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Italian Pages 230 Year 2014
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Levinas la trama logica dell’essere
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Au dedans, au dehors
Collana diretta da: Giuseppe Cantillo, Danielle Cohen-Levinas, Jean-François Courtine, Elio Matassi
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Au dedans, au dehors 1
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Jean-François Courtine Levinas
la trama logica dell’essere Traduzione e cura di Giuseppe Pintus
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6 Titolo originale Levinas la trame logique de l’être
Volume pubblicato con il contributo di École Normale Supérieure de Paris UMR 8547 - Archives Husserl
© 2012, Hermann, 6 rue Labrouste, 75015 Paris - France www.editions-hermann.fr © 2013, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] ISBN – Edizione cartacea: 9788890700644 ISBN – E-book: 9788898694600 Collana Au dedans, au dehors Issn. 2281-5368 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Barnett Newman, Covenant, 1949, oil on canvas, 121,3 x 151,5 cm, Collection Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington, D.C. Gift of Joseph H. Hirshhorn, 1972. © 2013, The Barnett Newman Foundation, New York / Artists Rights Society (ARS), New York, by Siae 2013
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Introduzione
Sulla soglia delle «Conclusioni» di Totalità e Infinito, Emmanuel Levinas cominciava col ricordare che l’opera non intendeva apportare un contributo alla psicologia o all’antropologia: se aveva preso in considerazione la relazione («la relazione sociale»), era al di fuori delle categorie fondamentali della «logica formale» e affinché si potesse far emergere, in una accezione radicalmente nuova, «la trama logica dell’essere». Con questa formula che alcuni possono aver trovato inattesa, l’autore faceva eco al proposito che compare già nell’Ouverture e che costituisce in realtà tutta la prima sezione. Nello stesso momento in cui intendeva criticare il primato heideggeriano della «comprensione dell’essere» («l’ontologia presuppone la metafisica»), poneva la relazione con Altri come relazione «con un ente», «relazione ultima nell’essere»1. Su questo punto, nessuna opposizione senza dubbio tra il primo grande libro e Altrimenti che essere, nel quale Levinas si chiedeva, a dire il vero nel modo di un’esclamazione: «Il soggetto si comprende fino alla fine a partire dall’ontologia? È qui uno dei problemi 1. Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Martinus Nijhoff, La Haye 1961; tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1997, p. 45.
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principali della presente ricerca o, più esattamente, quello che mette in questione»2. Questa rimessa in questione dell’ontologia o, meglio, della differenza ontico-ontologica impegna in qualcosa come una contro-ontologia, come una nuova «ontologia fondamentale»3. Su quale «ente esemplare» leggere «il senso dell’essere»? Come definire la relazione dell’esistente con l’essere, l’ente (nella comprensione Levinassiana enfatica), gli enti, il mondo, Dio…? In un’intervista concessa nel 1986 a tre «graduate students» dell’università di Warwick (Tamra Wright, Peter Hughes e Alison Ainley), Levinas dichiarava che, dopo Totalità e infinito, aveva cercato di abbandonare la «terminologia ontologica», ma con ciò intendeva anche sottolineare: «quando parlo dell’essere […], quello che è da trattenere è che l’analisi, in fin dei conti, non deve essere presa in un senso psicologico. Quello che è descritto nei fatti umani, non è semplicemente empirico, ma è una struttura essenziale, e nella parola “essenziale”, c’è la parola esse, essere: come se fosse qui presente una struttura ontologica»4. 2. Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Martinus Nijhoff, La Haye 1974; tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che Essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 38. 3. Vi è qui uno dei grandi meriti dei lavori che Didier Franck ha dedicato a Levinas, a partire da «Le corps de la différence», oggi ripreso in Dramatique des phénomènes, Puf. («Épiméthée»), Paris 2001, fino all’ultima opera, L’un-pour-l’autre, Levinas et la signification, Puf. («Épiméthée»), Paris 2008, quello di aver tentato una lettura orientata da questa domanda della differenza ontologica e del senso dell’essere. 4. Corsivo del testo. Questa intervista è prima apparsa in inglese nell’opera collettanea curata da Robert Bernasconi e David Wood, The Provocation of Levinas: Rethinking the Other, Routledge, Londres New-York 1988, pp. 168-179. Il dialogo è stato di recente tradotto in francese da Alain David, Philosophie, n° 112, hiver 2011; il passo citato si trova a p. 171, e a p. 14 della traduzione francese. Si veda anche Is it righteous to Be? Interviews with Emmanuel Levinas, a cura di Jill Robins, Stanford University Press, Stanford 2001.
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I primi capitoli del presente volume si sforzano, in vario modo, di prendere sul serio questa ipotesi di un’altra ontologia, sia che si tratti della rivalutazione dell’articolo del 1951 («L’ontologie est-elle fondamentale?»), dell’idea di un’altra «fenomenologia materiale», o ancora dell’abbozzo del motivo della traccia e della diacronia. La seconda parte dell’opera – che non ha alcuna pretesa sintetica o sistematica, e che procede per lo più per colpi di sonda – non abbandona del tutto le acque levinassiane. Innanzitutto perché si fa carico del rischio di una esplorazione, del tutto preliminare e provvisoria, della dimensione teologica e politica di questo pensiero, e poi perché, anche quando si dirige verso Schelling, Rosenzweig o Benjamin, sono ancora dei temi legati alla temporalità stratificata – fasi e sfasamento –, alla profondità di un passato immemoriale, alla meditazione di un’altra storia («storia superiore» o «storia santa»), o alla parola (interlocuzione, chiamata, nomina) che sempre attraggono il nostro proposito. Alcuni capitoli (I e III) prendono per punto di partenza dei contributi già pubblicati: «L’ontologie fondamentale d’Emmanuel Levinas» nel volume curato da Danielle Cohen-Levinas e Bruno Clément, Emmanuel Levinas et les territoires de la pensée, Paris, Puf. («Épiméthée»), 2009; il capitolo III, «Deformalizzare la nozione di tempo», propone, invece, una rifusione ed una riscrittura di un contributo inizialmente pubblicato nel volume curato da Jocelyn Benoist, La consience du temps. Autours des Leçons sur le temps de Husserl, Paris, Vrin 2008. Che i curatori ne siano vivamente ringraziati, tutti ed in particolare Danielle Cohen-Levinas le cui sollecitazioni amicali hanno permesso la cristallizzazione di questi diversi saggi. Alghero - Parigi, Novembre 2011 - Gennaio 2012
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I L’ontologia fondamentale di Emmanuel Levinas
Levinas, come è noto, ha spesso rimarcato il suo debito nei confronti di Heidegger e più precisamente di Sein und Zeit; lo ha fatto dall’inizio alla fine della sua opera. Per esempio in Altrimenti che essere, scriveva in nota: Queste righe e quelle che seguono devono molto a Heidegger1,
aggiungendo a tali parole questa domanda (della quale non so dire se è retorica o meno, ma che potrebbe essere indirizzata ironicamente a Derrida, l’autore di «Violenza e metafisica»): Queste righe devono molto a Heidegger. Deformato e mal compreso? Per lo meno questa deformazione non sarà stata un modo di rinnegare il debito, né questo debito una ragione di dimenticanza.
1. Altrimenti che essere..., p. 49. O ancora, ma si potranno moltiplicare i riferimenti, Éthique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Fayard, Paris 1982; tr. it. di M. Pastrello, Etica ed infinito, dialoghi con Philippe Nemo, Città aperta, Troina (En) 2008, p. 59: «Ben presto ho provato una grande ammirazione per questo libro [Sein und Zeit], uno dei più belli della storia della filosofia – lo affermo dopo molti anni di riflessione. Uno dei più belli tra altri quattro o cinque…».
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Tornerò su questa «deformazione» e questa «mal comprensione» – è il mio proposito! – ma voglio prima illustrare ancora un istante, in un modo che non intende certo essere esaustivo, la testimonianza della «riconoscenza di debito». Per esempio, ancora, nella Conferenza del marzo 1987 al Collège International de Philosophe, che aveva per titolo «morire per…»: Ricerche personali e, in particolare, la meditazione di Sein und Zeit mi hanno condotto a dei pensieri che non hanno mai perso di vista questo libro primordiale, pur allontanandomi dalla sua tesi sulla priorità fondamentale dell’ontologia...2
Ma vorrei soprattutto ricordare le prime parole scritte da Emmanuel Levinas per la prefazione alla traduzione tedesca di Totalità e Infinito, nello stesso 1987; sono le seguenti: Questo libro che si vuole e si sente di ispirazione fenomenologica procede da una lunga frequentazione dei testi husserliani e da una incessante attenzione a Sein und Zeit.3
Lascerei interamente da parte qui la questione dell’ispirazione fenomenologica, nel senso della frequentazione dei testi husserliani, per concentrarmi sull’ «incessante attenzione» nei confronti di Sein und Zeit. Vi è qui, infatti, una indicazione che non si saprebbe prendere troppo sul serio e… alla lettera, tanto più che Levinas rimarcava questo punto già nei suoi primi lavori del dopo guerra (dall’Esistenza all’esistente e Il tempo e l’altro), che sono anche, in un certo senso, dei lavori
2. Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991; tr. it. di E. Baccarini, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca book, Milano 1998, p. 241. 3. Ibid., p. 263. Corsivo del testo. [Nel presente volume utilizziamo l’espressione “corsivo del testo” per tutti quei casi in cui l’autore ha voluto sottolineare che i termini in corsivo sono presenti nell’originale del testo citato, utilizziamo la dicitura “corsivo dell’autore” quando, invece il corsivo è stato aggiunto da J.-F. Courtine. N.d.T.]
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preparatori del primo grande capolavoro del 19614. Se dunque l’ispirazione, almeno iniziale, è heideggeriana – Levinas parla qui d’ispirazione, come farà ancora quarant’anni più tardi, a proposito di Husserl, nella Prefazione appena ricordata –, questa conduce tuttavia, trattandosi dell’ontologia (o della nozione di ontologia, come Levinas la restituirà) e trattandosi anche della relazione che l’uomo intrattiene con l’essere, a ciò che si sarebbe tentato di caratterizzare come una opposizione frontale, diametrale, punto per punto e in tutto, con il pensatore di Friburgo. La situazione è dunque abbastanza complessa, poiché occorre nello stesso tempo: - prendere atto del varco heideggeriano, della radicalità del rinnovamento che introduce nella filosofia contemporanea: avrebbe permesso, nota ancora Levinas, di «rinnovare la problematica filosofica»5; cosa non da poco, dal momento che il rinnovamento è decisivo e che non è più possibile in principio ritornare, in seguito, ad un livello anteriore di problematizzazione: «non si saprebbe uscirne verso una filosofia pre-heideggeriana», precisava il testo appena citato; - ma occorre tuttavia uscirne, se almeno ci si attiene al «bisogno profondo di abbandonare il clima di questa filosofia». Quest’ultima formula trova, si sa, numerosi echi nel corpus levinassiano, a partire dal finale di Dell’evasione nel 1935 («si tratta di uscire dall’essere per una nuova via, a rischio di ca-
4. In generale ci si riferirà ora al volume 2 delle Opere, Parole et silence, et autres conférences inedites, Grasset, Paris 2009; tr. it. di S. Facioni, Parola e silenzio, e altre conferenze inedite, Bompiani, Milano 2012, che ci permette di entrare veramente nel laboratorio preparatorio del grande libro del 1961. 5. De l’existence à l’existant, Éditions de la revue Fontaine, Paris 1947, riedito da Vrin, Paris 1978; tr. it. di F. Sossi, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986, p. 13.
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povolgere certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni sembrano le più evidenti»), fino alla precisazione dell’ultimo seminario tenuto in Sorbona6. * L’incessante attenzione nei confronti di Sein und Zeit è dunque anche e soprattutto quella del contro-piede, quello che Jacques Taminiaux chiamava, in uno studio pubblicato in Cahier de l’Herne Levinas, la replica o le «repliche» di Levinas all’ontologia fondamentale7 (bisognerebbe sempre aggiungere: a ciò che egli intendeva per «ontologia fondamentale» o l’ontologia fondamentale nel senso di Levinas, e che non ha molto a che vedere con la Fundamentalontologie introdotta da Heidegger nel paragrafo quattro di Sein und Zeit). Ci ritornerò tra un istante.
6. Dieu, la mort et le temps, Grasset, Paris 1993; tr. it. di S. Petrosino, Dio, la morte il tempo, Jaca Book, Milano 1996, p. 48: «Questa indagine […] si differenzia dal pensiero di Heidegger – e ciò qualunque sia il debito che ogni ricercatore contemporaneo ha nei confronti del filosofo tedesco, debito che gli si deve spesso con rimpianto». 7. Jacques Taminiaux, «La première réplique à l’ontologie fondamentale», in Cahier de l’Herne, Levinas, a cura di Catherine Chalier e Miguel Abensour, Éditions de l’Herne, Paris 1991, pp. 275-284. Vedi anche su questo punto lo studio molto raffinato di Peter Eli Gordon, «Fidelity as Heresy, Levinas, Heidegger and the Crisis of the Transcendantal Ego», in Heidegger’s Jewish Followers, Essays on Hannah Arendt, Leo Strauss, Hans Jonas and Emmanuel Levinas, a cura di Samuel Fleischacker, Duquesne University Press 2008, pp. 187-203. L’autore si impegna nel mostrare soprattutto come ciò che Levinas chiama «relazione etica» appare meno come una «alternativa» all’ontologia che come un tentativo per «dare una risposta più radicale ad una domanda che dimora ontologica nella sua stessa struttura» (p. 188). Jean-Luc Marion ha, da parte sua, studiato scrupolosamente il dibattito intrapreso da Levinas con Sein und Zeit, § 26 : «La substitution et la sollicitude, Comment Levinas reprit Heidegger», in D. Cohen-Levinas e B. Clement (a cura di), Emmanuel Levinas et les territoires de la pensée, Puf. Paris 2007, pp. 51-72.
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Questa attenzione critica, e perfino risolutamente critica, è leggibile dall’inizio, fin dai primissimi testi di esposizione che Levinas dedica ad Heidegger, e dunque fin dall’articolo del 1932: «Martin Heidegger e l’ontologia», nel quale compare già la curiosa espressione di ontologismo per caratterizzare il pensiero di Heidegger o, più nettamente ancora, nella relazione presentata da Levinas nel 1940 in un seminario di Jean Wahl in Sorbona («L’ontologia nel temporale») del quale ricordo la conclusione: Ponendo il problema dell’ontologia, in cui Heidegger scorge giustamente l’aspetto essenziale della sua opera, egli ha subordinato la verità ontica, in tensione verso l’altro, alla questione ontologica che si pone in seno allo Stesso, in seno a quel se stesso che, attraverso la sua stessa esistenza, è una relazione con quell’essere che è il proprio essere. Questa relazione con l’essere è l’interiorità originaria vera e propria. La filosofia di Heidegger è un tentativo di porre la persona come luogo in cui avviene la comprensione dell’essere, rinunciando completamente ad appoggiarsi sull’eterno. Nella temporalità originaria, o nell’essere per la morte, condizione di ogni essere, essa scopre il nulla su cui poggia, il che significa anche che essa non poggia su nient’altro che su se stessa. Regalità che deriva dalla nostra indigenza; priva di trionfo e di ricompensa. Con ciò, l’ontologia di Heidegger acquista un tono del tutto tragico e diviene la testimonianza di un’epoca e di un mondo che un domani potrà forse essere superato8.
Ma allora, in cosa consiste esattamente il debito così riconosciuto? Ad una tale domanda non è senza dubbio possibile dare una risposta univoca, in ragione della doppia caratterizzazione dell’opera del 1927, che Levinas propone. Ricapitolia-
8. En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949; tr. it. di F. Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 101 s.
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mo velocemente: - Heidegger è colui che avrebbe rinnovato la questione dell’ontologia (il punto è sottolineato dall’articolo del 1932: «Martin Heidegger e l’ontologia»); lui ci avrebbe insegnato, infatti, a intendere o a ri-intendere la parola «essere» nella sua verbalità. In una nota alla Petite histoire de l’existentialisme di Jean Wahl, Levinas evocava ancora, dopo la guerra, «il brivido filosofico nuovo apportato da Heidegger», che consisteva nel «distinguere essere ed ente» e nel «trasporre nell’essere la relazione, il movimento, l’efficacia che fino a quel momento risiedevano nell’esistente», altrimenti detto nel pensare «l’esistenza – l’essere verbo – come avvenimento»9. - Allo stesso modo, è questo tratto che permetteva a Levinas già nel 1932, nell’articolo citato «Martin Heidegger e l’ontologia», di ricavare quello che considera come «l’apporto principale del pensiero heideggeriano», vale a dire che: «…l’uomo non è un sostantivo, ma inizialmente verbo: lui è, nell’economia dell’essere, il “rivelarsi” dell’essere, non è Daseindes, ma Dasein»; nello stesso tempo Levinas nei suoi primi testi del 1947-48 si impegna a «descrivere» l’avvenimento della soggettività10, il processo della soggettivazione come quello per il quale l’esistente (il Dasein, se vogliamo) diventa sostanza, ipostasi: Daseiendes, precisamente, ente: in una formula provocante, che si ritroverà riportata alla lettera in Totalità e infinito, scrive che «l’ente per eccellenza, è l’uomo»11. 9. Nota ripresa in Les imprévus de l’histoire, Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1994, p. 112. Ibid., p. 113: «Si può dire che l’esistenzialismo consiste nel sentire e pensare che il verbo essere è transitivo». 10. «…l’avvento del soggetto», Dall’esistenza all’esistente, p. 61. 11. Totalità e infinito, p. 119. Cfr. anche Dall’esistenza all’esistente, p. 75 [modificato]: «L’ipostasi, l’apparizione del sostantivo, non è solo l’apparizione di una nuova categoria grammaticale; essa significa la sospensione dell’il y a anonimo, l’apparizione di un dominio privato, di un nome. Sullo sfondo dell’il y a sorge un ente. Il significato ontologico dell’ente nell’econo-
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* Ma ritorno al debito e al suo singolare clivaggio: - Heidegger è colui che avrebbe superato in maniera definitiva l’idealismo classico (è qui un motivo lungamente sviluppato sulla soglia dello studio «L’ontologia nel temporale», testo già menzionato di una comunicazione all’interno di un seminario di Jean Wahl nel 1940); - colui che avrebbe aperto una lettura critica di Husserl (lettura nella quale lo stesso Levinas si è impegnato in realtà dalla tesi del 1931, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl); Ma Heidegger è anche e nello stesso tempo: - colui che prolunga e chiude (i.e. porta al proprio compimento) una tradizione venerabile, ma che bisogna superare, dalla quale bisogna uscire (rinvio ancora una volta a Dell’evasione); - colui che testimonia un clima che si spera di poter abbandonare; - colui che porta la tragicità dell’essere alla sua espressione più netta; - colui che avrebbe illustrato una concezione pagana dell’esistente e ancora più fondamentalmente a-religiosa, persino anti-religiosa12;
mia generale dell’essere – che Heidegger ha semplicemente posto affianco dell’essere attraverso una distinzione – viene così dedotto. Attraverso l’ipostasi l’essere anonimo perde il suo carattere di il y a. L’ente – ciò che è – è il soggetto del verbo essere e, di conseguenza, esercita una padronanza sulla fatalità dell’essere che è divenuto il suo attributo. Esiste qualcuno che assume l’essere, il quale ormai è il suo essere». 12. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 196: «Heidegger non riassume soltanto un’intera evoluzione della filosofia occidentale, l’esalta an-
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- È infine colui la cui l’impresa si lascia riassumere sotto il termine (curioso) di ontologismo. A partire dall’articolo del 1932, si trova a più riprese l’espressione ontologismo13. Dal 1932, ciò spiega, mi sembra, il fatto che non si saprebbe semplicemente togliere l’ambiguità del debito (riconoscenza dell’apporto e distanza considerabile presa con tutta l’impresa heideggeriana) invocando una qualunque evoluzione della ricezione levinassiana per cui da una prossimità iniziale si passerebbe ad uno scarto sempre più marcato. Mi pare che l’-ismo di «ontologismo», termine probabilmente reinventato da Levinas (ma lo si poteva leggere all’epoca di Maurice Blondel), sia, senza dubbio, semplicemente destinato a proporre come una versione negativa, peggiorativa della questione dell’essere, nella misura in cui assorbirebbe ed estenuerebbe la problematica ontica; sarebbe dunque destinato a stigmatizzare un pensiero nel quale la questione dell’essere verrebbe considerata come «fondamentale» o «fondativa». che, mostrandone nel modo più patetico l’essenza antireligiosa che è diventata una religione alla rovescia». Si rimane un po’ sognanti: il «paganesimo» di Heidegger conserva degli strani sentori paolini, luterani, kierkegaardiani…! 13. Si sa che il termine viene dal Magistero; compare in buona posizione nelle quaranta proposizioni condannate da Leone XIII nel 1887, che riprende e precisa in quest’occasione, delle condanne già effettuate nel 1861 dal Sant’Uffizio, e che riguardavano direttamente Antonio Rosmini, nel contesto di un dibattito sulle prove dell’esistenza di Dio e la questione di una intuizione dell’essere in generale (da qui sullo sfondo Malebranche!). Ricordo questo per memoria, poiché non si saprebbe trovare, se si prende in considerazione la sua storia, un termine meno adeguato per caratterizzare la questione heideggeriana, la Seinsfrage che viene da Aristotele, in particolare passando per Brentano, questione che verte sulle accezioni multiple dell’essere o dell’«è»: non c’è qui in effetti niente che somigli, da vicino o da lontano, a una «idea dell’essere» o a una intuizione prima dell’essere puro e generale!
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Un breve richiamo si impone: per Heidegger l’ontologia non è certamente – lungi da lui – fondamentale, poiché tutto il proposito di Heidegger sin dai corsi di Friburgo all’inizio degli anni venti (e in particolare il corso del 1923 «Ontologia – ermeneutica della fatticità») sarebbe stato quello di distruggere, di decostruire questa ontologia di tradizione aristotelica e di elaborare le condizioni per riporre in modo nuovo [à neuf] (il termine è importante) il problema del senso dell’«essere» o dell’«è», prima attraverso una riflessione sulla stessa struttura formale del problema dove si lasciano distinguere il «cercato», ciò su cui «verte il problema», il suo Gefragtes; ciò a cui si pone la domanda, l’interrogato (il Befragtes), qui l’ente stesso o meglio il Dasein nella misura in cui ha da rispondere del suo essere, e infine ciò che è propriamente preso di mira nella ricerca, ossia ciò rispetto al quale il cercare raggiunge lo scopo (das eigentlich Intendierte, das Efragte)14. È la realtà e la portata di questa ripetizione, decostruzione o distruzione, vale a dire di questa rottura, che si trova ultimamente ricusata da Levinas. Se occorreva dunque rispondere alla domanda formulata nell’articolo del 1951: «L’ontologia è fondamentale?»15, la risposta di Heidegger sarebbe evidentemente negativa, e ciò ben prima del corso del 1935, pubblicato nel 1953: Introduzione alla metafisica16.
14. Sein und Zeit, Niemeyer, Tubingen 1952, § 2; tr. it. di P. Chiodi, rivista da F. Volpi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1971, Cfr. p. 16. 15. Ripreso in Tra noi, saggi sul pensare all’altro, pp. 29-40. 16. Einführung in die Metaphysik, Niemeyer, Tubingen 1962, p. 31; tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 51. Il passaggio merita di essere citato a lungo: «Il termine “ontologia” è stato coniato per la prima volta nel secolo XVII. Esso sta ad indicare il costituirsi della dottrina tradizionale dell’ente in forma di disciplina filosofica e come branca speciale del sistema filosofico. Tale dottrina tradizionale consiste nello smembramento e nella sistemazione, ad opera delle scuole, di ciò che per Platone e Aristotele, e ancora per Kant costituiva un problema [“question”
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Ciò che crea un controsenso nella critica di Levinas, anche se peraltro questo controsenso non tocca la critica o non ne attenua l’acume, è che Heidegger con Fundamentalontologie non intende affatto l’ontologia, la domanda dell’essere o anche l’elaborazione sul senso dell’«essere», ma piuttosto l’analitica del Dasein. Quando Heidegger scrive: La prova della peculiarità ontico-ontologica del problema dell’essere si fonda nella chiarificazione provvisoria del primato ontico-ontologico dell’Esserci17,
o ancora: L’Esserci si rivelò qui come l’ente che deve prima essere elaborato in modo ontologico adeguato affinché la posizione del problema sia trasparente,
non fa altro che programmare quello che chiamerei positivamente l’«ontologia fondamentale» di Levinas, vale a dire il tipo di analisi e di descrizione che Levinas spiega in Dall’esi-
nel testo francese, tr. fr. utilizzata: Gilbert Kahn (modificata), PUF, Paris 1958, p. 50. N.d.T.], per quanto già non più così originario. In tal senso il termine «ontologia» è assunto ancor oggi. Sotto questa denominazione, ogni filosofia mira a proporre e a presentare una particolare disciplina dell’intero sistema. Il termine «ontologia» può venire assunto tuttavia anche «nel senso più ampio», «senza riferimento a particolari indirizzi o tendenze ontologiche» (cfr. Sein und Zeit, § 3). In tal caso il termine “ontologia” designa lo sforzo di portare l’essere alla parola (das Sein zum Wort zu bringen), in virtù appunto della domanda: “che cosa ne è dell’essere?” (e non soltanto dell’essente come tale). Siccome però finora questa domanda non ha trovato nessuna eco e ancor meno una risposta, ma è stata anzi rifiutata espressamente dai vari circoli dell’erudizione filosofica scolastica che mira ad una “ontologia” in senso tradizionale, meglio varrebbe, in futuro, rinunciare affatto ai termini “ontologia” e “ontologico”. Ciò che infatti risulta separato da un abisso […] nei confronti dello stesso modo di impostare la domanda, non deve neppure essere chiamato allo stesso modo». 17. Essere e tempo, p. 27.
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stenza all’esistente e in Il tempo e l’altro, per rendere conto dell’evento («avvento») del «soggetto». Ciò è confermato ancora dalla fine del paragrafo quattro di Sein und Zeit, nel quale Heidegger concludeva, senza alcuna ambiguità: Ma ora è stato mostrato che l’analitica ontologica dell’Esserci è in generale l’ontologia fondamentale, e che pertanto l’Esserci funge da ente che in linea di principio va interrogato per primo intorno al proprio essere.
Ma per tornare alla domanda iniziale: in cosa vi è debito e perché questa riconoscenza di debito? Può essere nel senso in cui si è debitori ad un avversario per gli appigli che ci fornisce, coscientemente o suo malgrado; nel senso in cui, in un combattimento, ci si può appoggiare, vale a dire si può far leva sulle posizioni dell’avversario per capovolgerle. È senza dubbio in tal senso che Jacques Taminiaux parlava con una certa gioia, come ho già ricordato, di «replica» di Levinas a Sein und Zeit e all’ontologia fondamentale. A condizione di precisare inoltre che non si tratta tanto, in questa Auseinandersetzung, di replica punto per punto, ma di una risposta globale, di un tentativo di presa o di ripresa capovolgente. In cosa consisterebbe questo capovolgimento? Qui, per me, la questione non è evidentemente quella di analizzare la strategia di capovolgimento nei suoi diversi momenti. Tutt’al più potrei tentare di caratterizzare, nei suoi tratti più generali o meglio nel suo nucleo centrale, la contro impresa levinassiana in rapporto a Sein und Zeit. Per caratterizzare in maniera globale il capovolgimento, credo che si possano, almeno schematicamente, mettere in rilievo due tratti salienti: - il rifiuto da parte di Levinas di considerare seriamente, nell’economia dell’analitica esistenziale, l’idea tuttavia centra-
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le della co-originarietà (gleichursprünglich, Gleichursprünglichkeit) degli esistenziali. Occorre qui esprimersi con prudenza: non intendo evidentemente insinuare che Levinas non avrebbe compreso la tesi della co-originarietà degli esistenziali, così come emerge chiaramente nell’analitica del Dasein, o che avrebbe commesso un grossolano controsenso! Non so come caratterizzare esattamente qui questo effetto di lettura; credo che sarebbe più opportuno e più giusto parlare di «misconoscimento» o meglio di misconoscimento interessato, vale a dire che mira a far risaltare altri tratti costitutivi della soggettività del soggetto (quelli che Levinas chiamerà sostanzialità o «sostantività»), dei tratti che l’analitica esistenziale attenua o rischia a sua volta di misconoscere; - il secondo punto suscettibile di chiarire il capovolgimento considerato e operato da Levinas sarebbe relativo al fatto di passare quasi sotto silenzio il contrasto, anch’esso strutturante per l’insieme di questa analitica del Dasein, tra «autentico» - «inautentico», «proprio-improprio» (eigentlich – uneigentlich). Tento di spiegarmi su questi due punti, ritornando rapidamente sulla contro-proposta o la contrapposizione levinassiana: su quello che per Levinas funge da ontologia fondamentale (ciò che deve far spazio alla Fundamentalontologie heideggeriana), cioè quello che possiamo chiamare una ontologia (risolutamente egologica) e pre-etica: l’ontologia del soggetto o della sostanza. Rodolphe Calin, in un’opera eccellente, Levinas et l’exception du soi18, evocava giustamente «l’ontologia del soggetto» che Levinas oppone all’«ontologia dell’essere-nel-mondo» (o diciamo alla Fundamentalontologie). È questa «ontologia
18. Levinas et l’exception du soi, Puf. («Épiméthée»), Paris 2005.
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del soggetto» che mi è sembrato legittimo presentare come l’«ontologia fondamentale» di Levinas. Perché questa caratterizzazione? Non di certo per «giocare con le parole», ma perché questa contrap-posizione, questa opposizione fa meglio risaltare, mi sembra, in cosa le analisi levinassiane sono ampiamente delle «repliche» all’impresa di Sein und Zeit e alla sua parte centrale: l’analitica dell’esserci considerata, in primo luogo, come essere-nel-mondo. Una ontologia del soggetto risolutamente ipostatica – una ontologia «basica», quella della «base» appunto, dell’elementare o meglio dell’elementale19, della materialità del «soggetto» definito dal suo «egoismo-ontologico»; è questa che deve permettere di rendere conto di e/o di descrivere l’evento primo della soggettività, come un processo di soggettivazione, come l’avvento dell’interiorità e dello «psichismo», come la prima temporalizzazione, ancora primitiva e incoativa, dell’istanza ipostatica, precisamente nell’istante, ai limiti della fatica, dello sforzo, della pigrizia, della difficoltà del cominciamento20. Un tal punto di partenza fenomenale è per così dire richiesto dal momento in cui si tratta di elaborare una ontologia consistente dell’ego non isolato, ma costitutivamente solo: ego solus (L’unico e la sua proprietà, diceva l’altro), poiché è solamente per contrasto con questa egologia solipsista che si potrà liberare, nella sua estraneità, la sua alterità radicale, la sfera o meglio la dimensione dell’eticità, quello che anche Levinas arriva a chiamare «religione» o «socialità»21. Si intravvede già chiara19. Totalità e infinito, p. 132: «Ogni relazione o possesso si situa in seno al non possedibile che avvolge o contiene senza poter essere posseduto o avvolto. Lo definiamo elementale (élémental)». Cfr. anche, ibid., p. 141 s. «Il formato mitico dell’elemento». Ritorneremo su questa nozione nel cap. II. 20. Dall’esistenza all’esistente, p. 69 s. 21. Nelle conclusioni di Totalità e infinito, Levinas ricapitola queste analisi delle «relazioni», o del «dispiegamento essenziale della Relazione» sotto il titolo di ciò che chiama una «logica dell’interiorità», «una specie di micro-
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mente la posta in gioco di questa contro-ontologia fondamentale: manifestare l’imperiosa necessità di uscire dall’essere «in senso eleatico», e comunque dall’ego sum, non per aprire una qualche dimensione e-statica, quella del fuori-di-sé (heideggeriano o comunque sartriano) come essere-con, ma per assicurare quello che Levinas chiamava, all’epoca di Dall’esistenza all’esistente la «vera sostanzialità» del soggetto, la sua «sostantività», quella stessa di ciò che riceve e porta un nome proprio. Questo procedimento o questo processo della soggettivazione è innanzitutto caratterizzato come uno strapparsi all’ il y a: separazione, non partecipazione, poi come auto-posizione, localizzazione, godimento, poi godimento differito, lavoro, possessione, e infine essere a casa, presso di sé, raccolto, sotto la figura accogliente e femminile della dimora; ma questo processo di soggettivizzazione, l’avvenimento di un soggettosostanza, non ancora ipseico, è anche un processo essenzialmente e strutturalmente incompiuto, un processo che evoca necessariamente (anche se è presente in gran parte un effetto di messa in prospettiva e di ricostruzione archeologica) la rottura che segna l’incontro con l’alterità radicale (il femminile all’occorrenza), di quello che non si lascia avvicinare secondo la logica del «Zugang», dell’accesso, nell’orizzonte luminoso della rappresentazione. In Dall’esistenza all’esistente Levinas dirà:
logica – in cui si prosegue la logica al di là del tode ti», al di là dell’individuazione nella misura in cui questa è presa nella «trama logica» del genere, della differenziazione, sia anche materiale (materia signata) (p. 265). Questa formula: «une specie di micro-logica» è ugualmente pertinente per rendere conto dell’andatura dei primi saggi dedicati allo studio del «sorgere» o dell’avvento (avvenimento) del soggetto.
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27 Alcuni eventi che rompono con il mondo, come l’incontro con altri.22
o ancora, un po’ più avanti, nella stessa opera: L’evento della rottura più radicale delle categorie stesse dell’Io, poiché per l’io, questo evento significa non essere in sé, essere altrove.23
La soggettivazione compiuta (quella che dà accesso al se stesso, all’ipseità), se mai è compiuta, è dunque de-assoggettamento [dé-assujettissement] in rapporto al mondo come dato, in rapporto all’ente maneggiabile e consumabile («l’alimento»), e soprattutto in rapporto a me stesso e all’identità Io = Io, identità che Levinas caratterizza come «il definitivo della mia esistenza»: Questa impossibilità dell’io di non essere sé rivela l’innata tragicità dell’io, il fatto, il suo essere inchiodato al proprio essere. […] il definitivo della mia esistenza, del fatto di essere sempre con me stesso. E tutto ciò, questo carattere definitivo, è la solitudine24.
Si tratta dunque, se così si può dire, di passare da un modo di soggettivazione all’altro, a quell’altro modo di soggettivazione che è comunque soggezione o, a rigor di termini «assoggettamento» all’Altro, in una nuova relazione che si annuncia come faccia a faccia, in una dimensione che è quella della «altezza» 22. Dall’esistenza all’esistente, p. 33. 23. Ibid., p. 77. Più tardi, nel 1986, in un contributo per l’Archivio di Filosofia, Levinas esprimeva la stessa idea in termini un po’ differenti: «Straordinaria ambiguità dell’Io: al tempo stesso il punto in cui l’essere e lo sforzo per essere si contraggono in un se-stesso, in ipseità contorta su se stessa, primordiale e autarchica, e il punto in cui è possibile la strana abolizione o sospensione di questa urgenza d’esistere e una abnegazione della preoccupazione per gli ‘affari’ d’altri; essi mi ‘riguardavano’ e mi erano affidati, come se altri fosse prima di tutto un volto», ora in Tra noi..., p. 227. 24. Dall’esistenza all’esistente, p. 77.
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(hauteur) e della parola: non il logos apophantikos suscettibile di essere scambiato con altri, i vicini, i prossimi, scambiato nella comunicazione tra uguali a proposito di qualcosa, ma la parola come insegnamento magistrale, indirizzo, invocazione, preghiera25. Mi sembra, dunque, che si rischi di mancare un aspetto importante della controversia Levinas – Heidegger, se si ragiona semplicemente in termini di opposizione architettonica tra quello che sarebbe da una parte il fondamentale (Fundamental) e dall’altra il «primo», il «più alto»; niente, infatti, è «fondato», «edificato» sul fondamentale (Heidegger precisa anche da qualche parte che il fondamentale qui non è fundamentum inconcussum, ma dovrebbe piuttosto essere caratterizzato come concussum); il «fondamentale» è ciò in cui crolla tutta l’impresa fondativa! Se si capisce il vero senso di «fondamentale» nella Fundamentalontologie, diventa allora del tutto impossibile dichiarare, programmaticamente, con il Levinas di Totalità e infinito, e lasciando da parte la caratterizzazione generale di «filosofia dell’esistenza»: Contrariamente ai filosofi dell’esistenza, non intendiamo fondare [corsivo del testo] la relazione con l’ente rispettato nel suo
25. «La relazione con altri non è dunque ontologia. Questo legame con altri che non si riduce alla rappresentazione d’altri, ma alla sua invocazione e, dove l’invocazione non è preceduta da una comprensione, la chiamiamo religione. L’essenza del discorso è preghiera. Ciò che distingue il pensiero che intenziona un oggetto da un legame con una persona è il fatto che in quest’ultima si articola un vocativo: ciò che è nominato è, nello stesso tempo, ciò che è interpellato», «L’ontologia è fondamentale?», in Tra noi..., p. 36, o ancora, Etica e infinito..., p. 92: «Il “Tu non ucciderai” è la prima parola del volto, e si tratta di un ordine. Nell’apparizione del volto si trova un comandamento, come se mi parlasse un maestro». Vedi anche – si possono moltiplicare i riferimenti – la bella pagina di «Etica e spirito» (1952), ora in Difficile liberté. Essais sur le judaïsme, Albin Michel, Paris 1963; tr. it. di S. Facioni, Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004, p. 22.
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29 essere – e in questo senso assolutamente esterno, cioè metafisico – sull’ [corsivo del testo] essere nel mondo, sulla cura e il fare del Dasein heideggeriano26.
La relazione con l’ente rispettato nel suo essere non è, in Heidegger, fondato sul nulla e di sicuro non sulla «cura» o il «fare» del Dasein (cura, sempre compresa da Levinas come «cura di sé», nel senso dell’egoismo o anche del conatus!). Non ci sono qui delle relazioni che vanno dal fondamento al fondato, ma piuttosto co-originarietà del Dasein, dell’in-der-Welt-sein, della Rede, della Sorge e della Fürsorge; se c’è in Kant un tentativo di «deduzione» delle categorie, non si trova niente di simile in Heidegger a proposito degli esistenziali. Si può senza dubbio, ma è tutt’altra cosa, mettere in discussione l’economia dell’analitica esistenziale e interrogarsi al fine di capire, per esempio, se è pertinente partire da quello che si presenta «a prima vista e più spesso»; se è pertinente partire dalla quotidianità del mondo ambiente e dell’essere in relazione l’uno con l’altro (i.e. anche fianco a fianco) nello spazio pubblico del «si» e dell’essere affaccendato o della preoccupazione. Il modo di procedere heideggeriano in Sein und Zeit è assolutamente rischioso, al punto che nel trattare della questione del rapporto all’alterità dell’altro sembra privilegiare il Miteinandersein, l’incontro all’interno del mondo-ambiente della quotidianità preoccupata; la «deviazione» attraverso la tonalità affettiva dell’angoscia e l’analisi dell’essere-per-la-morte come ciò che svela o strappa il «sé» nel suo proprio essere al suo ricoprimento, il fenomeno integratore della «cura», della Sorge, prima di abbordare la Fürsorge. Deviazione che non torna tuttavia, in alcun caso, a portare in secondo piano il Mitsein; deviazione le cui conseguenze appaiono tanto più dannose quan26. Totalità e infinito, p. 109.
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to più si sarà interpretata in senso «egoista» la Jemeinigkeit e la Jeweiligkeit, senza mostrare a sufficienza che si tratta qui del Dasein come tale o in generale, come si sviluppa o si «disperde» nel pluralismo dei Dasein27. Allo stesso modo, bisognerebbe interrogarsi sulla «primalità» o il «primato», sull’apriorità dell’etica, termine che intendo, secondo una suggestione di Jacques Rolland, nella sua considerevole presentazione della conferenza l’Éthique comme philosophie premièr28, non evidentemente come una «disciplina» nel campo del sapere ripartito in fisica, logica, etica al femminile e come abbreviazione dell’ἠθικὴ ἐπιστήμη, ma piuttosto al neutro: «das Ethische», laddove l’etica definisce o in-definisce una «dimensione»: la dimensione trascendente
27. Dal 1929, nel suo contributo al volume d’omaggio a Husserl, per il suo settantesimo compleanno (Ergänzungsband zum Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung), «Vom Wesen des Grundes», ora Wegmarken, Ga., 9, Heidegger scriveva fermamente, in risposta alle prime opposizioni relative a questa formula: «L’affermazione: L’esserci esiste invista-di sé (umwillen seiner), non implica nessuna finalità egoistica di tipo ontico (keine egoistisch-ontische Zwecksetzung), per un cieco amor proprio (blinde Eigenliebe) dei singoli uomini effettivi. Essa non può dunque venir «confutata» rimandando al fatto che molti uomini si sacrificano per gli altri, e che in generale gli uomini non vivono solo per sé, ma in comunità con altri. Nella nostra tesi non c’è nulla che implichi un isolamento solipsistico dell’esserci o una esaltazione egoistica. Al contrario, essa pone la condizione della possibilità perché l’uomo possa comportar-«si» o «egoisticamente» o «altruisticamente» – tr. it. di Franco Volpi, in Segnavia, Adelphi, Milano 1994, p. 113 s. Per una interpretazione più «generosa» e approfondita della parola Jemeinigkeit, si può rinviare all’eccellente opera di François Raffoul, À chaque fois mien, Heidegger et la question du sujet, Paris, Galilée 2004. Cfr. anche, dello stesso autore: «Being and the Other: Ethics and Ontology in Levinas and Heidegger», in Addressing Levinas, a cura di E. Sean Nelson, Antje Kapust e Kent Still, Northwestern University Press, Evanston 2005, pp. 138-151 e in particolare pp. 144 ss. 28. Éthique comme philosophie Premiere, con prefazione e note di Jacques Rolland, Payot Rivages, Paris 1998.
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o metafisica in seno alla quale appariva, nella sua specificità e assoluta originarietà, la relazione all’alterità come alterità dell’Altro29. Mi avvicino così alla questione della quale ho tentato di abbozzare l’elaborazione, vale a dire alla questione della «priorità» di questa dimensione etica, la quale non emerge tuttavia come «prima» se non, in qualche modo, a cose fatte; o più precisamente ancora al fondo di considerazioni «ontologiche», sulla base di un’ontologia fondamentale o del tentativo di un’altra ontologia fondamentale, quella dell’esistente, poiché quell’ontologia rivela a un certo punto la sua insufficienza; poiché quell’ontologia si infrange o salta in aria dal momento in cui si tratta di rendere conto, o almeno di prendere in carico, di apprendere, dei fenomeni che non sono più di competenza dell’indagine ontologica e dei suoi requisiti; di apprendere dei «fenomeni» che precisamente non si fenomenalizzano mai – in quanto essenzialmente estranei alla dimensione dell’esperienza, del mondo, dell’orizzonte, della luce, della forma, etc… «Fenomeni» di un tale tipo che il giovane Levinas dovrà sottolineare, a più riprese ed in maniera sempre più accentuata, che il compito descrittivo qui non si lascia più caratterizzare rigorosamente come «fenomenologico». Nel 1947-48, Levinas non esitava d’altronde a definire come dialettico il metodo che conduceva dall’esistenza all’«Io» nel suo strato primitivo o più profondo: l’intenzionalità di godimento, il me, come ego cogito – ego vivo, ma il vivere qui non è tanto considerato nella sua transitività, secondo un accusativo d’oggetto interno, ma come «vivere di…»: di pane, di acqua fresca, etc30.
29. Cfr. l’osservazione già citata di Etica e infinito, p. 93 «Il mio compito non è di costruire l’etica, tento soltanto di cercarne il senso». 30. Totalità e infinito, pp. 110 ss.
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Sartre, nel celebre articolo del 1939, «Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità»31, criticava brillantemente la filosofia alimentare, la filosofia digestiva dell’idealismo alla francese: Tutti abbiamo letto Brunschvicg, Lalande e Meyerson, abbiamo tutti creduto che lo Spirito-Ragno attirasse le cose nella sua tela, le ricoprisse di una bava bianca e lentamente le deglutisse, riducendole alla sua stessa sostanza. […] L’assimilazione, diceva Lalande, delle cose alle idee, delle idee tra loro e degli spiriti tra loro […] assimilazione, unificazione, identificazione.
Sartre, si sa, opponeva a questa filosofia digestiva, l’immagine dell’esplosione: conoscere è strapparsi dall’umidiccia intimità gastrica «per correre al di là di sé, verso ciò che non è sé». La coscienza, a partire dall’intenzionalità husserliana riletta alla luce dell’essere al mondo heideggeriano, «non ha un “di dentro”, «non è che il fuori di se stessa»: «è questa fuga assoluta, questo rifiuto di essere sostanza che la costituiscono come coscienza». Curiosamente, contro Sartre in un senso, Levinas prenderà la parte (almeno strategica, e al livello della sua «ontologia fondamentale») della filosofia alimentare, anche se è per dargli un ambito molto meno accademico di quello di Lalande o di Brunschvicg! Quello che definisce la coscienza nel suo fondo, è la «vita interiore», lo «psichismo» del quale Sartre pensava che noi saremmo stati liberati dalla fenomenologia; quello che definisce la coscienza nel suo fondo è l’assimilazione, l’iden31. Possiamo rinviare oggi all’indispensabile edizione francese, annotata e commentata, a cura di Vincent de Coorebyter, in Sartre, La transcendance de l’Ego et autres textes phénoménologiques, Vrin («Textes & Commentaires»), Paris 2003, pp. 87 ss; tr. it. «Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità», in Jean-Paul Sartre, Materialismo e rivoluzione, tr. it di F. Fergnani, A. Mattioli e D. Tarizzo, Il Saggiatore, Milano 1977, pp. 139 ss.
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tificazione, l’introiezione, secondo quest’altra figura paradigmatica dell’intenzionalità che è l’intenzionalità di godimento! La coscienza si costituisce prima come sostanza, come «ipostasi»32. L’analisi del godimento e del vivere di… intende far saltare in aria lo «schema» heideggeriano, mezzi – fine, articolato in funzione del fine ultimo, l’οὗ ἕνεκα del Dasein che è l’ultimo «worumwillen»: vi è qui certamente lo schema che regola l’analisi dell’essere nel mondo in seno al mondo ambiente della quotidianità e della preoccupazione; l’analisi si orienta sul Dasein come quell’ente che è «in-vista-di se stesso» (οὗ ἕνεκα), quello per il quale ne va nel suo essere del suo stesso essere, che delle volte Levinas riduce violentemente al conatus essendi, come perseveranza nell’essere o nel suo essere; dimenticando che l’altro Dasein è anche lui «umwillen» e che l’analisi heideggeriana segna qui volontariamente una rottura in rapporto a una teleologia aristotelica, isolando precisamente l’umwillen, nella misura in cui è differente dal «perché?», «a che fine?» (wozu?). «L’intenzionalità di godimento» (distinta dall’intenzionalità di rappresentazione) ha precisamente per caratteristica di non essere presa in un sistema di rinvii e in una Bewandtnisganzheit*; vi è qui, dice Levinas, secondo una terminologia inizialmente un po’ fuorviante, la «sincerità» di questa intenzione. È anche questo che dà un primo accesso all’esteriorità (vs. lo «psichismo»): una esteriorità senza mondo o non-mondana, una esteriorità non costituita, «prima di ogni affermazione», precisa. È il corpo, la sua «posizione» sulla terra – ma si tratta del corpo «indigente e nudo», essenzialmente definito 32. Questa analisi viene ripresa e ampliata nel capitolo II. * Sein und Zeit §18, l’autore utilizza l’espressione «totalité de tournure», in italiano nell’edizione Chiodi-Volpi si usa l’espressione «Totalità di appagatività», nell’edizione Marini si rende con «Totalità di opportunità», N.d.T.
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dai suoi bisogni – che dovrebbe qui rendere possibile il «capovolgimento del processo della costituzione»: «il processo della costituzione […] si muta nel vivere di…»: Ciò di cui io vivo non è nella mia vita come il rappresentato […], se qui si potesse ancora parlare di costituzione, bisognerebbe dire che il costituito ridotto al proprio senso eccede qui il proprio senso, diventa, in seno alla costituzione, la condizione del costituente o, più esattamente, il nutrimento del costituente. Questa eccedenza di senso può essere definita con il termine alimentazione33.
L’alimentazione, è «il modo in cui l’io, principio assoluto, si trova sospeso al non-io». Levinas richiama ancora a questo proposito «il mutamento del costituito in condizione». Ma che vuol dire qui «condizione» o ancora «condizionamento» quando si tratta di «mutamento del costituito in condizione», e qual è l’anteriorità di questo condizionamento? Il mondo in cui vivo [gli alimenti!] non è semplicemente il faccia a faccia o ciò che è contemporaneo al pensiero e alla sua libertà costitutiva, ma condizionamento ed anteriorità34.
Anteriorità dell’elemento o meglio dell’elementale nel quale si è già sempre immersi: «Non si incontra l’ambiente: non ha faccia»; «ci si immerge in esso», aggiunge Levinas35. Questo io del godimento è, mi pare, un artefatto, senza alcuna necessità descrittiva o fenomenologica. La sola questione è dunque di sapere qual è la sua funzione, il suo posto nell’ar33. Totalità e infinito, p. 129 s. 34. Ibid., p. 130. 35. Ibid., p. 132. Cfr. anche p. 130: «Il mondo in cui vivo [gli alimenti!] non è semplicemente il faccia a faccia o ciò che è contemporaneo al pensiero e alla sua libertà costitutiva, ma condizionamento ed anteriorità. Il mondo che costituisco mi nutre e mi impregna. È alimento e “ambiente”». In questa stessa pagina, Levinas evoca il «sovrappiù di questa realtà dell’alimento nei confronti di qualsiasi realtà rappresentata, sovrappiù che non è quantitativo, ma che è il modo in cui l’io, principio assoluto, si trova sospeso al non io».
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gomentazione o nella strategia argomentativa. Mi sembra che la caratterizzazione di una tale figura povera ed elementare dell’uomo sia destinata a rendere possibile l’apertura che fa irruzione sulla altezza, la trascendenza, in una parola l’umanismo dell’altro uomo: Godere senza utilità, in pura perdita, gratuitamente, senza rinviare a nient’altro, sempre in passivo – ecco l’umano. Nel godimento io sono assolutamente per me. Egoista senza riferirmi ad altri – sono solo senza solitudine, innocente, egoista e solo36.
Perché definire così l’umano (ricordo la formula già citata: «l’ente per eccellenza è l’uomo») – e non piuttosto l’infraumano, l’animalità nell’uomo? Perché questo egoismo senza riferimento a altri, questo essere solo senza solitudine (e di una solitudine che non sia mancanza o privazione)? Si tratta di scavare sotto la «Fundamentalontologie»? Di ricondurre all’elementale di cui l’analitica del Dasein, non abbastanza concreta e ancora «idealista», avrebbe fatto l’economia, o rispetto alla quale avrebbe trovato un ostacolo? Il mondo come insieme di utilizzabili che formano un sistema e che sta sospeso alla cura di un’esistenza angosciata dal proprio essere, interpretato come onto-logia, attesta il lavoro, l’abitazione, la casa e l’economia37…
Così la Fundamentalontologie non sarebbe abbastanza fondamentale, non andrebbe fino al fondamento materiale ed empirico primo, si istituirebbe in un universo già costituito, quello del Werkwelt : Ogni oggetto si propone al godimento – categoria universale dell’empiria – anche se mi impadronisco di un oggetto-utilizzabile, se lo manipolo come Zeug38. 36. Ibid., p. 135. 37. ibid. 38. Ibid., p. 134.
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Di certo Heidegger avrebbe permesso, nella sua analisi della quotidianità e del mondo ambiente, di passare dall’astrazione dell’ente «vorhanden» all’ente «zuhanden»*, ma vi è qui un movimento incompiuto che manca la vera concretezza – quella di una prima istanza in-costituibile! (l’in-costituibile dal basso, se posso osare) –, quella dell’alimento! Da qui la contro-figura, proposta da Levinas, di un Dasein innanzitutto occupato a nutrirsi (e tutto quello che ne consegue: il lavoro, la proprietà, il presso di sé…). Il seguito del testo lascia un po’ perplessi: Il mondo come insieme di utilizzabili […] attesta, ancor di più, una particolare organizzazione del lavoro tale che i «nutrimenti» acquistano in essa valore di carburante nel macchinario economico. È curioso constatare che Heidegger non prenda in considerazione la relazione di godimento. L’utilizzabile ha interamente nascosto l’uso e l’esito ultimo – la soddisfazione. Il Dasein in Heidegger non ha mai fame. Il nutrimento può essere interpretato come utilizzabile solo in un mondo di sfruttamento.
Lasciamo caritatevolmente da parte il modo di produzione: l’organizzazione del lavoro che sarebbe servita da filo conduttore, inconsapevolmente, per l’analisi heideggeriana della Bewandtnisganzheit, è piuttosto quella dell’artigianato (glielo si è ugualmente rimproverato abbastanza) che non quella del grande capitale e dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, per il quale gli alimenti non sono nient’altro che il «carburante» nella macchina economica; ma soprattutto, di fatto, il «Dasein non ha mai fame»; non ha stomaco, né sesso! Non più di quanto hanno fame, almeno a mia conoscenza, l’ego dell’ego cogito cartesiano, la monade leibniziana (anche se determinata come nisus e appetitus), l’ego trascendentale di * «étant à porte de la main, maniable» nel testo francese; tr. it. Chiodi-Volpi: «utilizzabile»; Martini: «allamano», N.d.T.
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Kant, l’«Ich» dell’«Ich denke», l’Unità originariamente sintetica dell’appercezione, l’«Io puro» husserliano, etc… L’uomo che ha fame e freddo, non più dell’uomo opulento e sazio, per aver o meno sfruttato il lavoro altrui, non sono il Dasein, anche se il Dasein è nell’uomo: «più originale dell’uomo è la finitudine del Dasein in lui», indicava Heidegger nel Kantbuch del 1929. Dire che il Dasein in Heidegger non ha mai fame, può essere una bella espressione, ma non costituisce in nulla un’obiezione all’analitica, la quale non è una antropologia, non più di quanto lo sia l’elaborazione levinassiana del processo di soggettivizzazione. Perché dunque mettere così l’accento sulle ἀναγκαῖα, le «cose necessarie alla vita» dal momento che questa non è solamente, come precisa Levinas stesso, «nuda esistenza»39? ᾽Αναγκαῖα che, ancora una volta, né Aristotele né Heidegger hanno mai… misconosciuto? È soltanto per un più grande bisogno di «concretezza», per ricavare meglio e in modo più completo la serie delle condizioni o dei condizionamenti? La risposta non mi sembra del tutto soddisfacente, anche se si tiene conto del contesto o del clima dell’epoca: mostrare ai «marxisti» che non si indietreggia davanti alla materialità, alla sfera dei bisogni, alla dimensione della praxis. Mi sembra che la descrizione del «vivere di…» permetteva soprattutto di accentuare fino al limite estremo, laddove un capovolgimento «dialettico» o «quasi dialettico» diventava possibile o necessario, la figura della soggettività come separazione egoista o sufficiente: La soggettività si origina nell’indipendenza e nella sovranità del godimento40. 39. Ibid., p. 111 s. 40. Ibid., p. 114; cfr. anche p. 119: «Il sorgere di sé a partire dal godimento
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38 Il godimento attua la separazione atea: deformalizza la nozione di separazione che non è una frattura nell’astratto, ma l’esistenza a casa propria di un io autoctono41.
Affinché l’alterità dell’altro apparisse, affinché mi apparisse veramente nella sua radicale differenza con il non-io, con questa «alterità di quest’altro che è il mondo», sarebbe stato necessario che l’io emergesse all’origine, nel suo egoismo, nel suo godimento, nella sua sufficienza, nel suo «ateismo»42; è solo allora che avrebbe potuto «affrontare» questa alterità:
nel quale, tra l’altro, la sostanzialità dell’io è intesa non come soggetto del verbo essere, ma come implicata nella felicità – che non dipende dall’ontologia, ma dall’assiologia – è semplicemente l’esaltazione dell’ente». 41. Ibid., p. 115. 42. «Ateismo» non deve intendersi come al di là di ciò che Levinas chiama regolarmente, dopo Rosenzweig, «paganesimo» – nozione che meriterebbe una ricerca più approfondita, fino al suo legame con l’idea di «partecipazione» che Levinas prende da Lucien Lévy-Bruhl (Dall’esistenza all’esistente, p. 53). Nel 1935, in un articolo pubblicato nella rivista Paix et droit, «L’actualité de Maïmonide», Levinas proponeva questa caratterizzazione destinata a rimanere portante in tutta la sua opera: «Il paganesimo non è la negazione dello spirito, né l’ignoranza di un Dio unico. La missione del giudaismo non sarebbe che poca cosa se si limitasse ad insegnare il monoteismo ai popoli della terra. Significherebbe istruire quelli che sanno. Il paganesimo è una impotenza radicale ad uscire dal mondo. Non consiste a negare gli dei, ma a situarli nel mondo. […] La morale pagana non è che la conseguenza di questa incapacità innata di trasgredire i limiti del mondo» (pp. 6-7). Così il godimento, sebbene si rapporta al «formato mitico dell’elemento» (Totalità e infinito, p. 141), già se ne separa, e precisamente per introiezione – gli «alimenti» – si tiene sul limite tenue che separa «paganesimo» e «ateismo». Con e grazie a lui la soggettività si prefigura: «Nel godimento l’io si cristallizza soltanto» (ibid., p. 147): «…la nozione di godimento in cui si erge e freme l’io» (p. 121). Levinas può dunque abbozzare una prima delimitazione: «Dei senza volto, dei impersonali ai quali non si parla, marcano il niente che costeggia l’egoismo del godimento. L’essere separato deve correre il rischio del paganesimo che attesta la sua separazione e dove questa separazione si compie, fino al momento in cui la morte di questi dei, lo riporterà all’ateismo e alla vera trascendenza».
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39 … alterità radicale dell’altro che non concepisco semplicemente in relazione a me, ma che affronto a partire dal mio egoismo43.
Ma occorrerebbe ricordare il contesto e poter citare più diffusamente questo passaggio abbastanza singolare dove, dopo aver sottolineato che «la rottura della totalità che si compie con il godimento» è «radicale», Levinas prosegue: Il sorgere di sé a partire dal godimento nel quale, tra l’altro, la sostanzialità dell’io è intesa non come soggetto del verbo essere, ma come implicata nella felicità – che non dipende dall’ontologia ma dall’assiologia – è semplicemente l’esaltazione dell’ente. L’ente non sarebbe dunque soggetto alla «comprensione dell’essere» o all’ontologia. Si diviene soggetti dell’essere, non assumendo l’essere, ma godendo della felicità, con l’interiorizzazione del godimento, che è anche un’esaltazione, un fatto che è «al di sopra dell’essere». L’ente è «autonomo» rispetto all’essere. Non indica una partecipazione all’essere, ma la felicità. L’ente per eccellenza è l’uomo44.
Ma se questo è il caso, se l’ente per eccellenza è l’uomo, occorre allora passare al di là dell’essere, occorre che de-ponga il suo essere o in ogni caso il suo statuto sostanziale e ipostatico; occorre che abbandoni risolutamente il “dato” e il mondo «laico» che fino a quel momento era il suo; occorre che scopra in un sol colpo – ma lo choc è salutare: la morale e la religione, l’eterno e l’infinito. * Ma, in realtà, partire dall’io separato, egoista, ateo, è ancora una falsa partenza, poiché non si tratta, come potrebbe fare qualche antropologia generale, di ricostruire un processo di 43. Totalità e infinito, p. 121. 44. Ibid., p. 119.
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soggettivazione proponendo qualcosa come una genealogia del soggetto: la soggettività del soggetto della quale tratta Levinas non è, nel suo fondo, né «io» né «per sé»; il soggetto non è neanche mai propriamente «presso di sé», e tanto meno «al di fuori di Dio», non è causa sui, non è auto-posizione di sé; è immediatamente «per l’altro», «per tutti», «per tutti gli altri»45; la relazione metafisica, che era stata messa tra parentesi, si afferma in verità assolutamente prima46; il per-l’altro è già sempre presente. Nei termini di Totalità e infinito: La possibilità di rappresentarsi […] beneficiano già ovviamente, della relazione metafisica e del rapporto con l’assolutamente Altro, ma attestano la separazione in seno a questa trascendenza stessa47…
Ripongo dunque la mia domanda: che cosa si è guadagnato riconducendo l’io della rappresentazione all’io del godimento e del vivere di…? Si è guadagnato di accentuare l’identità, l’identificazione dell’ Io=Io, di estenuare l’alterità del non io che ritorna allo Stesso; o, più brutalmente di sloggiare il mondo, di ridurlo al dato per-me, di rinviarlo alla corporeità. Dipendere dall’esteriorità non equivale soltanto ad affermare il mondo – ma a situarvisi corporalmente48.
Uno dei bersagli principali del capovolgimento non era l’Inder-Welt-sein e tutto quello che attiene all’essere-al-mondo in 45. Altrimenti che essere..., p. 145 : «Instaurazione di un essere che non è per sé, che è per tutti – ad un tempo essere e disinteressamento; il per sé che significa coscienza di sé, il per tutti, responsabilità per gli altri, supporto dell’universo». 46. «Ethique comme philosophie première», in Le Nouveau Commerce, n° 84-85, 1992; tr. it. di F. Ciaramelli, in Etica come filosofia prima, Guerini e associati, Napoli 1992, pp. 47-60. 47. Totalità e infinito, p. 124. 48. Ibid., p. 128.
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Sein und Zeit? Vale a dire pressappoco tutto, escluso il Mitsein! Heidegger in un corso del 1921-1922 (Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele) metteva in luce in modo molto diverso, ma senza dubbio più ricco e fedelmente «descrittivo» (i.e. meno dialettico) la connessione irriducibile: Leben – Welt, vita – mondo. Cito: Rappresentato in termini concreti, il significato verbale intransitivo di «vivere» si esplicita sempre come un vivere «in» qualcosa («in» etwas leben), vivere «di» qualcosa («aus» etwas leben), vivere «per» qualcosa («fur» etwas leben), vivere «con» qualcosa («mit» etwas leben), vivere «contro» qualcosa («gegen» etwas leben), vivere «verso» qualcosa («auf» etwas «hin» leben), vivere «di» qualcosa [nel senso in cui in francese si dice: vivre de son travail, vivere del proprio lavoro, delle sue rendite] («von» etwas leben). Il «qualcosa», che indica la sua molteplicità di riferimenti al «vivere» in questa serie di espressioni preposizionali che sembrano ammassate ed enunciate alla rinfusa, lo indichiamo col termine «mondo»49.
Così, insisto, il «vivere» è essenzialmente e in se stesso «weltbezogen», vale a dire legato a, riferito al mondo e il mondo non è certamente qui il dato, l’elementale dei «nutrimenti», ma innanzitutto il mondo comune e condiviso, il Mitwelt, senza che sia dunque possibile né legittimo isolare uno strato, preteso come primo o primitivo (le «condizioni» non trascendentali), quello del «vivere di…», a esclusione della serie completa delle preposizioni che in certo modo fanno sistema, che in ogni caso si rivelano insieme e co-originariamente50. 49. Ga., 61, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forchung, ed. W. Bröcker e K. Bröcker-Oltmanns, Klostermann, Francfort 1985, p. 85; tr. it. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Guida, Napoli 1990, p. 118 (modificata). 50. Sein und Zeit, § 26, tr. it. cit., p. 149: «La caratterizzazione dell’incontro con gli altri prende così di nuovo la mosse dall’Esserci sempre proprio. Ma,
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La domanda diventa allora: è possibile, è legittimo isolare un mondo della vita, il mondo del vivere di…, unicamente riferito ad un ego solitario e separato? O piuttosto l’attenzione descrittiva al fenomeno del «vivere» nella concretezza stessa conduce a mettere in rilievo quello che Heidegger chiamava il suo «Bezugssinn», il suo senso proprio che va insieme con il Bezug, il beziehen, la relazione, la referenza: questo senso referenziale o questa referenza che porta e apre il senso, che Heidegger caratterizza qui (nel 1921-1922) come sorgen, il «prendersi cura per e di qualcosa» (sorgen für und um etwas), «sorgen» che Heidegger non ha ancora dissociato in «Sorge»/«Besorgen», e che non si sarebbe in grado, senza eccessiva violenza, di rapportare al conatus51.
in tal caso non finirà per muovere anch’essa dalla delimitazione e dall’isolamento dell’«io», per cercare poi un passaggio da questo soggetto isolato agli altri? Per ovviare a questo fraintendimento va tenuto presente il senso in cui si parla di «altri». «Gli altri», in questo caso, non significa coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli altri sono piuttosto quelli dai quali, per lo più non ci si distingue, e fra i quali, quindi, si è anche. Questo anche-esser-ci (dies Auch-da-sein) con essi non ha il carattere ontologico di un esser-semplicemente-presente-«con» (“Mit”-vorhandensein) dentro un mondo. Il «con» è un «con» conforme all’Esserci (daseinsmäßig), e l’«anche» esprime l’identità di essere quale essere-nel-mondo prendente cura e preveggente ambientalmente. […] Il mondo dell’Esserci è con-mondo (Mitwelt). L’in-essere è un con-essere (Mitsein) con gli altri. L’essere-insé intramondano degli altri è un con-Esserci (Mitdasein)». — L’analisi si dispiega qui nell’ambito della quotidianità e dell’intramondaneità, ma ciò non scalfisce per niente la critica radicale rivolta a tutte le posizioni e a tutti i punti di partenza solipsisti. 51. Ci si riferisce qui al celebre inizio del § 9 di Sein und Zeit, che bisogna qui ricordare poiché Levinas vi fa riferimento più volte, in modo più o meno completo, ma sempre con la stessa opposizione risoluta: «L’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi sempre siamo. L’essere di questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente stesso, si rapporta al proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere. L’essere è ciò di cui ne va sempre per
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Preoccupazione del mondo e della sua «significanza» («signifiance») o «significatività» (Bedeutsamkeit), che è una «determinazione categoriale del mondo»; di quel mondo dal quale si starà attenti, in un primo tempo, ad escludere «altri», l’alterità dell’altro, come se un mondo si lasciasse descrivere e afferrare come «mondo del sé», Selbstwelt, tagliato, disconnesso da un Mitwelt. Mitwelt, mondo-comune, mondo-con…, attraverso il quale non si intenderà il mondo o l’insieme indifferenziato delle «cose» o del «non-io», del piccolo altro del quale io posso gioire e nutrirmi (che io controlli, identifichi, introietti… o che io mi rappresenti, è lo stesso, nel piano superiore del teoretico), quel mondo in seno al quale si troverebbe immediatamente misconosciuta e incompresa l’alterità radicale di Altri. Heidegger precisa bene che l’Altro, se è essere-nel-mondo (e come potrebbe non essere in-der-Welt-sein, se è Dasein, se è come questo Ci dell’essere, con il quale anche il Dasein che io sono è presente: Mitsein – Mit-dasein)52, Heidegger precisa dunque che Altri (essere-al-mondo) non è «del mondo», nel senso in cui lo sono gli oggetti intramondani; rimarca bene una rottura definitiva e irriducibile con il regime della «mondanità».
questo ente», François Raffoul (contributo citato, p. 146) notava giustamente: «Being mine means then Being itself, in the sense that it is each time at issue in the entity that I am. Mineness is the event of Being that I have to be authentically. Mineness is not ontical individuality, worldless egohood, or a self-consciousness closed on its cogitationes, but it is to be understood in its meaning of Being, that is, as the meaning of Being». 52. Jean-Luc Nancy, in Être singulier pluriel, (Galilée, Paris 1996; tr. it. di D. Tarizzo, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001), aveva intrapreso lo studio rinnovato di questa co-originarietà in modo perfetto, p. 39 ss. e p. 47, con questa formula provocante e perfettamente giusta: «L’essere con è il problema più proprio dell’essere».
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Già dal 1925, nel suo corso, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Heidegger spiegava chiaramente: Sulla base di questo incontrare mondano degli altri, questi ultimi potrebbero essere definiti, a differenza delle cose del mondo, nel loro essere sotto e allamano nel modo-circostante come «co-mondo» (Mitwelt), e concepire il proprio Dasein nella misura in cui ci viene incontro nel mondo-circostante (Mitwelt) come il «mondo-del-sé» (Selbstwelt). Nelle mie precedenti lezioni io ho visto le cose in questo modo e ho inteso i termini usati in questo senso. La cosa è però radicalmente sbagliata. La terminologia indica che i fenomeni in questo modo non sono afferrati in maniera sufficiente che, appunto gli altri, benché di fatto ci vengano incontro mondanamente, non hanno quel modo d’essere e non hanno mai il modo d’essere del mondo. Perciò non è neppure lecito definire gli altri come «co-mondo» (Mitwelt). La possibilità di incontro mondano del Dasein e del con-‘esser-ci’ (Mitsein) è bensì costitutiva dell’essere-nel-mondo del Dasein, e con ciò di ogni altro, ma non per questo diventa mai qualcosa di mondano. […] Il mondo stesso per contro non ci è mai «-con» [die Welt selbst ist nie mit da], non è mai con-‘esser-ci’ (Mitdasein), ma è ciò in cui via via un Dasein è in quanto procurare (Besorgen)53.
53. Ga., 20, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, pp. 333-334; tr. fr. A. Boutot, Gallimard, Paris 2006, p. 351; tr. it. di R. Cristin e A. Marini (modificata), Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il Melangolo, Genova 1991, p. 299 s. [J.-F. Courtine utilizza il termine «préoccupation» per tradurre Besorgen, nella tr. it. di Sein und Zeit, Chiodi utilizza rende il termine con «prendersi cura», N.d.T.]. Una tale «retractatio» rende senza oggetto la distinzione terminologica e concettuale che Karl Löwith si sforzava di stabilire all’inizio della sua dissertazione (1928), Das Individuum in der Rolle der Mitmenschen: «Con “mondo-comune” (Mitwelt), si intende in ciò che segue non il “mondo” (“Welt”) in quanto è condiviso con altri nell’ambito di una comune preoccupazione (Cfr. Sein und Zeit, p. 118), ma il prossimo come tale (die Mitmenschen), o più precisamente ancora: l’essere-al-mondo in quanto essere-l’uno-con-l’altro (Miteinandersein). E questo non si trova a sua volta edificato sull’essere-con (Mitsein) dell’esserci “ogni
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Non si potrebbe essere più chiari nel rifiuto dell’idea che si possa partire, quando ci si interroga su ciò che è l’umano («ecco l’umano!») di un me isolato caratterizzato da un «egoismo ontologico», a misura di un’ontologia fondamentale che si vorrebbe più fondamentale e «basica» dell’analitica esistenziale. Dell’ontologia fondamentale come etica o filosofia seconda?
volta proprio” (das je eigene Dasein), ma dev’essere compreso con un essere-l’uno-con-l’altro originario, nel quale ne va per ciascuno dell’altro e, con l’altro, nello stesso tempo di se stesso», Sämtliche Schriften, 1, Mensch und Menschenwelt, Beiträge zur Anthropologie, ed. Klaus Stichweh, Metzler, Stuttgart 1981, p. 12, nota.
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II Da una materialità all’altra
A differenza di Michel Henry, Emmanuel Levinas non ha mai collocato la sua impresa sotto il segno della fenomenologia materiale, anche quando ha reinterrogato, nel modo più radicale, la profondità della sensazione e della sensibilità nel cuore stesso delle analisi husserliane dell’intenzionalità1. Noi vorremmo tuttavia seguire il filo, abbastanza singolare, che conduce da quella che Levinas chiama «la materialità» del soggetto-sostanza (o Ipostasi) all’ultra-materialità del femminile che si rivela nell’Eros. Credo che si possano distinguere tre livelli o tre momenti differenti in questa dialettica della materialità (che integra la «spiritualità», l’«interiorità», e lo «psichismo» di cui costituisce come la «condizione» – «condizione» è, come è noto, un termine «marcato» nel lessico levinassiano); una dialettica abbastanza singolare dunque, centrata sull’elaborazione di una serie di concetti o, più prudentemente, di determinazioni della materialità che, a ogni livello, si liberano, si e strappano da un fondo: quello dell’il y a, come fondo abissale appunto, quello 1. Si veda in particolare «Intenzionalità e sensazione» in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger.
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dell’elementare, dell’elementare senza sostanza – la pura qualità senza soggetto, l’elementale o il caos, apertura e beanza – come una reminiscenza, forse, della Khôra del Timeo. Il primo livello della materialità distinto da Levinas, è certamente il più conosciuto, il più spesso sottolineato; è quello che corrisponde grossomodo a ciò che possiamo chiamare senza dubbio il progetto anti-hegeliano di un’altra fenomenologia dello spirito, di un’altra genealogia della coscienza e dell’identità egoica o egologica; l’identificazione di un io che precisamente si pone, si regge, come «sostanza soggetto», un io che deve innanzitutto (e la priorità è qui essenziale) essere determinato come «corpo». Determinazione che Levinas dispiega in modo molto originale attraverso le nozioni di angolo (coin), di qui, di fatica, di istante, di riposo, di sonno – forma primitiva del distacco dal brusio dell’ il y a, dalla notte che è quella dell’insonnia. Il corpo vi è immediatamente colto come corpo vivente, ma senza referenza topica alla tematica husserliana del Leib o della Leiblichkeit, almeno nelle Conferenze, Il tempo e l’altro e Dall’esistenza all’esistente, o ancora in Totalità e infinito. La vita di questo corpo vivente si caratterizza, infatti, principalmente non attraverso il suo oggetto interno (vivere questo o quello, vivere la sua vita…, se vogliamo), ma a titolo di «vivere di…», per via del suo rapporto coi nutrimenti, con l’alimento. Il secondo livello o momento, è quello della prima differenza temporale, «dilazione» («délai») o del ritardo al godimento – godimento che non è più legato al qui ed ora della pura sensibilità. Prima temporalizzazione dunque, al di là dell’istante e dell’ipostasi, indotta dal lavoro, attraverso la «mano» e la «manipolazione»; il lavoro vi è tematizzato come condizione dell’acquisizione, del possesso, dello scambio e della circolazione monetaria. Condizione anche, non potrei certo dimenticarlo, della Dimora e dell’ospitalità. Se il primo momento che
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ho distinto è quello della genesi della coscienza, che accede progressivamente alla coscienza di sé, questo secondo momento, che abbozza una descrizione dell’homo œconomicus, potrebbe rinviare, nella fenomenologia hegeliana, al passaggio dalla «percezione» alla «forza» e al «gioco di forze»: l’Io non vi è più solamente determinato, come nel capitolo dedicato alla «Certezza sensibile», a titolo di ora, di qui, o del questo in generale2, ma accede all’interiorità (l’«interno» dice Hegel3), vale a dire che si esteriorizza (sempre Hegel) nel gioco delle forze e perviene alla «cosa»: la «cosa» e non più solamente un fascio di «Materien», di proprietà materiali non legate4: «Il bianco davanti ai nostri occhi…, il sapido sulla nostra lingua, il cubico per il nostro toccare», – la «cosa» come «sussistenza», supporto di proprietà innanzitutto diverse ed indipendenti. Levinas parlerà, non di Materien, ma di «qualità», «qualità senza sostanza». Naturalmente – e qui la differenza è essenziale rispetto a Hegel – in Levinas, attraverso questo momento «economico» della Dimora, l’io ha decisamente superato il suo primo tratto tipico, quello della separazione, della solitudine e della materialità («solitudine e materialità» – come si ricorderà – costituisce il titolo di una sottosezione di Il tempo e l’altro5). Nella Dimora, si ha già a che fare, come dice Hegel alla fine della sezione «Coscienza», a «un io che è un noi, un noi che è un io». Do questo riferimento hegeliano pensando alla variazione levinassiana sull’«Io/Tu» di Buber nelle sue analisi di Totalità e infinito dedicate al femminile (Levinas scrive sem2. Die Phänomenologie des Geistes; tr. fr. di Jean Hyppolite, Aubier-Montaigne, Paris 1941, p. 86; utilizziamo qui la traduzione della Fenomenologia dello spirito di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 65. 3. Ibid, p. 90. Nella tr. francese citata si usa il termine «Intérieur», p. 119. 4. Così Jean Hyppolite traduce molto attentamente, tr. fr. cit. p. 100. Cfr. tr. it. cit., p. 76. 5. Le temps et l’autre, Fata Morgana, Montpellier 1979; tr. it. di F. P. Ciglia, Il tempo e l’altro, Il nuovo melangolo, Genova 1997, pp. 28-30.
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plicemente «la Donna») e all’abitazione6. Il semplice «vivere di…», caratteristico del primo momento materiale, e nella misura in cui si rapporta agli elementi, non è ancora l’abitazione: quest’ultima presuppone l’intimità, la familiarità – condizione dell’intimità e del raccoglimento. Ed è a questo proposito che Levinas scrive: «Altri che accoglie nell’intimità non è il voi del volto che si rivela in una dimensione di maestà (hauteur) – ma appunto il tu della familiarità»7 – quello di una presenza discreta, «la discrezione stessa», alla quale si opporrà – ci torneremo – un’altra presenza o sovra-presenza del femminile, quella dell’indiscrezione: evocando, nella «Fenomenologia dell’Eros», «la non-significanza della nudità erotica», Levinas sottolinea che «questa nudità del volto non svanisce» tuttavia nell’«esibizionismo dell’erotico». Cito: «l’indiscrezione in cui esso rimane misterioso e ineffabile è attestata… dalla esorbitante mancanza di misura di questa indiscrezione»8. Ma torno alla prima determinazione dell’alterità femminile nella sua discrezione: «L’io-tu nel quale Buber scorge la categoria della relazione interumana non è la relazione con l’interlocutore, ma con l’alterità femminile». Quella stessa condizione dell’accoglienza e del «venire verso di sé», del «ritiro a casa propria» attraverso la quale «il linguaggio che tace resta una possibilità essenziale» — «Questo silenzioso andirivieni dell’essere femminile che fa risuonare dei propri passi le segrete profondità dell’essere, non è il conturbante mistero della presenza animale e felina di cui Baudelaire si compiace di evocare la strana ambiguità»9. Quasi tutti i tratti di que6. Totalità e infinito, p. 159. 7. Ibid., p. 158; p. 161: «… l’accogliente per eccellenza, l’accogliente in sé […] la dimensione della femminilità […] come l’accoglienza stessa della dimora». 8. Ibid., p. 268. 9. Ibid., p. 159. — È importante senza dubbio distinguere differenti figure o momenti dell’ «indiscrezione»: all’indiscrezione legata all’impudicizia della
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sta evocazione saranno ripresi e invertiti per caratterizzare la sovra-presenza indiscreta del femminile erotizzato: il mistero, l’animalità, e anche l’ambiguità, l’equivoco dell’erotico. Il noi che si istituisce nella Dimora è dunque quello, familiare e rassicurante, dell’Io e del Tu. Mentre per lo Hegel della Fenomenologia dello spirito, per accedere a questo «Io che è un Noi», bisogna compiere ancora un’altra svolta dell’esperienza, svolta che permette di lasciare la «notte vuota» della coscienza di sé: quello che avrebbe condotto dalla certezza sensibile passando per la percezione e la cosa, fino alla dominazione e alla servitù. Sarebbe troppo facile e malevolo cercare un parallelo nelle analisi della Dimora. Il terzo momento è quello dell’Eros, dell’esperienza erotica10 – sempre maschile nelle analisi di Levinas (non ritorno su questo tema spesso discusso) – l’esperienza erotica nella misura in cui si trova confrontata con una nuova figura (o piuttosto non-figura) della materialità: l’ultra-materialità chiaramente, così come si rivela o si dissimula, la ancora nella casa e nella notte – un’altra notte, che non è più quella dell’insonnia –, come «oscenità», «esibizione», «profanazione» – ultra-materialità (ed è evidentemente il punto che qui mi interessa), ultra-materialità che tocca di nuovo l’il y a. A questo terzo momento della riflessione levinassiana sulla
nudità erotica («lasciva», «esibizionista», «esorbitante», «non significante» – «un significato alla rovescia» (p. 241), si oppone a quella di Altri, nella sua «maestà»: «…per poter vedere le cose in se stesse, […], rifiutare sia il godimento che il possesso è necessario che sappia donare quello che possiedo. Soltanto così potrei situarmi assolutamente al di sopra del mio impegno del non io. Ma per questo è necessario che incontri il volto indiscreto di Altri che mi mette in questione [corsivo del testo]». (p. 174) 10. È da notare che Levinas caratterizza questo, o in ogni caso la «voluttà», come «esperienza pura», «esperienza che non si cala in nessun concetto, che resta ciecamente esperienza» (Totalità e infinito, p. 268).
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materia e la materialità – credo infatti che sia legittimo distinguerne soltanto tre – occorre ancora associare le analisi che sono dedicate all’opera d’arte e a ciò che Levinas chiama curiosamente l’esotismo in dall’Esistenza all’esistente. L’arte infatti, sempre essenzialmente astratta in questo senso, è ciò che «fa uscire le cose dal mondo», ciò che «strappa», scrive Levinas, «una cosa alla prospettiva del mondo», e dà così accesso, nel superamento della sua forma, alla «materialità bruta» dell’oggetto: per Levinas, l’arte è estranea alla luce, «deformalizza», fa emergere, isola, esibisce una «qualità» che così viene privata di sostanza o di sostrato; mette in rilievo questa materialità dietro la forma («quella forma che la luce rivela») – materialità che, precisa, «lungi dal corrispondere al materialismo filosofico… costituisce il fondo oscuro dell’esistenza» — altrimenti detto dell’essere, per attenersi alla scelta lessicale di Levinas nel 194711. Di quale materialità si tratta giustamente qui, e quale sarebbe il suo rapporto con l’iper-materialità, fino all’osceno, della nudità erotica? Questa sarà in un certo senso l’unica questione che io spererei qui, se non di istruire completamente, almeno di abbozzare. Della materialità dell’opera – non quella della carne, come si dice, ma dell’arte –, Levinas indica che essa si consegna non alla percezione, ma alla sensazione. «Il movimento dell’arte – cito – consiste nell’abbandonare la percezione per riabilitare la sensazione, nel liberare la qualità da questo rimando all’oggetto». La materialità così scoperta è insieme affascinante e ripugnante. Questa, precisa Levinas, è «ciò che è denso, rozzo, massiccio, miserabile. Ha una consistenza, un peso, è assurda, è una brutale, ma impassibile presenza; ma ha anche un’umil-
11. Dall’esistenza all’esistente, p. 52.
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tà, una nudità, una bruttezza»12. Ed ecco come si trova sottolineato il tratto «esotico» dell’arte, proseguo la mia citazione: «Destinato all’uso e parte di un ambiente, l’oggetto materiale, viene con ciò stesso rivestivo di una forma che ci dissimula la sua nudità. La scoperta della materialità dell’essere non è la scoperta di una nuova qualità, ma del suo brulichio informe. Dietro alla luminosità delle forme per mezzo delle quali gli esseri si riferiscono al nostro “dentro”». E ancora il punto del testo che evidentemente qui mi interessa: «la materia è il fatto stesso dell’il y a»13. – Dall’erotico all’esotico (e viceversa), questa sarà dunque la traiettoria di questo terzo momento che non potrò se non abbozzare. Vorrei ora ritornare, per descriverli brevemente, su ciascuno di questi tre momenti nello studio della materia e della materialità nel Levinas delle conferenze del 1947/48 e di Totalità e infinito. In Il tempo e l’altro, Levinas critica in maniera ironica quello che chiama l’aria angelica del presente di Sartre, la quale porterebbe alla propria assolutizzazione la libertà del per sé. – Agli occhi di Sartre, cito: «Essendo tutto il peso dell’esistenza rigettato sul passato, la libertà del presente si colloca già al di sopra della materia». Se dunque non vogliamo situarci precipitosamente «al di sopra della materia», se vogliamo sfuggire a quello che Levinas chiama anche «l’impotenza dell’idealismo tradizionale», il quale ugualmente riguarda il fatto, come diceva già in Dell’evasione, che il suo «affrancamento» nei confronti dell’essere è «fondato sulla sua sottostima», è importante allora – e ritorno alla mia citazione tratta da Il tempo e l’altro –, è importante allora «riconoscere proprio nel presente e nella libertà del suo inizio tutto il peso della materia»
12. Ibid., p. 49. 13. Ibid., p. 50.
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e ancora «riconoscere alla vita materiale e la sua capacità di trionfare sull’anonimato dell’esistere e la tragica irrevocabilità alla quale essa si lega con la sua stessa libertà14». L’articolazione separazione, solitudine e materialità mi sembra infatti essenziale nella genealogia levinassiana dell’Io e del suo primo rapporto a sé, del suo primo accesso ad una figura ancora incoativa della riflessione e del «raccoglimento», figura che sarà superata nella dimora: infatti il processo di identificazione costitutivo dell’Io, quello che Levinas chiama anche avvento del soggetto15, al termine di un processo di soggettivizzazione, non passa solamente attraverso ciò che potremmo chiamare l’incorporazione o l’incarnazione del soggetto – Levinas ha, su questo punto, delle formulazioni definitive in Il tempo e l’altro16, come in Dall’esistenza all’esistente17, formule che caratterizzano il corpo come «avvento stesso della soggettività» o ancora «il corpo come evento» –, ma questo avvento e questo processo dipendono radicalmente dalla «materialità» del soggetto18. È questa materialità – ed ecco una tesi veramente anti-idealista, o almeno in ogni caso anti-fichtiana –, che sottende l’auto-posizione dell’Io = Io. «Non faccio un dramma di una tautologia», dice a più riprese, con un’antifrasi, Levinas, per il quale tutto il proposito consiste esattamente nel «drammatizzare» questa tautologia del rapporto a sé dell’io:
14. Il tempo e l’altro, p. 34. 15. Dall’esistenza all’esistente, p. 61; cfr. anche p. 43: «l’avvento della coscienza»: «l’avvento della coscienza, è il potere di “sospendere” l’essere attraverso il sonno». 16. Op. cit., pp. 21-22. 17. Op. cit., p. 64 s. 18. Il tempo e l’altro, p. 36: «… l’oblio di sé, la luminosità del godimento non rompe l’attaccamento irremissibile dell’io al sé se si separa da questa luce dall’evento ontologico della materialità del soggetto nel cui contesto esso di colloca…».
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drammatizzazione del confronto con «il male dell’essere», vale a dire anche «il male della materia»19. Staccarsi da questa materialità, che può essere l’archi-materialità dell’il y a, vuol dire innanzitutto neutralizzarla, in quanto elemento («l’insondabile profondità dell’elemento») o elementale, qualità senza sostrato nella quale ci si «immerge»20, vuol dire neutralizzarla per introiezione, trasformandola in nutrimento o in alimento. Questo motivo dell’alimentazione gioca infatti – come è noto – un ruolo del tutto essenziale nell’economia del proposito del giovane Levinas: mi è già capitato altrove di rinviare su questo punto e, per contrasto, al famoso articolo di Sartre pubblicato nella NRF, nel 1939, «Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità». Mi ci soffermo un istante: Sartre vi criticava brillantemente la filosofia alimentare, la filosofia digestiva de l’idealismo alla francese: Tutti abbiamo letto Brunschvicg, Lalande e Meyerson, abbiamo tutti creduto che lo Spirito-Ragno attirasse le cose nella sua tela, le ricoprisse di di una bava bianca e lentamente le deglutisse, riducendole alla sua stessa sostanza. […] L’assimilazione, diceva Lalande, delle cose alle idee, delle idee tra loro e degli spiriti tra loro. […] assimilazione, unificazione, identificazione21.
Sartre, si sa, opponeva a questa filosofia digestiva, l’immagine dell’esplosione: conoscere è strapparsi dall’umidiccia intimità gastrica «per correre al di là di sé, verso ciò che non è sé». 19. Dall’esistenza all’esistente, p. 13. 20. Totalità e infinito, p. 132: «… l’elemento non ha assolutamente faccia. Non lo si incontra. La relazione adeguata alla sua essenza lo scopre appunto come un ambiente: ci si immerge in esso». — «La relazione adeguata con l’elemento è appunto il fatto di essere immerso. […] Essere immerso in un elemento significa essere in un mondo alla rovescia…», p. 133. 21. Si veda l’eccellente edizione con presentazione e note di Vincent de Coorebyter, Sartre, La transcendance de l’Ego et autres textes phénoménologiques, Paris, Vrin 2003, p. 87; tr. it. cit. pp. 139 ss.
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La coscienza, a partire dall’intenzionalità husserliana riletta alla luce dell’essere al mondo heideggeriano, «non ha un “di dentro”, «non è che il fuori di se stessa»: «è questa fuga assoluta, questo rifiuto di essere sostanza che la costituiscono come coscienza». Tutto avviene un po’ come se Levinas prendesse risolutamente il contropiede di questa brillante analisi sartriana. Curiosamente, contro Sartre, Levinas prenderà, infatti, le parti dell’io sostanza, dell’ipostasi (l’ipostasi, è «l’apparizione stessa del sostantivo»), della filosofia alimentare, anche se per dargli un’impostazione molto meno accademica rispetto a Lalande o a Brunschvicg! Quello che definisce la coscienza come coscienza di sé, è – al livello del lavoro e della Dimora – la «vita interiore», lo «psichismo» di cui Sartre pensava che ci fossimo liberati grazie alla fenomenologia22; ma ciò che definisce la coscienza nel suo fondo, è innanzitutto l’assimilazione, l’identificazione, l’introiezione, secondo quest’altra figura paradigmatica dell’intenzionalità che è l’intenzionalità di godimento! La coscienza si costituisce, o piuttosto è costituita innanzitutto come sostanza, come «ipostasi», anche quando Levinas fa concludere questa prima analisi scrivendo che «la materia è il destino (Malheur) infelice dell’ipostasi»23. Destino (Malheur) necessario, poiché è lui che avrebbe reso possibile la «separazione». È così infatti che la coscienza è «rottura della vigilanza anonima dell’il y a»24, che è «già ipostasi»25 e che può apparirsi, apparire a sé, «nella sua materialità 22. Totalità e infinito, p. 133: «… a partire dal domicilio […] l’uomo è interiore a ciò che possiede, di modo che potremmo dire che il domicilio, condizione di qualsiasi proprietà, rende possibile la vita interiore. L’io così si sente a casa sua». 23. Il tempo e l’altro, p. 27. 24. «Essere coscienza significa essere separati dall’il y a», Dall’esistenza all’esistente, p. 52. 25. Il tempo e l’altro, p. 21. Cfr. anche Totalità e infinito, p. 145: «La dimora, l’abitazione, appartengono all’essenza – all’egoismo – dell’io. Contro l’il y a
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di soggetto». Cito: «… l’io è già inchiodato a sé, la libertà dell’io non è leggera come la grazia, ma già un peso», quel peso per il quale «l’io è irrimediabilmente sé»26. Prolungo ancora un po’ la citazione di questi bei testi, ben noti: «Il mio essere [di soggetto ipostatico] si carica di un avere; sono oppresso dall’ingombro di me stesso. L’esistenza materiale è proprio questo» e ancora «la materialità non esprime la caduta contingente dello spirito nella tomba o nella prigione di un corpo. Essa accompagna – necessariamente – la nascita del soggetto, nella sua libertà di esistente. Comprendere così il corpo a partire dalla materialità – evento concreto della relazione tra Io e Sé – significa ricondurlo ad un evento ontologico»27. L’evento ontologico è segnato dalla materialità. «È tutta la materialità» dell’uomo, enuncia Levinas con un formula molto serrata, o quest’altra: «È questa la materialità!» – Tesi forte con la quale Levinas concludeva, in Il tempo e l’altro, la sua analisi del processo di identificazione, che è anche legame dell’io a se stesso: «l’oppressione dell’io a causa dell’ingombro
anonimo, orrore, tremore e vertigine, scuotimento dell’io che non coincide con sé, la felicità del godimento afferma l’Io a casa sua». 26. È senza dubbio possibile vedere, in queste analisi dell’essere inchiodato, uno straordinario capovolgimento delle descrizioni sartriane della «natura» alla quale sono assegnato. Sartre, nei capitoli che dedica alle «relazioni concrete con altri» e nell’orizzonte del conflitto («il conflitto è il senso originale dell’essere-per-altri»), evocava anche il sorgere di altri («Altri è essenzialmente quello che mi guarda») come «elemento di disintegrazione» del «mio universo»: «se c’è un altro, chiunque esso sia, ovunque sia, e quali che siano i suoi rapporti con me, anche se non agisce su di me in altro modo che con la semplice comparsa del suo essere, io ho un di fuori, una natura; il mio peccato originale è l’esistenza dell’altro; […] L’altro come sguardo non è che questo: la mia trascendenza trascesa». L’essere e il nulla, tr. it. a cura di G. Del Bo, Il saggiatore, Milano 2008, p. 316. 27. Il tempo e l’altro, p. 25.
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del sé»28. L’idea allora veramente fondamentale, fondativa, rispetto a questa materialità dell’uomo nudo e bisognoso, è quella dell’intenzionalità, come intenzionalità di godimento: la funzione di questo termine, o meglio di questa «istanza» (il godimento) è essenziale in quanto, come indica Levinas, è «ciò che deformalizza» la nozione di separazione, di taglio o di rottura29. «L’intenzionalità di godimento» (distinta dall’intenzionalità di rappresentazione, distinta da ogni oggettivazione) ha precisamente per caratteristica di non essere presa in un sistema di rinvii e nella Bewandtnisganzheit* di Sein und Zeit; sta in ciò, dice Levinas secondo una terminologia inizialmente un po’ sconcertante, la «sincerità» di questa intenzione. È anche ciò che dà un primo accesso all’esteriorità (vs. lo «psichismo»): a una esteriorità senza mondo o non mondana, a una esteriorità non costituita, «prima di ogni affermazione», precisa. È il corpo, la sua «posizione» sulla terra – ma si tratta del corpo «indigente e nudo», di colui che ha fame e freddo, essenzialmente definito dai suoi bisogni – che si presume renda qui possibile il «mutamento del processo di costituzione»: «il processo di costituzione si muta nel vivere di…»: Ciò di cui io vivo non è nella mia vita come il rappresentato che è interno alla rappresentazione […], se qui si potesse ancora parlare di costituzione, bisognerebbe dire che il costituito ridotto al proprio senso eccede qui il proprio senso, diventa, in seno alla costituzione, la condizione del costituente o, più esattamente, il nutrimento del costituente. Questa eccedenza di senso può essere definita con il termine alimentazione30.
28. Ibid., p. 34: «Concretamente la relazione dell’identificazione è l’oppressione dell’io a causa dell’ingombro del sé, o la materialità». 29. Totalità e infinito, p. 118. 30. Ibid., p. 129 s. * Cfr. la nostra nota di p. 33. N.d.T.
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L’alimentazione, è allora «il modo in cui l’io, principio assoluto, si trova sospeso al non-io». Levinas evoca a tal proposito – l’ho appena sottolineato – «il capovolgimento del costituito in condizione». Il mondo in cui io vivo [i nutrimenti!] non è semplicemente il faccia a faccia o ciò che è contemporaneo al pensiero e alla sua libertà costitutiva, ma condizionamento e anteriorità. Il mondo che costituisco mi nutre e mi impregna. È alimento e “ambiente”31.
Anteriorità dell’elemento o meglio dell’elementale nel quale si è sempre già immersi: «Non si incontra l’ambiente: non ha faccia»; «ci si immerge in esso», aggiunge Levinas. A questo mondo di nutrimenti – ma a rigor di termini, non si tratta ancora di «mondo», piuttosto di dimensione, di elementi, di qualità –, si oppone il mondo vero, quello dell’oggettivazione, quello delle «cose»32; il mondo come «insieme di utilizzabili che formano un sistema» – il solo che Heidegger aveva preso in considerazione nell’analitica della mondanità del mondo ambiente proprio al Dasein quotidiano –, questo mondo «attesta il lavoro, l’abitazione, la casa e l’economia»33. E qualificarlo come «quotidiano» o «condannarlo come non autentico», vuol dire misconoscere – diceva già Levinas in Dall’esistenza all’esistente – «la sincerità» della fame e della sete, vuol dire cedere alle «menzogne di un idealismo capitalista». Non resisto al piacere di citare ancora qualche altra di queste righe polemiche: «Significa, con il pretesto di salvare la dignità dell’uomo compromesso dalle cose, chiudere gli occhi sulle menzogne di un 31. Ibid., p. 130. 32. Ibid., p. 132: «L’elemento non ha forme che lo contengano. Contenuto senza forma. O meglio ha soltanto un lato: la superficie del mare e del campo, l’alzarsi del vento, l’ambiente in cui questa faccia si delinea non è composto da cose. Si dispiega nella propria dimensione – la profondità, inconvertibile in larghezza e lunghezza in cui si estende la faccia dell’elemento». 33. Ibid., p. 135.
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idealismo capitalista, sulle evasioni nell’eloquenza e nell’oppio che propone. La grande forza della filosofia marxista che parte dall’uomo economico risiede nel suo potere di evitare radicalmente l’ipocrisia della predica»34. Ma con questo mondo, si è già abbandonato il piano del godimento – «categoria universale dell’empiria»35, piano del godimento del quale rilevo ancora alcuni tratti seguendo la direzione del mio proposito o secondo la mia linea di lettura: il godimento, il frui, segna un tappa decisiva nell’«individuazione, l’auto-personificazione», «la sostanzializzazione e l’indipendenza di sé»36, proprio nella misura in cui «separa» e contribuisce all’avvento del «per sé»: «nel godimento io sono assolutamente per me», «solo senza solitudine, innocentemente egoista e solo»37. Qual è dunque qui la materialità di ciò che si offre così al godimento, a titolo di ciò che Levinas chiama talvolta «il mondo dei nutrimenti terrestri»? Mi sembra che, in realtà, dietro a questa formula rassicurante o accattivante, del «mondo dei nutrimenti terrestri», quello a cui si trova paragonato il godimento – ed è anche quello che giustificherà il non al di là in direzione della dimora –, è la materia nella figura molto ambi34. Dall’esistenza all’esistente, p. 38. 35. Totalità e infinito, p. 134. 36. Ibid., p. 149. 37. Ibid., p. 135. – A ciò si può opporre – non contraddittoriamente – questa sottolineatura, sicuramente meno ben ispirata, delle «conclusioni» di Totalità e infinito, relative questa volta all’ultimo Heidegger: «Il materialismo non sta nella scoperta della funzione primordiale della sensibilità, ma nel primato del Neutro. Situare il Neutro dell’essere al di sopra dell’ente che questo essere determinerebbe in qualche modo a sua insaputa, situare i fatti essenziali all’insaputa degli enti – significa professare il materialismo. L’ultima filosofia di Heidegger diventa questo materialismo vergognoso. Essa pone la rivelazione dell’essere nell’abitazione umana tra Cielo e Terra, nell’attesa di dei ed in compagnia di uomini ed innalza il paesaggio o la «natura morta» ad origine dell’umano» (p. 307).
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gua dell’elemento: Levinas si impegna, in Totalità e infinito, ad analizzare ciò che chiama «il formato mitico dell’elemento». Ciò che caratterizza infatti l’elemento – ciò che fa, dice Levinas, il suo «carattere elementale», è la qualità, e ancora, come nell’opera d’arte e nel fenomeno erotico, una «qualità senza sostanza»38. Ci troviamo, in questo punto, nel cuore di uno straordinario paradosso – che fa tutto l’interesse di queste analisi –, in quanto la pienezza della materialità, la «materialità estrema» dice Levinas, nella parte dedicata alla «fenomenologia dell’Eros», in quanto «l’ultra-materialità» del femminile erotizzato si libera essa stessa anche come «qualità pura»: qualità «alla quale manca la categoria della sostanza», alla quale manca il «qualcosa». Cito: La qualità, nel godimento, non è qualità di qualcosa. La solidità della terra che mi sostiene, il blu del cielo che mi sovrasta, il soffio del vento, le onde del mare, lo splendore della luce, non sono legati ad una sostanza. Non hanno luogo d’origine. Questo fatto di non venire da nessun luogo, da qualcosa che non è, di apparire senza che vi sia nulla che appare – e, quindi di venire sempre, senza che si possa possedere l’origine – delinea l’avvenire della sensibilità e del godimento39.
Credo e spero di non sollecitare troppo questo testo suggerendo che l’avvenire della sensibilità e del godimento, qui richiamato, l’a-venire di ciò che «viene da nessun luogo», di ciò che viene sempre senza essere qualcosa, e dunque senza che niente appaia, è esattamente l’esperienza erotica – a proposito della quale curiosamente, e salvo errori da parte mia, Levinas non parla mai di godimento40 –, è l’esperienza erotica o piut38. Ibid., pp. 141 ss. 39. Ibid., p. 142. 40. Cosa che si capisce perfettamente dal momento che «Ogni godimento è alimentazione», p. 111.
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tosto quello che, nell’esperienza erotica, si dà e si ritira, ancora come pura «qualità» – «peso di non significanza più greve del peso del reale informe», ciò che, prosegue Levinas in modo sovrano, «noi chiamiamo femminilità»41. L’analisi, un po’ usurata, della carezza ritrova allora tutta la sua portata: questa è «animata», «alimentata in qualche modo» (mi permetto di sottolineare il termine), da «ciò che non è ancora» (questa volta il corsivo è di Levinas): «la carezza – cito – cerca, al di là del consenso o della resistenza di una libertà – ciò che non è ancora, qualcosa che è «men che nulla», che sta come rinchiuso e sospinto al di là dell’avvenire…». E così come il nutrimento dà accesso all’elementale – questo tratto della ὕλη o dell’ὑποκείμενον che dimora essenzialmente ἄδηλον – in ritiro, non manifesto, come indicava Aristotele42, questo tratto che gli impedisce proprio di pretendere lo statuto di οὐσία –, allo stesso modo, «nel carnale della tenerezza», scrive Levinas, «il corpo abbandona lo statuto dell’ente»: «la carezza non si dirige né su una persona né su una cosa»: «la carezza si rivolge alla tenerezza com-mossa che non ha più lo statuto di un “ente”». Ciò, scrive ancora Levinas, anche perché la «tenerezza» si trova «immersa nella falsa sicurezza dell’elementale». Qualità pura, senza riferimento a «qualcosa», essa designa un modo, il modo di «mantenersi […] tra l’essere e il non ancora essere»43. Questo modo sarà proprio quello della «materia»? Che mi si comprenda bene: non intendo ripiegare brutalmente le analisi dedicate alla femminilità erotizzata, caratterizzate dalla «profondità nella dimensione sotterranea della tenerez41. Totalità e infinito, p. 264. In Il tempo e l’altro, evocava «la materialità più brutale, più sfacciata o più prosaica dell’apparizione della femminilità…», p. 56. 42. Metafisica, Z 3, 1029 a 10. 43. Totalità e infinito, p. 266.
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za», su quelle del «formato mitico dell’elemento»44. Le differenze sono evidenti e decisive: se dell’elementale, del materiale, che ha anche la sua profondità specifica, che apre anche la dimensione della profondità e dell’abissalità, si può dire, come della «tenerezza» e anche del clandestino (la tenerezza è clandestina), che «non ha faccia», che «non lo si incontra»45 – e l’Eros infatti va «al-di là del volto»46 –, bisogna anche sottolineare, differenzialmente questa volta, che l’elementale – «qualità che sfugge all’identificazione» – è questa dimensione o questa figura (non-figura) del Non-Io in cui mi immergo o meglio «ci si immerge», senza potervi consistere. È solamente attraverso la dimora, «a partire dal domicilio», condizione di ogni «proprietà», che gli sarà possibile darsi «una consistenza nell’elementale»47. Ma ancora – e bisognerebbe prendersi il tempo di sviluppare più nel dettaglio tutto ciò che separa la materialità dell’elemento nel suo formato mitico da un lato e, dall’altro, la materialità («ultra-materialità esorbitante», «parossismo di materialità») che qualifica l’«alterità stessa», quella dell’Amata –, ma qui ancora, è permesso di sottolineare immediatamente che l’analisi della carezza mette, anch’essa, l’accento sulla de-identificazione del soggetto sostanza che non è più di fronte ad un ente – né cosa, né persona: l’amata, che significativamente, mi sembra, Levinas chiama anche «al neutro» «la tenerezza» o «il 44. L’aggettivo va preso sul serio. Nel caratterizzare il passaggio dal «paganesimo» all’«ateismo», Levinas scrive (p. 143): «L’elemento in cui abito è ai confini della notte. La faccia dell’elemento che è rivolta verso di me non nasconde un «qualcosa» che è in grado di rivelarsi, ma una profondità sempre nuova dell’assenza, esistenza senza esistente, l’impersonale per eccellenza». 45. Ibid., p. 132. 46. Ibid., p. 272. 47. Ibid., p. 133; «Io sono sempre interno all’elemento. L’uomo ha potuto vincere gli elementi solo superando questa interiorità senza scampo con un domicilio che gli conferisce un’extraterritorialità».
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clandestino», l’amata che nella nudità erotica o «notte dell’erotico»48 fa sprofondare «nella falsa sicurezza dell’elementale» e così prende il posto di non-io, assolutamente irriducibile. Nella sua analisi della carezza, che non ha la forma di un’esperienza, Levinas reintroduce l’opposizione dell’ Io e del NonIo: «Un non-io amorfo trascina l’io in un avvenire assoluto in cui esso evade e perde la sua posizione di soggetto»49. Ciò che si trova così sovvertito è «la relazione dell’io con sé a con il non-io» – questa relazione (lavoro, acquisizione, scambio) che aveva innanzitutto reso possibile un’altra figura del femminile (la Donna), il femminile nel senso della Dimora50. A proposito dell’elemento, ed ecco l’ultimo punto sul quale vorrei fermarmi, Levinas scrive che «si prolunga nell’ il y a»51. Il y a – l’elemento, potremmo dire in modo paratattico, giocando sulle riformulazioni heideggeriane, a proposito del frammento VI del Poema di Parmenide52. Che ne è di questo eventuale prolungamento, trattandosi del terzo momento della materialità che ho distinto all’inizio – l’ultra-materialità esorbitante che scopre la «fenomenologia dell’Eros»? 48. Ibid., p. 266. 49. Ibid., p. 266 s. 50. Ibid., p. 163: «Il lavoro si accorda con gli elementi cui sottrae le cose. […] Il lavoro «definisce» la materia […]. Una insondabile profondità che il godimento sospettava nell’elemento, si sottomette al lavoro che domina l’avvenire, calma il borbottio anonimo dell’ il y a, la confusione incontrollabile dell’elementale che, che preoccupa anche all’interno del godimento stesso. Questa oscurità insondabile della materia, si presenta al lavoro come resistenza e non come il faccia a faccia». 51. Ibid., p. 143. In queste righe, Levinas associa significativamente il y a, elemento e «la terra»: «L’elemento si prolunga nell’il y a. Il godimento come interiorizzazione si scontra proprio con l’estraneità della terra». 52. Cfr., tra molte altre opere, Che cosa significa pensare? tr. it. di U.M. Ugazio e G. Vattimo, Carnago (Varese), Sugarco, 1994, p. 191.
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Prima di tentare di rispondere a questa domanda, vorrei tornare all’opera d’arte, poiché comunque l’esotismo rappresenta come un termine medio tra il godimento, nel suo rapporto all’elemento, e l’esperienza – il termine non è del tutto adatto, l’abbiamo visto – della nudità erotica53: con l’orientamento estetico che l’uomo può dare all’insieme del suo mondo, si assiste, su un piano superiore, al «ritorno al godimento e all’elementale». L’arte – lo abbiamo detto – è essenzialmente «astratta», in questo senso fa «uscire dal mondo» gli oggetti: sia che si tratti di oggetti di conoscenza o di oggetti d’uso (pensiamo a Marcel Duchamp). Se in un certo senso il fatto di dare come una «immagine» dell’oggetto appartiene all’arte, bisogna immediatamente precisare che questa «immagine» ha per effetto di «strappare la cosa alla prospettiva del mondo». Il «disinteresse dell’arte» è tale che ci offre gli oggetti nella
53. L’altra «nudità» alla quale Levinas ritorna instancabilmente, è quella del volto. Ma occorre dire anche che il volto – nella sua sovranità che apre la dimensione propriamente etica –, come «espressione», «significazione», risplende nella sua «epifania» «come la nudità del principio dietro il quale non c’è più nulla» (Totalità e infinito, p. 269). Cosa risplende dietro la nudità erotica – significazione a ritroso? Alcunchè, niente! L’ il y a? — Cfr. anche l’analisi sorprendente di «Liberté et commandement» (Revue de Métaphysique et de Morale, 1953), ripresa nel volume eponimo (Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1994) [In italiano possiamo trovare una traduzione dell’articolo del 1953 «Libertà e comando» in Emmanuel Levinas, Adriaan Paperzak, Etica come filosofia prima, tr. it. di Fabio Ciaramelli, pp. 15-30, mentre risulta ancora non tradotto il resto del volume del 1994. Per ciò che concerne le citazioni dell’articolo «Liberté et commandement», utilizzeremo la citata traduzione esistente, per il resto del volume non tradotto utilizzeremo una nostra traduzione. N.d.T.]: p. 26: «L’assoluta nudità del volto, questo volto assolutamente indifeso, senza schermo, senza abito, senza maschera è tuttavia ciò che si oppone al mio potere su di lui, alla mia violenza, ciò che vi si oppone in modo assoluto, di una opposizione che è opposizione in sé. L’essere che si esprime, l’essere che mi è di fronte mi dice no con la sua stessa espressione».
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loro «nudità», nudità che non è solamente qui «assenza di abiti», ma «assenza di forme»54. Nella percezione «ordinaria», se si può dire, «un mondo ci è dato. I suoni, i colori e le parole si riferiscono agli oggetti, che in qualche modo ricoprono». Non è lo stesso quando si tratta del «movimento dell’arte»; in questo caso, scrive Levinas «l’intenzione si smarrisce nella sensazione, nell’aisthèsis, […] Non è la via che conduce all’oggetto, ma l’ostacolo che allontana da esso»55. Per render conto di questo «fenomeno» dell’arte, l’opposizione classica sensazione-percezione non vale: «la sensazione non è il materiale della percezione». Il «materiale», la «materialità» dev’essere cercata altrove: questa riemerge nell’arte come «elemento»: «ritorna all’impersonalità dell’elemento». All’oggetto costituito, mondano, Levinas oppone dunque qui, nell’orizzonte (che non è proprio un orizzonte) dell’arte, quello che chiama, con un po’ di imprudenza o senza dubbio in modo maldestro, «la cosa in sé»: La sensazione e l’estetica producono dunque le cose in sé, non però come oggetti di grado superiore, ma scartando ogni oggetto per pervenire così a un nuovo elemento, […] che inoltre si rifiuta alla categoria di sostantivo56.
Ecco quello che per me è il punto fondamentale: l’elemento,
54. Dall’esistenza all’esistente, «l’esotismo», pp. 45-46. 55. Ibid. 56. Ibid., p. 47. Cfr. anche, ibid., p. 46: «Il modo in cui, nell’arte, le qualità sensibili che costituiscono l’oggetto contemporaneamente non pervengono ad alcun oggetto e sono in sé, corrisponde all’evento della sensazione in quanto sensazione, e cioè all’evento estetico». — Trattandosi della «cosa in sé», la formulazione, assolutamente non kantiana, si chiarisce senza dubbio in funzione di tale osservazione, relativa al «quadro»: «… il quadro realizza l’in se stesso della loro esistenza [quella degli oggetti materiali], l’assoluto del fatto che esiste qualcosa che non è a sua volta un oggetto e un nome», p. 49 (Corsivo del testo).
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la materialità nuda che emerge nell’arte o nell’estetica, non rientra più nel dominio della sostanza (οὐσία) – dal momento che si tocca la materia, si entra – l’ho già tetto – nello spazio dell’ἄδηλον (Metafisica, Z 3), non si ha più a che fare con un sostrato o una sostanza suscettibile di ricevere delle determinazioni, attributi o qualità. Con l’opera d’arte (l’esempio preso da Levinas è quello dei «blocchi indifferenziati» che sono o che «prolungano» le statue di Rodin), «la realtà si colloca nella sua nudità esotica di realtà senza mondo, che sorge da un mondo distrutto» – lascio da parte il «mondo distrutto», sottolineando semplicemente che questa «nudità», realtà senza mondo, iper-realtà o iper-materialità, è anche ciò che caratterizzerà un’altra nudità, non più la nudità esotica, ma la nudità erotica. Con la pittura Levinas ha ugualmente parlato della de-mondanizzazione operata nel cinema dai primi piani («la curva della spalla che la proiezione fissa in una dimensione allucinante»), con la pittura dunque, «le cose non hanno più importanza in quanto elementi di un ordine universale», ma «il particolare risalta nella sua nudità di essere». Ciò che realizza l’arte è una «sorprendente deformazione», che è anche «messa a nudo – del mondo». Strappandosi da uno spazio senza orizzonte le cose si abbattono su di noi come frammenti che si impongono per se stessi, come blocchi, cubi, piani, triangoli […] elementi nudi, semplici e assoluti, rigonfiamenti o ascessi dell’essere.
La «Fenomenologia dell’Eros» di Totalità e infinito stabilirà – intraprendo qui delle analisi che occorrerebbe evidentemente seguire con attenzione e in tutti i loro dettagli – che l’amata, nella sua «fragilità» e «vulnerabilità» «sta al limite di un’esistenza “alla mano”, “senza mezzi termini”» di uno spessore “non significante” e crudo» – quello di una «ultramaterialità esorbitante». L’erotico e l’estetico (esotismo) hanno anche qui in comune questa messa in rilievo di un «parossismo di materialità». La materialità qui, spinta al suo parossismo, «indi-
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ca la nudità esibizionistica di una presenza esorbitante»57. Da dove viene questa «presenza esorbitante»? Da questo tratto comune all’opera d’arte e alla nudità erotica tanto che: «l’essenzialmente nascosto si getta verso la luce, senza diventare significato»58. Certo, a proposito dell’amata Levinas non parlerà né di «rigonfiamenti», né «di ascessi nell’essere», ma evocherà piuttosto la «sfigurazione» (défiguration), come «presenza della non significanza nella significanza del volto»59: «Il volto perde consistenza e nella sua neutralità impersonale ed inespressiva si prolunga, ambiguamente, in animalità»60: «questa testolina, questa gioventù, questa pura vita “un po’ sciocca” – ha lasciato il suo statuto di persona»61! Questa «sfigurazione» mi sembra che qui dev’essere messa in parallelo con la «deformazione» realizzata dall’opera. L’espressione «parossismo di materialità» che si legge in Totalità e infinito, a proposito dell’amata che insieme si alleggerisce del suo peso d’essere («l’incarnato leggero delle ninfe» che evoca il Mallarmé di Pomeriggio di un fauno) e che testimonia anche una «presenza esorbitante» («peso di non significanza
57. Dall’esistenza all’esistente, p. 49; «In questa inversione del volto da parte della femminilità – in questa sfigurazione che si trasferisce al volto – la non significanza si situa nella significanza del volto», Totalità e infinito, p. 270. 58. Totalità e infinito, p. 264. In corsivo nel testo. 59. Ibid., p. 270. 60. Ibid., p. 271, Cfr. anche, ibid.: «L’apparizione impudica della nudità erotica appesantisce il volto che si carica così di un peso mostruoso nell’ombra di non senso che si proietta su di esso…». 61. La formulazione, abbastanza aspra, deve ancora essere sfumata: «La non significanza del lascivo non equivale […] all’indifferenza stupida della materia». È perché la non-significanza qui, resta il punto fondamentale, forma come un «rovescio dell’espressione» - rovescio o «non-significanza» che, come tale, rinvia sempre e necessariamente alla «significanza». Da ciò la «profanazione»!
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più greve del peso del reale informe»), – questa espressione «parossismo di materialità» si legge anche in Dall’esistenza all’esistente, ma questa volta a proposito dell’opera e della «rappresentazione della materia ad opera della pittura»: «In questa caduta delle cose su di noi, gli oggetti affermano la loro potenza di oggetti materiali ed è come se pervenissero al parossismo stesso della loro materialità». Precisa Levinas, alla fine di questa sezione dedicata all’esotismo, cito di nuovo il passo per intero : Nozione di materialità che non ha più nulla in comune con quella materialità contrapposta al pensiero e allo spirito di cui si nutriva il materialismo classico, e che, definita attraverso le leggi meccanicistiche che ne esaurivano l’essenza e la rendevano intellegibile, si allontanava il più possibile dalla materialità presente in alcune forme dell’arte moderna. Ciò che [ho già citato parzialmente questo testo capitale] è denso, rozzo, massiccio, miserabile: è questa la materialità; ha una consistenza, un peso, è assurda, è una brutale ma impassibile presenza; ma ha anche un’umiltà, una nudità, una bruttezza. […] La scoperta della materialità dell’essere non è la scoperta di una nuova qualità, ma del suo brulichio informe. Dietro alla luminosità delle forme per mezzo delle quali gli esseri si riferiscono già al nostro «dentro», la materia è il fatto stesso dell’il y a62.
L’amata, nella sua nudità erotica, offerta e rifiutata («vergine e profanata», dice Levinas), è de-personalizzata, de-formata, ha perduto il suo statuto di ente (Levinas parla anche di «non-essenza», e nella sua «debolezza» o «vulnerabilità», non si lascia cogliere che come «modo»: «modo o regime della tenerezza», del quale Levinas nota bene: «si manifesta al limite dell’essere e del non essere, come un dolce calore in cui l’essere si disperde per irraggiamento, come l’«incanto leggero» delle ninfe […], si disindividua e si alleggerisce del proprio peso
62. Dall’esistenza all’esistente, pp. 49-50.
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d’essere […], fuga dentro di sé già all’interno della propria manifestazione»63. Ma, ed è qui che interviene l’equivoco, proprio al fenomeno erotico, «questa estrema fragilità – l’abbiamo già ricordato – sta anche al limite di un’esistenza «alla mano», «senza mezzi termini», di uno spessore «non significante» e crudo di una ultramaterialità esorbitante». Non più le ninfe di Mallarmé, ma, diciamo, la Vénus au miroir di Rubens o gli Studies for human body di Bacon! Proseguo la citazione di questo passaggio stupefacente: «Questi superlativi»: «ultramaterialità», «materialità esorbitante», «traducono, più delle metafore, come un parossismo di materialità. L’ultramaterialità non indica […] la materialità elevata a potenza e che si spalanca al di sotto delle sue forme frantumate, nelle rovine e nelle ferite», quella che «indica la nudità esibizionista di una presenza esorbitante – che viene da più lontano della franchezza del volto – che profana ed è profanata, come se avesse violato l’inviolabilità di un segreto. L’essenzialmente nascosto si getta verso la luce, senza diventare significato»; «la simultaneità o l’equivoco di questa fragilità e di questo peso di non significanza, più greve del peso del reale informe, costituisce per noi la femminilità»64.
63. Totalità e infinito, p. 263. Che ci si permetta questo intreccio: «L’ il y a è tutto il peso dell’alterità sopportata da una soggettività che non lo fonda», Altrimenti che essere..., p. 205. 64. Non cessiamo di essere stupiti dal fatto che un autore peraltro così avveduto come Dominique Janicaud abbia potuto trattare di questa «fenomenologia dell’Eros» – della quale alcuni apetti sono prossimi al pensiero di Bataille – nei termini di una «evocazione edificante e diafana di una carezza disincarnata e di erotismo di vetrata», come se Levinas avesse voluto «rendere piccante un’opera troppo austera con qualche evocazione, in fondo abbastanza ingenua, sulla carezza, il pudore, la tenerezza» (La phénoménologie dans tous ses états, Paris, Gallimard («folio essais»), 2009, p. 71.
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Non ci si stupirà di constatare che questa ultra-materialità raggiunga in un senso o preceda quella dell’il y a. A fianco della notte come ronzio anonimo dell’il y a, si apre la notte dell’erotico; dietro la notte dell’insonnia, la notte del nascosto, del clandestino, del misterioso…
Questa notte, quella della «clandestinità» – «clandestinità che, nell’impudore della sua produzione, confessa una vita notturna che non equivale ad una vita diurna semplicemente priva del giorno» –, questa notte è anche, mi pare, quella dell’il y a – l’ultima istanza, l’archi-istanza della materialità – la khôra – quella che si ritroverebbe senza dubbio, ma è un’altra storia, a proposito di un’ultima figura della femminilità/materialità, quella della fecondità e della maternità, che affiora in Totalità e infinito, e che viene espressamente tematizzata in Altrimenti che essere.
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III Deformalizzare la nozione di tempo
Emmanuel Levinas è stato, senza alcun dubbio, un lettore singolarmente assiduo e attento delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo (nell’edizione Stein-Heidegger, così come compariva nel tomo IX del Jahrbuch nel 1928); la sua lettura, complessa e stratificata, testimonia una notevole esposizione/riappropriazione radicalmente critica, come indica, senza ambiguità, la prima frase dello studio pubblicato nel 1948, Il tempo e l’altro: «Lo scopo di queste conferenze consiste nel mostrare che tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri». La posta di questa critica che mescola in modo indissociabile Husserl e Heidegger (persino lo Heidegger lettore di Kant) è centrale per l’insieme del pensiero di Levinas, come lui stesso riconosce in un’intervista «tardiva» che ci servirà qui da filo conduttore: «L’Altro, utopia e giustizia», accordata nel 1988 alla rivista Autrement, e ripresa nella raccolta Tra noi: Il mio tema di ricerca essenziale è quello della deformalizzazione della nozione di tempo1. 1. Tra noi, p. 277. Il termine «deformalizzazione», accompagnato da quello di «concretizzazione» appariva, sembra, in Totalità e infinito, innanzitutto a proposito dell’idea di infinito (p. 48), e ritorna significativamente nella
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Si tratta di un enunciato che si chiarisce anche a partire da questa osservazione che compare nella Prefazione redatta da Levinas nel 1979, in occasione della prima riedizione di Il tempo e l’altro, presso l’editore Fata Morgana: L’alterità umana non è pensata a partire dall’alterità puramente formale e logica mediante la quale si distinguono, gli uni dagli altri i termini di ogni sorta di molteplicità. […] La nozione di alterità trascendente – quella che dischiude il tempo – è ricercata innanzitutto a partire da una alterità-contenuto2.
O ancora a partire dalla prima esposizione molto densa e per molti aspetti importante che Levinas dà delle Lezioni del 1905, nell’articolo comparso nel 1940 (nella Revue philosophique), alla sezione undici: «L’io, il tempo, la libertà» (che occorrerebbe rileggere in parallelo con i saggi del 1947-1948, Dall’esistenza all’esistente, Il tempo e l’altro); dopo aver messo l’accento sull’attività costitutiva dell’io stesso, nella sua formalità o «maniera d’essere» – l’io come «fonte di ogni atto», «manifestazione della libertà» –, ed esplicitato il suo irraggiamento (Ichstrahl), Levinas s’interroga sul rapporto di questo a sé, sul tipo specifico di intenzionalità che lo caratterizza quando si rivolge verso se stesso: «ogni pensiero diretto su un oggetto è accompagnato dalla presenza e dall’evidenza di questo pensiepagine dedicate a Rosenzweig, «Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno» (1965), riprese in Hors-sujet, Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1987; tr. it Ciglia, Fuori dal soggetto, Marietti, Genova 1992, p. 85: «I filosofi troveranno, forse, interessante questa deformalizzazione del tempo». Sull’importanza di questo tema legato a quello della «concretezza», e alle nozioni di «congiunture», «circostanza», «condizione», si vedano le preziose indicazioni di Jacques Rolland, «Instant et Diachronie», in Parcours de l’Autrement, Puf, Paris 2000, p. 291: «Nel corso dei 5-6 decenni lungo i quali si è estesa la ricerca filosofica di Emmanuel Levinas, la questione del tempo ha costituito una preoccupazione, forse in apparenza marginale o secondaria ma, nei fatti, costante e che ritorna costantemente e che emerge in primo piano nei momenti cardine dell’evoluzione dell’opera». 2. Il tempo e l’altro, p. 15.
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ro a se stesso». Che cosa assicura questa presenza a sé caratteristica della coscienza? Come coscienza di sé, «essa si compie nella coscienza immanente del tempo». Il Zeitbewußtsein è quindi assolutamente determinante per ogni «atto di coscienza» poiché, ad ogni modo, è questa temporalizzazione nel cuore stesso della coscienza che permette l’identificazione, la ricognizione e la rammemorazione dei contenuti interni, dei vissuti. Ma è anche in questo punto che interviene una svolta decisiva nell’analisi husserliana, ben evidenziata da Levinas: la temporalizzazione, condizione di ogni sintesi, rinvia come alla propria origine a una Urimpression, a una «passività originaria» che si confonde qui con l’atto, la libertà, la «spontaneità» inizialmente riconosciuta3. In modo molto economico, in queste poche pagine, Levinas, appoggiandosi su un corpus husserliano abbastanza limitato, determinava con estrema finezza se non il punto cieco, almeno la difficoltà principale della concezione husserliana che deve tenere insieme spontaneità e passività di un soggetto non solamente temporale, ma interamente tenuto, sostenuto dalla temporalità sotto le specie di una figura «prima» dell’intenzionalità: il presente. «Il tempo non è quindi una forma che la coscienza assume dall’esterno. È il vero segreto della soggettività: la condizione di uno spirito libero». Il segreto della soggettività è qui inteso non solo come «presenza a sé», ma anche come ritenzione e protensione. È per questa via che si afferma la libertà del soggetto, come «rinnovamento» e come «sorgere». Si potrebbe allora essere tentati di far derivare il tempo «dal movimento stesso della libertà del soggetto», del soggetto caratterizzato come «flusso». In realtà, ed è quello che fa tutto l’interesse dell’analisi husserliana, questo io fluente, che non si identifica in alcun modo a una «corrente di coscienza» di cui il tempo sarebbe la forma, 3. «L’opera di Edmund Husserl», Revue Philosophique, gen.-feb. 1940, ripreso in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, pp. 42-45.
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è sempre riferito ad una archi-impressione. Non è semplicemente atto, fonte, «sospensione», «posizione», ma resta legato a ciò che Levinas chiama qui il «piano della sensazione»4. Tuttavia Levinas conclude questa prima relazione – facendo appello, secondo un gesto costante, a Heidegger, per criticare meglio in seguito quest’ultimo – con queste parole: In conclusione, in tutta questa teoria del tempo, si tratta del tempo del pensiero teorico, di un tempo formale, qualificato unicamente dai contenuti che lo riempiono e che partecipano al suo ritmo senza crearlo5.
La critica rimane, in questo testo scritto prima della guerra, ancora mal esplicitata, ma annuncia senz’altro già il motivo essenziale della diacronia: [Per Husserl] lo spirito è l’intimità di un senso con il pensiero, la libertà dell’intellezione. Il tempo compie tale libertà; non preesiste allo spirito, non lo impegna in una storia in cui potrebbe essere superato. Il tempo storico è costituito» [corsivo dell’autore].
* Ritorniamo al nostro punto di partenza, la testimonianza tardiva del 1988: si tratta qui di una stilizzazione discutibile o perfino di una illusione retrospettiva? Ma innanzitutto come
4. Il motivo è potentemente messo in rilievo, ben prima dei grandi testi degli anni sessanta sui quali torneremo, e in particolare nel saggio «Intenzionalità e sensazione». Fin da questo articolo del 1940, Levinas scrive: «È sul piano della sensazione e là dove l’intenzionalità diretta su un oggetto esterno appare essa stessa in quanto estesa nel tempo e quindi come «contenuto» – nel campo più familiare dell’empirismo – che Husserl scopre la manifestazione di un senso» in «L’opera di Edmund Husserl», ripreso in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 45. 5. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 45.
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comprendere il proposito annunciato della «deformalizzazione»? Prima di tentare di rispondere a queste prime domande, riprendiamo il seguito del testo citato: Kant lo chiama [si tratta del tempo] forma di ogni esperienza. Ogni espressione umana, in effetti, riveste la forma temporale. La filosofia trascendentale uscita da Kant riempiva questa forma di contenuto sensibile proveniente dall’esperienza o, dopo Hegel, conduceva dialetticamente questa forma verso un contenuto. Questi filosofi non hanno mai richiesto per la costituzione di questa forma stessa della temporalità una condizione in una certa congiuntura di «materia» o di eventi, in un contenuto sensato in qualche modo preliminare alla forma.
Con queste righe, abbastanza dense e discretamente oscure (la «materia», la «condizione», la «congiuntura»), abbiamo senza dubbio il «nerbo» di una critica che non si regge solamente sull’estetica trascendentale kantiana: al di là del tempo considerato come forma dell’esperienza, occorre dunque interrogarsi – come sottolinea Levinas – sulle «condizioni» di questo, condizioni che rinviano tutte a una «congiuntura» nell’ordine insieme della «materialità» e dell’evento. Un evento che «prende corpo», se si può dire così (rinviando ad una espressione molto eloquente proposta da Levinas in Dall’esistenza all’esistente6). Ciò che è così annunciato come «tema di ricerca essenziale»7, è dunque niente meno che la problematica della costituzione, eppure questa rinvia esattamente, come al suo principio ultimo, al «flusso costitutivo del tempo» (secondo la formula delle Lezioni del 1905, paragrafo 36)8; si tratta di liberare 6. Dall’esistenza all’esistente. 7. Nel 1988, nell’intervista che abbiamo preso come filo conduttore, Levinas rispondeva alla seguente domanda: «Qual è la sua preoccupazione fondamentale oggi nel suo lavoro?» 8. E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, 18931917, hrsg. v. R. Boehm, Hua X, Nijhoff, Den Haag 1966; tr. it. di A. Marini,
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qualcosa come un a priori, se si può dire così, della «forma a priori» stessa, o meglio di accedere all’origine fenomenologica
Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano, 2001. Il giovane Levinas si riferisce naturalmente al volume del Jahrbuch (Bd. IX) curato da Heidegger nel 1928 a partire dal lavoro già intrapreso da Edith Stein dal 1916 al 1918. Il «dossier» editoriale è oggi interamente cambiato, con la pubblicazione del volume X di Husserliana, dovuto a Rudolf Boehm (1966), il volume realizzato da Rudolf Bernet («Philosophische Bibliothek»), Meiner, Hambourg 1985; e soprattutto con la pubblicazione dei manoscritti di Bernau (1917/18), Husserliana XXXIII e il volume complementare («Materialen», Bd. VIII), comprendente i testi più tardi, i «Manoscritti del gruppo C» (1929-1934). — Nel contesto della ricezione francese delle Lezioni, alle quali era dedicata l’opera collettiva curata da Jocelyn Benoist, La conscience du temps, Autour des Leçons sur le temps de Husserl (Vrin, Paris 2008), occorre sottolineare, come faceva in questo volume Daniel Giovannangeli, l’importanza dello studio di Yvonne Picard pubblicato nel 1946, nel numero 1 della rivista Deucalion: «Le temps chez Husserl et chez Heidegger». È in questo stesso numero di Deucalion, Cahiers de philosophie, éditions de la revue Fontaine, che Levinas pubblica con il titolo «Il y a» (pp.143-154) alcuni passaggi che saranno ripresi in Dall’esistenza all’esistente (Cfr. la nota p. 57 e l’introduzione alla seconda edizione, p. 5). Ricordiamo ugualmente che nello studio pubblicato nel 1965 nella Revue Internationale de Philosophie, «Intenzionalità e sensazione» (ripreso in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 178, nota 19), Levinas rendeva omaggio in questi termini al saggio di Deucalion: «Rispetto al problema del tempo e dell’intenzionalità (cfr. l’acuta analisi apparsa su Deucalion, I, 1947) che rappresenta la sua tesi per il Diplôme d’Études Supérieures la quale risale probabilmente ai primi anni dell’occupazione. Tale testo valorizza in modo particolare l’appendice V della Coscienza interna del tempo. Si tratta di uno dei primi tentativi di ripensare con rigore le minuziose analisi di Husserl, secondo una via aperta da Jean Wahl, e che prefigura già le riflessioni di Merleau-Ponty, di Ricoeur e di Derrida. L’analisi mette anche a confronto Husserl e Heidegger, e non sempre lascia ad Heidegger l’ultima parola. Yvonne Picard è morta nella deportazione per aver partecipato alla Resistenza, la causa del suo martirio non è stata dunque la sua origine. Desideriamo qui renderle un devoto omaggio, imprescindibile, evocando il suo pensiero e dando parola alle sue labbra chiuse». – Segnaliamo la riedizione, presentata da Daniel Giovannangeli, dell’articolo d’Yvonne Picard nella rivista Philosophie, n. 100, hiver 2008.
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del tempo, per riprendere i termini che sono, almeno formalmente o «letterariamente», comuni a Husserl e ad Heidegger. Contro Kant, la critica è formulata nel 1988 un po’ en passant e si può rimpiangere il fatto che resta molto allusiva, fin nel suo principio, e si limita al tempo dell’Estetica (forma pura della sensibilità), senza prendere in considerazione né discutere esplicitamente (almeno a mia conoscenza) la lettura heideggeriana dell’immaginazione trascendentale come tempo originale, nel Kantbuch, paragrafi 33 e 34; Heidegger vi commentava alla lettera l’espressione kantiana (A 34, B 51): «il tempo non è nulla fuori dal soggetto»: «cosa che significa dunque che, nel soggetto, è tutto», prima di tematizzare, nel paragrafo seguente, «il tempo come affezione pura del sé e il carattere temporale del sé (der Zeitcharakter des Selbst)»9. Ricordiamo qui alcuni punti essenziali concernenti l’analisi heideggeriana dell’immaginazione trascendentale il cui carattere temporale (intrinseco o «interno», «intimo») è sottolineato attraverso lo studio delle tre sintesi: «dell’apprensione nell’intuizione; della riproduzione nell’immaginazione; della ricognizione nel concetto». La ricezione immediata del molteplice nell’intuizione sensibile (empirica) come «Dieses-da» non sarebbe possibile e il molteplice non potrebbe essere «rappresentato come tale», se «il Gemüt non distinguesse il tempo nelle serie delle impressioni successive» (A 98-100). E Heidegger commenta: Il nostro animo, distinguendo il tempo, deve dire già da principio, costantemente adesso e adesso e adesso, affinché sia possibile incontrare «adesso questo» e «adesso quello» e «tutto questo proprio adesso» (unser Gemüt muß, die Zeit unterscheidend, im vorhinein schon ständig «jetzt und jetzt und jetzt» 9. Mi permetto di rinviare, per la lettura heideggeriana di Kant, al mio studio già datato «Kant et le temps», in Heidegger et la phénoménologie, Vrin, Paris 1990, pp. 107-127.
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80 sagen, damit «jetzt das» und «jetzt das» und «all dieses jetzt zumal» begegnen kann)10.
La pura sintesi dell’apprensione è dunque già «zeitbildend», essa contribuisce alla configurazione temporale, e in questo modo procura o offre il «presente in generale» (Gegenwart überhaupt). La questione che viene allora in primo piano e che è importante elucidare è quella che concerne il capire come il Gemüt può procurare così una prima differenza temporale, quella stessa che è al principio del tempo e della temporalizzazione come differenziazione («die Zeit unterscheiden»); si conosce la risposta di Heidegger: l’immaginazione trascendentale è il tempo originale11. Seguendo Kant (A 77, B 102) che afferma che «lo spazio e il tempo devono sempre influenzare il concetto delle rappresentazioni», Heidegger stabilisce infatti che il tempo è, nella sua essenza, pura affezione di se stesso: Di più, esso è precisamente ciò che forma in generale qualcosa come la mira che, «partendo da sé, si dirige verso…», in modo tale che l’«in direzione di», nella sua configurazione, ricade e rifluisce su questa mira. Il tempo come pura auto-affezione non è un’affezione che, nella sua efficacia, arriverebbe a toccare un Sé concreto semplicemente presente, bensì in quanto autoaffezione pura, forma l’essenza medesima di ciò che può definirsi il «riguardar-se-stesso». Ma nella misura in cui appartiene all’essenza del soggetto finito il fatto di poter-essere riguardato come Sé, il tempo, nella sua qualità di autoaffezione pura, forma la struttura essenziale della soggettività12. 10. Kant und das Problem der Metaphysik (KPM.), 1929, Gesamtausgabe, 3, Klostermann, Francfort 1991, p. 179; tr. it. di Maria Elena Reina, rivista da V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 1981, p. 155. 11. KPM., p. 187; tr. it. cit, p. 161. 12. KPM., p. 189: «Ja, noch mehr, sie ist gerade das, was überhaupt so etwas wie das “Von-sich-aus-hin-zu-auf…” bildet, dergestalt, daß das so bildende Worauf-zu zurückblickt und herein in das vorgennante Hinzu. […] Die Zeit
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Vale a dire ancora: «l’autoaffezione pura definisce la struttura trascendentale originaria del sé finito in quanto tale»; «Il sé finito ha in se stesso il carattere della temporalità»13. Tante analisi di cui Levinas prenderà risolutamente la parte opposta! Ma ritorniamo a Husserl, poiché, comunque, questa parentesi relativa a Kant (nell’interpretazione di Heidegger) e all’autoaffezione del tempo come «struttura essenziale della soggettività» era soprattutto destinata a contrastare o ad anticipare un contrasto con la lettura levinassiana (radicalizzante e critica) di Husserl. Nella testimonianza tardiva che uso qui come filo conduttore, Levinas scriveva a questo proposito: La costituzione del tempo in Husserl è ancora una costituzione del tempo a partire da una coscienza già effettiva della presenza del suo dileguamento e della sua “ritenzione”, nella sua imminenza e nella sua anticipazione – dileguamento e imminenza che già indicano ciò che si vuole costruire. Senza che neppure sia fornita alcuna indicazione sulla situazione empirica privilegiata a cui questi modi di dileguamento nel passato e dell’imminenza nel futuro sarebbero collegati.
Vi è qui, senza dubbio, il punto fondamentale della critica, che determina correlativamente il proposito stesso di Levinas (e ciò fin dai suoi primi lavori): interrogarsi fenomenologicamente – ma anche, e Levinas stesso sottolinea questo punto, al limite o anche al di là della fenomenologia intesa come metodo – sulla costituzione (auto- ed etero-costituzione) della «coscienza effettiva», facendo così ritorno a un tempo origiist als reine Selbstaffektion nicht eine wirkende Affektion, die ein vorhandenes Selbst trifft, sondern als reine bildet sie das Wesen von etwas wie Sichselbst-angehen. Sofern aber zum Wesen des endlichen Subjektes gehört, als ein Selbst angegangen werden zu können, bildet die Zeit als reine Selbstaffektion die Wesensstruktur der Subjektivität». Tr. it. cit., p. 163. 13. KPM., p. 191; tr. it. cit., p. 164 s.
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nario o meglio a una «origine del tempo», di cui non si dirà che è «prima» rispetto alla coscienza o l’ipseità, ma che ne è tuttavia come la condizione a priori; ricavare questo a priori ultimo, vuol dire anche mettere in evidenza, attraverso l’analisi di alcune esperienze privilegiate, un complesso processo di «soggettivazione» attraverso ciò che Levinas chiama ancora, enigmaticamente, la congiuntura – quella stessa che dà o apre il tempo vero, quello in cui qualcosa di inatteso può arrivare, venire sopravvenire [sur-venir] (cosa che non significa assolutamente annunciarsi). Si capisce così come Levinas ripeta e radicalizzi la questione husserliana dell’«origine» del tempo14, ma anche come avrebbe immediatamente cambiato il terreno o meglio modificato il senso del gesto husserliano che mette fuori circuito il tempo oggettivo. A partire dal 1947/48 (Dall’esistenza all’esistente, Il tempo e l’altro), Levinas, infatti, nel suo procedere ultimo «verso il tempo»15, mette tra parentesi il tempo dell’economia e il tempo del mondo, ma questa messa fuori circuito, lungi dallo sfociare su un autentico datum fenomenologico, «il tempo immanente del flusso della coscienza»16, conduce a riporre la questione dell’evento del tempo17, all’opposto di ogni «deduzione dialettica del tempo a partire dal presente» o dell’instante. È su questo tentativo di deduzione, fin da principio votato allo scacco, che Levinas si con14. Per una fenomenologia della coscienza interna del tempo, p. 48 «… il problema dell’essenza del tempo ci riporta indietro al problema dell’“origine” del tempo. Questo problema di origine è diretto però sulle configurazioni primitive della coscienza del tempo nelle quali le differenze primitive del temporale si costituiscono in modo intuitivo e proprio come le fonti originarie di tutte le evidenze relative al tempo». 15. Si tratta del titolo dell’ultima suddivisione dell’ultima sezione di Dall’esistenza all’esistente. Si aggiungerà, e la precisione è evidentemente essenziale, che il tempo qui, se non viene ridotto, include in ogni caso in sé «il tempo della redenzione e della giustizia» (pp. 81 ss.). 16. Per una fenomenologia della coscienza interna del tempo, tr. it. cit., p. 44. 17. Dall’esistenza all’esistente, p. 84.
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centra nella sezione precedente18, concludendo la sua analisi con le queste parole: «“Presente”, “io”, “istante” – momenti di un evento unico». Evento in cui – è tutto il senso della descrizione – a rigor di termini non accade nulla: «stare» [«stance»] dell’instante attraverso il quale sorge, è vero, una coscienza, posta e non auto-posta; quella di un «io» che, al presente, si rapporta a sé (è anche ciò a cui è condannato, «inchiodato»), ma senza tuttavia costituire un vero soggetto dotato di ipseità. Lungi dal costituire la soggettività come tale, la presenza a sé caratterizza solamente l’«io» che è, quello di cui occorre dire: «egli è». «Egli è» non di certo al modo di una cosa, ma sempre «già inchiodato a sé», «già raddoppiato in un sé»19. Ricordiamo che questo «riferimento a sé», nelle analisi del primo Levinas, rinvia allo spazio o meglio al «luogo», alla «posizione», al «qui», e non affatto al tempo20. Al tempo, che implica rottura, differenza, alterazione e/o alterità, non si saprebbe infatti mai accedere a partire dal presente, il quale, per non essere puntuale – «il presente si riferisce a se stesso»21, non fa altro che questo! –, ignora ogni uscita e-statica da «sé»: è, nota Levinas, «refrattario all’avvenire». Se è dunque permesso affermare, ad un certo punto dell’analisi, che «ogni istante è un cominciamento» o meglio che «il presente è il cominciamento puro» (Ibid., pp. 69, 72), è anche importante sottolineare, se ci si vuole orientare «verso il tempo», che un tale cominciamento non comincia precisamente niente: quello che apre un rapporto a sé nel quale l’«io» resta incatenato a se stesso, in un essere-al-presente definitivo. «Questa impossibilità dell’io di non essere sé rivela – afferma Levinas – l’innata tragicità dell’io, il suo essere inchiodato al proprio essere»22. Occorre 18. Ibid., pp. 70-73. 19. Ibid., p. 72. 20. Ibid., pp. 63-66. 21. Ibid., p. 67. 22. Dall’esistenza all’esistente, p. 76. Cfr. il capitolo I del presente lavoro.
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intendere, nella sua fondamentale ridondanza, ogni termine come implicante già, al suo interno, tutti gli altri, un enunciato di questo genere: «io sono, io sono solo, presente, al presente, presente a me stesso». A partire da queste categorie dell’io è impossibile iniziare alcunché: «essere io comporta un incatenamento a sé, un’impossibilità di disfarsene», «l’io è irremissibilmente sé»23. È noto che al principio di una soggettività autentica e autenticamente temporale, e propriamente e-statica (che resta naturalmente da definire in modo più preciso e differenziato, in rapporto specialmente all’«ipostasi» o all’«istante»), Levinas pone differenti figure dell’alterità che noi non possiamo studiare qui singolarmente: la morte, l’eros, la filiazione, l’altro nella sua primitiva ed essenziale disimmetria: il debole, il povero, la vedova e l’orfano, lo straniero, il nemico, il potente… Tante «congiunture» che Levinas analizza in seguito a titolo di responsabilità, di «per-altri», della promessa, del perdono, etc., e che qualificano sempre le differenti figure del «faccia a faccia» attraverso le quali finalmente e solamente l’io può «uscire da se stesso» o, come dice enfaticamente Levinas, «essere perdonato»24. Dopo aver ricordato questa prima posizione risolutamente critica contro la tesi kantiana: «il tempo non è niente senza il soggetto», torno ancora una volta alla citazione iniziale, presa qui come filo conduttore: «Il mio tema di ricerca essenziale è quello della deformalizzazione della nozione di tempo», e al 23. Ibid., p. 80. 24. Dall’esistenza all’esistente, p. 77: «La solitudine non è maledetta per se stessa, ma per il suo significato ontologico di definitività. Raggiungere altri non è un fatto che trova in se stesso la propria giustificazione, non scuote la mia noia. Ontologicamente è l’evento della rottura più radicale delle categorie stesse dell’io, poiché per l’io questo evento significa non essere in sé, essere altrove, essere perdonato, non essere un’esistenza definitiva».
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punto critico rivolto contro Husserl: «La costituzione del tempo in Husserl è ancora una costituzione del tempo a partire da una coscienza già effettiva …». Occorre tuttavia lasciare da parte qui una questione pregiudiziale: in quale misura è legittimo sostenere che, nelle analisi di Husserl, la costituzione del tempo avviene a partire da una «Coscienza già effettiva»? Poiché vuol dire non tenere in alcuna considerazione o ricusare immediatamente come non pertinenti le analisi dell’auto-costituzione della coscienza, nel suo flusso o, in altri termini, il «concetto» di «coscienza assoluta», la quale è tuttavia, nonostante la sua «assolutezza», assegnata ad una alterità hyletica («originaria»), quella dell’impressione o dell’archi-impressione (Urimpression) – punto sul quale, lo vedremo, Levinas insiste peraltro a giusto titolo. […] una coscienza già effettiva della presenza del suo dileguamento e della sua “ritenzione”, nella sua imminenza e nella sua anticipazione – dileguamento e imminenza che già indicano ciò che si vuole costruire. Senza che neppure sia fornita alcuna indicazione sulla situazione empirica privilegiata [la congiuntura?] a cui questi modi di dileguamento nel passato e dell’imminenza nel futuro sarebbero collegati.
Qual è, chiede dunque Levinas, la «situazione empirica» che permette di mettere in rilievo questi «modi di dileguamento nel passato e nel futuro»? Senza alcun dubbio quella che Husserl «descrive» a partire dal paragrafo trentotto delle Lezioni: «la costituzione degli oggetti [temporali] immanenti [come il suono o il colore], la loro crescita a partire da sensazioni originarie e da modificazioni sempre nuove…». In Scoprire l’esistenza…, Levinas aveva tuttavia sottolineato l’importanza e l’originalità del motivo husserliano della «sensibilità», mettendo ben in evidenza che questa «non designa la parte di ricettività della spontaneità oggettivante», bensì una dimensione hyletica irriducibile e tuttavia intimamente associata all’intenzionalità stessa:
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86 anche nei dati hyletici è riconoscibile una tessitura di intenzionalità. […] La sensibilità contrassegna il carattere soggettivo del soggetto, il movimento stesso dell’indietreggiare verso il punto di partenza di ogni accoglimento […], verso il qui e l’ora a partire dai quali tutto si produce per la prima volta. La Urimpression è l’individuazione del soggetto.
Prima di citare Husserl: [La] Urimpression è l’assoluto inizio di questa generazione, la fonte originaria, quella da cui tutto il resto costantemente si genera. Essa non viene però prodotta a sua volta, non nasce come qualcosa di generato, ma per genesis spontanea, è generazione prima (Urzeugung) […] è creazione originaria (Urschöpfung)»25.
Il seguito dell’analisi propone anch’esso una lettura generosa che coglie nel segno: «Così la sensibilità è intimamente legata alla coscienza del tempo: è il presente intorno al quale l’essere si orienta. Il tempo non è concepito come una forma del mondo, e nemmeno come una forma della vita psicologica, ma come l’articolazione della soggettività. Non come una scansione della vita interiore, ma come il disegno delle relazioni primarie e fondamentali che legano il soggetto all’essere e che fanno si che quest’ultimo sorga dall’ora. […] Il tempo diventa, in quanto esistenza del soggetto, fonte di ogni significato. Secondo Husserl, tutti i rapporti che plasmano la struttura della coscienza come soggettività devono essere descritti sia attraverso il tempo che attraverso l’intenzionalità»26. Ciò che resta sospeso, alla fine di questa riesposizione che va all’essenziale, è sapere se Husserl è giunto a caratterizzare
25. Per una fenomenologia della coscienza interna del tempo, p. 124, cit. in «Riflessioni sulla tecnica fenomenologica» in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 134. 26. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 134 s.
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l’ultima «articolazione» temporale della soggettività, o in altri termini, ispirati ai saggi del 1947/48, se il soggetto così tematizzato eccede lo statuto dell’ipostasi o della sostanza27. Levinas prosegue in modo significativo, riprendendo, senza sottolinearli, certi tratti già messi in luce in Dall’esistenza all’Esistente, senza che, nel testo del 1947, alcun riferimento fosse fatto a Husserl: La sensibilità, dunque, non è soltanto un contenuto amorfo, un fatto […], essa è «intenzionale» – in quanto situa ogni contenuto e si situa non in rapporto agli oggetti, ma in rapporto a sé. È il punto zero della situazione, l’origine del fatto stesso di situarsi. Le relazioni ante-predicative o vissute emergono come atteggiamenti iniziali assunti di fronte a questo punto zero. Il sensibile è la modificazione della Urimpression, la quale è, per eccellenza, il qui ed ora. È difficile non vedere in questa descrizione della sensibilità il sensibile vissuto al livello del corpo proprio il cui evento fondamentale è il fatto di reggersi, ossia di reggere se stesso come il corpo che si regge sulle proprie gambe. Fatto che coincide con l’orientarsi, e cioè con il fatto di assumere un atteggiamento rispetto a28…
27. Dall’esistenza all’esistente, p. 79: «Il soggetto è la sostanza per eccellenza». Formula che ci si guarderà bene dall’intenderla come una variazione hegeliana, ma che si chiarisce in rapporto a questa ammirabile e paradossale riferimento ad un cogito sostanza: «Il corpo escluso dal dubbio cartesiano è il corpo oggetto. Il cogito non perviene alla posizione impersonale – «c’è pensiero» – ma alla prima persona del presente: «io sono una cosa che pensa». Qui la parola cosa è mirabilmente precisa. L’insegnamento più profondo del cogito cartesiano consiste proprio nello scoprire il pensiero come sostanza, cioè come qualcosa che si pone» (ibid., p. 62). Cfr. su questo punto lo studio penetrante di Jocelyn Benoist, «Le cogito lévinassien: Levinas et Descartes», in Emmanuel Levinas, Positivité et transcendance, seguito da Levinas et la phénoménologie, a cura di J.-L. Marion, Puf., Paris 2000, pp. 105-122. 28. Da confrontare con le analisi del 1947: «La coscienza sorge a partire dal riposo, dalla posizione, da un’immobilità, che quest’ultima viene a sé. […]
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Se è qui legittimo paragonare un tale «reggersi» del Verhalten heideggeriano, come ripresa e radicalizzazione della struttura intenzionale della coscienza, nel senso di Husserl, è tuttavia senza dubbio l’analisi del qui, della posizione, del luogo, del corpo in Dall’esistenza all’esistente29, che chiarisce l’esposizione della breccia husserliana, e nello stesso tempo ne individua i limiti nella tappa, certo soltanto preliminare, ma tuttavia imprescindibile, di una «genesi» della soggettività. Nella presentazione generale che dava dell’«opera di Husserl», nel 1940, Levinas aveva già sottolineato – come abbiamo già detto – che, per l’autore delle Lezioni, «il tempo non è quindi una forma che la coscienza assume dall’esterno. È il vero segreto della soggettività»30. Resta il fatto che, fin dall’inizio, è molto oltre la scoperte della fenomenologia che Levinas avrebbe tentato di decifrare – secondo altre vie già aperte da Franz Rosenzweig, quelle di una deduzione etica della temporalità – il segreto stesso della soggettività. Con Heidegger – secondo Levinas –, si guadagna se non «empiricità» («la situazione empirica»), almeno «concretezza», senza che si possa tuttavia ancora parlare «di condizione» per “Ha” una base, un luogo. Unico avere che non è un ingombro, ma che è la condizione: la coscienza è qui». (op. cit., p. 64). 29. Op. cit., pp. 61 ss., e in particolare, pp. 64-65: «Il qui da cui partiamo, il qui della posizione, precede ogni comprensione, ogni orizzonte e ogni tempo. È il fatto stesso che la coscienza è origine, che la coscienza parte da se stessa, che essa è esistente. […] ponendosi su una base, il soggetto […] si raccoglie, si raddrizza, e diventa il padrone di tutto ciò che lo ingombra, il suo qui gli offre un punto di partenza. […] Prima di essere uno spazio geometrico, prima di essere l’ambiente concreto del mondo heideggeriano, il luogo è una base. Perciò il corpo è l’avvento stesso della coscienza […] esso non si pone, è la posizione. Non si situa in uno spazio già dato – ma è l’irruzione nell’essere anonimo del fatto stesso della localizzazione». Cfr. ancora, su questo punto, il contributo già citato di J. Benoist, in particolare pp. 115-118. 30. Scoprire l’esistenza…, p. 44.
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la «costituzione», a partire da una «congiuntura»: Ciò che sembra dunque notevole in Heidegger, è appunto il fatto di porre la questione di sapere quali sono le situazioni o le circostanze [corsivo dell’autore] caratteristiche dell’esistenza concreta alle quali il passaggio (passation) [sic] del passato, la «presentificazione» del presente e la futurizione del futuro – chiamate estasi – sono essenzialmente e originariamente collegate 31.
Passiamo – è proprio il caso di dirlo – oltre l’espressione piuttosto strana: «il passaggio (passation) del passato». La cosa più singolare, è che le «situazioni» così caratterizzate, trattandosi di Heidegger, non sono evidentemente né delle «situazioni» né delle «circostanze», poiché corrispondono agli esistenziali, come attesta il seguito del testo preso qui come filo conduttore: Il fatto di essere senza averlo dovuto scegliere [con il quale io credo si riferisca, per retroversione, alla Faktizität e alla Geworfenheit], d’aver a che fare con dei possibili già sempre incominciati, senza di noi – estasi del «fin d’ora» (d’ores et déjà) [zuerst? je schon? in quale misura questo possibile «toujours déjà» intaccato o gravato si distingue dalla «fatticità»?]; il fatto di una presa sulle cose [il Besorgen? ma perché la presa?], vicino ad esse (sein-bei) nella rappresentazione o nel conoscere – estasi del presente; il fatto di esistere per la morte – estasi del futuro. Ecco, pressappoco, […] l’apertura heideggeriana. Franz Rosenzweig, dal canto suo, senza ricorrere alla stessa terminologia e senza riferirsi alle stesse situazioni, ha ugualmente cercato queste «circostanze privilegiate» [corsivo dell’autore] del vissuto in cui si costituisce la temporalità...
È nel suo studio del 1948, «L’ontologia nel temporale» che Levinas si è impegnato in modo più agile a determinare insieme «la dimensione in cui si situa il tempo originale» per Heideg31. Tra noi, p. 277.
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ger, e il principio della temporalizzazione. La condizione sulla quale Levinas mette immediatamente l’accento, quella che rende conto del «primato dell’avvenire» nella concezione heideggeriana, è la finitezza o più precisamente la mortalità, qui esplicitata in termini sottilmente differenti da quelli impiegati da Heidegger nel §53 di Sein und Zeit («Progetto esistenziale di un essere-per-la-morte autentico»). Infatti, l’essere per la morte è caratterizzato come essere in vista di una possibilità, e anche di una possibilità eminente (Sein zu einer Möglichkeit), vale a dire la possibilità di ciò che mette fine a ogni possibilità esistenziale, «la possibilità dell’impossibilità dell’esistenza in generale»32; l’«anticipazione della morte»33, ciò che Heidegger esplicitava come Vorlaufen in die Möglichkeit, anticipazione in direzione della possibilità, è allo stesso tempo ciò che permette all’esserci di «giungere a sé», di arrivare a se stesso, e quindi di aprire l’avvenire. Levinas scrive, capovolgendo l’ordine dei termini: «L’avvenire, qui, è la condizione della relazione con la possibilità». Ma questo slancio è anche scoperta del passato, dell’essere stato, della Geworfenheit. Levinas formula qui molto economicamente la struttura complessa della temporalizzazione: Nella misura in cui il Dasein è già sempre il proprio avvenire, nella misura in cui è già sempre impegnato nell’esistenza, e cioè in una relazione con il proprio poter-essere, esso è un avvenire che in qualche modo si volge indietro, che ritorna sui propri passi. Nel suo progettarsi verso l’avvenire, il Dasein assume un passato. […] compiendo il ritorno indietro attraverso l’avvenire, il Dasein esiste autenticamente il suo Da. Strappato dalla propria dispersione del mondo che rimane comunque aperto ad esso, egli si raccoglie nell’istante. L’avvenire che ritorna indietro permette dunque al presente di attuarsi attraverso la
32. Essere e tempo, p. 314. 33. Scoprire l’esistenza…, p. 99.
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91 presentazione del mondo. È questo il fenomeno originario del presente34.
L’avvenire, come «tempo originale», è dunque ciò che per la sua «tensione» tra derelizione, fatticità e anticipazione della possibilità dell’impossibilità ultima, è ciò che segna con una finitezza radicale la nostra «condizione», «condizione della nostra trascendenza» (ibid.). Così, nota ancora Levinas, «Il tempo di Heidegger non si riferisce in alcun modo all’eterno»! Ma è così anche – e la fine del saggio dedicato all’ontologia nel temporale si fa risolutamente critico – che questo «tempo originario» «scopre il nulla», di più ancora «poggia sul nulla». Si concederà senza dubbio che l’analisi heideggeriana della morte come «possibilità più propria», «possibilità assoluta» o «priva di ogni rapporto» (unbezügliche Möglichkeit), «possibilità insuperabile» – e insieme principio dell’individuazione e dell’isolamento (Vereinzelung) dell’esserci – conduce a definire l’angoscia come «situazione emotiva fondamentale» dell’esserci35; si concederà che il §53 si trova così ripiegato sul §40 («La situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura eminente dell’esserci»), ma nulla ci permette, niente di più, di interpretare questo Nichts der Welt, questo niente o questo nulla del mondo36, come nulla puro e semplice, e a fortiori, questo «nulla su cui poggia» la condizione dell’esserci come «nient’altro che su se stesso». È in ogni caso, questa ultima auto-referenza che, di fatto, apre su una completa vacuità, che autorizza (autorizzerebbe) la conclusione violenta: Regalità che deriva dalla nostra indigenza; priva di trionfo e di ricompensa. Con ciò, l’ontologia di Heidegger acquista un tono
34. Ibid., p. 99. 35. Essere e tempo, p. 317. 36. Cfr. anche su questo punto, il corso dell’estate 1925, Ga., 20, p. 400 s; tr. it. Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit. p. 359 s.
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92 del tutto tragico e diviene la testimonianza di un’epoca e di un mondo che un domani potrà forse essere superato37.
* Ma torniamo indietro e riprendiamo più nel dettaglio il percorso di Levinas, almeno come lo possiamo cogliere a partire da altre due testimonianze: l’articolo del 1965, «Intenzionalità e sensazione», e Altrimenti che essere. Questo percorso presuppone, come ha ben sottolineato Rudolf Bernet38, un «terreno di intesa», la ripresa di una problematica comune, e procede in funzione di una serie di critiche radicali che riguardano ora Husserl, ora Heidegger. Rudolf Bernet formula così, molto economicamente, le questioni portanti: «Come pensare una soggettività che si costituisce grazie alla temporalità? C’è una auto-costituzione della soggettività indipendentemente dal rapporto con le cose e con il mondo? Questo rapporto temporale con sé e con le cose del mondo è ancora nell’ordine dell’intenzionalità oggettivante?»39. Nello studio pubblicato nel 1965, nella Revue internationale de philosophie, «Intenzionalità e sensazione», Levinas scrive innanzitutto che, se «la fenomenologia è l’intenzionalità»40, è importante anche sottolineare subito che non solo le intenzio-
37. Scoprire l’esistenza..., p. 101 s. 38. Rudolf Bernet, «Origine du temps et temps originaire», in La vie du sujet, Puf., Paris 1994, p. 191. Bello studio al quale siamo qui in grande misura debitori. Si veda anche, dello stesso autore, «Le temps d’une existence interrompue», in Conscience et existence. Perspectives phénoménologiques, Puf., Paris 2004, pp. 247-267. Cfr. anche «Levinas’s critique of Husserl», in The Cambridge Companion to Levinas, a cura di Simon Critchley e Robert Bernasconi, Cambridge University Press 2002, pp. 82-99. 39. Op. cit., p. 192. 40. Scoprire l’esistenza..., p. 143.
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ni non sono delle semplici «porte» o delle «finestre» rivolte su un oggetto trascendente, un polo oggettivo identico e ideale, ma che queste intenzioni hanno anche dei contenuti e che, dunque, come tali «occupano (remplissent) una durata»41. La mira, gli atti stessi «si estendono nel tempo» e incontrano delle sensazioni a titolo di «contenuti non-intenzionali». Elucidare questo punto, capire come «la pienezza sensuale dell’intuizione» arriva a riempire la mira, assicurando così la pienezza dell’oggetto, impone dunque di interrogare l’articolazione «sensazione e tempo»42. Dopo aver ricordato che, secondo le Lezioni del 190543: «La «proto-impressione (Urimpression), l’assolutamente immodificato, è la fonte originaria per ogni ulteriore coscienza ed essere», Levinas saluta il rigore e la conseguenza dell’analisi husserliana: per Husserl, nota, «la coscienza non diventerà “coscienza in generale” ricostruita a partire dalle sintesi da essa effettuate nella sfera dell’oggetto. Essa è vita individuale, unica: il suo “presente vivente” è la fonte dell’intenzionalità». Seguiamo qui ancora in dettaglio la riesposizione levinassiana: Ma, per Husserl, ogni intenzione, che in ogni istante ritiene o anticipa (pro-tiene) l’identità della sensazione in parte già trascorsa o ancora a venire, non è che la coscienza stessa del tempo. Il tempo non è solo la forma che ospita le sensazioni e la trasporta in un divenire, ma è il sentire della sensazione, il quale non è semplice coincidenza tra il sentire e il sentito, ma un’intenzionalità e, di conseguenza, una distanza minima tra il sentire e il sentito, distanza temporale per l’appunto44.
41. «Intenzionalità e sensazione», in Scoprire l’esistenza..., p. 169. 42. Ibid., p. 172. 43. Per una fenomenologia della coscienza interna del tempo, tr. cit., § 31, p. 96. 44. Scoprire l’esistenza..., p. 174.
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Ecco immediatamente individuato il cuore della difficoltà: come capire, al di là della coincidenza di ciò che Levinas chiama qui «mira» e «evento»45, l’irruzione di questa distanza che fa tutta la differenza, che è «distanza temporale» (Zeitabstand, Zeitstrecke) – Levinas parlerà così di «sfasamento» o di «lasso» –, in quanto propriamente temporalizzante? Nel paragrafo seguente (§4: «tempo e intenzionalità»), Levinas sottolinea con forza che «la coscienza del tempo» è «tempo della coscienza», altrimenti detto, non potrebbe esserci una coscienza a strapiombo che costituirebbe il tempo misurando lo scarto, lo «sfasamento» della Urimpression nel suo evento stesso: «la coscienza del tempo – scrive – non è una riflessione sul tempo, ma la temporalizzazione stessa»46; o ancora, in modo sconcertante: «qui, la coscienza di… è il flusso». Questo flusso, «il sentire stesso della sensazione», è caratterizzato, nota ancora Levinas, come «soggettività assoluta», «più profonda dell’intenzionalità oggettivante e anteriore al linguaggio». E ancora, commentando molto liberamente il paragrafo 36, che introduce l’idea di «coscienza assoluta», conservando, in mancanza di meglio la metafora del flusso: «il flusso in cui viene superata la dualità della coscienza e dell’evento non ha più costituzione; condiziona ogni costituzione…»47. Così Husserl sarebbe pervenuto a mettere in luce questa «intenzionalità prima che coincide con l’opera stessa del tempo». Bisogna dire, tuttavia, si chiede Levinas, in riferimento all’Ap-
45. «Mira ed evento coincidono», op. cit., p. 174; o ancora, più lontano (p. 175): «evento e coscienza sono sullo stesso piano». 46. Scoprire l’esistenza..., p. 175. 47. Husserliana X, ed. R. Boehm, Nijhoff, La Haye 1966, p. 75: «Dieser Fluß ist etwas, das wir nach dem Konstituierten so nennen, aber es ist nichts zeitlich «Objektives». Es ist die absolute Subjektivität und hat die absoluten Eigenschaften eines im Bilde als “Fluß” zu Bezeichnenden, in einem Aktualitätspunkt, Urquellpunkt, “Jetzt” Entspringenden usw».
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pendice V delle Lezioni (Simultaneità di percezione e percepito), che «c’è diacronia nell’intenzionalità»48? Domanda che Levinas esplicita subito: ogni intenzionalità è già, a qualche titolo, ricordo? L’oggetto dell’intenzione è anteriore all’intenzione? In una singolare eco all’Appendice citata nella quale Husserl s’interrogava sul fatto di sapere «con che diritto si può dire che percezione e percepito sono simultanei?» In questa Appendice, Husserl metteva infatti in rilievo un «differenziale di tempo» tra il dato sensibile (il momento hyletico) e l’apprensione, come «animazione» (“Beseelung”) di questo dato sensibile: «Nel momento d’attacco dell’apprensione (Auffassung), una parte del dato di sensazione, è già defluita e viene mantenuta solo ritenzionalmente». O ancora: «c’è una differenza tra il punto iniziale della percezione e il punto iniziale dell’oggetto». La differenza qui è quella delle «fasi»: fase della durata dell’oggetto, fase della percezione, caratterizzata da un ritardo irriducibile, da cui deriva, nel lessico heideggeriano lo «sfasamento»49. Ma non è lo stesso, sottolineava Husserl, quando si tratta della sfera immanente, nell’ambito della quale non si può, a rigor di termini, distinguere tra l’atto di riflessione e ciò su cui questo atto «si rivolge»; certo, riflessione e ritenzione presuppongono la «coscienza interna» impressionale, ma se noi chiamiamo «percezione» questa «coscienza interna», non c’è più modo di
48. Vi è qui senza dubbio, nel 1959, la prima occorrenza del termine «diacronia» che brandirà di lì a poco Levinas per suo conto. 49. Husserliana X, p. 110; tr. cit. p. 134 s: «A ogni fase della durata dell’oggetto corrisponde una fase di percezione. Con questo, però, non è ancora detto che il punto d’attacco della durata dell’oggetto e quello della percezione debbano per forza coincidere, che quindi, gli istanti (Zeitpunkte) delle fasi che si corrispondono debbano essere identici. Al proposito, bisogna anche tener conto che i dati di sensazione, che hanno la loro parte nella costituzione di un oggetto trascendente, sono anch’essi delle unità costituite in un decorso temporale (Zeitverlauf)».
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distinguere tra «percezione e percepito», e bisogna piuttosto affermare la loro «simultaneità»50. In un certo senso, tutto lo sforzo di Husserl nelle Lezioni e nei «supplementi» (non entro qui nel merito dello spinoso problema della datazione) è di attenuare questo sfasamento dal momento che si tratta della sfera immanente della coscienza. Lo vediamo ancora nettamente attraverso le bella metafora della Beilage VI («l’inserimento del flusso assoluto»). Husserl analizza la percezione del movimento: «un uccello sta volando nel giardino soleggiato»: Nella fase che capto a volo, trovo la coscienza ritenzionale degli adombramenti passati nella situazione temporale (vergangene Abschattungen der Zeitlage), e così pure in ogni nuovo «ora». Ma la coda temporale di ogni fase è a sua volta qualcosa che risprofonda nel tempo ed ha il suo adombramento (Abschattung). […] L’uccello cambia luogo, vola. In ogni nuova posizione, ad esso (cioè alla sua apparizione) aderisce l’eco delle precedenti apparizioni. Ma ogni fase di questa risonanza svanisce mentre l’uccello continua a volare, cosicché ad ogni fase successiva appartiene una serie di «risonanze»51 (Nachklängen)…
Appartiene dunque alla coscienza il fatto di costituire in una vera serie ciò che potrebbe non essere altro che una successione di fasi, ciascuna con una propria coda di cometa temporale, di raccogliere in unità gli echi, le risonanze. Husserl usa qui l’immagine degli Abschattungen, gli «abbozzi», gli «adombramenti» per applicarla non più a delle cose spaziali, ma piuttosto alle apparizioni sfuggenti delle fasi. Ma in ogni
50. Cfr. anche Appendice XII (1), tr. it. cit., p. 152: «“Percepire”, in questo caso [i.e. nel caso della percezione interna], non vuol dire altro che la coscienza costitutiva di tempo con le sue fasi di ritenzioni e protenzioni che fluiscono. Dietro questo percepire non sta un altro percepire, come se questo flusso stesso fosse a sua volta un’unità in un flussoe». 51. Husserliana X, p. 111; tr. it. cit., p. 135-136.
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caso, ed ecco il punto decisivo per Husserl, non è più lo stesso quando si tratta della coscienza temporalizzante suscettibile di apprendere la serie nel suo flusso: flusso della coscienza, coscienza fluente: Ogni apparizione temporale si risolve quindi, dopo la riduzione fenomenologica, in un flusso di questo tipo. La coscienza in cui tutto ciò si risolve non posso però percepirla a sua volta.
Il tempo soggettivo, quello delle «apparizioni», nella loro serie, echi, risonanze, «si costituisce nell’assoluta coscienza intemporale», una coscienza che non saprebbe essere oggetto e figura il principio da «cui si ricava la conoscenza del flusso costituente»52. Conformemente a un primo gesto che noi conosciamo, Levinas oppone a quello che chiama «la contemporaneità strutturale» della coscienza assoluta che si costituisce lei stessa come flusso della trascendenza propria alle kinestesi, il «corpo», «punto zero della rappresentazione», quello che è di certo «nel mondo», ma anche «di fronte al mondo prima del mondo»53. Tutto accade dunque qui come se, per lasciare interamente
52. Ibid. p. 136. Tesi che Husserl difendeva dal suo § 39, in termini differenti: «Il flusso della coscienza immanente costitutiva del tempo, non solo è, ma è fatto in un modo così strano eppure intelligibile, che in esso deve esserci necessariamente un’auto apparizione del flusso (Selbsterscheinung des Flusses) e quindi il flusso stesso deve essere necessariamente comprensibile nel suo fluire (daher der Fluß selbst notwendig im Fließen erfaßbar sein muß). L’autoapparizione non richiede un secondo flusso, è lo stesso flusso che si costituisce in se stesso come fenomeno», Hua. X, p. 83 ; tr. it. cit., p. 109. Per un’analisi agile e più completa del flusso dei vissuti e della coscienza stessa come «flusso», rinviamo al recente studio di Alexander Schnell, che si appoggia naturalmente su quei testi allora sconosciuti da Levinas (i Manoscritti di Bernau): En deçà du sujet. Du temps dans la philosophie transcendantale allemande, Paris, Puf. («Épiméthée»), pp. 159-194, e in particolare p. 178 s.
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spazio a tutt’altra figura della temporalità che arriva a colpire dall’esterno un soggetto allora radicalmente passivo, Levinas riconduceva l’acume della proto-impressione temporalizzante alla spazialità, come il segreto a priori del tempo54: «Moto nello spazio del soggetto che costituisce lo spazio come divenire della costituzione del tempo a partire dall’impressione originaria: “il temporalizzante (das Zeitigende) è già temporalizzato (ist gezeitigt)”»55. Da ciò si concluderà, come fa un testo strettamente contemporaneo dal saggio «Intenzionalità e sensazione», che le analisi husserliane della coscienza interna del tempo, precisamente perché restano legate al presente o alla presentazione (Gegenwärtigung), come fondamento di ogni coscienza del tempo, e in rapporto al quale ricorso e attesa sono sempre secondi, mancano la «diacronia del tempo», se almeno questa diacronia è caratterizzata come il tratto costitutivo di un «tempo diverso da quello in cui gli oltrepassamenti del presente rifluiscono verso questo stesso presente attraverso la memoria e la speranza». Una tale diacronia, aggiunge Levinas, «rende folle il soggetto», intendendo, colui che porta ancora in lui l’impronta incancellabile dell’ipostasi56. Senza dubbio occorre attendere Altrimenti che essere (1974) affinché l’opposizione frontale alle analisi husserliana della coscienza interna del tempo riemerga in piena luce, e ciò persino nei passaggi di riesposizione: Nella temporalizzazione del tempo la luce diviene attraverso lo sfasamento dell’istante rispetto a se stesso che è il flusso tem53. «Intenzionalità e sensazione», in Scoprire l’esistenza..., p. 183. 54. Mettere in luce «l’a priori del tempo», è il compito che Husserl si assegnava a partire dal § 2 delle Lezioni. 55. Scoprire l’esistenza..., p. 183. 56. «Enigma e fenomeno», Esprit, 1965, ripreso in Scoprire l’esistenza..., p. 237.
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99 porale: la differenza dell’identico. La differenza dell’identico è anche la sua manifestazione. Ma il tempo è anche il recupero di tutte le differenze: nella ritenzione, nella memoria e nella storia. Bisogna che nella sua temporalizzazione dove, nella ritenzione, nella memoria e nella storia, niente è perduto, dove tutto si presenta e si ripresenta, dove tutto si consegna e si presta alla scrittura, o si sintetizza, o si raccoglie, dove, come direbbe Heidegger, tutto si cristallizza o si sclerotizza in sostanza, bisogna che nella temporalizzazione recuperabile, senza tempo perduto, senza tempo da perdere e dove avviene l’essere della sostanza, si segnali un lasso di tempo senza ritorno, una diacronia refrattaria ad ogni sincronizzazione, una diacronia trascendente57.
Nessun dubbio che questo «lasso» suscettibile di aprire una diacronia veramente trascendente sarebbe sfuggito a Husserl, come ad Heidegger, anche se bisogna mettere a carico del primo, nella traiettoria dei testi del 1959/1965 che abbiamo ricordato, l’idea che la coscienza del tempo è la temporalizzazione stessa, o meglio nei termini di Heidegger, che non sono qui citati, che il Dasein stesso è tempo, e ciò precisamente, per Husserl almeno, perché questa coscienza del tempo è innestata sul sentire: In Husserl la coscienza interna del tempo e la coscienza tout court vengono descritte nella temporalità della sensazione: «sentire: è questo ciò che riteniamo essere la coscienza originaria del tempo» (Dussort, p. 141), e «la coscienza non è niente senza l’impressione» (Dussort, p. 131). Tempo, impressione sensibile e coscienza si coniugano. Anche a questo livello originario, che è quello del vissuto, dove il flusso, ridotto all’immanenza pura, dovrebbe escludere ogni sospetto di oggettivazione, la coscienza rimane intenzionalità – «intenzionalità specifica» (Dussort, p. 159 [correggiamo qui il riferimento, manifestamente erroneo, indicato da Levinas]) certo, ma indispensabile senza
57. Altrimenti che essere..., p. 13.
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100 correlativo appreso58. Questa intenzionalità specifica è il tempo stesso. C’è coscienza nella misura in cui l’impressione sensibile differisce senza differire, altro nell’identità [cfr. l’analisi di «intenzionalità e sensazione»]. L’impressione, come se si ostruisse da sola, si chiarisce «dis-ostruendosi»; disfa questa coincidenza di sé con sé in cui il «medesimo» soffoca sotto se stesso come sotto uno spegnitoio. Essa non è in fase con se stessa: appena passata, sul punto di venire. Ma differire nell’identità, trattenere l’istante che si altera, è il «pro-tenere» o il «ri-tenere»! Differire nell’identità, modificarsi senza cambiare – la coscienza risplende nell’impressione per quanto l’impressione si distacchi da sé: per attendersi ancora o per già recuperarsi. Ancora, già – tempo; e tempo dove nulla è perduto. Il passato stesso si modifica senza cambiare identità, si allontana da sé senza lasciarsi andare, «diventando più vecchio», sprofondando in un passato più profondo: identico a sé per la ritenzione della ritenzione. E così di seguito: fino alla memoria che recupera in immagini ciò che la ritenzione non ha saputo trattenere, fino alla storiografia che ricostruisce ciò che dell’immagine è perduto. Parlare della coscienza è parlare del tempo. […] La temporalità ad un certo livello – che per Husserl è originale – comporta una coscienza che non è intenzionale neppure nel senso «specifico» della ritenzione. La Ur-impression, l’impressione originaria, la proto impressione, malgrado la perfetta aderenza in esso del percepito e della percezione (che non dovrebbe più lasciar passare la luce), malgrado la loro stretta con-
58. Levinas riespone qui molto liberamente il § 39 delle Lezioni, in cui Husserl distingue una doppia intenzionalità della ritenzione, «trasversale» e «longitudinale», e le Appendici I, VIII e IX che si sforzano di chiarire questa «doppia intenzionalità del flusso della coscienza»: «Il flusso della coscienza immanente costitutiva del tempo, non solo è, ma è fatto in un modo così strano eppure intelligibile, che in esso deve esserci necessariamente un’auto apparizione del flusso e quindi il flusso stesso deve essere necessariamente comprensibile nel suo fluire. L’auto apparizione non richiede un secondo flusso, è lo stesso flusso che si costituisce in se stesso come fenomeno», (tr. it. cit., p. 109).
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101 temporaneità che è la presenza del presente [fine dell’Annesso V], malgrado la non modificazione di questo «non modificato assoluto, fonte originale di ogni essere e di ogni coscienza ulteriori» [Dussort, p. 88] – quest’oggi senza domani né ieri –, la proto-impressione non s’imprime tuttavia senza coscienza [Annexe IX]. «Non modificata», identica a sé, ma senza ritenzione, l’impressione originaria non precede forse ogni pro-tenzione e così la sua stessa possibilità? Husserl sembra affermarlo quando chiama l’impressione originaria «inizio assoluto» di ogni modificazione che si produce come tempo, fonte originaria che «non è essa stessa prodotta», che nasce per genesis spontanea. «Essa non si sviluppa» (non ha germi), è «creazione originaria» [Dussort, p. 131]59.
Ecco senza dubbio agli occhi di Levinas il punto estremo fino al quale avanzano le analisi husserliane, quello a proposito del quale conviene notare, in una formula quasi schellinghiana, che «il “reale” precede e sorprende il possibile»60. Ma se lui saluta questa esplorazione insistente del «presente vivente», alla misura di una «coscienza originariamente non-oggettiva», Levinas indica anche il paradosso insostenibile che consiste nel pretendere di superare la coscienza oggettivante nella «coscienza del presente»61. Quello di cui infatti non si saprà mai rendere conto a partire da questa «coscienza del presente» e della sua struttura sincronica, sia essa arricchita da una doppia
59. Altrimenti che essere..., p. 40-41. 60. Loc. cit. 61. Possiamo qui vedere in modo esemplare come l’omaggio reso a Husserl giochi innanzitutto contro Heidegger, prima di ritornate come un boomerang e ridurre al nulla la breccia husserliana: «Husserl non avrà dunque liberato lo psichismo dal primato teorico, né nell’ordine del saper fare tra gli «utilizzabili», né in quello dell’emozione assiologica! E neppure all’interno del pensiero dell’essere diverso dalla metafisica degli enti! La coscienza oggettivante – l’egemonia della rap-presentazione – è paradossalmente superata nella coscienza del presente» (Altrimenti che essere..., p. 41 s, modificata).
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intenzionalità, è della dia-cronia stessa e del suo tratto caratteristico che Levinas chiama spesso, curiosamente, «lasso» o ancora «lasso di tempo»: tutto salvo una «modificazione» o un semplice «sfasamento», sempre suscettibile di ripresa in una continuità raccolta e di nuovo sincrona: Sfasamento dell’identità del «presente vivente» con se stesso, sfasamento delle fasi stesse secondo l’intenzionalità delle ritenzioni e delle protenzioni, il flusso raccoglie la moltiplicazione delle moltiplicazioni disperdendosi a partire dal «presente vivente»62.
Ciò equivale a dire, almeno negativamente, che questa «diacronia irriducibile» arriva, tanto è vero che, abbandonando definitivamente la metafora del «flusso» e del «fluire», ripresi in un «presente vivente», bisogna tentare di ridare un senso pregnante all’espressione la più logora che sia: il tempo passa o si svolge (se passe): Poiché il lasso di tempo è anche il lasso dell’irrecuperabile, del refrattario alla simultaneità del presente, dell’irrappresentabile, dell’immemorabile, del pre-storico. Prima delle sintesi di apprensione e di riconoscenza, si compie la «sintesi» assolutamente passiva dell’invecchiamento. È attraverso ciò che il tempo si svolge (se passe)63.
Senza dubbio è questo svolgersi (passage) – lo «svolgersi del tempo» (se passer du temps), lo «svolgimento» (passation) – che sugella insieme la sua passività con la sua irriducibile e sorprendente evenemenzialità. Al di là dunque di ciò che Levinas, che commenta Husserl, aveva chiamato, in «Intenzionalità e sensazione», lo scarto della proto-impressione, «lo scarto dello sfasamento in rapporto ad un’altra proto-impressione», occorre senza dubbio tentare di pensare ora uno scarto 62. Altrimenti che essere..., p. 42. 63. Ibid., p. 48.
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o un ritardo propriamente irrecuperabile, anche a cose fatte: quello del tempo perduto («in pura perdita»), che si svolge (se passe) e si è svolto (a passé). Qui, la coscienza del tempo, lungi dall’essere la temporalizzazione stessa come tratto costitutivo della soggettività, persino il suo «segreto», deve intendersi di nuovo come passività o meglio pazienza, puro pathos, che definisce un’altra istanza della soggettività, come assoggettata: quella del malgrado sé, dall’altro, per l’altro. Nuova istanza del soggetto che Levinas caratterizza in questi termini, capovolgendo completamente l’analisi husserliana riesposta nell’articolo del 1940 a titolo di Io, di tempo e della libertà: Il soggetto dunque non si descrive dunque a partire dall’intenzionalità, dall’attività rappresentativa, dall’oggettivazione, dalla libertà e dalla volontà. Esso si descrive a partire dalla passività del tempo. La temporalizzazione del tempo, lasso irrecuperabile e al di fuori di ogni volontà, è tutto il contrario dell’intenzionalità. […] La temporalizzazione è il «contrario» dell’intenzionalità in forza della passività della sua pazienza: in essa è soggetto il rovescio del soggetto tematizzante: una soggettività dell’invecchiamento che l’identificazione dell’Io con se stesso non saprebbe scontare; uno senza identità, ma unico nella requisizione irrecusabile della responsabilità64.
In una Conferenza anch’essa tardiva (1985), «Diacronia e rappresentazione», Levinas torna per l’ultima volta sul suo apprezzamento molto contrastato delle analisi husserliane relative alla temporalità: interrogandosi su ciò che chiama qui (ma la Conferenza è tenuta in omaggio a Paul Ricœur) «l’intrigo incomprensibile del tempo», Levinas evoca «il passato che, per nessuno, era stato né presente né rappresentato – passato immemoriale e an-archico», al quale potrebbe fare eco «il futuro ispirato che nessuno anticipa», e si chiede attraverso quali «congiunture», il tempo avrebbe «fatto valere il suo intrigo incomprensibile», prima di aggiungere: 64. Ibid., p. 68.
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104 Così come l’avrebbe fatto valere in certi chiaroscuri della fenomenologia del tempo, di cui Husserl ci ha dato l’esempio magistrale, e dove l’intenzionalità della ri-tenzione e della protenzione, da un lato, avrebbe ridotto alla rap-presentazione del presente vivente il tempo della coscienza inteso come coscienza del tempo, cioè ancora come rappresentazione della coscienza […], ma dall’altro dove il ritenere della ri-tenzione differisce dal proten(d)ere (protenir) della pro-tensione soltanto perché è comprensione del tempo già dato e presupposto in questa stessa costituzione, di un tempo che scorre come un flusso65.
Se in questo chiaroscuro sottolineato dall’oscillazione di un «da un lato», «dall’altro», Levinas mette l’accento sul debito contratto nei confronti di Husserl e delle Lezioni del 1905 – rilanciare la questione della significazione di questo tempo «già dato» e che avrebbe sempre presupposto, senza saperlo, il progetto di costituzione temporale e a fortiori di costituzione del tempo, incostituibile – egli persegue ugualmente, contro Kant, Husserl, Heidegger, il suo proposito di «deformalizzazione del tempo» facendo leva sull’articolazione irriducibile dell’«alterità» e della «diacronia». Il tempo è allora considerato nuovamente come «tempo dell’altro», che rinvia ad una «temporalità originaria e concreta», sempre già presupposta con il presente e la rappresentazione, con l’oggettività correlativa all’intenzionalità di un «io-soggetto» che, «nel suo essere-al-mondo si presenta e si dà un mondo sintetizzato e sincrono»66. La svolta intervenuta qui in rapporto al saggio così risolutamente precursore del 1947 è dovuta al fatto che la questione della temporalità – ben lungi questa volta da ogni immanenza della coscienza – si dispiega nell’ambito dell’interlocuzione o meglio dell’istanza preliminare a ogni discorso. Bisogna, indica dunque Levinas:
65. Tra noi, p. 197. 66. Ibid., p. 201.
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105 domandarsi se anche il discorso che si dice interiore – che resta così egologico e a misura di una rap-presentazione, nonostante la sua scissione in domande e risposte rivolte da sé a sé, e in cui l’associazione di molti è possibile a condizione che «gli uni entrino nel pensiero degli altri» – se questo discorso stesso […] non riposi già su una preliminare socialità con gli altri in cui gli interlocutori sono distinti67.
Distinzione o «essere-distinti» degli interlocutori, vi è qui una formulazione decisamente attenuata per significare questo «passato immemoriale» che si apre a me in questa «socialità irriducibile all’immanenza della rappresentazione»; che mi giunge come essere-sempre-già in debito o in errore (se si vuole qui usare un lessico heideggeriano senza dubbio meno insolito di quanto sembri): Ecco – nell’interiorità etica della responsabilità per-altri, nella sua priorità sulla deliberazione – un passato irriducibile a un presente che esso sarebbe già stato. Un passato senza referenza a una identità ingenuamente – naturalmente – garantita del suo diritto alla presenza e in cui tutto avrebbe dovuto cominciare. Eccomi, in questa responsabilità, rigettato [...] verso ciò che non è mai stato né nel mio potere né nella mia libertà, verso ciò che non è mai stato la mia presenza e non è mai venuto al mio ricordo. […] Significanza di un passato che mi concerne, che «mi riguarda», che è «affare mio» al di fuori di ogni reminiscenza, di ogni ri-tenzione, di ogni rap-presentazione, di ogni riferimento a un presente ricordato68.
Il tempo dell’altro, è dunque quello di un passato immemoriale che obbliga infinitamente a al di là di tutti gli impegni presi; tempo della «vocazione», nel senso in cui, «questa maniera di essere votato – o questa devozione – è tempo»69.
67. Ibid., p. 198. 68. Ibid., p. 205 s. 69. Ibid., p. 209.
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«Deformalizzazione del tempo» – è anche il sottotitolo dell’ultima sezione di questa Conferenza – che, suonerebbe allora come un rifiuto: Questa significazione di un passato che non è stato il mio presente e non mi concerne per reminiscenza, e quella di un futuro che mi comanda nella mortalità o nel volto d’altri – al di là dei miei poteri e della mia finitezza e del mio essere-votato-alla-morte – non articolano più il tempo rap-presentabile dell’immanenza e del suo presente storico. La sua dia-cronia, la “differenza” della dia-cronia, non significa pura rottura bensì anche non-indifferenza e accordo non più fondati sull’unità dell’appercezione trascendentale, la più formale delle forme che, attraverso reminiscenze e speranza, riannoda il tempo rappresentandolo, ma lo rinnega70,
– un rifiuto se Levinas non intendeva anche – per finire o almeno nell’orizzonte di ciò che si assegnava come compito ultimo: «la necessità di pensare il tempo nella devozione di una teologia senza teodicea» – ricollegarsi con dei predecessori: [...] abbiamo cercato il tempo come de-formalizzazione della forma, la più formale che vi sia, l’unità dell’io penso. Deformalizzazione la cui problematica è stata aperta al pensiero moderno da Bergson, Rosenzweig e Heidegger, col partire, ciascuno a suo modo, da un concetto più “antico” di quanto sia la forma pura del tempo71.
Dove curiosamente Husserl si trova… dimenticato! a meno che, troppo presente, non avesse fin dall’inizio accompagnato il progetto che mira a far emergere la condizione del tempo.
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IV Levinas di fronte al teologico-politico
Il titolo di questo capitolo non deve dar adito a malintesi: non si tratta di certo per me di leggere o interrogare l’opera di Emmanuel Levinas come si potrebbe fare con quella di Leo Strauss, quasi contemporaneo (1899 – gennaio 1906). Si tratta di Leo Strauss naturalmente – e non di Levinas –, Leo Strauss che, seguendo Hermann Cohen1, poteva scrivere nell’introduzione alla traduzione inglese della sua opera del 1930, La Critica della religione di Spinoza, che l’autore di questo studio, scritto in Germania negli anni 1925-1928, si trovava lui stesso preso «nella morsa della congiuntura teologico-politica», o ridire, nella prefazione che redige nel 1964 per la riedizione della traduzione inglese della sua prima opera su Hobbes, The political philosophy of Hobbes: its basis and its genesis (1936), che «la problematica teologico politica», sin dall’epoca della redazione, «era rimasta il tema della mie ricerche»2. Regolan1. Hermann Cohen, «Spinoza über Staat und Religion, Judentum und Christentum» (1915), in Judische Schriften, ed. B. Strauss, Bd. III, pp. 290-371; tr. it a cura di R. Bertoldi, Spinoza. Stato e religione, ebraismo e cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2010. 2. L’opera è stata prima scritta in tedesco dal 1934 al 1935, quando l’autore si trovava in Inghilterra. The Political Philosophy of Hobbes, Its Basis and Its
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dosi su questo tema – che Leo Strauss aveva di nuovo iniziato a rimettere in primo piano già in occasione della prima edizione, in tedesco ed in Germania, della sua opera dedicata ad Hobbes, o meglio aprendo ancora una volta il dossier «Atene e Gerusalemme» o ancora riportandosi all’opera più vecchia, ma decisiva del 1935 Philosophie und Gesetz3, – sarebbe certamente possibile tentare un confronto più diretto tra Strauss e Levinas, come ha fatto recentemente Leora Batnitzky, Leo Strauss and Emmanuel Levinas, Philosophy and the Politics of Revelation4. Una tale impresa sarebbe evidentemente del tutto legittima, autorizzata da numerosi elementi che non attengono solamente all’esperienza generale di un secolo particolarmente temibile per la comunità ebraica europea, ma che attengono anche a una comune traversata – anche se questa è diversa da molti punti di vista – delle opere (e dell’insegnamento) di Husserl e di Heidegger a Marburgo (come a Friburgo), al paragone con la filosofia moderna (il nichilismo), alla necessità di prendere posizione faccia a faccia con il sioGenesis, trad. Elsa M. Sinclair, The University of Chicago Press, Chicago/ Londres, nuova edizione 1991. Si troverà una traduzione francese di questa Prefazione, ad opera di Olivier Sedeyn, in Leo Strauss, Pourquoi nous restons juifs, Révélation biblique et philosophie, La Table Ronde, Paris 2001, pp. 61-113; tr. it. «Prefazione alla critica spinoziana della religione», in L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, a cura di S. Antonelli e C. Geraci, Giuffrè, Milano 1973, pp. 277-321. 3. Schocken Verlag, Berlin 1935. Dobbiamo a Rémi Brague una eccellente traduzione francese di questo volume nella raccolta Maïmonide, Essais rassemblés et traduits da R. B., Puf, Paris 1988, pp. 11-142; tr. it a cura di C. Altini, La filosofia e la legge. Contributi per la comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori, Giuntina, Firenze 2003, pp. 131-274. 4. Cambridge University Press, New York 2006. – Molti lavori di Pierre Bouretz e il suo importante lavoro, Témoins du futur, Philosophie et messianisme, Gallimard, Paris 2003, offrono una gran quantità di materiale e aprono molte strade a questo confronto, pp. 642 ss, 926 ss; tr. it. di A. Rizzi, Testimoni del futuro, filosofia e messianismo nel Novecento, Città aperta, Troina (EN) 2009, pp. 449 ss, 644 ss.
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nismo e lo Stato di Israele. Senza dubbio nell’opera e nella traiettoria di Levinas non si trova niente che corrisponde in modo abbastanza rigoroso a quello che Leo Strauss aveva caratterizzato, l’ho già ricordato, come «la morsa della congiuntura teologico-politica», congiuntura molto complicata e così specificamente tedesca: Carl Schmitt, Erich Peterson, Eric Voegelin, Ernst Kantorowicz in particolare, ma anche Karl Barth, Paul Tillich... Tuttavia, in un contesto differente, mi pare legittimo e necessario tentare di riaprire la questione: Levinas e la filosofia politica, anche se bisogna cominciare con il sottolineare, come faceva giustamente Gérard Bensussan, l’«intraducibilità politica dell’etica»5. In ogni caso non ci si potrebbe attenere, puramente e semplicemente, alla constatazione secondo la quale «non vi è alcuna filosofia politica levinassiana»6; non si può almeno per il fatto che lo stesso Levinas arriva a dichiarare (in «Pace e prossimità», 1984)7 che «il pensiero razionale è anche una politica». Si può leggere dunque questo
5. Gérard Bensussan, Éthique et expérience. Levinas politique, La Phocide, Strasbourg 2008, p. 42; tr. it. di S. Geraci, Etica ed Esperienza, Levinas Politico, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 36. 6. Ibid., p. 32. Cosa che non intende evidentemente fare Gérard Bensussan che si proponeva di porre la questione circa il fatto che «vi sia comunque, in Levinas, un pensiero del politico e della politica». Questione fondamentale che bisogna accogliere e indagare tenendo conto anche di questa altra proposta, ugualmente provocatoria, di Jacques Rolland: «si ha a che fare qui con un pensatore tanto fondamentalmente a-politico che a-storico» («Quelques propositions certaines et incertaines», in Emmanuel Levinas, Philosophie et judaïsme, a cura di Danielle Cohen-Levinas e Shmuel Trigano, Éditions In Press, Paris 2002 [riedizione della rivista Pardès, n. 26, 1999, p. 170], pp. 237-254, qui p. 244). 7. Questo studio pubblicato nei «Cahiers de la nuit surveillée» è stato ripreso in Altérité et transcendance, Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1995; tr. it. di S. Regazzoni, Alterità e trascendenza, Il nuovo melangolo, Genova 2008, p. 115.
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saggio – che evoca «la fatica» dell’Europa, che si interroga sul «momento etico della nostra crisi dell’Europa», sull’oscillazione sempre minacciosa del suo «universalismo» in «imperialismo» – come una eco lontana delle Conferenze di Vienna e di Praga, una risposta anche, oltre «l’esperienza europea del XX secolo», alla Krisis di Husserl, non solamente perché richiama a «una pace differente dalla pace politica», quella della prossimità, ma soprattutto perché, prendendo in considerazione la «testimonianza di una Europa che non è solamente ellenica», indica in direzione di un al di qua dell’«ordine della verità e del sapere», quello di un’«eredità biblica» imprescindibile per «il senso stesso dell’Europa»8. * «Politica, dopo!» L’ingiunzione che, come è noto, dava il titolo ad un articolo pubblicato nei Temps Modernes nel 1979 per tentare di comprendere la portata dell’avvenimento che sarebbe stato il viaggio del Presidente Sadat a Gerusalemme nel 1977, impegna decisamente, più di quanto non abbandoni (con questa post-posizione: «Politica, dopo»), in una riflessione politica, anche se – nella sua critica radicale dell’ontologia politica o meglio, se è permesso esprimersi così, del «l’ontopolitica»9 – per questa una delle difficoltà principali consiste
8. Art. cit., pp. 116, 120, 121. 9. Riprendo qui la formula di Howard Caygill nella sua originale opera, Levinas & the Political, Routledge, Londres/New York 2002, pp. 69 ss.: «The critique of political ontology: towards Totality and Infinity». L’autore propone una messa in prospettiva dell’opera a partire dalla retrospezione che, sotto il titolo di «Firma», concludeva l’opera del 1963 (1976, 2a versione), Difficile libertà, pp. 361-366. Cfr. anche Michael L. Morgan, Discovering Levinas, Cambridge University Press, New York 2007, cap. 11, «Judaism, Ethics and Religion», pp. 336 ss.
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proprio nel superare la tesi iniziale del non rapporto tra etica e politica, nell’uscire dall’antipolitica solamente negativa, per impegnare il pensiero in direzione di una possibile «traducibilità» dell’etica in politica. Levinas concludeva il primo capoverso di «Firma», evocando luoghi, date, nomi propri, con queste parole: «Questo disparato inventario è una biografia: dominata dal presentimento e dal ricordo dell’orrore nazista». Da ciò deriva anche l’importanza che l’autore attribuisce all’articolo del 1934 (Esprit), «Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo» e ai contributi quasi contemporanei, Dell’evasione, e soprattutto «l’Attualità di Maimonide» (Paix et Droit) sui quali ritorneremo. Quanto alla formula stessa: «Politica, dopo!», è permesso di chiedersi in quale misura essa rappresenti una risposta cosciente o una contrapposizione faccia a faccia del sinistro slogan di Maurras e del nazionalismo integrale? Ricordiamo la prima frase – post-nietzscheana, se vogliamo – che apre, fin dalla sua prefazione, Totalità e infinito: «Tutti ammetteranno facilmente che la cosa più importante è sapere se non si è vittime della morale». Inizialmente una tale messa in guardia ostacola, mi sembra, qualsiasi tentativo che miri a riformulare in termini classici la questione dalle relazioni o dalla subordinazione della politica alla morale: l’etica, la teoria dei valori, del diritto o della legge naturale, non saprebbe, per un pensiero come quello di Levinas, intervenire come una istanza esteriore, sovramondana alla quale converrebbe riferirsi, alla quale appellarsi per criticare o combattere tale o talaltra mancanza di una Realpolitik di fatto. Quando Levinas ritorna, un po’ più avanti nella stessa Prefazione, sull’opposizione morale e politica, lo fa invocando un’altra istanza, diciamo religiosa (il termine è lasciato qui al livello di una prima e senza dubbio essenziale indeterminazione):
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112 Storicamente, la morale si opporrà alla politica e avrà superato le funzioni della prudenza o i canoni del bello, per pretendersi incondizionale ed universale, quando l’escatologia della pace messianica verrà a sovrapporsi all’ontologia della guerra10 […].
A dire il vero, è all’ontologia come tale, a ciò che Levinas, fin dalla metà degli anni trenta, caratterizza molto curiosamente come l’ontologismo11, che si oppone diametralmente «lo straordinario fenomeno dell’escatologia profetica…»12. Quella escatologia che, Levinas vi insiste, non deve «ottenere un diritto di cittadinanza nel pensiero, assimilandosi ad una evidenza filosofica». In tal modo il fenomeno in questione perderebbe infatti il suo carattere «eccezionale»: «Ridotta alle evidenze, l’escatologia accetterebbe già l’ontologia della totalità prodotta dalla guerra». La sua missione, la sua portata è diversa: non propone un nuovo orientamento della storia; «non introduce un altro sistema teologico nella totalità». Questa volta positivamente, diremo, almeno programmaticamente: L’escatologia mette in relazione con l’essere al di là della totalità o della storia […] Essa è relazione con un sovrappiù sempre esterno alla totalità, come se la totalità oggettiva non soddisfacesse la vera misura dell’essere, come se un altro concetto – il concetto dell’infinito – dovesse esprimere questa trascendenza nei confronti della totalità, non inglobabile in una totalità e tanto originaria quanto una totalità13.
Ma già si annuncia qui un secondo capovolgimento in rapporto alle critiche post-hegeliane delle filosofie della storia, capo-
10. Totalità e infinito, p. 20. 11. Cfr. supra, capitolo I. 12. Si ritroverà, decisamente più avanti nel 1961, questa evocazione della pace messianica (p. 295): «Il compimento del tempo non è la morte, ma il tempo messianico nel quale il perpetuo si muta in eterno. Il trionfo messianico è il trionfo puro». 13. Totalità e infinito, p. 21.
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volgimento che sarà assolutamente decisivo: questa esteriorità non è veramente «esteriore», non rinvia ad un altro mondo, a un al di là del mondo: Questo «al di là» della totalità e dell’esperienza oggettiva, non si descrive tuttavia in maniera puramente negativa. Esso si riflette all’interno della totalità e della storia, all’interno dell’esperienza. L’escatologico, in quanto «al di là» della storia sottrae gli esseri alla giurisdizione della storia e del futuro – li colloca nella loro piena responsabilità e li porta ad essa.
L’autore che si trova qui implicitamente preso di mira e criticato, come notava molto sottilmente Stéphane Mosès14, è il Rosenzweig dello Stern der Erlösung, se è vero che l’opera del 1961, Totalità e infinito, si presenta come la difesa della soggettività, ma senza mai ricondurla «al livello della sua protesta puramente egoistica contro la totalità, né nella sua angoscia di fronte alla morte» (p. 24 della Prefazione). In questa stessa Prefazione, Levinas aveva già chiaramente precisato – a proposito dell’escatologia, nozione essenzialmente politica o almeno negativamente politica, intesa come «escatologia della pace», prima appresa attraverso la «lacerazione profonda di un mondo legato ad un tempo ai filosofi ed ai profeti» – senza pretendere di sostituire l’escatologia alla filosofia o, meno ancora, pretendere di «dimostrare filosoficamente» non si sa quali «verità escatologiche», aveva precisato che era possibile – in un modo che Levinas accettava ancora di caratterizzare, fin nei suoi scritti dell’immediato dopoguerra, come Dall’esistenza all’esistente o Il tempo e l’altro, con in termine «fenomenologico»15, – era possibile «risalire a partire dall’espe-
14. Au-delà de la guerre, trois études sur Levinas, Éditions de l’Éclat, Paris/ Tel Aviv 2004; tr. it. di D. di Cesare, Al di là della guerra, tre studi su Levinas, Il Melangolo, Genova 2007, pp. 11-12. 15. Totalità e infinito, p. 26: «L’opposizione all’idea di totalità ci ha colpito nella Stern der Erlösung di Franz Rosenzweig, troppo spesso presente in
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rienza della totalità ad una situazione nella quale la totalità si spezza, mentre questa situazione condiziona la totalità stessa. Questa situazione è lo sfolgorio (éclat) della esteriorità o della trascendenza sul volto d’altri» («Prefazione», p. 23). Ciò che interessa qui, almeno in un primo tempo, è questo gesto di immanentizzazione dell’esteriorità o della trascendenza, gesto che segna un completo capovolgimento di prospettiva nei confronti di Rosenzweig, e che – potremmo dire così, rifacendoci a un piccolo testo del 1950 che lo stesso Levinas definiva di «polemica» (ripreso in Difficile libertà), «Il luogo e l’utopia» – traccia una frontiera invalicabile tra giudaismo e cristianesimo: La Bibbia non inizia nel vuoto della costruzione di una città ideale, ma si situa all’interno delle situazioni che bisogna assumere perché siano superate; che bisogna trasformare con l’agire cacciando senza sosta (e fino al loro dialettico tornare) l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo dopo la soppressione della schiavitù, la sopravvivenza delle mitologie dopo la distruzione degli idoli. Riconoscere la necessità di una legge significa riconoscere che l’umanità non può salvarsi semplicemente negando la propria condizione, come per magia. La fede che sposta le montagne e concepisce un mondo senza schiavi si trasporta immediatamente nell’utopia, separa il regno di Dio da quello di Cesare. Rassicura Cesare16.
Ma lascio da parte questo tema: Stato di Davide – Stato di Cesare, e ritorno… ai profeti, alla Prefazione di Totalità e infinito, che annuncia infatti un singolare capovolgimento in rapporto alle critiche di lignaggio kierkegaardiano o rosenzweighiano dello Stato e della totalità: non c’è, all’esterno del sistema del-
questo libro per poter essere citato. Ma la presentazione e lo sviluppo delle nozioni utilizzate devono tutto al metodo fenomenologico». (Corsivo del testo). 16. Difficile libertà, p. 129 s.
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la Totalità, spazio per alcuna sostanza, se non per l’esteriorità stessa (cito ancora): La visione escatologica non oppone all’esperienza della totalità la protesta di una persona in nome del suo egoismo personale o anche della sua salvezza. Una simile proclamazione della morale a partire dall’oggettivismo puro dell’io – è confutata dalla guerra, dalla totalità che essa rivela e dalle necessità oggettive17.
All’ontologia politica o l’onto-politica, di cui, a diverso titolo, i principali rappresentanti potrebbero essere Hegel e Heidegger, Levinas non oppone dunque una teologia-politica e meno ancora una «teologia»: il termine è, se non totalmente assente dalla sua opera, per lo meno approssimativamente tanto in secondo piano, non-operativo, quanto quello di «politica». E tuttavia, dalla metà degli anni trenta, con il suo articolo prima pubblicato in Esprit, nel 1934, «Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo», che occorre leggere in parallelo con Dell’evasione18 (1935), ma soprattutto con la serie dei contributi pubblicati in Paix et Droit, la rivista dell’Alliance Israélite Universelle, appare chiaramente che uno dei focolai segreti del pensiero di Levinas è quello di illustrare l’idea di un «monoteismo politico» o di una politica monoteista contro quelle «potenze primitive» o quei «sentimenti elementari» che sottendono l’hitlerismo o ciò che Levinas chiamerà continuamente, in modo tanto polemico quanto indeterminato, «paganesimo». Troviamo principalmente una testimonianza del fatto che si tratta di un tema fondamentale e permanente
17. Totalità e infinito, p. 23. 18. «Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme», in Esprit, n. 26, novembre 1934, pp. 199-208, ripreso in volume omonimo con introduzione di Giorgio Agamben, seguito da un saggio di Miguel Abensour, Payot et Rivages, Paris 1997; tr. it. di A. Cavalletti, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996; De l’évasion, Fata Morgana, Montpellier 1982; tr. it. di D. Ceccon, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008.
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del pensiero di Levinas, in tutt’altre circostanze, in un altro articolo pubblicato in Esprit, nel 1960, «Principes et visages»; il contesto è quello della crisi dei missili di Cuba e della Conferenza di Parigi (maggio 1960). Levinas vi dichiara, in modo abbastanza provocatorio: «L’allocuzione pronunciata da M. K. in televisione […] corrispondeva alla metafisica implicita o esplicita sulla quale vive il pensiero politico dell’Occidente. […] Le sfumature e le lungaggini con le quali l’Occidente mitiga la sfrontatezza del suo pensiero e preserva la sua tradizione liberale non tolgono niente al dinamismo della sua filosofia che la spinge laddove il discorso di M. K. la riassume e dove si compie un’epoca del pensiero europeo». E Levinas, alla fine di questo breve articolo, lungi dall’essere semplicemente di circostanza, pone la domanda: «Non c’è altra universalità che quella dello Stato e altra libertà che quella oggettiva? Riflessioni difficili, in quanto devono condurre più lontano di quanto si creda. Ben al di là di Marx e di Hegel. Conducono, può darsi, a mettere in questione le basi più profonde della metafisica occidentale»19. Si percepisce qui come una eco fedele del finale di Dell’evasione, citato più avanti. Trattandosi del paganesimo, si può evocare a questo proposito l’immagine molto eloquente che ritorna più volte sotto la sua penna, quella dell’uomo albero o dell’uomo pianta: «Cos’è un individuo?» chiede Levinas «– l’individuo solitario – se non un albero che cresce senza riguardo verso quanto sopprime e schiaccia per accaparrarsi nutrimento, aria e luce, essere pienamente giustificato nella sua natura e nel suo essere? Cos’al-
19. Oggi in Les imprévus de l’histoire, Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1994, p. 166 s. 20. «Il luogo e l’utopia», apparso nella rivista Évidence, 1950 (ora in Difficile libertà, p. 128). Cfr. anche «Una religione da adulti» (1957), in Difficile libertà, p. 40: «L’uomo, dopo tutto, non è un albero e l’umanità non è una foresta». Nell’articolo decisamente severo che dedica a Simone Weil nel 1952
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tro è un individuo se non un usurpatore?»20. Levinas richiama qui, forse, Rosenzweig, che scriveva in Urzelle: «Questo è il mondo il cui spirito elevato e nobile insegna all’uomo a conoscere fratelli bosco e cespuglio, arbusto e acqua e che tuttavia proprio a lui, immerso e legato direttamente a tutto questo, fa sentire che così non si è prodotto nulla di conclusivo, di perfetto per l’uomo. In luogo di questi fratelli reperiti ovunque, facilmente e a buon mercato…»21. * Sforzandomi così di mettere in luce quello che ho chiamato il o un focolaio segreto dell’opera, io non credo di ingigantire alcuni testi di circostanza o alcuni testi «ebraici», relativamente esoterici, rispetto a ciò che costituirebbe il vero centro di questo pensiero. Se può essere infatti legittimo separare materialmente, come fece lo stesso Levinas, – intendo sul piano editoriale (les Éditions de Minuit, Albin Michel, nella collana «Présences du judaïsme»), i Commentaires talmudiques, prima raccolti nel 1963, sotto il titolo di «testi messianici» nel-
(«Simon Weil contro la Bibbia»), scriveva: «Il paganesimo è lo spirito locale: il nazionalismo in quanto ha di crudele e spietato, vale a dire di immediato, di ingenuo, di inconsapevole. L’albero cresce e riserva per sé tutta la linfa della terra. Un’umanità radicata che possiede Dio interiormente con i succhi che risalgono dalla terra è una umanità foresta, un’umanità pre umana. Non bisogna illudersi sulla pace dei boschi», Difficile libertà, p. 174. – Cfr. Anche l’intervista del 1982 «Filosofia, Giustizia e Amore», in Tra noi, p. 151: «Si dice che nel modo di vedere – e me lo si rimprovera spesso - ci sia una sottovalutazione del mondo. In Heidegger il mondo è molto importante. Nel Feldwege, c’è un albero: non si incontrano uomini». 21. “Urzelle” der Stern Erlösung, in Kleinere Sehriften, Sehocken Verlang, Berlin 1937; tr. it. di G. Bonola, «“Cellula originaria” de La stella della redenzione», in La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Città nuova editrice, Roma 1991, pp. 241, 256.
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la prima edizione di Difficile libertà – non ci sarebbe alcun senso nel voler «isolare» un nucleo propriamente filosofico o fenomenologico dell’opera che potrebbe restare estraneo alla riflessione sul giudaismo, la sua missione, o più precisamente alla domanda circa il sapere ciò che significa «essere ebreo». È infatti con uno studio così intitolato che Levinas nel 1947 – alla vigilia della creazione ufficiale dello Stato di Israele22 e all’indomani del «piano di divisione della Palestina» –, apportava il suo contributo a un numero di una rivista dell’Alliance, Confluences, dedicata al «bilan juif». L’articolo si apriva con queste parole che rispondono direttamente, come tutto l’articolo in un certo senso, all’opuscolo di Sartre pubblicato nel 1946, Riflessioni sulla questione ebraica: Sartre vi analizzava ciò che chiamava «il complesso giudaico», vale a dire la convinzione che «è l’antisemita che fa l’ebreo», «è la società, non il decreto di Dio, che ha fatto di lui un ebreo, che ha fatto nascere il problema ebraico. […] siamo noi che lo costringiamo
22. Creazione salutata nel numero dell’aprile 1949 dei Cahiers de l’Alliance Israélite Universelle, «Le mots reviennent de l’exil», p. 4: «Non so se la creazione dello Stato di Israele equivalga alla fine della diaspora. Ma già segna la fine dell’esilio delle parole. Non è la rinascita dall’ebraico che mi commuove oltre misura. Ordinare un panino in termini di Michna, insultarsi al mercato nel linguaggio di Isaia, trovare ai costumi nuovi delle parole antiche – è una questione di convenzione e di dizionario. Evento per i filologi. Ma che le parole antiche che hanno smarrito le loro cose, che consegnano tutte queste cose antiche tendono bruscamente il loro pensiero nascosto e la loro potenza – ciò ha del prodigioso. […] “Al nome di Dio onnipotente”. Noi abbiamo già sentito qualche volta questa formula. Dei capi di Stato la usano ancora in alcuni paesi nei momenti solenni. […] Non ha mai perduto per le nostre orecchie una non so quale risonanza di impacciato, di aggiunto/apportato, di artificiale. A Tel-Aviv, il 15 maggio 1948, ha ritrovato il suo senso inalterato, la sua versione originale. Come la promessa di basare il regime di Israele sugli insegnamenti dei profeti, che non lascia più, nel contesto di una costituzione politica, alcun retrogusto di unto/mellifluo, di clericale, di ipocrita».
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a scegliersi ebreo, sia che fugga, sia che si rivendichi, siamo noi che lo abbiamo costretto al dilemma della non autenticità o della autenticità ebraica»23. Di questo testo di Sartre, oggi così sconcertante, in cui la generosità si mescola a un singolare misconoscimento del giudaismo, e che evocava per concludere le condizioni della scomparsa politica dell’antisemitismo: l’antisemitismo è una rappresentazione mitica e borghese della lotta di classe e che non potrebbe esistere in una società senza classi. […] In una società senza classi e fondata sulla proprietà collettiva degli strumenti di lavoro, quando l’uomo liberato dalle allucinazioni del mondo sotterraneo si lancerà infine nella sua impresa, quella di far esistere il regno umano, l’antisemitismo non avrà più alcuna ragion di esistere […] La rivoluzione socialista è necessaria e sufficiente per sopprimere l’antisemita: è anche per gli ebrei che faremo la rivoluzione […] l’antisemitismo, non è un problema ebraico: è il nostro problema24.
– da questo testo di Sartre dunque, Levinas avrebbe, forse, trattenuto positivamente, ma per reinterpretarlo, questo solo enunciato: «L’antisemitismo, in una parola, è la paura davanti alla condizione umana»25. A cui Levinas risponde infatti: «L’esistenza ebraica è dunque il compimento della condizione umana in quanto fatto, personalità e libertà». E se l’accento è messo, con e contro Sartre, sulla «fatticità ebraica»26, è per sottolineare che quella è «altro rispetto alla “fatticità” di un mondo che si comprende a partire dal presente», che essa rinvia a questa «maniera assolutamente passiva» che è quella della «creatura». 23. Réflexions sur la question juive, Gallimard («folio essais»), Paris 1954; tr. it. di Ignazio Weiss, L’antisemitismo, Riflessioni sulla questione ebraica, Mondadori, Milano 1990, pp. 82, 64, 111 s. 24. Ibid., pp. 120-122. 25. Ibid., p. 53. 26. «Être juif», Confluences, n°15-17, 1947, p. 260.
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120 Il fatto non è possibile se non nel caso in cui, al di là del suo potere di scegliere che annulla la sua fatticità, è stato scelto, vale a dire eletto27.
Reintroducendo così l’idea, difficile e importante in tutta la sua opera, di creazione, o meglio dello statuto dell’essere creato, della «creaturalità»28, Levinas mette in rilievo «l’imperativo del comandamento e della Legge» (ci tornerò) tale che induce un altro rapporto al tempo: Il passato che la creazione e l’elezione introducono nell’economia dell’essere non si confonde con la fatalità di una storia senza origine assoluta29.
27. Ibid., p. 261. Occorre completare questa analisi critica del saggio di Sartre, con l’articolo pubblicato nel numero 14 (giugno-luglio 1947) dei Cahiers de l’Alliance Israélite Universelle (pp. 2-3). In questo testo relativamente «esoterico» Levinas scriveva: «Io so in cosa la concezione di Sartre, che fissa il destino ebraico in funzione dell’antisemitismo, può deludere. Un po’ maldestramente, ma con sincerità, questo era stato detto da tutti coloro che non traggono il loro giudaismo dall’antisemitismo, anche se è difficilmente concepibile che la coscienza ebraica sia estranea alla situazione subita dal giudaismo e che la sua essenza metafisica differisca dal suo essere storia». 28. Ibid., 261. Si legge il termine, destinato a rilanciare al di fuori dell’ontologia la nozione di creazione, in Altrimenti che essere..., p. 115: «Bisogna forse chiamare creaturalità questo “al di qua” di cui l’essere non conserva la traccia, “al di qua” più antico dell’intrigo dell’egoismo annodato nel conatus dell’essere?». Cfr. anche la spiegazione data in nota a «Umanesimo e anarchia» (Umanesimo dell’altro uomo), p. 149, nota 19: «La nozione di creazione non è qui introdotta come concetto ontologico, in un processo che, movendo dal dato, risalga fino alla causa prima o che, movendo dal presente, risalga fino all’origine del tempo – quasi si fosse, a dispetto delle antinomie kantiane, trovato miracolosamente un argomento capace di mettere a tacere l’antitesi. La creazione non è qui pensata come affermazione di una tesi, la quale nel tema, nel presente presupporrebbe la libertà, vale a dire l’Io che si presuppone increato e che contesta la creazione stessa. La “creaturalità” del soggetto non può trasformarsi in rappresentazione della creazione. Essa è nella passività di una responsabilità che supera la libertà». 29. Art. cit., p. 261.
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Ora è esattamente questo passato che, «nell’economia dell’essere», la creazione e l’elezione reintroducono, le quali comunicano al presente la sua «gravità», che fanno tutto il «peso dell’esistenza». Contro l’interpretazione del tutto ingenerosa di Sartre, Levinas riafferma che «il fatto ebraico esiste nudo», ma che sta «nella fatticità stessa», inconcepibile senza elezione, e aggiunge con humour : Non è così perché l’abbiamo infarcito di storia santa; si riferisce alla storia santa perché è un fatto così30. [Corsivo del testo].
Sottolineo rapidamente che il richiamo di questo enunciato dà così tutto il suo piccante al contributo molto più tardo di Levinas (nel 1980), ripreso in Les imprévus de l’histoire – si tratta in realtà una breve intervista, «Quando Sartre scopre la Storia santa»31 nella quale Levinas sottolinea: … nelle sue ultime dichiarazioni [quelle di Sartre], vi è da parte sua un capovolgimento completo. C’è la scoperta della storia ebraica. Dice che per lui, la sua concezione della storia era, finché non lesse la storia del popolo ebraico di Baron, una storia tale come la vuole Hegel, una storia delle nazioni che hanno un territorio e uno stato. L’idea di una storia di un popolo che non ha questi attributi essenziali gli sembrava una nozione irrazionale e strana. Di conseguenza, riteneva, a quell’epoca, che il popolo ebraico non avesse una personalità propria, ma che fosse fatto unicamente di ciò che gli altri hanno fatto di lui. Poi Sartre ha fatto la scoperta di un’altra dimensione nella storia, come se vi fosse qualcosa che chiamerei, io, una «storia santa» che va in un’altra direzione e coesiste con la storia e che è portata da un popolo.
30. Ibid., p. 262. 31. «Quand Sartre découvre l’Histoire sainte» in Les imprévus de l’histoire, Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1994, p. 156 s.
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122 C’è [in questo testo] una frase essenziale: se la storia ebraica esiste, Hegel ha torto. Ora, la storia ebraica esiste.
Ma torniamo all’articolo del 1947; per noi qui più importante del capovolgimento della «tesi» sartriana è l’esplicitazione che segue: Altrimenti detto, l’Ebreo è l’ingresso stesso dell’evento religioso nel mondo; meglio ancora, è l’impossibilità di un mondo senza religione.
È qui senza dubbio il punto saliente dell’articolo del 1947 che cominciava così: Se il giudaismo non dovesse far altro che risolvere la «questione ebraica», avrebbe molto da dire, ma sarebbe ben poca cosa32.
Se non si limita alla questione ebraica, se deve essere considerato nella sua irrecusabile fatticità (quella di cui Levinas dice qui bruscamente che è la «sua teologia»: «la sua teologia esplicita la sua fatticità»33), è che «essere ebrei», «non è solamente cercare un rifugio nel mondo», ma «sapere che si ha un posto nell’economia dell’essere». È anche in rapporto a questo «posto nell’economia dell’essere» che Levinas abbozzerà nello stesso testo del 1947 «la significazione ontologica del mondo non-ebraico» alla quale l’assimilazione pretendeva accedere: questa significazione ontologica è direttamente legata al cristianesimo e al fatto eclatante che il cristianesimo è potuto diventare «religione di Stato» e restarlo «dopo la separazione
32. «Être juif», art. cit., p. 253. Non ci si spiega come mai questo testo così importante non è stato ripubblicato nel Cahier de l’Herne dedicato a Levinas (ed. de l’Herne, Paris 1991). È stato ripubblicato nel primo numero dei Cahiers d’études lévinassiennes, Paris 2003. Didier Franck aveva già attirato l’attenzione su questo testo, e in modo diverso Benny Lévy, Être juif, Étude lévinassienne, Verdier, Paris 2003, p. 30 ss.; Howard Caygill, op. laud., sottolinea da parte sua l’importanza di questo articolo, pp. 79 ss. 33. «Être juif», p. 263.
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della Chiesa dallo Stato34». Da cosa dipende questa singolare «riuscita», propria al cristianesimo, e che è anche quella dell’integrazione del «paganesimo»35? La poesia pagana delle Georgiche – scrive Levinas –, dei campi che portano una mietitura dorata, si prolunga insensibilmente e ammirabilmente nei canti religiosi di un Péguy, di un Jammes, di un Claudel36.
In uno dei testi che costituiscono la sezione «Polemiche» di Difficile libertà, «Il luogo e l’utopia», Levinas scriveva anche,
34. «Être juif», p. 256. 35. Le accezioni levinassiane del termine meriterebbero una ricerca approfondita, che ricondurrebbe, passando per Rosenzweig, fino allo Schelling della Filosofia della mitologia e della Filosofia della rivelazione. Ci limiteremo a rinviare a questo tratto fondamentale, messo in luce da Rosenzweig, in Il nuovo pensiero (Das neue Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum «Stern der Erlösung», 1925, tr. fr., G. Bensussan, M. Crépon, M. de Launay, «La pensée nouvelle», in F. Rosenzweig, Foi et savoir, autour de l’Étoile de la rédemption, Vrin, Paris 2001, pp. 145-170; tr. it. di G. Bonola, «Il nuovo pensiero», in La Scrittura, cit., pp. 241, 256), per ciò che riguarda il carattere fondamentalmente a-storico del paganesimo: «Il paganesimo non è affatto un semplice spauracchio infantile filosofico-religioso destinato agli adulti, anche se come tale lo impiegava l’ortodossia dei secoli passati e, stranamente, da ultimo, ancora il ben noto libro di Max Brod, [Heidentum, Christentum, Judentum, Munich 1921]. Bensì è … nulla più e nulla meno che la verità. Ma la verità in forma elementare, invisibile, non-rivelata. Così dunque, ogni volta che il paganesimo non vuole essere elemento componente, ma l’intero, non vuole essere invisibile, bensì figura, non vuole essere segreto, ma rivelazione, diventa menzogna», in La scrittura, tr. it. cit., p. 266. Si veda anche lo studio di Sophie Nordmann, «Judaïsme et paganisme chez Cohen, Rosenzweig et Levinas», in Archives de Philosophie, tome 70, 2007/2, pp. 227-247. 36. Cfr. anche «Una religione da adulti», in Difficile libertà, p. 40: «L’uomo, dopo tutto, non è un albero e l’umanità non è una foresta». Levinas aveva scritto poco prima; «L’uomo ebreo scopre l’uomo prima di scoprire paesaggi e città. È presso di sé in una società prima di esserlo in una casa. […] L’uomo comincia nel deserto in cui abita nelle tende, in cui adora Dio in un tempio che viene trasportato».
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questa volta a proposito del cristianesimo rivoluzionario: «è stato terribilmente conservatore, prono di fronte all’ordine stabilito, timoroso dello scandalo, mentre associava – paradossalmente – all’orrore verso una natura senza grazia, una poesia dell’ingenuità, dei campi di grano, delle virtù guerriere e di quelle del solido radicarsi, dell’uomo-pianta, dell’umanità-foresta dalle nodose articolazioni di tronchi e radici magnificate dalla rudezza della vita contadina»37. La «riuscita» del Cristianesimo attiene dunque il fatto che queste due forme di esistenza «si comprendono a partire dal presente»: «avere a che fare con l’immediato, introdursi nel tempo, non percorrendo tutto il filo del passato, ma di colpo: ignorare la storia». «Il Cristianesimo», insiste Levinas, in questo fedele a Rosenzweig, «è anch’esso una esistenza a partire dal presente»: la sua originalità – precisa – «consiste nel relegare in un secondo piano quel Padre al quale l’Ebreo è aggrappato come a un passato, e a non accedere al padre se non attraverso il Figlio incarnato, vale a dire attraverso una presenza, attraverso la sua presenza tra di noi»38. Alla «filialità»39, caratteristica dell’esistenza ebraica e della sua posizione nell’essere (la sua «essenza metafisica»), sempre riferita ad «un istante privilegiato del passato», intendo quello della creazione, Levinas oppone qui il presente della «fraternità»: «l’esistenza cristiana possiede nel suo stesso presente questo punto di ancoraggio privilegiato. Dio gli è fratello, vale a dire contemporaneo».
37. Difficile libertà, p. 128. 38. «Être juif», p. 259. 39. In Totalità e infinito, una tale distinzione sparisce, sembra, dal momento che Levinas scrive, in modo generale (p. 219): «Lo stesso statuto dell’umano implica la fraternità e l’idea del genere umano. […] Essa implica d’altra parte la comunità del padre come se la comunità del genere non fosse in grado di avvicinare a sufficienza».
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Ciò che qui è veramente interessante – ma non faccio che enunciarlo rapidamente – è che i tratti che, per Levinas, inducono o almeno rendono possibile la teologia politica (la religione di Stato fin nella separazione), sono quelli stessi che agli occhi di Erik Peterson (la teologia trinitaria, l’incarnazione, la visibilità della Chiesa) avevano fin dai Padri greci (Gregorio Nazianzeno, Gregorio di Nissa), e ancor più in Agostino, «regolato la questione teologica del monoteismo come potere politico». Peterson concludeva infatti con questi termini la sua opera del 1935, Il monoteismo come problema politico: Ma la dottrina della monarchia divina doveva fallire di fronte al dogma trinitario e l’interpretazione della pax augusta di fronte all’escatologia cristiana. Soltanto sul terreno del giudaismo e del paganesimo può esistere [dopo la dissociazione dell’Imperium romanum o della Pax Augusta e l’avvento del cristianesimo con la sua teologia trinitaria] qualcosa come una “teologia politica”. Ma l’annuncio cristiano del Dio unitrino si pone al di là del giudaismo e del paganesimo, in quanto il mistero della Trinità esiste soltanto nella divinità stessa, non nella creatura umana. Così come la pace, che il cristiano cerca, non viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui, il quale è «più alto di ogni ragione»40.
Mi asterrò qui dall’istruire o piuttosto dal ricostituire tutte la parti di un dibattito che non ha avuto luogo tra il teologo protestante, diventato cattolico, e Levinas, tanto l’opera di Peterson, che bisognerebbe analizzare in dettaglio, si trova saturata di elementi politici e ideologici della Germania nazional-socialista; risponde infatti alla prima Teologia politica di Carl Schmitt. Ciò che intendevo semplicemente sottolineare
40. Erik Peterson, Il monoteismo come problema politico, tr. it. di E. Ulianich, Queriniana, Brescia 1983, p. 72.
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riferendomi all’articolo del 1947, era la posta in gioco storicopolitica (verrebbe quasi voglia di dire «storico-destinale»!) della riflessione levinassiana sul giudaismo e la sua situazione nell’«economia dell’essere», riflessione che io comprendo immediatamente come critica dell’ontologia politica, vale a dire di tutta la filosofia occidentale «dopo Parmenide» o, come scriveva Levinas nella conclusione di Dell’evasione (1935), come un tentativo al fine di «uscire dall’essere», «andare al di là dell’essere». Ricordo qui le ultime righe, tanto famose quanto violente, del testo del 1935: Nella sua prima ispirazione, l’idealismo cerca di oltrepassare l’essere. Ogni civiltà che accetta l’essere, la disperazione tragica che comporta e i crimini che giustifica, merita il nome di barbara41. Si tratta di uscire dall’essere per una nuova via, a rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni appaiono come le più evidenti42.
Finale che fa molto chiaramente eco alla riflessioni del 1934 Sulla filosofia dell’hitlerismo, come sottolineerà, certo, a cose fatte, Levinas stesso nel Post-scriptum che redige in occasione della pubblicazione di una traduzione americana, apparsa nel 1990 nella Critical Inquiry: L’articolo procede da una convinzione, che la fonte della barbarie sanguinosa del nazional-socialismo non sta in una anomalia contingente del ragionamento umano né in alcuni malintesi ideologici accidentali. C’è in quest’articolo la convinzione che questa fonte riguardi una possibilità essenziale del Male elementale alla quale buona logica può condurre e contro la quale
41. Levinas evocherà ancora la «barbarie dell’essere» nel 1983, in «Determinazione filosofica dell’idea di cultura», testi estratti dagli atti del XVII° Congresso mondiale di Filosofia, tenutosi a Montréal nel 1983, ripreso in Tra noi, p. 213. 42. Dell’evasione, pp 45-46.
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127 la filosofia occidentale non si era abbastanza messa al riparo. Possibilità che si inscrive nell’ontologia dell’essere, preoccupato di essere, – dell’Essere, «dem es in seinem Sein um dieses Sein selbst geht» secondo l’espressione heideggeriana43.
Quando, nel 1935, Levinas cerca di mettere in luce L’attualità di Maïmonide (Paix et droit, 1935), è ancora per sottolineare, in un contesto particolarmente drammatico, quello – come dirà più tardi, nel 1986, in alcuni colloqui con François Poirié – di una «diffidenza nei confronti dell’essere…, in un’epoca che, interamente, era il presentimento dell’hitlerismo imminente ovunque»44, per sottolineare dunque l’opposizione irriducibile del giudaismo al paganesimo. Levinas, sotto il segno di Maimonide, vi evoca «le preoccupazioni dell’ora», «nostre angosce»: Quelle della nostra epoca sono particolarmente strazianti. Concernono l’essenza stessa della nostra esistenza in quanto Ebrei e in quanto uomini. La civilizzazione giudaico-cristiana è messa in causa da una barbarie arrogante insediatasi nel cuore dell’Europa. Con una audacia che al momento non conosce eguali, il paganesimo rialza la testa, ribaltando i valori, confondendo le distinzioni elementari, cancellando i limiti del sacro e del profano, dissolvendo gli stessi principi che, fino ad ora, permettevano di ristabilire l’ordine. Già i fondamenti della nostra civilizzazione sembrano tremare davanti alla legione di coloro che si lasciano accecare e sedurre dallo sfolgorio e dai successi rapidi di una demagogia che vuole essere dottrina e da una avventura che si spaccia per un’opera. Mai fino ad ora la folla degli smarriti è stata così numerosa. La coscienza ebraica moderna è anch’essa perturbata. […] Bisogna ritemprare il suo coraggio [nelle origini prime della sua ispirazione] e ritrovarvi la certezza del suo valore, della sua di-
43. Cfr. Howard Caygill, Levinas & the Political, pp. 29 ss. 44. François Poirié, Emmanuel Levinas, essai et entretiens, La Manufacture Lyon 1987; nuova edizione, Actes Sud 1996, p. 90.
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128 gnità e della sua missione. Mai fino ad ora essa ha avuto un bisogno così acuto di convincersi del suo essere45.
È in rapporto a questa missione che la figura di Maimonide è suscettibile di ritrovare tutta la sua attualità, lui che ha saputo, fin nella ricezione generosa della filosofia di Aristotele, in questa «riconciliazione di Aristotele e della Bibbia», farsi difensore dell’essenziale, dell’idea di creazione, contro la rappresentazione di un mondo «già fatto»: […] nella nitidezza della distinzione tra un pensiero che pensa il mondo e quello che lo supera, consiste la vittoria definitiva del giudaismo sul paganesimo, la grande consolazione che Maimonide ci porta, la fiducia in sé stessi e nella nostra missione che ce lo restituisce [corsivo dell’autore].
Richiamo che porta Levinas a precisare la sua nozione di paganesimo o ancora, come dice lui, a separare chiaramente «le leggi di un pensiero che ha il mondo per oggetto di principi, da un pensiero in rapporto con le condizioni del mondo». È nella nitidezza della distinzione, tra pensiero che pensa il mondo (l’ontologia politica, l’onto-politica) e quello che lo supera (monoteismo politico, escatologia profetica), che «consiste la vittoria definitiva del giudaismo sul paganesimo»: Il paganesimo non è la negazione dello spirito, né l’ignoranza di un Dio unico. La missione del giudaismo non sarebbe che poca cosa se essa si limitasse ad insegnare il monoteismo ai popoli della terra. Equivarrebbe ad istruire coloro che sanno. Il paganesimo è impotenza radicale a uscire dal mondo. Non consiste nel negare spiriti e dei, ma nel situarli nel mondo. Il Primo Motore che Aristotele ha tuttavia isolato dall’universo non ha potuto portare sulle alture se non la povera perfezione delle cose create. La morale pagana non è che la conseguenza di questa incapacità innata di trasgredire i limiti del mondo. In questo mondo sufficiente a se stesso, bloccato su se stesso, il pagano 45. L’articolo è stato ripreso in Cahier de l’Herne Levinas, cit., p. 142.
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129 è rinchiuso. Lo trova solido e ben sistemato. Lo trova eterno. Regola su di lui le sue azioni e il suo destino. Il sentimento di Israele nei confronti del mondo è del tutto diverso. L’ebreo non ha nel mondo le fondamenta definitive del pagano. Nel mezzo della più completa fiducia accordata alle cose, egli è logorato da una sorda inquietudine. Per quanto il mondo possa apparire incrollabile a coloro che chiamiamo gli spiriti sani, esso contiene per l’Ebreo, la traccia del provvisorio e del creato.
Da questo a-cosmismo, da questa a-topia, da questa missione deriva un’altra politica! Sempre nel 1935, in un articolo della stessa rivista, articolo dedicato questa volta a «l’inspiration religieuse de l’Alliance»46, Levinas ritorna sulla prova dell’hitlerismo: «la più grande prova, la prova incomparabile, che l’ebraismo abbia dovuto attraversare», quella che induce la determinazione propriamente razzista, «biologica» della condizione ebraica. L’uomo, come scriveva Levinas nelle sue «Réflexions» del 1934, «è legato per nascita con tutti coloro che sono del suo sangue»; «incatenato al suo corpo, l’uomo si vede rifiutato il potere di sfuggire a se stesso». A cui fa eco, nell’articolo di Paix et Droit: La sorte patetica dell’essere ebreo diventa una fatalità. Non si può più sfuggirle. L’ebreo è ineluttabilmente inchiodato al suo giudaismo.
Se un tale razzismo è indegno di confutazione, sottolinea Levinas, costringe tuttavia «l’anima ebraica a sottomettere ad un nuovo esame la sua essenza ebraica e la sua storia tra le nazioni». Ora è esattamente in ragione di questa singolare «storia tra le nazioni» che «la dottrina dell’Alliance non riconosce al giudaismo una sorte politico proprio» (siamo nel 1935)47, che 46. Paix et droit, numero 8, ottobre 1935, p. 4 (Cahier de l’Herne, pp. 144146). 47. La cronologia in questo caso è decisiva. Rinvio su questo punto e sul riorientamento dell’Alliance rispetto al sionismo all’articolo molto ben do-
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adesso, contro le tentazioni del «nazionalismo ebraico», l’idea della diaspora: «diaspora» intesa come rassegnazione, ma aggiunge Levinas, come «rassegnazione attiva»: quella che non si confonde con l’assimilazione intesa come «degiudaizzazione». Esigente diaspora di cui Levinas dichiara che non è interamente compiuta «fintanto che il giudaismo resta ripiegato su se stesso, si rifiuta ad una collaborazione con i popoli, tanto che il sacrificio della sua nazionalità non è senza riserva» (corsivo del testo). È forse anche questa che sarà in grado di aprire un’altra politica che si dirà e non si dirà teologica, in ogni caso un’altra ottica sulla storia e il suo senso. Cito: La diaspora è una rassegnazione: una rinuncia innata ad una sorte politica propria, una speranza, certo, ma speranza di un evento soprannaturale che spacca e blocca la storia terrestre e che solo una potenza divina saprebbe colmare. Fatto essenzialmente religioso, essa non è una categoria sociologica applicabile alla storia ordinaria. Non ha una misura comune con un disastro nazionale, i ricordi della miseria o della grandezza che conoscono quelle nazioni la cui sorte non è essenzialmente religiosa. Dimenticare l’essenza religiosa del fatto della diaspora, vuol dire tradire il senso stesso della storia ebraica, rinnegare una divisione difficile, ma ammirabile con le risorse dell’abnegazione e dell’amore alle quali fa appello. Significa chiudere troppo presto la Storia Santa48.
cumentato di Françoise Mies, «Levinas et le sionisme (1906-1952)», in Levinas à Jérusalem, ed. Joëlle Hansel, Paris, Klincksieck, 2007, pp. 207-227, in particolare 210-212. Un primo abbozzo di questo lavoro, prima condotto in collaborazione con Pierre Sauvage, era stato pubblicato, con lo stesso titolo, in Emmanuel Lévinas et l’histoire, eds. Nathalie Frogneux e Françoise Mies, le Cerf, Paris 1998 («La nuit surveillée»), pp. 339-348. Segnaliamo inoltre che i numeri di Paix et Droit degli anni 1930-1940 sono consultabili on line su Gallica. 48. Riflessione che si può senza dubbio paragonare all’osservazione di Franz Rosenzweig, in una lettera del 1 maggio 1917 (a Getrud Oppenheim), Briefe und Tagebücher, I, p. 398 (citata da P. Bouretz, Testimoni del futuro, tr.
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Trattando di questa tentazione politica del «nazionalismo Ebraico», voglio ricordare, parallelamente, il testo evidentemente più tardo, scritto in omaggio a Léon Brunschvicg («L’agenda di Léon Brunschvicg», 1949, testo scritto dopo la pubblicazione del Journal nel 1948, un anno dopo la fondazione dello Stato di Israele, il testo è ripreso in Difficile libertà): Si vorrebbe dire […] alla gioventù ebraica che, dopo l’esperienza precedente, può averne abbastanza dell’Europa e della sua «cultura occidentale», e del suo «umanesimo cristiano» o altro, cosa un ebreo europeo abbia realizzato in termini di civiltà. Questa giovinezza che aspira a una vita semplice su un suolo che si coltiva e che si difende con sacrificio ed eroismo, suscita ammirazione. Ma forse non dovrebbe succedere che duemila anni di partecipazione al mondo europeo, di cui una personalità come Léon Brunschvicg – e non soltanto Auschwitz – rappresenta il punto d’arrivo, vengano semplicemente dimenticati; che la rudezza e la dirittura elementari che hanno permesso di conquistare la Palestina rimangano le ultime virtù del giudaismo rinnovato; che dalla Diaspora importiamo soltanto le qualità contadine e militari49.
Si può senza dubbio paragonare a questa messa in guardia un testo più tardo «Carte d’identità»: L’identità ebraica non è dunque una dolce presenza di sé a sé, ma la pazienza, la fatica e l’appesantimento di una responsabilità; una testa dura che sopporta l’universo. Tale aderenza originaria si esprime, in un linguaggio meno intollerabile, nell’ideale sionista, anche se in questo caso essa si vuole politica e nazionale. La carta di identità israeliana porta a compimento, per molti israeliti, il senso dell’identità ebrai-
it. cit., p. 145 s: «Soltanto mantenendo i contatti con la Diaspora [i sionisti] saranno forzati a non perdere di vista il fine, che è di diventare dei senzapatria del tempo e di restare dei nomadi, anche laggiù». 49. Difficile libertà, p. 61 s.
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132 ca. E lo compie, in potenza, per tutto il resto di Israele ancora recuperabile nella Diaspora. Ma qui l’identità ebraica corre il rischio di confondersi con il nazionalismo e allora la sua perdita è forse il guadagno del suo rinnovamento50.
Ciò che Levinas formulava anche, molto economicamente, in «Il luogo e l’utopia»: «Parlare di Redenzione in un mondo rimasto senza giustizia è dimenticare che l’anima non è esigenza di immortalità, ma impossibilità di uccidere, e che, di conseguenza, lo spirito è la preoccupazione (souci) stessa di una società giusta»51. * Nel 1951, dopo la fondazione dello Stato di Israele, la posizione generale dell’Alliance è cambiata e il sionismo non è più semplicemente assimilato a un nazionalismo. Occorre qui ricordare un’importante dichiarazione fatta dall’Alliance nel novembre 1945: L’Alliance è risoluta nel chiedere per gli ebrei che vi aspirano, sotto l’egida delle Nazioni Unite e sotto la responsabilità dell’Agenzia ebraica per la Palestina, il diritto di ingresso in Palestina. Loro troveranno più che un rifugio: un focolare di calore spirituale, il solo quaggiù in cui siano impazientemente attesi, da cui irradieranno, un giorno forse, nuovamente sul mondo, le verità di Israele52.
50. Pubblicato nella raccolta Journées d’études sur l’identité juive, Sezione francese del Congresso ebraico mondiale, 1963, e ripreso in Difficile libertà, p. 76. 51. In Difficile libertà, p. 130, modificata. 52. Testo citato in André Chouraqui, L’Alliance Israélite Universelle et la renaissance juive contemporaine (1860-1960), Cent ans d’histoire, Puf, Paris 1965, p. 493. Si veda anche Esther Benbassa, «L’Alliance Israélite Universelle et le sionisme», in Archives juives, Revue d’histoire des Juifs de France, 30/2, 1997, pp. 38-48.
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Occorre anche ricordare il memorandum presentato nel giugno 1947 da René Cassin, allora presidente dell’AIU53: L’Alliance ha voluto ottenere, ogni volta che è stato possibile, per ogni Ebreo, ovunque si trovi, la libertà e l’eguaglianza nei diritti e nei doveri del cittadino. Essa continua in questo compito in ogni luogo in cui lo ritiene realizzabile, ma sa oggi che il «Resto di Israele» che si trova ancora in Europa centrale e orientale desidera, in grande maggioranza, costruirsi una vita propria in Palestina. Pensa che sia un diritto che l’umanità non saprebbe rifiutargli.
Se è assolutamente legittimo sostenere con Françoise Mies che la posizione di Levinas a proposito del sionismo è cambiata, dopo essere stato nominato direttore dell’École normale israélite orientale, soprattutto se ci riferisce alla dottrina ufficiale che formulava nel 1935, in Paix et droit54, non è rimasto meno vero che il «sionismo» levinassiano resta abbastanza singolare – è innanzitutto quello di una «politica monoteista», ben lontana dall’idea di uno Stato-rifugio (quel «rifugio durevole» di cui si preoccupava prioritariamente Théodore Herzl). Se si tratta, come nota fermamente Levinas nel 1950 («Il luogo e l’utopia») di «fare Israele», il fare qui non rinvia innanzitutto all’instaurazione di uno Stato o all’identità politica dei cittadini55. Un saggio del 1951, «État d’Israël et religion d’Israël», si impegna ad affrontare questa difficoltà. L’articolo, apparso la prima volta in Évidences, si apre su una nota tristemente ironica: «L’idea del privilegio religioso di Israele finisce per spossare tutto il mondo», ma è tuttavia di «privilegio» o di «missione» che è essenzialmente questione in questo testo.
53. Citato in Françoise Mies, art. cit., p. 213. 54. «L’inspiration religieuse de l’Alliance», ottobre 1935 (Cahier de l’Herne, pp. 144-146). Cfr. F. Mies, art. cit., p. 210 s. 55. Cfr. l’articolo del 1963, già citato, «Carta di identità».
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134 L’importanza dello Stato di Israele non consiste nella realizzazione di un’antica promessa, né nel fatto che segnalerebbe l’inizio di un’epoca di sicurezza materiale – ahimé problematica! – ma nell’occasione che viene alla fine offerta di realizzare la legge sociale del giudaismo. Il popolo ebraico era avido di terra e Stato, non a causa dell’indipendenza senza contenuto che attendeva da loro, ma a motivo dell’opera della sua vita che poteva finalmente cominciare56.
L’opera di cui si fa qui questione supera immediatamente «l’evento politico». I confini dello Stato («piccolo Stato») sono troppo stretti per la dimensione religiosa dell’evento57. Non è a titolo di «fatto stabilito» che è importante considerare lo Stato di Israele, il quale sarebbe insieme giustificato e avrebbe buone ragioni per mettere in opera le condizioni della sua sopravvivenza: no! La sua ragion d’essere, il suo «posto nell’economia dell’essere» rinvia ad una dimensione religiosa, quella della giustizia: «Religione e partiti religiosi non necessariamente coincidono. Giustizia come ragion d’essere dello stato: ecco la religione. Essa presuppone l’alta scienza della giustizia. Lo Stato di Israele sarà religioso per l’intelligenza dei suoi grandi libri che non è libero di dimenticare. Sarà religioso a motivo dell’atto stesso che lo impone come stato. Sarà religioso o non sarà affatto»58. Politica monoteista di nuovo, ma tale che Levinas non si darà pace di distinguere da ogni teologia politica e da ogni onto-politica, a ragione stessa della sua dimensione escatologica. È questo ciò che testimoniano in particolare gli ultimi contributi raccolti in L’aldilà del versetto,
56. Difficile libertà, p. 272. 57. «Una storia religiosa prolunga – come un impero illimitato, e fino a un vertiginoso passato – la modesta estensione del suo territorio. Ma diversamente dalle storie nazionali, questo passato – al pari di un’antica civiltà si fissa al di sopra delle nazioni» (ibid., p. 270). 58. Ibid., p. 272 s.
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letture e discorsi talmudici, ed è anche uno dei punti sul quale ritorna con insistenza Levinas nella sua «prefazione» (1981): «I nostri tre studi raggruppati sotto il titolo di Sionismi, tendono soltanto a mostrare in qual modo l’opera storica dello Stato, della quale non si può fare a meno nel mondo estremamente politicizzato del nostro tempo, opera di coraggio e di lavoro che si vuole laico, si impregna in Israele, fin dal principio, e progressivamente, di pensieri giovani, ma scaturiti dalla Bibbia; e in qual modo la continuazione e lo sviluppo di questa cultura biblica dovrebbero mostrarsi inseparabili dai fini temporali dello Stato e oltrepassare questi fini. Irriducibile escatologia di Israele»59. * Era già in rapporto a questa politica a-politica (questa politica senza «sorte politica propria», quella della Storia santa) che Levinas rendeva conto di una Conferenza di Jacques Maritain appena pubblicata (1938), presso le éditions du Cerf: «Les juifs parmi les nations»60; nella sua recensione intitolata L’essence spirituelle de l’antisémitisme d’après Jacques Maritain, dichiarava ancora, precisando così la sua nozione di «paganesimo»: Dietro la voglia o l’intolleranza che lo dissimulano, [l’antisemitismo] è la rivolta della Natura contro la Sovranatura, l’aspira59. L’au-delà du verset, Éditions de Minuit, Paris 1982; tr. it. di G. Lissa, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, Guida, Napoli 1986, p. 64. 60. Conferenza tenuta al théâtre des Ambassadeurs nel febbraio 1938 e pubblicata in brochure dalle éditions du Cerf. Vedere anche Jaques e Raïssa Maritain, Œuvres complètes, vol. XII, Éditions Universitaires Fribourg/ Éditions Saint Paul, Paris, pp. 524-550. Il «dossier» completo è stato collocato nel volume Jacques Maritain, L’impossible antisémitisme, preceduto da uno studio molto ricco di Pierre Vidal-Naquet, «Jacques Maritain et les Juifs, réflexions sur un parcours», Desclée de Brouwer, Paris 1994, pp. 9-57.
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136 zione del mondo alla propria apoteosi, alla sua beatificazione nella natura61.
Sempre più nettamente negli anni del dopoguerra, è ancora nell’ambito del «paganesimo» che Levinas condurrà una critica sempre più dura – e certamente non pertinente, ma lascio questo punto da parte – contro Heidegger e ciò che egli chiama il suo «ontologismo»: precisamente perché il pensiero di Heidegger, al di là del suo impegno nazional-socialista (impegno che d’altronde non avrebbe niente di fortuito), non avrebbe considerato la temporalità se non in rapporto al Dasein e al suo «esser sempre mio» (Jemeinigkeit), non avrebbe aperto il tempo alla sua futurizione se non a titolo dell’anticipazione caratteristica del Sein zum Tode, mancando così la vera dimensione del tempo, che è quella dell’avvenire, questo avvenire che mi viene sempre dall’Altro, mancando anche la profondità veramente diacronica che rinvia a un passato immemoriale; così come, se Heidegger vede «l’uomo posseduto dalla libertà, piuttosto che come colui che la possiede» (si può rinviare qui al dibattito di Davos che mette particolarmente l’accento su questo motivo), Heidegger, scrive Levinas, «pone al di sopra dell’uomo un Neutro che illumina la verità senza metterla in questione»62. Se, aggiunge ancora nello stesso articolo, «la libertà dell’uomo dipende dalla luce dell’Essere e, quindi, non sembra essere un principio», se «la libertà heideggeriana è obbediente», questa «obbedienza le permette di sorgere senza metterla in questione, senza rivelare la sua ingiustizia». È in
61. Cahier de L’Herne Levinas, p. 150 s. Cfr. anche, sempre a proposito del paganesimo: «Ciò che distingue in fin dei conti il giudeo-cristianesimo dal paganesimo è, più che una certa morale o una certa metafisica, un sentimento immediato della contingenza e della insicurezza del mondo, una inquietudine di non essere a casa propria, e la forza di uscirne» (ibid., p. 150). 62. «La filosofia e l’idea di Infinito» (1957), ripreso in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 194.
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questo modo che la filosofia di Heidegger non è solamente «ateismo», ma piuttosto «irreligione». Cito ancora, un po’ lungamente un passaggio celebre di questo attacco brutale: La filosofia heideggeriana è proprio il punto culminante di un pensiero in cui il finito non si riferisce all’infinito […], in cui ogni mancanza è debolezza e ogni colpa è tale rispetto a se stessi, punto di arrivo di una lunga tradizione di fiero eroismo, di dominazione e di crudeltà. L’ontologia heideggeriana subordina il rapporto con l’Altro alla reazione con quel Neutro che è l’Essere. E con ciò continua a esaltare la volontà di potenza, la legittimità e la buona coscienza della quale possono essere scosse e turbate solo da Altri. […] Si tratta di un’esistenza che coglie se stessa come naturale, per la quale il suo posto al sole, il suo suolo, il suo luogo orientano ogni significato. Si tratta di un esistere pagano. L’essere lo nomina costruttore o coltivatore, nel quadro di un paesaggio familiare, in una terra materna. Anonimo, Neutro, lo consacra eticamente indifferente e come libertà eroica, estranea a ogni colpevolezza rispetto ad Altri. Questa maternità della terra determina, in effetti, tutta la civiltà occidentale basata sulla proprietà, lo sfruttamento, la tirannide politica e la guerra. […] Heidegger non riassume soltanto un’intera evoluzione della filosofia occidentale, l’esalta anche, mostrandone nel modo più patetico l’essenza antireligiosa, che è diventata una religione alla rovescia. […] Con Heidegger, l’ateismo diventa paganesimo e i testi dei presocratici diventano delle antiscritture. Heidegger mostra in quale ebrezza sia immersa la lucida sobrietà dei filosofi. Le note tesi della filosofia heideggeriana […] portano a compimento il consolidarsi di una tradizione in cui lo Stesso domina l’Altro, in cui la libertà sebbene sia identificata con la ragione, precede la giustizia.
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* L’idea di infinito, magistralmente esplicitata da Levinas, nell’articolo eponimo della Revue de Métaphysique et de Morale, e all’inizio della terza sezione di Totalità e infinito, è esattamente ciò che permette di ridefinire ancora quello che Levinas chiama spesso, in modo inapparente, «Il rapporto sociale», quello che potrebbe essere a fondamento di un’altra politica. Ma quest’altra politica, quella della libertà legata all’eteronomia63, quella della «giustizia» – ed è il punto sul quale vorrei soffermarmi per concludere questo capitolo – è anche (il termine, l’abbiamo sottolineato, non è levinassiano) una teologia politica dal momento che l’esteriorità alla quale rinvia, quella dell’alterità irriducibile di altri, la avrà sempre già iscritta nella «traccia dell’altro», quella della l’illeità o che è l’illeità e la sua «orma» («passée»), come scrive talvolta Levinas che ridà curiosamente onore a un termine un po’ dimenticato di vénerie. Ma prima, resto ancora un istante sul versante critico dell’ontologia politica. In «L’idea dell’infinito» ancora, Levinas oppone a tutte le concezioni dell’ordine sociale fondato sul diritto naturale una concezione della libertà interamente investita dal comandamento o la legge (come eteronomia): Soprattutto nelle teorie politiche moderne, a partire da Hobbes, l’ordine sociale viene dedotto dalla legittimità, dal diritto incontestabile della libertà. Il volto d’Altri non è la rivelazione dell’arbitrarietà della volontà, ma della sua ingiustizia. La coscienza della mia ingiustizia non nasce quando mi inchino dinnanzi ai fatti, ma dinnanzi ad Altri. Nel suo volto, Altri non mi appare come un ostacolo né come una minaccia da valutare, ma come ciò che mi misura. Per sentirmi ingiusto, è necessario che mi commisuri all’infini-
63. Cfr. in particolare «Libertà e comando» (Revue de métaphysique et de morale, 1953), in Etica come filosofia prima, cit., pp. 15-20.
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139 to. Affinché io conosca la mia imperfezione è necessario che io possieda l’idea di infinito, che corrisponde anche, come giustamente afferma Descartes, all’idea di perfezione. L’infinito non mi blocca come una forza che mette in scacco la mia, ma come una forza che mette in questione l’ingenuo diritto dei miei poteri, la mia gloriosa spontaneità di essere vivente. […] È la vergogna che la libertà prova dinnanzi a se stessa scoprendosi assassina e usurpatrice del suo stesso esercizio. […] L’esistenza non è condannata alla libertà, ma giudicata e investita come libertà. La libertà non potrebbe presentarsi nella sua nudità. L’investitura della libertà costituisce la vita morale in quanto tale, che è del tutto eteronoma.
Non ritorno su ciò che Levinas avrebbe talvolta chiamato una «stravagante ipotesi» relativa a una genesi non contrattuale della società civile fondata non sulla limitazione della violenza e del diritto di natura, ma su quella dell’asimmetria della «relazione etica»64. Una delle formulazioni più economiche compare senza dubbio nel dialogo del 1982 con Philippe Nemo65 in cui Levinas è portato a commentare una formula abbastanza oscura di Totalità e infinito: Il reale non deve essere determinato soltanto nella sua oggettività storica, ma anche a partire dal segreto che interrompe la continuità del tempo storico, a partire dalle intenzioni interiori. Il pluralismo della società è possibile solo a partire da questo segreto66.
In cosa consiste, chiede, questa «socialità» differente dalla socialità totale e addizionale? Prima di precisare: «Successivamente la mia preoccupazione è stata questa». […] «Ho tentato
64. Cfr. «Una religione da adulti» (1957), in Difficile libertà, p. 35: «La relazione etica è anteriore all’opposizione delle libertà, alla guerra che, secondo Hegel, innaugura la storia». 65. Etica e infinito, pp. 86-87. 66. Totalità e infinito, p. 56.
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di dedurre la necessità di un sociale razionale dalle esigenze stesse dell’intersoggettività così come la descrivo». Ed ecco l’ipotesi, qui in forma di alternativa: È estremamente importante sapere se la società nel significato corrente del termine è il risultato di una limitazione del principio che l’uomo è un lupo per l’uomo, o se al contrario provenga dalla limitazione del principio che l’uomo è per l’uomo. Il sociale con le sue istituzioni, le sue forme universali, le sue leggi, deriva dal fatto che sono stati posti dei limiti alle conseguenze della guerra tra gli uomini, oppure dal fatto che è stato limitato l’infinito che si apre nella relazione etica dell’uomo all’uomo67?
A l’una o l’altra «società» non risponderanno evidentemente le stesse intuizioni politiche. Un po’ più tardi, nel 1984, Levinas ritorna su questa «ipotesi»: nello studio pubblicato nel 1984, Paix et Proximité, e ripreso nel 1995, in Alterità e trascendenza, studio che si apre sul «problema dell’Europa e della Pace…», Levinas concludeva le sue riflessioni in questi termini: Non è senza importanza sapere – ed è forse l’esperienza europea del ventesimo secolo – se lo stato egalitario e giusto in cui l’europeo trova compimento – e che si tratta di conservare e soprattutto preservare – procede da una guerra di tutti contro tutti – o dalla responsabilità irriducibile dell’uno per l’altro e se esso può ignorare l’unicità del volto e dell’amore. Non è senza importanza saperlo affinché la guerra non diventi instaurazione di una guerra con buona coscienza in nome di necessità storiche. La coscienza nasce come presenza del terzo nella prossimità dell’uno all’altro e, da qui, è nella misura in cui essa ne procede che può farsi dis-inter-esse-mento [désinter-esse-ment]. Il fondamento della coscienza è la giustizia e non il contrario. Poiché l’oggettività si fonda sulla giustizia. Alla stravagante generosità del per-l’altro si sovrappone un ordine ragionevole, ancillare o angelico, della giustizia attraverso
67. Etica e infinito, p. 87.
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141 il sapere, e la filosofia è qui una misura apportata all’infinito dell’essere-per-l’altro della pace e della prossimità e come la saggezza dell’amore68.
Questo motivo è stato molto commentato, sovra-commentato senza dubbio69, e io non intendo riprenderne a mia volta l’esame; ciò su cui vorrei invece, per concludere, attirare l’attenzione, è sul fatto che in realtà «lavora» l’opera e la riflessione di Levinas già molto presto – intendo negli anni cinquanta, per me decisivi, quelli dell’elaborazione in termini molto duri e che le opere successive hanno talvolta temperato. Lo stesso vale per la non meno discussa questione del «terzo», indissociabile naturalmente dalla stravagante ipotesi. I due testi chiave che converrebbe commentare nel dettaglio sono «L’Io e la totalità»70 e «Libertà e comando»71: in una critica molto importante dell’amore e dell’utopia religiosa di una «società dell’amore», «società a due», «società di solitudini, refrattaria all’universalità», Levinas che critica di sfuggita ciò che chiama il «pensiero religioso contemporaneo», quello che ha «pro-
68. Alterità e trascendenza, p. 122 s. Stessa formula in Altrimenti che essere..., p. 205: «Lo stra-ordinario impegno di Altri riguardo al terzo si affida al controllo, alla ricerca della giustizia, alla società e allo Stato, alla comparazione e all’avere, al pensiero e alla scienza, al commercio e alla filosofia e, fuori dall’anarchia, alla ricerca di un principio. La filosofia è questa misura recata all’infinito dell’essere-per-l’altro della prossimità e come la saggezza dell’amore». 69. Cfr. in particolare Miguel Abensour, «L’extravagante hypothèse», in Emmanuel Lévinas et l’histoire, a cura di Nathalie Frogneux e Françoise Mies, le Cerf, Paris 1998 («La nuit surveillée»), pp. 161-187, ripreso in Miguel Abenosur, Pour une philosophie politique critique, Sens&Tonka, Paris 2008; tr. it. di M. Pezzella, Per una filosofia politica critica, Jaca Book, Milano 2011, pp. 319-354. 70. Studio pubblicato nella Revue de Métaphysique et de Morale nel 1954, ripreso in Tra noi, pp. 41-68. 71. Revue de Métaphysique et de Morale, 1953; tr. it in Etica come filosofia prima, cit., pp. 15-30.
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mosso l’amore al rango della situazione esistenziale dell’esistenza religiosa» mancando, allo stesso tempo, «la realtà sociale», aggiunge che in questa «società a due», «il difetto di universalità non dipende qui da un difetto di generosità, ma dall’essenza intima dell’amore. Ogni amore – a meno che non diventi giudizio e giustizia – è l’amore di una coppia», e termina con questa bella formula: «la società chiusa è la coppia»72. Per uscire dalla coppia, vale a dire ad ogni modo per superare la «crisi della religione», che si basa sul «dialogo amoroso», è importante ridefinire «la nozione di Dio e del suo culto a partire dalle necessità ineludibili di una società che comporta dei terzi». Cito: Dio apparirebbe allora non come il correlativo dell’io in una intimità amorosa ed esclusiva, non come Presenza in cui sprofonda l’universo e da cui scaturisce una sorgente infinita di perdono.
No! Dio sarebbe: «Il punto fisso, esterno alla società, e da cui verrebbe la Legge»73. Per Legge, precisa ancora Levinas, qui non si intenderà una non so quale «personificazione della coscienza morale». No! La legge è intesa qui nel senso del «comandamento», inseparabile, aggiunge, «da una certa eteronomia, da un rapporto con l’Altro [l’Altro, qui, non è «altri» nel senso del racconto e dell’asimmetria della società dell’amore], con l’esteriorità». Se l’esteriorità che incarna o meglio, senza dubbio che apre la Legge, sempre eteronoma, non si trasforma in tirannia e in violenza, è perché «la sua esteriorità è l’esteriorità del discorso». Una tale esteriorità si oppone radicalmente al «tra-noi» e al suo «equivoco segreto»: «Isolare un essere fra altri, isolarsi
72. «L’io e la Totalità», in Tra noi, pp. 47, 49, 50. 73. Ibid., p. 50.
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con lui nell’equivoco segreto del tra-noi, non garantisce l’esteriorità radicale dell’Assoluto»74. E Levinas aggiunge, inscrivendo implicitamente quella che sarà la posizione del Terzo, con questa differenza senza dubbio (e il punto meritava certamente di essere rettificato) che l’istanza del «Lui/Egli», ciò che diventerà un po’ più tardi, nello studio dedicato alla «traccia dell’altro» nel 1963, l’«illeità», è ancora qui caratterizzato dal secondo pronome personale, il «tu», il «te» – cito: Solo il testimone irrecusabile e severo che si inserisce «tra noi», rendendo pubblica, con la sua parola, la nostra clandestinità privata, mediatore esigente tra l’uomo e l’uomo, sta di fronte, è te. Tesi che non ha niente di teologico, ma Dio non potrebbe essere Dio senza essere stato in primo luogo questo interlocutore.
La tesi è senza dubbio teologica, come quella di Libertà e comandamento, in cui si legge la stessa «denegazione» a proposito, questa volta, della «creazione»: «La creazione è il fatto che l’intelligibilità mi è anteriore. […] Questa non è una tesi teologica: giungiamo all’idea di creazione partendo dall’esperienza del volto»75.
74. Ibid. 75. «Libertà e comando», in Etica come filosofia prima, p. 27. Nella discussione che fa seguito alla conferenza pronunciata davanti alla Société Française de Philosophie nel 1962, «Transcendance et hauteur», Levinas rispondeva in questi termini a Jean Wahl interrogandosi sulla legittimità di avvicinare l’Altro del totalmente Altro di Kierkegaard («il “totalmente Altro”, per lui, è Dio) – risposta da prendere assolutamente sul serio: «È difficile a dirsi. Sono delle nozioni connesse, lo capisco, ma alla fine il mio punto di partenza è assolutamente non teologico. Ci tengo molto. Quella che faccio non è teologia, ma filosofia», Liberté et commandement, p. 96.
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Non resisto qui al piacere di citare il magnifico finale del saggio «La traccia dell’altro» che dà una testimonianza esemplare dell’esperienza moderna della morte di Dio, o come dice Levinas, della «sua assenza ostinata»: «Il Dio che è passato non è il modello di cui il volto sarebbe l’immagine. Essere a immagine di Dio non significa essere l’icona di Dio, ma trovarsi nella sua traccia. Il Dio rivelato della nostra spiritualità giudaicocristiana conserva tutto l’infinito della sua assenza nell’ordine personale stesso […] Andare verso di Lui non significa seguire questa traccia che non è un segno, ma andare verso gli Altri che si trovano nella traccia»76. Se la tesi è dunque teologica/a-teologica [a-théologique], è anche chiaramente politica poiché mira a «realizzare l’ordine umano», «istituire uno Stato giusto». Certo, in questo stesso saggio del 1953, Levinas correggerà una prima formulazione della tesi che si sarebbe tuttavia trattenuto dal dimenticare nella sua prima formulazione e che ricordo: Ecco dunque la nostra conclusione provvisoria: imporsi un comando per essere liberi, ma precisamente un comando esterno, non una semplice legge razionale, non un imperativo categorico senza difese contro la tirannide, ma una legge esterna, una legge scritta, munita di forza contro la tirannide: ecco in forma politica, il comando come condizione della libertà77.
Si sa, questo comandamento, questa Legge scritta, «razionalità anteriore ad ogni istituzione», rischia in ogni momento di trasformarsi in «ragione impersonale dell’istituzione», «ordine razionale in cui la libertà non si riconosce più», e deve essa stessa, «al di là dello Stato», rinviare a quello che Levinas chiama qui «il discorso prima del discorso», o, enfaticamente, «la
76. Scoprire l’esistenza..., p. 233; cfr. anche Umanesimo dell’altro uomo, p. 91. 77. «Libertà e comando», in Etica come filosofia prima, p. 19.
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Parola»: sono le ultime righe di questo testo: «Abbiamo affermato che il comandamento è Parola o che la vera parola, la parola nella sua essenza è comandamento» [modificata]. «Teologica la Tesi?» ci ritorno: senza dubbio, ma di teologia stranamente negativa, suscettibile a sua volta di fondare una politica negativa o una a-politica a-teologica, ciò che potrebbe ancora essere illustrato con molti altri passaggi del corpus: ne ricordo uno solo che mi sembra particolarmente importante, preso dalle Conferenze tenute al Collège philosophique all’inizio degli anni sessanta (1961-1962), quelle che sarebbero state pubblicate con il titolo «Il significato e il senso» in Umanesimo dell’altro uomo. Levinas che avvicina il problema dell’intersoggettività rinvia a Sartre (cosa che qui non mi sembra affatto indifferente), e afferma: Sartre dirà magnificamente, ma concludendo troppo presto la sua analisi, che gli Altri sono un puro buco nel mondo78.
È evidentemente questo «buco» ad attirare la mia attenzione nella misura in cui raffigura, certo in una metaforica molto più sartriana che levinassiana, questo negativo o questo «vuoto» dell’a-politica o dell’a-teologico-politica: [Altri, puro buco nel mondo] vengono dall’assolutamente Assente. Ma la relazione all’assolutamente Assente da cui essi vengono, non indica, non rivela questo Assente.
Di questo Assente, si dirà che trova la sua «significazione» e non la sua «incarnazione» nel volto, ma, precisa Levinas, «que-
78. Umanesimo dell’altro uomo, p. 89. In L’essere e il nulla, Sartre usa questa immagine volontariamente triviale: «Così improvvisamente è apparso un oggetto che mi ha derubato del mondo. […] L’apparizione di altri nel mondo corrisponde quindi al manifestarsi di uno scivolamento di tutto l’universo; a un decentrarsi del mondo […] Non si tratta di una fuga del mondo verso il nulla o fuori da sé. Sembra piuttosto che il mondo abbia come un foro di scarico, e che esso scoli continuamente da questo buco», tr. it. cit., p. 308.
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sta significanza non è per l’Assente un modo di darsi in cavo nella presenza del volto». «La relazione del volto all’assente è al di fuori di ogni rivelazione e di ogni dissimulazione – una terza via esclusa da questi contraddittori». È per tentare di caratterizzare, malgrado tutto, questa terza via, che Levinas introduce qui, come si sa, il concetto di «traccia»: «L’al di là da cui viene il volto significa come traccia», «il volto è nella traccia dell’Assente…». L’al di là qui, dalla parte di ciò che Levinas aveva chiamato la Legge, nei testi degli anni cinquanta, è adesso determinato o meglio in-determinato, come «La Terza persona», l’«Egli»: Al di là dell’essere è una Terza persona che non è definita dal Se Stesso, dall’ipseità […] L’al di-là da cui viene il volto è in terza persona.
Di questo «Egli» («al di fuori della distinzione dell’essere e dell’ente», precisa Levinas79, non si dirà che lascia una traccia, ma solamente che «è passata», anche se questa traccia o questo «passato», lungi dall’«inscriversi» nell’ordine del mondo, come ogni traccia ontica, «sconvolge» (dérange) quest’ordine: «viene “in sovrimpressione”». In una nota di Altrimenti che essere, Levinas crederà bene di precisare, facendo espressamente riferimento a queste descrizioni del viso nella traccia del Terzo, dell’Egli: L’Illeità dell’infinito nel volto come traccia del ritrarsi che l’infinito in quanto infinito compie prima di sopraggiungere, e che ordina Altri alla mia responsabilità – [di tali descrizioni] riman-
79. Umanesimo dell’altro uomo, p. 89. Rispetto a questa difficile nozione, si può rinviare alle analisi chiarificanti e originali di Stéphane Mosès, «Autour de la question du tiers», in Emmanuel Levinas et les territoires de la pensée, cit., pp. 235-244. Cfr. anche Stéphane Mosès, Figures philosophiques de la modernité juive, le Cerf, Paris 2011, pp. 134-139.
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147 gono descrizioni del non-tematizzabile – dell’anarchico e di conseguenza non portano a nessuna tesi teo-logica80.
Dunque atto! Sapere se queste descrizioni non portano ad alcuna tesi teologia-politica, se non contribuiscono a ritornare al di qua della separazione del religioso e del politico propri alla modernità, è senza dubbio un’altra questione, molto più difficile, che non potrebbe essere trattata senza prendere in considerazione l’insieme delle analisi dedicate da Levinas (qui compresi o soprattutto i Commentaires Talmudiques) al messianismo politico, analisi certamente inseparabili dalle «descrizioni» filosofiche o fenomenologiche, come può darne testimonianza tale passaggio (che mi guarderò dal commentare e che citerò semplicemente per concludere, seppure in modo molto provvisorio – passaggio che rilancia in modo chiaro il dibattito con il cristianesimo), lungo passaggio preso da un commentario al libro di Samuele, in Difficile Libertà: Il Messia sono Io, ed essere Io è essere il Messia. Si vede dunque che il Messia è il giusto che soffre, che egli ha preso su di sé le sofferenze degli altri. D’altra parte, chi è che prende su di sé le sofferenze degli altri se non colui che dice «Io»? L’io in quanto Io, prendendo su di sé tutta la sofferenza del Mondo, si designa da solo per questo ruolo. Designarsi da sé, non sottrarsi fino al punto di rispondere prima ancora che l’appello risuoni : tutto questo è essere Io. L’Io è colui che si è promosso da se stesso a portare tutta la responsabilità del mondo. […] Ecco perché può prendere su di sé tutta la sofferenza di ognuno: non può dire «Io» che nella misura in cui ha già preso su di sé tale sofferenza. Il Messianismo non è altro che questo apogeo dell’essere, ovvero la centralizzazione, la concentrazione o la torsione su di sé dell’Io. Concretamente questo vuol dire che ognuno deve agire come se fosse il Messia.
80. Altrimenti che essere..., nota 19, p. 146.
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148 Il Messianismo, non è la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia : è il mio potere di sopportare la sofferenza di ognuno. È l’istante in cui riconosco questo potere e la mia responsabilità universale81.
81. Difficile libertà, p. 116 s.
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V Il nuovo pensiero: Rosenzweig-Heidegger
Per approcciare questo confronto abbastanza insolito, prenderò come punto di partenza un breve testo postumo intitolato: Vertauschte Fronten, «Fronti scambiati». Testo molto breve scritto da Rosenzweig nel maggio 1929, come recensione della seconda edizione della Religion der Vernunft (Religione della Ragione) di Hermann Cohen1; in realtà, al di là della Recensione, il testo testimonia soprattutto dell’impressione suscitata dalle recenti Conferenze di Davos (nel 1929, dal 17 marzo al 6 aprile) durante le quali si erano opposti Heidegger e Cassirer, in particolare sulla rispettiva interpretazione di Kant, della ragion pratica, della libertà e della finitudine2. Vi è in questo testo una testimonianza tra le tante a proposito di questo colloquio, ma particolarmente inattesa, e che meriterebbe anche di essere paragonata a quella di Emmanuel Levinas. 1. Traduzione francese di M. B. de Launay e A. Lagny, Puf, Paris 1994; tr. it. a cura di A. Poma, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, San Paolo Edizioni, Milano 2004. 2. Rispetto alle Conferenze di Davos, si può consultare oggi la sintesi molto completa ed equilibrata di Peter E. Gordon, Continental Divide, Heidegger - Cassirer - Davos, Harvard University Press, Cambridge /Londres 2010. In italiano il testo si trova nelle Appendici I e II a Kant e il problema della metafisica, cit. pp. 215 ss.
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Il testo verrà pubblicato solo dopo la morte di Rosenzweig, nell’aprile del 1930, in Der Morgen; ripreso nel 1937 in Kleinere Schriften, oggi si trova nel tomo III delle Gesammelte Schriften3. La recensione di Rosenzweig4 verte innanzitutto, in modo critico, su dei punti filologici, per sottolineare le correzioni e anche le rettifiche della seconda edizione di quest’opera maggiore dell’ultimo Cohen. Ma presto spuntano, dietro le critiche filologiche, delle riserve molto più serie e attinenti alla «situazione» dell’opera (la prima edizione risale al 1918), al suo proposito esplicito e a quello che Rosenzweig chiama il suo «aspetto giudaico». Il proposito esplicito dell’opera, ossia «elaborare un’etica e una filosofia della religione ebraica» avrebbe in qualche misura mascherato la sua portata e la sua importanza pour aujourd’hui – questa portata che non si rivela dunque se non a cose fatte, un po’ più di dieci anni dopo la prima edizione dell’opera: l’opera infatti, oltre al suo carattere troppo classico – che aveva in un primo tempo attirato l’attenzione – va ben al di là del «progetto e dell’intenzione» del suo autore; si vuole cioè sottolineare ancora, in altri termini, che l’opera tardiva dell’ultimo Cohen non si lascia reinscrivere in qualche sistema filosofico che ci si sarebbe potuti aspettare o che ci si attendeva:
3. Franz Rosenzweig, Gesammelte Schriften, t. III, Zweistromland, Nijhoff, La Haye 1984, pp. 235-237. La traduzione francese del testo è di Marc de Launay in Philosophie, numero 18, 1988. Una traduzione italiana si trova in F. Rosenzweig, Il filosofo è tornato a casa. Scritti su Hermann Cohen, tr. it. a cura di R. Bertoldi, Diabasis, Reggio Emilia 2003, pp. 107-112. Il testo si trova citato in appendice al presente capitolo. 4. Peter Eli Gordon gli ha dedicato un capitolo (cap. 6 «“An Irony in the History of Spirit”, Rosenzweig, Heidegger, and the Davos Disputation») della sua opera ben documentata, Rosenzweig and Heidegger: Between Judaism and German Philosophy, University of California Press, Berkeley/Los Angeles, 2003.
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151 E infine l’anziano, il settantenne, progetta, all’interno della pianta del suo sistema e da essa limitata e vincolata, la costruzione (Ein- und Anbau), inizialmente non prevista, anzi addirittura esclusa, da inserire e aggiungere, e con questo completamento (Ergänzung) egli non si muove più nel suo tempo, ma, superandolo, entra nel nostro.
È d’altronde ciò che Rosenzweig indicava già lui stesso, ma quasi troppo timidamente nella sua introduzione del 1924 alle Jüdische Schriften di Hermann Cohen5; ecco che oggi è diventato manifesto. Ma cosa esattamente?
5. Ripreso in Gesammelte Schriften, III, Zweistromland, Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, a cura di R. Mayer e A. Mayer, Nijhoff, La Haye 1984, pp. 177-223; tr. it. «Introduzione agli Scritti ebraici di Herman Cohen editi dall’accademia per la scienza dell’Ebraismo di Berlino» in Franz Rosenzweig, Il filosofo è tornato a casa, cit., pp. 15-94. Non mi propongo qui di studiare, in tutta la loro complessità, le relazioni di Franz Rosenzweig con Hermann Cohen. Sono d’altronde state abbondantemente esplorate fino a poco tempo fa da Bernhard Casper, in uno studio importante: «Korrelation oder ereignetes Ereignis? Zur Deutung des Spätwerkes Hermann Cohens durch Franz Rosenzweig», pubblicato in un volume collettivo, a cura di Stéphane Mosès e Hartwig Wiedebach, Hermann Cohens philosophy of Religion, che raccoglie gli atti di un convegno tenuto a Gerusalemme nel 1996. Oggi, si veda soprattutto lo studio molto completo di Myriam Bienenstock, Cohen face à Rosenzweig. Débat sur la pensée allemande, Vrin, Paris 2009. – Ricordo solamente che l’incontro è relativamente tardivo poiché è nel momento in cui porta a termine la sua «Dissertazione» Hegel e lo Stato (tr. it. di Remo Bodei, Il mulino, Bologna 1976), che Rosenzweig fa la conoscenza di Cohen, l’«ultimo Cohen», quello che insegna a Berlino nell’ambito del Lehranstalt für die Wissenschaft des Judentums. È a partire dal novembre 1913, vale a dire immediatamente dopo il suo ritorno all’Ebraismo in occasione della festa dello Yom Kippur, che Rosenzweig segue i corsi di Cohen. Nonostante ciò, durante gli anni della guerra, Rosenzweig redige per sé una serie di note critiche (pubblicate con il titolo Paralipomena, GS. III, 61-124), ancora più critiche dell’Introduzione all’Akademischeausgabe der jüdischen Schriften Hermann Cohens, dell’autunno 1923 (GS. III, 177223). Nei Paralipomena, Rosenzweig scriveva già, a proposito della Religione della ragione, che avrebbe dovuto far uscire dai cardini il suo sistema: è
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Qui la sorpresa è importante: è reso manifesto ciò che ha appena messo in luce la recente conferenza di Davos, quella in cui si sono affrontati, intorno alla domanda: «Che cos’è l’uomo?» (era il tema generale delle Conferenze del marzo 1929), Ernst Cassirer, considerato il più importante allievo di Cohen, l’erede della Scuola di Marbourg, e Heidegger, conosciuto (solamente) grazie alla pubblicazione recente e considerevole di Sein und Zeit6. Ricordiamo che nel momento di Davos, il Kantbuch non è ancora stato pubblicato. Rosenzweig, precisiamo, per tutta una serie di motivi senza dubbio, ma innanzitutto per delle ragioni di salute (è malato e progressivamente paralizzato a partire dal gennaio 1922) non conosce l’incontro
un’opera «a cui solo tramite particolari accorgimenti si poté impedire di far saltare l’edificio del sistema» (III, 183; tr. it. cit. p. 24). Si può leggere anche, nello stesso volume, l’abbozzo di una conferenza, scritta nel novembre 1921: Über Hermann Cohens «Religion der Vernunft»; tr. it. «Sulla religione della ragione di Herman Cohen» in Il filosofo è tornato a casa, cit., pp. 95-99. Dopo aver notato l’importanza dei due concetti fondamentali di «originarietà» e di «correlazione» (già tematizzati nel corso del semestre d’inverno 1913-1914, corso seguito da Rosenzweig: Der Begriff der Religion im System der Philosophie tr. fr. di M. de Launay e C. Prompsy, con il titolo «La religion dans les limites de la philosophie», Le Cerf, Paris 1990; tr. it. di G. P. Cammarota, Il concetto di religione nel sistema della filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996), Rosenzweig sottolineava che la «grandezza dell’opera» riguardava il fatto che l’autore ben lungi dal tentare di dar spazio al «religioso» (das Religiöse) o prenderne le misure, partiva dal religioso per «ordinare e misurare», prima di aggiungere nonostante ciò, tra parentesi: «Il passo ulteriore sarebbe una rielaborazione del grande sistema partendo da questo punto. Ma ovviamente Cohen non lo fece più (non ebbe il tempo di farlo)». Cfr. anche l’Omaggio del 1917/1918, Ein Gedenkblatt, GS., III, pp. 239-240. 6. In realtà, Franz Rosenzweig si mostra molto critico rispetto a Cassirer e della sua pretesa di apparire come l’erede legittimo della Scuola di Marburgo e soprattutto dell’ultimo Cohen; si vedano, in particolare, le testimonianze fornite dalla corrispondenza di Rosenzweig con Margrit RosenstockHuessy (Die «Gritli» - Briefe, Bilam Verlag, Tübingen 2002), pp. 72-73, 79.
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di Davos se non attraverso il resoconto, abbastanza dettagliato che ne ha dato Hermann Herrigel, nella Frankfurter Zeitung, dell’aprile 1929, e senza dubbio anche attraverso i riassunti della Conferenze e il Protocollo delle discussioni, stilato in particolare da Friedrich Bollnow. Rosenzweig scrive, come meravigliato: Heidegger, l’allievo di Husserl, lo scolastico aristotelico, divenuto titolare della cattedra coheniana – cosa che ad ogni “vecchio marburghese” deve apparire come una ironia della storia dello spirito –, ha ora sostenuto contro Cassirer una posizione filosofica, proprio la posizione del nostro, del nuovo pensiero (das neue Denken) [tornerò su questo testo del 1925, che propone anch’esso delle note supplementari – nachträgliche Bemerkungen – posteriori a Stern], la quale è perfettamente in linea con l’“ultimo Cohen”.
In un certo senso tutto il mio proposito, qui-ora, sarà quello di tentare di comprendere questo straordinario capovolgimento, o almeno di esplicitarne alcune condizioni di possibilità e alcune motivazioni. Bisogna ancora senza dubbio notare immediatamente che il capovolgimento qui realizzato è per noi tanto più sorprendente, in quanto siamo, anche noi, chiusi più o meno in una vulgata, stabilita d’altronde a cose fatte, concernente il senso generale dei dibattiti di Davos, quella vulgata alla quale le Memorie della signora Toni Cassirer avevano dato il tono: Io sentivo molto bene ciò in cui consisteva l’avversità (l’opposizione) nei confronti della scuola di Marbourg e di Ernst. E non era molto difficile sapere qual era il cammino in direzione del quale quest’uomo indicava. (Ich fühlte sehr wohl, worin die Gegnerschaft zu der Marburgerschule und auch zu Ernst bestand. Und es war nicht schwer zu erkenne, welchen Weg dieser Mann wies).
Ma lasciamo da parte questo aspetto e proseguiamo ancora un po’ la citazione: si vedrà che la «Gegnerschaft» (l’antagoni-
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smo, l’agonismo o la polemica) non ripugna neanche qui Rosenzweig: Infatti, che altro è, quando Heidegger contro Cassirer assegna alla filosofia il compito di rivelare all’uomo, all’ “ente specificatamente finito”, la propria «nullità», «nonostante la sua libertà», e di «richiamarlo all’asprezza del suo destino, distogliendolo dall’aspetto pigro di un uomo che si limita a utilizzare le opere dello spirito»?
Franz Rosenzweig cita qui un breve passaggio del «Dibattito» Heidegger-Cassirer: Il problema dell’essenza dell’uomo ha soltanto senso ed è soltanto giustificato dal fatto di essere motivato dalla problematica centrale della filosofia stessa, che ha per compito quello di ricondurre l’uomo al di là di se stesso e nella totalità dell’essente, per rendergli così manifesta, nonostante la sua libertà, la nullità del suo Dasein (die Nichtigkeit seines Daseins); una nullità che non è motivo di pessimismo o di sconforto, ma stimolo a comprendere che c’è propriamente azione efficace (Wirken) là dove c’è resistenza e che la filosofia ha il compito di risospingere, in una certa misura, l’uomo nell’asprezza del suo destino (die Härte seines Schicksals) distogliendolo dall’aspetto pigro di un uomo che si limita ad utilizzare le opere dello spirito7.
7. La traduzione francese è di Pierre Aubenque, in Ernst Cassirer – Martin Heidegger, Débat sur le Kantisme et la Philosophie, et autres textes de 19291931, Beauchesne, Paris 1972, p. 46. Come è noto, questo volume, appena pubblicato ha dovuto essere ritirato dalla vendita per delle oscure ragioni di copyright. Queste segnavano così l’oscuro preludio di una inverosimile – e unica al mondo – «politica della traduzione», denunciata a suo tempo da Emmanuel Martineau, e nella quale noi siamo ancora (definitivamente?) impigliati. Heidegger e la Francia! In italiano il testo è disponibile in Martin Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., «Appendice II, Il dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger», pp. 219- 236, il brano citato si trova a p. 232.
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E Rosenzweig prosegue, ritornando questa volta a Cohen e compiendo così il capovolgimento (Vertauschte Fronten), senza alcun dubbio molto ingiusto nei confronti di Cassirer: Che altro è questa formulazione conclusiva del compito filosofico se non quella difesa appassionata dell’«individuo quand même» [formulazione che ritroviamo in Stern] contro il «pensiero erudito-borghese», secondo cui si deve «onorare il pensatore nell’anima e, perciò, considerare il trasporto intellettuale verso l’eternità della cultura come la forza fondamentale e il valore autentico del povero individuo umano» [Rosenzweig cita qui una lettera inviata da Hermann Cohen a August Stadler, nel luglio 1890], cioè la personale fonte vitale di quelle conoscenze dell’ “ultimo Cohen” divenute filosofia soltanto un quarto di secolo più tardi?8
Ecco una filiazione o una maturazione che avrebbe senza dubbio sorpreso Heidegger per primo, lui che non si riferiva in modo critico se non al Cohen interprete di Kant. E quando Rosenzweig prosegue: Se, a Davos, Heidegger ha detto che quello che egli intendeva con «Dasein», non si poteva esprimere con un concetto di Cassirer,
non fa che citare ancora Heidegger, senza saperlo, il quale in risposta ad una domanda sulla traduzione, sottolineava, sempre nel Dibattito con Cassirer: Io credo che quello che definisco come Dasein non si possa tradurre con uno dei concetti di Cassirer.
8. Sull’importanza per Rosenzweig di questa lettera inviata da H. Cohen a A. Stadler, il quale ci vedeva il primo testimone irrecusabile di una «svolta» nel pensiero dell’ultimo Cohen in direzione del «das Individuum quand même» (Introduzione all’edizione delle Judische Schriften del 1924), si veda Peter Eli Gordon, op. cit., pp. 75 ss.
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Quale sarebbe allora la traduzione del Dasein nei concetti di Rosenzweig e del «nuovo Pensiero»? Prima di considerare tale questione, prima di ritornare al confronto, intrapreso da Karl Löwith, tra Heidegger e Rosenzweig9, vorrei innanzitutto interrogare rapidamente, senza tuttavia aggirare lo Stern, da una parte la Urzelle della Stella (estratto di una lettera a Rudolf Ehrenberg, del 18 novembre 1917), e dall’altra le note supplementari, vale a dire il saggio del 1925 «das Neue Denken», Il nuovo pensiero, circa la possibilità di questa inversione, di questo scambio dei fronti. Il punto di partenza di questa «Cellula originaria», Urzelle, è la questione circa una possibile delimitazione, secondo dei criteri puramente filosofici, della Rivelazione o del concetto di Rivelazione. Ossia anche – e più profondamente – il fatto che la questione direttrice è ormai quella della delimitazione della ragione filosofica e della sua autosufficienza. Rosenzweig parte dalla constatazione o dalla descrizione dell’autocomprensione della metafisica o dell’idealismo: La ragione filosofante (die philosophierende Vernunft) si regge sulle proprie gambe e basta a se stessa. Tutte le cose sono in essa comprese e alla fine essa comprende se stessa (begreift sie sich selbst)10.
9. Karl Löwith, «M. Heidegger und F. Rosenzweig. Ein Nachtrag zu Sein und Zeit», in K. Löwith, Sämtliche Schriften, Bd. 8, Metzler, Stuttgart 1984, pp. 72-101. Questo saggio è stato prima pubblicato in inglese, con il titolo «M. Heidegger and F. Rosenzweig or Temporality and Eternity», in Philosophy and Phenomenological Research, 3, 1942/1943, pp. 53-77, – bisognerebbe prendere ugualmente in considerazione le pagine molto dense ed ellittiche che Leo Strauss dedica al rapporto e all’opposizione Rosenzweig/ Heidegger nella sua «Prefazione alla critica spinoziana della religione», tr. cit., pp. 289 ss. 10. «Il nuovo pensiero», tr. it. cit., p. 243.
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La «ragione filosofante» trova dunque il suo compimento in questo atto di auto-concezione, solo atto di conoscenza al quale non si può obbiettare niente, poiché questo prende la forma logica dell’identità: A = A. Ora, quello che interessa qui a Rosenzweig – come già prima di lui allo Schelling della Filosofia razionale pura o dell’Introduzione di Berlino alla Filosofia della Rivelazione –, è ciò che sopraggiunge, o può ancora sopraggiungere, dopo questo riconoscimento, dopo questo compimento del progetto filosofico (compimento simbolizzato da una data e da un nome: Hegel, 1800): Dopo questa ultimazione-compimento che sarebbe stato anche il momento della riconciliazione e della soddisfazione – cito: Quindi, dopo che essa [la ragione filosofante] ha colto tutto in sé e ha proclamato unica ed esclusiva la propria esistenza, l’uomo scopre che egli, pur filosoficamente digerito da molto tempo, è ancora qui (er ist noch da)11.
Ciò che è ancora qui, non è l’Uomo, cum emphasi, che «porta le palme» in segno di vittoria, ma l’«Io», non l’ego del cogito, l’innesto interscambiabile di ogni parola, di ogni discorsività, ma, precisa Rosenzweig, l’«Io che sono polvere e cenere», non l’«Io» dell’universalità, ma l’«Io» inteso come «ganz Privatsubjekt»: «Io, nome e cognome», «Io, polvere e cenere»12. È lui che scopre, alla fine, o meglio dopo la fine: «Ich bin noch da» – e non come nel racconto di Grimm, La lepre e il riccio, citato da Heidegger in Identität und Differenz: «Ich bin schon da». Vale a dire anche – ed è da lì senza dubbio che il 11. Ibid. 12. Genesi, 18, 27. – Per uno studio magistrale delle «persone» nel senso grammaticale del termine, o dei «pronomi personali»: Ich-Du, Er-Es, Wir, rinviamo a Jean-François Marquet, «L’articulation des personnes dans la pensée de Franz Rosenzweig», in Héritage de Franz Rosenzweig, «Nous et les autres», ed. Myriam Bienenstock, Éditions de l’éclat («Bibliothèque des fondations»), Paris 2011, pp. 106-113.
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modo di procedere di Rosenzweig non si lascia avvicinare da quello di un Jacobi per esempio, che rivendica da parte sua, contro Fichte o Schelling, i diritti dell’Offenbarung, o della credenza originaria in rapporto alla ragione, o non si lascia neanche avvicinare dalla protesta di Kierkegaard –, colui che, senza lasciarsi ridurre al silenzio dall’onnipresente, onnipotente filosofia (die Allherrscherin Philosophie, «l’universale dominatrice che è la filosofia» – versus la filosofia nella sua posizione tradizionalmente ancillare in rapporto alla teologia) – continua a philosopher, philosophie-ren! Rosenzweig divide significativamente la parola: «fare» della filosofia, «praticare» la filosofia, filosofare, contro ogni attesa, in quanto «Io, cognome e nome – (Vor- und Zuname)», senza aderire al sapere assoluto, all’Assoluto. Cito di nuovo questo magnifico passaggio: Non è sorprendente che egli [l’uomo o meglio Io, «io, nome e cognome»] «faccia della filosofia», bensì il fatto stesso che egli è ancora qui, che egli ancora si arrischia a respirare faticosamente, che agli ancora «fa»13.
Vale a dire ancora, e Rosenzweig ritrova qui delle formule quasi schellinghiane, che «non solo la ragione è il fondamento della realtà» («tutto ciò che è reale [effectif nel testo francese, N.d.T.] è razionale», secondo la celebre formula della Prefazione dei Lineamenti della filosofia del diritto, che è nel contempo una relazione a doppio senso, poiché «quello che è razionale è reale»), ma che «vi è anche una realtà effettiva della ragione stessa» [modificata, cfr. tr. it. cit., p. 244, N.d.T.]. Soffermiamoci un istante su questo capovolgimento, ribaltamento della formula hegeliana: affermare che c’è una realtà della ragione stessa, equivale a sottolineare anche che «la ragione non è soltanto il fondamento della realtà». Così come l’«essere» di Dio deve essere «separato dal suo concetto» («l’auto-sufficienza»),
13. «Cellula originaria», p. 243 s.
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allo stesso modo la realtà della ragione deve essere separata dal suo concetto (l’auto-coscienza, l’ A=A). Certo, il movimento del pensiero (hegeliano, idealista) consiste nel rinviare la fondazione dell’essere all’auto-fondazione del pensiero, alla νοήσις νοησέως ripresa da Aristotele; e questo riferimento al «pensiero del pensiero» segna, in modo molto importante, il coronamento dell’Enciclopedia. Il riferimento al capitolo sette del libro Lambda della Metafisica interviene come appendice al terzo e ultimo sillogismo (§ 577), quello che ha giustamente per termine medio «la ragione che sa se stessa». Tuttavia, chiede Rosenzweig – e si ritrova qui ancora un sospetto o una obiezione schellinghiana – al di fuori di questo rapporto con l’essere («abgesehen von dieser Beziehung aufs Sein»), l’auto-fondazione del pensiero non è «un semplice giochetto logico» (eine bloße logische Spielerei)? Nella ragione, o meglio «aderente la ragione» (in, oder besser an der Vernunft), c’è – obietta Rosenzweig – qualcosa di extra-razionale, oltre la ragione (etwas an der Vernunft jenseits der Vernunft) e che, in ogni caso, sfugge alla verità intesa come «adaequatio». Rosenzweig rinvia qui al motivo schellinghiano, che si ritrova nelle Weltalter e già nelle Ricerche del 1809: c’è in Dio stesso un’istanza anteriore a lui stesso, che costituisce il suo essere o il suo «fondo oscuro», che rende possibile questa «Verinnerung Gottes», questa «interiorizzazione» che non precede solamente (vor-gehen) ogni esteriorizzazione o ogni rapporto a sé, ma che lo precede (Dio stesso) – un’istanza che è dunque anteriore al suo «Sé», alla sua ipseità (seinem Selbst vorhergeht). Questa è l’ultima realtà, propriamente in-deducibile: Ecce realitas! l’istanza non-divina che vuole solamente essere per sé, il B = B, come scrive Rosenzweig in una algebra più o meno presa in prestito da Schelling. Il B = B opposto all’ A = A
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della ragione filosofante e del suo auto-riconoscimento, autoidentificazione! Ecce realitas: tale è l’istanza che si esaurisce nella sua autoaffermazione (B = B), senza mai dar frutto, poiché l’autoaffermazione di sé, nella sua chiusura, è anche la figura del «No», dell’esclusione, come lo sarà – anticipo – la prima figura dell’ «Io», l’«Io» davanti alla parola rivolta, davanti alla chiamata o alla domanda; in Stern14, Rosenzweig scriveva alla fine di una lunga analisi che bisognerebbe riprendere in tutti i suoi dettagli: «Ich ist stets ein laut gewordenes Nein»: «Io è sempre un No divenuto sonoro»15. Così quello che fa veramente da cominciamento (Anfang) – («come cominciare? Come fare un cominciamento?» si riconosce qui una domanda schellinghiana persistente diretta contro lo Hegel dell’Introduzione alla Scienza della logica16) –, ciò che fa veramente cominciamento è non l’interiorità divina (das bloße “Innen” Gottes), ma l’interiorizzazione, «die Verinnerung» [Rosenzweig sottolinea l’«ung» nel suo aspetto dinamico: l’«interioriz-zazione», se vogliamo], la «discesa» («Niederstieg») di Dio nelle sue proprie profondità. B = B è dunque una istanza che viene prima il pensiero ed il suo a priori o la sua «apriorità», la sua transcendentalità, una «potenza», avrebbe detto Schelling, che il pensiero non raggiunge mai se non attraverso dei concetti limite: «il fondo
14. Edizione di Gesammelte Werke, II, 154; Reinhold Mayer, che ha curato le Gesammelte Werke, ha procurato una edizione separata (Suhrkamp, Stuttgart 19903), alla quale faremo riferimento; la traduzione francese è stata curata da Alexandre Derczanski e Jean-Louis Schlegel, le Seuil, Paris 1982 (2003), l’edizione italiana è a cura di Gianfranco Bonola, Vita e Pensiero, Milano 2005. 15. Tr. it. cit., p. 178. 16. Rinvio qui all’importante lavoro di Franz Fischbach, Du commencement en philosophie, Étude sur Hegel et Schelling, Vrin, Paris 1999.
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ultimo e abissale» (Urgrund), l’«essere di Dio», «l’effettività della ragione»17; Rosenzweig aggiunge in modo molto significativo che colui il cui il pensiero è suscettibile di raggiungere o di «toccare» questi concetti limite non è l’uomo guidato dalla fede, la credenza; non è nemmeno quello del «credente», considerato nella sua esistenza, ma piuttosto quello del «filosofante»18. O piuttosto, ma non vi è qui una semplice correzione o accomodamento: la sola cosa che il pensiero possa cogliere nella sua natura di «B = B» (la sua «B=B-haftigkeit»), «perfettamente translogica, oscura e compatta», è la «realtà umana», o meglio, come diceva Kant (e l’averlo enunciato in modo così conciso è, agli occhi di Rosenzweig, la sua insuperabile grandezza), la libertà in quanto «miracolo nel mondo dei fenomeni». L’uomo puro e semplice che è «ancora qui», da cui io in precedenza presi le mosse – precisa Rosenzweig –, è realmente inizio [commencement, nella tr. francese, N.d.T.]19.
È nel «B=B» che si trova, che si «tocca» o che si sfiora la potenza del cominciamento. Ecco quello che attesta, quello di cui testimonia «fenomenologicamente» l’uomo che dice «Io», nel senso che abbiamo visto (non cartesiano, non fichtiano, non kantiano, in una parola, non «monologico»), nel senso del «Ci sono ancora»20. È così anche che si distingue da tutte le altre figure del B=B, quelle che non saprebbero dire «Io», che non sono «Io», ma «Er-Sie-Es» («ille-illa-illud»), delle istanze della
17. La scrittura, p. 247. 18. Ibid. 19. Ibid. 20. In Stern, Rosenzweig scriveva, tr. it. cit., p. 179: «Solo nel momento in cui l’“io” riconosce il “tu” come qualcosa fuori di sé, e quindi solo quando passa dal soliloquio al dialogo vero e proprio, diviene quell’“io” che poc’anzi pretendevamo essere il No originario fatto suono [Lautwerden, preferirei tradurre, l’emissione vocale]».
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terza persona dunque, tra le quali si possono senza dubbio tessere delle relazioni (Beziehungen, e anche delle relazioni simmetriche), tra le quali si dispiega un «sistema», non solamente teorico, ma teoretico-pratico: il «sistema delle relazioni impersonali», «il mondo nella forma della terza persona». A dire il vero l’«Io» (ancora una volta, non l’«Io=Io» di Fichte21, ma quello che dice «Io sono ancora qui»), l’«Io nome e cognome» non è tale («Io») che in questa relazione molto singolare – che giustamente non è più una «relazione» nel senso di «sistema di relazioni» – quella della chiamata e dell’interlocuzione: l’«Io», scrive ancora Rosenzweig, permane «cupo e muto», come indifferente o inebetito, fino a quando non risuona «la parola redentrice», la domanda: «Adamo dove sei?» (non posso che rinviare qui e su questo punto, allusivamente, allo Stern, tr. it. cit., pp. 180-181, e all’analisi fondamentale della domanda «Dove sei tu?»)22. La domanda non chiede che cos’è il soggetto, non è una domanda circa l’essenza. Non chiede nemmeno «chi sei tu?», ma verte sul luogo, lo spazio, la localizzazione propria dell’avverbio interrogativo: «Dove»? si sarebbe quasi tentati di intenderlo, giocando sulle parole in francese: «Dove è «Tu?» (non: wo bist du? ma wo ist Du) dove è il «Tu»? Questo sembra suggerire Rosenzweig quando scrive magnificamente: “Wo bist Du?” Es ist nicht als die Frage nach dem Du. Nicht etwa nach dem Wesen des Du; das ist in diesem Augenblick noch gar nicht in Sehweite, sondern zunächst nur nach dem Wo. Wo überhaupt gibt es ein Du? – “Dove sei tu? Questo non
21. Come è noto, ci sarebbe molto da dire a proposito di Fichte e del primato dell’intersoggettività (cfr. in particolare I fondamenti del diritto naturale). 22. Cfr. anche il brillante studio di Stéphane Mosès, Système et révélation, La philosophie de Franz Rosenzweig, seconda edizione, rivista e corretta, Bayard, Paris 2003, pp. 108 ss.
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163 è altro che la questione del “tu”. Non però quella circa l’essenza del “tu”; in questo momento essa ancora non è affatto a distanza visibile, ma in un primo tempo la domanda verte unicamente sul “dove”. Dove mai c’è un “tu”? Questa domanda circa il “tu” è l’unica cosa che ci sia già nota di lui. Ma basta all’“io” per scoprire se stesso, per questo egli non ha bisogno di vedere il “tu”. Mentre chiede di lui e mediante il “dove” incluso nella domanda, attesta di credere all’esistenza del “tu”, anche senza che questo gli sia comparso davanti agli occhi, chiama ed esprime se stesso come “io”. L’“io” scopre se nell’attimo in cui afferma l’esistenza del “tu” attraverso la domanda circa il “dove” del “tu”23.
Così, come sottolinea Rosenzweig, l’«Io» risponde, «replica» (erwidern) a un primo «Tu», attraverso cui s’instaura un rapporto, una co-appartenenza («Verhältnis») affatto eterogenea al sistema delle relazioni (il sistema alla terza persona: ille-illaillud) – (in breve, troppo breve!: il sistema della relazioni è il «paganesimo»). La domanda «dove sei tu?», che è anche «comandamento» (a questa domanda, la «giusta» risposta, è quella di Abramo o dei Profeti: «eccomi!»), questa domanda dunque non si rivolge al prossimo, ad una qualche istanza prelevata su un sistema di relazioni indifferenti – quella, per esempio, nella sua forma felice, dei «fratelli reperiti ovunque» (la sorgente, la foresta); ma si rivolge all’uomo che per ora ha obblighi soltanto nei confronti di se stesso, all’«Io sepolto nella propria egoità», di cui non si può prima presupporre altro che l’amor di sé (ama se stesso), l’uguaglianza a se stesso. Solo dopo che ha risuonato la parola (quella che insieme chiama, chiede, ingiunge) l’«Io» può riconoscere nell’uomo il suo «prossimo» (der Nächste), e non solamente un «Mitbewohner der gleichen Welt», un abitante che condivide lo stesso mondo
23. Stern der Erlösung, p. 195; tr. it. cit., p. 180.
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comune, un membro (Mit-Glied) di una stessa grande equazione: A = B. Io riconosco che egli non è un ille-illa-illud, bensì un «io», un «io» come me non coabitante nello stesso spazio privo di direzione e di centro, non un conoscente occasionale di questo viaggio senza inizio e senza fine attraverso il tempo, bensì mio fratello, il consors del mio destino (consors meines Schicksals), uno al quale «va» esattamente come a me, e come me vede un solo binario davanti a sé; mio fratello non è già nel mondo, non in bosco e selva arbusto e acqua, ma nel Signore24.
Si potrebbe essere qui tentati di avvicinare a questa bella analisi di Rosenzweig – che mette in avanti, per fondare la possibilità di una inter-soggettività, o meglio di una fraternità, la relazione primaria o primordiale a un Terzo (in realtà, non si tratta di un Terzo, ma del Primo Io che mi costituisce come un Tu – Dio è colui che per eccellenza può dire «Io»: l’Egologia è innanzitutto teo-logica, è «ego-teo-logia»25; Dio è colui che può dire «Io», e non se ne priva, fino al punto che quando «rivela» il suo Nome, lui si presenta enfaticamente in prima persona: היהא רשא היהא, ’Ehye ’asher ’Ehye, ego sum…26), ma chiudo questa parentesi – si potrebbe – dicevo – essere tentati di avvicinare quest’analisi alla lettura che dà Heidegger dei celebri versi del frammento preparatorio di Friedensfeier: «Versöhnender, der du nimmer geblaubt…»: 24. La scrittura, p. 249. 25. Si trova una analisi analoga in Maître Eckhart, nel suo Commentario all’Esodo III, 14 (In Exodum), ma anche nei Sermoni. Cfr. i Sermoni tedeschi 28, 31, 77, e l’appendice di Alain de Libera, in «L’être et le bien: Exode III, 14 dans la théologie rhénane», in «Centre d’études des religions du Livre», Celui qui est, interprétations juives et chrétiennes d’Exode III, 14, le Cerf, Paris 1986, pp. 161-162. 26. Vedere anche le bella pagine di Rosenzweig e la sua critica di Mendelssohn, a proposito del Nome divino: «“L’Eterno”. Mendelssohn e il nome di Dio», in Die Schrift, Aufsätze, Übertragungen und Briefe, ed. Karl Thieme, Jüdischer Verlag, Athenäum, Königstein/Ts, 1976, pp. 34-50; tr. it. in La Scrittura, p. 98-114.
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165 Viel hat erfahren der Mensch, Der Himmlichen viele genannt, Seit ein Gespräch wir sind Und hören können von einander Molto ha esperito l’uomo. / Molti celesti ha nominato / da quando siamo un dialogo / e possiamo ascoltarci l’un l’altro.
Testo che Heidegger commenta in questi termini (La poesia di Hölderlin27): Il fondo o il fondamento dell’esserci dell’uomo è il dialogo in quanto autentico accadere, evento, del linguaggio/parola.
Ma quali sono, ci si chiederà, gli interlocutori di questo dialogo, di questo colloquio? E Heidegger risponde: Noi – gli uomini – siamo un colloquio [“dialogue” nella tr. fr. cit.]. L’essere dell’uomo si fonda sul linguaggio (Sprache); ma questo accade autenticamente solo nel colloquio. Quest’ultimo tuttavia non è solo un modo in cui il linguaggio si attua, bensì solo come colloquio il linguaggio è essenziale.
Ma tuttavia Heidegger intende anche smarcarsi nel modo più netto dai detti filosofici del dialogo: lui rifiuta infatti ciò che denuncia come l’interpretazione triviale del dialogo: «il fatto di parlare gli uni con gli altri su qualcosa» (das Miteinandersprechen über etwas). La differenza riguarda senza dubbio meno il fatto che Heidegger, dopo Hölderlin, sottolinea il ruolo primordiale dell’ascolto nel colloquio («das Hörenkönnen ist nicht erst die Folge des Miteinandersprechens, sondern
27. Ga., 4, p. 43 – Conferenza di Roma, aprile 1936: «Der Grund des menschlichen Daseins ist das Gespräch als eigentliches Geschehen der Sprache». «Hölderlin e l’essenza della poesia», in La poesia di Hölderlin, tr. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 47. [I testi citati sono adattati alla traduzione francese che ne dà J.-F. Courtine, viene comunque indicato il riferimento alla pagina della traduzione italiana citata. N.d.T.]
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ehe umgekehrt die Voraussetzung dafür» – il poter ascoltare, lungi dall’essere una semplice conseguenza di parlare gli uni con gli altri, ne è al contrario il presupposto), che l’insistenza sull’Unità del dialogo: dialogo non c’è che dell’Uno, intorno o a partire da Uno e lo Stesso. Noi siamo Uno, attraverso il dialogo. Cito: L’unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale è manifesto quell’uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi28.
Così il dialogo è sempre ciò attraverso cui o in favore del quale gli dei giungono alla parola, ciò attraverso cui un mondo appare. Ciò che qui è importante, è che l’interlocuzione umana è interamente passata sotto silenzio anche in questa nominazione degli dei o questo sorgere di un mondo comune (i «fratelli»). Gli dei possono venire alla parola – sottolinea ancora Heidegger – solo se essi stessi ci chiamano e ci reclamano. La parola che nomina gli dei è sempre una risposta a questo richiamo. Questa risposta ha origine di volta in volta dalla responsabilità di un destino29.
In questa stessa prospettiva di un avvicinamento rischioso tra due analisi che sembrano fondare l’interlocuzione su una prima chiamata, quella del dio o dell’Altissimo, si può notare ancora che Rosenzweig sottolineava già anche lui questa dimensione d’evento (Ereignis), questa evenemenzialità insistente (ein geschehenes Geschehnis) della parola o della parola rivolta (Wort) che sola apre lo spazio del prossimo come Tu, come altro «Io» uguale a Me:
28. Ibid. 29. Ibid., p. 48 s.
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167 Solo il fatto che dall’Uno A=A la parola (das Wort) è giunta a B=B, questo soltanto conduce B=B, oltre se stesso e solo in questo accadimento (Ereignis) a lui accaduto egli può pensare un altro B = B, cui sia accaduto lo stesso, un prossimo che è come te. Non muovendo dalla propria essenza o dalla purezza del proprio cuore si scopre l’altro ma partendo da un accadimento (Ereignis) che a lui è accaduto e dalla sordità del proprio cuore30.
Così il confronto appena abbozzato risulta inconcludente, come può ancora confermare il commentario che dà Heidegger della poesia Andenken (Corso dell’inverno 41/42): Doch gut Ist ein Gespräch und zu sagen Des Herzens Meinung, zu hören viel Von Tagen der Lieb’, Und Thaten, welche geschehen
È bene invece Un colloquio e dire L’avviso del cuore, molto udire Di giorni dell’amore e di fatti che accaddero31.
Subito dopo – lo ricordo rapidamente, ma il punto è di importanza capitale –, Hölderlin chiedeva: «Dove sono, però, gli amici? Bellarmino con il compagno?» Heidegger, nel suo commento, riconduce immediatamente questa determinazione del colloquio (dialogue) all’abbozzo di Friedensfeier: «sappiamo che das Gespräch è il nome per l’incontro (Entgegnung) tra uomini e dei». Il colloquio è sempre da considerare nell’orizzonte della «festa», nel senso dell’unità del Geviert (Quadratura): das kommende Fest – la festa a venire32. – Aggiunge Heidegger: 30. «Cellula originaria», p. 250, [Nella tr. it. cit. si usa il termine «accadimento» per tradurre «Ereignis», il termine utilizzato nella traduzione francese è, invece, «événement». Nella presente traduzione, in tutti i casi eccetto che nelle citazioni di traduzioni già esistenti si utilizzano i termini «evento» o «avvenimento» per tradurre il termine francese «événement». N.d.T.]. 31. Ga., 52, pp. 156 ss; tr. it. di C. Sandrin e U. Ugazio, L’inno Andenken di Hölderlin, Mursia, Milano 1997, p. 133. 32. Ibid., p. 157; tr. it. cit., p. 134.
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168 Il colloquio, secondo la sua essenza originaria, è, nell’incontro, quel tratto unificante (das Einigende in der Entgegnung) mediante il quale gli uomini e gli dei si promettono reciprocamente (einander zusagen) la loro essenza (Wesen). Inteso in questo modo, il colloquio è «colloquio celeste». […] Il colloquio non è un modo di utilizzare il linguaggio. È piuttosto il linguaggio ad avere nel colloquio la sua origine, ossia nella festa e dunque in ciò in cui la festa si fonda [modificata, N.d.T.].
* Nel pensiero di Rosenzweig, i concetti di creazione e di redenzione si vedono assegnare un valore critico rispetto alla concezione greca, archeo-teleologica, del mondo, ma anche e forse di più in rapporto alla circolazione del «Geviert»33. Non si potrebbe avvicinare al «dialogo» hölderliniano, interpretato da Heidegger, la Rivelazione, nel senso di Rosenzweig, in quanto vero «Mittelpunkt», punto mediano [nella tr. it. di Urzelle l’espressione è resa con «punto centrale», Cfr. tr. it. cit., p. 250, N.d.T.]. Lungi dall’annunciare una «festa a venire» o «che viene», la Rivelazione è del presente, meglio è il “presente” e in questo modo precisamente rivelazione del Nome (Ex., III, 14). Avviene al «punto», i.e. all’ «Io» nella sua «puntualità» (Punkthaftigkeit), al «punto rigido, sordo, indifferibile», all’ «Io caparbio» (l’«Io» che è «No») che «ormai io sono» (è la «fattualità» – Rosenzweig parla di «reine Tatsächlichkeit»)34. 33. Cfr. su questo punto la suggestiva opera di J.-F. Mattéi, Heidegger et Hölderlin, Le Quadriparti, Puf. («Épiméthée»), Paris 2001. 34. Cfr. Das neue Denken, GS., IV, 158: «Ne La stella della redenzione, all’inizio, prima di tutti i dati di fatto dell’esperienza reale (vor allen Tatsachen der wirklichen Erfahrung), è immessa l’esperienza della fatticità (Tatsächlichkeit). Della fatticità che impone al pensiero, in luogo della sua parola prediletta “propriamente” [«ce qui est propre» nella traduzione francese] (Eigentlich), la piccola parola fondamentale in tutte le esperienze, desueta sulla sua bocca, la congiunzione “e” (und)». Come nei «sintagmi»: «Dio e il mondo e l’uomo…» (tr. it. in La scrittura, p. 279).
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Nella Stella, come abbiamo già ricordato, Rosenzweig scriveva già: Io è sempre un “no” divenuto sonoro. Con “io” si erige sempre una contrapposizione, esso è sempre sottolineato, sempre accentuato, è sempre un «ma io». – Ich ist stets ein laut gewordenes Nein. Mit «Ich» ist immer ein Gegensatz aufgestellt, es ist stets unterstrichen, stets betont; es ist immer ein «Ich aber»35.
Se la Rivelazione o – che è lo stesso – il presente della Rivelazione avviene all’«Io» nella sua «puntualità», è anche perché, a differenza degli «ideali», dei «valori», degli «imperativi» filosofici, si fa direttamente carico di questa dimensione «negativa» dell’«Io», dell’«Io come No» – cosa che non ha nulla a che vedere con una qualsiasi inautenticità! Poiché la Rivelazione non rivendica l’abbandono (Hingabe) nel senso in cui lo esigono gli ideali e gli «imperativi» filosofico-ideologico-politici: «abbandonati a me» e così «diventa chi sei»! La Rivelazione dice al contrario: «fai la mia volontà», «compi la mia opera»! L’altissimo, invece di esigere la nostra donazione totale, si dà Egli stesso a noi, … discende fino a noi, … ci promette profeticamente esodo [dépossession nel testo francese] dal sé (Entselbstung36).
* Vorrei ora proseguire il commento «circolare» della Recensione che ho preso come punto di partenza (Fronti scambiati), rivolgendo la mia attenzione al saggio del 1925: Das neue Denken (nachträgliche Bemerkungen zum «Stern der Erlösung»). Il testo, che è apparso anch’esso in Der Morgen, fascicolo 4, nel 1925, rappresenta in qualche modo come una «postfazio35. Tr. it. cit., p. 178; GS., II, p. 193. 36. «Cellula originaria», tr. it. cit., p. 251.
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ne» alla Stella della Redenzione. Rettifica alcune contraddizioni, mette in guardia contro possibili interpretazioni erronee e, con questo scopo, si impegna anche a spiegare la struttura «sistematica» dell’opera, insistendo in particolare su quello che ci interessa in rapporto alla questione «tempo e linguaggio» e che serve anche da filo conduttore a questo confronto: Heidegger-Rosenzweig; dopo il libro I, il libro logico di Stern, tutto cambia: si accede al «racconto» (in eco, senza dubbio, allo Schelling delle Età del mondo); qui il tempo diventa reale/effettivo («wirklich») e diventa importante prenderlo sul serio. Il tempo vi emerge come effettivo, nel senso per cui «non è che ciò che accade accada nel tempo, [ma piuttosto] è il tempo stesso ad accadere». Tesi opposta alle prospettive logiche (o razionali o negative) del primo libro secondo le quali «l’essenza non vuole saperne del tempo». Con il secondo libro dunque, la «Reihenfolge», la successione diventa significativa. Infatti il Nuovo pensiero è quello che sa «che non si può conoscere in modo indipendente dal tempo», che non può sapere nulla «se si emancipa dalla tutela del tempo», come traduce con grande eleganza Marc de Launay37. La connaissance est à chaque instant liée à cet instant. Rien ne peut être libéré de sa temporalité.
Poiché è la temporalità ad essere anche il segreto delle relazioni (Beziehungen) attraverso le quali solamente Uomo, Mondo, Dio possono aprirsi, uscire dalla loro enigmatica chiusura: questa temporalità scandita da questi tre momenti o «età» che sono la Creazione, la Rivelazione, la Redenzione. In questa Postfazione, Rosenzweig insiste ancora su ciò che
37. GS., III, p. 149., Tr. fr. in Gérard Bensussan, Marc Crépon, Marc de Launay, Foi et savoir, autour de l’Étoile de la rédemption, Vrin, Paris 2001, p. 156; tr. it. in La scrittura, cit., p. 268: «Il conoscere ad ogni istante è legato proprio a quell’istante. Niente può essere separato dalla sua temporalità».
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rappresenta ai suoi occhi la doppia novità metodologica del «Nuovo Pensiero»: si fonda sulla temporalità e sostituisce al «metodo del pensiero» il «metodo del linguaggio». Nel secondo piano di questa sostituzione, si erge l’opposizione esplicita (e per noi capitale): «il pensiero è senza tempo, vuole esserlo…, il linguaggio è legato al tempo, si nutre di temporalità». Ora il linguaggio di cui il legame al tempo è così affermato, non è il monologo, vale a dire anche il pensiero come dialogo dell’anima con se stessa, ma il «dialogo», il «colloquio»: Parlare [le langage nella tr. fr., N.d.T.] è legato al tempo, si nutre di tempo, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia che siano gli altri a dargli la battuta. Vive soprattutto della vita di altri, siano essi l’uditore della narrazione, l’interlocutore del dialogo o il membro del coro, mentre il pensare è sempre solitario…38.
Nel dialogo autentico, noi non sappiamo in anticipo quello che vogliamo dire, né se diremo qualcosa. E se restiamo silenziosi non è perché le parole ci mancano, ma, precisa Rosenzweig, perché «… abbiamo bisogno di tempo. Avere bisogno di tempo significa non poter anticipare nulla, dover attendere tutto, per ciò che è proprio essere dipendenti dagli altri»39. * Cito un po’ a lungo, per memoria, questa analisi magnifica: Il dialogo vero è il teatro di un evento; io non so prima che cosa l’altro mi dirà perché in realtà non so neppure che cosa dirò io, anzi non so neppure se parlerò; potrebbe anche essere l’altro a cominciare. […] Il pensatore conosce in precedenza i propri pensieri, il fatto che egli li «esprima» è solo una concessione
38. Tr. it. cit., p. 271. 39. GS., III, pp. 151-152; tr. it. cit., p. 271.
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172 alle carenze dei nostri – così li chiama – mezzi di comunicazione interpersonale, le cui carenze non stanno nel fatto che abbiamo bisogno del linguaggio, bensì nel fatto che abbiamo bisogno di tempo (Zeit brauchen). Avere bisogno di tempo vuol dire non poter anticipare nulla, dover attendere tutto, per ciò che è proprio essere dagli altri (mit dem Eigenen vom andern abhängig sein). Per il pensatore pensante tutto ciò è assolutamente impensabile, mentre corrisponde appieno al «pensatore del linguaggio» (der Sprachdenker). «Pensatore» del linguaggio: perché naturalmente anche il nuovo pensiero, il pensiero che parla (das sprechende Denken), è un pensiero; così come il vecchio, il pensiero pensante, non avveniva senza un interno parlare. La differenza tra pensiero vecchio e nuovo, tra pensiero logico e pensiero grammaticale, non consiste nell’esprimersi a voce alta o a bassa voce, bensì nel fatto che il nuovo pensiero ha bisogno dell’altro o, che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo ; qui pensare significa non pensare per nessuno e non parlare a nessuno (o, se a qualcuno suona meglio, al posto di nessuno si può anche mettere tutti, «la famosa collettività» [Allgemeinheit]), parlare invece significa parlare a qualcuno e pensare per qualcuno, e questo qualcuno è sempre ben preciso, e non ha soltanto orecchie, come la collettività, ma ha anche una bocca.
* Qui ancora lo scarto si approfondisce subito in rapporto alla meditazione heideggeriana della Sprache (lingua-parola). Rosenzweig non sosterrebbe assolutamente un annuncio del tipo: «Die Sprache spricht» (ὁ Λόγος λέγει)40, e quando codetermina il «nuovo pensiero» come «Sprachdenken» («sprechendes Denken») o distingue le analisi logiche dalle analisi
40. Questo greco inventato, pseudo-eraclitiano, costituisce certamente la matrice del celebre «la parola parla».
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«grammaticali», non è certamente per opporre al linguaggio del pensiero, oppure al «poématiser» (nell’orizzonte allargato (élargi) del «Dichten-Denken»), la comunicazione, l’emissione vocale, la degradazione o la degenerazione alla quale si espone necessariamente l’espressione, e in fin dei conti la chiacchiera. Per Rosenzweig, se il pensatore (nuovo), quello del neues Denken è Sprachdenker, se si affida al linguaggio – ciò che Rosenzweig chiama anche il «pensiero grammaticale»41 – è innanzitutto nel senso in cui questo linguaggio è primariamente ed essenzialmente quello dell’Io e del Tu. L’Io qui non è quello del monologo, nemmeno del «monologo divino», quello che presiede alla Creazione dell’uomo42; è quello della risposta e dell’obbedienza, quello di Abramo: «Hier bin ich!» – Eccomi, io sono tuo (Ich bin dein43). Se Rosenzweig, come Heidegger, intende distruggere o smantellare (per usare delle formule heideggeriane!) il pensiero logico, intende farlo secondo dei modi di procedere molto differenti e con dei presupposti, per così dire, opposti: la Sprachdenken infatti non si dispiega nell’orizzonte della domanda dell’essere o della domanda: «come dire l’essere nella sua differenza con l’ente?», o, ancora più profondamente e secondo le ammirabili formule di Unterwegs zur Sprache, come rispondere alla Differenza (Zwiefalt) essere/essente44. E se di fatto, lo Sprachdenken prende il tempo sul serio, è nella misura in cui risponde ad una ingiunzione o una chiamata dell’altro: il tempo è qui innanzitutto,
41. Su questo tema maggiore, si veda Robert Gibbs, Correlations in Rosenzweig and Levinas, Princeton University Press, Princeton 1992, pp. 62 ss. 42. La stella della redenzione, p. 179 s. 43. Stern, p. 196, p. 203; tr. it. cit. p. 180, p. 188. 44. Ga., 12, Unterwegs zur Sprache, «Aus einem Gespräch von der Sprache», pp. 118-120; tr. it. «Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio», in In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973, p. 103 s.
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quello che Levinas – che scrive, per così dire, tra le righe di Stern – riprenderà magnificamente, il tempo dell’altro: Il nuovo pensiero ha bisogno dell’altro… o, che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo.
È così anche che la problematica della destinazione (adresse), ugualmente presente in Rosenzweig e in Heidegger45, riceve nei due autori una inflessione decisamente differente: per Rosenzweig, parlare è innanzitutto parlare a qualcuno e pensare per qualcuno. Alla «distruzione» heideggeriana della logica potrebbe corrispondere in Rosenzweig la «grammatica»: ma qui le forme della grammatica si articolano secondo il trittico: creazione, rivelazione, redenzione. La Grammatica è qui innanzitutto o principalmente grammatica del Nome, inteso non come «Wort» (Heidegger commentatore di Stefan George), ma come «nome proprio» (Eigenname)! Ed è ancora in riferimento al Nome dell’Esodo che Rosenzweig scriveva magnificamente, in Stern: Con la chiamata mediante il nome, la parola della rivelazione entrava nello scambio dialogico reale; nel nome proprio è collocata la breccia che interrompe il rigido muro della cosalità. Ciò che ha un proprio nome non può più essere cosa, non può più essere di tutti, è incapace di entrare senza residui nella specie, poiché non c’è specie cui appartenga, è specie a se stesso. E così pure non ha più un suo posto nel mondo, ne un suo attimo nell’accadere, ma porta con sé il suo “qui” ed il suo “ora” do-
45. Questa problematica è stata magistralmente messa in evidenza da J. Derrida, De l’esprit, Heidegger et la question, Galilée, Paris 1987; tr. it. di G. Zaccaria, Dello Spirito, Heidegger e la questione, Feltrinelli, Milano 1989, p. 104 s; Si veda anche Jean-Luc Nancy, L’adoration, Déconstruction du christianisme, 2, Galilée, Paris 2010; tr. it. di R. Borghesi e A. Moscati, L’adorazione, Decostruzione del cristianesimo, Cronopio, Napoli 2012, pp. 26 ss.
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175 vunque egli vada; là dove egli è, è un centro, e quando egli apre la bocca è un inizio46.
Così tutte le somiglianze con Heidegger che potrebbero sembrare imporsi di primo acchito, si rivelano in definitiva erronee, e più ancora, degli aspetti del pensiero di Rosenzweig possono metterci in guardia contro, o in ogni caso renderci innanzitutto attenti alle differenze assolutamente irriducibili. Consideriamo solamente questa tesi fondamentale: […] qui solo il presente è presente, il passato è solo già stato e quanto ha da venire solamente verrà. Ma di questi tre solamente il presente è tempo nel senso più temporale47.
Il presente è tempo? In che senso? Il tempo qui non è quello della temporalità «volgare», quello che Aristotele avrà magistralmente elucidato in Fisica IV, come filo conduttore del movimento (esso è κινήσεως τι – qualcosa del movimento), questo tempo «volgare» di cui Heidegger avrebbe mostrato, in particolare nel corso del 1927, i Problemi fondamentali della fenomenologia48, non è un tempo che trova le sue stesse radici e il suo terreno nel tempo «vissuto», quello della databilità o del calendario, ma un tempo «liturgico»; quel tempo liturgi-
46. Stern, p. 208; tr. it. cit., p. 192: «Mit dem Anruf des Eigennamens trat das Wort der Offenbarung in die wirkliche Wechselrede ein ; im Eigennamen ist Bresche in die starre Mauer der Dinghaftigkeit gelegt. Was einen eigenen Namen hat, kann nicht mehr Ding, nicht mehr jedermanns Sache sein ; er ist unfähig, restlos in die Gattung einzugehen, denn es gibt keine Gattung, der es zugehörte, es ist seine eigene Gattung. Es hat auch nicht mehr seinen Ort in der Welt, seinen Augenblick im Geschehen, sondern es trägt sein Hier und Jetzt mit sich herum ; wo es ist, ist sein Mittelpunkt, und wo es den Mund öffnet, ist ein Anfang». 47. «Il Nuovo pensiero», p. 275 s. 48. Ga. 24, pp. 363 ss.; tr. fr. J.-F. Courtine, Gallimard, Paris 1985, tr. it. a cura di A. Fabris, I problemi fondamentali della fenomenologia, Il Nuovo Melangolo, Genova 1998.
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co secondo il quale, come scriveva Rosenzweig, «il corso del tempo, infigurabile […] si forma in una rappresentazione dai contorni precisi». Ma il presente è anche – e in questo modo ritroviamo l’altro – indipendentemente da o al di là della dimensione di filosofia religiosa propria al «tempo liturgico», ciò in rapporto a cui io sono sempre in ritardo. Il presente è costituito come tale dall’incontro dell’altro. A dire il vero su questo punto difficile dell’incontro, occorrerebbe poter esaminare in modo più completo il modo di procedere, molto complesso del pensiero di Heidegger che si sforza anche insieme di fare riemergere il basamento esistenziale/esistentivo della concezione aristotelica (presa qui come paradigmatica) e di riguadagnare l’esperienza kairologica della cristianità primitiva (commentando Paolo). Si trova certo, in Rosenzweig come in Heidegger, un pensiero che prende sul serio il tempo o la temporalità incentrata sull’istante (Augenblick) contro la νῦν aristotelica, lo «Jetzt» (l’ «ora»). E anche se – cosa di cui si può seriamente dubitare – si ponesse, come uno sfondo (arrière-plan) comune alle concezioni di Heidegger e di Rosenzweig, lo Schelling delle Weltalter (il sistema dei tempi, l’organicità del tempo, la «decisione»), resterebbe tuttavia ancora una differenza fondamentale, già evocata: l’esperienza del tempo che analizza Rosenzweig non è «esistenziale», è innanzitutto «dialogica». Nel momento in cui Heidegger caratterizza (almeno in Sein und Zeit e nel periodo preparatorio dei corsi di Marbourg) la temporalizzazione originale del tempo come ciò che l’esserci (il Dasein) – che qui si relaziona a se stesso (non si osi parlare di «riflessività», ma alla fine è l’ente per il quale ne va in se stesso, per se stesso, del suo essere) – trattiene nella sua «proprietà», nella sua «autenticità» (Eigentlichkeit), ritornando a se stesso nello stesso tempo in cui accede a sé a partire dalla
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sua possibilità più propria (la morte – secondo la struttura del «Sein-zum-Tode»), Rosenzweig da parte sua descrive l’esperienza originaria della temporalità come evento, quell’evento nel quale l’uomo meta-etico è chiamato fuori da se stesso e supera così la sua chiusura. Per Rosenzweig, il tempo si temporalizza innanzitutto in un evento, un accadere (Geschehen) del linguaggio (langagière), che non è innanzitutto caratterizzato dal fatto che l’esserci si esprime nel momento in cui si rapporta alle sue possibilità o le manca inautenticamente, ma piuttosto nel fatto che la parola dell’altro (domanda, chiamata comandamento – Befehl) fa un cominciamento, comincia per l’esattezza (cfr. la problematica schellinghiana già richiamata!). * Ecco certo quanto basta ampiamente a giustificare il privilegio accordato, negli studi su Rosenzweig, alla relazione Rosenzweig/Schelling, espressamente rivendicata, a più riprese, in rapporto alla relazione (attestata dall’unica Recensione «Vertauschte Fronten») Rosenzweig/Heidegger, o ancora in rapporto alla possibile inscrizione di Heidegger nei «Neues Denken»49. Sotto questo nome, Rosenzweig intende una svolta epocale, che è legata forse a ciò che lui stesso chiama la fine della filosofia: finis philosophiae?50: Proprio da questo punto, in cui la filosofia sarebbe alla fine del proprio pensare, può iniziare la filosofia esperente (erfahrende Philosophie).
49. Tr. it. in La scrittura, cit., pp. 257-282. 50. Ibid., p. 262.
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A questo fa ancora eco, alla fine dello studio sul «Neues Denken», la rivendicazione (schellinghiana?) di un «empirismo assoluto»51! Precisiamo ancora che Rosenzweig non intende evidentemente appropriarsi di questo «neues Denken»: si tratta di un «metodo» che si delinea in autori così diversi come Feuerbach, Hermann Cohen, Eugen Rosenstock, Rudolf Ehrenberg, Ferdinand Ebner52... Metodo che, ricordiamolo, «si fonda sulla temporalità» e che è anche – nello stesso tempo – fondato sul linguaggio: Così il nuovo metodo scaturisce dalla temporalità del nuovo pensiero. Questo in tutti e tre i libri, ma in modo più perspicuo nel libro che è il cuore di questo volume e quindi di tutto: il secondo, il libro della rivelazione presente. Il luogo del metodo del pensare, così come è stato costruito in tutta la filosofia precedente, entra in campo il metodo del parlare. Il pensiero è senza tempo, vuole esserlo, vuole porre mille collegamenti in un sol colpo, l’ultimo, l’obiettivo, è per lui il primo. Parlare è legato al tempo, si nutre di temporalità, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia che siano gli altri a dargli la battuta. Vive soprattutto della vita di altri, siano essi l’uditore della narrazione, l’interlocutore del dialogo o il membro del coro, mentre il pensare è sempre solitario, anche se avviene in comune tra più persone che stanno «filosofando in comune» (symphilosophierenden; nella tr. fr. cit. si usa l’espressione «philophe à l’unisson». N.d.T.) […] Il vero dialogo è precisamente il teatro di un evento; io non so prima che cosa l’altro mi dirà, perché in realtà non so neppure che cosa dirò io… 53.
51. Ibid., p. 282. 52. Ibid., p. 272. 53. «Il nuovo pensiero», p. 270 s.
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Vi è tuttavia, ci si chiederà per concludere, almeno un diritto relativo alla sorprendente filiazione proposta da Rosenzweig: Cohen-Heidegger, Heidegger-«Neues Denken»? Senza dubbio, se si sottolinea, in maniera molto generale, la comune volontà di rottura con la metafisica dell’idealismo tedesco; questa rottura segnata in particolare dalla temporalizzazione della verità (o più precisamente la questione dell’essere nel tempo), quella che viene al centro della II parte di Stern, vale a dire del secondo volume (Rivelazione). Ma ancora, questa rottura assume in Heidegger la figura della «distruzione», mentre nella prima parte della Stella («Gli elementi»), la parte propriamente «negativa» si sviluppa secondo il modello schellinghiano dell’opposizione: filosofia negativa – filosofia positiva. Se, nella Recensione «Fronti scambiati», Rosenzweig può dichiarare, in maniera decisamente suggestiva, che il «concetto fondamentale dell’ultima filosofia coheniana, la “correlazione”» fornisce un impulso, dà uno «slancio – per dirla in termini heideggeriani – per il “salto nell’esserci” (Einspruch in das Dasein)» ci sembra tuttavia molto difficile seguirlo nella sua conclusione generalizzante: «Heidegger ha sostenuto contro Cassirer una posizione filosofica, proprio la posizione del nostro, del nuovo pensiero, la quale è perfettamente in linea con l’ “ultimo Cohen”». Forse ed è questa la conclusione che proponeva Reiner Wiehl nel suo studio dedicato ai «Fronti scambiati»: «Non si tratta, innanzitutto, per Rosenzweig di pronunciarsi e di dichiarare chi era il vincitore tra i due protagonisti della Disputatio di Davos. O meglio, se, trattandosi di una Disputatio, è importante decidere in merito al vincitore, per Rosenzweig nessuno dei due ne uscirebbe vittorioso. La vera vittoria era quella della cosa-stessa, dell’affaire (Sache); e questo affaire portava alla fine il nome di una persona, di un filosofo al di qua e al di là della disputa di Davos. Il nome del vincitore era Hermann
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Cohen, l’autore di questa grandiosa opera della filosofia della religione, pubblicata postuma con il titolo: Religion der Vernunft aus der Quellen des Judentums»54. Conclusione che, in ogni caso, ha il «merito» (si tratta di un merito?) di rassicurare gli uni e gli altri piuttosto che di spostare le linee e di scambiare, in modo più inquietante, ma tanto più fecondo e interessante, i fronti!
54. Reiner Wiehl, «“Vertausche Fronten”, Franz Rosenzweig Stellungnahme zur Davoser Disputation», in D. Kaegi, E. Rudolph, (ed.), Cassirer – Heidegger, 70 Jahre Davoser Disputation, Meiner, «Cassirer-Forschungen», Bd. 9, 2002, pp. 207-214.
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Fronti scambiati55 Dieci anni dopo la morte di Hermann Cohen, la prima edizione della sua opera postuma dedicata alla filosofia della religione era esaurita. Quella prima edizione era nata sotto una cattiva stella. Il suo testo somigliava a tratti, perfino nei primi due terzi, la cui stampa era stata controllata da Cohen stesso, più alla pubblicazione avventata di un qualunque manoscritto di una vecchia opera che a un libro moderno e oltretutto a un libro coheniano: Cohen, fedele al suo motto, riferitoci da Robert Fritzsche, «l’aspetto filologico deve essere sempre a posto»56, ha sempre curato con particolare attenzione la redazione delle sue opere. In questa seconda edizione, Bruno Strauß ha corretto questa deficienza “filologica” che appesantiva la prima e, dando prova della più bella intelligenza critica come di una empatia alquanto pia, ha saputo, partendo da un campionario esemplare delle possibili alterazioni del testo, ritrovare la lettera originale, la più fedele possibile (lunghe note a margine di altri, in particolare del grande rabbino di Francoforte Nobel, che aveva aiutato il suo maestro e amico, erano state persino integrate nel testo, come avveniva nelle opere anteriori all’invenzione della stampa). Inoltre nei nove anni della sua prima edizione il libro ha avuto perfino un titolo sbagliato. Si intitolava La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, mentre invece il suo vero tito-
55. Riportiamo di seguito il testo nella traduzione italiana presente in Il filosofo è tornato a casa, pp. 107 ss. [La traduzione è stata modificata e adattata a quella francese di Marc de Lunay (Philosophie, n. 18, printemps 1988, pp. 89-92) utilizzata da J.-F. Courtine, N.d.T.] 56. Robert Arnold Fritzsche, Hermann Cohen aus persönlicher Erinnerung, Berlin, Bruno Cassirer, 1922, p. 10.
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lo era: Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo senza l’articolo determinativo – e qui veramente troppo determinativo – aggressivo e intollerante. Ovviamente non si intende nemmeno il contrario, l’articolo indeterminativo, che qui sarebbe veramente troppo indeterminativo. Cohen, lontano sia da un’arrogante esclusività che da un facile prender tutto per buono (Allesgeltenlassen), intende invece la partecipazione all’unica e universale religione della Ragione, partecipazione che gli procurano le fonti dell’ebraismo sgorganti dal suo proprium ereditato (Erbeigentum). Per lui sono queste fonti, per altri fonti diverse. Ma per lui sono proprio queste. A dire il vero: queste fonti ebraiche sono originarie, l’umanità ha attinto da esse. È soltanto la coscienza di questa storia che, in Cohen, si unisce un po’ ad una fierezza umilmente gioiosa, non senza la devota modestia ispirata dalla legittimità di questa partecipazione alla religione della Ragione. Ma così l’aspetto ebraico dell’opera, cioè il compito di un’ “etica e di una filosofia della religione ebraiche”, compito che essa si era proposta di assolvere nel quadro di un’opera complessiva, e al quale ha dato una delle soluzioni classiche – oggi lo si può ben dire – per l’ebraismo, non è quello più importante, comunque non il più importante nel momento attuale e nella situazione filosofica. Oggi, per lo meno, il carattere classico dell’opera è messo in ombra dal suo significato attuale. Questo significato attuale, che poteva rivelarsi solo dopo la morte di Cohen, va ben al di là del progetto e dell’intenzione dell’autore. Egli ha avuto infatti un singolare destino di pensatore. I lavori del suo apprendistato, prodotti nel laboratorio di Kant, specialmente il primo, l’opera del ventottenne, hanno rivoluzionato allora la scienza filosofica del tempo e sono, almeno nel loro risultato negativo, cioè nell’antipsicologismo dell’interpretazione kantiana, generalmente apprezzate e a tutt’oggi, cioè dopo quasi 60 anni, continuano ad avere un va-
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lore inalterato. Alle opere della matuità non è andata altrettanto bene: il proprio sistema fu appena considerato al di fuori dell’ambito ristretto della scuola e anche lì rimase all’ombra dei primi scritti dedicati all’interpretazione kantiana; così il grande sistema riassuntivo, che il tempo sembrava richiedere, non si affermò nel tempo, ma fuori di esso, – opera singolare di uno spirito assai preso dal tempo e tuttavia estraneo ad esso. E infine l’anziano, il settantenne, progetta, all’interno della pianta del suo sistema e da essa limitata e vincolata, la costruzione, inizialmente non prevista, anzi addirittura esclusa, da inserire e aggiungere, e con questo completamento egli non si muove più nel suo tempo, ma, superandolo, entra nel nostro. Infatti, ciò che ancora cinque anni fa, quando io lo scrissi nell’introduzione agli Scritti ebraici di Cohen, poteva sembrare un’opinione personale sulla tendenza filosofica del presente, nel frattempo è divenuto di dominio pubblico. A Davos si è svolto recentemente, davanti a un forum europeo, quel dialogo tra il più importante allievo di Cohen, Cassirer, e l’attuale titolare della cattedra marburghese di Cohen, Heidegger. Hermann Herrigel, nella pagina universitaria della «Frankfurter Zeitung» del 22 aprile 1929, dà un resoconto dettagliato di questo incontro e lo presenta come un confronto rappresentativo tra vecchio e nuovo pensiero,. E qui Heidegger, l’allievo di Husserl, lo scolastico aristotelico, divenuto titolare della cattedra coheniana – cosa che ad ogni “vecchio marburghese” deve apparire come una ironia della storia dello spirito –, ha ora sostenuto contro Cassirer una posizione filosofica, proprio la posizione del nostro, del nuovo, pensiero, la quale è perfettamente in linea con l’ “ultimo Cohen”. Infatti, che altro è, quando Heidegger contro Cassirer assegna alla filosofia il compito di rivelare all’uomo, all’ “ente specificatamente finito”, la propria «nullità», «nonostante la sua libertà», e di «richiamarlo all’asprezza del suo destino,
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distogliendolo dall’aspetto pigro di un uomo che si limita ad utilizzare le opere dello spirito»57, – che altro è questa formulazione conclusiva del compito filosofico se non quella difesa appassionata dell’«individuo quand même» contro il «pensiero erudito-borghese», secondo cui si deve «onorare il pensatore nell’anima e, perciò, considerare il trasporto intellettuale verso l’eternità della cultura come la forza fondamentale e il valore autentico del povero individuo umano» (Lettera di Cohen a Stadler dopo la morte di Gottfried Keller58), cioè la personale fonte vitale di quelle conoscenze dell’ “ultimo Cohen” divenute filosofia soltanto un quarto di secolo più tardi? Se a Davos Heidegger ha detto che ciò che egli indicava con «Dasein», non si poteva esprimere con un concetto di Cassirer, quell’introduzione menzionata ha mostrato proprio nel concetto fondamentale dell’ultima filosofia coheniana, la “correlazione”, che da esso, così come lo usa il tardo Cohen, parte lo slancio – per dirla in termini heideggeriani – per il “salto nell’esserci”. Non è a caso che nell’ultima opera di Cohen si trova questo capitolo generale – il quale supera ampiamente tutto “Marburgo” – che sostituisce la Ragione “produttiva” dell’idealismo con la Ragione creata da Dio, la Ragione come creatura. I superstiti della “scuola” – non Cassirer! – vorrebbero fare del maestro morto un maestro di scuola. La storia dello spirito, grazie al suo vivo progredire, lo salva da tale impresa scolastica; essa non si cura di tali pretese e scambia – poiché ora il morto Cid riprende la sua cavalcata – i fronti. La Scuola muore con il suo maestro di scuola; il maestro vive.
57. Kant e il problema della metafisica, p. 232. 58. Hermann Cohen, Briefe (Bertha e Bruno Strauß, eds.), Schocken Verlag, Berlin 1039, p. 65 (lettera scritta da Marbourg, il 17 luglio 1809 a August Stadler).
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VI L’istante, lampo dell’eternità, Schelling, Rosenzweig, Benjamin
La questione del tempo e della temporalità costituisce senza dubbio il centro segreto del pensiero schellinghiano a partire dal 18091. Lungi dal poter qui distinguere i differenti «momenti» di questa concezione complessa della temporalità, mi atterrò dunque per l’essenziale alla problematica delle Età del mondo, in quanto è proprio questa problematica che avrebbe giocato un ruolo decisivo nel pensiero di Franz Rosenzweig. Come è noto, il progetto delle Età, articolato sulla tripartizione del sapere, del conoscere e del presagire, nel loro rapporto reciproco con le dimensioni del tempo, si dà innanzitutto come racconto filosofico della creazione; la narrazione intraprende un ritorno sul passato o meglio sul principio prima del tempo, ritorno reso possibile dal fatto che l’uomo è essenzialmente definito come un essere di memoria o meglio di reminiscenza: conserva infatti in condivisione una Mitwissenschaft, una conoscenza o una coscienza della creazione. Così l’uomo è fondamentalmente l’animale che si ricorda e, ancora di più, è 1. Cfr. le Philosophische Entwürfe und Tagebücher 1809-1813, a cura di L. Knatz, H.-K. Sandkühler, M. Schraven, Meiner, Hambourg 1994, in cui Schelling scriveva (p. 149): «Il tempo è la cattiva coscienza della filosofia».
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in lui che riposa la memoria di tutte le cose, dei loro rapporti originari, del loro divenire, del loro significato. È questo tratto costitutivamente anamnesico che permette all’uomo, in quanto conserva in lui «un principio anteriore al cominciamento dei tempi», di ripercorrere in senso inverso il lungo cammino degli sviluppi che lo separano dalla notte dei tempi. La questione direttrice – questione filosofica, ma anche esistenziale, legata in ogni caso alla presente condizione umana nella quale sussiste un principio superiore al mondo – è dunque quella del cominciamento del tempo, della creazione nel tempo, della creazione del (dei) tempo(i): L’uomo [il principio sovra-mondano in lui] conserva il ricordo di tutte le cose, dei loro rapporti originali, del loro divenire, della loro significazione. Ma questa immagine originale, questo prototipo (Urbild) delle cose, è assopita nell’anima come una immagine oscurata e dimenticata, sebbene non del tutto cancellata. Forse essa non si risveglierebbe mai, se nel principio oscuro stesso non giacessero il presentimento e la nostalgia della conoscenza2. 2. Die Weltalter. Fragmente in den Urfassungen von 1811 und 1813, ed. Mandfred Schröter, Munich, Beck 1946, p. 4: «Es ruht in diesem die Erinnerung aller Dinge, ihrer ursprünglichen Verhältnisse, ihres Werdens, ihrer Bedeutung. Aber dieses Ur-bild der Dinge schläft in der Seele als ein verdunkeltes und vergessenes, wenn gleich nicht völlig ausgelöschtes Bild. Vielleicht würde es nie wieder erwachsen, wenn nicht in jenem dunkeln selber die Ahndung und die Sehnsucht der Erkenntniß läge»; Una traduzione italiana di questo testo è disponibile in Le età del mondo. Redazioni 1811, 1813, 1815/17, tr. it. di V. Cicero a cura di V. Limone, Bompiani, Milano 2013, p. 7, modificata. [Le traduzioni presenti nel libro in francese sono quasi sempre eseguite direttamente da J.-F. Courtine che rinvia alla traduzione francese di Pascal David, Les Âges du monde, Puf., Paris 1992. Il testo dei Fragmente in den Urfassungen von 1811 und 1813, è tradotto in italiano all’interno del citato volume a cura di V. Limone limitatamente alle pp. 1-184 dell’edizione curata da Mandfred Schröter, C. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München 1966. Le differenze con la traduzione francese utilizzata o modificata da J.-F. Courtine rendono spesso opportune delle modi-
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Tuttavia, il tempo della narrazione non è ancora giunto3, e le Età del mondo dovranno ancora procedere in modo analiticodialettico. L’oggetto tematico delle Weltalter è certo di rendere conto della vita divina e della creazione del mondo. Ma cosa fa in realtà Schelling nella redazione compulsivamente ripetuta delle differenti versioni (quasi unicamente dedicate al primo libro: il passato)? Per tentare di rispondere a questa domanda occorre senza dubbio cominciare col ricordare le principali linee di forza dell’interpretazione schellinghiana della temporalità, quella che sottende il grande progetto delle Età. Che questa interpretazione, per delle ragioni insieme fenomenologiche e teologiche, si distingue immediatamente da ciò che Heidegger ha caratterizzato, in una celebre nota di Sein und Zeit4, come la concezione «volgare» del tempo – quella che domina a partire dal trattato aristotelico (Fisica IV), fino a Hegel e al di là, Bergson compreso –, si può conside-
fiche alla citata tr. italiana. D’ora in avanti, dunque, laddove sarà disponibile, ultilizzeremo questa traduzione, seguita dalla dicitura “modificata” nel caso in cui questa sia stata adattata a quella presente nel testo francese. N.d.T.]. Klaus Grotsch ha curato nel 2002 (Schellingiana, Bd. 13.1 – 13.2) una edizione preparatoria (Vorausedition) e quasi diplomatica dei documenti relativi al grande progetto delle Età che erano conservati a Berlino (FrommannHolzboog 2002). Questa edizione apporta molto materiale nuovo, difficile da decifrare e da interpretare, che si sviluppava in un arco di tempo che va dal 1813 al 1820. Aldo Lanfranconi aveva proposto, nella sua opera Krisis. Eine Lektüre der “Weltalter”-Texte F.W.J. Schellings, Stuttgart, 1992, Fromman-Holzboog, una ricostruzione della cronologia dei differenti frammenti e manoscritti. Non è chiaramente possibile per noi entrare nel merito di questo studio filologico-genetico. Ci limitiamo a segnalare il lungo e ricco studio di Wilhelm Schmidt-Biggemann che situa l’impresa schellinghiana nell’ambito della lunga storia del neoplatonismo e della tradizione origeniana. 3. Urfassungen, p. 9. Ci permettiamo di rinviare su questo punto alla nostra opera Schelling, Entre temps et éternité, Histoire et préhistoire de la conscience, Vrin, Paris 2012. 4. Sein und Zeit, § 82.
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rare ciò come acquisito, se almeno si concede a Heidegger che il tratto dominante della concettualità volgare è quello di approcciare il tempo a partire dall’ora e dal suo privilegio ontologico: l’ora è, del tempo, quello che è (enfaticamente), foss’anche ridotto a un punto (στιγμή). Esiterei ciononostante ad affermare che, con il suo concetto di organicità del tempo, Schelling sia stato il primo a proporre una concezione non metafisica della temporalità. Ma torno alle Weltalter per sottolineare innanzitutto ciò che si potrebbe caratterizzare come una fenomenologia della coscienza interna del tempo, attenta innanzitutto alla molteplicità delle sue sfaccettature, alla sua «multilateralità», e all’articolazione offerta dalle sue dimensioni o dai suoi strati: Wie vielgestaltig ist das Ansehen der Zeit!5 – «Quante molteplici sfaccettature ha il tempo!» Così si stupisce Schelling sulla soglia della prima versione dell’opera incompiuta. Ora è esattamente il carattere organico del tempo che permette di rendere conto di questa multi-lateralità: Noi presagiamo che un organismo giace profondamente nascosto nel tempo e si estende fino agli elementi più piccoli. Noi siamo convinti (chi non lo è?) che a ogni grande evento, a ogni atto ricco di conseguenze, sia destinato il suo giorno, la sua ora, anzi il suo attimo, e che tale atto non venga alla luce del giorno neanche un istante prima che lo voglia la forza che ritiene e modera i tempi6.
5. Urfassungen, p. 13; tr. fr. cit., p. 25; (nella tr. it. cit., a p. 27: «Com’è multiforme l’aspetto del tempo»). 6. Urfassungen, p. 14: «Wir ahnden einen in der Zeit tief verborgen liegenden und bis ins Kleinste gehenden Organismus. Wir sind überzeugt (oder wer ist es nicht ?) daß jedem großen Ereigniß, jeder folgenvollen That ihr Tag, ihre Stunde, ja ihr Augenblick bestimmt ist, und daß sie kein Nu früher an’s Tageslicht tritt, als die Kraft will, welche die Zeiten anhält und mäßigt»; tr. it. cit., p. 29.
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L’organicità del tempo, che implica dunque sempre tensione, resistenza, ritardo, rischiara come una bella giornata le aporie della concezione «meccanicista» del tempo: il tempo considerato come successione di momenti puntuali, di «ora» non è altro che passaggio indefinito. È di questo tempo che si può dire a giusto titolo: niente di nuovo sotto il sole! Un tal tempo, centrato sul presente, non è infatti altro che un «tempo arrestato» (arrêtirte Zeit - épochè7). Per sfuggire a questa concezione restrittiva, bisogna ritrovare l’orizzonte aperto dalla problematica della libertà e in generale la dimensione etica della questione della temporalità: Solo l’uomo che ha la forza di elevarsi al di sopra di se stesso è capace di crearsi un vero passato, solo lui gode di un vero presente come lui solo attende un autentico avvenire; queste considerazioni etiche bastano a mostrare che passato, presente e avvenire non sono dei semplici concetti di relazione all’interno di un solo e dello stesso tempo, ma bensì che essi sono, in virtù della loro significazione più alta, dei tempi effettivamente differenti tra i quali c’è posto per una ripartizione e una gradazione8.
Alla rappresentazione corrente del tempo meccanico che pretende di costituire la temporalità a partire dalla concatenazione continua di un solo tempo (il presente, l’ora), Schelling
7. Schellings Werke, a cura di M. Schröter, Beck, Munich 1965, XIV, pp. 108-109; tr. it. a cura di A. Bausola, Filosofia della rivelazione, Zanichelli, Bologna 1972, p. 209. 8. Urfassungen, p. 223: «Nur der Mensch, der die Kraft hat, sich über sich selbst zu erheben, ist fähig, eine wahre Vergangenheit sich zu; eben dieser genießt auch allein einer wahren Gegenwart, wie er allein einer eigentlichen Zukunft entgegensieht ; und schon aus diesen sittlichen Betrachtungen würde hervorleuchten, daß Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft doch nicht bloße Verhältnißbegriffe einer und der nämlichen Zeit sind, daß sie der höchsten Bedeutung nach wirklich verschiedene Zeiten sind, zwischen denen eine Anstufung oder Steigerung stattfindet».
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oppone infatti una concezione pratica, quella stessa che caratterizza anche come dinamica o organica. L’esperienza stessa della successione ha come condizione ultima di possibilità un rapporto dell’uomo con se stesso, quello stesso che fa apparire la differenza qualitativa tra il passato (posto come tale, deposto [deposé] da una decisione) e il presente. Poiché si tratta già dell’analisi del tempo oggettivo, il preteso tempo cosmico o tempo del mondo (la Weltzeit, per parlare come Heidegger) che esige, per essere portata a compimento, il ritorno a sé, la riflessione incentrata sulla vera temporalità, la temporalità immanente o meglio soggettiva, se è vero che il tempo è sempre del soggetto! Da ciò la difficoltà di fissare esattamente la posizione di Schelling in rapporto all’estetica kantiana: il proposito di Schelling è certo critico rispetto a Kant, ma è anche quello della radicalizzazione critica, che mette l’accento sulla soggettivizzazione irriducibile del tempo. Bisogna aggiungere, per misurare la complessità della tesi critica, che questa soggettivizzazione va di pari passo con una oggettivazione o una naturalizzazione: tempo del mondo, tempo delle cose, tempo della divinità (déité). Il motivo fondamentale è quello dell’intra-temporalità: ogni cosa ha il suo tempo, e tutto il suo tempo, in se stessa. D’altronde il tempo, se tempo c’è, è sempre e ogni volta tutto il tempo, il tutto del tempo, nella sua molteplicità dimensionale. Si può chiarire quest’ultimo punto ricordando la critica formulata da Schelling nei confronti di Fichte, a partire dalle Ricerche del 1809 (in realtà una tale critica era già stata abbozzata nella Naturphilosophie): non basta affermare che l’Io è tutto, ma occorre sostenere, con altrettanta risoluzione la proposizione complementare (monadologica) che Tutto è Io9.
9. SW., VII, p. 351; tr. fr. J.-F. Courtine e E. Martineau, in Œuvres métaphysiques (1805-1821), Gallimard, Paris 1980, p. 138; tr. it. di G. Strummiello,
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È dunque attraverso l’esperienza di sé, o meglio l’esperienza temporale costitutiva del «Selbst», dell’ipseità, che per Schelling è possibile accedere all’esperienza originale (e originaria) del tempo. Il rapporto a sé tramite il quale l’uomo accede alla propria temporalità è quello della trascendenza o dell’esistenza10. L’uomo costituito da questa temporalizzazione, può opporsi a se stesso, separarsi da se stesso. Solo questa rottura e questa dissociazione permettono veramente di uscire da o di sfuggire alla serie omogenea di una successione uniforme che non offre se non una defigurazione del tempo autentico. In quanto la pura e semplice successione non fa tempo, è assolutamente incapace attraverso se stessa di generare un tempo qualitativamente differenziato. Una tale generazione richiede infatti sempre decisione, ma anche resistenza. Il tempo nasce o sorge dal cuore di questa lacerazione o da questa auto-lacerazione, è per questo che si presenta sempre al plurale (i tempi) secondo la figura contrastata o opposizionale dell’organismo o meglio del sistema dei tempi. Il punto principale dell’interrogazione schellinghiana concerne qui, ma in un senso relativamente inaudito, la questione dell’origine del tempo, del cominciamento del tempo, o enfaticamente del «cominciamento» (Anfang). Vi è qui una delle rimostranze centrali formulate contro Hegel e contro la chiusura del sistema hegeliano: pensiero che non può né cominciare veramente né pensare il cominciamento, o meglio un cominciamento11.
Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, Testo tedesco a fronte, Rusconi, Milano 1996, p. 105. 10. Questo aspetto della riflessione schellinghiana è stato ben messo in luce nel 1956 da Wolfgang Wieland, Schellings Lehre von der Zeit, Heidelberg, Winter Verlag. Cfr. anche Jürgen Habermas, Das Absolute und die Geschichte, Von der Zwiespältigkeit in Schellings Denken, Bouvier, Bonn 1954. 11. Trattandosi della problematica del cominciamento nel dopo Kant, rinvio all’opera di Frank Fischbach, Du commencement en philosophie, Étude sur Hegel et Schelling, Vrin, Paris 1999.
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Se è impossibile pensare la temporalità in funzione di un tempo lineare e uniforme, è perché questo non ha consistenza se non come organismo dei tempi, sistema dei tempi (Zeiten e non solamente Zeit). Sistema dei tempi, vale a dire anche delle epoche, delle stagioni, delle età, persino delle figure o dei momenti trinitari. La concezione meccanicista del tempo inciampa principalmente sull’aporia concernente la questione del cominciamento del tempo: Una origine o un cominciamento del tempo che, come ogni cominciamento non può essere pensato senza una forte differenziazione e senza una contrapposizione effettivamente polare è inconcepibile in ogni concezione meccanica12. Se non c’è alcuna vera distinzione (Unterschied) dei tempi, se lo stesso tempo, cioè il presente, si prolungasse all’infinito, il mondo sarebbe allora conforme all’idea che ne danno i pretesi saggi: una concatenazione di cause ed effetti che vanno avanti e indietro senza fine, senza che si abbia mai né autentico cominciamento né vera fine13.
Una tale concatenazione di cause e di effetti è diametralmente opposta al proposito schellinghiano, che è quello di una genealogia del tempo. Se è infatti assurdo voler comporre il tempo con le parti discrete e successive di un solo e stesso tempo, è perché il tempo è in realtà ed in ogni istante – come abbiamo appena ricordato – tutto il tempo, vale a dire, il tempo nella sua interezza. Considerare il tempo nella sua interezza (die ganze Zeit) vuol dire prenderlo sempre in considerazione nella sua sistematicità, nella sua organicità e la sua essenziale distensione (διαστήμα) tra passato, presente e futuro.
12. Urfassungen, pp. 74 ss.; tr. it. cit., p. 169, modificata. Cfr. anche Schellings Werke, XIII, p. 307, Philosophie de la révélation, livre II, Puf., Paris 1991, p. 160. 13. Urfassungen, p. 223.
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Per tentare di prendere in considerazione il tempo nelle sue diverse sfaccettature, il percorso di Schelling consiste innanzitutto nel «prendere le cose in modo umano»14. Detto diversamente, rivolgersi non prioritariamente verso il tempo fisico o il tempo del mondo, ma impegnarsi risolutamente in quelle che chiama anche, come abbiamo appena detto, considerazioni etiche, al fine di studiare per esempio come il rapporto al tempo, o meglio il tratto temporale sia costitutivo della coscienza, se è vero che questa è insieme – zugleich, nello stesso tempo – coscienza di qualcosa che è escluso e coscienza di qualcosa che tira in avanti, che attira (ausgeschlossen, angezogen15). Tali considerazioni etiche aprono su un tempo organico che è un tempo interiore, immanente, conformemente al quale si può dire, come suggerivano già le Lezioni di Stoccarda che: «ogni cosa ha il tempo in se stessa. Non c’è un tempo esterno, comune; ogni tempo è soggettivo, è cioè un tempo interiore che ogni cosa ha in se stessa e non fuori di sé»16. Da questa tesi della soggettività radicale del tempo, le Weltalter ricaveranno due corollari decisivi. Se ogni cosa «non ha che un tempo interno, proprio, che le è innato ed inerente», se il tempo non è «un principio esteriore, selvaggio e inorganico», ma un principio interiore, questo è sempre presente ed è presente interamente, fin nella diversità combattuta delle sue dimensioni opposte, infine e soprattutto, non è più permesso di sostenere che le cose nascono nel tempo, ma occorre piut14. Cfr. su questo punto, lo studio di Christophe Bouton, «Considérations éthiques sur le temps dans les Âges du monde de Schelling», in Schelling («Les Cahiers d’Histoire de la philosophie»), ed. J.-F. Courtine, Le Cerf, Paris 2010, pp. 139-178. 15. Weltalter, SW., VIII, pp. 262-264. 16. SW., VII, pp. 430-431; tr. fr. di J.-F. Courtine, E. Martineau, Œuvres métaphysiques, Gallimard, Paris 1980; tr. it. di Luigi Pareyson, in F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Mursia, Milano 1974, p. 151, modificata.
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tosto dire che è «in ogni cosa il tempo nasce nuovamente e immediatamente» e quindi che, per ogni cosa, il suo tempo è «in ogni attimo il suo tempo totale»17. Ma questo tempo interno, autentico, non deve più essere concepito come un flusso con il quale si confonderebbe la coscienza in un continuo avvolgimento, poiché la temporalizzazione presuppone sempre essenzialmente scarto, separazione, scissione, differenziazione di forze. Questa opposizione, questa scissione temporale o meglio temporalizzante è all’origine della coscienza di sé, non è il secondo risultato di una riflessione cosciente e tematica; è piuttosto ciò che, inscritto nella struttura stessa dell’esistere, è a fondamento della temporalità. È permesso in questo senso di parlare del carattere e-statico del rapporto a sé anteriore alla coscienza e alla riflessione. È anche perché questa struttura e-statica dell’esistenza si lascia sperimentare innanzitutto e soprattutto attraverso la decisione che le «considerazioni etiche» si impongono, attraverso il chiarimento essenzialmente pratico che portano sulla problematica della temporalità18. Il tempo non può dunque dispiegarsi nella molteplicità delle sue sfaccettature, nella diversità delle sue dimensioni estatiche, se non quando si fa (nel senso in cui si potrebbe parlare di «faire du temps» o di «fare spazio»19) attraverso una lotta o in
17. Urfassungen, p. 79; tr. it. cit., p. 179, modificata. 18. Schelling, che segue l’analogia: temporalizzazione divina/temporalizzazione umana finita, scrive che «così come Dio, anche l’uomo viene innalzato alla suprema auto-presenza e alla spiritualità solo mediante la separazione del suo essere» (Urf., p. 98; tr. it. cit. p. 193). Schelling oppone qui l’Entschliessen (decisione, risoluzione) all’Ein-schliessen, la chiusura, il ripiegamento su di sé. — Aldo Lanfranconi ha dedicato uno studio dettagliato a questo motivo delle «crisi» e della «decisione» nella sua opera: Krisis, Eine Lektüre der “Weltalter”-Texte F. W. J. Schellings («Spekulation und Erfahrung»), Stuttgart – Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog 1992. 19. Cfr. Darstellung des philosophischen Empirismus, SW., X, p. 253; tr. fr. di Jean-Luc Garcia, in Philosophie, n. 41, 1994, p. 9; tr. it. di Gaetano Du-
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ogni caso una tensione permanente di diversi principi, istanze o potenze. Chi prende il tempo anche solo per come si presenta, sente in esso un conflitto tra due principi: uno che tende in avanti, che spinge allo sviluppo, e l’altro che trattiene, ostacola, resiste allo sviluppo. Se questo secondo principio non facesse resistenza, non ci sarebbe alcun tempo, poiché lo sviluppo accadrebbe nell’istante, senza interruzione né successione; ma se questo secondo principio non venisse anche costantemente superato dal primo, ci sarebbe quiete assoluta, morte, stasi20.
Se dunque Schelling è, in un certo senso, pensatore della decisione, dell’apertura e dell’avvenire, lo è anche e soprattutto forse perché cerca di prendere in considerazione la profondità dei tempi, perché riesce a cogliere come ritiro, trattenuta (retenue), contrazione, resistenza, la forza che ritarda e che permette a tutto ciò che accade di accadere a suo tempo, alla sua ora. Se questa forza di resistenza venisse meno, «…non ci sarebbe tempo, bensi eternità assoluta», scrive ancora Schelling21. Così il tempo che sorge ad ogni istante intero, è innanzitutto sostenuto da una «disgiunzione polare»22 o ancora da una dis-
rante, «Esposizione dell’empirismo filosofico», in Lezioni Monachesi sulla storia della filosofia moderna, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 181, [L’espressione «faire du temps» è in francese nell’edizione tedesca, N.d.T.]. 20. Urfassungen, p. 122; tr. it. cit., p. 271. 21. Urfassungen, p. 74; tr. it. cit., p. 167. 22. Ibid., p. 74 s; tr. it. cit., p. 169: «È dunque qui [la prospettiva schellinghiana concerne la divinità stessa e la generazione delle persone in seno alla Trinità] che nasce un combattimento continuo tra il principio che pone l’essere come passato e quello che lo pone come presente. […] In questo combattimento viene comunque posta costantemente una dualità – dunque l’essente viene posto a un certo grado come presente, l’essere a un certo grado come passato –, mentre la dualizzazione perfetta, la quale trapassa immediatamente nell’unità ultima e suprema, viene posta più o meno come
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sociazione dinamica attraverso la quale solamente si trovano congiunte le estasi del tempo, di un tempo che non è autenticamente temporale, suscettibile di novità imprevedibili, di veri cominciamenti se non nella misura in cui permane in lui, in serbo (en réserve)23, un principio originale di contrazione e di ritiro, fondamento di ogni «essere-proprio», di ogni «ipseità». Aggiungiamo solamente, per finire di caratterizzare molto sommariamente il progetto delle Età del mondo, che Schelling non eccettuava la divinità dalla legge generale secondo la quale ogni cosa ha il suo tempo, giunge nel suo tempo, e porta in lei, in maniera immanente, il tempo nella sua interezza. Porre così il tempo in Dio stesso, impegnarsi a svelare e a comprendere la temporalità o temporalizzazione divine, in uno stretto confronto con la temporalità umana, ciò non significa semplicemente concepire come e a quali condizioni il Dio in divenire si manifesta nella storia, o come lo Spirito attraverso la sua fenomenalizzazione temporale (finita) riconquista le sue determinazioni permanenti in vista di una parusia definitiva, ma piuttosto ciò porta ad introdurre la disgiunzione temporale fino al cuore dell’eternità senza fondo dell’essenza divina, a scavare fino alla notte dei tempi24.
futura: ne deriva allora che in ogni attimo nasce tempo, e invero come tempo totale, come tempo nel quale passato, presente e futuro sono dinamicamente tenuti distinti l’uno dall’altro, ma appunto per questo sono, insieme collegati». 23. Urfassungen, p. 77 s: «die im Ewigen verborgene Zeit». 24. Cfr. Urfassungen, p. 210; tr. fr. cit., p. 246: «Il carattere successivo delle operazioni divine deve avere il suo fondamento e la sua ragion d’essere nelle profondità più intime della divinità». – «Se c’è qualcosa di tale che il tempo della rivelazione divina, perché dei tempi non sarebbero pensabili in questa rivelazione, la più precoce e la più universale, attraverso la quale fu posto il fondamento di ogni rivelazione? Perché sarebbe impossibile che l’oscuro
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* Il giovane Franz Rosenzweig dichiarava: «io sono anti hegeliano e anti fichtiano; i miei santi patroni tra i quattro sono Kant e soprattutto Schelling»25. E tutto il programma del neues Denken26 è infatti quello di contribuire a infrangere la totalità hegeliana, cercando di introdurvi dei nuovi «elementi» costitutivi del tempo, ma non suscettibili di formare a loro volta una nuova totalità. Per Rosenzweig, come già per Schelling, il tempo «dev’essere preso sul serio», vale a dire considerato come un ordine proprio inseparabile dalla Creazione e dalla Redenzione. La Creazione si dà innanzitutto come passato originale, la Rivelazione come tempo del presente e la Redenzione come tensione verso l’avvenire27. Come ha ben mostrato Stéphane Mosès, la costruzione stessa di Stern der Erlösung rinvia direttamente a Schelling28: Le Età del mondo erano destinate, in favore del progetto di una genealogia del tempo, a raccontare la storia dell’essere originario, dell’Urwesen in quanto si manifesta nel mondo attraverso le sue tre grandi epoche: il passato, il presente e il futuro29. concetto dell’eternità precedente il mondo si decomponesse di nuovo in tempo agli occhi di chi ne ha una veduta profonda, come le nebulose di cui il vago alone sembra sfocato all’occhio profano si decompongono in astri distinti agli occhi armati di un telescopio?». 25. Briefe, ed. Edith Rosenzweig e Ernst Simon, Berlin 1935, p. 229; in S. Mosès, Système et révélation, cit., p. 50. 26. Das neue Denken, tr. it. in La scrittura, cit., pp. 257-282. 27. Rinvio qui all’eccellente capitolo di Gérard Bensussan, «Rosenzweig, Schelling et l’histoire», in Dans la forme du monde, Sur Franz Rosenzweig, Hermann («Le Bel Aujourd’hui»), Paris 2009, pp. 183-205. 28. Système et Révélation. La philosophie de Franz Rosenzweig, Seuil, Paris 1982, pp. 76 ss.; nuova edizione rivista e corretta, Bayard, Paris 2003, pp. 36 ss. Cfr. anche J.-F. Marquet, «Unité et totalité chez Franz Rosenzweig, étude sur l’architecture de l’Étoile de la rédemption», in Restitutions, Études d’histoire de la philosophie allemande, Vrin, Paris 2001, pp. 249-268. 29. Questo programma «narrativo» è espressamente richiamato da Ro-
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Che l’essere si rivela nel tempo, attraverso e direttamente in storia superiore, ciò è precisamente l’effetto di una decisione originale: quella del ritiro o della cancellazione volontaria di una essenza ancora atemporale della divinità o profitto di una successione temporale. Il ritiro in sé della divinità, che apre così la storia, è anche ciò che permette una prima risoluzione delle contraddizioni interne che risultano dall’incessante conflitto delle potenze nel seno stesso della divinità. Ritirandosi in un passato eterno, Dio lascia spazio, fuori da lui, alla temporalizzazione delle potenze. Ma una tale temporalizzazione non dev’essere confusa con una pura e semplice successione in un tempo storico omogeneo, poiché i tempi o i momenti corrispondenti alle potenze dimorano sempre simultanei30 e co-presenti nella loro interazione. senzweig in una lettera a Eugen Rosenstock, 11 novembre 1916, nell’epoca in cui, sul fronte dei Balcani, inizia ad elaborare quella che poi sarebbe diventata La Stella della redenzione «La mia insicurezza circa il metodo del mio pensiero consiste in questo: non so dove il «pensare» deve cominciare (e di conseguenza anche cessare) e dove cessare, oppure iniziare, il «narrare». Ho già talvolta pensato che si debba «narrare» tutto (cfr. Schelling nel volumetto Reclam Die Weltalter nell’introduzione, circa la filosofia storica)», (Briefe und Tagebücher, in Gesammelte Schriften I, 1, ed. R. Rosenzweig, E. Rosenzweig-Scheinmann e B. Casper, Nijhoff, La Haye 1979, p. 292); la traduzione françese è curata da G. Bensussan, M. Crépon, M. de Launay, in Foi et savoir, Autour de l’Étoile de la rédemption, cit.; la tr. it. è di G. Bonola, in Franz Rosenzweig, Eugen Rosenstock, La radice che porta, lettere su ebraismo e cristianesimo, Marietti, Genova 1992, p. 120. Per una presentazione generale di questa corrispondenza si veda Stéphane Mosès, «La correspondance entre Franz Rosenzweig et Eugen Rosenstock», in Franz Rosenzweig, Sous l’Étoile, Hermann («Le Bel Aujourd’hui»), Paris 2008, pp. 207-230; vedere anche, dello stesso autore, Figures philosophiques de la modernité juive, Le Cerf («Philosophie et théologie»), Paris 2011, cap. 3, «Judaïsme et christianisme chez Franz Rosenzweig: deux formes d’éternité», pp. 55-71. 30. Cfr. Stéphane Mosès, Sisteme et Revelation, cit., p. 40: «Dire che questi tre tempi sono eterni significa che non si definiscono solo come un prima, un durante e un dopo, ma anche tre livelli di profondità». – Gérard Bensus-
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A questa organizzazione «sistematica» dei tempi o delle dimensioni co-presenti del tempo, risponde la struttura della Stella che conduce dal mondo delle origini, archi-passato immemoriale o «pre-mondo» prima della creazione, attraverso il mondo del presente o, enfaticamente, il mondo nel quale avviene la Rivelazione, al mondo dell’avvenire, della ricapitolazione o dell’apocatastasi, concepita come restituzione ultima di tutte le cose nell’unità divina. A ciascuno dei suoi «eoni» o «mondi» corrispondono delle temporalità differenti: anamnesi quando si tratta del passato, anticipazione quando si tratta dell’avvenire. Con Stéphane Mosès31, si può dunque dire che tutto si svolge come se Rosenzweig, nella sua concezione generale della Stella, avesse voluto esplicitare il modello di una temporalità esistenziale ed estatica soggiacente alla teogonia o storiosofia delle Età del mondo. Ciò che per Schelling era solamente una analogia antropomorfica destinata elucidare l’auto-temporalizzazione divina, diventa l’oggetto tematico della parte centrale della Stella che si adopera nell’esplicitazione delle differenti modalità dell’esperienza temporale finita. Ma per Rosenzweig, come già per Schelling, l’intreccio dei vissuti temporali che definiscono l’esistenza umana, rinviano, se non a degli aspetti del tempo cosmico o teo-cosmo-gonica, almeno a delle età o a dei «mondi» radicalmente eterogenei al presente, ma ciononostante suscettibili di essere ripresi o ripetuti in lui, e ciò precisamente nel modo della rammemorazione della creazione o dell’anticipazione della redenzione. La lettera che Rosenzweig indirizza a Eugen Rosenstock l’11 novembre 1916 conferma in modo singolare questa ipotesi, mettendo san, op. cit., p. 184, fa riferimento a dei «tempi assoluti […] non successivi, successivamente distribuiti nell’omogeneità di una storia, ma stratificati in profondità». 31. Ibidem.
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l’accento sul privilegio del presente inteso come il tempo della rivelazione: La prima e la terza età del mondo di Schelling vengono dunque risucchiate nella seconda: questa seconda perciò diviene in ogni caso nulla meno che la storia della rivelazione della prima e della terza. […] Che questi uomini siano ciascuno l’intero [Ganze], questa verità fondamentale l’ho riscoperta persino, in modo a me stesso stupefacente muovendo dal versante dell’intero, e cioè la «prima» e la «terza età del mondo», il sistema della filosofia, non è in nessun altro luogo se non in loro32.
Ma il limite di questo confronto, peraltro pienamente chiarificante, riguarda senza dubbio il fatto che se Rosenzweig, come Schelling, cerca di fecondare reciprocamente l’analitica dell’esperienza esistenziale del tempo e l’elucidazione delle categorie teologiche maggiori, l’esperienza temporale che interroga in modo privilegiato è molto meno esistenziale che dialogica33. Rosenzweig sottolinea infatti con forza (è un punto che attirerà l’attenzione di Levinas) il legame indissolubile della lingua e del tempo, attraverso cui il tempo non è innanzitutto rapporto a sé (all’ipseità) – come nel caso di Schelling e dopo di lui di Heidegger –, ma anche sempre già tempo dell’altro. Oltre l’omaggio abbastanza singolare reso nel 1929 da Rosenzweig ad Heidegger34, è probabilmente in questa articolazione tra tempo e linguaggio che è possibile svelare il principio 32. Franz Rosenzweig, Briefe und Tagebücher, I, p. 293; tr. it. cit., p. 121. 33. Questo punto è stato giustamente sottolineato da Hans Martin Dober, Die Zeit ernst nehmen. Studien zu Franz Rosenzweig «Der Stern der Erlösung», Königshausen & Neumann, Würzburg 1990, pp.115 ss. 34. «Fronti scambiati», cit. Il testo, scritto dapprima come una recensione della seconda edizione della Religion der Vernunft di Hermann Cohen, ma decisamente segnato dai dibattiti di Davos del marzo 1929, è stato pubblicato nelle Kleinere Schriften nel 1937. Oggi si veda Gesammelte Schriften, III, pp. 235-237. Supra, capitolo V.
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di una opposizione netta tra i due pensatori, se è vero che per Heidegger l’accesso alla temporalità autentica passa sempre primordialmente attraverso il ritorno a sé, all’Eigentlichkeit, colta nella Vereinzelung: isolamento, individuazione. Mentre Rosenzweig non potrebbe senza dubbio dire, insomma, come fa Heidegger nel 1924: il Dasein è il tempo stesso che c’è35. Per Rosenzweig, seguito su questo punto da Levinas, c’è infatti tempo al di fuori della dimensione elementare o primitiva del Dasein, dell’esserci, o dell’uomo meta-etico. Il tempo è, in questo senso, sempre il tempo dell’altro, vale a dire della chiamata dell’altro che permette precisamente all’uomo meta-etico di superare la sua chiusura iniziale, il suo essere bloccato, ripiegato su se stesso, la sua «taciturnità»36. Per Rosenzweig, il tempo del presente è quello della Rivelazione37. Ora è giustamente il presente dell’incontro, della sorpresa e dell’uscita da sé che queste inducono, che permette di segnare nel tempo – e come tempo – un prima e un dopo. Ora è esattamente qui – far emergere nel tempo l’opposizione di un προτέρον e di un ὕστερον – la croce di ogni pensiero del tempo come filo conduttore del movimento, come ha magistralmente mostrato Heidegger nella sua esposizione critica dell’analitica aristotelica della Fisica IV38. 35. Cfr. Ga., 64, Der Begriff der Zeit (1924), ed. F.-W. von Herrmann, Klostermann, Francfort 2004, p. 57: «Das jeweilige Dasein selbst ist (die) “Zeit”»; ibid., p. 123: «Das Dasein ist die Zeit, die Zeit ist zeitlich. Das Dasein ist nicht die Zeit, sondern die Zeitlichkeit». 36. Cfr. Hans Martin Dober, op. cit., p. 113: «Per Rosenzweig, il tempo originale, la sua temporalizzazione è l’esperienza assoluta di questo incontro: la chiamata che porta a uscire da sé nella responsabilità per l’altro. L’estasi nella quale il Sé è esposto e espropriato dall’altro, ecco la modalità originale del presente: l’istante della rivelazione». 37. Der Stern der Erlösung, ed. Reinhold Mayer, Suhrkamp, Francfort 1990, p. 174, p. 207; tr. it. cit., pp. 161, 191. 38. Grundprobleme der Phänomenologie, Ga., 24, § 19; tr. fr. cit., p. 284; tr. it. cit., p. 225 s.
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Quale sarebbe infatti il posto dell’altro nella caratterizzazione heideggeriana della temporalità dell’esserci? Il Mitsein appartiene spesso al regime della quotidianità e del “Si”, al quale si oppone, come ben sappiamo, isolamento o l’individuazione decisa (entschlossene Vereinzelung39), condizione di ogni rottura con l’inautenticità e l’intra-mondanità, se è vero che l’essere-con è compreso il più delle volte a partire dalle cose40. Lo scarto tra Rosenzweig e Heidegger può ancora rimarcarsi in funzione dei loro rispettivi concetti di mondo: il mondo in Rosenzweig è intimamente legato al linguaggio41 e alla rivelazione, che è sempre dell’altro, mentre per Heidegger il mondo come tale (in opposizione al mondo-ambiente: Umwelt) non si rivela che nella sua tonalità effettiva singolare e isolante dell’angoscia. In Rosenzweig al contrario, l’incontro dell’altro (per esempio con la prossimità della morte o nell’amore) apre un’esperienza del tempo differente ed eterogenea alla temporalità esistenziale. Senza poter approfondire qui ancora questo difficile confronto – che mi allontanerebbe dal mio proposito e che implicherebbe in particolare uno studio comparativo della morte nei due autori –, voglio notare semplicemente,
39. Sein und Zeit, pp. 263, 297, 322. 40. Grundprobleme der Phänomenologie, pp. 409-410; tr. fr. cit., p. 347; tr. it. cit., p. 277 modificata: «L’esserci si comprende innanzitutto e per lo più a partire dalle cose. L’altro, il prossimo è anch’esso presente, pur se non si ritrovano in una prossimità immediata e come a portata di mano. Anch’esso è compreso nel suo modo di esserci a partire dalle cose. […] È a partire dalle cose che noi comprendiamo noi stessi nel senso dell’autocomprensione «evidente» dell’esserci quotidiano. Comprendersi a partire dalle cose con le quali abbiamo a che fare significa progettare il proprio poter-essere in direzione di ciò che è fattibile, urgente, indispensabile o opportuno negli affari dell’attività quotidiana». 41. Stern der Erlösung, p. 327; tr. it. cit. p. 303: «Dove il mondo è, è anche il linguaggio, il mondo non è mai senza la parola, anzi è soltanto nella parola e senza la parola neppure il mondo sarebbe».
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per concludere su questo punto, che per Rosenzweig, è principalmente l’esperienza dialogica che infrange il mio essere nel mondo, la mia esperienza puramente esistenziale e solipsista del tempo. Interpellato, chiamato dall’altro che si rivolge a me, mio presente, il mio presentificare si trova modificato, dall’introduzione in lui dell’attesa, della pazienza/impazienza. È allora che in un senso nuovo, ho bisogno di tempo e che il tempo manca o vien meno: Aver bisogno di tempo vuol dire non poter anticipare niente, dover attendere tutto, dipendere da altri in ciò che mi è proprio42.
* Nella sua articolazione non oppositiva tra tempo ed eternità, Rosenzweig può ugualmente invocare lo Schelling delle Weltalter43. Più che dal tempo, l’eternità legata alla redenzione, si trova contrad-distinta da ogni sviluppo storico progressivo. L’eternità non si lascia raggiungere, nel presente, se non in una rottura radicale con il continuum storico44. Benjamin considererà, quanto a lui, una rottura dello stesso genere grazie all’idea di un «arresto messianico dell’attività storica»45.
42. Kleine Schriften, p. 387. Gesammelte Schriften III (Zweistromland), p. 360: «Zeit brauchen heißt: nichts vorwegnehmen können, alles abwarten müssen, mit dem Eigenen vom Andern abhängig sein». 43. Stern der Erlösung, p. 322: «L’Eternità è l’oggi che è esso stesso cosciente del fatto di essere più di un oggi», cfr. anche tr. it. cit., p. 298 s. Si veda su questo punto, Gérard Bensussan, Le temps messianique, Temps historique et temps vécu, Vrin, Paris 2011, pp. 130-131. 44. Per un’analisi più fine e articolata di questo sviluppo, rinvio ancora a Gérard Bensussan, op. cit., cap. VIII («Rosenzweig, Schelling et l’histoire») e a Stéphane Mosès, Système et révélation, cap. VI, «Du temps à l’éternité». 45. Gesammelte Schriften, (ed. Rolf Tiedemann e Hermann Sweppenhäuser, Suhrkamp, Francfort 1974), I, 2, 703; Gérard Raulet ha curato il tomo
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Allo stesso modo, all’oggi, porta dell’eternità, potrebbe corrispondere in Benjamin l’idea di una attualità non più concepita come semplice transizione, ma come focolaio (foyer) nel quale il tempo si immobilizza46.
19 che ci fornisce un fac-simile e trascrizione della totalità dei manoscritti o dattiloscritti conservati, accompagnati da un ricco commentario. Per delle ragioni di comodità, teniamo il riferimento alle Gesammelte Schriften, facendo seguire, per le «tesi» il riferimento all’edizione Raulet, ivi, pp. 80 e 92; Per la traduzione francese si fa riferimento a «Sur le concept d’histoire», thèses XVI et XVII (tr. fr. di Maurice de Gandillac, Rainer Rochlitz e Pierre Rusch) in Walter Benjamin, Œuvres III, Gallimard, «folio essais», Paris 2000, pp. 440-441. Oggi si consulterà la nuova edizione, Werke und Nachlaß, Kritische Gesamtausgabe curata da Christoph Gödde e Henri Lonigz, Suhrkamp, Francfort 2011. Per la tr. it. si utilizzerà il testo a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Sul concetto di Storia, Einaudi, Torino 1997, pp. 50-55. Si veda anche Michaël Löwy, Walter Benjamin, Avertissement d’incendie, Une lecture des thèses «sur le concept d’histoire», Puf («Pratiques théoriques»), Paris 2001, pp. 109 ss; tr. it. di M. Pezzella, Segnalatore di Incendio, Una lettura delle tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 112 ss. Benjamin vi richiama successivamente le classi rivoluzionarie che, al momento di agire, hanno coscienza di «scardinare il “continuum” della storia»; lo storico materialista suscettibile di cogliere il «presente» non più come passaggio (Übergang), ma come «arresto e blocco del tempo» («…eine Gegenwart, in der die Zeit einsteht und zum Stillstand gekommen ist»): questo «arresto messianico dell’accadere» (messianische Stillstellung des Geschehens) è, in un certo senso, una Aufhebung («der gesamte Geschichtsverlauf aufbewahrt ist und aufgehoben»), ma questo cambio, questa raccolta e conservazione rinviano innanzitutto a un «principio costruttivo», quello che fa emergere una nuova costellazione («una costellazione satura di tensioni»). 46. Cfr. la lettera del 5 febbraio 1917 nella quale Rosenzweig distingueva, in riferimento a una leggenda talmudica, l’oggi concepito come «ponte verso il domani» e quell’altro oggi che è «trampolino verso l’eternità». (Briefe und Tagebücher, I, 345), citato da Stéphane Mosès, «Walter Benjamin et Franz Rosenzweig», in La pensée de Franz Rosenzweig, Atti del Convegno di Parigi organizzato in occasione del centenario della nascita del filosofo, a cura di Arno Münster, Puf, Paris 1994, p. 65; articolo ripreso in Franz Rosenzweig, Sous l’Étoile, ed. cit., p. 163. Vedere anche il commento di Gérard Bensus-
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Da questo nuovo pensiero del tempo, Rosenzweig, prima di Benjamin, ha saputo ricavare una filosofia della storia che, anche quando sembra riprendere il modello messianico dell’elezione, lo sovverte radicalmente. Per Rosenzweig infatti, l’elezione non è mai, nel suo principio, legata ad una particolarità etno-centrica, ma risponde piuttosto ad una vocazione all’universale47. In quest’ottica, ciò che ha di assolutamente importante la corrispondenza scambiata tra Rosenzweig e il suo amico Rosenstock durante l’anno 191948, è precisamente l’in-
san, in Dans la forme du monde, Sur Franz Rosenzweig, Hermann («Le Bel Aujourd’hui»), Paris 2009, pp. 264 ss. 47. Di certo, nel primo libro della terza parte de La stella della redenzione, Rosenzweig evoca la «comunità di sangue» per caratterizzare «il destino del popolo ebraico» (tr. it. cit., p. 307 s), ma al fine di opporlo all’autoctonia, alla «terra che nutre» e al «suolo della patria»: «i popoli del mondo non possono accontentarsi della comunità di sangue; essi affondano le loro radici nella notte della terra… Al suolo ed al dominio, al territorio, si àncora là saldamente la loro volontà di eternità». È utile sottolineare che questa comunità di sangue si esplicita attraverso la «lingua»: «la lingua merita di essere chiamata la parte più viva di un popolo, anzi la sua stessa vita» (ibid., p. 310). Ma ancora qui intervengono due «sfumature» essenziali: 1) «Mentre ogni altro popolo è tutt’uno con la propria lingua e la lingua gli si dissecca in bocca, se cessa di essere popolo, il popolo ebraico non si identifica mai totalmente con le lingue che parla». 2) La lingua qui, se non è quella della vita quotidiana, non è tuttavia lingua morta, ma «lingua santa»: «la santità della lingua santa, nella quale egli può solo pregare, fa si che la sua vita non getti radici nel terreno di una lingua propria». — Si tratta di modalità differenti dell’elezione e della vocazione all’universale, si veda ancora Stéphane Mosès, L’ange de l’histoire, cit., pp. 49 e 71. 48. Rispetto a questa corrispondenza, ricordiamo i contributi di André Néher, «Une approche théologique et sociologique de la relation judéochrétienne: le dialogue F. Rosenzweig - Eugen Rosenstock», in L’existence juive. Solitude et affrontement, Seuil, Paris 1962, pp. 212-239; e anche quello di Eugène Fleischman, in Le christianisme “mis à nu”, Plon, Paris 1970, pp. 182-224. Ho già segnalato il capitolo di Stéphane Mosès, in Autour de l’Étoile. Lo stesso autore aveva già dedicato a questa corrispondenza un lungo lavoro in L’ange de l’histoire, Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Seuil, Paris 1992, pp. 35-55.
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sistenza di Rosenzweig su ciò che costituisce ai suoi occhi la specificità irriducibile della concezione ebraica dell’elezione (almeno dopo la distruzione del secondo Tempio, vale a dire anche dopo l’avvento del cristianesimo), ossia che l’elezione degli ebrei o del popolo di Israele si definisce precisamente per la sua assenza di rapporto (per il suo non-rapporto risoluto) nei confronti della storia, intesa come storia mondana e politica, storia in questo senso sempre legata allo Stato e alla potenza, secondo una figura hegeliana qui determinante49. Così il popolo ebraico si lascerebbe caratterizzare come quello che resiste alla storia. Rosenzweig capovolge qui in modo del tutto significativo l’argomento di Rosenstock che considera la vocazione ebraica o la promessa mosaica come superata dal momento in cui il cristianesimo gli ha dato il cambio, come appartenente irriducibilmente al passato dopo che il cristianesimo precisamente gli ha dato il cambio (a pris le relais) e conduce a compimento ciò che non faceva ancora che annunciarsi timidamente nell’ebraismo. Nazionalismo vuol dire non solo che i popoli credono di venire da Dio […] bensì di andare a Dio. […] Perciò, persino adesso che l’elezione è divenuta la cartina di tornasole di ogni nazionalità, l’elezione ebraica è qualcosa di unico nel suo genere perché è l’elezione di un «unico popolo» a cui anche oggi la propria fierezza, o la propria umiltà, o l’odio altrui, o l’altrui disprezzo, impediscono finanche la comparabilità empirica con gli altri popoli50.
49. Cfr. la lettera del 1910 (Briefe, p. 55, Briefe und Tagebücher, pp. 112113): «Ogni atto diventa colpevole dal momento in cui penetra nella storia […] È per questo che bisogna dire che Dio salva l’uomo non attraverso la storia, ma realmente come “Dio della religione” […] La lotta contro la storia nel senso del XIX secolo è per noi identica alla lotta per la regione nel senso del XX secolo». Citato da Stéphane Mosès, L’ange de l’histoire, cit., p. 56. 50. Briefe und Tagebücher, p. 281 s.; tr. it. La radice che porta, cit., p. 107.
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Come sottolinea, ancora una volta, molto giustamente Stéphane Mosès, per il popolo ebraico l’elezione implica essenzialmente il ritiro dalla scena della storia o almeno l’assoluta fedeltà a un’altra storia51. E nella Stella, Rosenzweig insisterà ancora su questo fatto capitale: che la vita nel tempo è vietata a questo popolo precisamente a nome della vita eterna. […] il popolo eterno acquista la sua eternità al prezzo della sua vita nel tempo. Per lui il tempo non è il suo tempo, non è campo né porzione di eternità. […] Il santo insegnamento della legge […] facendo uscire il popolo da ogni temporalità e storicità della vita, gli toglie anche il potere sul tempo52.
È così che il giudaismo si distingue in modo tanto radicale dalla «cronologica» specifica del cristianesimo: È il cristianesimo dunque che ha fatto del presente un’epoca. Passato è ormai soltanto il tempo precedente alla nascita di Cristo. Tutto il tempo successivo, dalla vicenda terrena di Cristo fino al suo ritorno, è ora quell’unico grande presente, quell’epoca, quella pausa, quella moratoria nei tempi, quel “tra” su cui il tempo ha perduto il suo potere. Il tempo è pura temporalità53…
51. Stéphane Mosès, Op. cit., p. 49. 52. Stern der Erlösung, p. 337: «Und wieder erkauft sich das ewige Volk seine Ewigkeit um den Preis des zeitlichen Lebens. Ihm ist die Zeit nicht seine Zeit, nicht Acker und Erbteil.…die heilige Gesetzlehre […] das Volk aus aller Zeit- und Geschichtlichkeit des Lebens heraushebt, nimmt sie ihm auch die Macht über die Zeit»; tr. it. cit., p. 312 s. – Cfr. anche p. 371; tr. it. cit. p. 343: «E perciò la vera eternità del popolo eterno deve rimanere sempre estranea ed irritante per lo Stato e per la storia universale». Cfr. anche la lettera del 7 novembre 1916 a Rosenstock, in La radice che porta, cit., p. 111: «che tutta la nostra partecipazione alla vita dei popoli avvenga solo “clam, vi, precario”, glielo avevo però pur scritto già io stesso». 53. Ibid., p. 375; tr. it. cit., p. 347: «Das Christentum ist es, das also die Gegenwart zur Epoche gemacht hat. Vergangenheit ist nun nur noch die Zeit vor Christi Geburt. Alle folgende Zeit von Christi Erdenwandel an bis zu seiner Wiederkunft ist nun jene einzige große Gegenwart, jene Epoche, jener
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Così, in opposizione al cristianesimo che ha per compito, nell’economia della salvezza, di entrare nella storia per accompagnare i popoli nella loro marcia verso la Redenzione, il popolo ebraico ha per vocazione essenziale quella di restare fedele a se stesso: Il cristianesimo si identifica con gli imperi, l’ebraismo si identifica con se stesso54.
Il concetto di elezione rinvia così alla singolarità del popolo ebraico, al suo statuto meta-storico, in opposizione all’esistenza essenzialmente storica delle nazioni. Estraneo al tempo della storia, l’ebraismo sperimenta una tutt’altra temporalità, propria al rito, alla preghiera, alla scansione liturgica dell’anno. Nella sua corrispondenza con Rosenstock, Rosenzweig elaborava già l’idea di una storia discontinua e non cumulativa, una storia scandita non dalla successione di eventi politici maggiori, ma dalla ripetizione di atti simbolici, ogni volta significanti, e suscettibili di assicurare impercettibilmente la venuta invisibile della Redenzione nel mondo55.
Stillstand, jene Stundung der Zeiten, jenes Zwischen, worüber die Zeit ihre Macht verloren hat. Die Zeit ist nun bloße Zeitlichkeit». 54. Briefe und Tagebücher, p. 305, lettera à Rosenstock del 30 novembre 1916, in La radice che porta, cit., p. 133 s. 55. Stern der Erlösung, p. 368: «Was er [der Jude] im alljährlichen Kreislauf schon als ein Ereignis besitzt, die Unmittelbarkeit aller Einzelnen zu Gott in der vollkommenen Gemeinschaft Aller mit Gott, das braucht er nicht mehr in langen Gang einer Weltgeschichte zu erwerben». – Ibid., p. 369: «Im Gottesvolk ist das Ewige schon da, mitten in der Zeit. In den Völkern der Welt ist reine Zeitlichkeit. Aber der Staat ist der notwendige immer zu erneuernde Versuch, den Völkern in der Zeit Ewigkeit zu geben […] das macht ihn zum Nachahmer und Nebenbuhler des in sich selber ewigen Volkes, das kein Recht auf seine eigene Ewigkeit mehr hätte, könnte der Staat erreichen, wonach er langt».
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* Trattando ora di Walter Benjamin, mi atterrei, nelle troppo rapide considerazioni che seguono alle diciotto tesi teologicopolitiche Sul Concetto di storia. Il proposito generale delle «tesi56» è chiaramente formulato da Benjamin stesso: Comprendere l’attualità come l’altra faccia dell’eternità, quella che è annidata nella storia, e rivelare l’impronta di questa faccia nascosta57.
L’eternità è qui dapprima considerata come ciò che si inscrive nel tempo a favore dell’attualità dell’istante storico, lui stesso considerato nella sua dimensione essenzialmente politica e teologico-politica. Le strutture storiche sono infatti suscettibili, per chi le sa decriptare, di disegnare in filigrana (en creux) una eternità invisibile. Ma una tal considerazione implica innanzitutto una confisca (saisie) pertinente del presente o meglio del «tempo-ora» (Jetztzeit) tale che sottende la conoscenza storica58. L’immagine del risveglio, in riferimento a Proust, chiarisce questa concezione attiva e dialettica della storiografia.
56. Sullo statuto del testo, si veda oggi la nuova edizione, Werke und Nachlaß, Kritische Gesamtausgabe, Bd. 19, Über den Begriff der Geschichte, pp. 161-191. Si può ancora rinviare al lavoro più datato di Pierre Missac: «Es sind Thesen! Sind es Thesen?», in Materialien zu Benjamins Thesen “Uber den Begriff der Geschichte”, Suhrkamp, Francfort 1975, pp. 318-336. Cfr. anche la sua opera più vecchia: Passages de Walter Benjamin, Seuil, Paris 1987, pp. 145 ss. 57. GS., IV, 2, p. 910. Si può paragonare il proposito di Benjamin con questa indicazione de La stella della redenzione: «L’eternità non è un tempo infinitamente lungo, bensì un domani che potrebbe altrettanto bene essere oggi. Eternità è un futuro che senza cessare di essere futuro, è tuttavia presente. Eternità è un oggi che è però consapevole di essere più che un oggi», p. 250; tr. it. cit., p. 233. 58. Giorgio Agamben, nella sua opera molto suggestiva, Il tempo che resta, Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, (tr. fr. Judith Revel, Bibliothèque Rivages, Payot, Paris 2000, pp. 222 ss.), a
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210 Ogni esposizione storica deve cominciare […] con il risveglio; essa anzi non può propriamente parlare di altro59.
Ciò equivale a scrivere risolutamente la storia a ritroso, a partire dal presente dello storico, compreso come il luogo stesso
partire da una suggestione di Jacob Taubes, Die Politische Theologie des Paulus, Wilhelm Fink Verlag, Munich 1993 (tr. fr. Mira Köller e Dominique Séglard, Le Seuil, Paris 1999), propone una serie di confronti molto interessanti tra il vocabolario di Benjamin e quello delle Lettere di Paolo, confronti spesso mediati dalla traduzione di Lutero. Ciò vale in particolare, e l’analisi sembra convincente, per il lessico della «tipologia», della «ricapitolazione» (anakephalaiôsis) o della restitutio (apocatastasi); il punto che ci interessa qui concerne la Jetztzeit di cui l’accezione corrente è l’attualità, presa spesso in senso peggiorativo. Agamben cita un passaggio illuminante di Schopenhauer o di Heidegger, Sein und Zeit, § 81, p. 421. Per chiarire il capovolgimento che opera Benjamin nel suo uso del termine, G. Agamben cita le ultime parola della tesi xviii: «Die Jetztzeit, die als Modell der messianischen in einer ungeheuren Abbreviatur die Geschichte der ganzen Menschheit zusammenfaßt, fällt haarscharf mit der Figur zusammen, die Geschichte der Menschheit im Universum macht», sottolineando che nel manoscritto in possesso di H. Arendt, il termine Jetztzeit era tra virgolette, equivalente per un testo manoscritto della pratica tedesca dell’epoca della spaziatura (sperren), che corrisponde alla nostra pratica tipografica del corsivo (italic). Forte di questo indizio circa ciò che non può dunque fare da «citazione», G. Agamben paragona questo «tempo dell’adesso» del kairos, al tempo messianico di cui parla san Paolo, Romani, 11 5: ἐν τῷ νῦν καιρῷ. 59. Das Passagen-Werk, N 4, 3; cfr. anche N3 a 3, N18, 4 (citiamo l’edizione Suhrkamp, Francfort 1982, 2 volumi, curati da Rolf Tiedemann; riproduce quella delle Gesammelte Werke, V 1, V 2. Abbiamo mantenuto la numerazione dei «dossiers» (note e materiali) che compare nell’eccellente traduzione francese di Jean Lacoste, Le Cerf («Passages»), Paris 1989; tr. it. a cura di Giorgio Agamben, Parigi, Capitale del XIX secolo, i «passeges» di Parigi, in Opere di Walter Benjamin, XI, Einaudi, Torino 1986. – Cfr. Barbara Kleiner, «L’éveil comme catégorie centrale de l’expérience historique dans le Passagen-Werk de Benjamin», in Walter Benjamin et Paris. Études réunies et présentées par Heinz Wismann, Le Cerf, Paris 1986, pp. 497-515. Heiner Weidmann ha scritto l’introduzione «Erwachen/Traum» del prezioso Benjamins Begriffe, curato da Michael Opitz e Erdmut Wizisla, Suhrkamp, Francfort, 2 vol., 2000.
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in cui la verità può infine sorgere60. Benjamin arriva fino a parlare di «rivoluzione copernicana» nella storiografia: La svolta copernicana nella visione storica è la seguente: si considerava il «passato» (das Gewesene) come un punto fisso e si assegnava al presente lo sforzo di avvicinare a tentoni la conoscenza a questo punto fermo. Ora questo rapporto deve capovolgersi e il passato deve diventare il rovesciamento dialettico, l’irruzione (Einfall) improvvisa della coscienza risvegliata61.
Se l’oggetto storico non è mai dato, ma sempre costruito dalla storiografia stessa, anche la scrittura della storia deve allora prendere coscientemente in carico l’attualizzazione del passato che risveglia e fa rivivere62. Benjamin sottolinea molto pre60. Cfr. Stéphane Mosès, op. cit., pp. 146 ss. – Cfr. anche Claude Imbert, «Le présent et l’histoire», in Walter Benjamin et Paris, cit.. pp. 743-792. Per una discussione epistemologica più generale di questo principio: «partire dal presente», si può rinviare a Siegfried Kracauer, History. The Last Things Before the Last; tr. fr. Claude Orsoni, Stock, Paris 2006, pp. 121 ss. 61. Passagen-Werk, K 1, 2; tr. fr. cit. p. 405; tr. it. cit. p. 508. La traduzione francese di «das Gewesen», tra virgolette nel testo, con il termine “Autrefois”, non è affatto felice: fa completamente perdere il riferimento implicito alla famosa formula di Ranke, spesso discussa da Benjamin, perfino nelle Tesi sul «Concetto di Storia». - Allo stesso modo, N 2a 3; tr. it. cit. p. 598: «Non è che il passato getti la sua luce sul presente, o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora (Jetzt) in una costellazione» (…worin das Gewesene mit dem Jetzt blitzhaft zu einer Konstellation zusammentritt). – Si può certamente riallacciare a questo motivo della «svolta copernicana» le indicazioni date da Benjamin nella lettera inviata (in francese) a Horkheimer il 22 febbraio 1940: «… ho appena terminato un certo numero di tesi sul concetto di storia. Queste tesi […] costituiscono un primo tentativo di fissare un aspetto della storia che deve stabilire una scissione irrimediabile tra il nostro modo di vedere e i superstiti del positivismo…», citato in GS., I, 3, Anmerkungen, p. 1225 (ed. Raulet, Kritische Ausgabe (KA), Bd. 19, p. 161). 62. Nella versione francese che dà delle tesi (13 di 17 tesi) nella primavera del 1940, Benjamin scriveva (tesi xvii): «C’est dans l’histoire universelle que l’historisme trouve sa réalisation accomplie. Rien de plus opposé au concept de l’histoire qui appartient au matérialisme historique. L’histoire universelle
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sto questa istanza cardinale del presente dello storico. Scrive, infatti, dal 1914, nella prime righe del saggio La vita degli studenti, che sembra contenere già come in germoglio tutti gli elementi che sarebbero stati sviluppati in seguito attraverso la sua critica della storiografia e dei filosofi della storia: C’è una concezione della Storia che, fidando nell’infinità del tempo, distingue solo il ritmo, la velocità degli uomini e delle epoche, che scorrono più rapidi o più lenti sui binari del progresso. A questa concezione corrispondono l’incoerenza, l’imprecisione e la mancanza di rigore delle pretese che essa avanza nei confronti del presente. Invece queste nostre considerazioni fanno riferimento ad uno stato determinato, in cui la storia riposa come raccolta in un punto focale, e a cui alludono da sempre le immagini utopiche dei pensatori. […] La storia ha il compito di dare la sua forma pura e assoluta allo stato immanente della perfezione, di renderlo visibile e sovrano nel presente. Ma non è possibile determinare questo stato ricorrendo ad una descrizione pragmatica dei fenomeni particolari (istituzioni, costumi, etc.), alla quale anzi si sottrae; può essere soltanto colto nella struttura metafisica, come il regno messianico o l’idea francese di rivoluzione63.
manque d’armature théorique. Elle procède par voie d’addition. En mobilisant la foule innombrable des choses qui se sont passées, elle tâche de remplir le vide de ce récipient qui est constitué par le temps homogène. Tout autre le matérialisme historique. Il dispose, lui, d’un principe de construction», in Walter Benjamin, Écrits français, présentés par J.-M. Monnoyer, Gallimard, Paris 1991, p. 346 (KA. 19, p. 67), Le tesi «Sur le concept d’histoire» si trovano in francese nell’edizione italiana citata Sul concetto di storia, pp. 6170, ivi, p. 69. – Il rovescio di questa «costruzione», la «disintegrazione della continuità storica»: Passagen-Werk, N 10a, 1; tr. it. cit., p. 617: «Il momento distruttivo o critico si fa valere forzando la continuità storica [Nel testo francese désintegration de la continuité historique, N.d.T.] poiché soltanto così l’oggetto storico si costituisce per la prima volta. All’interno del corso continuo della storia è, infatti, impossibile identificare un oggetto storico». 63. GS., II, 1, p. 75; tr. it. «La vita degli studenti» in Opere complete I, Scritti 1906-1922, Einaudi, Torino 2008, p. 250.
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Così la critica dei presupposti dello storicismo e dell’idea di progresso64 prende di mira direttamente anche una certa concezione del tempo e della filosofia della storia: la concezione «volgare» del tempo inteso come tempo fisico, continuum lineare in cui si concatenano senza rottura le serie delle cause e degli effetti. Ma vuol dire anche che il primo requisito di ogni conoscenza storica è la coscienza critica del tempo presente – della situazione – e della sua significazione potenziale per l’avvenire, anche se, reciprocamente, il presente trova il suo spessore e la sua realtà vera unicamente in funzione di un passato che prolunga o meglio che si ripete in lui. Così Benjamin si oppone risolutamente a ogni concezione della storiografia fondata su una qualsiasi empatia storica65. Infatti il senso della storia non si rivela, per Benjamin, attraverso una evoluzione continua, ma non può emergere che a cose fatte, rimarcando le rotture di una apparente continuità, quando sopraggiunge, in maniera inattesa, ciò che è suscettibile di interromperne il corso. A dire il vero, ciò che «sopraggiunge» risulta in realtà da un «télescopage»66 dal quale risulta precisamente l’imma-
64. Passagen-Werk, N 9 a 1: «Il concetto di progresso va fondato sull’idea di catastrofe. Che “tutto continui così” è la catastrofe» (tr. it. cit., p. 614). Cfr. anche, ibid., N 9a 7: «Il progresso non è di casa nella continuità del corso del tempo, ma nelle sue interferenze: la dove il veramente nuovo si rende percepibile per la prima volta con la sobrietà del mattino». Nelle note complementari «sur le concept d’histoire», Benjamin scriveva: «È solo quando il corso della storia scivola via liscio come un filo tra le mani dello storico, che è lecito parlare di «progresso». Se esso è invece una corda molto sfilacciata e svolta in mille matasse che pendono tutte come trecce sciolte, nessuna di queste ha un posto determinato prima che tutte quante siano raccolte e intrecciate nell’acconciatura del capo» (Nouvelles thèses C, in Écrits français, ed. cit., p. 349; tr. it. in Sul concetto di storia, p. 94). 65. «Il terzo bastione dello storicismo […] si presenta come la “immedesimazione con il vincitore”». GS., I, 3, 1241; tr. it. «Materiali preparatori delle tesi» in Sul concetto di storia, p. 77. 66. N 7a, 32 «Il passato télescopé dal presente».
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gine, come «immagine dialettica», a qualità «immaginale»67. È importante infatti sottolineare il carattere «visuale» dell’immagine folgorante di cui la carica è se non intuitiva almeno «illustrativa» e quasi cinematografica: Per quale via – chiede Benjamin – è possibile collegare ad una applicazione del metodo marxista un aumento di questa tangibilità [una illustrazione intuitiva – Anschaulichkeit]? La prima tappa di questo cammino sarà assumere il principio del montaggio nella storia. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base dei minuscoli elementi ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire anzi, nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale68.
La bella immagine del «cristallo dell’accadere totale» sarà ripresa nelle Tesi (tesi XVII) attraverso la nozione di «monade»: «Quando il pensiero si arresta d’improvviso in una costellazione satura di tensioni, le provoca un urto in forza del quale essa si cristallizza come monade»69. Come sottolinea con forza Stéphane Mosès70, è la storia stessa 67. N 3, 1 (GS., V, 1, p. 578): «Denn während die Beziehung der Gegenwart zur Vergangenheit eine rein zeitliche ist, ist die des Gewesenen zum Jetzt eine dialektische : nicht zeitlicher, sondern bildlicher Natur» - «Poiché mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, quella tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non di natura temporale, ma immaginale [figurative nella tr. fr. cit., N.d.T.]», tr. it. cit., p. 117. 68. Passagen-Werk, N 2, 6; tr. it. cit., p. 596 s. 69. Sul concetto di storia, p. 51. Nella versione francese di questa tesi, Benjamin aveva scritto: «Supposons maintenant bloqué le mouvement de la pensée – il se produira alors dans une constellation surchargée de tensions une sorte de choc en retour; une secousse qui vaudra à l’image, à la constellation qui la subira, de s’organiser à l’improviste, de se constituer en monade en son intérieur. L’historien matérialiste ne s’approche d’une quelconque réalité historique qu’à condition qu’elle se présente à lui sous l’espèce de la monade», Écrits français, cit., p. 346; Sul concetto di storia, p. 69, (KA., 19, p. 67). 70. Op. cit., p. 145. Cfr. anche Françoise Proust, L’histoire à contretemps. Le temps historique chez W. Benjamin, Le Cerf («Passages»), Paris 1994, pp. 19 ss.
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che si genera nella scrittura della storia. Da allora, scrivere la storia non implica tanto – contro Ranke – il ritrovare il passato in quanto è stato presente o in quanto vissuto71 (tesi XVII), ma di crearlo ancora in funzione della nostra attualità propria, poiché si tratta principalmente per lo storico di interpretare le tracce che il passato ha lasciato e in fin dei conti di «leggere il reale come un testo»72. Da cui deriva questa considerevole definizione del compito dello storico che merita di essere citato di nuovo: «Comprendere l’attualità come l’altra faccia dell’eternità, quella che è annidata nella storia, e rivelare l’impronta (empreinte) di questa faccia nascosta»73. Appartiene, allora, alla coscienza politica del presente di saltare per così dire al di sopra dei secoli per fermare un momento singolare del passato nel quale possa riconoscersi. Il compito dello storico non è dunque mai di commemorare il passato, ma di rianimarlo sforzandosi di compiere oggi ciò che 71. La critica dell’Erlebnis, il vissuto o l’esperienza vissuta è un tema costante nel pensiero di W. Benjamin. Si veda, in Zentralpark, GS., I, 2, 32 a: «Il ricordo (Andenken) è la reliquia secolarizzata. Il “ricordo” è complementare all’“esperienza contingente”. In esso si deposita la crescente autoestraneazione dell’uomo, che cataloga il suo passato come una proprietà morta. […] La reliquia deriva dal cadavere, il “ricordo” dall’esperienza defunta (abgestorbene Erfahrung), che si definisce, eufemisticamente, “esperienza contingente” (Erlebnis) [expérienc vécue nella traduzione francese, N.d.T.]», tr. it. «Parco centrale», in Opere complete VII, Scritti 1938-1940, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2006, p. 200. Il giovane Gershom Scholem scriveva, nelle 95 tesi su ebraismo e sionismo, redate nel 1918 e inviate a Benjamin: «L’esperienza vissuta (Erlebnis) è ancora peggiore della magia (Zauber). La magia è demonica, l’esperienza vissuta è spettrale (gespenstich)», tesi 63, in G. Scholem, Tagebücher, nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923, ed. K. Gründer et alii, Jüdischer Verlag (Suhrkamp), Francfort 2000, p. 304; tr. fr. Marc de Launay, in Cahier de l’Herne, G. Scholem, ed. Maurice Kriegel, L’Herne, Paris 2009, pp. 97-100; tr. it. in Walter Benjamin, Sul concetto di storia, p. 295-303. 72. Das Passagen-Werk, N 4,2; tr. it. cit. p. 602. 73. GS., IV, 2, 910.
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un tempo è stato mancato o è rimasto incompiuto. La storia concepita come «salvataggio» o «salvezza» (Rettung) dovrà in ogni momento sottrarre il passato al conformismo che minaccia di fargli violenza74. È quello che viene enunciato in questi termini decisivi in Passagen-werk: Da quale pericolo sono salvati i fenomeni? Non solo e non tanto dal misconoscimento e dal dispregio in cui sono caduti, quanto piuttosto dalla catastrofe rappresentata da una determinata forma della loro tradizione, la loro «celebrazione come patrimonio ereditario». – Essi sono salvati, mostrando in essi la rottura, il salto. – C’è una tradizione che è la catastrofe75.
Così il tempo non si dispiega nelle sue dimensioni propriamente storiche se non nella misura in cui risponde innanzitutto ad una esperienza autenticamente politica del presente, quell’esperienza nella quale passato e avvenire arrivano a legarsi. Ecco cosa spiega la temibile responsabilità che è sempre la nostra, nei confronti del passato quando si tratta di scegliere di salvare tale o tal altro momento del passato da un conformismo o da una pia commemorazione che minacciano di inghiottirlo. Ma vuol dire anche che una tale scelta dovrà esercitarsi per la maggior parte del tempo contro la «storia dei vincenti» e della continuità che intende istituire con il susseguirsi delle
74. GS., I, 2, 695. Tesi VI: «In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla». – Ma il testo prosegue: «Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma come colui che sconfigge l’Anticristo» (Sul concetto di storia, p. 27; KA., 19, p. 96). 75. Das Passagen-Werk, N 9, 4. Cfr. anche GS., I, 3, 1242: «So stark wie der destruktive Impuls, so stark ist in der echten Geschichtsschreibung der Impuls der Rettung. Wovor kann aber etwas Gewesenes gerettet werden? Nicht sowohl vor dem Verruf und der Mißachtung, in die es geraten ist als vor einer bestimmten Art seiner Überlieferung. Die Art, in der es als “Erbe” gewürdigt wird, ist unheilvoller als seine Verschollenheit es sein könnte».
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generazioni. Una tale costruzione della storia, essenzialmente consacrata alla «memoria dei senza-nome»76, induce allora un cambiamento radicale nella prospettiva storica in quanto si tratta di prendere in carico i dimenticati. Tuttavia una tale discontinuità è anche ciò che rende possibile un’altra tradizione: Mentre l’idea di un continuum livella al suolo ogni cosa, l’idea del discontinuum è il fondamento della vera tradizione77.
Un tale pensiero della discontinuità, dell’interruzione, della rottura o della morte si lascia ugualmente mettere in risalto da un rapido paragone con la concezione bergsoniana della durata: Se Baudelaire tiene in mano, nello Spleen e nella La vie antérieure, gli elementi dissociati della vera esperienza storica, Bergson, nella sua concezione della durata, si è estraniato assai più dalla storia. «Il metafisico Bergson sopprime la morte [l’allusione è ad Horkheimer, Zur Bergsons Metaphysik der Zeit, 1934]». Che, nella durée bergsoniana, venga meno la morte, è ciò che la separa dall’ordine storico (come anche da un ordine preistorico). Il concetto bergsoniano dell’action ha lo stesso carattere. […] La durée, da cui è stata soppressa la morte, ha la cattiva infinità di un arabesco. Essa esclude di poter accogliere la tradizione78.
È ancora la responsabilità etico-politica che difende Benjamin contro una storia (anche nella sua versione marxista) che si limita a ritracciare un movimento continuo o un progresso. La storia rappresenta piuttosto la posta in gioco di una lotta sempre da ricominciare, è per questo motivo che lo storico autenticamente rivoluzionario, ben lungi dal tenere il registro degli eventi che scandirebbero una marcia ascendente, cerca 76. GS., I, 3, p. 1241; tr. it. Sul concetto di Storia, p. 78. 77. GS., I, 3, p. 1236; tr. it. cit., p. 83. 78. «Über einige Motive bei Baudelaire», GS., I, 2, p. 643; tr. it. «Su alcuni motivi in Baudelaire» in Opere complete VII, p. 407 s.
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sempre di nuovo di liberare tutto ciò che è rimasto riservato e come in attesa, in ogni momento del passato. L’oggetto storico, mai «dato», è costruito con quelle che Benjamin chiama, rinviando implicitamente al surrealismo, delle «immagini-dialettiche»: Quella dialettica è un’immagine balenante. Così, come un’immagine che balena nell’istante (Im Jetzt) della riconoscibilità, bisogna fissare quella di ciò che è stato, in questo caso quella di Baudelaire. La salvezza (Rettung), che si raggiunge solo ed esclusivamente in questo modo, si conquista solo come percezione di ciò che si sta irrimediabilmente smarrendo79.
Sono tali immagini che permettono ai differenti elementi del passato «di ottenere un grado di attualità più alto che al momento della loro esistenza»80. L’immagine-dialettica, in quanto «télescopage» del passato e del presente, è così il principale strumento della rottura del pseudo continuum del tempo storico. È anche lei che spiega il carattere «violento» e «distruttore», critico in ogni caso, della scrittura della storia. L’immagine dialettica disegna una costellazione; nasce come l’immagine 79. Zentralpark (33), GS., I, 2, p. 682; tr. it. cit., p. 201 («Das dialektische Bild ist ein aufblitzendes. So, als ein im Jetzt der Erkennbarkeit aufblitzendes Bild, ist das des Gewesenen, in diesem Falle das von Baudelaire, festzuhalten. Die Rettung, die dergestalt, und nur dergestalt, vollzogen wird, läßt sich immer nur als auf der Wahrnehmung von dem unrettbar sich verliernden gewinnen»). 80. Das Passagen-Werk, K 2, 3; tr. it. cit., p. 512: «…come questo essere attuale (che è altra cosa dall’essere-attuale dell’«attualità» [das Jetztsein der “Jetztzeit”], ma è piuttosto un essere discontinuo, intermittente) significhi già in sé una superiore concretezza, è un problema che il metodo dialettico non può evidentemente affrontare all’interno dell’ideologia del progresso, ma solo in una visioine della storia (Geschichtsanschauung) che la oltrepassi in tutti i sensi. In essa si dovrebbe parlare della crescente condensazione (integrazione) della realtà (Wirklichkeit), in cui ogni passato (a suo tempo) può ottenere un grado di attualità (Aktualitätsgrad) più alto che al momento della sua esistenza. La sua configurazione in quanto superiore attualità spetta all’immagine in cui la comprensione lo riconosce e lo colloca».
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poetica surrealista dall’incontro o dallo scontro di elementi, qui di eventi, eterogenei e non contigui. Ciò che importa, è che la potenza di un’immagine di questo genere risvegli un senso dimenticato e che il passato ritrovi, nel cuore del presente, una attualità nuova. La vera immagine del passato non ci appare se non per il tempo di un lampo. Non si può cogliere il passato se non come immagine già sempre scomparsa nell’istante stesso in cui si rivela (Tesi V)81
È ancora questa immagine dialettica, che fa sorgere una costellazione nuova, che si ritrova nell’appendice A delle Tesi, a titolo di principio critico della causalità storica: Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessuno stato di fatto è in qualità di causa, già perciò storico. Lo è diventato, postumamente, attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferma la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso (Jetztzeit), nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico82.
Sull’immagine dialettica, ricordiamo ancora questa osservazione capitale del Passagen-Werk83 che è nello stesso tempo una critica della fenomenologia e di Heidegger, in quanto il 81. KA., 19, p. 95 (traduzione eseguita a partire dalla traduzione francese, N.d.T.). Cfr. Sul concetto di storia, p. 25 s. modificata. Cfr. anche la versione francese di Benjamin: «…la vérité immobile qui ne fait qu’attendre le chercheur ne correspond nullement à ce concept de vérité en matière d’histoire. Il s’appuie bien plutôt sur le vers de Dante qui dit : c’est une image unique, irremplaçable du passé qui s’évanouit avec chaque présent qui n’a pas su se reconnaître visé par elle», in Ibid., p. 65 (KA., 19, p. 62). 82. GS., I, 2, p. 704 (KA., 19, p. 105); tr. it. Sul concetto di tempo, p. 57. 83. GS., V, p. 577 (N 3, 1); tr. it. cit., p. 599.
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pensiero della storia come attualizzazione non saprebbe essere confuso con la tematica heideggeriana dell’apertura all’avvenire o a ciò che si destina. Ciò che distingue le immagini dalle «essenze» della fenomenologia è il loro indice storico. (Heidegger cerca invano di salvare la storia per la fenomenologia in modo astratto, attraverso la «storicità» – Geschichtlichkeit). […] L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono ad un’epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un’epoca determinata. E precisamente questo giungere a leggibilità è un determinato punto critico del loro intimo movimento. […] Ogni ora (Jetzt) è l’ora (Jetzt) di una determinata conoscibilità. In quest’ora la verità è carica di tempo fino a frantumarsi. (E questo frantumarsi, e nient’altro, è la morte dell’intentio, che coincide con la nascita dell’autentico tempo storico, il tempo della verità).
Così, come osserva ancora molto giustamente Stéphane Mosès, la metafora del risveglio e quella dell’immagine dialettica trasformano dall’interno l’idea del presente come semplice transizione tra passato e avvenire e contribuiscono finalmente a fare del tempo-ora una nuova figura del «giudizio finale»: Ogni attimo è l’attimo del giudizio su certi attimi che l’hanno preceduto84.
Nell’attesa di questo Giorno del giudizio, la riconciliazione con il passato resta utopica: la memoria non è «commemorazione» del passato, ma rammemorazione (Eingedenken) che Benjamin distingue accuratamente dall’Andenken, dal «ricordare» legato al semplice vissuto (Erlebnis85): la memoria del «fare memoria» (Eingedenken) non comporta allora più 84. GS., I, 3, p. 1245; tr. it. in Sul concetto di storia, p. 91. 85. Negli appunti preparatori ai Passagen-Werk, Benjamin scriveva: «Le cose vendute nei passages sono i ricordi. Il «ricordo» (Andenken) è la forma della merce nei passages», in Parigi Capitale del XIX° secolo, cit., p. 1062.
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alcunché di cumulativo: non si tratta più di commemorare il passato, ma di rianimarlo, di dargli una vita nuova, e di tentare di compiere oggi ciò che è stato mancato un tempo, sulla scia senza dubbio dell’esperienza proustiana della resurrezione del passato. Nelle «Considerazioni su Baudelaire» che si trovano in Zentralpark, Benjamin presentava in questi termini quella distinzione: Il ricordo (Andenken) è la reliquia secolarizzata. Il «ricordo» è complementare all’«esperienza contingente». In esso si deposita la crescente autoestraneazione dell’uomo, che cataloga il suo passato come una proprietà morta. […] La reliquia deriva dal cadavere, il «ricordo» dall’esperienza defunta, che si definisce, eufemisticamente, «esperienza contingente» [vécue nella tr. fr., N.d.T.]86.
Contro il ricordo (Andenken), è ancora la «rammemorazione» che gioca un ruolo centrale nell’ultima delle tesi che si può considerare come il testamento benjaminiano. Di questo ultimo paragrafo, Scholem scriveva che assomiglia a una «“apoteosi” del giudaismo»87: È noto che agli Ebrei era vietato investigare il futuro. La Thorah e la preghiera li ammaestrano invece nella memoria (remémoration nella tr. fr., N.d.T.). Ciò toglieva loro il fascino del futuro […]. Non per questo, però, il futuro diviene per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto: poiché ogni secondo rappresentava in esso la porticina da cui poteva entrare il Messia.
In Benjamin il messianismo non disegna più la figura di una attesa della fine dei tempi aperta dall’apparizione del dio, ma è piuttosto ciò che preserva la possibilità, data in ogni momento del tempo, che avvenga, grazie alla rammemorazio-
86. Zentralpark, (32 a), GS., I, 2, p. 681; tr. it. cit., p. 200. 87. Walter Benjamin und sein Engel, Francfort 1983; tr. it. di M. T. Mandalari, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1978, p. 109.
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ne, qualcosa di radicalmente nuovo88. La rammemorazione (Eingedenken) così intesa può senza dubbio essere avvicinata dall’ingiunzione: Zakhor! – Ricordati!89 Ma il ricordo non segna qui solamente l’esigenza di trattenere la memoria degli avvenimenti del passato, ma anche quella della ri-attualizzazione dell’immemoriale nell’esperienza vivente, quella stessa che portava a compimento la liturgia secondo Rosenzweig. Ciò significa dire che ormai la funzione della rammemorazione non è niente di meno che la redenzione del passato, la sua ultimazione o il suo compimento. È ciò che emerge, come è noto, dalla discussione con Horkheimer di cui Benjamin ci ha lasciato traccia nei Passagen-Werk: […] la storia non è solo una scienza, ma anche e non meno una forma del ricordo. […] nel ricordo facciamo un’esperienza che ci vieta di concepire in modo fondamentalmente ateologico la storia, altrettanto poco ci è lecito tentare di scriverla in concetti immediatamente teologici90.
Sotto il nome di Redenzione, Benjamin concepisce una rottura del tempo continuo della storia, attraverso la quale solamente può avvenire l’inatteso. La Redenzione non è quindi rinviata alla fine dei tempi, ma avviene o può avvenire in ogni momento, nella misura in cui ogni istante nella sua singolarità assoluta, è suscettibile di far apparire un nuovo stato del mondo91. 88. Cfr. Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 1978, pp. 103 ss. 89. Cfr. Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor. Jewish History and Jewish Memory, University of Washington Press, 1982; tr. fr., Eric Vigne, Gallimard, Paris 1991. 90. Op. cit., N 8, 1; tr. it. cit., p. 611. 91. Concezione del tempo che Stéphane Mosès caratterizzava perfettamente in questi termini: «… ogni istante possiede la qualità che gli è propria, la sua colorazione insostituibile e non può essere sommato a quello che lo precede o a quello che lo segue. Questo tempo non può essere descritto come una linea continua sulla quale gli avvenimenti si susseguono e si con-
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Solo un istante di questo genere – quello dell’illuminazione storico-poetica – può essere qualificato come messianico: Il messia tronca la storia; il messia non compare al fine di uno sviluppo92.
Una tale interruzione può certamente sorgere sotto la figura della «grande Rivoluzione» (Tesi XV), ma anche, e più radicalmente ancora forse, quella della rammemorazione e della festa. Una tale concezione del tempo della storia fissa così un «un appuntamento segreto tra le generazioni passate e la nostra». Il tempo dell’oggi è quello in cui il presente è vissuto come una ri-attualizzazione permanente del passato, come il tentativo, sempre ripreso, di ridare vita a ciò che un tempo è stato misconosciuto o sacrificato, secondo una nuova dimensione etica dell’esperienza del tempo e della storia, che è permesso di meditare in contrappunto all’analitica heideggeriana della temporalità aperta in storicità/istorialità, e più ancora del pensiero dall’altro cominciamento, o dell’attesa di un ultimo dio che solo potrebbe ancora salvarci.
catenano in un movimento continuo di accumulazione; bisogna piuttosto immaginare come un filo delle volte strappato, fatto di momenti qualitativamente e di cui non si può fare la somma. Ciascuno di questi istanti forma una costellazione messianica unica, che non tornerà più […]. La Redenzione si infrange in un’infinità di frammenti che sono altrettanti momenti messianici», «Messianisme du temps présent», in Lignes, 27, «Temps historique, temps messianique», octobre 2008, p. 37. 92. GS., I, 3, p. 1243; tr. it. Sul concetto di Storia, p. 88.
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Indice Introduzione
p. 9
Capitolo primo L’ontologia fondamentale di Emmanuel Levinas
p. 13
Capitolo secondo Da una materialità all’altra
p. 47
Capitolo terzo Deformalizzare la nozione di tempo
p. 73
Capitolo quarto Levinas di fronte al teologico-politico
p. 107
Capitolo quinto Il nuovo pensiero: Rosenzweig-Heidegger
p. 149
Capitolo sesto L’istante, lampo dell’eternità, Schelling, Rosenzweig, Benjamin
p. 185
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Au dedans, au dehors
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«La trama logica dell’essere»: espressione che può sembrare paradossale se consideriamo che si tratta di un autore noto per la sua radicale critica dell’ontologia. La tesi del presente lavoro intende tuttavia interrogare questa rimessa in questione dell’ontologia o meglio della differenza ontico-ontologica. La radicalità della critica impegna in qualcosa come una controontologia, come una nuova «ontologia fondamentale», legata alle seguenti domande: Su quale «ente esemplare» leggere «il senso dell’essere»? Come definire la relazione dell’esistente, con l’essere, l’ente, gli enti, il mondo, Dio …? I primi capitoli del presente volume si sforzano, in vario modo, di prendere sul serio questa ipotesi di un’altra ontologia, dell’idea di un’altra «fenomenologia materiale», o ancora dell’avvio del motivo della traccia e della diacronia. La seconda parte dell’opera – che non ha alcuna pretesa sintetica o sistematica, e che procede per lo più per colpi di sonda – non abbandona del tutto le acque levinassiane. Innanzitutto perché si fa carico del rischio di una esplorazione, del tutto preliminare e provvisoria, della dimensione teologica e politica di questo pensiero, e poi perché, anche quando si dirige verso Schelling, Rosenzweig o Benjamin, sono sempre i temi legati alla temporalità e alle sue stratificazioni, alla profondità di un passato immemoriale, alla meditazione di un’altra storia («storia superiore» o «storia santa»), o alla parola (interlocuzione, chiamata, nomina) che sempre attraggono il nostro proposito.
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ISBN E-book 9788898694600
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