coloratura. Nonostante i suoi tentativi dram­ matici del 1600, Caccini si direbbe essere stato contrario, come Cava­ lieri e Bardi, ai «tragici» scoppi di passione ddVEuridice di Peri, che continuò a criticare per anni, dicendoli monotoni e, nel migliore dei

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casi, «funerei»62. Possiamo compendiare i suoi ideali estetici come, da una parte, una vividità «recitativa» di esecuzione nel senso descritto più sopra, e dall’altra parte una partecipazione degli ascoltatori basata su una moderata adesione sentimentale e, ciò che più conta, sul com­ piacimento di un senso di aspettazione appagato dall’aria della sua musica. Ancora una ultima cosa va detta su Caccini, per quanto di impor­ tanza secondaria. Il suo vivo interesse per la coloratura vocale non rappresenta in alcun modo l’inizio di un’era di lussureggiante improv­ visazione vocale, che, se mai, era già stata praticata da vari decenni. Al contrario Caccini si oppone risolutamente e senza mezzi termini ai capricci dei cantanti; egli considera i suoi «passaggi» come uno dei più importanti veicoli di espressione musicale e ne fa affare suo, cosa che riguarda il compositore. Dai suoi scritti emerge chiaramente che, anche se agli esecutori era lasciata qualche libertà nell’applicazione di qual­ che ornamento vocale - come l’«intonazione», il «trillo» e il «grop­ po», che comunque assumevano nelle sue descrizioni un significato più dinamico che melodico6’ - Caccini esigeva che si eseguissero soltanto quei «passaggi» che lui stesso, il compositore, aveva provveduto co­ me parte intrinseca dell’aria della composizione. Egli si opponeva vio­ lentemente al vedere la sua musica «lacera e guasta» dai cantanti con l’uso improprio dell’ornamentazione64. Il gruppo di Peri, dal canto suo, criticava Caccini stesso per il suo troppo insistere nell’uso di abbelli­ menti vocali65. È diffìcile credere che l’una e l’altra critica possano ave­ re avuto l’effetto di sopprimere di colpo l’abitudine di ornamentazioni aggiunte ad libitum dai cantanti; tuttavia faceva parte della natura del nuovo stile l’opporsi a interpolazioni inopportune e il subordinare il virtuosismo vocale alle esigenze espressive della musica quali erano state concepite dal compositore66. È difficile determinare fino a che punto le soluzioni che Caccini die­ de ai problemi di uno stile espressivo di canto fossero esclusivamente sue. Peri, benché alquanto più giovane, poteva reggere il confronto con Caccini per una consimile educazione musicale e per una consimile esperienza di cantore professionista, per il quale, come vedremo tra poco, uno stile solistico di «cantar recitando» offriva un interesse non minore che per Caccini. Come il notevole parallelismo delle dichiara­ zioni dei due artisti su soggetti come la sprezzatura ed il continuo è pro­ babilmente il risultato di una reciproca influenza polemica, così è altrettanto ammissibile che essi si siano reciprocamente influenzati su altri punti durante il rapido, ma certamente non improvviso, processo della loro evoluzione stilistica.

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Le differenze derivano principalmente da differenze di temperamen­ to - più lirico quello di Caccini, più drammatico quello di Peri - e, come ulteriore conseguenza di quelle, dai diversi compiti che ciascun compositore si propose di attuare. Per quanto ne sappiamo, Peri, con la sola eccezione di un madrigale in eco che egli aveva composto ed ese­ guito per gli intermedi del 158967, cominciò a farsi notare come com­ positore con la Dafne, che si dice sia stata cominciata nel 1594“. Di conseguenza i suoi problemi furono fin dall’inizio di natura rappresen­ tativa in senso più stretto, accentrati sul bisogno di dare drammatica evidenza ad un testo. Egli fu però indotto anche ad esagerare questo punto per potere meglio distinguere le proprie realizzazioni da quelle di Caccini; ed a causa di questa esagerazione il suo «imitar col canto chi parla», ottenuto per mezzo di «un’armonia, che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che pi­ gliasse forma di cosa mezzana»69, è giunto ad essere interpretato come un secco recitativo, del quale lo stesso compositore si sarebbe confes­ sato colpevole. Effettivamente anche in questa dichiarazione della pre­ fazione del?Euridice la misura nella quale la musica di Peri «scende tanto dalla melodia del cantare» è precisata e limitata dalle parole che seguono; ed inoltre dobbiamo ricordarci che l’ossessione nei riguardi del testo era un sintomo della preoccupazione cinquecentesca nei riguar­ di dell’espressione. La musica di Peri è ben spesso anche più ricca di melodia di quella di Caccini; la differenza principale, che Peri trovò difficile esprimere a parole, consiste nella più vasta prospettiva e nella aperta continuità dei suoi monologhi e dialoghi in confronto con la definizione più ristretta di un pezzo chiuso che è fine a se stesso. Caccini da parte sua senti non meno di Peri il bisogno di una evidenza declamatoria del testo, e fu anch’egli portato a darle esagerato rilievo nelle sue prefazioni, per­ fino in casi in cui i fattori determinanti ovviamente sono altri70; ciò egli faceva non solo perché era uno degli assiomi estetici del suo tempo che il testo fosse il veicolo del contenuto emotivo, ma anche perché dal testo egli prendeva di solito ispirazione per la mossa iniziale delle sue frasi melodiche. Ritmo e accenti delle parole così divengono anche essi una parte costitutiva dell’aria (es. xlv). Come quella di Caccini anche la melodia di Peri incorpora nella sua aria il ritmo, l’accentuazione e la dinamica del testo, ma deve affron­ tare diversi problemi di sviluppo. A Peri è generalmente preclusa la pos­ sibilità di servirsi della coloratura per espandere un gesto iniziale, co­ me gli è preclusa la ripetizione del testo; anche la ripetizione melodica ha luogo raramente nella sua musica, perché ha bisogno di essere giu­

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stificata dal testo o dall’azione. Nelle cadenze egli deve di solito evitare il senso di ribadita affermazione finale che arrotonda la conclusione dei pezzi chiusi; al contrario, egli deve trovare sempre nuovi modi di dare il senso della continuità e infondere un nuovo impulso in quei punti dove il flusso del dialogo tende a ristagnare. I modi nei quali Peri risolve questi problèmi sono svariati. Per ottenere una rapida recita­ zione di testi spesso prolissi, le armonie di appoggio del continuo ten­ dono ad essere distanziate a piu grandi intervalli e ad estendere la sprez­ zatura armonica non soltanto, come nella musica di Caccini, a note di passaggio della coloratura, ma anche a note accentate da sillabe (es. xlvi). Cosi il continuo tende a perdere ogni vestigio di condotta linea­ re e a riservarla ai momenti di maggiore interesse lirico. La sua cre­ sciuta importanza armonica tende ad evitare le successioni cadenziali (benché a noi possano sembrare ancora troppo frequenti); in vece loro, armonie inattese o inattesi cambi di direzione tonale sono spesso usati per creare diversioni e per indicare nuovi stati d’animo. Pur ammet­ tendo che non mancano i moménti * nei quali l’interesse scade, si deve tuttavia ammirare la ricchezza di risorse che Peri dimostra nell’aderire

Esempio xlv. Giulio Caccini, Inizio del madrigale XI da Le nuove musiche (G. Marescotti, Firenze 1601-1602).

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al suo testo e nel riuscire ciò malgrado ad ottenere una chiara coerenza melodica, il cui risultato è una linea dotata di aria (es. xlvii). Infine, il momento «tragico» del pathos piu appassionato porta con sé il piu notevole spiegamento di armonie inconsuete e audaci, spesso attuate con procedimenti particolarmente irregolari; e tuttavia questo spiegamento di audacie armoniche può prestarsi (come nel ben noto esempio del canto di Orfeo alle porte dell’inferno) ad una organizza­ zione formale che non è meno notevole per il fatto che i suoi procedi­ menti derivano da procedimenti usati in madrigali. Caccini si contentava di stabilire uno stato d’animo affettivo e di lasciare che esso permeasse il breve arco dei suoi pezzi come un lento dolce veleno che scorresse nelle vene della sua coloratura. Peri, più simile in questo a Gesualdo e a Monteverdi, cerca di ritrarre passioni più intense, e sente il bisogno di tuffarsi nella loro corrente, di seguire il loro corso tortuoso e di esplorarne le profondità e le secche. Per espri­ mere non soltanto la passione ma la dialettica della passione la pura in­ telligibilità del testo non basta; è necessario uno scambio nel quale la

Esempio xlvi. Iacopo Peri, Frammento de Le musiche... sopra VEuridice (G. Marescotti, Firenze 16001601), p. 30.

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musica intensifica il significato e l’accentuazione della parola e ne riceve in cambio una motivazione e una direzione per la sua cieca forza. In questo modo la formulazione ritmica del testo drammatico e i suoi vari gradi di intensità enfatica diventano i criteri di naturalezza e ne­ cessità, cioè l’aria, della melodia drammatica.

Ciò che ho detto delle opere di Caccini e di Peri è stato volto a in­ dicare come esse nascano e prendano direzioni divergenti partendo dal

Esempio xlvii. Iacopo Peri, Inizio della prima scena de Le musiche... sopra VEuridice (G. Marescotti, Firenze 1600-1601), pp. 2-3. Pastore del Coro

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terreno comune delle tendenze musicali ed estetiche del loro tempo; & inoltre ad aiutare un ulteriore esame della drammaturgia dell’opera. Per dovere di precisione occorre aggiungere che oltre gli elementi di stile testé indicati ve ne erano molti altri presenti al momento di una esecuzione operistica che non sono indicati nelle partiture in nostro possesso. Essi vanno al di là della sprezzatura «recitativa» dei cantanti con la quale ci siamo già familiarizzati, e comprendono cambiamenti di tempo, cambiamenti nella disposizione di parti e nel colóre strumen­ tale del continuo’1, e forse anche interventi lineari di altri strumenti in aggiunta a quelli che provvedevano la fondamentale realizzazione del continuo72. Il fatto che questi elementi non fossero indicati per iscritto e potessero anche variare da una esecuzione all’altra non significa che essi non fossero accuratamente soppesati per conseguirne un effetto calcolato. Anche la più semplice «rappresentatione per musica» era provata e riprovata per mesi prima che si giungesse alla presentazione ufficiale”; ci confondiamo le idee quando diciamo che quegli elementi venivano improvvisati al momento dell’esecuzione. In realtà essi erano materia di cosi attenta considerazione e reciproca intesa da accostarsi ben da vicino ad un’altra tendenza caratteristica della musica di quel tempo, quella dello «stile concertato»74.

L'aura pastorale.

Potrà sembrare un paradosso che l’aria, sia pure come una indefi­ nibile qualità e finalità estetica, abbia potuto essere un fattore impor­ tante nella formulazione iniziale di uno stile che siamo abituati a con­ siderare essenzialmente come recitativo. Il paradosso tuttavia nasce più dalle nostre abitudini mentali che da una situazione di fatto. Siamo troppo abituati a pensare il primo «stile recitativo» in termini che si

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addicono al recitativo di un’epoca posteriore (e forse anche di quello pensiamo troppo esclusivamente come non-aria). Certamente vi sono delle barriere da sormontare per avere accesso ad un linguaggio musi­ cale i valori del quale si affermava esplicitamente che dovessero pren­ der vita al momento dell’esecuzione. Le difficoltà sono inoltre accre­ sciute da una notazione a noi non familiare, nella quale lunghe note spesso esprimono brevi valori di durata, e nulla suggerisce al lettore moderno dove occorra porre l’accento espressivo o ritmico75. Tuttavia abbiamo reso fin troppo facile l’adagiarci in una errata condanna di sterile intellettualismo col dar credito indiscriminatamente a tutto ciò che fu scritto o detto a Firenze sul volgere del secolo, e coll’ingigantir­ lo come il mito di un quarto di secolo di inetto teorizzare. Il disaccordo tra le asserzioni verbali e i fatti è reso evidente dal­ lo stesso Caccini nell’introduzione alle sue Nuove musiche del 1601 (1602). Dopo avere in precedenza citato Platone circa il fatto che la musica deve seguire, non precedere, parola e ritmo76, egli è costretto a dare imbarazzate giustificazioni per i pezzi della sua collezione che egli intitola «arie» - che sono dieci, di contro ai dodici «madrigali». In­ fatti non soltanto la maggior parte di queste arie applica la stessa mu­ sica alle varie strofe di un testo polistrofico (contraddicendo la moda dello slogan platonico), ma esse includono perfino alcune composizioni di un genere facile, ariette di ritmo quasi frottolistico: per esempio quel­ le numerate come sesta, ottava e nona aria, che somigliano molto alla canzonetta di Orfeo Ecco pur ch’a voi ritorno al principio dell’atto II dell’Or/eo di Monteverdi77. Il fatto è che l’aria è presente in tutte le collezioni pubblicate da Caccini anche in questo senso più specifico, e che il suo proposito, a dispetto di tutti i solenni preamboli estetici, è divertire76. Né la qualità musicale dei madrigali è molto diversa da quella delle arie; si può parlare di essi come di arie non strofiche (an­ che se non ne portano il nome) che hanno soltanto ripetizioni interne causate da ripetizioni del testo. Ci sbaglieremmo ancora una volta se pensassimo che il tempera­ mento melico di Caccini fosse la ragione di un suo eccezionale uso del­ l’aria7’. Un rapido sguardo alle due Euridici^ dVOrfeo, o a qualunque altra delle prime partiture d’opera pervenuteci, mostrerà che ciascuna di esse, lungi dall’essere una continua serie di recitativi aperti, include un certo numero di pezzi che hanno uno svolgimento chiuso, a sé stan­ te. Fermandoci per il momento all’opera di Peri, possiamo elencare in primo luogo il prologo, in sette strofe, ciascuna seguita da un breve ritornello strumentale (ne è data soltanto la linea del basso), e i cinque cori che segnano la fine dei cinque episodi, la maggior parte dei quali

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includono anche sezioni solistiche". Pure strofici, con due strofe per ciascuno, sono i canti di Tirsi nel secondo episodio e di Orfeo nell’ul­ timo, Nel puro ardor e Gioite al canto mio Antri ch’a’ miei lamenti (es. xlviii), cantato da Orfeo subito dopo il suo arrivo in scena nel secondo episodio, e Funeste piagge, la sua invocazione in forma di rondeau sulla soglia dell’inferno ", somigliano ai madrigali monostrofici di Caccini, benché entrambi spieghino una piu vasta gamma di emozioni che qualunque delle composizioni di Cac-

Esempio xlviii. Iacopo Peri, Madrigale di Orfeo da Le musiche... sopra l’Euridice (G. Marescotti, Firen­ ze 1600-1601), pp. 8-9.

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[più mosso]

Ma deh.perchési' len _ teltel WcarroJmnorWìe rohacce.se Per Peternocanvnln tardano il

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cini. Finalmente ci sono un certo numero di passaggi piu brevi che hanno una ben definita qualità cantabile. Uno di essi è la trionfale escla­ mazione di Orfeo, O fortunati miei dolci sospiri nel quarto episodio (es. xlix)“. A questo punto occorre mettere in rilievo che i protagonisti di entrambi i libretti operistici di Rinuccini (non i personaggi che danno loro il titolo) sono musicisti: Apollo, il dio della musica, e Orfeo, il leggendario cantore che, almeno nella versione del mito seguita da Rinuccini, è figlio di Apollo e della musa Calliope. Che il loro comune talento musicale non sia una pura coincidenza è confermato da altre opere più recenti. Il personaggio dal quale prende il titolo VEumelio di Agostino Agazzari, eseguito a Roma nel 1606, è un allegorico giova­ netto combattuto tra le lusinghe del piacere e gli appelli di ragione e virtù, ma è anche un provetto cantore - del tutto senza necessità dal punto di vista dell’esempio morale che egli è chiamato a dare “. L’anno dopo, 1607, Monteverdi e Alessandro Striggio jr presentarono a Man­ tova un’altra versione del mito d’Orfeo, che in gran parte scorre paral­ lela a quella che era stata data a Firenze con la musica di Peri e di Caccini". Sempre a Mantova, Apollo fu riportato sulla scena nel 1608, quando Marco da Gagliano rimise in musica la Dafne di Rinuccini. Non è possibile mettere in dubbio che tutti questi autori cercarono deliberatamente di giustificare il canto sulla scena - «cantar recitan­ do» - scegliendo come protagonisti figure musicali, intorno alle quali fosse anche possibile raggruppare altri cantanti. Questo modo di giustificare il canto è in linea con una costante tradizione del teatro italiano, in base alla quale l’esibizione sulla scena di uno o più personaggi rappresentati nell’atto di cantare, suonare, o danzare era un procedimento ormai consueto ed un gradito elemento di varietà. Si può anche aggiungere che in nessun altro genere tale uso trovava così largo impiego quanto in quello della pastorale dramma­

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tica o tragicommedia, nella quale categoria, in base alle classificazioni piuttosto rigorose dei generi drammatici prevalenti durante il periodo del tardo Rinascimento, non dobbiamo esitare a porre i primi libretti operistici'4. Tuttavia il suo ovvio intensificarsi nell'opera appena na­ scente, e la mancanza di una altrettanto ovvia distinzione stilistica tra i pezzi che rappresentano un «cantar recitando» e il resto della parti­ tura tradiscono i dubbi che dovettero agitare i creatori del nuovo tipo di «recitar cantando» sulla legittimità della loro creatura. Ho descritto in precedenza come realistica la posizione di Rinuc­ cini e Peri rispetto al «recitar cantando», in contrasto con la posizione formalistica di Cavalieri. Ma quella affermazione ha bisogno ora di ul­ teriori chiarimenti, dacché è evidente che nulla si allontanava maggior­ mente dalla realtà in uno spettacolo teatrale che il sistematico «imitar col canto chi parla». E tuttavia c’è un qualche cosa di realistico nella preoccupazione di Rinuccini e di Peri di dare una giustificazione al loro distaccarsi dalla realtà, una giustificazione che né gli organizzatori degli spettacolosi intermedi simbolici avevano sentito il bisogno di dare, né Cavalieri aveva fornito per le sue figurine danzanti e cantanti. Quella

Esempio xlix. Iacopo Peri, Canto di Orfeo da Le musiche... sopra l'Euridice (G. Marescotti, Firenze ióoo-6oi),p. 38.

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che entrambi offrirono nelle osservazioni introduttive al libretto e al­ la partitura delTEuridice - che un continuo cantare era stato usato dagli antichi nelle loro tragedie - era indubbiamente di moda ma trop­ po semplice, ed anche, come essi probabilmente sapevano, difficile da sostenere Era evidentemente intesa a fronteggiare le critiche più su­ perficiali con un ipsi jecerunt. A lungo andare risultarono più efficaci le difese interne che davano una motivazione al «recitar cantando» adornando i protagonisti dell’opera con le doti musicali più straordi­ narie e collocandoli nel clima specialissimo della pastorale. Come pastorali i primi libretti operistici hanno un tratto piuttosto inconsueto nel loro fare largo assegnamento su leggende e personaggi mitologici. Tuttavia una qualità mitica era sempre stata presente nella pastorale anche senza riferimento ad alcun mito particolare, in quanto il mondo della pastorale era quello della leggendaria età dell’oro, vaga­ mente localizzata in una immaginaria Arcadia o Tessaglia preistorica. In quella Utopia-Ucronia, non ancora guasta dai bisogni artificiali e dalle leggi del vivere sociale, e ancora in possesso della benedetta in­ nocenza, naturalezza e libertà, uomini e donne, cioè pastori e ninfe, erano non soltanto più felici che nel mondo che noi conosciamo, ma anche dotati di una spontanea sensibilità per l’espressione artistica, per la poesia e la musica. Cosi il sogno nostalgico di un’utopia di perfetta felicità si trasforma nella visione estetica di un mondo idealizzato, l’i­ mitazione del quale conduce non ad un crudo realismo ma ad una più raffinata, nonché più malleabile, verosimiglianza. Dei e semidei non sono spesso presenti nella pastorale; ma non son mai lontani, e se decidono di intervenire tra gli uomini il loro apparire improvviso causa reverenza ma non sorpresa. Né si trova niente di illogico nel loro discendere o ascendere portati su ali, su carri volanti, o su soffici cuscini di nuvole. In altre occasioni la loro presenza invi­ sibile si fa sentire o misticamente attraverso gli incomprensibili ver­ detti degli oracoli, o più poeticamente attraverso compiacenti risposte dell’eco, un effetto che aveva già da tempo richiamata l’attenzione dei musicisti. Finalmente, e questo è per noi il punto più importante, non c’è infrazione alla verosimiglianza nel fatto che gli dei siano cantori squisiti; anzi, a tutti i personaggi del paesaggio pastorale è dato il dono di esprimersi in versi e in un linguaggio che ha «un’armonia che avan­ za quella del parlare ordinario». Ciò è chiaramente Stabilito da Gua­ rini nella difesa della sua pastorale: «Or non è meraviglia se i pastori d’Arcadia, massimamente nobili, abbellivano di vaghezze poetiche i loro ragionamenti, essendo essi, più di tutte l’altre nazioni, amicissi­ mi delle muse». Egli continua poi citando Polibio a testimonianza del

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fatto «che tutti gli arcadi eran poeti, che ’1 principale studio, il princi­ pale esercizio loro era quel della musica, che l’apparavano da fanciulli, che le leggi a ciò fare li costringevano», e cosi via”. Può darsi che tali idee fossero presenti soltanto in modo vago nella mente di Rinuccini e di Peri — dopotutto l’associazione di dramma e musica è un impulso ricorrente in ogni genere di situazioni storiche e geografiche. Pur non di meno le idee di Guarini erano già nell’aria, specialmente a Firenze che Guarini aveva visitato nel 1588 e poi di nuovo visitò più di una volta nel 1599-1601, essendo allora almeno nominalmente dipendente dalla corte medicea; il suo Compendio della poesia tragicomica, dal quale la mia citazione è presa, benché pubbli­ cato nel 1602 era già noto a Firenze in manoscritto nel 1599°. A parer mio, un effetto della forte influenza esercitata dalle teorie del­ la poesia pastorale sul primo «stile rappresentativo» e sull’opera fu la mancanza di una chiara distinzione tra ciò che è discorso potenzia­ to dalla musica e ciò che è addirittura canto; una mancanza di distin­ zione che riafferma ancora una volta la larghezza con cui quello sti­ le era concepito, larghezza per la quale esso abbraccia l’intera gam­ ma di sfumature dalle espressioni più prosaiche e concrete agli slanci più lirici e perfino melodicamente floridi. Senza dubbio vi sono canti che sono evidentemente canti - «cantar recitando» - e sono di solito identificati per tali o dalla ripetizione della musica per più di una strofe del testo (mentre l’«imitar col canto chi parla» ubbidisce al principio madrigalistico per il quale nuove parole richiedono nuova musica), o da qualche esplicita indicazione del fatto che i personaggi stanno cantan­ do. Resta tuttavia un certo margine di dubbio. Per esempio, il già citato Funeste piagge neXVEuridice di Peri è chiaramente un canto, ma non è chiaro se le successive suppliche di Orfeo in dialogo con Plutone e Proserpina siano anch’esse canti (e quindi artistiche improvvisazioni dello straordinario cantore) o appassionate perorazioni oratorie”. Vi­ ceversa, nella scena iniziale, il dialogo di pastori e ninfe che si chia­ mano l’un l’altro a partecipare alla felicità di Euridice e ad assistere ai suoi preparativi nuziali è già melodioso fin dall’inizio, ma acquista via via maggior slancio, e culmina in canto aperto sul verso finale. Il verso stesso è ripetuto tre volte con tre differenti melodie da tre personaggi diversi, ed una quarta volta da tutto il coro; naturalmente anche nell’Arcadia beata non c’era pastore o ninfa che potesse ignorare il fatto che Non vede un simil par d'amanti il sole è una citazione da Petrarca90 ed ha bisogno di esser messo tra qualche sorta di virgolette. La mancanza di una ben marcata distinzione stilistica non è per niente circoscritta alle primissime opere. Anche quando i librettisti co­

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minciarono a separare più nettamente le scene recitative dalle situa­ zioni propizie all’aria e cominciarono a dar prova della loro ingegnosità nel moltiplicare le occasioni per quest’ultima, la distinzione è difficile da fare sulla semplice base dello stile musicale. Monteverdi restò sem­ pre essenzialmente * fedele alla concezione madrigalistica di una conti­ nuità stilistica, variata in innumerevoli sfumature, dell’espressione mu­ sicale. Le più tipiche arie di Cavalli, intorno alla metà del Seicento e anche più tardi, spesso prorompono in ciò che noi consideriamo reci­ tativo proprio al punto in cui raggiungono un culmine di commozione (es. l); e viceversa molti dei suoi recitativi spiegano all’improvviso le ali, sia pure per il breve volo di un singolo verso più esaltato”. La partitura a stampa de La catena d’Adone di Domenico Maz­ zocchi (Venezia 1626; era stata eseguita a Roma in quello stesso an­ no) ha due pezzi che sono classificati nell’indice come «arie recitative». Lo stesso termine potrebbe applicarsi alla cosidetta versione non or­ nata di Possente spirto nell’atto III deWOrfeo di Monteverdi, op­ pure, benché in un senso alquanto diverso, a molte arie e lamenti su basso ostinato. Esempio l. Francesco Cavalli, Due strofe di un’aria su basso ostinato da La Didone, atto I, scena iv. Dal ms Venezia, Biblioteca San Marco, Itai., cl. IV, 355. Cassandra

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L’aura pastorale che rendeva plausibile il «recitar cantando» non fu il solo lascito della pastorale all’opera. Altri, sui quali non posso soffermarmi, furono la regola quasi mai infranta del lieto fine, l’indul­ gere alla descrizione delle passioni amorose e la partecipazione di per­ sonaggi comici, benché questi fossero posti su un livello sociale piu basso di quello dei personaggi principali E ancora un altro elemento merita di essere ricordato per i suoi rapporti con l’uso di pezzi chiusi: la comune aspirazione dei due generi a stabilire un classico equilibrio tra, da una parte, libertà poetica ed intensità affettiva e, dall’altra par­ te, l’efficacia derivante da una solenne compostezza formale. È stato detto che la pastorale rappresenta tutto sommato il piu pie­ no adempimento conseguito dal Rinascimento italiano nel suo sforzo di ricreare la tragedia antica. Il fine potè essere raggiunto soltanto ri­ pudiando il principio che i soggetti dovessero essere storici - troppo prosaici e deprimenti! - ed evitando gli scogli insidiosi della catarsi etica - mai chiaramente capita, e in ogni modo troppo pericolosa in un tempo nel quale si intensificava il controllo della Controriforma sulle arti. In sua vece una più tangibile catarsi era offerta al pubblico non soltanto dal piacevole sollievo derivante dal lieto fine”, ma anche dal continuo equilibrato distribuirsi dell’interesse tra il contenuto e Fin-

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gegnosità della sua formulazione artistica. Per quanto riguarda l’opera io ho trovato possibile paragonare VEuridice ad un fregio di metope e l’Orfeo di Monteverdi ài timpano triangolare di un tempio classico”. Questi paragoni hanno un valore molto limitato, ma cercano di tradur­ re in parole un senso di classico equilibrio che è troppo vividamente presente nelle partiture per essere considerato come una semplice coin­ cidenza”. Benché quest’equilibrio dovesse presto cedere il passo alla piu barocca concezione dell’azione drammatica come un continuo ac­ cumularsi di tensioni, volta a volta risolte dalla distensione prodotta da un cambio improvviso di stati d’animo, l’interesse verso un equili­ brato schema di organizzazione può ancora essere intravisto in qualcu­ na delle opere romane, per esempio nella Morte d’Orfeo (1619) e nel Sant'Alessio (1631-34), entrambi di Stefano Landi. I mezzi dei quali il compositore poteva disporre per ottenere questo senso di equilibrio consistevano soprattutto nella distribuzione e cor­ relazione dei pezzi chiusi, tanto quelli che appartenevano, al tipo rea­ listico - musicisti rappresentati nell’atto di far musica - quanto e an­ cor più spesso quelli che si appoggiavano su convenzioni teatrali sta­ bilite e accettate già molto tempo prima dell’inizio dell’opera. A que­ sto secondo tipo appartengono il prologo e i cori, che io ho citato più sopra in un sol fascio con le arie dell’Euridice. Se volessimo fare .una consimile lista di pezzi chiusi per VOrfeo, vi dovremmo aggiungere i duetti e terzetti che hanno una parte cosi importante nei due primi atti. I cori sono pezzi chiusi, sufficienti a se stessi, non meno delle arie; hanno in comune con molte arie una struttura strofica, e avrebbero bisogno ancor più delle arie di una giustificazione che li riconcilii con la verosimiglianza. Malgrado ciò, a dispetto del molto discorrere rina­ scimentale sull’imitazione della natura, e a dispetto della tendenza al realismo della commedia e tragedia italiane, la legittimità del fatto cospicuamente inverosimile che un certo numero di personaggi potes­ sero trovare all’improvviso un comune consenso di opinioni, ed anche il modo di esprimerlo vocalmente in un armonioso pezzo d’insieme, non pare divenisse mai oggetto di discussione. Nella tragedia ciò era confortato dal precedente classico - era anzi una delle caratteristiche formali più ovvie del modello; nella commedia aveva un riconosci­ mento meno formale, ma tuttavia venne ad essere accettato, di solito sotto forma di una mascherata, come un possibile tipo di intermedio ** . In modo analogo, benché gli autori drammatici preferissero più spesso i prologhi parlati come veicolo delle loro espressioni programmatiche”, i prologhi cantati erano pure stati una accettabile alternativa per lo meno fin dall’inizio del Cinquecento. Le strofe di quattro versi, can-

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tate da un solo personaggio allegorico o mitologico, che troviamo usate con uniforme regolarità nelle prime opere, si direbbe siano la continua­ zione di una pratica affermatasi già in precedenti forme teatrali”. Prologhi e cori, poco più che comodi accessori teatrali nel teatro del primo Rinascimento, giunsero all’opera con lo stato sociale di accre­ sciuta dignità che avevano acquistato nella pastorale dall’importanza accordata da quel genere ad ogni genere di accorgimenti artistici, parti­ colarmente a quelli connessi con la musica. Nello stesso ordine di idee anche duetti e terzetti, quando non furono usati realisticamente per rappresentare il cantare in concerto di due o tre personaggi, acquista­ rono un significato formale come una estensione del concetto rinasci­ mentale di coro ”, o come equivalente di un altro procedimento classi­ co, la sticomitia1W. In tal modo l’ottimismo utopistico della pastorale, mentre cedeva alle tendenze di evasione del suo tempo, consentiva di realizzare attraverso l’elasticità della verosimiglianza ingegnosi effetti formali che erano un ultimo residuo dell’ideale di classicità.

«Recitar cantando» e aria nei primi decenni della storia dell'opera. La storia del primo mezzo secolo di attività operistica non può es­ sere descritta come una linea retta. Malgrado la forte spinta iniziale della pastorale, molte altre influenze e condizioni occasionali o locali lasciarono la loro impronta sulle singole opere, mentre, pur dietro la persistente abitudine di un razionalizzare umanistico, i veri motivi si andavano rapidamente estraniando dall’essenza del classicismo. Non è mia intenzione di dar qui un resoconto particolareggiato di quel pe­ riodo, per il quale posso rimandare al profilo fondamentale che ne dà Donald Grout nel suo classico lavoro sull’opera. Mi limiterò invece ad esaminare alcune delle convenzioni che resero possibili arie e pezzi chiusi entro la cornice, se non del realismo, della verosimiglianza che l’opera aveva ereditata dalle regole del teatro rinascimentale. Ho già designato VEuridice di Peri come punto di partenza del­ l’opera, descrivendola come una creatura gentile, amabile e vitale (ben­ ché fragile). La sua vitalità come opera d’arte, tuttavia, non sarebbe bastata a garantire vitalità al genere al quale essa apparteneva di con­ tro a condizioni avverse e ad una fiera concorrenza. L’opera dovette competere da una parte contro la più ricca articolazione di intreccio e di dialogo concessa al teatro parlato, e dall’altra contro un certo nume­ ro di altri generi nei quali la musica era associata ad azioni meno dram-

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matiche ma piu spettacolari. La concorrenza fu particolarmente forte a Firenze, dove i due tipi di competitori si erano da lungo tempo al­ leati nella esibizionistica tradizione di commedie parlate con splendidi, portentosi intermedi, mentre la normale vita di corte favoriva un certo numero di trattenimenti musicali di minore importanza ma più facil­ mente realizzabili ,0‘. Di conseguenza una fase fiorentina della storia dell’opera è praticamente quasi inesistente, dopo l’inizio nel 1600, fino a circa la metà del secolo xvn,02. Il nuovo genere avrebbe potuto anche non sopravvivere se non fosse stato trapiantato e se non gli fosse stato infuso nuovo vigore prima a Mantova, poi a Roma, e finalmente a Venezia. In ciascuna di queste città la concorrenza dovette essere nuovamen­ te affrontata e l’approvazione ottenuta usando perseveranza, ingegno­ sità ed una certa dose di compromessi. A Mantova, per esempio, le due spettacolari apoteosi che sostituirono i finali che erano stati inizialmen­ te progettati per l’Orfeo e per l’Arianna rappresentarono un compro­ messo col genere degli intermedi,M. Nel caso di Arianna, il primo con­ sapevole tentativo dell’opera di rivaleggiare col teatro parlato, il com­ promesso funzionò anche in una maniera differente, per quanto ana­ loga. Rinuccini, che si era già gingillato con Videa della tragedia al tem­ po delYEuridice, dovette essere felice quando gli si presentò la possi­ bilità di creare una tragedia regolare, o per lo meno un lavoro teatrale con molte delle caratteristiche di una tragedia teatrale, avendo al suo fianco come musicista niente di meno che Monteverdi. Tuttavia l’espe­ rimento, più arrischiato di quanto ci si possa rendere conto, destò non poca preoccupazione nella corte di Mantova, dove si pensò che l’intrec­ cio risultasse troppo asciutto. Cioè a dire troppo umano, perché è in­ negabile che, mentre i pescatori di Nasso, che nell’intreccio dell’Arian­ na prendono il posto dei pastori e ninfe di Arcadia, possono ancora lo­ dare la primitiva semplicità della loro vita, l’aura pastorale e la beata innocenza dell’età dell’oro hanno completamente abbandonato Teseo, Arianna e i loro corteggi. Essi non sono altro che uomini e donne, le­ gati agli usi, alle leggi e perfino a considerazioni politiche, dai quali de­ rivano le loro difficoltà, poco adatte ad essere espresse in canto a meno che non raggiungano un parossismo di disperazione. Il compromesso suggerito da un comitato di consiglieri e attuato nella rappresentazione mantovana deve avere interessato non soltanto la già ricordata spetta­ colare e melodiosa apoteosi, ma anche una notevole dose di floridità vocale introdotta da Venere e Amore nel primo episodio1M. I due indirizzi cosf inaugurati a Mantova possono essere considera­ ti come distinti in teoria, ma spesso si intersecarono nella pratica. Pos­

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siamo riconoscere l’influenza degli intermedi in quelle opere, di solito grandi avvenimenti di corte, che includevano cori danzati e grandiosi effetti scenografici, i quali erano di solito collocati alla fine degli atti, evidentemente per funzionare come intermedi. Sono da mettere in questa categoria la già ricordata Catena d’Adone (Roma 1626), la Flora di Marco da Gagliano (Firenze 1628) e, ancora molto più tardi, il Po­ mo d'oro di Cesti (Vienna 1667-68). Fino a un certo punto si può an­ che riconoscere l’influenza degli intermedi nell’evoluzione del prologo, che fu dapprima esteso aggiungendo all’originale canto strofico di un singolo personaggio un coro e qualche azione spettacolare; e fu poi trasformato in un lungo dialogare o altercare di varie deità o figure allegoriche, per il quale erano necessarie una scena particolare e, il più delle volte, ingegnose macchine teatrali,0$. Questo nuovo tipo di pro­ logo, tuttavia, spesso introduce nell’azione susseguente un piano di causalità diverso da quello delle azioni umane; e può eventualmente ricevere nuovi sviluppi in altre scene dello stesso genere (non sempre situate nella posizione propria ad un intermedio) fino a formare un secondo intreccio di natura mitologica o allegorica, che interferisce con l’intreccio principale (benché i personaggi umani non sempre siano consapevoli della sua esistenza) e spesso determina gli improvvisi ca­ povolgimenti della peripezia. Esempi ben noti di questo procedere su due piani sono la Bidone di Cavalli (1640), nonché il Ritorno d'Ulisse (1640) e le Nozze d'Enea con Lavinia (1641 ?) di Monteverdi,06, i quali lo derivano dai loro modelli virgiliani o omerici. Lo stesso procedimen­ to, tuttavia, si trova applicato senza una analoga giustificazione nella maggior parte delle prime opere veneziane; per non dire di quegli in­ trecci che sono ancora completamente pastorali o completamente mi­ tologici 107. Se ne deve trarre la conclusione che, come era stato il caso per il pubblico dell’Arianna trentanni prima, il pubblico veneziano non era del tutto preparato alla novità del «recitar cantando» offerto còme il mezzo normale di espressione per esseri umani; di conseguenza era del tutto naturale che i librettisti scegliessero temi che o ancora conservas­ sero l’aura mitologica o pastorale, o potessero essere sviluppati su un doppio piano, almeno uno dei quali avrebbe permesso al compositore di avere più libera mano e avrebbe compensato le limitazioni alle qua­ li egli era costretto nel trattare i personaggi umani Questa ipotesi è confermata dal fatto che anche sul piano umano librettisti e composi­ tori moltiplicarono le occasioni per il «cantar recitando». Nell\4«dromeda di Benedetto Ferrari (1637) un gruppo di ninfe conclude una fortunata caccia al cinghiale con canti e danze; nella Maga fulminata

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dello stesso autore (1638) due cavalieri erranti cantano un duetto mentre viaggiano su un battello e si sentono rispondere da non meno di tre sirene. I canti conviviali dei pretendenti di Penelope nel Ritorno d'Ulisse trovano un parallelo in un concerto offerto ne La finta pazza (1641) ad un gruppo di visitatori. Una festa dà ai personaggi principali de Gli amori di Giasone, et di Issifile (1642) l’occasione di cantare in onore di Venere e di Bellona; si uniscono a loro due personaggi comici che cantano in onore di Bacco e Priapo e tre fanciulle che lodano le tre Grazie. La Venere gelosa (1643) ha una gara di canto che ricorda quel­ la del Tannhauser. Finalmente, pochissime eroine dell’opera trascura­ no di farci sapere con un loro canto quanto libere esse siano, inizial­ mente, da ogni preoccupazione amorosa; parecchie tra loro si distin­ guono per la loro capacità di accompagnare il proprio canto sull’arpa o sulla cetra109; ed una Aventina de La finta savia (1642), dà un con­ certo in piena regola quando si propone di descrivere le statue di un giardino in una serie di canti. La crescita lussureggiante dell’opera veneziana, dopo la fase ini­ ziale di aggiustamento è ricca di esempi dei vari modi nei quali i compo­ sitori si sforzarono di fare accettare dal pubblico il «recitar cantando». Tuttavia dobbiamo renderci conto che l’opera probabilmente non sa­ rebbe mai diventata il genere di spettacolo che noi conosciamo senza un certo numero di circostanze collegate col suo precedente sviluppo a Roma. A Roma il governo papale aveva fortemente ostacolato le rap­ presentazioni dei comici professionisti dell'arte, che altrove costituiva­ no un’alternativa bene accetta agli spettacoli di corte, molto più raffi­ nati ma costosi e quindi infrequenti. Il vuoto che ne derivava, soltanto parzialmente colmato da spettacoli di dilettanti,10, diede all’opera l’op­ portunità di essere più che una timida concorrente del teatro parlato. Le prime rappresentazioni d’opera erano state date a Roma da fio­ rentini — come fu il caso dell’Aretusa di Filippo Vitali, eseguita nel 1621 con la partecipazione del figlio di Caccini, Pompeo, come pittore di scene e cantante — o avevano seguito musicalmente e drammaticamente il modello fiorentino, come per esempio la Morte d’Orfeo di Stefano Landi (1619). Un indirizzo diverso fu iniziato nel 1623 con l’avvento di Maffeo Barberini come papa Urbano Vili e con l’affer­ marsi dei suoi tre nipoti come gli arbitri della vita mondana romana; presto fu instaurata una regolare consuetudine di rappresentazioni ope­ ristiche, che erano date ogni anno durante il tempo di carnevale, o in occasione di visite principesche, nell’uno o nell’altro dei vari palazzi dei Barberini, o nel palazzo della Cancelleria, residenza ufficiale del car­ dinale Francesco Barberini111. L’opera cosi divenne la principale forma

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di attività teatrale a Roma, e come tale allargò la sfera dei suoi soggetti, includendovi, accanto ai tradizionali argomenti pastorali, mitologici e allegorici, intrecci derivati dai poemi più famosi dell’epica (La catena d* Adone y 1626; Il ritorno di Angelica dalle Indie, 1628; Erminia sul Giordanoy 1633; Il palazzo incantato dfAtlante, 1642), dall’agiografia (Sant'Alessio, 1631 e 1634; SantaTeodoray 1635; San Bonifatio, 1638) o anche dalla commedia dell’arte (Il falcone, 1637, replicato nel 1639 come Chi soffre speri) "2. Un segno esteriore di mutamento fu il gra­ duale abbandono dei sottotitoli del genere di «favola» o «pastorale», in favore di «commedia per musica», o anche semplicemente «com­ media» Sotto la crescente influenza esercitata dal teatro spagnuolo sull’attività teatrale italiana, il termine aveva perduto il suo significato indicativo di un genere comico precisamente determinato; significava piuttosto qualunque genere di azione teatrale sviluppata principalmen­ te attraverso il dialogo ed era diventato altrettanto neutrale quanto «opera», il termine che doveva ben presto prevalere nel teatro mu­ sicale. Per se stessa la transizione ad intrecci derivati dai poemi epici non faceva molta differenza. Il mondo guerresco dei racconti di Ariosto e di Tasso, l’età d’oro della cavalleria, era non meno irreale ed utopisti­ co che l’età dell’oro pastorale"4. Ma non offriva alcuna specifica giusti­ ficazione al «recitar cantando». Si direbbe dunque che due decenni di opera fossero stati sufficienti ad accreditare la rappresentazione tutta in canto, inizialmente privilegio esclusivo di pastori e dei, come una tradizione teatrale ben stabilita. Pubblici e critici si erano assuefatti alla novità ed avevano cessato di porre in dubbio la sua legittimità; dacché è un fatto riconosciuto che la disposizione favorevole del pub­ blico verso un determinato modo di rappresentazione, nel teatro o in qualsiasi altra attività artistica, ha più importanza delle giustificazioni razionali che ne dà l’autore. Una volta stabilita la buona volontà di il­ ludersi, di solito semplicemente attraverso un processo di ripetizione e abitudine, l’illusione è creata qualunque sia il grado in cui la rappre­ sentazione è fedele alla realtà. Il desiderio dei Barberini e del loro favorito librettista, monsignor Rospigliosi, di eliminare gli spettacoli spesso indecenti della commedia dell’arte con l’equiparare l’opera al teatro parlato, può avere contri­ buito al rapido affermarsi sulla scena del «recitar cantando» come l’e­ quivalente della parola. Sta di fatto, in ogni modo, che il maggiore sviluppo dell’azione, l’accresciuto numero dei personaggi, l’introduzio­ ne di azioni secondarie, della peripezia, di travestimenti e agnizioni, creò larghe sequenze dell’azione nelle quali una rapida enunciazione e

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comunicazione del testo diventava più essenziale che il suo essere in musica. L’unica ragione che mi fa esitare a identificare tale procedimen­ to col più recente «recitativo secco» è che quest’ultimo fu principal­ mente caratterizzato da uno speciale modo di accompagnamento, non necessariamente da una mancanza di interesse musicale1 . È certamente una fortuna il poter disporre di un certo numero di partiture appartenenti a questo periodo. Dobbiamo renderci conto, tut­ tavia, che esse rappresentano soltanto un vantaggio di poco maggiore che l’avere a disposizione soltanto i libretti, e che in un certo senso questi ultimi sono la guida più importante per un tipo di opere che furono fondamentalmente concepite come commedie. La musica non era che uno tra i molti elementi che contribuivano a proiettare quel disegno fondamentale attraverso le luci della ribalta; ed era raramente più importante che la messa in scena, i costumi, la recitazione, le bat­ tute dei personaggi comici, e, non ultimi, quelli che oggi chiamerem­ mo «effetti speciali». Il fatto che la musica non era che uno dei molti ingredienti della ricetta teatrale spiega la grande varietà di interesse musicale - potremmo dire di dosatura musicale - che si riscontra nelle varie partiture che sopravvivono. Ne La catena d Adone * del 1626 il recitativo più appassionato è ancora il punto centrale di interesse, al­ ternato per motivi di varietà con cori e danze; ma la Diana schernita del 1629 (che noi conosciamo come il suo più immediato successore) sviluppa quasi esclusivamente il suo intreccio satirico e quasi da spo­ gliarello in un piatto stile parlato, alleviato soltanto da un lungo canto di Endimione (nel terzo atto) e da un finale corale nel quale il cadavere di Endimione del tutto incongruamente è trasformato in un giglio sul quale vanno a posarsi le api barberiniane. Lo stile parlato prevale in varia misura nelle successive opere barberipiane. Nel San Bonifatio (1638), nel quale il recitativo è raramente interrotto da arie, una ul­ teriore mancanza di varietà musicale deriva dal fatto - certamente do­ vuto all’occasione e alle circostanze della rappresentazione - che tut­ ti i personaggi sono soprani, inclusi il Diavolo e uno spaccone capi­ tano spagnuolo116. In complesso la caratteristica predominante dell’opera romana, e la più tipica eredità da essa lasciata al genere operistico, lungi dall’es­ sere la ricchezza dei cori (di solito ristretta agli intermedi, che potevano essere soppressi o cambiati) sta nella sua vicinanza ai modi di esecuzio­ ne della commedia parlata, probabilmente concepita come un raffina­ mento di quei modi. Questa affinità condusse da una parte a quella continua impellente propulsione che caratterizza il ritmo della comme­ dia, e dall’altra, poiché la «commedia» è dopotutto una commedia 12

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musicale, alla creazione di punti' di specifico interesse musicale, che servono nella maggior parte dei casi come preparazione o punto d’ar­ rivo dell’azione «comica» - o come una momentanea diversione. Que­ sto non vuol dire che l’azione «comica» fosse completamente priva di interesse musicale; al contrario, molti dei procedimenti che conferisco­ no un notevole interesse musicale ai monologhi e dialoghi di Cavalli erano già stati tentati nell’opera romana. Il procedimento realistico, il canto come canto, è di gran lunga il modo più facile per introdurre passi di un interesse più spiccatamente musicale - lo abbiamo già visto parlando dei pretesti inventati per dar luogo al canto dai librettisti veneziani. A Venezia, tuttavia, non esiste­ vano le speciali condizioni che avevano fatto dell’opera romana un sur­ rogato del teatro parlato, e il pubblico aveva bisogno di essere gradual­ mente assuefatto alla novità delle convenzioni operistiche. Malgrado ciò il «cantar recitando» di tipo realistico fu praticato anche a Roma; può servire come esempio la scena iv, dell’atto II di Chi soffre speri, nella quale i servi Zanni e Coviello - l’uno bergamasco, l’altro napo­ letano, tutti e due noti personaggi della commedia dell’arte - distrag­ gono un giovane pastore col canto di una bergamasca e di un canto guerresco e cosi riescono a rubargli la merenda. Il terzo atto della stes­ sa opera si apre con lo stesso pastorello che loda la sua vita spensierata in un canto che è da una parte una ovvia reminiscenza della tradizione pastorale, ma allo stesso tempo è connesso con l’uso di presentare un personaggio nell’atto di cantare da solo e per se stesso mentre attende a un compito o ad uno svago consueto. Pastori, fanciulle che colgono fiori e se ne adornano, o minori deità che entrano in scena per recare un messaggio, sono spesso presentati in tal modo. Il procedimento è ancora più spontaneo con i personaggi comici, le cui scene a solo spesso divengono dirette apostrofi al pubblico con commenti satirici o salaci sulla vita contemporanea - una situazione tanto più ridicola quando il personaggio è una figura mitologica dalla quale ci si aspetterebbe un contegno classicamente composto I personaggi seri si prestano meno a questo trapassare direttamente al canto. Nel loro caso il monologo prende la forma di un recitativo con alti e bassi di intensità emotiva e stati d’animo alterni. Tuttavia Ste­ fano Landi non esitò a concludere il monologo che presenta sant’Ales­ sio al pubblico (atto I, scena il) con una «arietta» in due strofe che conclude la meditazione del santo sulla vanità della vita Ne La ca­ tena d’Adone (atto III, scena i) le riflessioni angosciate di un filosofo sulle azioni impulsive di Falsirena rivertono periodicamente ad una «mezz’aria» nella quale egli afferma che «la ragion perde dove il senso

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abbonda»'”. Nel Ritorno d'Ulisse di Monteverdi (atto I, scena 1) la contemplazione di come le cose «ritornino» in natura assume quasi le caratteristiche di un’aria nel lungo monologo di presentazione di Pe­ nelope (le brevi interruzioni di Ericlea non alterano la situazione); poi il pensiero della continuata assenza di Ulisse riporta il recitativo ad una conclusione piu appassionata (e quindi anch’essa ricca di interesse musicale). Il monologo di Penelope e la meditazione di sant’Alessio spianano la via al lamento e alla preghiera, le due convenzioni che permisero i pezzi chiusi di maggiore effetto nel primo periodo dell’opera, e per en­ trambe le quali l’esempio di Monteverdi contribuì in modo decisivo. Nomino per primo il lamento perché era già stato largamente utilizza­ to ancor prima che quello cantato da Arianna nel 1608 muovesse il pubblico alle lagrime e si imprimesse nella mente di ogni italiano ap­ passionato di musica. Dopo L'Arianna i compositori divennero tanto consapevoli dell’efficacia del lamento che ne abusarono fino alla cari­ catura. Tale infatti è il caso delì'Aretusa, che si apre con Alfeo che dichiara al pubblico il suo amore non ricambiato da Aretusa, ed è se­ guito da Aretusa turbata da un sogno minaccioso, dal padre di Aretusa che rumina su certe oscure premonizioni, dal fratello di Aretusa che si preoccupa che non le accada qualcosa di male durante la caccia, da un pastore che viene in scena a portare la triste notizia della morte di Are­ tusa e del dolore di Alfeo, e finalmente dallo stesso Alfeo e da un deso­ lato finale corale. Qualche scena di «cantar recitando» e cori non ba­ stano a provvedere un sollievo da quest’orgia di deplorazione musi­ cale. Il lamento fu concepito inizialmente come un recitativo madri­ galistico; e tuttavia ricevette già una certa elaborazione formale in Funeste piagge di Peri e Lasciatemi morire di Monteverdi. Durante il decennio 1620-30 prese a prestito dalla nascente «cantada» la forma di un’aria su basso ostinato, che ho già descritto come una specie di pezzo chiuso recitativo1®. Ancor più tardi, quando le molte repliche ebbero tolta efficacia al contrasto tra libertà recitativa del canto e in­ flessibilità dell’ostinato, il lamento divenne un’aria accorata, di solito preparata da un recitativo, e che a volte, ma non sempre, sfociava in un recitativo al suo punto culminante. Una contribuzione ancora più personale fu quella della preghiera nel terzo atto dell’Or/eo di Monteverdi, per la quale la doppia versione data dalla partitura ci concede il privilegio di intravedere lo sviluppar­ si di un concetto poetico. Non c’è dubbio per me che la versione non ornata del pezzo non è una versione schematica destinata ad essere ab­ bellita a gusto dell’esecutore, ma una piena realizzazióne della pre-

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ghiera che segue i principi oratori del primo «stile rappresentativo»121 È anche una preghiera nei termini familiari di miseria umana e di spe­ ranza fiduciosa in un potere sovrumano. Occorse un tocco di genio, do­ po averne concepito con successo l’intera serie di variazioni strofiche sopra le ripetizioni di una stessa linea di basso per dare allo stesso materiale - alla stessa aria vorrei dire, e non in un senso puramente formale - uno spirito completamente nuovo e piu sottile, rielaboran­ dolo come un rito «orfico», una incantagione altamente stilizzata e iera­ ticamente formalizzata, con la quale un cantore più che umano blandi­ sce e soggioga le forze oscure che intralciano il suo cammino. Sia come preghiera che come incantagione il canto di Orfeo lasciò il suo segno nella storia dell’opera. Il Sant'Alessio include non meno di tre pre­ ghiere: una è l’«arietta» ricordata più sopra, una invocazione alla mor­ te, che venga; una seconda è un coro (atto I, scena v) che chiede la divina protezione per Alessio dovunque egli si trovi-, e la terza è ancora una volta un’aria strofica (atto II, scena vii) che saluta l’arrivo sospi­ rato della morte, annunziata ad Alessio da un angelo Un’altra pre­ ghiera è rivolta da Psiche a Giunone in Amore e Psiche (Venezia 1642; atto II, scena iv), ma non ne è rimasta la musica. Al di fuori di questi esempi non ci sono molte preghiere nel mondo dell’opera. Non dob­ biamo meravigliarci che le tre incluse nel Sant’Alessio hanno tutte forma d’aria, se consideriamo che era già trascorso più di un quarto di secolo dall’Or/eo. Abbiamo maggior ragione di maraviglia quando la maga Falsirena de La catena d’Adone evoca Pluto in una «[aria] reci­ tativa per ottave»121. Ma La catena d’Adone è probabilmente l’ultima tra le opere romane nella quale gli ideali del primo «stile rappresen­ tativo» sono ancora applicati con pieno vigore. Ed inoltre l’evocazione di Pluto da parte di Falsirena è interpretata come una formula proibi­ ta da pronunziare in segreto; lo stesso concetto di penombra e di mi­ stero è applicato quando Plutone riluttando risponde alle domande di Falsirena, ancora una volta con una «recitativa per ottave». Ci devono essere stati molti altri esempi di arie di incantagione, dato che maghi e maghe abbondano nell’opera secentesca, come dèi resto nella maggior parte della storia dell’opera. La controparte monte­ verdiana di Falsirena, il fantomatico progetto della sua Armida, è per noi soltanto un titolo ma Armida ritorna in Erminia sul Giordano (Roma 1633) e, con l’aiuto di meccanismi teatrali, evoca all’improv­ viso le mura di Gerusalemme sol per conoscere come proceda l’asse­ dio. Ella riguadagna gli onori del titolo nell’Armida di Benedetto Fer­ rari (Venezia 1639) ed ha una sorella ne La maga fulminata dello stesso (Venezia 1638). È il principale ruolo femminile ne L’Amore trionfante

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dello Sdegno (Ferrara 1641 e 1642), musica di Marazzoli su libretto di Ascanio Pio di Savoja,26. Gli intrecci in cui appare Armida non sono i soli ad includere motivi di magia; basti soltanto ricordare 11 palazzo incantato dfAtlante di Luigi Rossi (Roma 1642), nel quale il tema centrale è la macchinazione di un mago. Ma o le partiture sono perdu­ te, o i compositori non continuarono a servirsi di scene di magia e di incanto, sicché Punico altro esempio che io possa citare è la ben nota scena di Medea nel Giasone di Cavalli (Venezia 1649). Monteverdi fu anche Foriginale creatore, per quanto ne sappiamo, della descrizione musicale della pazzia, un’altra trovata musicale che ebbe un certo successo tra i compositori e il pubblico. Benché affine al monologo - è infatti un monologo anche se vi possono essere presenti altri personaggi - la sequenza drammatica della follia musicale è di natura comica, ed è affidata non ad un crescendo di intensità affettiva, ma a scarti improvvisi da un’idea all’altra, su ciascuna delle quali il personaggio affetto da follia (o che la simula) si concentra volta per volta con la massima intensità. A dire di Monteverdi, «perché la immitatione di tal finta pazzia dovendo haver la consideratione solo che nel presente et non nel passato et nel futuro [, e] per conseguenza, la immitatione dovendo haver il suo appoggiamento sopra alla parola et non sopra al senso della clausula, quando dunque parlerà di guerra bisogne­ rà inmitar di guerra, quando di pace pace, quando di morte di morte; et v[i]a seguitando^] et perché le trasformationi si faranno in brevis­ simo spatio, et le immitationi, chi dunque haverà da dire tal principa­ lissima parte che move al riso et alla compassione, sarà necessario che tal Donna lassi da parte ogni altra Immitatione che la presentanea che gli somministrerà la parola che haverà da dire...» La parte descritta da Monteverdi è quella di Licori «finta pazza inamorata d’Aminta», alla quale le sue lettere fanno riferimento in maggior numero che ad ogni altra delle sue opere. Il suo entusiasmo per questa pastorale co­ mica, che egli completò nel 1627 in pochi mesi di felice applicazione ma che non raggiunse mai la scena, rende tanto più acuta la nostra de­ lusa curiosità per il fatto che libretto e partitura sono entrambi perdu­ ti. Monteverdi, sempre fedele all’ampio concetto originale dello «stile rappresentativo», e più impegnato nella sua applicazione che ogni altro musicista, deve avere profuse nella partitura, e specialmente nella de­ scrizione della simulata pazzia di Licori, tutta la ricchezza di invenzio­ ne musicale che è presente nella sua controparte tragica, Il combatti­ mento di Tancredi e Clorinda (circa 1626),21. Invece l’«imitazione» della pazzia, reale o simulata, come fu più tardi ripresa sulla scena ope­ ristica veneziana, deve aver puntato maggiormente sull’espressione ver-

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baie, e in conseguenza sopra il recitativo, lumeggiato da brevi carica­ turali inserzioni di canto. Almeno questo è ciò che traspare dall’unica partitura che sopravvive la quale includa scene di pazzia, la Didone di Cavalli (Venezia 1640); nella quale inoltre la sequenza della pazzia di Jarba, benché essenzialmente comica, risuona pure, anche se soltanto brevemente, della nota del suo dolore. Le partiture de La ninfa avara e de La finta pazza (entrambe rappresentate a Venezia nel 1641), delle quali la pazzia è un tema centrale, sono entrambe perdute. Per trovare la musica di una scena consimile bisogna attendere fino vXCOrontea di Cesti (Venezia 1649), e anche allora il personaggio che farnetica è un personaggio secondario e la causa non è follia ma ubbriachezza1W. L’esprimersi in canto sembrava ancora essere incongruo per un personaggio serio130; ma l’incongruità, se era ancora sentita, non po­ teva che rendere più comico un personaggio comico. L’arrivare in sce­ na cantando questo o quel tipo di canzone affibbiava immediatamen­ te al personaggio un’etichetta di briccone, vigliacco, ghiottone o ubbriacone. Oltre a questo i personaggi comici avevano una loro maniera di esprimere la loro semplice saggezza e il loro rozzo buon senso in aforismi e proverbi che chiedevano di esser messi tra virgolette dal compositore con un trapasso dal parlato ad un ritmo e una modulazio­ ne più simile a quella dell’aria. Chi soffre speri (Roma 1637 e 1639) con la moltitudine dei suoi tipi tratti dalla commedia dell’arte presenta ogni sorta di esempi di come i personaggi comici possano essere tratta­ ti musicalmente. Nelle opere veneziane, dopo una serie di capovolgi­ menti drammatici, spesso un personaggio comico resta solo sulla scena a fare commenti non lusinghieri, o facili generalizzazioni nelle quali si concreta la sua pratica o cinica saggezza, in un’aria. La tradizione che assegna ai personaggi comici semplici melodie che hanno il suono di melodie popolari risale alle ultime opere pastorali. Tali sono i canti di Pan tanto ne La Flora (Firenze 1628) che nella Dia­ na schernita (Roma T629); nella prima opera c’è anche un accenno di canto pastorale amebeo, in quanto i ritornelli nei quali Pan esprime il suo amore non corrisposto si alternano alle repliche simmetriche, ben­ ché di aria diversa, della sua bella, anch’esse di sapore popolaresco. Il suono popolare è evidente nell’arietta a due voci dei paggi Curzio e Marzio nel Sant'Alessio (atto I, scena in) col suo interludio replicato tre volte (tre volte imitazione vocale di strumenti, e da ultimo un vero ritornello strumentale) m; e a sua volta l’arietta ricorda gli strambotti cantati da Zanni, Coviello, ninfe e pastori nel primo intermedio di Chi soffre speri. La tradizione deve essere stata continuata almeno fino al tempo de La Lancia di Melani (Firenze 1657); poiché Tancia è una

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contadina, lei e il suo rustico amatore hanno diritto a questo genere di canti Ma anche senza questi o simili riferimenti al cantare del popolo le arie comiche hanno generalmente ritmi semplici e diretti e una di­ zione quasi esclusivamente sillabica del testo. Certamente anche i per­ sonaggi comici potevano all’occasione cantare arie virtuosistiche o pa­ tetiche. Il primo tipo è possibile quando il personaggio si impegna in ampie vocalizzazioni o perché abbia pretese o illusioni di grandezza, o più semplicemente perché balbetta. Riguardo al secondo tipo è un fat­ to ben noto che le disavventure e il disperarsi di un personaggio es­ senzialmente comico producono un effetto ridicolo, che è tanto accre­ sciuto quanto più i suoi lamenti sono esageratamente patetici. In tutti e due i casi l’effetto comico è accresciuto dalla consapevolezza che il personaggio di ceto inferiore sta usurpando convenzioni espressive che appartengono ad un’altra classe o tipo di personaggi. Questo mi porta all’ultima delle mie presenti considerazioni, quella che riguarda situazioni nelle quali la consapevolezza delle convenzioni operistiche si presta ad una intenzionale caricatura. Tale è ovviamente il caso, per esempio, in Chi soffre speri (atto II, scena xi), quando il protagonista decide e lamenta il sacrificio del suo falcone favorito sulla tavola da pranzo, ed è lamentosamente echeggiato da Zanni nel suo dialetto bergamasco; oppure nel monologo di Irò ne II ritorno dUlisse, atto I, scena 1,J3. Più sottilmente e su una scala più vasta, la parodia delle convenzioni operistiche è il filo conduttore de II palazzo incanta­ to d’Atlante e Orfeo di Luigi Rossi (Roma 1642 e 1647) e di un più tardo Orfeo (Venezia 1672) di Antonio Sartorio.

Non c’è da ricavare nessuna elaborata conclusione dal mio lungo divagare sul filo delle convenzioni che diedero una certa misura di ve­ rosimiglianza all’opera sia nel suo insieme che nei suoi singoli elemen­ ti. Appartiene alla migliore tradizione operistica concludere con un breve, sentenzioso epilogo corale; nel qual caso non c’è commento che meglio si adatti che quello che conclude il Coro di Fantasime e l’atto I di II palazzo incantato di Atlante : «Oh, eh’è lieve ingannar chi tosto crede!»

1 La migliore opera da consultare per gli antecedenti e la storia dell’opera è donald j. grout, A Short History of Opera, *2 ed. New York 1963, capp. 4-7 e l’estesa bi­ bliografia (particolarmente le sez. 2 e 3). Antonio dei Medici, nato nel 1576, fu ri­ conosciuto da Francesco I dei Medici come suo figlio naturale da Bianca Capello, benché si dicesse che la gravidanza era stata una simulazione e che ella non potes­

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se avere figli. Antonio crebbe nella famiglia dei Medici e scortò Maria a Parigi dopo il matrimonio. 2 Per le date di Dafne e i suoi superstiti frammenti vedi ora william v. porter, Peri and Corsi’s «Dafne»: Some New Discoveries and Observations, in «Journal of the American Musicological Society», xvn, 1965, pp. 170-96. Il testo più antico che si conosce è un libretto stampato nel 1600; ci è riferito tuttavia che ogni nuo­ va rappresentazione a partire dal 1597 (cioè 1598 stile moderno) produsse modi­ fiche e miglioramenti tanto del testo che della musica. Il testo fu riveduto anco­ ra una volta per la rappresentazione del 1608 a Mantova con musica compietamente nuova, composta per quell’occasione da Marco da Gagliano. 3 L’esecuzione durò cinque ore, richiese più di mille uomini per la manovra delle macchine sceniche, e costò 60000 scudi; vedi angelo solerti, Musica, ballo e drammatica alla corte medicea dal 1600 al 1637, Firenze 1905, p. 26. ALOIS M. nagler, Theatre Festivals of the Medici, pp. 96-100, dà una descrizione partico­ lareggiata dello spettacolo e, a p. 95, un’altra molto più breve delTEuridice. Il titolo del capitolo v di nagler, Opening of the Uffizi Theatre, può trarre in in­ ganno; la Sala delle Commedie era così chiamata perché era occasionalmente usata come teatro, ma non era un teatro permanente. Faceva parte del giuoco teatrale del tempo di creare nuovamente per ciascuna occasione la disposizione e la decorazione della vasta sala o del cortile scelto per l’esecuzione. Ciò probabilmente si applicò più tardi anche ai cosidetti teatri Barberini a Roma. 4 Ne resta solo il coro finale, incluso in Le nuove musiche di Giulio Caccini detto Romano, Marescotti, Firenze 1602. 5 L’opera di Peri apparve in due edizioni - quella del 1600 (1601) citata più avanti, p. 277, e una seconda stampata a Venezia nel r6o8 - ancor prima che la più anti­ ca delle due edizioni dcll’Or/eo fosse pubblicata. 6 Caccini ebbe l’incarico di comporre tutte le parti solistiche - cioè praticamente l’intreccio principale - più il coro finale; almeno tre compositori scrissero gli altri cori, i quali, in combinazione con spettacolosi cambiamenti di scena che si svol­ gevano sotto gli occhi del pubblico, formavano gli intermedi, incastonati, per così dire, nell’azione principale. 7 Caccini era stato perfino segretario di Bardi verso il 1592; vedi il mio Caccini, in Enciclopedia dello spettacolo, II, Roma 1954, col. 1447. Una edizione moderna dei primi tre episodi dell’ Euridice è inclusa in robert eitner ed., Die Oper von ihren ersten Anfàngen bis zur Mitte des 18. Jahrhunderts, I, Leipzig 1881, pp. 35-76; la prefazione è riprodotta in angelo solerti, Le origini del melodramma, Torino 1903, pp. 50-52. 1 Ibid., pp. 55-71. 9 Edizione in facsimile edita da Enrico Magni Dufflocq, Roma 1934. Dedica e pre­ fazione sono riprodotte in solerti, Le origini cit., pp. 43-49. 10 Informazioni biografiche sono date nel mio Cavalieri, in Enciclopedia dello spet­ tacolo, III, Roma 1956, coll. 256-58, e, più recentemente, in Claudio v. palisca, Musical Asides in the Diplomatic Correspondence of Emilio de' Cavalieri, in «The Musical Quarterly», xlix, 1963, pp. 3351-55, e in w. kirkendale, Emilio de' Cavalieri, A Roman Gentleman at the Florentine Court, in «Quadrivium», xii, 2, 1971 (ma in realtà 1973), pp. 9-21 (Memorie e contributi alla musica dal Medioevo al­ l'età moderna, offerti a F. Ghisi). 11 palisca, Musical Asides cit., pp. 343-47. 12 Edizione in facsimile edita da Francesco Mantica, Roma 1912, con prefazione di Domenico Alaleona; dedica e introduzione sono ristampate da solerti, Le origini cit., pp. 1-12. 13 Non ci sono lettere nel carteggio di Cavalieri tra Pasqua e novembre 1600; pali­ sca, Musical Asides cit., p. 344, ne trae la congettura che «egli dovette essere

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affaccendato a Firenze con i preparativi per le nozze». Sembra a me che la prepa­ razione della stampa de La rappresentatone debba averlo trattenuto a Roma; aspet­ tava probabilmente di essere richiamato a Firenze per prendere le redini degli spettacoli nuziali, ma era troppo fiero per fare la prima mossa; ne derivano il silenzio e piu tardi le lamentele che il Granduca aveva dimenticato i suoi servigi passati nel campo teatrale e trascurato di valersi del suo esperto consiglio. A Ca­ valieri fu soltanto commissionata la musica per l’elegante ma freddamente acca­ demico Dialogo di Giunone e Minerva di Giovambattista Guarini, una composi­ zione elogiativa che richiese la discesa delle due dee su macchine volanti e fu esegui­ ta il 5 ottobre durante il banchetto ufficiale. 14 palisca, Musical Asides cit., p. 330. Dirci che scene, regia, e forse qualche parti­ colare di strumentazione, siano le materie in cui Cavalieri piu probabilmente può avere aiutato; è strano tuttavia che Peri, con tutta la sua ostentata cortesia, non fa cenno delle contribuzioni di Cavalieri nella sua introduzione. 13 Ibid. 16 Ibid., pp. 351-52. [Qui e nelle citazioni seguenti si dà il testo originale delle lettere in luogo della traduzione inglese di Palisca]. 17 Ibid., pp. 353-54. 18 Ibid., p. 354. 19 Vedine la recente edizione curata da adriano cavicchi, in Monumenti di musica italiana, serie II, vol. II, Brcscia-Kassel 1966. 20 palisca, Musical Asides cit., p. 353 e nota 54. Il cardinale Aldobrandini, a cui sono dedicati la Rappresentatone di Cavalieri e i Madrigali... per cantare, et so­ nare di Luzzaschi, aveva preso possesso di Ferrara dopo la morte del duca Alfon­ so II d’Este e vi governava come legato papale. Parrebbe che avesse pure ereditato alcuni dei musicisti estensi e Patteggiamento critico della corte ferrarese verso le manifestazioni della rivale corte fiorentina. 21 Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la musica *de suoi tempi-, in solerti, Le origini cit., p. 116. 22 Bardi lasciò Firenze per Roma nel 1592, ma gli anni tra il 1588 e la sua partenza erano stati un periodo di velata ma intensa animosità tra lui e Cavalieri. In ogni mo­ do il tempo di piu intensa attività musicale della sua «camerata», cioè salotto *lette ratio, erano stati gli anni prima e dopo il 1580, quando Galilei preparava il suo Dialogo della musica antica e della moderna, Marescotti, Firenze 1581. 21 Tutto sommato, anche la musica dei preziosissimi intermedi del 1589, la maggiore impresa di Bardi, è da considerare come accessoria rispetto agli intermedi e alle com­ medie con le quali gli intermedi erano eseguiti. Questi ultimi sono stati pubblicati in d. p. walker ed., Musique des intermèdes de «La pellegrina», Paris 1963. [Si veda inoltre ciò che se ne dice nel saggio precedente]. 24 «Volendo rappresentare in palco la presente opera, o vero altre simili... e far si che questa sorte di Musica da lui rinnovata commova à diversi affetti, come à pietà, & à giubilo; à pianto, & à riso, & ad altri simili, come s’è con effetto veduto in una scena moderna della Disperatone di Fileno, da lui composta: nella quale recitan­ do la Signora Vittoria Archilei... mosse maravigliosamente à lagrime, in quel men­ tre, che la persona di Fileno movea à riso: volendola dico rappresentare, par neces­ sario, che ogni cosa debba essere in eccellenza» (terza pagina non numerata nell’edi­ zione originale e nel facsimile; p. 5 in solerti, Le origini cit.). 23 Vedi la nota precedente. 26 Ecco il passo completo: «Quando si è cantato un poco à solo, è bene far cantar i Chori, & variare spesso i tuoni; e che canti bora Soprano, hora Basso, hora Contralto, hora Tenore: & che l’Arie, e le Musiche non sijno simili, ma variate con molte pro­ portion!,... & adornate di Echi e d’invcntioni più che si può, come in particolare di

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Balli» che avvivano al possibile queste Rappresentationi, si come in effetto è stato giudicato da tutti gli spettatori; i quali Balli» overo Moresche se si faranno apparir fuori dell’uso commune havrà più del vago, e del nuovo: come per esempio, la Mo­ resca per combattimento, & il Ballo in occasione di giuoco, e scherzo: sf come nella Pastorale di Fileno tre Satiri vengono à battaglia, e con questa occasione fanno il combattimento cantando e ballando sopra un’aria di Moresca. Et nel giuoco della Cieca ballano, e cantano quattro Ninfe, mentre scherzano intorno ad Amarilli ben­ data, ubidendo al giuoco della Cieca» (vedi la precedente n. 24). Per l’abilità di coreografo di Cavalieri vedi walker, Musique des intermèdes cit., pp. xxvnXXIX e LIV-LVIII. ” Vedi la nota precedente. Non sappiamo se Cavalieri riadoperò il testo di Guarini, o se, avendo ideata una nuova coreografìa, facesse applicare alla sua musica un nuovo testo poetico, come già aveva fatto nel 1589 (vedi più sopra, pp. 254-55). 31 La visita del Tasso a Firenze nel 1590 e la rappresentazione ivi dell’Aminta nel 1590 (1591) contrastano acutamente con le dure critiche che gli erano state rivolte negli anni precedenti dai membri dell’Accademia della Crusca, c particolarmente da Bastiano de Rossi, l’autore della descrizione a stampa degli spettacoli organiz­ zati da Bardi nel 1589. 25 Non è questo il luogo per una analisi e una valutazione stilistica dell’opera di Ca­ valieri; ciò che qui mi interessa è la parte che egli ebbe nella formulazione del nuovo stile, che io ritengo piuttosto esigua. Anche la pretesa maggior raffinatezza di Cavalieri nella cifratura del continuo (vedi frank t. Arnold, The Art of Accom­ paniment from a Thorough-Bass, London . 1931, pp. 35 e 49) è una conseguenza del fatto che egli aveva in mente un accompagnamento completamente realizzato in varie linee melodiche, probabilmente concepito per uno strumento a tastiera (an­ che Arnold, ibid,, p. 47, nota il suo scarso impiego di strumenti a corda per la realizza­ zione del continuo). Quindi egli simulava le caraneristiche esterne della scrittura del continuo ma non ne realizzava la flessibilità recitativa e il significato piuttosto ac­ cordale che contrappuntistico (per il quale si veda più avanti, pp. 285 sgg.). M Dal Trattato della musica scenica di doni, capitolo 9, in solerti, Le origini cit., p. 208. 31 Per la pratica dei più complessi intermedi, che io chiamo «aulici», vedi il mio Intermedium, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit.» vol. VI, coll. 310-26, nonché, adesso, i due saggi precedenti. 31 In solerti, Le origini cit., p. 45. 31 palisca, Musical Asides cit., p. 352; Bardi trovava pure da ridire sulla rappresenta­ zione dei mitologici amori di Aurora e Cefalo. 3* Nel frontispizio del libretto a stampa *dell Arianna la parola «Tragedia» sintoma­ ticamente è scritta in caratteri più grandi che il titolo e il nome di Rinuccini. 35 solerti, Le origini cit., p. 50. 36 Ibid., pp. 45-46. 37 Ibid., pp. 55 e 57. De Le nuove musiche si veda ora l’edizione a cura di IL W. Hitch­ cock, Madison (Wis.) 1970, che include anche la traduzione inglese della introduzione ai lettori. 33 Per la verità la maggior parte dei frontispizi di quel tempo usano espressioni più prudenti, come per esempio «a voce sola per cantare sul chitarrone». Tuttavia i ma­ drigali con accompagnamento di continuo di Monteverdi del 1605 furono presto definiti «musica rappresentativa» al dire di jack a. westrup, Rezitative, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., vol. XI, col. 336. Monteverdi stesso de­ finì la sua Lettera amorosa come pezzo «in genere rappresentativo». D’altra parte il Lamento d'Arianna cavato dalla tragedia del Signor Ottavio Rinuccini di Severo Bonini (Magni, Venezia 1613) contiene un numero maggiore di brani estratti dal la­ voro teatrale di Rinuccini che il lamento indicato nel titolo, ma li descrive come «in stile recitativo».

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w La stessa idea fu già presente in non pochi madrigali della seconda parte del Cin­ quecento, benché si affermasse che la polifonia mancava della forza diretta di co­ municazione necessaria per tal sorta di proiezione drammatica; presto essa diven­ ne il principio che sta alla base della cantata secentesca. II dubbio da me espresso sull’attribuzione a Caccini del Fuggilotio è ora confermato da h. w. Hitchcock, Depriving Caccini of a Musical Pastime, in «Journal of the American Musicological Society», xxv, 1972, pp. 38-78. 40 solerti, Le origini cit., pp. 38 e 63. L’amico Stuart Reincr mi fa giustamente os­ servare che la parola sprezzatura non ricorre negli scritti che si conoscono di Peri, benché egli certamente ne applicasse il concetto nei suoi vari aspetti che sono qui di seguito illustrati. 41 II Cortegiano I xxvi: «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca que­ sta grazia, lassando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalis­ sima,... e ciò è fuggir quanto più si po... l’affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi». Una precedente redazione del Cortegiano aggiunge, dopo «per dir forse una nova parola», la fra­ se «già però tra noi accettata in questo significato»; vedi La seconda redazione del «Cortegiano», edizione critica di Ghino Chinassi, Firenze 1968, p. 39. Si noti il rapporto con la «grazia» che alcuni hanno dalle stelle. Almeno un moderno di­ zionario, Policarpo petrocchi, Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana, Milano 1887-91, ancora spiega sprezzatura come una «maniera piena di trascuratez­ za maestra». 42 II trasferimento del concetto di sprezzatura alla danza e alla musica è facilitato dai suggerimenti contenuti nel libro II del Cortegiano. 43 solerti, Le origini cit., pp. 62 e 68. 44 Severo Bonini, che generalmente tende ad essere in favore di Caccini, parla cosi di Peri: «Cantore e compositore eruditissimo è stato il sig. Jacopo Peri, detto il Zazzerino,... il quale cantando le sue opere composte con sommo artifizio, essendo di concetto lagrimevole, proprio suo talento, avrebbe mosso e disposto al pianto ogni impietrito cuore... Questo ben solo dirò, che se fu suavissimo nel canto e perito nell’arte di comporre in questo nuovo stile, fu ancora nell’arte del sonare di tasti leggiadro e artifizioso e, nell’accompagnare il canto con le parti di mezzo, unico e singolare», in solerti, Le origini cit., p. 137. Negli intermedi del 1589 Peri cantò sul chitarrone impersonando non altri che Arione. 45 solerti, Le origini cit., p. 57. Va sottolineato il senso di delicatezza di tocco e discrezione che la frase suggerisce. In un altro passaggio (p. 70) Caccini spiega di avere legate alcune note del continuo «perché dopo la consonanza si ripercuota solo la corda segnata, essendo ella la più necessaria... nella propria pòsta del chi­ tarrone». Non so se «posta» si riferisca qui alla funzione del chitarrone o a qual­ che particolare della sua tecnica, come per esempio le sue corde vuote. La frase im­ mediatamente seguente è un altro appello di Caccini alla discrezione e intelligenza dell’accompagnatore. 44 Ancora una volta la nostra distinzione tra «basso continuo» e «basso seguente» è basata su pratiche più recenti; dovremmo tuttavia sempre ricordare che «conti­ nuo», «continuato», «seguito» e «seguente» furono in origine equivalenti. Un suo­ natore di organo che dovesse accompagnare col suo strumento una composizione polifonica poteva usare una partitura o intavolatura, oppure una linea di basso formata col basso vocale della composizione o con qualsiasi altra parte che si tro­ vasse ad assumere temporaneamente la funzione del basso. Questa nuova linea era appropriatamente detta «seguente» perché sempre raddoppiava una o l’altra delle parti vocali; allo stesso tempo, essa non aveva pause, anche se le parti che essa andava seguendo giungevano eventualmente ad una sosta; sicché era corret-

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to dirla «continua». Per il continuo primitivo vedi Arnold, The Art of Accom­ paniment cit., pp. 6-9. 47 Vedi il mio Una arcaica descrizione trecentesca del madrigale, in Festschrift Hein­ rich Besseler, Leipzig 1962, pp. 157-58. 48 Ha anche una differente, benché non sicuramente determinata, origine (ibid., p 160, n. 20). 4B a II collega e amico Leo Treitler pertinentemente richiama la mia attenzione sul *ter mine tedesco Weise, che anch’esso può designare una melodia o un modo di fare. 49 Pubblicata da paolo manuzio, Lettere volgari di diversi nobilissimi Huomini... Libro Terzo Nuovamente mandato in luce, Venezia 1564, c. 114 sgg.; Pietro de angelis, Musica e musicisti nell’Arcispedale di Santo Spirito in Saxia, Roma 1950, PP- 39 sgg., ne dà una versione, divergente in minimi particolari, dal ms 338 della Biblioteca Lancisiana di Roma. In un’altra lettera, scritta venticinque anni più tardi (e riprodotta da De Angelis di seguito alla precedente) Cirillo dice di avere discusso gli stessi problemi col cardinale Marcello Cervini. 50 Claudio v. palisca ed., Girolamo Mei: Letters on Ancient and Modern Music to Vincenzo Galilei and Giovanni Bardi, American Institute of Musicology, i960, pp. 70-75; vedi anche id., Girolamo Mei, Mentor to the Florentine Camerata, in «The Musical Quarterly», XL, 1954, pp. 1-20. 51 Vedi più sopra, pp. 285-86. 52 solerti, Le origini cit., p. 56. L’insistere di Caccini sull’idea di grazia - qui di ispirazione, altrove di esecuzione - rende ovvio il riferimento a Castiglione (vedi la precedente nota 41); egli probabilmente si considerava tra quelli che l’aveva­ no ricevuta «dalle stelle». 51 solerti, Le origini cit., p. 51. 54 Ibid., p. 57. L’«uso comune» è quello della polifonia e del contrappunto, del quale Caccini intendeva di valersi quando gli convenisse. 55 «Canzoni villanesche» (con o senza l’aggiunta «alla napoletana») è usato in tutte le collezioni che si conoscono fino al 1565; in quell’anno fanno la loro prima comparsa «villanelle alla napoletana» e «villette alla napoletana». II riferimento all’elemento villanesco è completamente eliminato in titoli come «canzoni» o «can­ zonette alla napoletana», o magari semplicemente «napoletana», in uso nel decen­ nio del 1570; più tardi la maggior parte dei titoli sono variazioni di «viUanelle et aria alla Napoletana» o, specialmente nel secolo xvu, «villanelle». Vedi Werner Scheer, Die Friihgeschichte der italienischen Villanella, Nordlingen 1963, pp. 11-13. 56 II più antico esempio che io conosca è il Primo libro delle muse a quattro voci di Ant. Barre ed altri diversi autori, Cardane, Roma-Venezia 1555, che ebbe numerose ristampe. Vedi anche i Madrigaietti et napolitano a sei voci di Giovanni de Macque in due raccolte, Cardane, Venezia 1581 e 1582, la prima delle quali fu ristampata ad Anversa nel 1600. 57 In Tragèdie et comédie dans la Camerata Fiorentina, in Musique et Poésie au xvi' siècle, Paris 1954, p. 202, suggerii che le terze e quinte parallele delle napoletane possano essere state l’imitazione di accompagnamenti popolari su strumenti a cor­ da. Una ulteriore ragione potrebbe essere stata il desiderio di evitare moti con­ trappuntistici che interferissero con l’aria della parte superiore. s‘ Il madrigale forni numerosi modelli al recitativo monodico a note ripetute - an­ cora un caso di innovazioni rivoluzionarie dipendenti dalla tradizione. In tutti e due i campi le note ripetute, oltre ad essere utili come veicoli del testo, servirono ad effetti di contrasto. 59 Cioè «intoppando nell’incontro di note ripetute prodotte da accordi troppo fre­ quenti» (solerti, Le origini cit., p. 47). 40 N. pirrotta, Tragedie et comédie dans la Camerata Fiorentina, pp. 290-91; la

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raccolta, che include l’unica composizione nota di Scipione del Palla, ha il titolo significativo Aeri raccolti insieme con altri bellissimi aggiùnti di diversi dove si cantano sonetti, stanze, et terze rime, Cacchio dell’Aquila, Napoli 1577. In pro­ posito si veda il saggio precedente. 61 solerti, Le origini cit., p. 55. b Vedi, per esempio, il testo di Severo Bonini citato piu sopra, nota 44. Il partito di Peri ritorceva mettendo in ridicolo Caccini per l’abuso di coloratura e parago­ nandolo a «quel pittore, che sapendo ben dipingnere il cipresso, lo dipingneva per tutto» (vedi Gagliano, in solerti, Le origini cit., p. 79). “ Parlando dell’«intonazione» Caccini respinge l’abitudine di toccare la terza in­ feriore prima di venire all’intonazione esatta; egli preferisce invece «lo intonare... la prima voce scemandola» (di intensità) e cosi la assimila ad un altro dei suoi idiomi preferiti, Vesclamazione (solerti, Le origini cit.,up. 63). Quest’ultima sta a mezza via tra l’ornamentazione e l’effetto dinamico, come fanno anche il «grop­ po» (l’equivalente del nostro trillo) e il «trillo» (di note ripetute). 44 solerti, Le origini cit., p. 55. “ Vedi piu sopra, nota 62. 66 Sono fortemente contrario ad ogni aggiunta di abbellimenti vocali alle partiture della maggior parte dei compositori del secolo xvn, fatta eccezione per qualche trillo (possibilmente del tipo a note ribattute) e, più tardi, per qualche appoggia­ tura. Sta di fatto che la maggior parte dei compositori scrissero gli ornamenti per di­ steso dovunque la situazione li richiedeva. 47 Incluso in walker, Musique des intermèdes cit., p. 98-106; in questa composizio­ ne l’uso della coloratura (spesso ripetuta da una «doppia eco») è più notevole e più raffinato che nell’«aria» di Caccini del quarto intermedio (ibid., p. 156). Que­ sta fu omessa nella stampa del 1591, preparata da Cristofano Malvezzi seguendo le istruzioni dategli da Cavalieri. Si veda il saggio precedente, oltre che per com­ menti delle due composizioni del 1389, per l’indicazione di un intermedio compo­ sto da Peri nel 1583. “ In tal modo, anche a non considerare la composizione in eco del 1589, i due com­ positori ebbero almeno cinque anni durante i quali essi gareggiarono e reciproca­ mente si influenzarono. 44 solerti, Le origini cit., pp. 45-46. La parola «secco» è’da evitare a causa del pre­ ciso significato tecnico settecentesco di «recitativo secco», che indica un recitativo accompagnato dal solo continuo (in contrasto a recitativi « con * strumenti obbli­ gati» o «recitativi obbligati»), ma non necessariamente privo di qualità melodica. 70 solerti, Le origini cit., pp. 57 sgg. 71 Si vedano le indicazioni di strumenti data da Monteverdi alle pp. 36 e 38 della partitura originale dell’Or/eo; come ho osservato più di una volta, tali indicazioni furono formulate come un ricordo di ciò che era statò fatto nell’esecuzione origi­ nale e come guida, ma non necessariamente come regola, per esecuzioni future. 72 Mi riferisco all’intervento di quegli strumenti che, a detta di agostino agazzari, servono per ornamento; vedi il suo Del sonare sopra il basso, Falcini, Siena 1607. n Gli spettacoli fiorentini dell’ottobre del 1600 già per lo meno dal 29 agosto erano provati e riprovati ogni mattina (solerti, Musica, ballo e drammatica cit., p. 23). Similmente Arianna era già in prova nel marzo del 1608 malgrado che l’esecu­ zione avesse luogo il 28 maggio. Per i lunghi preparativi a Parma vedi irving lavin, Lettres de Parma (1618, 1627-28) et debuts du thèatre baroque, in JEAN jacquot ed., Le lieu théatrale à la Renaissance, Paris 1964, pp. 105 sgg., nonché stuart reiner, Preparations in Parma, in «The Music Review», xxv, 1964, pp. 273-301. 74 Vedi la nota 69 più sopra. Troppo credito è stato dato all’etimologia di «concer­ to» e «concertato» dal latino concertare, contendere o disputare; ma anche Feti-

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mologia da conserere (commettere o porre insieme), data come fondamentale da Franz giegling, Concerto, e hans engel, Concerto grosso, entrambi in Die Musik in Geschichte und Gegenwart cit., vol. II, coll. 1600 e 1604, è una mezza verità. Molti elementi e parole di suono consimile concorrono nel significato definitivo di concerto, ma ad un italiano del secolo xiv (Boccaccio), cosi come a quelli dei se­ coli xvi e xx, il significato principale di concertare era quello di «far certo» o «raggiungere un accordo». 75 Per opere che appartengono a questa categoria, ancor piu che per ogni altro stile, io sono contrario ad edizioni moderne che mirano unicamente a riprodurre la notazione originale, aggiungendo barre di misura che corrispondono alla battuta ma non al ritmo della musica. Edizioni siffatte non evitano Terrore ma evitano di assumere la responsabilità, ed evitano soprattutto il processo di apprendimento attraverso prove ed errori, per mezzo del quale si dovrebbe raggiungere una piu profonda conoscenza della musica. n L’intento dichiarato di Caccini (si veda il foglio A20 non numerato dell’edizione in facsimile) è di osservare «quella maniera cotanto lodata da Platone, & altri Filosofi, che affermarono la musica altro non essere che la favella, c’1 rithmo, & il suono per ultimo, e non per lo contrario, à volere che ella possa penetrare nell’al­ trui intelletto, e fare quei mirabili effetti, che ammirano gli Scrittori, e che non potevano farsi per il contrappunto nelle moderne musiche». 77 Si veda l’edizione de Le nuove musiche di H. W. Hitchcock cit., pp. 13137, o quella di Carlo Pennello, Milano 1919 (dato il particolarissimo formato dell’edizione, nume­ ri di pagina creerebbero soltanto confusione). Non concordo con ogni particolare dell’interpretazione ritmica di Pennello, tuttavia il confronto col facsimile, pp. 33-37, renderà chiaro il punto sostenuto qui sopra nella nota 75. In favore di una inter­ pretazione del ritmo è il recente e, ho paura, non troppo convincente, libro di Putnam Aldrich, Rhythm in Seventeenth-Century Italian Monody, New York 1966. ” «Mi venne anco pensiero, per sollevamento tal volta degli animi oppressi, com­ porre qualche canzonetta a uso di aria per potere usare in conserto di piu stru­ menti di corde» dice Caccini, nuovamente nell’introduzione a Le nuove musiche (fol. Bir non numerato del facsimile; solerti, Le origini cit., p. 38). 7911 recente libro di jan racek, Stilprobleme der italienischen Monodie, Praha 1963, dà la dovuta importanza a Caccini e alla letteratura di musiche vocali da camera che da lui deriva, ma tende ad esagerare l’importanza delle sue affermazioni ver­ bali senza ricostruirne il loro valore polemico. Il lavoro di Racek invece si pone contro l’opinione espressa da Caccini col trascurare completamente la monodia drammatica. 10 II primo episodio (adunarsi gioioso intorno ad Euridice, pp. 2-8 del facsimile) è concluso dal coro Al canto, al ballo, il secondo (arrivo d’Orfeo e dei suoi amici, annunzio della morte d’Euridice, pp. 8-21) dalla trenodia responsoriale Cruda mor­ te', il terzo (descrizione del dolore di Orfeo, pp. 21-28) da Se de boschi i verdi onori, un coro di ringraziamento per il conforto celeste ricevuto da Orfeo; il quar­ to (breve dialogo con Venere, seguito dal cantare e supplicare di Orfeo fino alla restituzione di Euridice, pp. 28-40) da Poi che gli eterni imperi, un coro di spiriti infernali che celebra l’ardire umano; il quinto (lieto ritorno della coppia, canti e danze generali, pp. 41-32) da un coro che si alterna ad un ritornello strumentale. Un cambio di scena, richiesto per il quarto episodio, è indicato a p. 28; il ritorno della scena originale a p. 41. 81 pp. n-12 e 46-47 del facsimile. n Ibid., pp. 8-9 e 29-32. “ Ibid., p. 38. M La partitura merita attenzione non tanto per il suo intrinseco valore quanto per il suo tentativo di caratterizzazione musicale; a ciascun personaggio è assegnata una specie di tema iniziale, che si ripete nella maggior parte dei suoi interventi. Come

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Rinuccini e Peri, Agazzari giustificava il «recitar cantando» come un procedimento che era stato usato in tempi classici; giustificava perfino la ripetizione strofica del­ la musica dicendo di dubitare che «gli antichi» si fossero sentiti in obbligo di dare nuova musica ad ogni strofe. 85 Forti somiglianze e reminiscenze verbali indicano che Striggio aveva in mente il testo àe\\'Euridice mentre scriveva il suo libretto. Io giungo perfino a credere che alcune divergenze furono suggerite da Monteverdi per evitare o situazioni dram­ matiche che si erano dimostrate troppo deboli o ripetizioni troppo ovvie di quelle meglio riuscite. 86 La distinzione tra tragedia e commedia era basata oltre che sulla natura tragica o comica degli avvenimenti da esse rappresentati anche sullo stato sociale dei loro personaggi. Il fato tragico di personaggi di nobile nascita affliggeva coloro che era­ no soggetti al loro governo; le disavventure della gente comune affliggevano loro soltanto, col risultato che si poteva ridere della loro disperazione. Nei riguardi del­ la pastorale Guarini, che ne fu il teorico, ha questo da dire sui personaggi (dopo avere dimostrato la sua natura di genere misto di elementi tragici e comici): «E, per intenderle meglio, hassi a sapere che gli antichi pastori non furono, in quel primie­ ro secolo che i poeti chiamaron “d’oro°, con quella differenza distinti dalle perso­ ne di conto, che oggi sono i villani da’ cittadini, perciocché tutti eran ben pastori»; da II compendio della poesia tragicomica, in G. b. guarini, Il pastor fido, ed. G. Brognoligo, Bari 1914, p. 268. Ma Una contrastante opinione è espressa da barbara r. hanning, Apologia pro Ottavio Rinuccini, in «Journal of the American Musicological Society», xxvi, 1973, pp. 240262. La ben documentata argomentazione non riesce tuttavia a convincermi; Rinuc­ cini (e Peri dietro di lui) dà come «opinione di molti», e non come indiscussa verità, «che gl’antichi Greci, e Romani cantassero su le scene le tragedie intere»; e Rinucci­ ni sapeva bene che differenza corresse tra una pastorale (L'Euridice) e una tragedia (L'Arianna). Non ho mai negato l’influenza di idee classicheggiami sulla nascita del­ l’opera; ma esse erano anzi cosi diffuse che non occorre farle dipendere direttamente e unicamente dalle conversazioni di casa Bardi. Ciò a cui ho sempre reagito è all’immagine stereotipata di una solenne e concorde accademia, occupata per un quarto di secolo in discettazioni filologiche ed estetiche, e al giudizio che se ne traeva che le prime opere fossero esangui elucubrazioni cerebrali. 87 II compendio della poesia tragicomica cit., p. 253. M Ibid., p. 305. Vedi inoltre Vittorio rossi, Battista Guarini ed il Pastor fido, To­ rino 1886, pp. 123-31. ” Vedi il facsimile, pp. 32-37. Lo stesso si può dire in certo modo dei canti d’Orfeo nella partitura di Monteverdi. * È il verso 9 del sonetto Due rose fresche e colte in paradiso ; per la musica si veda il facsimile, p. 4. 91 Vanno anche ricordate certe unità recitative, monologhi o dialoghi, che tendono ad organizzarsi o in termini di un crescendo di emozione, o in termini piu stret­ tamente musicali, con l’aderenza ad una tonalità fondamentale malgrado ardite escursioni modulatorie, o con lo sfruttare il ritorno di qualche frase particolar­ mente significativa nel testo e nella musica. Cavalli più di ogni altro compositore si compiacque di questi effetti. M Vedi il mio Commedia dell'arte and Opera, in «The Musical Quarterly», xli, 1955, pp. 305-24. La commedia dell’arte esercitò una diretta influenza sull’opera in un periodo leggermente più recente che la pastorale; ma pastorale, commedia dell’arte e opera sono vari aspetti di uno stesso indirizzo generale. 91 Un atteggiamento consimile è esplicitamente approvato da Caccini nel passo ci­ tato più sopra, nota 78. 94 Ih Monteverdi e i problemi dell'opera, una conferenza data nel marzo 1963 alla

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Fondazione G. Cini a Venezia, ora in Studi sul teatro veneto tra Rinascimento e Barocco, Firenze 1971, pp. 321-43. ” Per un riassunto e un diagramma delle simmetrie nell’Or/eo vedi grout, Short Hi­ story of Opera cit., p. 52. Io penso tuttavia che si è dato anche troppo peso alle grandi linee di questa simmetria, perché considerando gli atti I e V come una con­ trapposizione di preludio e postludio non si tiene conto che c’era anche in pro­ getto un audace finale tragico che avrebbe impegnato Monteverdi più che la melli­ flua apoteosi inclusa nella partitura [per un ripensamento nei riguardi del finale delVOrfeo vedi la nota 103 più avanti]. Personalmente mi fa più impressione la sim­ metria del primo atto, da considerare nel contesto complessivo di testo e azione piuttosto che come un puro elemento di forma musicale. Per una simile simmetria nel finale de La morte d’Orfeo vedi donalo grout, The Chorus in Early Opera, in ANNA amalie abert e Wilhelm pfannkuch edd., Festschrift Friedrich Blume, Kas­ sel 1963, pp. 160-61. w II termine intermedio generalmente ci ricorda gli esempi più spettacolari del ge­ nere, che costituiscono una categoria distinta dalle forme più semplici e più corren­ temente usate. Al tipo della mascherata appartengono in sostanza anche gli interme­ di della Mandragola e della Clizia di Machiavelli, già diffusamente trattati nel presente volume. Tra gli altri tipi devo ricordare in modo particolare quello dell’interludio strumentale; ne sono esempi ben noti le sinfonie della Rappresentatione di Cavalieri e dell’Or/eo di Monteverdi. Queste ultime furono necessarie, dopo i cori che con­ cludono ogni atto, per accompagnare il cambio di scena che aveva luogo sotto gli oc­ chi del pubblico; ogni sinfonia è collocata nella partitura alla fine di un atto, ma in realtà partecipa del tono espressivo dell’atto seguente. 91 Particolarmente interessante è il «Proemio» parlato della Rappresentatione di Cavalieri, una forma ibrida tra il consueto prologo programmatico e le frottole comiche, anch’esse parlate (con la forma musicale hanno in comune soltanto il nome) di precedenti drammi religiosi. * Lo stesso schema strofico è talvolta adottato nel corso dell’azione da messaggeri celesti. " Il più delle volte il normale coro operistico prendeva forma quando da due a sei personaggi presenti in scena univano le loro voci per esprimere un sentimento comune. Vedi grout, The Chorus in Early Opera cit., pp. 131-53. 100 La maggior parte dei duetti possono essere inclusi nella definizione di coro data nella nota precedente; vi sono casi .tuttavia nei quali due personaggi cantano espri­ mendo ognuno i suoi sentimenti personali, magari antitetici con quelli dell’altro. L’alternarsi e il riassociarsi delle voci sono procedimenti simili a quelli della sticomitia; in più i duetti possono spesso servirsi della tecnica più spiccatamente mu­ sicale dell’imitazione. 101 Una rassegna concisa ma aggiornata è data da Federico ghisi nella sez. 3 (Le fe­ ste medicee, gli spettacoli teatrali, gli intermedi e la nascita dell *opera in musica) della voce Firenze, in Enciclopedia dello spettacolo, vol. V, Firenze-Roma 1958, coll. 376-81. ,w Non si ha notizia di opere rappresentate a Firenze tra il 1600 e il 1628 - la Libe­ razione di Ruggiero di Francesca Caccini (1625) fu un balletto cantato per intro­ duzione di un torneo; più' tardi, con le sole eccezioni de La Flora (1628), Le nozze degli Dei (1637) e Celio (1646), si deve aspettare fino al momento in cui una consuetudine più regolare di esecuzioni operistiche fu inaugurata dalla Tancia (musica di Jacopo Melani) nel dicembre del 1656. ,M Nel caso dcWArianna si ha notizia che un comitato presieduto dalla duchessa ma­ dre di Mantova trovò l’intreccio «troppo asciutto» e suggerì modifiche (a. so­ lerti, Gli albori del melodramma, Milano 1905, I, p. 92); è facile riconoscere le modifiche nel dialogo di Venere e Amore aggiunto nel primo episodio, e nell’in­

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tervento finale degli dei - con Venere sorgente dalle acque e Giove benedicente dal cielo - aggiunte che alterano la classica «regolarità» del dramma. Il finale originale doveva concludersi, dopo l’arrivo in scena di Bacco e Arianna, col coro trionfale Spiega, ormai, giocondo nume. Un simile intervento di chi ne aveva il po­ tere deve avere evitato lo strazio di Orfeo per mano delle Baccanti, ancora presente nel libretto stampato dell’Or/eo, ma sostituito da un diverso finale nella stampa della partitura. [Su quest’ultimo punto le mie convinzioni si sono modificate dopo l’originale redazione del presente saggio; si veda il mio Teatro, scene e musica nel­ le opere di Monteverdi, in Claudio Monteverdi e il suo tempo, Relazioni e comu­ nicazioni al Congresso internazionale 3-7 maggio 1968, p. 51; vi affermo che il deus ex machina e il duetto finale della partitura facevano parte della concezione originale, ma non poterono essere rappresentati nel 1607 per l’angustia del luogo dove avvenne la rappresentazione]. l0< Vedi la nota precedente. 105 II tipo con strofe di quattro versi cantato da un solo personaggio è ancora presente in qualcuna delle prime opere veneziane. Nell’/lrwzda di Benedetto Ferrari (1639) il prologo è cantato dalla Fortuna a solo, ma lo schema metrico è abbandonato; è ripreso in 11 pastor regio (1640). 106 Esempi precedenti sono l’intreccio secondario pastorale di Erminia sul Giordano (Roma 1633) e l’aiuto dato da angeli e dalla personificazione della Religione al prota­ gonista del Sant'Alessio (Roma 1631 e 1634) nella sua lotta contro le macchinazio­ ni del Demonio. In Amore trionfante dello Sdegno di Marazzoli le personificazioni di Amore e Sdegno influenzano le azioni dei personaggi umani, spiegandone gli im­ provvisi cambiamenti psicologici; in altri casi le rivalità tra gli dei influiscono sui casi degli uomini, e la loro pacificazione (o la sconfìtta di un potere malefico) è una condizione necessaria per lo scioglimento. Improvvise transizioni dall’indifferenza o dall’odio all’amore, e viceversa, sono spesso l’effetto degli strali *dAmore. 1W Le Nozze di Peleo, et di Teli (Venezia 1639, la prima opera chiamata «festa tea­ trale») e Gli amori di Apollo, e di Dafne (Venezia 1640), entrambi di Cavalli, sono pastorali mitologiche; cosi pure la Delia di Manelli (Venezia 1639). La Ninfa avara di Benedetto Ferrari (Venezia 1641) non ha dei, ma è interamente pastorale ed è detta «favola boschereccia». ,w Si veda, per esempio, la floridità del recitativo della Religione in Sant'Alessio, atto III, scena v, dato da Hugo Goldschmidt, Studien zur Geschichte der italie­ nischen Oper im 17. Jahrhundert, Leipzig 1901, I, p. 237. Benché Monteverdi non aspettasse il pretesto del soprannaturale per usare qualunque mezzo musica­ le che meglio si adattasse ai suoi intenti, pure il vocalizzare di Minerva, di Giunone e di Nettuno ne 11 ritorno d'Ulisse è estremamente ardito, e Telemaco non è mai tanto melodioso quanto nel momento in cui viaggia con Minerva su un carro volante. ,w Ne Gli amori di Apollo, e di Dafne di Cavalli Dafne chiede la sua cetra e canta; Ar­ chimene ne II Bellerofonte (Venezia 1643) suona l’arpa. Anche in seguito, nel Serse di Cavalli (Venezia 1634) Serse si innamora di Romilda sentendola cantare. 110 Azióni drammatiche, con o senza musica, erano spesso eseguite dagli studenti di vari collegi; piu tardi artisti come Lorenzo Bernini e Salvator Rosa organizzarono rappresentazioni di commedie. 111 Benché eseguita in casa di un barone Hohen Rechberg, la Diana schernita (1629), con l’apparizione nel finale delle api dorate dei Barberini, può essere considerata come la prima opera barberiniana. Trae ispirazione dal tema favorito di un antico seguace dei Barberini, Francesco Bracciolini, l’autore de Lo scherno degli dei (1617); ha inoltre scherzose allusioni all’invenzione del cannocchiale di un altro ex-protetto di Urbano Vili, Galileo Galilei. Le rappresentazioni del Sant'Alessio pare fossero date dapprima nel piu antico palazzo di via dei Giubbonari, e piu tardi nel nuovo palazzo alle Quattro Fontane. Nei riguardi del teatro vedi sopra la nota 3. Il pro-

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Da Poliziano a Monteverdi

fessore Irving Lavin mi informa che soltanto nel 1639 fu creato nel nuovo palazzo un qualche cosa come una installazione teatrale semipermanente. 112 La serie degli argomenti agiografici era già stata inaugurata nel 1625 con un Sant'Eustachio, musica di Sigismondo d’india (un altro Sant’Eustachio, libretto di Rospigliosi e musica di V. Mazzocchi, fu eseguito nel 1643); continuò almeno fi­ no al 1668, quando fu eseguita La comica del ci^lo, testo di Rospigliosi (ormai papa Clemente IX) e musica di A. M. Abbatini. La catena d’Adone (1626) e 1/ Ciclope (1630) combinano mitologia e pietà cristiana per mezzo di stiracchiate allegorie. L’influenza della commedia dell’arte è già sentita nelle parti comiche del Sant'Alessio (che includono una danza di contadini nel costume di Pulcinel­ la e i lazzi comici giocati dal Demonio ai paggi); è particolarmente forte in Chi soffre speri. AU’allargarsi dell’azione dell’opera corrisponde il passaggio dal nu­ mero classico di cinque atti alla piu pratica divisione in tre, che riduce da quattro a due il numero degli intermedi necessari. Non era difficile tuttavia modificare il nu­ mero degli atti; per II ritorno d’Ulisse di Monteverdi abbiamo una partitura in tre atti c vari libretti in cinque. 1 ,1 Per esempio, neWArgomento et allegoria della commedia musicale Chi soffre speri (Roma 1639); per l’allegoria vedi stuart reiner, Collaboration in «Chi soffre spe­ ri», in «Music Review», xxn, 1961, pp. 265-82. L’abitudine di parlare di opere chiamandole commedie, interessante caratteristica dei cronisti romani, che però è spesso fonte di confusione, si diffuse talvolta anche fuori Roma; vedi henry prunières, L’opera italien en France avant Lutti, Paris 1913, dove sono citate varie lettere in francese e in italiano che parlano di opere come di commedie. 114 Carlomagno e i suoi paladini erano diventati gli eroi della mitologia popolare mol­ to tempo prima che Ariosto nc desse la interpretazione fantasiosa ed ironica che caratterizza il suo poema. Quanto al Tasso, i suoi personaggi derivano da modelli omerici, virgiliani e ariosteschi - una mitologia piu letteraria che popolare - ai quali egli aggiunse la nota del suo pathos. Sia in Ariosto che in Tasso abbondano le figure fantastiche e mitologiche e spesso entra la magia; ma nessun personaggio si fa notare, né nell’uno né nell’altro, per doti musicali. ,,s Vedi sopra, nota 69. 116 II soldato spagnuolo, Capitan Dragon y Vampa Sparaparapiglia, deriva ovviamente dalla commedia dell’arte ed è paradossalmente inserito in un intreccio classico. La commedia fu probabilmente eseguita da giovani studenti di un collegio; un libret­ to manoscritto della Biblioteca Casanatense di Roma (cod. 1293) include anche gli intermedi, in uno dei quali si discute delle difficoltà di una compagnia tutta di so­ prani e si accenna alla statura minuscola degli esecutori. 117 Mercurio o una delle Muse sono il piu delle volte chiamati a sostenere parti di questo genere. 1,8 Edizione moderna in Goldschmidt, Studien zur Geschichte der italienischer Oper cit., I, pp. 208-9. Vedi il mio Falsirena e la piu antica delle cavatine, in «Collectanea Historiae Musicae», n, 1957, pp. 355-56, che include una parziale trascrizione del pezzo citato. Per questo genere di transizione da un andamento recitativo ad una piena, anche se breve, melodia si è coniato il termine «arioso». Il secolo xvii usò, se mai, un certo numero di espressioni differenti. Una è «mezz’arie», di cui è detto nella stam­ pa de La catena d’Adone che sono presenti nella partitura ma non [tutte] elencate nell’indice. In proposito vedi ora stuart reiner, Vi sono molt’altre Mezz'Arie..., in Studies in Music History: Essays for Oliver Strunk, Princeton 1968, pp. 241-58. Brevi passi melodici, senza un’organizzazione formale, sono a volte contrassegnati come «ariette» o anche «arie» in alcune partiture, per esempio in quella dell’Amore trionfante dello Sdegno di Marazzoli (eseguita verso il 1641-42). La mancanza di uniformità nell’uso dei due termini non dovrebbe sorprendere, considerando che anche vere e proprie arie spesso non ne portano il nome, a causa o dell’in­

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curia del copista o della loro troppo ovvia qualità di arie. Finalmente, la parola «ca­ vala», che io indicai come antecedente di «cavatina», appare in qualche partitura un poco più recente, come la copia viennese dell’Or/eo di Sartorio. 120 Vedi sopra, p. 306. 121 La piena validità artistica di tutte e due le versioni è decisamente affermata in te­ sta al pezzo nella stampa del 1609 (p. 52): «Orfeo al suono del Organo di Legno, & un chitarrone, canta una sola de le due parti». 121 II testo è una terza rima dantesca, sei strofe di tre versi più un verso finale. Il ritmo del basso ostinato è liberamente organizzato, ma è notevolmente alterato soltanto nella quinta terzina e nel verso finale. ,2J Goldschmidt, Studien zur Geschichte der itatienischer Oper cit., pp. 217-23 e 230-31. 124 Tanto l’«aria recitativa» di Falsirena che quella di Plutone sono composte sopra una linea di basso ripetuta per le due metà dell’ottava. 115 II primo accenno a questo progetto è in una lettera del i° maggio 1627 ad Alessan­ dro Striggio jr: «Mi trovo però fatto molte stanze del Tasso... Armida comincia: O tu che parti parte tu tuo * di me parte ne lassi, seguendo tutto il lamento e Tira con le risposte di Ruggiero...» (gian Francesco malipiero, Claudio Monteverdi, Milano 1929, p. 250, ed in c. Monteverdi, Lettere, dediche, prefazioni, a cura di D. de’ Paoli, Roma 1973, p. 241). Le lettere successive sono occupate per la maggior parte da descrizioni de La finta pazza Licori; poi due lettere del 18 e 25 settembre, pure indirizzate a Striggio, parlano di Armida (la prima, malipiero, Claudio Mon­ teverdi cit., p. 273, Monteverdi, Lettere cit., p. 284, dice erroneamente Aminta) come una composizione di notevole ampiezza che avrebbe richiesto due mesi per essere finita. Ne riparla ancora una lettera del 18 dicembre dello stesso anno. 126 Partitura senza titolo nel ms Biblioteca Vaticana, Chigi, Q Vili 189. 122 malipiero, Monteverdi cit., p. 232. Nella redazione originale del presente sag­ gio diedi di questo passo una traduzione inglese che non concorda con quella di leo schrade, Monteverdi: Creator of Modem Music, New York 1950, pp. 309-10. Qui seguo il testo dato in Monteverdi, Lettere cit., p. 244, apportandovi, in paren­ tesi quadre, alcune integrazioni interpretative. ,2S Dalla descrizione di Monteverdi è evidente che la pazzia di Licori lo attirava come una situazione ideale per quegli accenti estremi e bruschi cambiamenti di umore e di tono che sono tipici del suo «stile concitato». 129 Ne ho data una parziale trascrizione di seguito a Le prime opere di Antonio Cesti, in Pietro castiglia ed., L’orchestra, Firenze 1954, pp. 176-77. 130 Vedi Francesco sbarra nella prefazione al libretto di Alessandro vincitor di se stesso (1652), citato in L’orchestra cit., p. 164. 1,1 Goldschmidt, Studien zur Geschichte der itatienischer Oper cit., pp. 210-12. 132 Ibid., pp. 337-5»113 Appartiene a questo tipo la parodia di una scena di magia fatta da Bruscolo in La Tancia, atto III (ibid., p. 371). 134 II saggio originale ha una conclusione lievemente più lunga nella quale si accen­ na al progetto di una discussione dei vari usi del termine aria, progetto ancora oggi non realizzato.

ELENA POVOLEDO

Origini e aspetti della scenografia in Italia Dalla fine del Quattrocento agli intermezzi fiorentini del 1589

DalFOr/^o di Poliziano aWOrphei Tragoedia

i.

È consuetudine ormai, parlando della Favola di Orfeo, immaginarla rappresentata in una scena medievale a luoghi deputati multipli e si­ multanei, quale si usava anche in Italia per la sacra rappresentazione. E poiché, nonostante le molte ricerche1, non sono ancora emerse testi­ monianze che illustrino la vera forma dello spettacolo mantovano non ci resta, se vogliamo uscire da una vaga genericità, che rivolgerci diret­ tamente al testo di Poliziano. È possibile infatti cogliere nelle dida­ scalie, e meglio nei riferimenti allusivi con cui i personaggi accompa-' gnano, illustrandola, Fazione, elementi che ci consentono di ricondur­ re la festa mantovana alle rappresentazioni coeve, sacre o profane, e di tentare sul loro esempio una visualizzazione attendibile della sua messinscena. La Favola si svolge senza soluzione di continuità, piu narrata che agita, dal lamento amoroso di Aristeo fino all’oscena rabbia delle Bac­ canti infuriate. Un solo luogo deputato, ma variamente disponibile, è sufficiente ad accogliere tutta Fazione, nonostante l’opporsi improv­ viso dei luoghi e degli eventi: «un monte ombroso e vagamente fio­ rito», praticabile all’esterno e internamente cavo. Doveva trattarsi di una macchina, più «edilizio» che «ingegno», eretta su un carro semo­ vente o su un «tribunale»2 fisso, inseribile senza effettivi problemi di ambientazione, nel consueto addobbo di arazzi e di verzure che certo ospitò anche a Mantova, nel cortile ducale o in una delle sale supe­ riori del castello, la festa voluta dal Cardinale Gonzaga. Un’ampia pe­ dana, o più semplicemente il piano della sala o del cortile circoscritto dall’addobbo, costituiva l’area scenica principale. L’azione comincia raccolta ai piedi del colle, presso una fresca fon­ te, «sotto l’ombrose foglie», dove Aristeo confida al vecchio Mopso le sue pene amorose e intona, al suono della zampogna, la nota, bella canzone: Udite Ninfe mie dolci parole, Poi che la Ninfa mia udir non vuole.

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Origini c aspetti della scenografia in Italia

Si prosegue con Partivo di Tirsi che «sdrucciola» giù dal monte scoprendo la presenza poco lontana di Euridice, e con la partenza di Aristeo che sul monte s’inerpica alla ricerca della Ninfa amata. Dal monte scende ancora Orfeo, cantando «in su la lira» i versi latini in onore del cardinale mantovano. Un pastore sopraggiunge ad annun­ ciare la morte di Euridice, e mentre Orfeo, con una finta partenza, si aggira per la scena cantando la sua pietà, si scopre sul fianco del colle la porta infernale, guardata a vista da Cerbero e dalle Furie. La visione doveva essere prima in qualche modo dissimulata al pub­ blico e questo farebbe preferire, all’ipotesi di un palco fisso, quella di una macchina su ruote, più facilmente rivolgibile; la soluzione, come vedremo, non sarebbe stata né nuova né insolita. Se invece il monte era fisso, sarebbe bastata una porta chiusa, giustificata dalla convenzione medievale e ormai scontata, della simultaneità dei luoghi deputati. Aprendosi la porta rivelava all’interno Plutone in trono, tra Proser­ pina e Minosse; forse si vedevano anche i gruppi estatici di Sisifo, Issione, Tantalo e delle Belidi, ma non necessariamente ché il loro im­ pietrire poteva più semplicemente esser soltanto descritto da Plutone. Dalla stessa porta uscivano Euridice e poi la Furia che la riportava al­ l’Ade. Il finale ci riconduce ai piedi del monte dove le Baccanti, consu­ mato non viste l’orrido sacrificio, intonano danzando il loro umanistico ditirambo. È vero dunque, per quanto riguarda la messinscena dell’Orfeo, che la radice medievale dovette prevalere sulla presunzione umanistica del­ l’unità di luogo e d’azione. Ma è vero anche che della convenzioni medievale Poliziano utilizzò solo quello che già in precedenza era pas­ sato dalla rappresentazione sacra alla festa profana, sostituendo alla motivazione allegorica e celebrativa una più affascinante intensità di affetti, amorosamente pagana. Più che multipla la scena dell’Orfeo è simultanea, mentre l’evocazione vera dei luoghi e delle immagini è affi­ data all’efficacia dei versi che narrano e descrivono. Certo in quei pochi giorni3 concessi dal Cardinale all’invenzione e all’allestimento della festa, Poliziano non aveva avuto tempo né inten­ zione di creare qualcosa di nuovo dal punto di vista spettacolare. La favola riflette piuttosto, assieme al linguaggio giovanile del poeta, quel tanto di esperienza indiretta e di spettatore che Poliziano aveva avuto modo di farsi in quei primi dieci anni di vita cortigiana a Firenze, o forse quel poco che aveva potuto vedere altrove, in Emilia o a Venezia, nel carnevale dell’8o che coincise con il suo allontanamento dalla To­ scana e col breve soggiorno mantovano4. Nella Firenze di Lorenzo il Magnifico gran parte dello spettacolo

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era ancora festa religiosa e tradizione popolare. L’azione dissacrante della nuova cultura medicea, tutta splendore profano, non aveva in­ taccate le antiche istituzioni né sconvolto il calendario ufficiale. Un an­ no dopo l’altro, Poliziano aveva visto ripetersi i cortei di San Giovan­ ni, le rappresentazioni dell’Annunciata e di Pentecoste, le feste di San Baccio e Sant’Ignazio, le armeggerie popolari tra i rioni rivali. Cono­ sceva certamente i carri per i Trionfi sacri di San Giovanni, le «nugo­ le» e gli «edifizi», gli «ingegni» descritti da Vasari, quello di Brunelle­ schi conservato in San Felice e quello del Carmine ricostruito dal Cec­ ca. Ancora nel ’71, per la visita di Galeazzo Maria Sforza e di Bona di Savoia le feste principali erano state, dopo l’ingresso trionfale, le rap­ presentazioni dell’Annunciazione, dell’Ascensione e di Pentecoste. Tre ingegni avevano funzionato a pochi giorni di distanza in tre chiese dif­ ferenti e «per l’artificio ingegnosissimo delle cose che v’intervennero riempirono di somma ammirazione gli animi dei Lombardi»5. Le cro­ nache non ci descrivono nei particolari i tre ingegni ma è possibile che quello di San Felice fosse ancora la macchina di Brunelleschi, mentre non è escluso che quella del Carmine fosse stata ricostruita dal Cecca proprio in quell’occasione. Del terzo ingegno in Santo Spirito non co­ nosciamo nemmeno i dispositivi precedenti, salvo l’impiego eccessivo di lumi per cui, proprio durante la festa del ’71, «per i molti fuochi che in simile solennità si fanno, quel tempio tutto arse» {Machiavelli). L’apparato di Cecca per VAscensione prevedeva al centro del pre­ sbiterio un monte: «... conciofusseché Cristo .era levato di sopra un monte, benissimo fatto di legname, da una nuvola piena d’angeli, e portato in cielo, lasciando gli apostoli in sul monte: tanto ben fatto che era una meraviglia». Il «Paradiso», incastrato sotto il tetto, in cor­ rispondenza della tribuna maggiore, era costituito da due cupole emi­ sferiche, una dentro all’altra, dipinte come un cielo stellato; nel vano tra le due cupole giravano «alcune ruote grandi, fatte a guisa d’arcolai che dal centro alla superficie movevano con- bellissimo ordine dieci giri per i dieci cieli; erano tutti pieni di lumicini rappresentanti le stelle» ‘. L’Or/eo non aveva bisogno di un Paradiso sopra un Monte, ma di un Monte con dentro un Inferno. Forse Poliziano ne aveva visti sui carri di San Giovanni, come quello ammirato da Eleonora d’Aragona nel giugno del 1473, «colla resurectione et descensione al Limo [Lim­ bo] et liberatione delti sancti padri» ’. Forse ne ricordava altri, piu gra­ devoli e profani, usati dai festaioli fuori dell’evento sacro. L’idea del Monte cavo, col fianco aperto, vomitante fiamme e dannati, tra lo stridore di ruote infernali e di catene, non è certo nuova nelFicono-

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Origini e aspetti della scenografia in Italia

grafia medievale teatrale o figurativa. Ma l’Ade di Poliziano è un in­ ferno placato: Io veggo fissa d’Ission la rota, Sisifo assiso sopra la sua petra, e le Belide star con l’urna vota.

Le immagini estatiche rifiutano l’orrore della dannazione, e più facil­ mente la fantasia del poeta doveva ritornare ai carri «bene acconci» che si usavano nelle feste di palazzo, per accompagnare le egloghe celebra­ tive o per introdurre gli «entremetz». Se Poliziano non li aveva visti a Firenze, dove forse si preferivano i Trionfi, petrarcheschi , * certo li aveva sentiti descrivere dagli oratori medicei, e non si era ancora spenta in Italia l’eco delle grandi feste pesaresi celebrate nel 1475 per le noz­ ze di Costanzo Sforza con Camilla d’Aragona. Se ne ha memoria ancor oggi da un prezioso codice, miniato da Lionardo da Colle, scritto o terminato di scrivere proprio nel 1480’. Il lunedi, 28 maggio, si tenne a corte una festa con una «collatione grande». La sala del palazzo era tutta ornata con «corde di festoni a l’anticha, grosse di verdura» e con un «cielo», cioè un finto soffitto, di panno turchino, istoriato coi segni zodiacali tutti «d’oro de grandezza de uno homo giusto». Le stelle erano di specchi con raggi d’argento e accanto ad ogni segno era raffigurato il volto del suo eroe: Perseo, Pilade, l’idra. La colazione fu preceduta dalle offerte dei doni, e le offerte erano ac­ compagnate da intermezzi danzati e mimati che comparvero in sala su grandi carri allegorici. Sfilarono il Monte dell’Homo salvadego coi do­ ni dei cortigiani, la Regina di Saba su un Elefante coi doni degli Ebrei, e ancora, il Monte degli Ebrei e la «Livrea de septe pianeti,... sopra septe carrette quadre a l’anticha...» Le due montagne erano de «legno dipinte choperte di arbori et de verdure et de diversi animali, come le­ pore, capreoli, cervi, orsi, conigiari et altre simile, facte cum mirabile artificio et portate cum summa facilità senza che se vedesse chi la por­ tasse o chi li fosse dentro». Dalla prima uscirono l’Homo salvadego e un altro «contrafacto» da leone che lottarono fra loro, poi quattordici morescanti venuti «fuora da doi parte quasi come de doe grote de quel monte». La seconda montagna aveva sul sommo «una torre» con uno «spiritello» e nel fianco una porta con un ponte levatoio, dal quale uscirono un Vecchio ebreo e dodici morescanti. Alla festa avevano assistito Federico da Montefeltro e gli ambasciatori delle maggiori città italiane e certo anche quelli fiorentino e man­ tovano. Del resto, per quanto sfarzoso lo spettacolo pesarese non era nuovo; lo stesso cardinale Francesco Gonzaga che abitava parte del-

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Tanno a Roma conosceva le feste dei cardinali Riario e ne aveva tenute, lui, di simili nella sua casa vicino a Campo Marzio. Una di tali feste, rappresentata, ma senza carri, per il capodanno del 1476, è descritta dall’agente Giovanni Marco in una lettera al duca di Milano: «La cena fu assai bella; et fatta la cena, se fece una Representatione assai bella de le Virtute corno sono contrarie alli Vicij. Et quivi venerono tute le Virtute, vestiti ad modo feminile cum volti contrafacti et depincti. Et detro gli seguiva li Vicij. Et quivi si fece una disputatane inanti a lo Re, utrum se doveva atacare alla vita epicuria, overo acostare ale Vertute. Et quivi se ballò cum spade in mano li Viciosi. Et le Virtute gli abatero li Vicij, et cossi la festa fu fenita ad bore VI di nocte»10. Il Re, probabilmente un «Re d’Amore», era interpretato da un giovane cameriere, favorito del cardinale, certo Brugnollo, «bello gio­ vane, senza barba et de bella persona» che presiedette al convito, se­ duto a capotavola, in abito regale e tutto ingioiellato. Né il convito carnevalesco del Gonzaga, né le comparse pesaresi del ’75, o le molte altre «intromesse», variamente fiorite in tutta Italia nelle feste quattrocentesche e sopravissute, per certi aspetti, anche nel primo Cinquecento, si possono correttamente considerare delle rappre­ sentazioni drammatiche. Ma è in quest’ambito e con precise motiva­ zioni di luogo, d’azione e soprattutto di destinazione, che si formula e giustifica quel particolare tipo di scena-addobbo cui evidentemente si attennero gli allestitori deU’Or/^o mantovano e che, come giusta­ mente scrive Pirrotta” finì per influenzare, anche dal punto di vista drammaturgico, buona parte dei cosidetti drammi mescidati. Ancora legata alla formula del diversivo conviviale e delle masche­ rate, oppure già evoluta sui modi recitativi delle egloghe, delle farse o delle favole, la rappresentazione-intermezzo non si diversifica dal resto della festa e del suo cerimoniale. Riveste in genere carattere itinerante, e si svolge senza soluzione di continuità, accomunando la danza alla pantomima e il canto al complimento recitato. L’intenzione encomia­ stica prevale sull’invenzione fantastica, e l’allusione personale o il rife­ rimento a eventi recenti attualizza ogni «favola» riproponendo tutto come tutto presente. Non serve, a questo tipo di azione, una scena che evochi luoghi e momenti diversi da quelli della festa, e isoli la finzione in uno spazio e un tempo differenti da quelli in cui vive l’udienza; ba­ sta la cornice decorativa che accoglie la festa stessa, dal portale del pa­ lazzo alla tribuna dell’ospite d’onore. Come il «Re» del convito ro­ mano, davanti al quale i Vizi si battono con le Virtù, così a Pesaro gli Sposi intervengono nelle comparse delle «regalie», mentre i corti­

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giani si mescolano, danzando, alle moresche introdotte dai grandi car­ ri allegorici12. La novità, nélVOrfeo di Poliziano, se potessimo legittimamente at­ tribuirgli le immagini dei due Monti pesaresi, sarebbe che la macchina si era spogliata della significazione allegorica per assumere una funzio­ ne soprattutto scenica. Il Monte, cosi visualizzato, non solo illustrereb­ be i due luoghi principali dell’azione, la Selva e l’Ade, ma sarebbe agi­ bile e accoglierebbe in parte l’azione stessa. La supposizione non trova purtroppo sostegno nelle fonti del tem­ po che tacciono perfino il nome degli apparatori (se apparato ci fu) e del sovrintendente alla festa. Certo non potè essere Poliziano, nuovo a tali esperienze, e difficilmente lo fu Baccio Ugolini, il primo inter­ prete di Orfeo, poeta, musico e buon suonatore di lira, ma per quanto sappiamo inesperto di arti figurative. Alessandro D’Ancona n suggeri­ sce il nome dello Zafrano che nel 1483, ma probabilmente anche pri­ ma, era «buffone» del marchese di Mantova. Fermi restando i requisiti di « jucunditatis lepos» richiesti tradizionalmente ai buffoni, la loro fisio­ nomia, sul finire del Quattrocento, era assai complessa. Esistevano buf­ foni a tutti i livelli e molti fra essi erano ormai più vicini all’attore pro­ fessionista, qualificato alla rappresentazione culta e all’organizzazione festiva, che non al pazzo giullaresco del Medio Evo. Zafrano era attore, poeta, apparatore e inventore di congegni mec­ canici. Al servizio dei Gonzaga almeno dal 1483, era noto in tutta Italia e la sua collaborazione fu richiesta da Alfonso d’Aragona, Ludo­ vico il Moro e Giovanni Bentivoglio. Nel 1495, per non ricordare che uno degli spettacoli in cui eccelleva, Zafrano intervenne nella grande festa organizzata alla corte di Mantova per carnevale. Oltre al convito e al ballo vi fu una rappresentazione del tipo itinerante già ricordato, la cui attrattiva principale era costituita da una Farsa allegorica di Se­ rafino Aquilano. Seguì Un’Allegoria dello Zafrano «per lui e di sua famiglia composta tutta, perché nel trionfale carro della Pudicitia ave­ va quattro filioli, dui maschi e dui femine, essendo la sua figliola mag­ giore ne la summità del curro, collocata tra dui unicorni». Giunta alla presenza dei convitati, la fanciulla recitò alcuni versi in latino «cum bona audatia, gran modestia, e ottima pronuntia», quindi delle rime in volgare dedicate al marchese Francesco Gonzaga 14. 2. La supposizione di D’Ancona per quanto riguarda un intervento di Zafrano nel 1480 non trova conferma, mentre è accertato che in segui-

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to l’artista ebbe due volte l’incarico dalla corte mantovana di allestire, assieme a Filippo Lapaccino, una nuova rappresentazione dell’Or/tfo. Entrambi gli spettacoli erano destinati a Ercole d’Este: il primo era previsto a Marmirolo, nel novembre del 1490, il secondo a Gonzaga nel giugno del 1491. I due progetti non ebbero esito: nel ’90 perché non giunse in tempo a Mantova Atalante Migliorotti che avrebbe do­ vuto sostenere la parte di Orfeo; nel ’91 perché non era stato possibile condurre a termine, nei pochi giorni a disposizione prima dell’arrivo del duca di Ferrara, l’apparato scenico necessario. Di questo apparato che tanta importanza rivestiva agli occhi dei due sovrintendenti sap­ piamo soltanto che vi erano previsti dei «Centauri» di grandi dimen­ sioni destinati probabilmente al Baccanale finale” e che si contava di affidare l’esecuzione della scena a due pittori, Tondo de Tondi e Luca Leonbeni, in quel momento impegnati a decorare la villa di Mar­ mirolo. Atalante Migliorotti, citaredo e buon cantore, al servizio nel ’90 della corte dei Medici, era anche grande amico di Leonardo da Vinci che gli aveva insegnato ancora giovanetto a suonare la lira e che nell’83 lo aveva condotto seco a Milano alla corte del Moro. Appunto in ra­ gione di questa amicizia, Kate Traumann Steinitz associò alle due rap­ presentazioni progettate per il 1490 e il 1491, due disegni di Leonardo da Vinci, contenuti nel Codice Arundel, e raffiguranti in una serie di schizzi rapidi e non finiti, l’idea di una scena infernale girevole, e i mec­ canismi che la movevano. L’apparato doveva articolarsi in due diverse «apparenze»: la prima mostra una scena montuosa, dominata da un massiccio centrale, attorno al quale gira un vallone (forse praticabile), chiuso a sua volta da un cerchio di montagne che si allontanano digra­ dando dolcemente; la seconda apparenza ripete la scena precedente, ma il massiccio si è spalancato rivelando nella sua cavità la Reggia di Plutone. Alcune piante e vari appunti tecnici rivelano che la roccia centrale era montata su un girevole e che la scena passava da una « ap­ parenza» all’altra, con una mutazione a vista “. La Steinitz avanzò anche l’ipotesi che il testo che si voleva rappre­ sentare nel 1490 o nel 1491 non fosse la Favola originaria di Polizia­ no, ma il suo rifacimento più tardo noto come Orphei Tragoedia. Carlo Pedretti, senza rinunciare all’idea di una nuova rappresentazione dell’Orfeo, sposta la datazione della scena di Leonardo al 1506-507 e pen­ sa che fosse stata progettata per la corte di Charles d’Amboise, gover­ natore francese di Milano, al cui servizio si trovava appunto Leonardo tra il 1506 e il 1511. Anche dal punto di vista cronachistico l’ipotesi di Pedretti è più convincente: pur ammettendo che Leonardo abbia

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disegnata la sua scena soltanto per compiacere l’amico Atalante, e che non fosse pensabile la sua realizzazione in «termine octo di», sembra impossibile che Atalante non abbia trasmesse a Mantova le proposte di Leonardo, o che Zaffano e più ancora Francesco Gonzaga, le abbiano ignorate accontentandosi di rivolgersi ai «due pictori... occupati a la fabrica de Marmirolo». Spostando la data, potremmo pensare a una rappresentazione del terzo rifacimento: La Favola di Orfeo e Aristeo, o a un altro testo in­ dipendente dall’Or/eo. Ma prima di associare la scena di Leonardo a una delle tre versioni dell’Or/eo o a una quarta opera sconosciuta, bi­ sogna risollevare una questione alla quale abbiamo soltanto accennato parlando del Monte-Ade del 1480 visualizzato sui carri pesaresi del ’75. Questione che non abbiamo approfondito per non insistere nell’ana­ lisi di intenzioni giustificabili soltanto con riferimenti letterari indi­ retti. Si tratta cioè di stabilire fino a quale punto siano attribuibili a Poliziano, o ai suoi rifacitori, i risultati di una messinscena incapace di rifiutare la tradizione medievale ma già in qualche modo ossequiente all’idea umanistica di uno spettacolo unitario, e fino a quale punto le intuizioni umanistiche si siano sovrapposte alle strutture medievali ri­ solvendosi in esse. È una problematica che non si esaurisce nella Favola di Orfeo. Na­ sce dalla compiacente promiscuità dei generi rappresentativi che carat­ terizza la fine del Quattrocento e si alimenta nel coesistere non contra­ stato di una esperienza tecnica collaudata e rassicurante, e di una nuo­ va curiosità intellettuale, quella umanistica, eccitante ma non ancora sufficiente a determinare un totale rinnovamento delle forme. In que­ sta problematica resta coinvolta tutta la produzione teatrale, dramma­ tica, musicale e pantomimica, tra il 1480 e il 1508, cioè dalla festa mantovana dell’Or/eo alla prima della Cassaria, a Ferrara, con la quale si affermano, sulla base della scenografia prospettica, i nuovi parame­ tri della messinscena rinascimentale. In questo ambiguo ma fertile coe­ sistere di vecchio e di nuovo si accomunano, come chiarisce Pirrotta, drammi «mescidati» e rappresentazioni classiche, così che «mescidati» si devono considerare non solo i testi come Cefalo, la Danae o i due Limone " ma anche le commedie di Plauto e Terenzio che «mescidate» diventano per l’intervento del traduttore-rifacitore o dell’artista che ne cura l’allestimento. Nucleo generatore di questa problematica ancora in nuce, è l’inse­ rirsi sul tronco tradizionale di una diversa strutturazione drammatur­ gica che prevede un’azione divisa in atti e contemporaneamente l’idea delle tre unità di tempo, luogo e azione, da ricostituire ad ogni costo.

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Anche lo spettacolo medievale, sacro e profano (e VOrfeo ne è una prova), prevedeva un’azione senza soluzione di continuità, coerente al punto da giustificare la promiscuità tra pubblico e attori. Ma tale con­ tinuità procedeva da una interpretazione ambigua e convenzionale del tempo e dello spazio, mentre le tre unità umanistiche rispondono a un impulso razionale che libererà la convenzione da ogni ambiguità, at­ tribuendole un valore soltanto scenico e drammaturgico. Per gli Acca­ demici rinascimentali il tempo, il luogo e l’azione saranno veramente unici, l’azione si svolgerà unitaria, nell’arco del giorno solare, sulla piazza o nella via di una città che non muta mai. Il compromesso si riproporrà, se mai, diversamente (ma ne parleremo a suo luogo), nell’abbinare la scena al genere drammatico piuttosto che alla finzione del testo, o nel ricorrere agli intermezzi apparenti per suturare la frattura determinata dalla divisione in atti. La scena sacra medievale, risolvendosi nella struttura ricorrente dei luoghi deputati, multipli e simultanei18 confermava nella sua formula­ zione visiva l’idea di un tempo e di uno spazio illimitati perché già im­ pliciti nella vicenda sacra, nota, eterna e quindi sempre presente. Così la rappresentazione profana, con o senza carri, presupponeva nell’al­ legoria un tempo e uno spazio fantastici e quindi illimitati, ma li ripor­ tava costantemente al presente, per l’intervento encomiastico che for­ zava l’allegoria, dedicandola allo spettatore che in essa si identificava ed onorava. Sotto questo aspetto, la Favola di Poliziano resta in un certo senso legata all’idea medievale del tempo e dello spazio senza soluzione di continuità, ma si presenta priva sia del supporto mistico di un tempo eterno in quanto sacro, sia della giustificazione encomiastica che si in­ serisce, come una interpolazione a sé stante e sopprimibile, con l’ode latina, cantata da Orfeo e dedicata al cardinale Gonzaga. Non credo vi fosse in Poliziano una esigenza drammaturgica nuova, ma piuttosto una diversa fantasia, un nuovo modo di configurare le immagini e di espri­ merle in versi. La presunzione umanistica mi sembra invece presente neWOrphei Tragoedia sebbene l’autore non operi una vera trasforma­ zione drammaturgica del testo, ma si limiti ad inserire l’episodio delle Driadi e a dividere il testo in cinque atti titolandoli filologicamente: Pastoricus, Nimphas habet, Heroicus, Necromanticus, Bacchanalis. Questa esigenza di aggiornamento si fa anche più sensibile nella Favola di Orfeo ed Aristeo dove, come è noto, la vicenda viene ampliata con l’aggiunta di tre atti. Il primo, l’antefatto, in cui Apollo ottiene da Mercurio la cetra per il figlio e Orfeo ottiene da Diana, Euridice; e il IV e V, in cui si assiste alla purificazione di Aristeo, attraverso la

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progressione di avvenimenti mostruosi: le Menadi trasformate in al­ beri da Bacco, il serpente pietrificato da Apollo nell’atto di addentare il capo straziato di Orfeo. Anche qui la suggestione umanistica è av­ vertibile nella scelta dei temi mitologici attinti da Virgilio e Ovidio, nella divisione in atti, e nell’inserimento fra l’uno e l’altro di brevi cori lirici in versi ottonari,'ma non giunge ancora ad imporre l’idea classica delle tre unità, e la vicenda continua a svolgersi, come nella favola originaria, in un tempo e uno spazio fuori della realtà. A voler cercare una radice comune nei motivi che hanno ispirato le tre versioni dell’Or/eo e la scena di Leonardo, direi che il testo cui es­ sa si avvicina di più è quello del terzo rifacimento, per un prevalere dell’elemento fantastico riconoscibile sia nelle tramutazioni finali della Favola, sia nel movimento «a sorpresa» del Monte che si apre e si chiude. Ma l’importanza della scena di Leonardo non mi sembra tanto le­ gata all’individuazione del testo che l’ha ispirata, quanto al significato che essa viene ad assumere nel quadro spettacolare del tempo. Piu che la visualizzazione della scena di uno o dell’altro Orfeo essa è la solu­ zione dei problemi stessi della messinscena tardo-quattrocentesca che vorrei, abusando del termine, chiamare «mescidata». Soluzione che non arriva improvvisa nemmeno in Leonardo, poiché nelle altre due feste, che gli sono con certezza attribuibili, La Festa del Paradiso (1490) e la Danae (1496) è ancora l’elemento tradizionale che prevale, nono­ stante l’aggiornamento delle figurazioni mitologiche. Elemento principale in entrambe le scene sono due ingegni, ed è interessante rilevare come i dispositivi di Leonardo ripropongano uno almeno dei due diversi tipi di Paradisi fiorentini, sulla cui forma e manovra tanto si è scritto a proposito di Brunelleschi e del Cecca, e che Leonardo aveva certamente viste in gioventù.a Firenze. Nella Festa del Paradiso ” la promiscuità tra azione scenica e cele­ brazione cortigiana, tra residuo tradizionale e informazione classica, è già evidente nel testo non certo prezioso di Bellincioni e condizionato io credo in ugual misura dalla volontà del Moro ispiratore della festa, e dalla presenza dominante di Leonardo e del suo apparato. La trama è tenue: Giove, dopo aver ringraziato Dio di aver concesso alla terra la somma bellezza nella persona di Isabella, scende dal suo Paradiso coi sei Pianéti, per rendere omaggio alla Duchessa. Dal Monte, dove la formazione celeste si ricostituisce con ordine, dopo il «volo», si par­ tono prima Mercurio, poi gli altri pianeti Diana, Venere, Apollo, Mar­ te, Saturno, per offrire a Isabella, seduta al centro della sala «la vertu e possanza sua». Giove offre quindi il suo dono: le tre Grazie e le sette

i. Il Monte dclli Ebrei. Miniatura di Lionardo da Colle in Ordine de le Noze de lo illu­ strissimo Signor Misir Costando Sfortia de Aragonia: et de la illustrissima Madona Ca milia de Aragonia sua consorte nel anno mcccclxxv. Manoscritto datato 1480.

Cassone di scuola fiorentina (secolo xv) con scena di nozze ritenute tradi­ zionalmente le Nozze di Boccaccio Adimari. 3. Il Trionfo della Castità. Autore ignoto del secolo xv.

2.

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