La trama 8843090119, 9788843090112

Come si costruiscono, si articolano e si evolvono le trame nella storia del romanzo. Un percorso attraverso i generi e l

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Italian Pages 125 [126] Year 2018

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La trama
 8843090119, 9788843090112

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Bussole· 561 Lingua e letteratura italiana

1" edizione, gennaio 2.018 ©copyright 2.018 by Carocci editore S.p.A Roma .•

Editing e impaginazione Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nel gennaio 2.018 da Digitai Team (PU) ISBN 9 78-88-430-9011-2.

Riproduzione vietata ai sensi di legge {art. 171 della legge 2.2. aprile 1 941, n. 633 ) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele 11, 2.2.9 oo186 Roma tel o6 42. 81 84 17 fax o6 42. 74 7 9 31

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Giacomo Raccis

La trama

Carocci editore

@ Bussole

L'asterisco('") all'interno del testo rinvia al glossario.

Indice Introduzione. Un mondo di trame 1.

In principio fu l'avventura

1.1.

Lazarillo, il primo plcaro

15

15

1.2.. La trama infinita di Cervantes 1.3.

7

19 2.3

Avventure nell' Inghilterra del Settecento

1.4. Una nuova forma di viaggio: la divagazione

2.

Confessioni private e istanze di socializzazione

2..1. La sincerità di una lettera 2..2.. Polifonie epistolari

2..4. Bildung ambigue e parziali

37 49 53



Il romanzo ottocentesco

3.1.

Mettere ordine nella Storia

62.

67

3+ Nel regno della descrizione



57

ss

3.2.. Smarrimenti, epifanie, disincanti I maestri del realismo

72.

Vite in frantumi, vite ordinate, vite letterarie

4.1. Le vite in frantumi del romanzo modernista 4.2.. Le vite ordinate del romanzo poliziesco 4·3· Romanzi di romanzi e vite letterarie

Glossario

3s

41

2..3. Il romanzo di formazione

3·3·

32.

81

81

93

97

110

5

Riferimenti bibliografici

11 3

Indice dei nomi e delle opere anonime

6

12 3

Introduzione Un mondo di trame Siamo immersi nelle storie. Oggi più che mai, nell'era dei social net­ work, dei talent show, dei videogiochi e della produzione televisiva seriale, viviamo in un Russo costante di racconti, che provano a coin­ volgerci ed emozionarci. Non a caso, per questa nostra epoca, si parla spesso di narrative turn, a dire di come il paradigma narrativo non sia più appannaggio esclusivo della sfera delle arti, ma sia esondato nei campi disciplinari più disparati, dal diritto alla gestione d'impre­ sa o alla psicologia (Salmon, 2.oo8; Rose, 2.013). Eppure, nonostante questo allargamento esponenziale del campo narrativo sia legato a doppio filo al tempo presente e all ' influenza dei nuovi media, non si può non notare come la pervasività del racconto sia in realtà una caratteristica propria di tutte le epoche. Già nel 1966 Roland Bar­ thes apriva l'Introduzione all'analisi strutturale dei racconti scriven­ do che «il racconto comincia con la storia stessa dell 'umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti » (Barthes, 1966, p. 7 ). La capacità di raccontare è connaturata a quella condizione di « animale sociale » attribuita da Aristotele all'uomo. E le recenti acquisizioni della neuronarratologia, disciplina che pro­ pone un approccio cognitivo alla narrazione non solo letteraria, non fanno che confermare quel legame tra pratica narrativa e costruzio­ ne dell'identità individuale già messa in evidenza da studiosi come Paul Ricoeur (1983) o Frank Kermode (1972.). Solo riconducendo gli eventi destrutturati ed eterogenei della vita entro la forma rico­ noscibile e compiuta della narrazione - definita dalla triade incipit­ svolgimento-conclusione - è possibile acquisire esperienza e dare senso all'esistenza (Calabrese, 2.009 ). Prima ancora che veicolo di un appagamento estetico, quindi, il racconto dev'essere considerato come risposta a una necessità psichi ca individuale e sociale che coin­ volge l'ordine logico in cui disponiamo gli avvenimenti della nostra vita, ma anche gesti e azioni minime della più banale quotidianità (Turner, 1996). 7

un simile contesto di « narratività diffusa» (Meneghelli, 2013, p. 16) s'inserisce questo libro, che vorrebbe essere un rapido prontua­ rio su come le storie si costruiscono, si articolano e si evolvono nella storia del romanzo occidentale. La scelta del romanzo come terreno di confronto tra le trame è presto spiegata. Come ha scritto Walter Benjamin (1962a), l'introduzione del romanzo nel sistema letterario moderno ha determinato un cambio di paradigma nelle modalità di ricezione della narrazione, definendo un modo nuovo di leggere e assi­ milare le storie, che dura ancora. Dalla narrazione orale dell'aedo che intrattiene un uditorio che è anche, e soprattutto, una comunità, si passa a un libro scritto, letto privatamente nel silenzio della propria stanza. È l'inizio dellaLeserevolution (Chartier, 1992), una rivoluzio­ ne della lettura strettamente legata all'invenzione del libro a stampa. Non ci vorrà molto perché nascano i primi romanzi, che anzi saranno la linfa della futura industria editoriale, anche se per molto tempo gli autori s'ingegneranno per adottare trovate che restituiscano al raccon­ to scritto l'urgenza e la concretezza della narrazione in praesentia: dal ricorso a di espedienti narrativi come i manoscritti ritrovati all'inven­ zione di narratori-conversatori, fino alla fine del Settecento il roman­ zo sarà il campo di simulazione di vecchie modalità di comunicazione letteraria. E sul fronte opposto, la stessa «volontaria e temporanea sospensione dell' incredulità » che ogni lettore adotta all'inizio di un romanzo, quando stipula con l'autore uno specifico "patto narrativo" (Rosa, 2oo8), decidendo che per tutto il tempo della lettura prenderà per vero quanto gli verrà raccontato, contribuisce a ricreare, almeno idealmente, le condizioni per una ricezione integrale del testo, che dia appagamento estetico, ma trasmetta anche un'esperienza collettiva e salvifica (Lavagetto, 2003, p. 289 ) In questo campo di tensioni si muovono le trame romanzesche, che hanno sempre intrattenuto strette relazioni con i sistemi socio­ culturali, i paradigmi conoscitivi e le configurazioni dell'immagina­ rio delle diverse epoche. Come sosteneva Michail Bachtin (1979c), d'altra parte, il romanzo è un genere onnivoro, capace di assimilare e mescolare ogni tipo di codice linguistico, stile e modalità espressiva. In altre parole, è una forma narrativa che permette di «raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo» (Mazzoni, 2ou, p. 29 ), ed è queIn

.

8

sto che lo rende imprescindibile per uno studio della trama nell'età moderna e contemporanea. L'affermazione del romanzo è una delle più significative conseguenze della rivoluzione borghese che si com­ pie a cavallo tra Settecento e Ottocento (Schulz-Buschhaus, 1999, pp. 49-53) e che provoca il crollo definitivo delle assiologie etiche, politiche e anche letterarie della società d'anden régime (nobiltà di sangue, assolutismo, separazione degli stili secondo le norme della Rota Vergilii). «Moderna epopea borghese » , come lo definiva Hegel (1836-38, p. 1223), il romanzo è il genere che, con i propri intrecci, si fa carico di tenere sotto controllo le trasformazioni e la proliferazio­ ne di questo caotico nuovo mondo ma, parallelamente, consente an­ che un'evasione verso nuovi immaginari (Calabrese, 1995, pp. 8-29). E allora, prima di cominciare, converrà chiarire cosa si intenda per trama. Dal campo tessile, dove indica la struttura di un tessuto e l'in­ treccio dei suoi fili, il termine "trama" passa ad applicarsi in senso figurato anche alla struttura delle opere narrative, qualsiasi sia il mez­ zo espressivo a cui sono affidate. Nell'ambito della teoria letteraria, però, questa definizione non è sufficiente a precisare la posizione del­ la trama all'interno di una costellazione di nozioni che le si sovrap­ pongono e affiancano. In primis i concetti di fabula e intreccio, che nella narratologia tradizionale (Toma.Sevskij, 1925; Chatman, 1978) indicano rispettivamente l'ordine cronologico dei fatti di una sto­ ria e l'ordine narrativo in cui vengono ricombinati nel racconto. La trama sembra identificarsi con uno « schema sintetico» dell'intrec­ cio, al quale aggiunge un « surplus di significato » che è il prodotto proprio del modo dinamico in cui si articolano gli eventi narrativi (Consonni, 2012, pp. 5-6). La trama non è quindi solo «il romanzo nel suo aspetto logico e concettuale» , come diceva Edward Morgan Forster (1927, p. 103), ma è anche il meccanismo con cui le sequenze testuali si succedono nel tempo, il ritmo che imprimono al racconto e gli specifici processi di ricezione a cui danno luogo. Difatti Ricoeur (1986) ha proposto l'espressione di "messa in intreccio" per indicare la natura processuale, dialogica e passionale del racconto. Nonostante per alcuni decenni la narratologia strutturalista abbia sminuito la rilevanza della cronologia nella costruzione dell' intrec­ cio (ad esempio Greimas, 1966; Bremond, 1973; Prince, 1973), dan9

do rilievo alle funzioni narrative ereditate da Vladimir Propp (I928) allo scopo di arrivare a formulare una "grammatica'' dell'"intreccio minimo completo" (Todorov, I97I), le strategie narrative che inter­ vengono primariamente sulla coordinata temporale sono le più rile­ vanti per la comprensione della trama (le ha indagate analiticamente Genette, I972). li racconto, d'altra parte, si regge proprio su uno sta­ tutario ritardo tra ciò che l'autore deve dire e ciò che il lettore finirà per sapere: come insegna la vicenda di Sheherazade nelle Mille e una notte, quando questo ritardo viene colmato il testo finisce e il raccon­ to muore. Dal punto di vista formale, una storia diventa raccontabile nel momento in cui nella sua rappresentazione vengono introdotte delle discontinuità che permettono di scostare la temporalità narra­ tiva dalla semplice cronologia (Labov, Waletzky, I967; Ricoeur, I984; Sternberg, I990i I992) e di stabilire una gerarchia dei dati narrativi. La trama si costruisce quindi attraverso una serie di strategie di dila­ zione ed elusione mirate, come in un processo di seduzione, a genera­ re e poi ravvivare il desiderio di arrivare alla fine (Giovannetti, 20I2, pp. 105-10 ) : la «raccontabilità » di una storia (Bernini, Caracciolo, 20I3, p. 32) consiste proprio in questa capacità di scostarsi dalle attese del lettore, mantenendo un precario, ma determinante equilibrio tra riconoscimento di un télos e sorpresa per i modi con cui si realizza. Tutti i romanzi, anche quelli che provocatoriamente la stravolgono, sono retti da questa prospettiva del «compimento» (Kermode, I972, p. 63), che Peter Brooks ha tradotto nei termini efficaci di una «eroti­ ca» del testo (Brooks, I984, p. 3 9 ). Come si è detto, infatti, è un vero e proprio desiderio quello che spinge il lettore ad arrivare alla fine della storia; e questo desiderio trova riflesso in quello complementare che muove i personaggi verso la risoluzione dei conflitti, il superamento delle prove, la conquista degli "oggetti" desiderati. Sono traiettorie convergenti, che si incrociano delineando la possibilità di una fine che retrospettivamente restituisca un senso al disordine in cui si svolge il racconto. Un simile rispecchiamento può avere luogo solo se la prima linea desiderante, quella dei personaggi, suscita interesse nel lettore. Per Henry Fielding, com'è noto, l'interesse è la «gran norma» (I749, vol. I, p. 4I ), imprescindibile per qualsiasi opera che voglia raggiungere un pubblico più vasto dei "venticinque lettori" manzoniani; e proprio IO

Manzoni, nella lettera Su/Romanticismo ( 182.3 ) , individuava i soggetti più interessanti tra quelli tratti «dalle memorie e impressioni giorna­ liere della vita» (Manzoni, 182.3, p. 184) : una chiara opzione per il pa­ radigma narrativo del nove/, che fin dagli albori della civiltà romanze­ sca si sviluppa in parallelo a quello del romance. li romance costituisce la linea del romanzo che raccoglie l'eredità della narrativa greca, pastorale e cavalleresca, occupandosi di raccon­ tare vicende eccezionali e dichiaratamente finte, calate nel "tempo dell'avventura"; il nove/, al contrario, prendendo le mosse da generi non finzionali (exempla, scritture autobiografiche in prima persona, odeporica), racconta vicende contingenti e verosimili di individui comuni (Mazzoni, 2.011, pp. 97-104 ) . Se il romance apre gli spazi dell'immaginario, sfruttando una verosimiglianza che riguarda i va­ lori che orientano le scelte dei personaggi, più che lo scenario in cui questi si muovono, il nove/ reagisce alla presenza sempre più domi­ nante del caso nella vita reale proponendo vicende "vicarie" dell' at­ tualità, ma rette inizialmente da un confortante principio di causali­ tà (Calabrese, 1995, pp. 3S· 77 ) Sono due modelli diversi di mimesi, a cui corrispondono precise strategie narrative legate alla disposizione dei materiali narrativi così come alla selezione del tema, che è de­ finito dalla relazione tra argomento (ovvero l'insieme di eventi ed esistenti organizzati in sequenze narrative) e senso del racconto - ov­ vero l'esito del lavoro di interpretazione del testo (Tomasevskij, 192.5, pp. 30S-IIi Giglioli, 2.001, pp. s8-9). È ormai chiaro come non si possa prescindere dalle modalità di rice­ zione per affrontare coerentemente una storia della trama. Non sarà possibile in questa sede affi ancare ali' analisi dei testi la definizione puntuale delle operazioni mentali che ogni sistema narrativo sug­ gerisce; è però importante segnalare come questa sia una direzione fondamentale per rinnovare gli studi letterari. Una direzione sposata oggi dai nuovi orientamenti cognitivisti della narratologia (ad esem­ pio Herman, 1999; Alber, Fludernik, 2.010 ), che stanno radicalizzan­ do i presupposti del!' estetica della ricezione e del cosiddetto reader­ response criticism (cfr. almeno Iser, 1976; Jauss, 1977; Fish, 1980 ) . Per un lettore l'esperienza del testo narrativo si articola attraverso una serie di meccanismi cognitivi che gli permettono di compren.

II

derlo. Questi si basano innanzitutto sul suo repertorio esperienziale (Herman, 2002), fatto di informazioni derivanti dall'esperienza diret­ ta e stoccate poi nella memoria (Bernini, Caracciolo, 2013, pp. 42-52), che gli consentono di fare inferenze sul mondo raccontato (cfr. alme­ no Goodman, 1987; Pavel, 1986; Dolezel, 1998 ) . Da qui l'importanza nodale della distinzione tra nove! e romance nella prima stagione del romanzo moderno, ma anche quella trafiction e nonjìction, che tor­ na urgente nelle ultime manifestazioni del romanzo contemporaneo: la scelta dell'universo narrativo, infatti, determina un primo, decisivo orientamento dell'interesse di chi legge. In secondo luogo queste ope­ razioni sono rese possibili dall'architettura del testo, dall' articolazio­ ne dei tempi narrativi, dalla combinazione delle sequenze e dal loro ritmo: il testo, cioè, si presenta come un'alternanza di spazi pieni e vuoti che "chiamà' direttamente chi legge a contribuire al suo comple­ tamento. Come scriveva Umberto Eco, ogni testo «postula il proprio destinatario come condizione indispensabile non solo della propria capacità comunicativa concreta ma anche della propria potenzialità significativa» (Eco, 1979, pp. 52-3). La trama disarticola una storia, co­ gliendole linearità e compattezza; il lettore deve provare a ricomporla e a introdurvi un senso, interpretandola. A questo scopo, nei prossimi capitoli, si cercherà di mettere in luce come i meccanismi di "messa in intreccio" invitino il lettore a impegnarsi nella "cooperazione testuale" in modi di volta in volta diversi. Infine, un'ultima puntualizzazione in merito alla struttura di questo libro. I quattro capitoli che lo compongono sono organizzati secon­ do una successione storica, che va da Lazarillo de Tormes - primo romanzo picaresco e per molti primo romanzo della tradizione mo­ derna - ad alcune delle opere più significative del primo quindicen­ nio del Duemila. Nelle sue lezioni intorno agli Aspetti del romanzo Forster invitava i critici a immaginare gli scrittori di un'intera tradi­ zione romanzesca come se fossero accoliti di un'unica tavola, in cui ciascuno mette sul piatto il proprio corpus di opere. Contro l'idea che la critica letteraria debba « abbattere i confini delle date e dei luo­ ghi » (Forster, 1927, p. 37), si è deciso qui di provare a mettere in or­ dine cronologico alcune delle opere più importanti della tradizione occidentale; opere esemplificative, utili per determinare genealogie, 12

riprese ed evoluzioni nell'articolazione delle trame. Perché la costru­ zione di una narrazione risponde sì a regole compositive astratte, ma anche ad abitudini di scrittura e di lettura che mutano nel tempo, e che come tali devono essere indagate. Per fare questo, ci si è appoggiati a raggruppamenti di genere più o meno unanimemente riconosciuti - romanzo picaresco e d'avventu­ ra, romanzo e di formazione, storico e realista, modernista, romanzo e della postmodernità. A dettare questa scelta è stata la convinzione che l'originalità nella costruzione di un racconto si riconosca meglio se inserita all'interno di «rapporti convenzionalmente fissati tra il piano dell'espressione e quello del contenuto» (Brioschi, Di Girola­ mo, Fusillo, 2.013, p. ;;), e delle attese che questi rapporti formalizza­ no. Infine, poiché la storia della letteratura è innanzi tutto una storia di testi letterari, un libro sulla storia della trama non poteva che esse­ re uno studio di alcune specifiche trame, scelte per la loro capacità di rielaborare in maniera originale regole e forme condivise. Non avendo fornito qui una ricostruzione contestuale precisa o una catalogazione completa delle opere significative del canone occiden­ tale, si invita il lettore a utilizzare i riferimenti bibliografici dissemi­ nati in questo lavoro come inviti alla lettura di testi che hanno sapu­ to raccontare intere stagioni del romanzo e della cultura occidentali, inserendo le evoluzioni della trama all'interno di articolati panorami letterari. Qua ci si è limitati a ripercorrere rispetto ai diversi scenari quanto risultava funzionale a delineare una sintetica storia della tra­ ma romanzesca. Un piccolo glossario fornirà invece una rapida defi­ nizione di alcuni termini chiave della narratologia contemporanea, usati lungo il testo e indicati, alla prima occorrenza, con un asterisco in apice. Prima di cominciare una volta per tutte, vorrei rivolgere un ringraziamento a chi mi ha aiutato nella preparazione di questo volume: a Lorenzo Cardilli, a Lorenzo Marchese e a Silvia Baroni, colleghi preziosi che hanno saputo

darmi consigl i utili a rendere questo testo meno approssimativo; a Giovan­

na Rosa, prima maestra; a Nunzia Palmieri e Gianni Turchetta, guide de­ cisive, rigorosi correttori e appassionati lettori; ad Alice, custode delle mie parole.

1.

In principio fu l'avventura

All'inizio dell'età moderna, tra il XVI e il XVII secolo, raccontare un'avventura significa raccontare la vicenda di un individuo e del suo destino personale (Mazzoni, 2011, p. 178). Lazaro de Tormes, Alonso Quijada, e più tardi Robinson Kreutznaer e Thomas Jones sono gli eroi di romanzi che portano il loro stesso nome. Che poi a raccontare la loro storia siano i protagonisti o narratori esterni poco importa; quel che conta è che venga rispettata l'analogia tra tempo della vita e tempo del racconto. Sono queste le basi del realismo mo­ derno (Watt, 1957, pp. 7-3 1), che alle sue origini trova nel viaggio un catalizzatore di avventure moltiplicabili all'infinito, destinato nel Settecento a diventare un vero e proprio modello epistemologico, che fa coincidere progressione della storia e incremento di esperien­ za dell'individuo (Bertoni, Fusillo, 2003, p. 45). Solo nella seconda metà del XVIII secolo, con la nascita del romanzo umoristico, questo modello verrà messo in crisi ; fino a quel momento, però, le disparate peripezie compiute dai personaggi lungo tragitti reali o ideali restano il principale soggetto di romanzi fortemente univoci e dalle pretese veridiche. È già in azione, infatti, l'istanza mimetica del nove/, seppur ancora combinata con la forte inRuenza del romance (l 'ultima edizio­ ne dell' Orlando furioso di Ariosto, del 1532, esce solo ventidue anni prima di Lazarillo de Tormes). È così che, ai suoi albori, il romanzo cerca nel quotidiano le manifestazioni di un "inverosimile possibile" che stimoli la curiosità dei lettori.

1.1.

Lazarillo , il primo picaro

La vicenda del romanzo moderno comincia con un prologo in cui l'autore si rivolge al proprio lettore mettendo subito in evidenza gli elementi della narrazione che sta per cominciare: chi racconta ( «io»), cosa racconta («cose tanto singolari e forse mai udite né viste da al-

15

cuno») e a chi racconta ( «vengano a conoscenza di molti» ) (Anoni­ mo, 1554, p. 2.9). Obiettivo: salvare dall'oblio una vita esemplare per la sua eccezionalità. Le "soglie" romanzesche sono da sempre decisive nella definizione delle coordinate del racconto (Genette, 1987) e nel caso di Lazarillo de Tormes, pubblicato anonimo nel 1554, il paratesto"' dice due cose molto importanti. Da un lato, che la tradizione del ro­ manzo picaresco, inaugurata proprio con quest'opera, conserva anco­ ra un certo gusto per lo straordinario e il meraviglioso che era tipico dei romanzi cavallereschi. Dall'altro, che la comunicazione narrativa si svolge tra due individui precisi : un io narrante che retrospettiva­ mente ripercorre la sua vita postillandola di commenti, e un destinata­ rio la cui sagoma compare nell'ultimo capoverso del prologo. Nella sua brevitàLazarillo presenta una struttura narrativa semplice e simmetricamente ordinata. Due capitoli a sommario"' aprono e chiu­ dono il racconto delle avventure giovanili di Lazaro de Tormes, per tutti Lazarillo, che occupano i cinque capitoli centrali. Si comincia con la genealogia del protagonista: orfano di padre - un furfante mor­ to in crociata - e abbandonato dalla madre - cameriera senza mezzi per mantenere la prole -, Lazaro incarna la libertà dai vincoli sociali e familiari tipica del pfcaro, sempre disponibile a mettersi al servizio di un nuovo padrone, ma anche privo di scrupoli nel momento di ab­ bandonare chi lo ha mantenuto. La trama è scandita dagli incontri con i diversi personaggi per cui Lazaro lavora e ogni episodio non fa che confermare l'ostilità del mondo nei suoi confronti: l'adolescenza viene forgiata dalla povertà, dalla cattiveria e dagli imbrogli, che se da un lato costringono l'eroe a una vita di subordinazione e sofferenze, dali' altro gli permettono di maturare astuzia e buon senso. Ai resoconti sintetici della quotidianità si intercalano i racconti di particolari episodi, riferiti per la loro esemplarità. È in questi passag­ gi, narrati in presa diretta, che si scatena la vena comica e avventu­ rosa: Lazaro ora risponde alle privazioni a cui lo obbliga un vecchio cieco che si spaccia per guaritore rubandogli il cibo da sotto gli occhi, ora invece si dimostra generoso aiutante quando procura il pranzo a un hidalgo male in arnese. Tuttavia, se ogni singola peripezia tro­ va la propria motivazione in una specifica circostanza che la innesca (molto spesso la fame), non esiste un nesso consequenziale che tenga

16

unite le diverse avventure di Lizaro, distribuite nei vari capitoli come episodi separati di un'unica vita. n compito di dare una continuità macrostrutturale alla trama del romanzo spetta quindi a due presen­ ze costanti : la strada e il protagonista. Bachtin ha individuato nella strada un importante cronotopo ro­ manzesco, ovvero un centro di organizzazione dell'intreccio dove si intersecano la dimensione cronologica del racconto e il succeder­ si dei luoghi al suo interno (Bachtin, 1937-38, pp. 23 1-3). La strada è il cronotopo tipico del romanzo picaresco: l'eroe intraprende un cammino lungo il quale fa incontri che ne orientano il percorso, av­ vicinandolo o allontanandolo dalla meta finale (Luperini, 2007 ) . Non esiste una meta predefinita: la partenza, la fine e anche le tappe intermedie del viaggio sono tutte regolate dagli imprevedibili inter­ venti del caso. Così, le avventure che offrono a Lazaro l'occasione di portare il suo sguardo smaliziato, ironico e autoironico negli strati più bassi della società, si susseguono in maniera fortuita, secondo fre­ quenza e durata variabili, e potrebbero anche proseguire all'infinito (tanto che la storia editoriale del Lazarillo è costellata di versioni pi­ rata "imbottite" di nuovi episodi interpolati). A unificare i diversi episodi, che hanno lunghezza e sviluppo dise­ guale, è poi anche il protagonista, che dà a Lazarillo una struttura «a infilzamento» ( Sklovskij, 1917, p. us). n personaggio ha la fun­ zione di "creare" il racconto (Debenedetti, 1977) e, al tempo stes­ so, di fornirne la motivazione: il suo destino, cioè, diventa il quadro entro cui leggere le singole avventure. Per questo è così importante che a narrare sia il protagonista stesso che, ormai maturo, percorre a ritroso la propria esistenza. L'ultimo capitolo del Lazarillo riporta infatti l'esito fortunato della complicata parabola di Lazaro, che ha finalmente trovato «una strada buona », ovvero un impiego statale come banditore. Alla stabilità economica si associa quella nuziale, visto che Lazaro si sposa con la domestica dell'arciprete di San Sal­ vador. Poco importa che le malelingue insinuino il sospetto di un tradimento proprio con l'arciprete, al quale la donna va ogni giorno a rifare il letto: l'ombra dell'adulterio non riesce a oscurare il tono in­ negabilmente entusiasta con cui il narratore conclude il suo raccon­ to. n finale obbliga allora a rileggere in una nuova luce le avventure

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raccontate. La convinzione di essere giunto a un punto di approdo, anche se non definitivo (l'ultima battuta del romanzo lascia aperto lo spiraglio per quella che nel 1555 sarà la Segunda parte, uscita sempre in forma anonima), fornisce a Lazaro un filtro attraverso cui selezio­ nare gli avvenimenti da raccontare (Rico, 2.001, p. 1 8). La scelta di un io narrante retrospettivo diventerà consustanziale alla nove/a picaresca, spagnola e non solo - come accade ad esempio nel Viaggiatore sfortunato (1594) dell'inglese Thomas Nashe. Garanzia di verosimiglianza, questo tipo di narratore interviene a sfaccettare lo stile prevalentemente paratattico ereditato dall'epica cavalleresca e trasforma i diversi episodi in tante rette convergenti verso un unico punto, lo scioglimento finale, che, se non determina un processo di "formazione" dell'io, di certo ne sancisce l'affermazione (Calabre­ se, 1995, pp. 8 7-91). E quali sono le conseguenze di questo percorso ascensionale ? Da un lato la scalata sociale di Lazaro, realizzata sen­ za la pratica della virtù, ma al contrario con buone dosi di blasfe­ mia e malvagità, sembra decretare il trionfo di una morale perver­ sa e "carnevalesca" (Bachtin, 1965), che finisce poi per ripercuotersi sullo stesso protagonista. È l'interpretazione del romanzo picaresco come strumento di contestazione di una società classista ed elitaria. Dall'altro lato, però, Lizaro risulta la semplice controfigura di quei modelli che vorrebbe ribaltare. Egli rispetta l'autorità di chi gli sta sopra e, appena può, ne imita soprusi e inganni (Bo, 1986, pp. Ix-x ) . Lazarillo de Tormes non sovverte così né la morale sociale, né quella religiosa; l' Inquisizione infatti ne concede la pubblicazione, pur con piccole espunzioni (i capitoli IV e v), e il cosiddetto Lazarillo casti­ gado diventa un bestseller nella Spagna cinque-secentesca. A rendere interessante Lazarillo de Tormes, allora, non è tanto il suo contenuto morale, quanto il suo ambiguo schema finzionale, ovve­ ro la struttura autobiografico-epistolare. Se lo scambio delle lettere è solamente alluso nel prologo, tuttavia la presenza del destinatario è centrale sia perché spinge concretamente il narratore a prendere la penna in mano sia perché si delinea in negativo nelle diverse allocu­ zioni che servono a rafforzare «l'illusione di storicità e la verosimi­ glianza globale del romanzo » (Rico, 2.001, p. 16). Mentre i successori di Lizaro, a partire dal Guzmdn de Alfarache

18

(1599-1604) di Mateo Aleman, torneranno a raccogliere spunti e strutture del romance, la scelta della lettera (cfr. CAP. 2) consente di raddoppiare nella cornice la spinta mimetica già presente nel racconto anticipando l'accentramento sull'individuo quale nuovo metro di giu­ dizio di ciò che è buono o sbagliato (Calabrese, 1995, pp. 21-9). È una novità storica, oltre che la testimonianza della modernità di Lazarillo.

1.2.

La trama infinita di Cervantes

Anche il primo libro del Don Chisciotte (1605) di Miguel de Cervan­ tes si apre con un prologo in cui l'autore espone i propri dubbi circa la natura e l'interesse della storia che si accinge a raccontare. Cos'è cambiato, quasi cinquant'anni dopo Lazarillo de Tormes? n destina­ tario privato e aristocratico, committente del racconto picaresco, è stato sostituito da un generico pubblico di lettori, liberi di scegliere le proprie letture e anche di esprimere un giudizio spassionato. Siamo ancora lontani dalle masse anonime dell'industria editoriale borghe­ se, tuttavia i presupposti del moderno sistema della comunicazione letteraria sono già sul campo (Rosa, 200 8, p. 19 ) . Ci sono anche altre differenze, però. Alle vicende mai viste né senti­ te di L:i.zaro si sostituisce «una leggenda così secca come una corda di sparto, sfornita di trama, limitata nello stile, povera di concetti e priva di erudizione e dottrina» (Cervantes, 1605-15, vol. 1, p. 6). Tra l'evidente parodia dell'enciclopedismo comune ai romanzi dell'e­ poca e la surrettizia rivendicazione della propria unicità, in questa dichiarazione salta all'occhio un'espressione, "sfornita di trama", che potrebbe risultare allarmante per chi abbia in mano le quasi seicento pagine del primo tomo del Don Chisciotte. n romanzo una trama ce l'ha, in effetti, e anche molto più articolata dei coevi romanzi picare­ schi. Tuttavia l' excusatio non petita punta a mettere l'accento su una caratteristica fondamentale della storia: la sua verità. Don Chisciotte racconterà cioè la storia di un uomo senza abbellimenti stilisti ci, sen­ za ricorrere a fonti filosofiche, storiche o letterarie. Fatta eccezione per i libri di cavalleria, contro i quali l'autore intende rivolgere la pro­ pria invettiva.

19

Alonso Quijada è un gentiluomo di mezza età, esponente di una pic­ cola nobiltà fondiaria in declino, che, a furia di leggere Amadigi di Gaula e altri romanzi di cavalleria, ha perso la testa e si è convinto di essere un cavaliere errante di nome don Chisciotte; ingaggia come scudiero il rozzo credulone Sancio Panza e con lui parte alla ricerca di imprese che gli permettano di dimostrare il suo valore cavalleresco e di tornare "decorato" dall'amata Dulcinea del Toboso, al secolo la giovane contadina Aldonza Lorenzo. La follia letteraria di Chisciotte fa sì che egli veda qualsiasi cosa compaia sul suo cammino attraverso il filtro dell'immaginario cavalleresco: i mulini a vento diventano gi­ ganti, le locande si trasformano in castelli, i mulattieri sono cavalieri da sfidare e le figlie degli osti avvenenti principesse. Come per Lazarillo, anche qui le scelte di costruzione dell'istanza narrativa rivelano la strategia con cui Cervantes cerca di ottenere un'illusione di verità. Dietro il profilo di un narratore anonimo, assi­ milabile allo stesso autore, onnisciente seppur un po' distratto, Cer­ vantes costruisce una trama di voci che viene svelata nella sua com­ plessità solo a cavallo tra la prima e la seconda parte del primo libro. Qui, infatti, il narratore è costretto a interrompere il suo racconto e a rivelare che la sua fonte non va oltre; tutto ciò che seguirà nel ro­ manzo è tratto da uno scartafaccio trovato casualmente per le strade di Toledo e intitolato Storia di don Chisciotte della Mancia, scritta da Cide Hamete Berengeli, storico arabo. Grazie a questo manoscritto il narratore, che si definisce « secondo autore» (ivi, p. 88), può por­ tare avanti la storia del caballero andante fino al suo ritorno a casa. A quel punto si fermerà: per raccontare le successive imprese di cui Chisciotte si è fregiato bisognerà prima decifrare le vecchie perga­ mene che ne portano notizia. Per queste ci sarà spazio nella Segunda parte del romanzo, pubblicata nel 161s dopo che una versione "pirata" era uscita un anno prima a nome di Alonso Fernandez de Avellaneda. n primo libro e l'edizione apocrifa diventeranno allora oggetto dei discorsi dei personaggi, in una vertiginosa mise en abyme• che com­ plicherà ulteriormente il gioco di specchi delle fonti romanzesche. Limitandosi al primo libro, però, si può dire che l'articolata rete di rimandi tra diverse autorialità narrative, culminante nella figura ambigua dell'arabo Berengeli, ha un preciso scopo nella strategia di 2.0

Cervantes: da un lato scaricarsi di ogni responsabilità per essere libero di sprigionare la propria vena fantastica (Citati, 2013, p. s ); dall'altro giustificare le pretese di verità circa la storia raccontata attraverso un espediente narrativo destinato a lunga fortuna romanzesca, il mano­ scritto ritrovato (Farnetti, 2005). E proprio il manoscritto riflette la doppiezza intrinseca nel romanzo, ponendosi come terminale di un gioco che coinvolge attivamente il lettore, chiamato a riconoscere tutti gli equivoci in cui don Chisciotte incappa (Montaleone, 2005, p. 30) e a districarsi tra il desiderio di simpatizzare per un personaggio fatal­ mente ingenuo e la volontà di schierarsi con il narratore dalla parte dei "savi" per vedere riconfermata la propria identità (Watt, 1998, p. 64). n confronto continuo tra mondo cavalleresco e mondo contempo­ raneo è l'asse portante di Don Chisciotte che, dietro le sembianze di una satira della tradizione cavalleresca, rivela la propria natura di au­ dace esperimento romanzesco. Nella Spagna della Controriforma la cavall eria non esiste più, se non nella forma dell'erranza, e i cavalieri erranti che popolano i romanzi del XVI secolo sono ben diversi dagli eroi delle chansons degeste medievali (come ha mostrato Erich Auer­ bach, 1946, vol. I, pp. 136-51). n pegno da pagare a questa trasforma­ zione è un viaggio che non ha più meta: non c'è un' ltaca alla fine del cammino e così don Chisciotte può anche abbandonarsi all'istinto del destriero Ronzinante per tracciare il suo percorso. Lo schema pur blandamente teleologico delle avventure cavalleresche lascia il posto a una catena di incontri del tutto immotivati, affidati agli arbitri del caso e dell'immaginazione. Le prove affrontate da don Chisciotte sono circa una quarantina, tra primo e secondo libro. Lo schema con cui gli episodi vengono intro­ dotti è sempre lo stesso : don Chisciotte dà un'interpretazione fuor­ viante di una scena che gli si presenta agli occhi, Sancio lo corregge ma viene ignorato; segue la sfida - verbale o in armi -, che viene poi quasi sempre chiosata da un colloquio esilarante tra eroe e scudiero sulle ragioni del successo o del fallimento (Watt, 1998, p. 57). A que­ ste peripezie si intercalano poi delle vere e proprie novelle. Molti dei personaggi incontrati da don Chisciotte lungo il cammino si ferma­ no a raccontare la propria storia, trasformando il romanzo in un re­ pertorio di forme e generi che comprende motivi epico-cavallereschi

21

(Cardenio e Lucinda), avventure boccaccesche (l' Incauto Sperimen­ tatore) e anche allusioni autobiografiche (le peripezie dello schiavo). Queste novelle aprono lunghe digressioni che, oltre ad appesantire il racconto, appaiono spurie rispetto alla vicenda di don Chisciotte, al punto che il loro inserimento costa a Cervantes diverse incongruen­ ze di trama, subito notate dai critici (Nabokov, 1983, p. 70 ). Una struttura così slegata finisce per riconfermare, come nel caso di Lazarillo, la centralità del personaggio, che entra in azione sempre al momento giusto. Cervantes recupera il cronotopo picaresco della strada e lo interseca con quello del «prodigioso mondo estraneo» proprio del romanzo cavalleresco. li primo è reale, perché vere sono le strade della Mancia che l'eroe e il suo scudi ero attraversano; il secondo pertiene all'immaginazione di Chisciotte, che trasforma ogni rottu­ ra della continuità del viaggio in una nuova regola, accordata ai topoi della letteratura cavalleresca (Bachtin, 1937-38, pp. 299-3 11 ) . La lucida follia di don Chisciorte - in questo figlio di Erasmo da Rotterdam e fratello dei Gargantua e Pantagruele ( 1532-64 ) di François Rabelais­ gli permette di riaffermare il proprio dominio su un mondo in disor­ dine in cui valori e gerarchie medievali non hanno più cittadinanza (Luperini, 2007, p. 14 ) . Quella che riesce a ottenere è un'egemonia as­ soluta, che non viene scalfita neanche dalla costante presenza di San­ cio Panza al suo fianco. Anzi, lo sguardo dello scudiero, incarnazione del buon senso popolare, se permette di misurare di volta in volta la sproporzione tra l'illusione di don Chisciotte e la configurazione della realtà (Auerbach, 1946, vol. n, p. 109 ), in definitiva risulta funzionale a ribadire l'autorità di questo sguardo dell'"eccezione". È il desiderio narcisistico di don Chisciotte a spingere avanti il racconto; ed è la stes­ sa insensatezza di questo desiderio, rivolto a un oggetto inconsistente, che decreta prima l'erranza e poi il fallimento dell'avventura: alla fine del secondo libro don Chisciotte, in punto di morte, rinnegherà tutto quel che ha facto (Girard, 1961, pp. 7-19 ) . Resta però un ultimo particolare che altera l'immagine monolitica del Don Chisciotte, aprendolo alle evoluzioni del romanzo borghese. Nel capitolo XXXVI Chisciotte e Sancio si separano : mentre l'eroe imita l'Orlando ariostesco folleggiando in una foresta, lo scudiero lo abbandona per consegnare un messaggio d'amore a Dulcinea. Per 22

la prima volta il narratore lascia il protagonista alla sua pazzia e se­ gue Sancio nella sua ambasceria, che lo porta a incontrare due volti noti, il curato e il barbiere del paese, che all'inizio del libro avevano dato fuoco a quasi tutta la libreria di don Chisciotte nella speranza di aiutarlo a rinsavire. Ragguagliati sulle vicende del cavaliere, i due decidono di intervenire: il curato si fingerà una donzella in cerca di aiuto che chiederà a don Chisciotte di seguirla per aiutarla; una volta condotto il cavaliere a casa, i due cercheranno un modo per guarirlo. Tante sono le peripezie che l'eroe dovrà ancora affrontare prima di giungere effettivamente al villaggio e l'inganno verrà più volte d­ proposto, coinvolgendo i personaggi incontrati lungo il cammino; ciononostante questo passaggio introduce nel racconto una tensio­ ne nuova e precisamente direzionata. All'erranza centrifuga di don Chisciotte si contrappone la spinta centripeta di chi vuole ripristi­ nare l'ordine della ragione; e la dinamica si ripete anche nel secondo libro, grazie all'iniziativa di Sans6n Carrasco. È significativo poi che questo nuovo vettore narrativo si origini nell'unico passaggio in cui il protagonista è assente dalla scena. Come a dire che, affi nché la storia di un uomo si trasformi in intreccio, è necessario un conflitto reale, non solo immaginato. La modernità del romanzo viene inaugurata così da un'opera solo apparentemente « sfornita di trama» , capace al contrario di coinvolgere il lettore in uno stratificato gioco di rico­ noscimenti e smascheramenti della verità, che risulta efficace anche grazie all'introduzione di unafocalizzazione mobile", che le successive espressioni del romanzo d'avventura sapranno riprendere e sviluppa­ re. A quel punto, però, saranno mutati il contesto storico, politico e sociale, e anche lo spazio dell'avventura, proiettato in un altrove esotico oppure in una quotidianità resa nuova dali' ironia.

1.3.

Avventure nell'Inghilterra del Settecento

La Rivoluzione industriale tocca l' Inghilterra più di mezzo secolo prima del resto dell' Europa, modificando radicalmente l'organizza­ zione del lavoro e i sistemi di vita; essa è l 'esito di una trasformazione di lungo corso, che produce una nuova etica laica e individualista, e

modifica, insieme alle condizioni materiali di vita, anche le abitudini culturali (Sullam, 20I7, pp. u6-2o ). E anche il mercato editoriale ac­ quista una nuova configurazione: gli scrittori, grazie all'introduzione del diritto d'autore, sono riconosciuti come professionisti, gli editori interpretano con intraprendenza il ruolo di mediatori nella dinamica che regola domanda e offerta, e il pubblico borghese, finalmente am­ pio, comincia a scegliere il libro come uno tra i tanti svaghi con cui impiegare il tempo libero (Watt, I9S7· pp. 3 2-;;). Henry Fielding, nel primo capitolo di Tom]ones (I749), descrive questo nuovo rapporto tra autori e pubblico con la metafora di un oste che sottopone al suo cliente il proprio menu: spetta all'avventore la scelta di "assaggiare" oppure alzarsi e cambiare locanda. È evidente, allora, che se prima avvincere i lettori alla trama di un romanzo era importante, adesso è necessario, poiché sono loro a elargire all'autore fama e soprattutto guadagni (Rosa, 200 8, P· I;). n romanzo diventa il terreno d'azione di una dialettica tra procedimenti difamiliarizzazione e di defamilia­ rizzazione, tra riconoscimento e sorpresa, allo scopo di rendere ogni opera originale in rapporto alle altre (Capoferro, 20I7, pp. SI-;): si af­ ferma così l'assiologia del nuovo, destinata a egemonizzare il sistema letterario della modernità (Brioschi, 2002, pp. 30-3). In questo contesto si apre la grande stagione del romanzo inglese moderno, capace di ridefinire i confini dell'immaginario grazie alla mimesi seria della middle station oflifi, che mette in scena personaggi e situazioni tratti dalla vita "vera'', e a una parallela predilezione per le situazioni eccentriche, che permettono di trasformare la quoti­ dianità in un casus moralmente esemplare ed esteticamente godibile (McKeon, I987, pp. 47-64). 1.3.1. Robinson Crusoe Non è un caso che a caratterizzare il pri­ mo romanzo di Daniel Defoe, pubblicato nel I7I9, sia un "paradig­ ma del superlativo" evidente fin dal titolo: La vita e le straordinarie

sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio che visse ventotto anni tutto solo su un 'isola disabitata presso le coste dell'Ameri­ ca, vicino allafoce delgrandefiume Orinoco; essendo stato gettato sulla spiaggia da un naufragio nel quale perirono tutti eccetto lui; col raccon­ to di comefu allafine liberato altrettanto straordinariamente da pirati.

Scritta da lui medesimo. Per le abitudini di un lettore contemporaneo un titolo simile è inaccettabile, per la lunghezza, ma soprattutto per­ ché svela l'esito della trama; il lettore settecentesco invece ne apprez­ zava il rapido sommario in quanto garanzia dell'eccezionalità delle vicende raccontate e del loro statuto di verità. Nel 1712. aveva fatto scalpore nell'opinione pubblica inglese l'intervista al marinaio scoz­ zese Alexander Selkirk che, a seguito di un naufragio, aveva vissuto per più di quattro anni su un'isola deserta al largo del Cile, prima di essere riportato in salvo da una nave inglese: la vicenda di Robinson Crusoe non doveva quindi suonare così inverosimile. Daniel Defoe vuole una storia "più vera del vero" e per questo pub­ blica il romanzo anonimamente. In realtà tutti sanno chi sia l'autore (Genette, 1987, pp. 41-2.) e comunque basterebbero le tante incon­ gruenze nella costruzione dell'intreccio a smascherarne la finzio­ ne; ciononostante, questo espediente assegna un primato alla storia rispetto al suo autore e testimonia l'intenzione di respingere il di­ scredito riservato alle opere d'invenzione e consentire al lettore una serena sospensione dell'incredulità (Capoferro, 2.017, pp. 13 5-45). li successo del libro e le numerosissime riscritture ci dicono che in qualche modo quella strategia ha funzionato (Watt, 1998, pp. 12.7-30, 1 56); anche perché il libro si presta a molteplici letture: come manua­ le del buon viaggiatore o del bravo colono, come libro d'avventura per ragazzi e come romanzo serio per adulti in cerca di un appaga­ mento etico (Berardinelli, 2.002., p. 350 ). Per dare sostanza all'illusione di verità, l'autore adotta una prima persona che si presenta fornendo i suoi dati anagrafici e, surrettizia­ mente, una definizione di poetica: riferire in prima battuta tempo e spazio della storia e la collocazione etico-sociale del protagonista (nato nel 1632. a York da una buona famiglia borghese) riflette l'in­ sistenza sulla retorica empirica che caratterizza l'intero romanzo. L'esigenza di verosimiglianza obbliga Defoe a scartare ogni residuo fantastico e a concentrarsi sulla concretezza dell'esperienza; anche un'isola deserta dell'America del Sud dev'essere riportata alla dimen­ sione normale della quotidianità borghese. Bastano pochi accenni per capire come l'intreccio del romanzo sia tutto incardinato sul percorso ascensionale dell'eroe: partito da

un'iniziale situazione di benessere, Robinson mette a rischio la sua condizione borghese disobbedendo agli inviti del padre a intrapren­ dere la carriera legale per provare a conquistare una fortuna mag­ giore mettendosi per mare. L'esito è tragico: prima la prigionia, poi il naufragio in un'isola deserta al largo del Venezuela. Qui l'eroe si trova proiettato in una condizione primitiva impensabile per l'uomo moderno (Hunter, 1966); sono allora l'ingegno e l'intraprendenza tipiche dell' homo oeconomicus che permettono a Robinson di fare fortuna anche in condizioni così ostili, trasformando l'isola in una terra di conquista, secondo il nuovo ordine capitalistico (Watt, 19 57, pp. s 6-87). Defoe recupera dal romanzo picaresco la formula di un io narrante che a posteriori articola e seleziona la materia secondo un criterio di utilità pedagogica, espressa nei complementari campi dell'etica del lavoro e della devozione religiosa. Ne deriva un'insolita trattazione del tempo : talora giorni, mesi e anni possono avvicendarsi nel giro di poche righe; altre volte l'importanza dell'episodio porta il nar­ ratore a rallentare il tempo della storia, fin quasi a fermarlo. L'ottica retrospettiva, inoltre, fornisce all'individuo l'immagine di un «com­ pimento» che permette di dare al racconto un senso (Kermode, 1967, p. 63). Nella sua lunghissima e monologante diegesi*, il narratore con­ tinua a misurare la distanza tra il sé di oggi e il sé di allora, creando un'implicita tensione, quella tra la medietas auspicata dal padre e il benessere ambito e raggiunto dal protagonista. Robinson Crusoe si pone all'incrocio di due percorsi : all'inizio della storia è un uomo comune che sbaglia e paga le conseguenze dei suoi errori; alla fine è diventato un abile e lungimirante imprenditore. n lettore aveva ini­ ziato a leggere la storia di un suo simile e si ritrova a entusiasmarsi per un personaggio fuori dal comune, tanto che, quando dopo venti­ nove anni questi riesce a tornare in Inghilterra, scopre che le fortune accumulate prima del naufragio, quando era diventato proprietario terriero in Brasile, si sono addirittura moltiplicate. È questa la tensione interna a Robinson Crusoe: una morale mercan­ tilistica, che misura ogni cosa in funzione della sua utilità, innerva quella che si potrebbe chiamare una "teleologia del benessere" ca­ muffata sotto l'immagine di un racconto d'avventura. Per tutto il

2.6

romanzo chi legge è convinto di essere spinto avanti dali' attesa di una fuga di Robinson dali' isola, cronotopo che stimola il desiderio di incredibili esperienze, finalizzate però a una salvezza conclusiva. E invece il racconto si incaglia nelle minuziose descrizioni di una quo­ tidianità esotica, ma sempre più somigliante a quella occidentale (Ri­ chetti, 1999, p. 72.). In realtà questi dettagli sono imprescindibili per la strategia del narratore, che non intende mostrare la straordinaria vicenda di un uomo "fortunato", bensì la concretissima parabola di un destino terreno: quello di chi ha saputo farsi artefice della propria fortuna. L'esito, quindi, non è il rientro in patria e il recupero di una stabilità economica e sociale, ma al contrario il ritorno sull'isola per monetizzare gli anni di isolamento e far fruttare la proprietà acqui­ sita (tanto che nel 172.0 Defoe continuerà il racconto della vita di Robinson pubblicando le sue Ulteriori avventure). Robinson Crusoe trasforma in realtà la follia di don Chisciotte: l'im­ maginaria età dell'oro che il cavaliere errante non riusciva a ritrova­ re nella Spagna controriformista a distanza di un secolo è diventa­ ta un'isola reale, plasmabile a proprio piacimento, e quella infinita potenzialità di storie e mondi che in Don Chisciotte traeva origine dagli antichi romanzi di cavalleria ora prende corpo nell'utopia di un mondo sconfinato e disponibile alle conquiste dell'uomo occidenta­ le (Watt, 1998, p. 144). Al capitalismo avventuroso e progressista di Defoe si contrappone negli stessi anni lo scettico conservatorismo di Jonathan Swift. Nei Viaggi di Gulliver (172.6) egli applica la sua spietata immaginazione satirica (evidente già nell'attività pamphlet­ tistica o nella Favola della botte, 1704) al modello della literature of wonder, la tradizione di racconti di fatti straordinari a cui viene data forma pseudoscientifica: l'esito è una sorta di parodia delle avven­ ture di Robinson Crusoe. La descrizione di terre e popoli fantastici nei resoconti di Lemuel Gulliver, chirurgo e navigatore, ma soprat­ tutto uomo sincero quant'altri mai, ha come bersaglio polemico la retorica empirica dominante nella cultura del tempo e determinante per l'affermazione del realismo nel romanzo moderno ( Capoferro, 2.017, pp. 53-66). Swift usa stilemi ed espedienti paratestuali analoghi a quelli a cui Defoe aveva fatto ricorso per legittimare la (presunta) verità di quanto narrato da Robinson, ma lo scopo è qui quello di

dare corpo a creature inesistenti e intrecciare una rete di menzogne estesa alle discipline più disparate. È interessante che anche Swift riconosca il racconto di viaggi come forma più adatta a veicolare una precisa visione del mondo. La ne­ cessità di immaginare e descrivere "nuovi mondi" offre allo scritto­ re l'occasione per dare spessore narrativo a logiche epistemologiche astratte, sfruttando tutte le potenzialità figurative del ribaltamento: come nel caso degli accademici di Lagado, che provano a migliora­ re la lingua del loro paese sostituendo alla pronuncia delle parole l'astensione delle cose a cui queste si riferiscono (con immaginabili conseguenze sulla "portabilità'' dell'invenzione). La scrittura parodi­ ca di Swift si pone così all'origine di una tradizione destinata a durare nel corso del tempo, come testimonia l'Antologia dello humour nero ( 1940 ) messa insieme da André Breton (Celati, 2001 ) . Tra i contem­ poranei, Henry Fielding sa fare tesoro di quella lezione, trasforman­ do però l'indignazione in compassione, e soprattutto spostando l'o­ rizzonte narrativo verso la quotidianità contemporanea. 1.3.2.. Tom]ones Con la pubblicazione di Moli Flanders ( 1722 ) e Roxana ( 1724 ) , Daniel Defoe si pone all'origine di un'altra linea del

romanzo inglese, che, trasformando il genere della biografia crimina­ le, elegge a protagonisti figure marginali la cui dubbia moralità si ri­ vela una spietata arma di sopravvivenza nella rigida società inglese di inizio Settecento. Per quanto abile nel dare vita a eroine memorabili, però, Defoe non riesce a restituire l'articolata complessità storico-so­ ciale del mondo che rappresenta (Bertoni, 1998, p. 45). Cosa che ri­ esce invece a Samuel Richardson e Henry Fielding, che costruiscono trame avventurose e scabrose capaci di avvincere il lettore, ma anche di stimolarne la riflessione sulle dinamiche etiche e sociali: il primo inaugura con Pa mela ( 1740 ) la tradizione dei romanzi epistolari (cfr. CAP. 2 ) , il secondo dà vita, con ]oseph Andrews ( 1742 ) e soprattutto Tom fones, alle epopee di personaggi altruisti ma ostacolati dalla cor­ ruzione del mondo e inseriti in complesse architetture narrative. Una simile novità viene immediatamente colta dai lettori: il gran­ de apprezzamento per Tom fon es (quattro edizioni in pochi mesi) è dovuto soprattutto al fascino di una trama perfetta nelle sue conca28

tenazioni logiche (Mancioli Billi, 1974, p. s ). L'intreccio è a prima vista semplice: Tom Jones, trovatello allevato nella casa di un ricco possidente del Somerset, il signor Allworthy, è costretto ad andar­ sene quando viene scoperto il suo amore illegittimo, ma ricambiato, per la bella e casta Sofia, figlia dello squire Western e destinata a un matrimonio di rango. Tom affronta un lungo pellegrinaggio, che lo porta sulle strade percorse dai soldati impegnati a respingere la ribel­ lione papista degli Stuart e poi a Londra, luogo della perdizione. Qui finisce in prigione, dove però ha luogo l'agnizione finale: Tom scopre di essere figlio naturale della sorella di Allworthy e di possedere così i "titoli" per sposare Sofia. li pattern romanzesco risulta tuttavia più complesso, perché al prin­ cipale intreccio si intercalano di volta in volta riprese parodiche dell'epica classica, scene ispirate alla commedia di costume della Re­ staurazione (oltreché romanziere, Fielding era anche stimato com­ mediografo) e character sketches della coeva pubblicistica (gli umo­ ristici bozzetti che, in riviste come "The Spectator", davano rilievo pubblico a episodi ordinari della vita di ogni giorno; Consonni, 2.012., p. 2.14). Ne risulta un genere nuovo, che lo stesso autore nella prefazione deljoseph Andrews aveva battezzato «poema eroicomico in prosa » (Fielding, 1742., p. 4), sottolineando la contrapposizione con l'epica seria, ma anche la distanza dal genere burlesco che, se­ condo la teoria della separazione degli stili, era incaricato della trat­ tazione degli argomenti più bassi. Tom jones mischia generi e registri (McKeon, 1987, p. 405 ) ; l'origine "ibridà' del personaggio offre a Fielding la possibilità di estendere il suo sguardo all'intera società inglese - dal basso mondo di locandiere e servi tori all'alta società dei circoli nobiliari -, che diventa il bersaglio di un esercizio di «ortope­ dia morale » (Richetti, 1999, p. 136). A questa spinta moralistica, tipica del romance, se ne aggiunge un'al­ tra, che proietta Tom Jones nel campo del nove!: il dichiarato inten­ to dell'autore è infatti quello di comportarsi come uno storico, che prenda però come oggetto non le grandi vicende collettive, bensì quanto la Natura mette a disposizione, ovvero i caratteri degli uo­ mini e le loro relazioni. Nessuna dichiarazione di veridicità, quindi, diversamente da Defoe e Richardson, ma al contrario l'assunzione

come nuova bussola della «gran norma » (Fielding, 1749, vol. 1, p. 41) dell'interesse. Ed è proprio questa regola che induce chi rac­ conta a manipolare liberamente la storia: se l'obiettivo principale è evitare che il lettore si annoi, allora chi narra ha il diritto di ricorrere a qualsiasi espediente - dalle semplici similitudini esornative, ai più invasivi interventi di ellissi" e parallissi" (Taivalkoski-Shilov, 2002) pur di mantenere alta l'attenzione. Fielding adotta un narratore palese e che gli assomiglia molto - per Wayne Booth è il modello dell' « autore implicito» (Booth, 1961), per Franz Stanze! del «romanzo autoriale » (Stanze!, 1955) - destinato a lunga fortuna nella tradizione inglese (come in Jane Austen, Walter Scott, Charles Dickens). L'onniscienza lo spinge a intervenire fre­ quentemente per spiegare il senso di alcuni fatti o esprimere giudizi sul comportamento dei personaggi, in particolare di Tom, di cui giustifica bonariamente il libertinaggio in virtù della sua insuperabile generosità (Consonni, 2012, p. 218). L'ironia è il tono prevalente, che permette di filtrare l'intento pedagogico attraverso quadri da commedia burle­ sca che attingono ai registri più triviali come a quelli più raffinati. E anzi, spesso è proprio la sproporzione evidente tra discorsi seri, atteg­ giamenti melodrammatici dei personaggi e la bassa materialità delle scene a offrire il più prezioso spunto al riso. Questa ironia, però, risulta ancora più decisiva quando viene impie­ gata dal narratore per giustificare il suo controllo sui materiali nar­ rativi. Fielding non teme di mettere in mostra la natura artificiosa della sua narrazione e anzi anticipa al lettore i propri interventi sulla fabula: egli contrae o estende a piacimento il tempo del racconto, sceglie se, come e quando raccontare determinati fatti, sconvolgen­ done così l'ordine cronologico. L'intreccio subordina qualsiasi altro aspetto della narrazione alla realizzazione di un perfetto schema di simmetrie. Ad articolare l'impervio cammino di Tom Jones verso la maturità e il riscatto è così una sorta di "caso legato", ovvero un equilibrato sistema di tensioni solo apparentemente fortuite. n "tem­ po della Provvidenzà' interviene a trasformare ogni imprevisto in coincidenza (ivi, p. 220 ), così che, a uno sguardo retrospettivo, tutto trova collocazione in un equilibrato sistema di significati, destinati a manifestarsi nella loro pienezza in un happy end che risolve armonio30

samente ogni conflitto o contraddizione (Kermode, 1967, pp. 66-7 ). È questo l'aspetto premoderno di Tomjones. n narratore si muove liberamente tra le vicende dei vari personaggi, abbandonandoli e riprendendoli; ed è proprio la necessità di portare avanti simultaneamente le loro storie che lo spinge a giocare con il tempo narrativo, rompendo e ricostruendone la continuità al fine di creare un ordine coerente (Praloran, 2002, pp. 237-40 ). Per sfuggire alle accuse di menzogna, riservate a chi infrange la verosimiglianza, chi racconta deve cercare la complicità di chi legge. La serie di appelli metanarrativi e gli spazi riservati all'interno del romanzo alla discus­ sione delle proprie scelte servono così a stipulare un patto di recipro­ ca fiducia, che tuttavia porta vantaggi solo al narratore (Bourneuf, Ouellet, 1972, pp. 74-7 ), il quale, anche quando sembra lasciare au­ tonomia al lettore, continua a condizionarne l'esperienza del testo (Robinson, 1973, p. 104 ) . Non tutti i lettori, però, reagiscono allo stesso modo alle sollecitazio­ ni di questa solerte voce narrante. L'orizzonte d'attesa di Tom ]on es fa convergere sorprendentemente differenti tipologie di pubblico (Sherman, 1998 ) . Dalla parte del romance si colloca il /ettore implici­ to*, un borghese medio, di cultura limitata, che dalle vicende di Tom può trarre una lezione morale, seppur per via di ribaltamento (molti furono i critici che accusarono Fielding di immoralità). Tipi uma­ ni dall'identità chiara che si muovono in una dimensione astratta e astorica (Mazzoni, 2011, pp. 94-5 ) e una narrazione frammentata in brevi capitoli dalle titolazioni eloquenti: è questo il menu per un let­ tore a cui tutto va spiegato. Dalla parte del nove/, invece, si pone un lettore ideale, colto, aristocratico, per formazione simile all'autore, che con lui gode nel vedere meschinerie e vizi umani parodicamen­ te amplificati da saporite similitudini e puntuali strategie di differi­ mento o dilatazione. È un lettore dai connotati pienamente moderni quello a cui Fielding rivela i meccanismi del proprio ordigno narra­ tivo; l'unico lettore in grado di apprezzare le complesse convenzioni rappresentative che sole possono restituire ciò che è naturale e vero. E di questa lezione di modernità scrittori come Laurence Sterne e De­ nis Diderot sapranno fare tesoro per celebrare la morte del romanzo d'avventura e dare vi ta a una parodica avventura del romanzo. 31

1.4.

Una nuova forma di viaggio: la divagazione

Si chiama metodo dell' hobby horse e consiste nel costruire la narrazione secondo un ordine che è noto solo a chi parla: il reverendo anglicano Laurence Sterne decide di costruire su questo criterio Vita e opinioni di Tristram Shandy, uscito in nove volumi tra il 1760 e il 1767. n risultato è un romanzo dove i dettagli prendono il sopravvento sulla trama. In Tristram Shandy la vocazione mimetica collaudata dai romanzi di Defoe, Fielding e Richardson viene ribaltata e adattata a una re­ altà che esiste solo in quanto oggetto di discorso dei personaggi (le "opinioni", appunto). n romanzo di viaggio e d'avventura non viene semplicemente parodiato, ma ripetutamente violato nel suo impian­ to, al punto che l'infrazione della normale progressione narrativa diventa l'unica norma ( Sklovskij, 192.5, pp. 2.13 e 2.2.3). Così, ai let­ tori che all'indomani dell'uscita ne criticano l'assenza di significato si potrebbe rispondere con un paradosso: il significato dell'opera di Sterne sta proprio nel ribaltare la pretesa di significato del romanzo. Tristram Shandy è un ami-romanzo che assume quale criterio orga­ nizzativo un disordine dietro il quale si nasconde l'umore idiosincra­ tico dell'autore - e del suo alter ego Tristram. Lo « shandysmo » , ovvero la stramberia dell'io narrante, è la chiave d'accesso al romanzo (Bachtin, 1937-3 8, p. 3 10): un atteggiamento che innanzi tutto porta alle estreme conseguenze le strategie di messa a nudo del procedimento narrativo già esplorate da Fielding. Centra­ le nel libro è infatti la tematizzazione della differenza trafabula e in­ treccio: Tristram Shandy vorrebbe raccontare linearmente la propria vita, dalla nascita fino al momento in cui poserà la penna, solo che la necessità di spiegare ogni cosa lo obbliga a interrompersi continua­ mente e, ad esempio, a risalire fino al momento del suo concepimen­ to e poi più su lungo la catena familiare, solo per motivare l'origine del suo nome; oppure, per ricostruire in ogni minimo dettaglio la scena della sua nascita, egli è costretto a ritornare indietro al momen­ to in cui venne concessa la licenza alla levatrice, e poi alle clausole matrimoniali dei genitori. Tristram Shandy dimostra così l'inadeguatezza del criterio cronolo­ gico-sequenziale per raccontare una storia e, al tempo stesso, cerca 3 2.

di collaudare un modello stereoscopico che riproduca la pluralità e la plasticità del tempo dell'esperienza (Mendilow, 1972, pp. 167-8). Ne viene fuori un intreccio paradossale che, per andare avanti, deve continuamente tornare indietro, obbedendo agli impulsi di quella che lo stesso narratore chiama un' «intelligenza digressiva » (Sterne, 1760-67, p. 117 ). I risultati sono sotto gli occhi del lettore: il romanzo si apre nel 1718 e si chiude cinque anni prima, nel 1713, dopo essersi mosso a zigzag tra l'età di Enrico VIII e il 1766. Quello che doveva essere il resoconto della vita di Tristram si rivela invece una ramificata genealogia familiare, che ha in Tristram il punto di arrivo ma non certo il vero protagonista. A meno di non voler assegnare questo ruolo a chi detiene il primato non dell'azione, ma della parola. Perché la presenza verbale di Tri­ stram è davvero pervasiva: commenti, incursioni metanarrative e allocuzioni al lettore prendono continuamente il primo piano della scena, a discapito dei personaggi che vi si muovono. Sterne decide così di fronteggiare ciò che nella realtà non è sistematizzabile, fil­ trandolo attraverso l'unità della coscienza del proprio personaggio (riprendendo, chissà quanto parodisticamente, le suggestioni del Saggio sull'intelletto umano di John Locke; Alfano, 2016, pp. 101-10 ), sul quale agiscono, più che la razionalità, l'ingegno e l' immaginazio­ ne. Tuttavia, dietro l'estemporaneità degli interventi del narratore e l'arbitrarietà delle sue scelte (Giovannetti, 2012, p. 207), si cela uno studiato sistema "relazionale" retto da un rigoroso principio logico­ analogico; lo stesso che obbliga il narratore a tornare continuamente indietro per agganciare tutti gli anelli alla catena causale. Ne deriva un'architettura temporale complessa, in cui i segmenti di collega­ mento - gli interventi del narratore - risultano molto più impor­ tanti degli elementi collegati - i momenti della vita di Tristram e dei suoi familiari -, poiché svolgono una funzione di segnaletica strada­ le, indicando al lettore la direzione del racconto e l'orizzonte verso cui indirizzare la propria curiosità ( Sklovskij, 1925, p. 224). Ma allora, qual è la parte di chi legge in questa macchina infernale ? Lungo tutto il romanzo, l'eccentrico narratore adotta una postura apertamente conversazionale (Watt, 1967 ). Lo dimostra il ricorso a una punteggiatura enfatica e in particolare alla figura dell'aposiopesi, 33

che consiste nella sostituzione di un termine o di una porzione di te­ sto con un vuoto verbale (e con segni grafici come gli asterischi). Utile a ritardare una rivelazione accrescendone l'impatto epistemologico, l'aposiopesi sembra sostenere l'idea di un modello cooperativo, in cui chi legge collabora con chi scrive alla costruzione del significato del testo (Gardini, 2.014, p. 42.). Allo stesso tempo, però, la struttura del racconto sembra ideata allo scopo di frustrare continuamente le attese del lettore: qualcosa di preannunciato sta per essere detto, ma un'interruzione interviene a sospendere il discorso e a rimandarne indefinitamente la conclusione. Si tratta della «poetica dell'inadem­ pienza » che Sterne mette in atto fin dal titolo del romanzo, «che promette il racconto di una vita che, invece, non viene raccontata » (Sertoli, 2.00 2., p. 647 ). li testo si configura come una rete in cui le ca­ selle vuote sono più di quelle piene e la lacuna è la regola compositiva di un romanzo che non concede al lettore alcuna autonomia, poiché nessuno dei fili narrativi può essere ripercorso senza incappare nella frustrazione di un ritardo, di un salto o di una pagina bianca. Rifiutando la natura lineare del tempo e ricorrendo a omissioni, ritardi e divagazioni il narratore sterniano spera, come Sheherazade, di avvin­ cere il lettore al proprio racconto, prolungandone all'infinito il deside­ rio di conoscenza ed esorcizzando la paura della morte (Mazzacurati, 198s, p. 93), che se nella realtà dei fatti tocca fatalmente tutti, nella re­ altà "seconda" delle parole può essere aggirata con un arabesco - come quello che il caporale Trim traccia in aria con il suo bastone e che vie­ ne riprodotto nel nono libro. Sterne chiude così la lunga stagione del romanzo d'avventura, destinato nel XIX secolo a diventare un genere per ragazzi (Richetti, 1999, p. 66). Come dimostra]a cques ilfatalista e il suo padrone (1796) di Denis Diderot, l'età dei Lumi saprà fare teso­ ro della sua lezione, che affida al ribaltamento parodico il compito di demistificare le convenzioni del "romanzo ben fatto"; tuttavia, nono­ stante la sua prepotente modernità, questa tradizione faticherà a tro­ vare seguaci tra i contemporanei. L'evoluzione del romanzo settecen­ tesco segue infatti altri modelli e l'Elogio di Richardson (1762.), con cui lo stesso Diderot celebra la capacità dell'autore di Pamela di coniugare perizia tecnica e abilità introspettiva, dirotta l'attenzione su trame che mettono al centro la complessità emotiva e sociale dell'individuo. 34

2.

Confessioni private e istanze di socializzazione

Tra i tanti valori che Denis Diderot individua nella prosa di Samuel Richardson, che a metà Settecento contende la palma di primo ro­ manziere d' Inghilterra a Henry Fielding (McKeon, 1987, pp. 410-8), ce n'è uno che coglie in pieno il nuovo paradigma della letteratura settecentesca europea: «È lui che sa far parlare le passioni » (Diderot, 1762, p. 3 27 ). Nato come secolo dei viaggi e delle avventure, il Sette­ cento si scopre a poco a poco secolo dei sentimenti, e dell'amore in particolare. Tanto che se il pubblico e la critica finiscono per conce­ dere maggior gloria a Richardson è perché, rispetto a Fielding - che per costruire un avvincente congegno narrativo ha rinunciato alla profondità psicologica dei propri personaggi -, ha saputo trovare la formula narrativa adatta a soddisfare la grande spinta verso l'indi­ viduo e la sua interiorità propria della cultura settecentesca (Watt, 19 57· pp. 252-3). Già alla fine del Seicento, Pierre-Daniel Huet introduceva il suo Trattato sull'origine dei romanzi, sostenendo che «l'amore dev'esse­ re il principale argomento del romanzo » (Huet, 1670, p. 3). Aperto il grande spazio della realtà quotidiana grazie allo sguardo ribassato dei picari secenteschi, il nuovo pubblico borghese - in prevalenza femminile - chiede tramite il romanzo di aver accesso a porzioni di mondo tradizionalmente escluse dal racconto. I sentimenti, le emozioni, le fluttuazioni psicologiche dei personaggi sono aspetti che il romanzo moderno non ha ancora affrontato in maniera seria: l'amore di don Chisciotte per Dulcinea non ha niente di sentimen­ tale, ma è l'omaggio a una tradizione cavalleresca ormai inattuale; mentre l'intramontabile passione di Tom Jones per Sofia Western assomiglia più al ricordo di un idillio infantile che alla complessi­ tà di un sentimento adulto. Il tradizionale narratore onnisciente, inoltre, ha rappresentato un ostacolo invece che un intermediario per la conoscenza delle emozioni individuali. Le quali, d'altra parte, 35

hanno natura intima, e in una società che, come quella aristocratico­ borghese, ha un sacro rispetto per la separazione tra sfera pubblica e privata, ciò che appartiene al singolo deve rimanere segreto (Planté, 2.003, p. 2.18). In questo contesto, Richardson ha il merito di portare nella patria del romanzo un genere che, nato in Francia, ha dimostrato di saper scavare nell'intimo dei personaggi, mostrandone gli aspetti più pro­ fondi del carattere, ma sempre riservando al discorso una dimensione appartata e protetta: il racconto epistolare. Già nel romanzo secente­ sco le lettere avevano cominciato a ricoprire un'importante funzio­ ne d'intreccio come nell'Astrea (1607-2.7) di Honoré d'Urfé o nei romanzi barocchi di Madeleine de Scudéry ( Clélie, histoire romaine, 1654-60 ). Verso la fine del secolo, poi, le epistole cominciano a essere utilizzate quali decisivi espedienti narrativi in romanzi che affronta­ no in maniera diretta amori, tradimenti e confessioni che animano la vita della classe nobiliare. Si prenda La Principessa di Cleves (1678) di Madame de La Fayette, caso esemplare di "romanzo d'analisi" (Esmein-Sarrazin, 2.005) e per molti primo romanzo moderno della letteratura francese: al centro della trama c'è proprio una lettera. La missiva è stata scritta da una donna per rimproverare il suo amante, colpevole a suo dire di aver rivolto un'attenzione troppo solerte verso un'altra signora. n racconto si svolge a metà Cinquecento, alla corte di Enrico n e Caterina de' Medici : la lettera è finita nelle mani del­ la delfina Maria Stuart, che ha dei sospetti circa il destinatario, che potrebbe essere il visdomino di Chartres o il duca di Nemours. Rive­ lare l'identità del destinatario significherebbe rendere pubblica una liaison che tutti conoscono ma che deve rimanere celata. La lettera rischia quindi di stravolgere l'attento lavoro di corteggiamento che il duca di Nemours ha portato avanti nei confronti della Principessa di Clèves, che ha finito per innamorarsene pur essendo sposata con un altro uomo. n romanzo di Madame de La Fayette, che appartiene al medesimo universo culturale, sociale e morale dei propri personaggi, mette in primo piano l'evoluzione dei sentimenti dei due protagonisti, diversi per carattere e indole - lui libertino impunito che tuttavia si ravve­ de di fronte all'amore casto suscitato dalla conoscenza di lei, figlia

responsabile e incorrotta di una società che fa invece della finzione il cardine della rispettabilità sociale. Un narratore in terza persona, abile nello spostare il proprio fuoco dall'uno all'altro dei due amanti, proietta le loro vicende nel quadro più ampio degli intrecci matri­ moniali e sentimentali, pubblici e privati, che legano le grandi casate d'Europa; la sua presenza ideologica si limita all a sottolineatura dei contrasti tra il comportamento dei due protagonisti e gli usi della società di corte francese. L'amore tra i due appare infatti distante dal carattere capriccioso e al tempo stesso pedante che invece abitual­ mente contraddistingue le passioni tra persone di rango. La protago­ nista arriva addirittura a contraddire ogni consuetudine confessando il proprio amore per il duca di Nemours al marito, quale atto di estre­ ma sincerità, e non cede alla tentazione di unirsi all'uomo che ama neanche quando diventa vedova, quindi libera da vincoli formali. La passione narrata da Madame de La Fayette si contrappone a qualsiasi bienséance e per questo suscita grandi discussioni tra i com­ mentatori dell'epoca (Mazzoni, 2.011, p. 12.2.). Proprio per la sua ecce­ zionalità rispetto al vigente sistema di convenzioni morali e sociali, l'amore tra la Principessa di Clèves e il duca di Nemours deve vivere nel segreto; ed è per questo che una lettera, mezzo privilegiato per la trasmissione di un messaggio che non dev'esser noto ad altri che al mittente e al destinatario, acquista tanta importanza narrativa; anche se - anzi, soprattutto perché - quella lettera non è diretta al duca di Nemours.

2.1.

La sincerità di una lettera

Accade così che, in una società costruita sulla menzogna e sul sospet­ to, la lettera goda di uno statuto privilegiato, depositaria di una verità che si sottrae agli artifici e agli inganni della vita pubblica e che per questo nessuno mette in discussione. In tempi in cui è ancora molto forte l' «esigenza amiromanzesca » (Rousset, 1962., p. 90), le lettere consentono agli scrittori di assecondare il diffuso bisogno di verità, offrendo al lettore una testimonianza diretta del mondo vissuto, qua­ si autonoma rispetto all'invenzione narrativa (Planté, 2.003, p. 2.12.). 37

La lettera, inoltre, fa intendere la voce del personaggio direttamente, senza mediazioni diegetiche e senza infingimenti : al riparo da sguar­ di e orecchie indiscreti, nell'epistola il personaggio apre il suo cuore, si confessa, esprime giudizi privati e compromettenti, rivela passioni illegittime e lo fa rivolgendosi a un destinatario fisicamente assente dalla scena, un "tu" al quale il lettore finisce per sovrapporsi, proiet­ tandosi volontaristicamente ali' interno dell'intreccio. Si pensi allo stupore provato dai primi lettori delle Lettere di una monaca portoghese (1669), opera anonima poi attribuita al conte di Guilleragues, i quali aprendo il piccolo volume si ritrovano di fronte a una dirompente allocuzione: «Considera, amore mio, a che punto sei stato imprevidente! Ah ! Sciagurato! » (Anonimo, 1669, p. p). li tono che inaugura la prima delle cinque lettere della monaca susci­ ta un'immediata sorpresa, amplificata dal rapporto scandaloso che, senza pentimento, la donna rivela nelle sue missive indirizzate a un ufficiale francese che ama perdutamente, con il quale si è unita ma dal quale ora è stata imperdonabilmente abbandonata. Infrangendo il proprio voto e ignorando qualsiasi scrupolo di opportunità mora­ le e sociale, la monaca rivela apertamente la passione che la sta con­ sumando. La sofferenza d'amore è così forte da spingere la donna a parlarne con le compagne e con la badessa; così forte da spingerla a utilizzare un "tu" che verrà poi abbandonato a vantaggio di un più decoroso "voi", ma che, nella sua spontaneità, dice molto dello sconvolgimento psicologico che la monaca sta vivendo. E dice molto anche dello statuto di verità della lettera, che agli occhi di chi legge si presenta quale documento in cui prende corpo una trasposizione non mediata e sincera della condizione psicologico-emotiva del per­ sonaggio. «Una lettera è il ritratto dell'anima », scriverà, più di un secolo dopo, nei Legami pericolosi di Choderlos de Laclos (1782.), il giovane Cavalier Danceny alla Marchesa di Merteuil, della quale è innamo­ rato (Laclos, 1782., p. 345). Ed è un ritratto sincero, perché costru­ ito nello spazio protetto di una conversazione intima, tra persone capaci di comprendere e conservare un segreto. Poco importa, per adesso, che le parole che la marchesa consegna alle missive indiriz­ zate al giovane siano in realtà piene di inganni e doppi sensi, e che

l'affetto testimoniato nei suoi confronti non sia altro che un fitti­ zio espediente all'interno del più grande intrigo che la nobildonna sta allestendo insieme al Visconte di Valmont. Le ingenue parole di Danceny rivelano una convinzione diffusa nella società europea tra Sei e Settecento: la lettera è un contrassegno dell'identità linguistica, culturale e sentimentale di chi scrive e apre uno spiraglio sulle sue verità più intime. Quello che l'anonimo autore delle Lettere di una monaca portoghese comprende - e quello che ha reso la pubblicazione di quel libriccino uno dei più grandi e controversi casi editoriali di tutti i tempi - è che l'effetto di "incursione nella realtà'' che la sin­ gola epistola produceva nei romanzi sentimentali dell'epoca poteva essere amplificato costruendo l'intera impalcatura narrativa sulle let­ tere. Al semplice squarcio sulla condizione interiore del personaggio, subito rimarginato nel momento in cui il narratore in terza persona riprende il comando di un racconto che padroneggia interamente, si sostituisce una sequenza di lettere che delineano un intreccio che si completa progressivamente, anche grazie alle intuizioni e alle riela­ borazioni del lettore, agevolato nell'immedesimazione dall'assenza di mediazioni autoriali (Sarlo, 2.00 2., p. 3 9 0 ). È così che nasce un nuovo genere di romanzo epistolare, che riscuo­ te un immediato successo nel paludato pubblico di metà Seicento, ancora legato ai casti diletti della cultura neoclassica (Malquori Fondi, 19 80, pp. 17-8). Non solo perché le Lettres portugaises che lo inaugurano raccontano una storia torbida, un amore illegittimo e straziante; non solo perché presentano un linguaggio che sviscera i sentimenti senza pudore, offrendo sapide allusioni ai piaceri del­ la passione amorosa, così come deliranti sprofondamenti nei dolori dell'abbandono e della solitudine. Ma soprattutto perché propon­ gono le lettere come documento vero, prodotto dalla viva voce del personaggio che si mostra nelle sue fluttuazioni emotive, nei suoi tormenti e nelle sue contraddizioni. È questo l'effetto che Samuel Richardson chiamava «writing to the moment >> (Richetti, 1999, p. 90 ), scrivere "attimo dopo attimo", rivendicandolo quale elemento originale dei propri romanzi, Pamela e soprattutto Clarissa (1748): la scrittura in prima persona e la concatenazione di lettere danno l'im­ pressione di un'esperienza narrata nel momento stesso in cui viene 39

vissuta e permettono al lettore di costruire tempo e spazio della storia insieme ai personaggi. Naturalmente, perché questo effetto si dispieghi efficacemente, è ne­ cessario che le lettere vengano anche presentate sul mercato come testimonianze vere, invece che come creazioni verosimili di un let­ terato. Per questo le Lettere di una monaca portoghese vengono pub­ blicate senza riportare alcun nome d'autore in copertina, e anzi pre­ sentano una avvertenza in cui l'editore Barbin dichiara la veridicità dei testi, ammettendo di non conoscere i nomi di mittente e destina­ tario. L'effetto di questa strategia è prorompente: nasce un accanito dibattito tra sostenitori e contestatori dell'autenticità delle lettere; proliferano le più svariate suites apocrife dell'opera; si fanno ipotesi attendibili sull'identità dei due protagonisti; si cercano tracce di un autore nascosto dietro le parole della monaca. Nel Novecento si giun­ gerà ad attribuire con buona certezza l'opera al conte di Guilleragues (Green, 1926) : ciononostante, le Lettres portugaises continuano a es­ sere pubblicate senza riportarne il nome in copertina. Questo perché il genere epistolare si fonda, per statuto, su un'ambiguità autoriale che dev'essere sempre conservata, quantomeno a livello formale: nel Settecento, infatti, la maggior parte dei romanzi epistolari vengono pubblicati in prima edizione anonimi. Parallelamente proliferano paratesti mirati a rinsaldare la verosimi­ glianza dell'opera (Di Fazio, 1996, p. 104) : Choderlos de Laclos pre­ mette ai Legami pericolosi sia un'Avvertenza dell'editore che dice di non poter garantire sull'autenticità delle lettere, sia una Prefazione del redattore, che, nello spiegare i criteri con cui ha selezionato le let­ tere, sostiene invece la tesi della loro veridicità; anche Jean-Jacques Rousseau gioca con l'ambiguità apponendo a Giulia o la Nuova Eloisa (1761) una prefazione in forma di dialogo tra l'editore e un letterato, in cui, alle insistenti domande del secondo circa lo statuto di verità delle lettere, il primo risponde in maniera sibillina: « Per giudicare se un libro è buono o cattivo, cos'importa sapere com'è stato fatto ? >> (Rousseau, 1761, p. 20 ). È anche, e forse soprattutto, grazie a espedienti come questi che il romanzo epistolare diventa uno dei generi principali nel sistema let­ terario settecentesco - come confermano anche le numerose tradu-

zioni delle Heroides di Ovidio e gli adattamenti delle Lettere d'amore di Abelardo e Eloisa. I primi esemplari s'impongono da subito come prototipi del genere, da cui hanno origine due diverse declinazioni. Le Lettere di una monaca portoghese presentano le parole di una don­ na che non trova udienza presso il destinatario; questi le risponde, come si intuisce da rapidi riferimenti contenuti nelle lettere di lei, ma le sue parole non sono accessibili al lettore : l'esito è un soliloquio pa­ tetico perché senza risposta. Le Lettere di Babet di Edme Boursault, pubblicate nello stesso 1669, mostrano invece le voci di due innamo­ rati che si rispondono in maniera simmetrica, costruendo una trama linearmente consequenziale. Questa corrispondenza inaugura la for­ mula del duetto, determinato in primo luogo dalla presenza concreta nel testo delle parole di entrambi gli interlocutori, la cui "contrappo­ sizione" è rafforzata dal fatto che ciascuno incarna un diverso ideale amoroso: "lui" dà fondo alla più trita retorica dell'amore "tenero", tipico della conversazione mondana; mentre Babet, giovane e spre­ giudicata, esprime un amore inteso - per la prima volta in letteratu­ ra - non come lutto o malattia, bensì come godimento e spontaneità (Marchi, 1985, p. 19). La natura dialettica dell'epistolario non fa che rinsaldare questa seconda declinazione del sentimento amoroso, che viene mostrato nelle sue evoluzioni, sullo sfondo di una quotidiani­ tà che acquista tute' altro rilievo rispetto alle monologiche Lettere di una monaca portoghese. Sarà il modello inaugurato da Boursault ad avviare il genere a un percorso di progressiva complicazione, che por­ ta alle grandi sinfonie di Richardson, Rousseau e Laclos.

2.2.

Polifonie epistolari

Proprio Samuel Richardson costituisce un ottimo esempio per osser­ vare le trasformazioni del romanzo epistolare. Infatti, se la pubblica­ zione di Pamela, o la virtu ricompensata vale all'autore uno straordi­ nario successo, certificato da riscritture e sequel non autorizzati (oltre che dall'invidiosa parodia dell'avversario Fielding, che nel 1741 dà alle stampe Shamela), è solo con il successivo Clarissa che raggiunge la perfezione dell'architettura narrativa.

Pamela racconta in tre parti la storia di una virtuosa ragazza di origi­ ni popolari che lavora a servizio presso l'ombroso Lord B. Questi si invaghisce di lei, la insidia nei modi più inopportuni, suscitando le rimostranze della ragazza, preoccupata di compromettere la propria virtù con una relazione illegittima e senza speranze. Solo un parziale ravvedimento del nobiluomo, suscitato dal pudore di Pamela, per­ mette alla ragazza di comprendere la sincerità del sentimento e di accettare il matrimonio, e con esso l'avanzamento sociale. Tutti gli avvenimenti del romanzo vengono raccontati attraverso le lettere che Pamela scrive ai suoi genitori : i resoconti sono lunghi e dettagliati, gli episodi vengono narrati più volte o richiamati in maniera riassunta; la giovane riporta letteralmente i dialoghi tra i personaggi, mostran­ do un'incredibile memoria, doppiata da una capacità di osservazione che le permette di riferire ogni dettaglio. n modello è quello delle Lettere portoghesi, ma l'impalcatura viene ipertroficamente ampliata, al punto di mettere a rischio la stessa verosimiglianza del racconto ; l'effetto di "scrittura momento per momento" è di fatto annebbia­ to dalla sostanziale mancanza di immediatezza di queste lettere, che sembrerebbero occupare tutto il tempo di vita della protagonista. n romanzo, così, assume un carattere profondamente monologico : le azioni, i comportamenti e soprattutto le voci dei tanti personaggi che vi si muovono prendono corpo esclusivamente attraverso le parole di Pamela (Di Fazio, 1996, p. II3). Se da un lato l'impiego della lettera consente l'accesso al flusso della sensibilità del personaggio, mostran­ do come il suo animo si definisca ali' intersezione tra la dimensio­ ne sociale e quella intima (Richetti, 1999, p. 87), dall'altro impone all ' intera narrazione un filtro non neutro, che fa sorgere nel lettore il legittimo sospetto che i resoconti di Pamela possano non essere totalmente affidabili. Forse è anche per questo carattere strutturale del romanzo che Pa­ mela è stato a lungo criticato e che la sua eroina è stata ricordata, più che come modello di una virtù trionfante, come meschino esempla­ re di arrampicatrice sociale. Accade così che nel romanzo successivo Richardson conservi l'amore come impalcatura tematica, ma sosti­ tuisca al resoconto monocorde di un io narrante fin troppo didasca­ lico e onnisciente una pluralità di punti di vista (Consonni, 2012,

pp. 98-100 ) . È questa la grande novità di Clarissa che, se da un lato moltiplica in maniera abnorme la mole di materiali narrativi - otto volumi, più di cinquecento lettere scambiate da una trentina di inter­ locutori diversi -, dall'altro li innesta su una perfetta parti tura poli­ fonica, che affianca all'unità drammatica relativa alla vicenda della protagonista tante altre sottotrame. n vettore principale è quello che vede la giovane e distinta Clarissa, già scampata a un complotto or­ dito dai fratelli per non farle avere una ricca eredità, cadere di fronte ai corteggiamenti e alla promessa di protezione offertale dallo squire Lovelace. n quale è un libertino impunito, che non teme, una vol­ ta fuggito con Clarissa, di drogarla, violentarla e rinchiuderla in un bordello. Tra i due si costruisce un rapporto contraddittorio, fatto di risentimento e attaccamento reciproci. Ciononostante, la ragazza riesce a scappare e intraprende un lungo viaggio, fitto di pericoli e minacce, al termine del quale trova il conforto della religione e la riconciliazione con la famiglia, prima di morire per crepacuore. Intorno all'eroina e al suo insidiatore si muove una ridda di perso­ naggi che aiutano, ostacolano, complottano o risolvono, e la cui fun­ zione non è soltanto quella di fornire all a narrazione uno scenario storico-sociale ampio e realistico, bensì anche quella di creare una rete di specchi in grado di riflettere da più prospettive l'immagine di Clarissa (Richetti, 1999, pp. 99-100 ) . Anche se sarà Choderlos de Laclos a portare questo modello a una perfezione di misura e intrigo, Richardson è di fatto il primo autore a realizzare un vero e proprio romanzo epistolare polifonico (Rousset, 1962, p. 99 ) , in cui si molti­ plicano e confliggono punti di vista diversi: uno stesso evento viene raccontato più volte e da voci diverse, che ne evidenziano natural­ mente caratteri di volta in volta differenti. E il romanzo appare al lettore tanto più verosimile quanto più l'autore riesce a creare per ogni personaggio una voce originale e distinta. Per mettere ordine in un sistema narrativo così complesso, è fonda­ mentale una sapiente regia da parte dell'autore, i cui interventi nel testo sono impliciti, ma numerosi. A lui è da attribuire la selezione delle lettere, ma soprattutto l'ordine con cui vengono disposte; è lui a scegliere di rimandare di circa duecento pagine il racconto dello stupro di Clarissa; è lui ad accentuare il contrasto tra differenti ver43

sioni di uno stesso fatto, mettendole a reazione per contiguità; ed è lui che, attraverso queste scelte, dà rilievo ad alcuni passaggi della trama, mentre altri vengono relegati a poche parole di un solo perso­ naggio (Consonni, 2012, pp. 106-8). Nel momento in cui aumenta l'importanza rispettiva delle tante voci chiamate a raccontare la sto­ ria di Clarissa, surrettiziamente aumenta in maniera proporzionale anche l'importanza strategica dell'autore, che compone e dirige la trama come una "sinfonia': Pur sostenendo di essersi ispirato a Pamela, Jean-Jacques Rousseau adotta per Giulia o la Nuova Eloisa il medesimo schema di Clarissa. La trama in realtà è molto più semplice e, nonostante le roboanti dichiarazioni di intenti fatte nella prefazione, in questo caso il ruolo dell'autore-editore è decisamente meno significativo. Rousseau in­ cardina una riflessione di carattere prettamente moralistico - giocata sulla dicotomia tra desiderio e dovere sociale, amour-passion e amore coniugale (Pulcini, 1990) - su una vicenda lineare, che scorre in di­ retta rispetto alla lettura, agevolata peraltro dall'assenza di quei gio­ chi prospettici che rendevano più complessa l'intelligenza narrativa del romanzo di Richardson. La trama s'impernia sull'amore tra la giovane aristocratica Giulia d' Etange e l'altrettanto giovane ma borghese Saint-Preux, suo in­ segnante di filosofia. L'unione tra gli innamorati è resa impossibile dall'opposizione del padre di Giulia, decisamente contrario a un ma­ trimonio che non rispetti i vincoli di rango. L'incorruttibile rispetto per le proprie virtù spinge i due a separarsi per non correre il rischio di essere scoperti e incappare così nel disonore (lei) e nella sventu­ ra (lui). La loro corrispondenza tuttavia viene scoperta dal barone d' Etange, che si affretta a organizzare il matrimonio della figlia con il nobile Wolmar. I due hanno già avuto dei figli quando Saint-Preux, tornato dopo anni di viaggi, viene accolto in casa loro. Giulia, però, per quanto scossa dalla nuova vicinanza, riesce a frenare lo slancio verso l'innamorato e a stabilire con lui un rapporto sereno e distac­ cato. Così, quando Giulia muore, a causa di un tragico incidente, confessa a Saint-Preux di non aver mai smesso di amarlo, ma si dice contenta di non aver consumato quell'amore. Più che la storia di una tormentata relazione amorosa, il romanzo di 44

Rousseau racconta la vicenda di una donna, Giulia, della sua evolu­ zione psicologica e delle ripercussioni che questa sulla sua condot­ ta morale. È questa l'unica condizione che convince Rousseau a ri­ correre alla forma romanzo, che pure considerava ambigua e frivola (Lecercle, 1969 ). E la scelta del genere epistolare non è casuale: come già visto per le Lettere portoghesi, la successione delle lettere consente di osservare l'animo del personaggio fin dalla nascita del sentimen­ to amoroso, mentre la soluzione polifonica permette di mostrarne le evoluzioni attraverso gli sguardi diversamente interessati dei per­ sonaggi che si muovono intorno a Giulia. È così che la sua parabola assume un valore universale. Rousseau, infatti, voleva fare di lei il pre­ cipitato narrativo delle sue convinzioni filosofiche e morali (si pensi al Contratto sociale e all'Emilio, entrambi del 1762). Per Rousseau il cosiddetto "soggetto etico" trova il proprio fondamento nel conflit­ to, che dà accesso a una superiore condizione di felicità, caratteriz­ zata da quiete e moderazione. Così Giulia scopre i turbamenti del cuore grazie all'amore passionale per Saint-Preux, ne è lungamente attratta, ma alla fine è capace di rinunciarvi, scegliendo la via dell'a­ more coniugale per Wolmar, che le garantisce l'ingresso nell'ordine morale e sociale - quello della comunità ideale di Vevey. Tanti sono i critici che hanno riconosciuto un primo antecedente dell'interesse di Rousseau per l'analisi psicologica nella Principessa di Cleves (Coulet, 1967, p. 252) e più in generale in una certa tradizione del romanzo sentimentale secentesco (ad esempio Manon Lescaut di Prévost, 1731), dov'è centrale l'idea che la virtù si formi e consolidi at­ traverso un viaggio nelle passioni che comporta sempre il rischio della perdizione del soggetto (Pulcini, 1990, p. xvm ) . Queste inclinazioni sono tradotte da Rousseau nella formula del romanzo epistolare po­ lifonico, dove però le lettere acquisiscono un carattere maggiormente meditativo che narrativo, in anticipo sulle soluzioni di Goethe e Fo­ scolo : ridotta la trama a pochi e semplici eventi, lo spazio testuale può essere interamente dedicato alla conoscenza di sé stessi, alla riflessione sui comportamenti propri e altrui, alla stesura di una sorta di diario intimo (e non si dimentichi che Rousseau è l'autore delle Confessioni, prima autobiografia moderna). È così che le voci di Saint-Preux, Cla­ ra, il barone d'Etange, Wolmar e Bomston forniscono punti di vista 45

differenti sul personaggio di Giulia, ma contribuiscono a costruirne un'immagine che rimane fino in fondo coerente, confermando la sua funzione di centro nevralgico del romanzo, tramite di un preciso in­ segnamento morale (Di Fazio, 1996, pp. II7-8). Se la Nuova Eloisa è il romanzo che, nel suo tempo, ha provocato «i maggiori sommovimenti di pubblico e critica » (Bertoni, 1998, p. 41), quello che è riuscito a dare un vero valore drammatico all'architettura narrativa del romanzo epistolare è I legami pericolosi di Choderlos de Laclos, il quale cita in epigrafe proprio l'opera di Rousseau, a suggella­ re una derivazione diretta, che marca però uno scarto fondamentale: al movimento ascendente verso un ordine ideale si sostituisce qui una discesa verso il caos dei sentimenti e delle relazioni; dall'affermazio­ ne di due personaggi virtuosi si passa alla nichilistica vittoria di due personaggi licenziosi. L'opera di Laclos, infatti, non si prefigge alcuna «ortopedia morale» , se non in termini di ribaltamento polemico, come esplicitamente denunciato nella Prefazione del redattore. Alla fine del Settecento si verifica un mutamento di paradigma nel campo culturale, che si manifesta nel passaggio da una letteratura edificante, che fornisce ai lettori espliciti exempla, a una che, pur non rinuncian­ do all'insegnamento, privilegia una rappresentazione disincantata della realtà morale, colta anche nelle sue contraddizioni (Mazzoni, 2.0II, pp. 2.00-5). I legami pericolosi si inserisce coerentemente in que­ sta fase di transizione. Tutto nasce da un capriccio della Marchesa di Merteuil, la quale chie­ de al suo vecchio amante, il Visconte di Valmont, di venirle in aiuto seducendo la giovane Cecilia Volanges, che la madre vuoi dare in spo­ sa a un uomo che la Marchesa odia. li Visconte, sapendo muoversi con disinvoltura tra salotti e appuntamenti galanti, raccoglie la sfida e le confessa che contemporaneamente rivolgerà le sue attenzioni alla Presidentessa di Tourvel, nobildonna di una bellezza pari solo alla sua devozione. L'intrigo vede presto anche l'intervento attivo della Mar­ chesa che, come anticipato, si preoccupa di sedurre il giovane Cava­ lier Danceny, innamorato di Cecilia e da lei ricambiato. Nonostante varie difficoltà - dalla presenza occhiuta della madre di Cecilia alle resistenze della Presidentessa, che pur riconoscendo la propria pas­ sione per Valmont fino all'ultimo si sforza di resistervi -, il piano dei

due demiurghi giunge a compimento. La ridotta estensione tempo­ rale (sei mesi), scandita dalle date in calce alle lettere (unico, tra i ro­ manzi fin qui osservati, a riportare questo effetto di reale*; cfr. Barthes, 1968), dà all'intreccio un ritmo serrato; e pure le stesse lettere, ben equilibrate tra l'esposizione dei sentimenti dei personaggi e la narra­ zione degli avvenimenti che li vedono protagonisti, contribuiscono a dare al racconto un'impressione di immediatezza. A distinguere questo romanzo dai precedenti c 'è un elemento deci­ sivo: le epistole non sono convocate nella narrazione come testimo­ nianze sincere e affidabili circa la psicologia dei personaggi. Non tutte, almeno. I legami pericolosi mostra la propria modernità innestando sulla sequenza delle epistole una stringente dialettica tra verità e men­ zogna. n sistema dei personaggi vede da una parte gli "ingannati" - Cecilia, Danceny e la Presidentessa - che affidano alle missive de­ stinate ai propri confessori o ai propri amati il segreto delle loro emo­ zioni e dei loro tormenti; dall'altra i due ingannatori, che dal primo momento dispiegano nella scrittura tutta la loro abilità di dissimula­ zione, innescando una tensione tra significato apparente e significa­ to nascosto che solo il lettore può decifrare - sentendosi per questo complice dei due libertini (Rousset, 1962, pp. 110·3). Tale tensione, però, finisce per estendersi anche alle lettere che i due si scambiano. L'amica fiamma dell'amore non si è mai davvero sopita, e così anche Valmom e la Marchesa di Merteuil cominciano a "giocare" l'uno con­ tro l'altro: lei, ingelosita, rivela a Danceny la tresca della sua amata Cecilia con l'ineffabile libertino, che viene sfidato a duello; lui, prima di essere sconfitto dal giovane Danceny, gli affida tutte le lettere della Marchesa, rivelandone così le trame occulte e infangandone il nome agli occhi dell'alta società - pena ben peggiore della morte. In tutto questo intreccio, il lettore gode di una posizione privilegiata perché panoramica: avendo accesso alle lettere di ogni personaggio, egli conosce dall'inizio ciò che l'intera comunità verrà a sapere solo alla fine. La trama polifonica finisce cioè per conferirgli un ruolo di coautore che lo coinvolge profondamente nel lavoro di costruzione del significato del romanzo. Dissolta ogni pretesa di affermare la ve­ ridicità delle vicende narrate attraverso le lettere, sparita anche ogni preoccupazione di dare evidenza moralistica al significato comples47

sivo dd libro, Laclos riesce a sfruttare a pieno il potenziale narrativo delle lettere in quanto strwnenti di finzione, ma soprattutto come veri e propri mezzi d'azione, in grado di costruire, articolare o anche rom­ pere - se improvvidamente rese pubbliche - i legami tra i personaggi. È questa la vera linea di sopravvivenza dd genere epistolare, che tut­ tavia nell'Ottocento subirà un inesorabile declino a causa della con­ correnza dei romanzi gotico, storico e realista, più adatti ad affrontare l'estensione del mondo narrabile che si verifica con la nuova temperi e romantica. Non a caso, gli esemplari più interessanti in questo secolo sono quelli in cui l'espediente epistolare viene utilizzato per articolare le dinamiche d'intreccio all'interno di narrazioni di genere fantasti­ co, come in Frankenstein (1818) di Mary Shelley o in Dracula (18 97) di Bram Stoker, entrambi romanzi in cui l'impiego delle lettere è funzionale allo scopo di « suscitare brividi d'orrore » e «far sì che i lettori avessero paura di guardarsi alle spalle», come dichiara la stessa Shelley nella Prd/zzione del suo romanzo (Shelley, 18 18, p. 52.). Destinata a scomparire è invece la linea più intimista del genere, quella che, sulla scia della Nuova Eloisa, conduce all 'epistola-diario e ali' autobiografia e che trova le ultime espressioni nei Dolori del gio­ vane Werther (1774) di Johann Wolfgang von Goethe e nelle Ultime lettere dijacopo Ortis (1798, poi 1817) di Ugo Foscolo. Questi roman­ zi tragici, che applicano il lavoro di scavo psicologico a figure tita­ niche, ripristinano l'originario monologismo del romanzo epistola­ re, a cui aggiungono peraltro una forte connotazione letteraria: le lunghe citazioni poetiche, le ricche descrizioni di paesaggi simbolici, le profonde meditazioni sul rapporto tra Uomo e Natura fanno di questi romanzi delle perfette espressioni del Romanticismo europeo e del nuovo «idealismo pessimista» (Pavel, 2.00 2., p. 45). L'impiego dei diversi espedienti finzionali elaborati dalla tradizione di genere - prefazioni, interventi dell'editore, date e luoghi di invio - risulta oramai puramente pretestuoso per due romanzi che rinunciano alla trama per concentrarsi su un processo dialettico di «interiorizzazio­ ne dell'ideale o sacralizzazione dell'interiorita» (ivi, p. 47) e sui modi della sua stilizzazione filosofico-letteraria. n lettore torna così a esse­ re spettatore di vicende e significati che può accogliere o respingere, ma che non può più contribuire a costruire.

2.3.

Il romanzo di formazione

n tramonto del romanzo epistolare propriamente inteso coincide con l'ascesa di un genere destinato a grande fortuna, soprattutto nell'Ottocento. A compiere il passaggio del testimone è lo stesso Goethe che, pochi anni dopo aver segnato una trasformazione defi­ nitiva del genere epistolare, incomincia la lunga lavorazione che por­ terà a Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795-96), primo tassello di una lunga e incompleta serie dedicata alla vita di questo personaggio, ma soprattutto archetipo del romanzo di formazione. Si tratta di un genere che raccoglie l'istanza a esplorare l'interiorità del soggetto espressa dal romanzo sentimentale prima ed epistolare poi, ma al contempo comincia a elaborare un'immagine sempre più articolata della società in cui il soggetto si trova a vivere. In concomi­ tanza con significative acquisizioni della psicologia, che comincia a vedere l'adolescente non come "adulto in potenzà', ma come indivi­ duo portatore di caratteristiche specifiche ( Gailus, 2.00 2., p. 5 17 ), il cosiddetto Bildungsroman «fissa nella gioventù la parte più signifi­ cativa dell 'esistenza» (Moretti, 1999, p. 3), poiché è il momento in cui si decide il destino dell'uomo. Alla fine dell'adolescenza, infat­ ti, si verifica lo scontro decisivo tra due spinte contrapposte : quella dell'individuo che vorrebbe vedere affermata la sua specificità, crea­ tiva e ancora eccentrica rispetto alle regole del vivere adulto, e quella della società, intenta a definire la posizione di ogni membro della co­ munità all'interno di un codice di norme e convenzioni. n romanzo di formazione racconta così la storia di una "socializzazione", ovvero dell'esplorazione dello spazio sociale da parte di un individuo il cui carattere non è ancora determinato e che può quindi elaborare stra­ tegie di sopravvivenza di volta in volta diverse. Franco Moretti, nel suo ricco studio, riconosce al Bildungsroman la capacità di restituire narrativamente un passaggio epocale nell'e­ voluzione della cultura occidentale, quello da una società d' ancien régime, in cui ognuno nasceva in una classe nella quale era destina­ to a rimanere, ricalcando le orme degli avi, a una società moderna e borghese, in cui la libera iniziativa individuale lascia aperta la porta a parabole imprevedibili, che proiettano i figli in condizioni sociali

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anche molto distanti da quelle d'origine. «Forma simbolica» della modernità (ivi, p. s), il romanzo di formazione racconta le vicende di personaggi irrequieti, che si muovono in un universo altrettanto mobile che alimenta speranze e illusioni, promettendo a ciascuno un destino speciale, calibrato sulle sue specifiche capacità. In un'epoca di grandi trasformazioni storiche (Rivoluzione francese, Restaura­ zione, moti del 1848), sociali (crisi dell'aristocrazia, ascesa della bor­ ghesia) e culturali (il passaggio dall' llluminismo al Romanticismo), il Bildungsroman mette in scena il conflitto tra gli slanci e le passioni di un io «in divenire » e i vincoli rigidi della società, ma offre a que­ sto conflitto una soluzione conciliante, mostrando come sia possibile raggiungere un «compromesso » (Moretti, 1999, p. XVIII ) . Questo compromesso è, appunto, la socializzazione, l'accettazione delle regole e la rinuncia a costruire un nuovo mondo da parte del pro­ tagonista. Solo fornendo un esito felice al suo viaggio alla scoperta del mondo, d'altra parte, è possibile dare letteralmente un senso alla narrazione dei suoi "anni di apprendistato". Ecco allora la parabola di Wilhelm Meister, prototipo dell' «eroe medio borghese che trova la maturità del proprio io solo conciliando sogni e illusioni giovanili con la realtà del mondo» (Baioni, 2002, p. 127 ). Per arrivare a questa conciliazione, però, Wilhelm deve prima rinunciare alla sua grande ambizione, che l'ha portato a rifiutare l'e­ redità paterna e a disprezzare i volgari commerci della vita borghese: diventare un artista. Quella narrata nel Wilhelm Meister - definito non a caso anche archetipo del romanzo d'artista (Kunstlerroman) è la storia dello scontro tipicamente borghese tra vita estetica e vita economica. Tuttavia, a dispetto delle titaniche aspirazioni che ani­ mano i primi passi nel mondo, Wilhelm non mostra un carattere forte; al contrario, è un personaggio passivo, disposto a lasciare agli altri il compito di indirizzare il corso della sua vita. Wilhelm si rivela un personaggio comune, esemplare non per la sua eccezionalità, ma per la sua normalità; e destinata a rientrare nella norma è la parabo­ la della sua maturazione. Osservare il destino riservato ai tantissimi personaggi che incontra nel suo viaggio gli permette di capire quali scelte fare : di certo non proseguire la strada della vocazione artistica poiché, come Goethe aveva mostrato nel suo Torquato Tasso (1790), so

il talento finisce per distruggere la vita dell'uomo, condannandolo a solitudine e follia (ivi, p. 129); ma nemmeno la vita dei commerci, tanto celebrata dall'amico Werner, potrà essere giusta per Wilhelm, che rifiuta di risolvere la sua esistenza nel lavoro e nel perseguimento dei guadagni. In controtendenza con le trasformazioni che stanno sconvolgendo la società europea dell'epoca, Wilhelm trova la sua "immeritata" felicità compiendo un percorso inverso, che dalla bor­ ghesia lo posiziona nell'aristocrazia terriera; ma soprattutto lo fa accettando di sposarsi e di entrare attivamente nel ciclo delle genera­ zioni che anima la vita di una comunità. Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister esprime così la spinta a controbilanciare le tensioni della Storia tipica del romanzo di for­ mazione, che dà corpo a un sogno d'ancien régime, di conciliazione tra borghesia e aristocrazia attraverso un percorso di promozione sociale (Moretti, 1999, p. 71). Le ripercussioni di questa propensio­ ne si osservano anche nella costruzione delle trame : mentre fuori si avvicendano imperi e rivoluzioni, nei romanzi acquista centralità la rappresentazione della quotidianità, dominio in cui la vita procede lentamente, attraverso trasformazioni graduali, determinate da avve­ nimenti apparentemente insignificanti. È la reazione del personag­ gio che determina la natura di nuclei o satelliti* dei diversi episodi della trama. La narrazione della formazione di Wilhelm Meister si riempie così di fatti, incontri, episodi a un primo sguardo fortuiti e inconsistenti, ma che acquistano valore se riletti nella prospettiva della conquista sociale e morale che Wilhelm raggiunge alla fine del romanzo. La struttura teleologica del racconto dà senso a ogni singo­ lo avvenimento ; e a rafforzare questo impianto giunge anche l'inter­ vento della Società della Torre, un'organizzazione massonica che ha orchestrato tutti gli avvenimenti della vita di Wilhelm al fine di for­ marlo come uomo nella società. E così il fine del percorso di crescita di Wilhelm viene a coincidere con la fine della sua storia. Il romanzo di formazione rappresenta l'anello di congiunzione tra i romanzi settecenteschi, che raccontando le oscillazioni del senti­ mento individuale proponevano riflessioni moralistiche su caratteri "assoluti", e i romanzi ottocenteschi, che inseriscono le storie partico­ lari all'interno di contesti generali. Nel romanzo di formazione, dove 51

passato e futuro sono in egual modo determinanti per il presente del protagonista, si mostra per la prima volta quello che Guido Mazzoni ha definito un «nuovo etere concettuale storico-dinamico» (Maz­ zoni, 2.011, pp. 2.15-2.2.), che porta a trattare i personaggi non più come tipi calati in una dimensione apparentemente immobile e astorica, ma come componenti di una rete fatta di classi sociali, rapporti di forza e relazioni commerciali. I nuovi narratori diventano osservatori attenti e scrupolosi del carattere dei loro personaggi, poiché questo rappresenta la prima spia di un rapporto conflittuale con il contesto storico-sociale in cui si muovono. Basti leggere quello che dice Eliza­ beth Bennet, protagonista di Orgoglio e pregiudizio ( 18 13) di Jane Au­ sten, alla sorella appena abbandonata dal signor Bingley con cui spe­ rava di sposarsi: « Più conosco il mondo, più ne sono scontenta; ogni giorno conferma la mia opinione sull'incoerenza degli esseri umani e sull'impossibilità di fare affidamento su ciò che sembra meritevole o sensato» (Austen, 1813, p. 132.). Quella di Elizabeth è un'insoffe­ renza immedicabile verso l'ossessione della madre per il "buon ma­ trimonio" delle figlie, verso la stupida civetteria delle sorelle minori, verso le ipocrisie ammantate di modi galanti con cui ci si confronta in società, e verso la volubilità degli uomini, incapaci di mostrarsi coerenti nei propri buoni principi. Elizabeth rifiuta l'intero codice di norme e convenzioni della società aristocratico-borghese e lo di­ mostra quotidianamente. Per mostrare la radicalità del sentimento della protagonista Jane Austen ricorre a un principio di ripetizione, che trasforma definitivamente la cosiddetta middle station oflife nel centro nevralgico della narrazione. Per più di metà del romanzo, in­ fatti, le azioni di Elizabeth non hanno fini concreti: è una ragazza in età da marito, si comprende che ogni incontro con uno scapolo potrebbe aprire il campo alla trama amorosa, ma nessun vero intrec­ cio ha inizio. Tutta l'attenzione è concentrata sui piccoli avvenimenti quotidiani, e in particolare sulle infinite conversazioni che servono ad affinare progressivamente il carattere ribelle di Elizabeth. li suo personaggio, così, non viene definito né dalla sua posizione sociale né dal suo "ruolo", ma solo ed esclusivamente dalla sua personalità, che naturalmente non manca di aspetti eterogenei e anche contrad­ dittori (Hamon, 1972.).

C 'è tuttavia un orizzonte verso cui Elizabeth, come tutti gli altri per­ sonaggi del romanzo, tende continuamente, ed è la felicità. La sua lotta contro gli stereotipi e le convenzioni, contro il presunto buon senso e le imposizioni sociali è sempre, implicitamente, orientata ad affermare un diverso modo di interpretare la vita, un modo che ga­ rantirebbe a Elizabeth una felicità ignota a chiunque non condivida il suo punto di vista. È questo tratto che rende la trama di Orgoglio e pregiudizio interessante: il lettore vuoi sapere fino a che punto la protagonista riuscirà a spingere il suo desiderio contro le leggi della comunità e in che modo darà compimento al proprio destino (Maz­ zoni, 1011, p. 186). Nell' Inghilterra di inizio Ottocento, che come la Germania è estranea ai fermenti rivoluzionari che scuotono la Fran­ cia, un destino di felicità assoluta è ancora possibile, per cui la para­ bola di Elizabeth Bennet è destinata a concludersi con il matrimo­ nio, emblema dell'accettazione della norma e simbolo del contratto sociale che l'individuo si rende disponibile a siglare per entrare a far parte della comunità.

2.4.

Bildung ambigue e parziali

Passano quindici anni, il romanzo di formazione approda in Fran­ cia e il modello cambia. Qui la rivoluzione ha prodotto un conflitto di valori dalle conseguenze irreversibili e anche il romanzo riflette questa frattura insanata. La felice normalità di Wilhelm ed Elizabeth come soluzione di compromesso al termine della parabola di matu­ razione lascia il posto a conclusioni aperte, irrisolte, espressioni di una società che affronta trasformazioni di cui non riesce a prevedere l'esito (Moretti, 1999, p. 81). Si pensi ai romanzi di Stendhal, e in particolare a Il rosso e il nero (1830 ). Innanzitutto, l'epoca, il contesto sociale e la storia in cui i personaggi si muovono diventano strutture determinanti (Auerbach, 1946, vol. n, pp. 111-5). Nella dimensione storico-politica si radicano le loro convinzioni e le loro ambizioni. Julien Sorel non è un personaggio nato nella classe sbagliata - come Wilhelm Meister ed Elizabeth Bennet -, ma nell'epoca sbagliata. In un mondo che ha già seppellito i furori della rivoluzione, egli s' infer53

vora per le grandi idee di Rousseau e per i fasti dell'età napoleonica. Tuttavia, la sua ambizione lo spinge ad accettare le regole del gioco e a tradire gli ideali giovanili, cercando nella carriera ecclesiastica l'unica possibilità di promozione sociale. Non per questo, però, si converte ai nuovi valori della società francese della Restaurazione. Nasce così un personaggio ambiguo, ipocrita e trasformista, prodotto di una scissione interiore che non può essere ricomposta: gli ideali giova­ nili, i buoni valori trovano asilo nell'interiorità, ma vengono tacitati in pubblico per far spazio ai valori utili, all'immagine conveniente. Se raggiungere una socializzazione apparente è così facile, molto più difficile è non annoiarsi nella mediocrità borghese. Nella pacificata società della Restaurazione i conflitti devono essere provocati : Ju­ lien Sorel si dimostra personaggio dell' «energia» e della passione, che cerca spasmodicamente di modificare le prevedibili rotte del suo destino, e per fare questo è disposto a infrangere le regole (Brooks, 1984, pp. 67-97). Tradimenti, fughe e omicidi sono all'ordine del giorno nella narrativa di Stendhal, che attribuisce ai suoi protagoni­ sti un'acutissima insofferenza alle norme e alla normalità. Rilanciato da continue e arbitrarie violazioni dell'ordine da parte di Julien, il racconto si fa rocambolesco, tutto rivolto al «primo piano» dell'a­ zione (Weinrich, 1964, pp. 129-3 5). Stendhal abbandona i lenti pro­ cessi e le sovradeterminazioni tipiche dei romanzi di Goethe - e an­ che di Balzac - a vantaggio di una rapidità narrativa che punta dritta al nucleo degli episodi (Moretti, 1999, p. 117). li rifiuto di integrarsi pienamente nella nuova società restaurata rende i suoi personaggi naturalmente interessanti, perché capaci di svolte narrative sempre imprevedibili - e talvolta incoerenti; d'altro canto, la connaturata irrequietezza di Julien ne fa un personaggio impossibile da soddisfa­ re. La felicità per lui non può coincidere con l'appiattimento sulla banale "prosa'' del mondo borghese : l'unica soluzione, allora, è una trasformazione continua, che viene interrotta, improvvisamente, dal finale tragico (Lotman, 1970, p. 284). La morte del protagonista, ri­ baltando lo schema matrimoniale del primo romanzo di formazione, arriva a concludere una narrazione potenzialmente infinita. Stendhal apre nella tradizione del romanzo di formazione una fa­ glia che Gustave Flaubert si incarica di rendere più profonda. I mo54

delli di Bildung proposti alla metà dell'Ottocento da Balzac o da Dickens, con strutture chiuse e corrispondenze esatte, riflettono in realtà istanze che sono proprie del romanzo realista ottocentesco (cfr. PAR. 3.3). Con Flaubert, invece, il romanzo di formazione, pur conservando la sua funzione di «forma simbolica » della modernità, esaurisce la sua parabola narrativa, sovvertendo proprio il modello balzachiano dell'organizzazione romanzesca dei significati (Brooks, 1984, pp. 184-7). L'educazione sentimentale (1869) di Frédéric Moreau, protagonista del romanzo di Flaubert, ripropone l'idea di formazione come vagabondaggio imprevedibile, arabesco definito da scelte arbitrarie e sempre più capricciose (Bernardi, 2.011, p. 6o ). Tuttavia, il desiderio di infrazione che eccitava le imprese di Julien Sorel si è trasformato in un sentimento "tenue", che fatica a scaldare le scelte che dovrebbero orientare la vita di Frédéric (Brooks, 1984, p. 199 ), il quale infatti si caratterizza come personaggio «senza gravi­ tà» (Bourdieu, 1992., p. 46), eroe passivo, che scansa i conflitti con il mondo esterno, anziché affrontarli (Lukacs, 192.0, pp. 136-43). La sua vita è inizialmente priva di avvenimenti: tutto ciò che potreb­ be essere decisivo, si risolve rapidamente in un nulla di fatto. Così, l'assenza di eventi porta Frédéric a fantasticare, a trasformare il mon­ do interiore nell'unica dimensione rilevante, perché l'unica in grado di ricompensarlo per l'assenza di successi nel mondo reale (Moretti, 1999, pp. 194-5). Quando poi si ritrova in possesso del denaro che potrebbe trasformare la sua vita, fa di tutto per evitare le svolte che gli consentirebbero l'accesso a una folgorante carriera. Tutto accade senza che Frédéric lo voglia realmente; e anche il narratore inanella avvenimenti che avrebbero riempito diversi tomi dell'opera di Balzac senza tuttavia riservare loro un adeguato rilievo narrativo (Brooks, 1984, p. 195). Estraneo al mito borghese del successo, all'arrivismo dei personaggi balzachiani così come allo slancio performativo degli eroi stendhaliani, Frédéric sembra piuttosto un precursore di Des Essein­ tes e dei protagonisti del romanzo decadentista (cfr. PAR. 3.4). Ma quello che cela questo suo desiderio di possesso e consumo è in realtà l'ansia di non essere determinato e di rimanere disponibile a qualsiasi esito, del destino e della trama. Sia la storia - i moti del 1848 - che l'amore - quello ricambiato per madame Arnoux - si rivelano espe-

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rienze impossibili per lui, distratto ogni volta nel momento in cui dovrebbe compiere la scelta decisiva. Non a caso, quando alla fine del romanzo ripensa insieme all'amico Deslauriers alla vita trascorsa, Frédéric riconosce come unico momento memorabile un episodio apparentemente insignificante, emblema della sua inettitudine - il mancato rapporto con una prostituta turca, accaduto peraltro prima dell'inizio dellafobula romanzesca. In questo modo, però, la formazione non si completa, l'uscita dalla gioventù non avviene mai e Frédéric protrae indefinitamente la sua immaturità, rendendola consustanziale al suo personaggio: il fasci­ no della sperimentazione dei possibili, della proiezione nel mondo dell' «immaginario» (Bourdieu, 197;, p. 10;), ha la meglio sulle necessità della scelta, sulla concreta scoperta di sé (Moretti, 1999, p. 197). La gioventù, da tappa di passaggio nel percorso di crescita esistenziale, si è trasformata nell'orizzonte mobile di sopravvivenza, meta agognata da chi non vuole decidersi a entrare in società. Nel momento in cui gli "universali" non sono più valori condivisi da tutti, ma diventano oggetto di dibattito (Mazzoni, 2011, p. 3 14), il romanzo "a struttura aperta" si candida a farsi per l'ennesima volta ri­ flesso simbolico di una società incapace di attribuire a priori un senso ai fatti della vita dell'uomo. Seguiremo le evoluzioni di questa linea narrativa, destinata a con­ dizionare la grande stagione del romanzo modernista novecentesco; prima, però, è meglio fare un passo indietro per vedere come, a par­ tire dall'inizio dell'Ottocento, il romanzo si fosse fatto carico anche di rappresentare la nuova consapevolezza della storia e dei rapidi mu­ tamenti che la Rivoluzione francese aveva prodotto sulla società eu­ ropea e che il Bildungsroman si era limitato a trasfigurare nelle svolte interiori dei suoi protagonisti.

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Il romanzo ottocentesco

Si è detto che il XIX secolo si apre con l'inaugurazione di una nuova logica romanzesca che porta gli autori a considerare ogni singola sto­ ria all'interno di un più ampio contesto sociale e politico: nell'Ot­ tocento il romanzo si appropria della varietà della vita con un' am­ piezza di visione sconosciuta al Settecento (Mazzoni, 2011, p. 232). Come testimonia l'Avant-propos con cui Honoré de Balzac apre la sua Comédie humaine, il romanzo aspira inoltre a presentarsi al letto­ re come forma di conoscenza, al pari di storia, filosofia e scienze dure, giacché è in grado di farsi fedele segretario di una società complessa, stratificata e dinamica. Grazie alla sua attenzione per i dettagli - psi­ cologici, sociali, di costume - la scrittura romanzesca può spingersi dove la Storia non è mai arrivata; ed è quanto ha fatto per primo Walter Sco tt che, come scrive Balzac, ha innalzato il romanzo « al valore filosofico della storia» (Balzac, 1842, p . 66). Scott e Balzac, romanzo storico e romanzo realista: nasce così un modello narrativo destinato a influenzare a lungo la produzione ro­ manzesca occidentale. Come mostrato anche dalla prima fase del romanzo di formazione, in tempi di grandi sconvolgimenti politici il romanzo si fa interprete di un anelito all'ordine, cercando di ri­ comporre il contrasto tra eccentricità individuale e forza attrattiva delle nuove istituzioni sociali (Bertoni, Fusillo, 2003, pp. 47-8). Na­ scono allora architetture narrative perfette, in cui ogni particolare ri­ flette coerentemente la logica dell'intero sistema, fornendo al lettore un'immagine articolata ma comprensibile del mondo rappresentato. Alcuni aspetti sono comuni ai due generi, tanto da diventare carat­ teristici di quel macro-genere comunemente chiamato "romanzo ottocentesco". lnnanzitutto si riafferma un narratore esterno e onni­ sciente, obiettivo e preciso nella ricostruzione del contesto storico­ sociale, ma non per questo inibito a intervenire per esprimere i pro­ pri commenti : è il suo punto di vista a definire l'orizzonte di lettura del racconto. In secondo luogo, il passato remoto diventa il tempo

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privilegiato della narrazione, espressione di un tempo interamente trascorso, esente dai condizionamenti del divenire storico. Infine, una spiccata attenzione alla "configurazione drammatica" dell'in­ treccio si manifesta nell'equilibrata distribuzione delle funzioni nar­ rative tra le diverse sequenze: le svolte sono affidate alle scen e* , men­ tre i sommari permettono di ricostruire antefatti e inserire sequenze di passaggio; un ruolo privilegiato ricoprono poi le descrizioni, che trasformano il lettore nello "spettatore" di un affresco storico-sociale ricostruito nei minimi dettagli (Pellini, 1998a). In linea generale fino alla metà dell'Ottocento le trame si distinguo­ no per la loro chiarezza. Anche quando le piste narrative si moltipli­ cano nel tentativo di mimare la molteplicità del mondo, gli intrecci mantengono la loro natura "centripeta": ogni elemento del racconto svolge una precisa funzione, nel rispetto del principio di economia narrativa, e gli equilibri infranti all'inizio del romanzo trovano nel finale una coerente ricomposizione. Inoltre, forte dell'efficacia di queste trame ordinate, il romanzo, che pure prende spesso a presti­ to le proprie storie dalle cronache contemporanee (Bertoni, 2009), smette di esibire patenti di veridicità, dimostrando come la mani­ polazione creativa dei materiali forniti dalla realtà possa essere un efficace strumento ermeneutico.

3.1.

Mettere ordine nella Storia

Alla fine del Settecento, però, il romanzo non ha ancora raggiunto questo statuto. Inizialmente, il romanzo storico contempera ancora spinte contrapposte provenienti dal passato: da un lato la tradizione del romanzo sentimentale, che ha esteso il campo del narrabile ali' in­ teriorità individuale; dall'altro quella del romance, che aveva trova­ to nel romanzo gotico inglese la sua ultima espressione. È proprio questo genere a farsi primo interprete del nuovo clima romantico, che rivolge una nuova attenzione alle origini delle civiltà nazionali per recuperarne spirito e valori : il romanzo gotico proietta in epoche lontane e dall'aspetto «barbarico» (Duncan, 2002, p. II9) tensioni che il presente non sarebbe in grado di assorbire. Si pensi all' Italia

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medievale in cui Horace Walpole e Ann Radcliffe ambientano rispet­ tivamente Il castello di Otranto (1764) e I misteri di Udolpho (1794) : l'universo passionale, superstizioso, dispotico in cui si svolge il rac­ conto diventa determinante per la definizione del tono dell'intera narrazione e accentua ulteriormente il carattere già fosco di vicende sanguinolente. In questi romanzi le ricostruzioni storiche non sono accurate, perché l'interesse narrativo poggia sui particolari eccentrici ed esotici. Nasce così un immaginario a metà tra mito e storia, fatto di eroine sole dentro castelli tenebrosi, porte che cigolano misterio­ samente, corridoi labirintici che nascondono violenze e incesti, pae­ saggi selvaggi e perturbanti ; un immaginario che alimenta il dubbio, vero cardine di queste narrazioni (Orlando, 2015, pp. 160-4), e che attraversa il confine tra fantastico e strano* (Todorov, 1970 ), invitan­ do il lettore a muoversi insieme ai personaggi per cercare il dettaglio che riveli la direzione dell'intreccio. Anche il romanzo storico risente del revival antiquario del Roman­ ticismo, ma volge la ricostruzione storica a una precisa strategia di intervento politico sul presente. È proprio questo elemento a impor­ re ai suoi autori un rigoroso controllo delle fonti documentarie. Gli avvenimenti che caratterizzano il passaggio del secolo - la Rivoluzio­ ne francese, le guerre napoleoniche, la Restaurazione e i primi moti risorgimentali - mostrano la capacità della Storia di condizionare non solo le sorti delle nazioni, ma anche quelle dei singoli indivi­ dui. A partire da questo presupposto il romanzo storico persegue un controllo del presente attraverso un riassetto narrativo del passato, affidando a contesti storici precisamente determinati il compito di inquadrare le vicende di individui fittizi (Calabrese, 2003, pp. 611-2). Ne deriva un preciso orientamento a livello di ambientazioni, con l'abbandono degli scenari foschi del gotico - che resta l'orizzonte di romanzi popolari come Notre-Dame de Paris (1831) di Victor Hugo o Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta (1833) di Massimo d'Aze­ glio - a vantaggio di quadri storici più complessi e variegati, che van­ no dal Seicento manzoniano fino all'età napoleonica di Stendhal e Tolstoj, passando per la rivoluzione giacobita del "ciclo di Waverley" di Scott (inaugurato proprio da Waverley nel 18 14). Rispetto ai romanzi "neri" della tradizione inglese, di cui pure è ap59

passionato lettore, Scott riesce a trovare un più moderno equilibrio tra fedeltà storica e invenzione letteraria. lvanhoe ( 1819 ), in questo senso, è un'opera esemplare: la storia si svolge in Inghilterra all'epoca della terza crociata (n8 9-92.), quando il principe Giovanni approfitta dell'assenza del fratello, re Riccardo Cuor di Leone, per usurparne il trono. li conflitto tra Normanni e Sassoni su cui vengono proietta­ te la vicenda amorosa tra Ivanhoe e Lady Rowena e quella dinastica della famiglia regnante sembrano rievocare l'immaginario gotico. L'andamento della trama, con il finale ripristino dell'ordine e il trat­ tamento del materiale narrativo, con un'equilibrata mescolanza di generi e stili, ne marcano però una distanza decisiva. I grandi eventi di una storia ridotta quasi esclusivamente ai conflitti bellici si riflettono nella sfera degli scontri individuali, che acquisi­ scono una funzione simbolica fondamentale (si pensi alla scena ca­ pitale del torneo di Ashby-de-la-Zouche). La costruzione dei per­ sonaggi è infatti stilizzata allo scopo di renderne immediatamente riconoscibile la funzione "tipologicà'. Come testimoniano le epigrafi ad apertura dei capitoli, Scott attinge sia al repertorio del folklore (drammi, canzoni popolari, ma anche l'immaginario dei Canti di Ossian) che a quello della grande tradizione occidentale (Omero, Chaucer, Shakespeare) per tratteggiare caratteri fortemente conno­ tati - preti ghiottoni, eroine caste e sventurate, malvagi cavalieri che devono sorreggere i diversi registri del romanzo, che spazia dal comico-buffonesco al tragico-patetico. Su questo scenario lvanhoe si staglia come eroe moderno, capace di battersi anche contro i pre­ giudizi del suo tempo (combattendo per salvare l'ebrea Rebecca) e di farsi paladino di un'unità nazionale sancita dalla convivenza tra popoli rivali. Quello di Scott è un romanticismo passato al setaccio di una coscien­ za razionalistica. La finta lettera dedicatoria premessa al romanzo offre un esempio di ragionamento teorico sulle potenzialità del ge­ nere storico. La scelta di conservare un linguaggio contemporaneo per la narrazione di vicende lontane nel tempo viene giustificata con la necessità di mantenere l'interesse di chi legge. Un'intenzione pe­ dagogica, invece, permette al romanziere di rivendicare il diritto di privilegiare l'invenzione rispetto alla storia: una struttura narrativa 6o

complessa ma trasparente nei propri equilibri, il frequente ricorso a descrizioni che misurino la distanza tra passato e presente, la co­ struzione di dialoghi drammaturgici sono elementi tanto importami da giustificare anche alcune sviste nella ricostruzione di determina­ ti particolari storici (sviste di cui peraltro nessun lettore medio si accorgerebbe). li successo internazionale della sua opera dimostra come Scott abbia saputo anticipare i gusti di un pubblico che chiede storie verosimili a cui appassionarsi. Proprio il concetto di "verisimile" è al centro della Lettera sull'unita di tempo e di luogo nella tragedia (182.0) scritta da Alessandro Man­ zoni al critico Victor Chauvet. Durame l'elaborazione dei Promessi sposi (1840-4 2.), anche Manzoni cerca di ridefinire l'equilibrio tra il racconto dei grandi fatti storici e l'invenzione di micro-storie indi­ viduali che non contraddicono la verità della Storia, ma che possono contribuire a comprenderla meglio, se costruite con un'adeguata ri­ cerca documentaria. L'impostazione pedagogico-moralistica è chia­ ra, ed è esplicitata nella celebre massima contenuta nella lettera Sul Romanticismo al marchese Cesare Taparelli d'Azeglio: la letteratura deve proporsi «l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l'interessan­ te per mezzo» (Manzoni, 1 82.3, p. 184). Dettaglio non secondario : il romanzo dovrà cercare di raggiungere un pubblico nuovo, senza perdere quello tradizionale (Spinazzola, 1983). Rispetto al modello scottiano, Manzoni svincola la Storia dalla sua dimensione esclusivamente bellicistica: la Lombardia secentesca dei Promessi sposi è il prodotto di una concezione sociale - oltre che provvidenziale - della Storia (Burke, 2.003), luogo di incrocio tra fatti pubblici e privati che si apre agli aspetti economici (la rivolta del pane), politici (i rapporti tra clero e aristocrazia spagnola) e cul­ turali (l'uso del sapere come strumento di prevaricazione sociale), e che giustifica ampie digressioni saggistiche e frequenti citazioni delle fonti. D'altro canto, al centro del racconto c'è una vicenda piena­ mente romanzesca, la storia di Renzo e Lucia, personaggi non esem­ plari che invitano il lettore all'identificazione (Brogi, 2.oos, p. 38). I loro percorsi, che chiamano in causa generi romanzeschi diversi (il gotico per Lucia, l'avventura e la formazione per Renzo; Jameson, 1978), si sviluppano a distanza, e tuttavia sono costantemente tenuti 61

insieme dalla dinamica della storia d'amore, che attiva un sistema sim­ metrico di forze - incardinato sulle coppie antonimiche Renzo-don Rodrigo, Lucia-Gertrude, don Abbondio-Fra Cristoforo, Federi go Borromeo-Innominato. Anzi, proprio la dimensione amorosa, mo­ dernamente esplorata, annuncia una nuova sensibilità narrativa verso psicologi e sfaccettate ed eterogenee, confermata dalle estese introdu­ zioni che accompagnano la comparsa in scena dei personaggi, ma an­ che dall'attenzione alle svolte individuali. La costruzione di una voce narrante di stampo settecentesco, sempre pronta a chiamare in cau­ sa il /ettore.fittizio" e così a mettere in evidenza il proprio intervento nella composizione dell'intreccio, con commenti, riflessioni morali, digressioni storiche e similitudini metaletterarie, completa l' architet­ tura di un romanzo che, dietro un'apparente urgenza di legittimare storiografi camente il proprio racconto, rivela in realtà un'attitudine interpretativa e un potenziale di elaborazione fantastica tipici dell'u­ niverso romanzesco (Colummi Camerino, 1985, p. 109).

3.2.

Smarrimenti, epifanie, disincanti

Mentre in Italia i modelli di Manzoni e Scott producono un notevo­ le allargamento del pubblico e provocano una vera "moda" letteraria, in Francia questo genere sviluppa ulteriormente il legame tra storia e società, avvicinando significativamente campo d'osservazione e pun­ to di vista. La Certosa di Parma (1839) di Stendhal infatti potrebbe essere definito un "romanzo storico della contemporaneità". L'epoca, come già nel Rosso e il nero, è quella a cavallo della caduta di Napo­ leone e anche il profilo del protagonista assomiglia a quello di Julien Sorel: giovane di grandi ambizioni, Fabrizio Del Dongo è cresciuto nel mito di Napoleone, che non esita a raggiungere quando scopre del suo ritorno in campo dopo l'esilio all' Elba. Rispetto a quel ro­ manzo di formazione, però, la Certosa presenta insieme alla vicenda romanzesca una riflessione sulle possibilità di rappresentazione nar­ rativa della Storia. Stendhal ha ben appreso la lezione di Scott (Berthier, 1996): ogni personaggio è calato in un contesto storico, sociale e politico, le cui

leggi però agiscono implicitamente, senza bisogno di dispiegare l'ar­ mamentario descrittivo che Stendhal mal sopporta (Stendhal, 1832, p. 3 9 ) La narrazione si fa così rapida e snella, a tratti anche frammen­ taria (Balzac, 1840, pp. 1o;-1o ), in sintonia con il carattere dei per­ sonaggi, sempre pronti a cambiare idea, a modificare atteggiamenti e riorientare i loro sentimenti. Stendhal ha eletto a propri maestri «pensatori dell'individuo» come Chateaubriand, Pinel, Helvétius e Destutt de Tracy (Crouzet, 1990, p. 127 ), ma all a formazione di psi­ cologo affianca quella di storico (Zola, 1881), come testimonia l'im­ portanza che rivestono nel romanzo i dialoghi, che drammatizzano l'azione ma soprattutto restituiscono, in una versione razionalizzata, le pulsioni che turbano l'intimità dei personaggi. È anche così che il narratore investiga con precisione un universo animato da passioni celate e autoinganni. Abbandonando l'attitudine didascalico-pedagogica che il genere storico aveva sviluppato, Stendhal costruisce un romanzo privo di impalcatura moralistica. Il romanziere, d'altra parte, deve raccontare quello che vede, a prescindere dalla sua valenza etica. Accade così che nella Certosa la storia sia raccontata da una voce che non parteggia né per le audacie di Fabrizio - che sfruttando i favori della zia scala le gerarchie ecclesiastiche, pur senza rinunciare ai piaceri sensuali - né per i vincoli di una società conservatrice e ipocrita, che lo contrasta nelle sue smisurate ambizioni. Esemplare è il celebre episodio della battaglia di Waterloo, dove Fabrizio accorre per contribuire all'im­ presa napoleonica, ma finisce per non riconoscere né le istruzioni della propria parte (perché non riconosciuto dagli ussari con cui do­ vrebbe combattere) né la provenienza dei colpi avversari. Lo sguardo "opaco" dell'eroe è duplicato da quello del narratore, abile nel resti­ tuire rapidamente i contrastanti stimoli visivi che colpiscono e diso­ rientano Fabrizio. Il fatto storico si riduce a una matassa indistinta di percezioni che non ne trasmettono il senso. La storia è raccontata, ma senza giudizio - tanto che Fabrizio rimarrà sempre con il dubbio di aver davvero partecipato alla battaglia. La disordinata trama del romanzo si conclude così senza lasciare cer­ tezze al lettare. Nel finale, la morte del giovane eroe non produce un nuovo mito, perché l'ironia del narratore interviene a ristabilire le .

distanze. Contro ogni intendimento coercitivo, Stendhal lascia il suo lettore solo di fronte alla storia, obbligandolo a costruirsi autonoma­ mente una sovrastruttura etica per maturare il giudizio. Rispetto al romanzo di Stendhal, l'altra grande opera sull'età napo­ leonica, Guerra e pace ( 1865-69) di Lev Tolstoj, recupera per intero la propensione a offrire una visione chiara e politicamente orientata della Storia. D 'altra parte, a quest'epoca la Russia sconta, rispetto all ' Europa occidentale, un ritardo economico-sociale che si manife­ sta anche nella produzione letteraria. Guerra e pace e Anna Karenina (1878) appartengono piuttosto al paradigma narrativo delle opere di Balzac, pubblicate quasi cinquant'anni prima, che a quello dei con­ temporanei Flaubert o Zola (Lukacs, 1946, pp. 177-88). È questo sfa­ samento che in Guerra e pace permette allo scrittore russo di proiet­ tare in una dimensione epica gli scontri tra la Francia di Napoleone e la Russia degli zar. La trama è articolata e complessa, coinvolge masse e spazi enormi, dai quali però emerge un gruppo ristretto di personaggi raccolti intor­ no a due famiglie, i Rostov e i Bolkonskij : i primi incarnano il volto agreste e tradizionalista, i secondi quello arrivista e filonapoleonico dell'anima russa. Soprattutto, queste due famiglie permettono di te­ nere legati piano privato e piano pubblico. Guerra e pace, amore e morte: Tolstoj ricorre al registro degli universali per raccontare l'e­ popea del popolo russo, che nella difesa dali' invasore riscatta la pro­ pria identità e si fa artefice del proprio destino. Andrej Bolkonskij e Nata5a Rostov, il cui amore è ostacolato dagli interessi familiari, e insieme a loro Pierre Bezuchov, giovane idealista che sposerà Nata5a dopo la morte di Andrej a Borodino, sono perso­ naggi a tutto tondo, la loro psicologia è un campo di forze contrastan­ ti che rende le loro scelte mai del tutto prevedibili (i vi, p. 247 ). A or­ chestrarne le vicende è tuttavia un "caso" artificiosamente orientato dal narratore (Mazzoni, 2011, pp. 3 17-25), che oltre a radicare i carat­ teri dei personaggi all'universo storico e sociale, costruisce per loro parabole che hanno forma di destini compiuti. È questo che rende "monologici" i romanzi di Tolstoj (Bachtin, 1963, pp. 94-8) : la voce narrante si fa portatrice di un'idea più profonda della storia, un'idea che trascende le singole vite e fornisce loro un senso superiore. Tal-

volta questa percezione tocca anche i personaggi, grazie a piccole ma decisive epifanie, momenti di straniamento in cui le consuete catego­ rie cognitive vengono sospese aprendo varchi alla visione ( Sklovskij, 192.8, pp. 12.5-6). È quanto accade, ad esempio, ad Andrej che, ferito ad Austerlitz, mentre intorno infuria la battaglia, si estranea guar­ dando il cielo sopra di sé: vedere le nuvole che strisciano indifferenti a quanto accade sulla terra gli rivela il senso di un destino che prescin­ de dalla vita del singolo e che si realizza in un orizzonte più ampio, storico o addirittura metastorico. È proprio questo bisogno di sovrapporre un impianto di idee alle vi­ cende individuali che spinge Tolstoj a spostare progressivamente il baricentro narrativo dalla storia al ragionamento sulla storia. Ampie sequenze riflessive di carattere moralistico o filosofico danno al ro­ manzo in certi tratti la forma del saggio, anticipando una tendenza che si imporrà con il romanzo-saggio modernista (Ercolino, 2.014) mentre i contemporanei mal tolleravano quella macroscopica in­ frazione dei codici di lettura. La trama ne risulta appesantita, ma anche sfrangiata. Come nelle opere dell'epica cavalleresca, il moto centripeto della narrazione viene ripetutamente alterato da tentazio­ ni centrifughe, piccole deviazioni che ricordano come la realtà sia un flusso di fatti e impressioni in divenire, da cui chi racconta seleziona ciò che gli interessa (Mazzoni, 2.011, p. 3 1 8). A risultarne rafforzata, in definitiva, è l'istanza narrativa, una terza persona onnisciente che muove a piacimento le leve del racconto, ma che, al tempo stesso, è in grado di ricorrere anche a una prima persona plurale per rafforzare il proprio investimento ideologico nel racconto. Da istanze diametralmente opposte nasce invece l'ultimo grande romanzo storico dell'Ottocento, I Viceré (1894) di Federico De Ro­ berto, altro figlio di una provincia dell'impero romanzesco. Dopo Manzoni, alcuni autori popolari come Guerrazzi, Cantù e d'Azeglio sfruttano il successo del genere per rilanciare le istanze risorgimen­ tali, recuperando dimenticati eroi del passato nazionale e facendo ricorso all'armamentario retorico romantico. L'unificazione territo­ riale arriva a modificare l'orizzonte storico-politico, e con esso anche le motivazioni dell'invenzione romanzesca: nascono così Cento anni (1859-64) di Giuseppe Rovani e Conjèssioni di un italiano (1867) di -

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Ippolito Nievo, che attraverso il modulo narrativo della "vita di un uomo" raccontano i lenti processi di una storia che si avvicina pro­ gressivamente al tempo della composizione e sembra giustificare la fede nel futuro. A trent'anni di distanza, De Roberto arriva a smen­ tire l'imperante retorica unitarista. I Viceré inaugura la cosiddetta linea del "romanzo antistorico" (Spinazzola, 1990 ), completata da I vecchi e igiovani di Luigi Pirandello (1913) e Il Gattopardo di Giusep­ pe Tomasi di Lampedusa (19;8): tre romanzi siciliani che testimo­ niano la parabola di un'aristocrazia camaleontica, che sfrutta i nuovi spazi di democrazia aperti dal passaggio dali' assolutismo borbonico al liberalismo piemontese per conservare gli antichi privilegi. De Roberto mette in scena le vicende degli Uzeda, famiglia catane­ se discendente dagli antichi viceré di Spagna. L'eredità lasciata dalla matriarca Donna Teresa scatena una serie di contrasti familiari, che rivelano subito gli odi reciproci e le irrefrenabili pulsioni su cui si fon­ da il codice sintomatico degli Uzeda (Madrignani, 1984, p. xxxv) . Gli avvenimenti epocali - l'impresa dei Mille, il primo Parlamento italiano, le elezioni locali - intervengono a scandire una narrazione d'impianto "annalistico" che si concentra sul trascorrere della quoti­ dianità. E quotidiane sono le manifestazioni dell'unico principio che guida ogni scelta nel pubblico (investimenti finanziari, adesioni poli­ tiche) come nel privato (matrimoni annullati, eredità negate): la con­ venienza. Società e famiglia sono i campi in cui gli uomini si battono senza riserve e dove a prevalere, secondo le teorie dell'evoluzionismo darwiniano, sono coloro che meglio sanno adattarsi al mutamento delle condizioni ambientali. De Roberto eredita dalle teorie sperimentali di Émile Zola la con­ cezione di uno stretto legame tra personaggio e milieu sociale (cfr. PAR. 3.4). Nel caso degli Uzeda, è l'eredità familiare, intesa in senso psicopatologico prima che economico, a costituire la gabbia entro cui si dibattono i personaggi. Da fuori, una voce neutra e trasparente rive­ la come in uno studio documentario (Documenti umani è il titolo di una raccolta di racconti di De Roberto del 1889) la vera natura delle relazioni umane così come le forme concrete che assumono l'ambi­ zione e l'ipocrisia, ma anche la degenerazione fisica e psichica. Alle approfondite descrizioni di ambienti e costumi si affiancano così lun66

ghe pagine di spietata imrospezione psicologica, che non fanno che ribadire la tesi sottesa all'intero romanzo: il futuro non può riservare alcun progresso, ma solo la reiterazione della legge del più forte. Questo rigoroso determinismo sociale giustifica un intreccio in cui i nessi causali sono infallibili, ma spiega anche come la « scacchiera » dei Viceré finisca per consolidare il proprio asse intorno alle vicen­ de dei "capicasatà', coloro che hanno ereditato la predisposizione al dominio e sanno quindi attraversare le tensioni sociali e familiari (Spinazzola, I990, pp. I22-3o ). Le storie di Chiara, vittima dell'os­ sessione della maternità, o di Ferdinando, malato nel corpo e nello spirito, devono essere potate come rami secchi per lasciar proliferare le vicende di Giacomo, il primogenito di donna Teresa che cerca di radunare nelle sue mani tutti i beni materni, e soprattutto di Consal­ vo, suo figlio, che compirà la parabola familiare arrivando a ricoprire un seggio in Parlamento. A lui non a caso sarebbe toccato proseguire il ciclo degli Uzeda, diventando protagonista de L 'imperio, romanzo parlamentare rimasto incompiuto. Con I Viceré De Roberto prova a sfruttare la duttilità di un genere or­ mai tradizionale per avanzare una polemica ami-borghese: dal punto di vista del pubblico l'esito è disastroso, perché per oltre mezzo seco­ lo il libro viene sostanzialmente ignorato. L'impossibilità di imme­ desimazione in quella ridda di personaggi perversi e il disagio provo­ cato da una voce narrante distaccata e sadica (ivi, pp. Io-I) decretano l'inattualità di un romanzo che, indubbiamente, anticipa importanti caratteri di quel "romanzo della crisi" che aprirà il nuovo secolo.

3·3·

I maestri del realismo

All'inizio della sua carriera, anche Honoré de Balzac vorrebbe scrive­ re romanzi storici, anzi un intero ciclo che ricostruisca la storia della Francia. Ne serive solo uno, Gli sciuani (I 8 29), e poi si dedica a com­ porre il monumento del moderno realismo, La commedia umana, dove confluisce gran parte della sua produzione. È nella già citata Avant-propos che Balzac presenta la celebre similitudine che accosta la Società alla Natura, facendo dello scrittore una sorta di scienziato

- uno zoologo nello specifico - che studia le diverse "specie" umane, ne osserva gli ambienti e i comportamenti, le abitudini e i linguaggi. Scott aveva mostrato come la grande storia collettiva si ripercuotesse nelle esistenze private; Balzac, che ha assimilato lo storicismo roman­ tico, è pronto a proiettare il modello scottiano su un presente inteso come "risultato della storià'. n suo approccio alla scrittura è sistematico: un'epoca prende vita attraverso la somma dei tipi umani che la compongono e chi scri­ ve deve collocarli correttamente all'interno della grande scacchiera sociale (Balzac, 1842., p. 72.). Per questo Balzac crea delle « gallerie» entro cui inquadrare le vicende dei diversi personaggi : romanzi e rac­ conti della Comédie vengono suddivisi in Studi dei costumi (divisi a loro volta in Scene della vita privata, della vita di provincia, della vita parigina, della vita militare e della vita di campagna), Studi.filosofici e Studi analitici. Fin dall'organizzazione macrostrutturale si colgono chiaramente due aspetti centrali della scrittura di Balzac. Da un lato un'attitudine didascalico-ordinativa, evidente anche a livello micro­ strutturale nella composizione delle trame per unità narrative e bloc­ chi tematici nettamente distinti (sottolineati nelle edizioni su rivista da una titolazione informativa). Dall'altro, una chiara ambizione alla totalità, resa possibile proprio da questa rigorosa suddivisione. n narratore balzachiano descrive ambienti, personaggi e situazioni nel minimo dettaglio, forte della convinzione che i particolari non debbano per forza essere funzionali alla narrazione, ma acquisisca­ no un valore semantico in quanto semplici effetti di reale, verosimili contrassegni dell'appartenenza sociale o dello spessore morale di un determinato personaggio (Auerbach, 1946, vol. I I , pp. 2.40-7 ). Questo stesso scrupolo spinge Balzac ad allargare l'universo umano e sociale raccontato (solo il proletariato manca nei suoi romanzi), e per farlo sceglie lo scenario della città, orizzonte di riferimento del romanzo realista ottocentesco (Moretti, 1997 ). In città si decidono i grandi processi produttivi, si fa quotidianamente la politica che gui­ da il paese e si celebra il grande gioco sociale della cultura; verso la città sono indirizzati i sogni, i desideri e le ambizioni di un'intera umanità. La scelta di personaggi giovani e sostanzialmente estranei alle regole del vivere urbano permette a Balzac di raccontare integrai68

mente questi luoghi mentre li fa scoprire ai propri protagonisti, dan­ do così sfogo a quell'istanza sociologica che si dispiega nei passaggi di préparation che tanto piacevano ai suoi contemporanei (Mazzoni, 2.011, p. 2.17 ). Inesauribile serbatoio di storie e personaggi, inoltre, la città acquista la forma di «una gigantesca roulette, dove amici e avversari si combinano nei modi più strani » (Moretti, 1997, p. 73), dando origine a rutilanti intrecci. Si può dire che nei romanzi di Balzac due siano i motori che spingo­ no avanti la storia. Da un lato c 'è il desiderio di successo, l'inquie­ tudine irrefrenabile che nelle Illusioni perdute (1843) brucia l'animo di Lucien de Rubempré e lo spinge a voltare le spalle agli amici che lo avevano aiutato nei giorni di disperazione e miseria. Proprio a loro Lucien espone nella maniera più chiara il principio che regola il comportamento suo e di tutti coloro che a Parigi vogliono parvenir: «il fine giustificherà tutto» (Balzac, 1843, p. 501). Dall'altro lato, ci sono le imprevedibili svolte che increspano il camm ino dell'eroe verso l'obiettivo finale. Nei romanzi di Balzac la volontà del prota­ gonista non è mai l'unico vettore del racconto: Lucien, ad esempio, in quanto "provinciale", è del tutto ignaro delle leggi che regolano la vita pubblica nella città - delle norme scritte necessarie a stipulare un contratto di edizione come delle mute convenzioni che ordinano la vita sociale e culturale - e si trova nella condizione di doversi affida­ re ai suggerimenti di chi gli sta accanto. La mancanza di esperienza, però, gli impedisce di distinguere i consigli buoni da quelli cattivi, esponendolo al fallimento in un mondo dominato dall'interesse e dalla morale del doppio gioco. L'azione romanzesca si definisce così attraverso una struttura narra­ tiva complessa, non limitata al sistema binario desiderio-opposizione tipico del romanzo premoderno, ma articolata attraverso un sistema di mediazioni (Moretti, 1997, pp. 111-2.) che dilatano l'elemento dida­ scalico - affidato ora alla voce del narratore ora invece ai personaggi che devono istruire il protagonista - e però non depistano l' attenzio­ ne da un centro narrativo sempre visibile (Lukacs, 1946, p. 99 ). La cor­ nice della Comédie humaine, poi, finisce per ispessire la dimensione corale del racconto balzachiano, moltiplicando le focalizzazioni e gli intrecci, ma al tempo stesso dandole unità e compattezza, includendo

i singoli intrecci in una trama superiore, in cui gli stessi personaggi si ripresentano e le medesime situazioni si richiamano da un libro all'altro attraverso uno studiato sistema di analessr o prolessr che dà al lettore l'impressione di avere di fronte un universo complesso ma sostanzialmente padroneggiabile (Calabrese, 2003, pp. 616-8). Espedienti mirati a mantenere sempre alta la tensione narrativa, ne­ gli stessi anni, vengono affi nati dall'ascesa deljèuilleton, il romanzo d'appendice, che esce a puntate su riviste e giornali. Questa nuova tecnica di pubblicazione vede impegnati principalmente campioni del gusto popolare come Eugène Sue o Alexandre Dumas, ma non manca di coinvolgere anche scrittori di alte ambizioni, che finiscono per farsi condizionare da questo nuovo modo di raccontare le storie, in cui l'azione si interrompe sempre nel momento di massima ten­ sione e le attese vengono dilatate una settimana dopo l'altra (Brooks, 1984, pp. 153-82). Ne è un esempio Charles Dickens, nelle cui pagine l'istanza sociologica del realismo balzachiano si sposa con un'inven­ tività che risente ancora della tradizione inglese del romance: figli per­ duti, amori tenuti nascosti, testamenti rubati e sorprendenti agnizio­ ni costituiscono solo una parte dello sterminato repertorio di topoi narrativi che Dickens recupera dalla tradizione popolare e da quella del romanzo gotico (Moretti, 1997, p. 134). Questo armamentario di situazioni narrative viene poi innestato sullo scenario dell ' Inghilter­ ra vittoriana, animata da tensioni sociali ed epopee commerciali, ma estranea ai sommovimenti politici che turbano la Francia degli stessi anni (Auerbach, 1946, vol. n, pp. 265-6). Ed è forse questo dato che spiega la libertà con cui Dickens libera la propria fantasia e si affida al piacere della narrazione, dimenticando le urgenze della storia sociale. L'immagine dell' Inghilterra vittoriana offerta da Dickens è ben diversa da quella di William M. Thackeray, che con La.fiera delle vanita (1847-48) immortala in un grande qua­ dro di costume ipocrisie e vizi dell'alta società londinese, e da quella di George Eliot, maestra, in Middlemarch (1871-72), nel restituire l'alterità irriducibile della "gente comune". n suo universo narrativo non è retto da una struttura ordinata e rigida, ma si compone per accumulo di scene e storie, che accavall andosi e ripetendosi finiscono comunque per esaurire l'ampio panorama dell' Inghilterra di metà 70

Ottocento, restituendone un'immagine di brulicame vitalità. Per questo i suoi personaggi, pur memorabili e non superficiali (Forster, 192.7, p. So), possono essere considerati, in definitiva, piatti, capaci di cambiare improvvisamente il loro comportamento, ma mai di compiere un articolato percorso di trasformazione. A condizionare le loro scelte è un immaginario ancora fortemente melodramm atico (Brooks, 1976), che organizza il campo romanzesco attraverso cop­ pie oppositive ben identificabili (bontà-malvagità; innocenza-corru­ zione; umiltà-prepotenza) e che richiede per questo adeguati scenari narrativi (Bertoni, 199S, p. sS). Ecco perché la Londra di Dickens ap­ pare fatta molto più da sobborghi malfamati, fabbriche maleodoran­ ti e carceri che non da salotti borghesi e cafls-chantants. Se la Parigi di Balzac è la città in cui tutti vogliono essere, la Londra di Dickens è la capitale del crimine, la città da cui tutti vogliono fuggire. D'altra parte, a Parigi come a Londra, a muovere la penna di chi seri­ ve è la convinzione che il racconto possa organizzare la complessità del mondo. Rocamboleschi e apparentemente centrifughi, condotti in prima o in terza persona, gli intrecci dickensiani risultano infatti sempre retti da un «caso centripeto» (Mazzoni, 2.011, pp. 2.95-6), che interviene a ricondurre tutti i percorsi stravaganti avviati dal narra­ tore verso un finale risolutivo e pacificatore. Le trame acquisiscono così un andamento irregolare, che non di rado rivela anche infrazioni alla verosimiglianza e alla coerenza narrativa nelle quali Dickens in­ cappa pur di assecondare i commenti che di settimana in settimana gli giungono dai lettori (Lavagetto, 1996, pp. 199-2.16). Le storie che hanno per protagonisti gli orfani, come Oliver Twist (193S), David Copperfield (1Sso) o Pip ( Grandi speranze, 1S6o-61), sono in questo senso emblematiche. Questi giovani sono senza legami forti e privi di un contesto familiare che disegni il loro orizzonte di attesa: privi anche della capacità di commisurare le "grandi speranze" alle loro ca­ pacità, sono costretti a costruire l'intreccio della propria vita affidan­ dosi alla sorte (Brooks, 19S4, pp. 12.5-33). Si avviano così lungo strade che si interrompono, deviano e tornano indietro : solo il finale, quasi sempre rocambolesco, giungerà a illuminare di senso tutti i passaggi di queste vite avventurose (Johnson, 2.001, p. 736), non mancando di contrassegnarle con un'impronta moralistica. 71

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Nel regno della descrizione

Dopo la metà dell'Ottocento, però, qualcosa cambia. Lo specchio del realismo si rompe (Bertoni, 2007, p. 216), la convinzione che sia possibile ricomporre attraverso il racconto gli infiniti frammenti del mondo viene progressivamente meno. Non si tratta, naturalmente, di una svolta improvvisa e trasversale a tutte le tradizioni nazionali; si tratta se mai di una fase di transizione in cui la vecchia fiducia nel romanzo come macchina di senso che aiuta a leggere e comprendere il mondo (Lavagetto, 1996, p. 200) convive con l'insorgere di alcu­ ni decisivi problemi nella rappresentazione letteraria della realtà. La polemica esplosa nel 1884 tra Robert Louis Stevenson e Henry James circa i problemi legati alla corrispondenza tra vita e letteratura segna­ la l'imporsi di un nuovo modo di vedere il mondo che, pur tra tante e diverse espressioni, trova un asse condiviso nella rivisitazione della fisionomia del narratore primo-ottocentesco, ben esplicitata negli scritti critici - e autocritici - dello stesso James (1934): nei romanzi suoi e di Gustave Flaubert, e poi in quelli di Émile Zola o Giovan­ ni Verga la voce narrante si mimetizza, cerca di rendersi invisibile, dando l'impressione che la storia "si racconti da sé"; nei romanzi di Fedor Dostoevskij o Joseph Conrad, invece, la voce del narratore en­ tra in risonanza con quella dei personaggi, dando alla verità narrativa una dimensione dialogica, che la rende ora sfuggente, ora invece ine­ sprimibile, ma lasciando comunque il lettore spiazzato di fronte a un testo che non fornisce risposte. L'antica onniscienza si trasforma ora in pretesa oggettività, ora in conclamata parzialità. Da un lato ci sono gli autori che scrivono dal centro dell'impero ro­ manzesco, resi cinici dalle delusioni del 1848 e dall'evidenza di una re­ altà sempre più distante dai loro ideali (o per eccesso di fatuità, o per corruzione ideologica). Nelle province dell'impero, dove i modelli di vita e di pensiero dell'Europa moderna vengono travasati in contesti non sempre compatibili, il romanzo dimostra invece una «immedia­ tezza di vita» (Auerbach, 1946, vol. n, p. 302) che ne conserva la funzione di strumento di conoscenza e di riflessione morale o sociale. E il discorso non vale solo per la Russia di Tolstoj e Dostoevskij (ma anche di Puskin, Gogol' o Turgenev) ; anche Herman Melville, ame72

ricano autore di Moby Dick (IS S I), oJoseph Conrad, polacco trapian­ tato in Inghilterra dopo anni trascorsi sulle navi e autore di Cuore di tenebra ( I902. ) , assegnano al romanzo una profondità di indagine metafisica inimmaginabile per gli autori francesi o inglesi. La narra­ zione affronta le grandi questioni dell'uomo, racconta le vicende di personaggi che si fanno carico di passioni assolute, le cui ombre si proiettano non solo sulle società a cui appartengono, ma sull'intera umanità. Lo scarto appare evidente, ad esempio, se si osserva come viene de­ clinato il tema del crimine, già affrontato da Dickens. In Francia e in Inghilterra, alla metà del secolo, nasce il romanzo poliziesco (cfr. PAR. 4.2. ) , genere che, attraverso la sfida a distanza tra investigatore e criminale, inscena un conflitto tra ordine e disordine che non può che risolversi a favore del primo. In Russia, invece, Dostoevskij tra­ sforma l'infrazione della norma nella manifestazione della protesta degli uomini contro l'assenza di una giustizia superiore (Bertoni, Fu­ sillo, 2.003, p. 49 ). Da un certo punto di vista, nei suoi romanzi, l'impianto di genere è conservato: qualcuno ha commesso un delitto, qualcun altro deve capire chi è stato e scoprire le ragioni che l'hanno mosso all'azione. Innanzi tutto, però, il lettore conosce come si sono svolti i fatti; sa da subito, ad esempio, che Raskòl'nikov, protagonista di Delitto e casti­ go (I866), ha ucciso Alena e Lizaveta lvànovna. La tensione narrativa si sposta allora dall'impulso a conoscere il colpevole all'esplorazione delle motivazioni profonde, che emergono dal confronto tra chi sa e chi non sa. L'indagine da poliziesca si fa psicologica, e la posta in gioco acquista un valore diverso. I personaggi di Dostoevskij sembra­ no farsi carico infatti del disagio di un'umanità che ha perso la fede nelle verità universali e che al tempo stesso sa che neanche la verità individuale, quand'anche fosse raggiunta, risolverebbe il dissidio che dilania la coscienza di ciascuno. Poco importa se Raskòl 'nikov verrà condannato dalla legge; quel che conta è ciò che di noi rivelerà la sua autoanalisi. Per queste ragioni, Dostoevskij affida una nuova centralità ai perso­ naggi, che non hanno più la funzione di esprimere la posizione ideo­ logica dell'autore, ma acquistano autonomia di coscienza e di pensie73

ro, e danno al romanzo un carattere "polifonico" (Bachtin, 1963). La narrazione lascia spazio a un dibattito serrato, che sposta progressiva­ mente l'attenzione dal piano dell'azione a quello delle performance verbali dei personaggi. Negli estenuanti dialoghi o nelle schizofre­ niche riflessioni individuali gli avvenimenti quotidiani - per banali o eccezionali che siano - trovano uno spropositato ampliamento. I fatti in sé svaniscono dietro il muro di intenzioni e giustificazioni con cui i personaggi cercano di dimostrare, a sé stessi prima che agli altri, la propria autenticità (Bachtin, 1934-35, p. 158). Quelle dei personaggi dostoevskijani sono però coscienze disturbate e irrazionali, e così anche le trame acquistano un andamento impre­ vedibile. Se le intenzioni contano più delle effettive responsabilità, allora una ricostruzione consequenziale dei fatti perde senso; acqui­ sta invece centralità il momento della confessione (su cui si regge ad esempio l'intero Memorie dal sottosuolo, 1864), poiché dovrebbe soddisfare le attese di verità di chi legge. Da elemento chiarificatore, però, la confessione si fa ulteriore elemento confusivo, riflettendo un'immagine frammentata dell'individuo, che non riesce a risolvere il dissidio tra ciò che vorrebbe essere e ciò che appare agli occhi altrui. Anticipando alcune acquisizioni della psicanalisi freudiana e i carat­ teri degli inetti del romanzo modernista, Dostoevskij fa dei propri personaggi «pure voci » (Bachtin, 1963, p. 73) impegnate in una di­ scussione infinita, a cui il lettore è chiamato a partecipare attivamen­ te, in assenza di un narratore che lo orienti alla scoperta della verità. Agli antipodi della psicologia irrisolta dei personaggi dostoevskij ani si trova quella della Madame Bovary (1857) di Flaubert. Anche Emma è un personaggio alla ricerca della verità; di altra natura, però, sono le illusioni che le impediscono di trovarla. Dalle tinte fosche di Mosca o Pietroburgo si passa qui alla quieta provincia francese, che nella distanza dalla frenesia parigina trova l'origine del proprio tem­ po ciclico e ripetitivo. Emma è l'eroina della noia, rappresentante di un'umanità che può evadere dalla piatta quotidianità borghese solo attraverso le fantasticherie della lettura. n desiderio di fuga, però, si nutre di modelli inattuali come quelli dei romanzi d'amore del Set­ tecento, costruiti su un'idea di sincerità sentimentale smentita dalla squallida realtà (Bertoni, Fusillo, 2.003, p. 37 ). 74

È un sogno tardoromantico quello che spinge Emma a infrangere l'insopportabile ricorsività e la bassezza della vita di provincia; ed è questo il debole vettore di un intreccio esile che della medietas delle vicende fa il suo punto di forza. Se a Parigi le illusioni "da perdere" sono quelle del successo letterario, politico o economico, che rendo­ no la vita dei Rubempré e dei Moreau un'altalena di successi e falli­ menti, a Rouen invece non c 'è che l'adulterio ad alterare la quotidia­ nità della moglie di un ufficiale sanitario. La mancanza di qualsiasi alternativa provoca un sovrainvestimento simbolico nel tradimento, che tocca tanto la protagonista quanto il suo lettore. Emma, infatti, scottata per ben due volte dalla mancata corrispondenza tra sogno d'amore e realtà, pone fine alle proprie sofferenze avvelenandosi - nella segreta speranza che il gesto tragico riscatti il movente pro­ saico (i debiti). D'altro canto, la perfetta coincidenza tra definizione sociale del personaggio ed esplorazione dei suoi disagi esistenziali, consolidata da una perturbante focalizzazione interiore, produce un fenomeno di immedesimazione ed emulazione che non ha pari nel romanzo moderno: il cosiddetto bovarismo (Gaultier, 1902 ) . Ispira­ to da alcuni Jaits divers, il romanzo di Flaubert finisce per generare nuovi fatti di cronaca che gli si ispirano, in un circolo vizioso che ne celebra in modo macabro il grande realismo. Emerge così il paradosso di Madame Bovary, romanzo che ottiene il massimo riscontro empatico dei lettori, pur essendo il primo a sperimentare una narrazione impersonale (Calabrese, 2002, p. 593 ) . In una lettera del 9 dicembre 1852, Flaubert scrive a Louise Colet: «L'artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invi­ sibile e onnipotente » (Flaubert, 1963, p. 63 ) : scompaiono gli inter­ venti di commento e interpretazione, le vicende vengono riportate in maniera apparentemente oggettiva. In realtà chi scrive si conserva un margine d'azione attraverso lo stile, che è anche «un modo assoluto di vedere le cose » (ibid. ). n trattamento del materiale narrativo pro­ duce infatti uno spostamento dell'attenzione dal cosa si narra al come. Come nell'Educazione sentimentale e nell'incompiuto Bouvard e Pécuchet ( 1881 ) , le svolte del racconto si confondono in mezzo a un profluvio di dettagli accidentali, la trama si frantuma, provocando nel lettore un effetto di straniamento che, combinato con l'immede75

simazione, spinge a interrogarsi sul senso complessivo della vicenda, o sulla sua assenza (Mazzoni, 2.0I I, pp. 3 17-3 8). n lavoro di dissoluzione narrativa intrapreso da Flaubert viene porta­ to avanti in Francia dagli alfieri del naturalismo, scrittori come Émile Zola, Guy de Maupassant o i fratelli Goncourt, che affidano al ro­ manzo una precisa funzione di "studio". Nell'età del positivismo di Auguste Comte e Hyppolite Taine anche il romanzo è invitato ad abbandonare l'immaginazione e ad adottare un rigore scientifico per esplorare gli aspetti più inconsueti e ripugnanti del reale - la malat­ tia, lo sfruttamento, la depravazione -, senza idealizzarli né ridurli a schematizzazioni manichee. Edmond de Goncourt, autore insie­ me al fratello Jules di Germinie Lacerteux (1865), risponde nel 1891 all 'Enquéte sur l'évolution littéraire di Jules Huret dicendo di aver fatto di tutto, nella sua vita di scrittore, per «tuer le romanesque » (Huret, 1891, pp. 155-6): l'autobiografia e le memorie di persone che non hanno avuto accesso alla storia sono l'unica via d'uscita per il ro­ manzo. Per definire il compito del romanziere, invece, Zola si ispira al metodo sperimentale di Claude Bernard e invita a fare con la vita umana quello che il fisiologo fa con la natura. Come indicato nel Ro­ manzo sperimentale (188o), saggio che espone le intenzioni - anche quelle non rispettate - del naturalismo francese, l'osservazione e l'a­ nalisi permettono al romanziere di ricostruire la rete di relazioni che legano un fenomeno alla sua diretta causa e di elaborare un quadro affidabile dei mali della società contemporanea. Ne deriva un procedimento in un certo senso contronarrativo: nei romanzi di Zola, la trama si sviluppa coniugando il tradizionale slan­ cio in avanti, teso a scoprire le tappe che conducono al finale, con un complementare movimento a ritroso, mirato a verificare l'ipotesi genealogica su cui si regge il racconto (Drechsel Tobin, 1978). n ro­ manzo naturalista si modella sul decorso di una malattia di cui biso­ gna riconoscere i sintomi per risalire alle cause (Debenedetti, 1976, p. 306): l'attesa di chi legge - e di chi scrive - non è tanto focalizzata sulle prospettive aperte dal finale, ma sulla possibilità di dimostrare la validità scientifica delle premesse. Questo rigido determinismo si esprime nella poetica della tranche de vie, secondo cui il romanzo non deve più ricostruire una parabola

esemplare e teleologicamente orientata, ma deve riprodurre fram­ menti di vita in cui però si manifestano forze costanti, che inchioda­ no le esistenze dei personaggi alla ripetizione (Chevrel, 1981). Tutta­ via, perché !'"esperimento letterario" sia affidabile, è importante che l'osservatore non alteri il proprio oggetto di studio. L'impersonalità diventa così una scelta obbligata, che ha come conseguenza diret­ ta un ricorso massiccio alla descrizione in quanto tipologia testua­ le più adatta a offrire un'immagine oggettiva del reale (Zola, 188o, pp. 155-9 ). Nel romanzo naturalista, inoltre, la descrizione allarga in maniera esponenziale il proprio spettro tematico, sulla spinta di un idealismo progressista che invita a esplorare le condizioni di vita delle classi oppresse: è Zola il primo a raccontare il lavoro operaio (L'ammazzatoio, 1877) o quello nelle miniere ( Germinale, 1885). D'altro canto, subordinata alla verifica delle teorie deterministiche, l'attenzione descrittiva al milieu finisce per sacrificare la costruzione di personaggi credibili e vivi (Lukacs, 1946, pp. 114-8), che non siano solo l'emanazione della propria condizione sociale (in Nana, 188o, l'eros è pulsione animalesca oppure oggetto di scambio commerciale, ma mai un sentimento articolato). Creare personaggi deboli e spesso sgradevoli fa parte, tuttavia, di una strategia che mira a inibire l'i­ dentificazione da parte del lettore e a inceppare il «meccanismo di trasmissione assiologica » tipico del romanzo ottocentesco (Pellini, 1998b, P· 74). D'altra parte, non nell'osservazione scientifica del singolo individuo l'opera di Zola raccoglie i suoi frutti più maturi, quanto nel succe­ dersi delle generazioni, dove i «meccanismi di causazione» posso­ no essere valorizzati a pieno (Calabrese, 100J, P· 631). n Ciclo dei Rougon-Macquart, comprendente venti romanzi scritti tra il 1871 e il 1893, diversamente dalla Comédie, che era composta da una serie di parabole individuali, adotta l'unità familiare quale «prisma attraver­ so cui studiare la società del Secondo Impero » (Perrot, 1003, p. 507). Saga familiare e legge naturale offrono al narratore due principi attra­ verso cui ricomporre narrativamente l'ordine naturale e sociale che è in procinto di sgretolarsi: solo a queste condizioni Zola può ancora rinnovare la sua fiducia nel romanzo. La sua opera trova accoglienza a pochi anni di distanza anche in Italia nel gruppo dei veristi siciliani. 77

Luigi Capuana è responsabile della traduzione - e anche di alcune semplificazioni - delle teorie francesi; Giovanni Verga è invece l'in­ terprete più consapevole e originale. I presupposti teorici del raccon­ to verista, per come Verga li espone nella celebre lettera dedicatoria dell'Amante di Gramigna (188o), sono affi ni a quelli del romanzo naturalista: impersonalità, romanzo come scienza "del cuore umano", fiducia nel fatto che la vita offra trame già confezionate (Debenedet­ ti, 1976, p. 3 84). La stessa idea di ricognizione sociale sotto forma di ciclo romanzesco viene ripresa da Verga nel progetto dei Vtnti, di cui completa solo due opere - I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesual­ do (1889) -, ma che prevede di attraversare l'intero spettro sociale (universo artistico nell' Uomo di lusso, aristocrazia nella Duchessa di Leyra e mondo politico nell' Onorevole Scipioni). Pur condividendo l'aspirazione alla totalità descrittiva di Zola, Ver­ ga calibra diversamente gli equilibri tra gli elementi del romanzo. n canone dell'impersonalità viene declinato camuffando la voce del narratore dietro quella della comunità dei personaggi, che esprime il punto di vista della narrazione. Due sono i fattori all'origine di que­ sta scelta: una sentita compartecipazione dell'autore alle sofferenze dei propri personaggi (Debenedetti, 1976, p. 411) e una profonda sfi­ ducia nei sistemi ideologici, che priva l'autore di una visione forte da imporre alla narrazione (Pellini, 1998b, p. 76). Da questa condizione di pessimistico scoramento deriva l'insistenza su una tecnica discor­ siva ibrida, già sperimentata da Flaubert: il discorso indiretto libero•. Limitando al massimo le proprie intrusioni, il narratore trasforma il periodo nel terreno di scontro tra voci e codici etici differenti, come quello tradizionalista dei Malavoglia e quello già assuefatto al mo­ derno individualismo della comunità di Aci Trezza. Naturalmente, l'ambientazione nella Sicilia feudale di fine Ottocen­ to offre alle teorie positiviste un terreno di coltura ben diverso rispet­ to all a modernità urbana francese. È un fatalismo ancestrale che li spinge a reagire di fronte alla «fiumana del progresso» (Verga, 1881, p. 1) attraverso impulsi elementari contrapposti : il desiderio della roba e la paura del cambiamento (efficacemente espressa nell'imma­ gine dell'ostrica). L'azione si svolge inevitabilmente lungo due bina­ ri, quello dell'iniziativa, dello slancio per la libertà o del risentimento

di fronte all'offesa (che spinge anche a commettere atroci crudeltà), e quello dell'umiliazione cronica, della rassegnazione al sacrificio che tocca tutti, anche i vincitori di oggi che, come Gesualdo, saranno gli sconfitti di domani (Debenedetti, 1976, p. 2.41). Inserita nel Russo di questo tempo arcaico, la trama assume una configurazione circolare: la progressione verso un finale "significativo" tipica del romanzo è rimpiazzata da una struttura uniforme, che ripete sempre le mede­ sime logiche antropologiche e sociali - peraltro fondate su principi etici non condivisibili. Non c'è catarsi né soluzione; e quando finisce il romanzo, diceva Zola, ricomincia la vita (Pellini, 1998b, p. 93). Nell'ultimo scorcio del secolo il romanzo realista entra definiti­ vamente in crisi. In realtà, in alcune regioni questo modello deve ancora esprimere i suoi frutti migliori I Buddenbrook di Thomas Ma nn, «primo grande romanzo realistico» d'area tedesca, esce nel 1901 (Auerbach, 1946, vol. n, pp. 2.94-8); i programmi dei moderni­ sci d'inizio Novecento, poi, per quanto rifiutino i modi del vecchio realismo, non fanno che indicare la strada per un nuovo rapporto tra realtà e rappresentazione (Bertoni, 2.007, p. 2.59 ). In Francia, però, i seguaci di Zola, i vecchi membri del cosiddetto "gruppo di Médan", sono i primi a criticarne il modello. Tra questi c'è Joris-Karl Huysmans, che nel 1884 pubblica Controccorrente, romanzo che diventa rapidamente il manifesto dell'estetismo. In Italia, nel 1889 Gabriele D 'Annunzio dà alle stampe Il piacere e l'anno successivo Oscar Wilde rende omaggio allo scrittore francese nel suo Ritratto di Dorian Gray. Nasce così quella breve ma significativa stagione che in Italia è stata definita decadentista, espressione di una crisi di valori nata dalla separazione di borghesia e classe intellettuale e che trova espressione nella filosofia di Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche (Ghidetti, 1976). È l'inizio di una rivoluzione epistemolo­ gica che si completerà nel nuovo secolo e toccherà i più diversi campi del sapere. Ispirato all'arte e alla letteratura, e non più alla storiografia e alla scienza (Guglielmi, 1996, p. ss6), il romanzo decadentista, però, dimostra continuità con l'opera di dissoluzione del "modo roman­ zesco" intrapresa da Flaubert prima e dai naturalisti poi (Thorel­ Cailleteau, 1994); è lo stesso Huysmans (1903, p. 2.6) a riconoscere -

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un'importanza decisiva alla soppressione dell'intreccio tradizionale e all'accentramento dell'attenzione su un solo personaggio. Al ma­ terialismo democratico e all'oggettività scientifica del naturalismo si sostituisce il narcisismo idiosincratico di personaggi come Des Esseintes, che rifiutano la banalità borghese e cercano in mondi arti­ ficiosi l'immagine di una vita costruita "a regola d'arte". Ed è ancora una volta la descrizione lo strumento privilegiato per rappresentare vite che non si sviluppano nel tempo, ma si agglutinano intorno a inesausti sprofondamenti psicologici e a estatici incantamenti di fronte alle raffi natezze dell'arredamento. L'azione scompare e resta la contemplazione. L'Ottocento si chiude su un punto di non ritorno : per gli scrittori (Huysmans ad esempio si converte al cattolicesimo e dà una svolta alla sua produzione) e per il romanzo. Nel Novecento le avanguardie si opporranno radicalmente al genere simbolo della borghesia e rifiu­ teranno di usarlo. Toccherà ad altri sperimentatori trovare inattesi orizzonti di sviluppo per le trame romanzesche.

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Vite in frantumi, vite ordinate, vite letterarie

La moltiplicazione degli ismi tra fine Ottocento e inizio Novecento è il sintomo di un'età inquieta, in cui si avverte il bisogno di rinno­ vare i moduli della rappresentazione artistica e di intervenire per risolvere, o portare a esasperazione, l'artificio illusorio che ogni pro­ cedimento rappresentativo impone alla realtà: naturalismo, veri­ smo, decadentismo, simbolismo e poi surrealismo, espressionismo, dadaismo e futurismo. n romanzo viene fatto oggetto di condanne radicali ed esperimenti di sovversione, dove il primo degli aspetti tradizionali a essere sabotato è proprio la trama, nella convinzio­ ne che questa «possa falsificare e compromettere altri, più raffi­ nati sistemi di connessione e di struttura» (Brooks, 1 9 84, p. 12.3). Contemporaneamente, e lungo tutto il secolo, nella produzione destinata al grande pubblico si consolida un romanzo d'impianto genericamente realista.

4 .1.

Le vite in frantumi del romanzo modernista

Tra sovversione avanguardistica e ripetizione di moduli ottocente­ schi, però, si inseriscono alcuni autori che provano a coniugare il bisogno di rinnovamento con la necessità di rifondare il romanzo a partire da un ripensamento delle strutture narrative. La scrittura si confronta con il « gigantesco trauma» verificatosi a cavallo dei due secoli, che ha determinato un cambio di paradigma epistemologico che interessa diversi campi del sapere (Lavagetto, 2.003, p. 2.83 ) : dalla filosofia (Henri Bergson, Edmund Husserl e una nuova concettua­ lizzazione del tempo) alla fisica (la teoria della relatività di Albert Einstein) alla neonata psicanalisi freudiana. È così che, dall'indivi­ duo che va nel mondo per fare esperienza, si passa a raccontare l'espe­ rienza di un mondo tutto interno all'individuo. La realtà si trasforma 81

in un «enigma » (Woolf, 1924) e i vecchi ferri del romanziere psico­ logo, sociologo o storico non funzionano più. Da un lato, si produce una sorta di «esplosione del quotidiano» (Bertoni, Fusillo, 20 0 3 , p. 51): il tempo della vita ordinaria viene frantumato in una serie di micro-eventi, apparentemente insigni­ ficanti eppure imprescindibili per ricostruire il senso di un'esisten­ za: è quanto accade nei romanzi di James Joyce, ltalo Svevo, Marcel Proust o Virginia Woolf. Dali' altro, Franz Kafka e Luigi Pirandello proiettano lo smarrimento dell'individuo sull'orizzonte di un signi­ ficato superiore, tragico o metafìsico, che tuttavia sfugge sempre. Un ultimo indirizzo è quello già anticipato del romanzo-saggio (cfr. PAR. 3 .2) rappresentato dalla tradizione mitteleuropea di Hermann Broch, Robert Musil e Thomas Mann, dove il protagonista prova a ricostruire per via astratta il senso dell'esistenza che gli è negato sul piano empirico. Tutti esponenti del modernismo europeo, questi autori mostrano come le sue manifestazioni possano essere differenti e anche antite­ tiche. Comune è però il tentativo di interrogare l'esperienza indivi­ duale in un contesto generale la cui complessità è aumentata oltre ogni attesa. 4.1.1. Sovversione del tempo e alterazione della voce A ben vedere, è una nuova istanza di realismo quella che anima l'opera di Woolf, Joyce, Proust e Svevo. Nelle loro dichiarazioni di poetica emerge la volontà di riporre le vecchie convenzioni rappresentative a vantaggio di strumenti tecnici e formali adeguati a una nuova conce­ zione del tempo e del flusso degli avvenimenti nella vita dell'uomo. La realtà non appare più quel coerente sistema di nuclei e satelliti rappresentato dal romanzo realista, ma assomiglia sempre più a un «diluvio incessante di atomi » (Woolf, 1919, p. 170) che colpiscono l'individuo e lo disorientano. D'altra parte il concetto di "durata" temporale introdotto da Bergson e la tripartizione Io-Es-Super lo elaborata da Freud hanno trasformato la coscienza individuale nel campo di rifrazione del caos esteriore. Per rifondare i presupposti della narrazione romanzesca si decide di intervenire sulle coordinate fondamentali del racconto: il tempo e

la voce narrante. Da un lato, infatti, crolla «l'amministrazione del tempo lungo del romanzo » (Lavagetto, 2.003, p. 2.90 ), a vantaggio di nuove "cronologie", determinate dalla contrazione dellafabula e da una smisurata dilatazione del tempo del racconto: l'obiettivo è inclu­ dere nel campo del narrabile tutti i "possibili" che ogni evento porta con sé (Meneghelli, 2.013, p. 154). Dall'altro, e per assecondare que­ sto processo di scomposizione del tempo narrativo, il racconto viene affidato sempre più frequentemente al monologo interiore e alflusso di coscienza•, che provano a mimare la complessità della vita psichica, riportando sulla pagina, senza mediazioni diegetiche, «la pluralità disordinata della coscienza, del preconscio e dell'inconscio» (Maz­ zoni, 2.011, p. 3 3 2.). Tra questi autori Marcel Proust, che pubblica il primo volume della Recherche, La strada di Swann, nel 1913, è il primo che prova a «far saltare la camicia di Nesso della cronologia convenzionale» (Tadini, 1960, p. 67). La storia dell'io narrante Marcel e di tutti i personaggi che hanno animato il suo universo - la società dei salotti parigini, i clan dei Verdurin e dei Guermantes, la villeggiatura in Norman­ dia - vive solo attraverso il filtro della memoria che, come un prisma, scompone, dilata e riassembla secondo nuovi criteri il tempo dell'e­ sperienza trascorsa. Risulta difficile stilare la sinossi di un romanzo il cui orizzonte narrativo è composto quasi interamente dalle lunghe e ondivaghe digressioni nel tempo del ricordo, che non presenta date e che è misurabile solo attraverso «il mutare delle stagioni dell'ani­ ma » (Curtius, 192.5, p. 56). Sono le cosiddette «intermittenze del cuore» ad aprire squarci im­ provvisi nella tela del presente, riportando alla memoria momenti, sensazioni ed esperienze che sembravano destinate all'oblio (Debe­ nedetti, 1998, pp. 2.95-300 ). n gusto di unapetite madeleine o lo shock provocato dall'inciampo su un sampietrino attivano la memoria in­ volontaria, che riporta alla mente interi scenari passati, rivissuti in tutta la pienezza sensoriale. L'intuizione di una possibile rivelazione spinge allora a compulsare il ricordo, ad atomizzare i fatti psicologici, producendo le lunghe sequenze descrittive e le corpose divagazioni che costituiscono la vera materia del romanzo. Sempre in bilico tra coscienza rievocatrice e le sue stratificazio-

ni passate, lo statuto dell'io narrante onnisciente risulta ambiguo (Lavagetto, 1999). Proust ridefinisce secondo uno sguardo nuovo il rapporto tra l'individuo e il racconto: monumento alla memoria di Marcel, laRecherche dà vita a quello che è forse il personaggio lettera­ rio più complesso e organico della storia letteraria, poiché a compor­ lo è un aggregato sincronico di dati psicologici e ricordi personali, in cui confluisce però anche la storia francese del primo ventennio del Novecento, con i suoi usi e costumi. Tuttavia nel canone modernista il romanzo di Proust appare anche quello che più si avvicina ai me­ todi del naturalismo. Come in una «commedia umana del nostro tempo » (Curtius, 1925, p. 3 9), Proust trasforma l'attraversamento storico-sociale dei cicli di Balzac e Zola in uno sprofondamento bio­ grafico e psicologico, sostituendo l'individuo alla collettività sociale e familiare; al tempo stesso, egli conserva una fiducia ottocentesca nel passato come luogo in cui il reale si oggettiva, diventa racconta­ bile e comprensibile - e infatti il romanzo si chiude con la scelta di Marcel di scrivere un'opera con gli stessi caratteri della Recherche, a cui affi da il compito di "ritrovare" una realtà che sembrava perduta (l'ultimo volume s'intitola infatti Il tempo ritrovato). Tutta rivolta al presente dell'azione è invece la cronologia costrui­ ta da James Joyce. L' Ulisse (1922) vorrebbe essere il racconto di un giorno qualunque di un dublinese qualunque: il 16 giugno 1904 di Leopold Bloom. n romanzo però si articola anche come riscrittu­ ra novecentesca del poema omerico: non solo viene presentata una corrispondenza diretta tra i personaggi - oltre alla coppia Leopold­ Ulisse, ci sono anche Molly Bloom-Penelope e Stephen Dedalus­ Telemaco -, ma anche il valore delle loro banali vicende quotidiane - gli incontri, i tradimenti, i lutti, le pulsioni carnali e sentimentali si definisce nel confronto stridente con i significati assoluti propri della narrazione epica. n testo di Omero fornisce al lettore alcuni "codici" utili a decifrare un racconto che dissolve l'intreccio attraver­ so lo sprofondamento nelle evoluzioni psichiche di Leopold, Molly e Stephen e lo aiuta a orientarsi nella polifonia di registri stilistici e nella sintassi alterata dal flusso di coscienza (celebri sono le quaranta pagine con due soli segni di punteggiatura del monologo finale di Molly Boom). Gli episodi dell' Odissea, passati attraverso il filtro de-

formante della coscienza dei personaggi, vengono riscritti attraverso un processo di amplificazione psicologica, che subissa gli eventi con una mole enorme di ricordi, sensazioni e impulsi irriflessi: l'incontro con le Sirene, ad esempio, diventa una lunghissima fantasia erotica prodotta dalla vista di una ragazza lungo il fiume, mentre la nekyia di Ulisse si trasforma in una sconnessa riflessione sulla morte durante il funerale di un amico di Leopold. Joyce rimpiazza la memoria di Proust con il più ampio concetto di coscienza, luogo in cui pensieri, memorie, ipotesi, ma anche auto­ censure e ritorni del rimosso convivono in un presente in cui tutto è attuale. Nella prosa di Joyce passato, presente e futuro entrano a far parte di un campo narrativo "sferico" (Tadini, 1960 ), in cui alla suc­ cessione cronologica si sostituisce un flusso di relazioni compresenti. Leopold non si muove nell'aristocratica società francese di Proust, ma in una metropoli che sottopone l'individuo a un bombardamen­ to di stimoli. Lo stream ofconsciousness risponde al tentativo di far fronte a questo accumulo di libere associazioni e percezioni sfocate; anche la sintassi si riadatta, e alle ampie volute del periodo proustia­ no si sostituisce l'universo di «tutte frasi principali » della scrittura joyciana (Moretti, 1994, p. 142). Joyce dà vita così a un tempo narrativo dinamico, in cui il personag­ gio di Leopold rimane un elemento sfuggente per il lettore, perché ogni nuova sollecitazione ne trasforma la coscienza. Mentre Proust porta alle estreme conseguenze il personaggio ottocentesco, Joyce dà vita a un personaggio nuovo, soggetto alle contraddittorie forze della psiche e per questo in continua tensione con qualsiasi principio di coerenza narrativa. Un personaggio che crea i presupposti per una genealogia longeva nel Novecento (ivi, p. 166). Da Leopold Bloom discende non solo il protagonista di Finnegans JVake (193 9), ultimo esperimento joyciano, illeggibile flusso di coscienza che si incrocia con un esercizio estremo di reinvenzione linguistica; ma discendo­ no anche i personaggi di William Faulkner, e in particolare Benjy Compson, giovane demente che impone la propria anomalia psi­ chica al racconto della prima parte di L'urlo e iljùrore (1929), o l'i­ naffidabile narratore del Tamburo di latta (1959) di Giinther Grass, il paranoico e deforme (oltreché già defunto) Oskar Matzerath; o

ss

ancora i narratori "irriconoscibili" della trilogia di Samuel Beckett (Molloy, 1951; Malone muore, 1951; L'innominabile, 1953), voci senza nomi, soggetti a un principio di «decomposizione » che coinvolge anche le coordinate spazio-temporali, sancendo così la fine dell'an­ tropocentrismo romanzesco (Testa, 2009, p. 16). Diverso è l'esperimento di Virginia Woolf, che prova ad allargare l'o­ rizzonte epistemologico del flusso di coscienza trasformando il mo­ nologo interiore nello spazio di convergenza di voci e punti di vista differenti. Celebre è la pagina di Gita alfaro (1927) scelta da Erich Auerbach per presentare la costruzione di una «coscienza pluriperso­ nale» nella prosa di Woolf (Auerbach, 1946, vol. n, pp. 305-25). Nella casa di famiglia alle isole Ebridi, la signora Ramsay è intenta a cucire un paio di calzerotti da portare in dono al figlio del guardiano del faro; semplici gesti, frasi di poco conto scambiate con il figlio James, poi la scena si chiude. Intanto però si è aperto un mondo di moti interiori, considerazioni astratte ed escursioni nel passato che dilatano il tempo del racconto. L'intonazione elegiaca viene scelta per mostrare le sma­ gliature di una quotidianità apparentemente piatta, su cui si affaccia, di tanto in tanto, un passato carico di significati simbolici (Sullam, 2016, p. 115). In Mrs. Dalloway (1925) le tante voci della disintegrata collettività postbellica si avvicendano in un racconto "in presa diretta" coordinato da un narratore extradiegetico. In Gita alfaro la "coscienza narrativà' si fa sfuggente: riconduce l'informe dello stream all'interno di una corretta ipotassi, ma al tempo stesso si dissolve nei continui slittamenti del punto di vista, dove la parola dell'autrice si mescola con quella dei personaggi, arrivando a includere anche un'imprecisata voce collettiva - «diceva la gente » (Woolf, 1927, p. 30) - che allarga indefinitamente l'orizzonte percettivo della narrazione. Ne deriva un racconto mobile, che gira attorno ai personaggi e al loro mistero, avanzando ipotesi ma senza approdare a una verità. In que­ ste escursioni, il tempo procede "a singhiozzi", si espande e contrae con grande libertà, ogni minimo fatto può provocare uno sprofon­ damento negli abissi del tempo, un' interruzione può ribaltare im­ provvisamente le gerarchie della narrazione. Lo dimostra l'originale uso delle parentesi: concepite «per segnare graficamente gli inciden­ ti della continuità e le pause delle frasi » , le parentesi tonde e qua86

dre non seguono una regola precisa, ma servono ora a completare la diegesi, ora invece a ospitare lunghe fughe dal presente, ricalibrando continuamente l'asse semantico di un romanzo senza centro (Patey, 2.016, pp. 46-51). E senza centro è anche la struttura della Coscienza di Zeno (192.3). Svevo riattualizza l'antico espediente del manoscritto ritrovato per costruire un racconto a scatole cinesi: il dottor S. nella prefazione dichiara di volersi vendicare di Zeno Cosini - che ha abbandona­ to la cura psicanalitica -, pubblicando le memorie che questi aveva cominciato a tenere. li dottor S., che mostra scarsa deontologia pro­ fessionale e suscita sospetti di inaffidabilità, diffida anche il lettore dal credere a tutto quanto scritto dal suo paziente, più interessato a mettersi in buona luce con il proprio curante (e con sé stesso) che a fare chiarezza sulla propria psiche. La struttura narrativa aiuta chi legge a smascherare le menzogne del narratore: il racconto infatti si snoda in maniera irregolare, ricostruendo la vita di Zeno secondo percorsi tematici che coincidono con i "nodi" affrontati dalla cura psicanalitica, come la morte del padre, il matrimonio o la psicanalisi stessa. Questo procedimento obbliga l'io narrante a tornare più volte sugli stessi momenti, affrontandoli secondo strategie psicologiche di volta in volta diverse. È così che le date cominciano a confondersi, affiorano dei buchi, gli episodi, invece di chiarirsi, si fanno opachi e i lapsus raddoppiano gli atti mancati fatti oggetto del racconto. È la «psicopatologia della vita quotidiana» a tradire Zeno, narratore inattendibile e personaggio incapace di tenere a bada il proprio in­ conscio (Moretti, 1994, p. 156). Fin da Una vita (18 92.) e Senilita (1898) Svevo riporta al centro del romanzo occidentale il tema della malattia, tenendolo però lontano dalle potenzialità genealogiche del romanzo naturalista. La psica­ nalisi è per lui un «formidabile strwnento di decostruzione» (La­ vagetto, 2.00 3 , p. 2.95) della vecchia forma romanzesca; anche nella Coscienza, infatti, la forma è mimetica rispetto al contenuto, affine nel ribadire la scissione e l'irredimibile inautenticità dell'individuo contemporaneo. La verità è scomparsa dall'orizzonte, sostituita dai segni che oggi raccontano la storia di Zeno Cosini. E come la cura psicanalitica di Zeno si interrompe, così anche il romanzo si chiude

con l'immagine "umoristica" di un mondo che viene purificato da un'esplosione universale, che tuttavia ne annulla anche la vita. Lontani dalla tentazione to­ talitaria che spinge questi autori a forzare le maglie del romanzo tra­ dizionale per riprodurre la complessità del mondo interiore, Franz Kafka e Luigi Pirandello fanno dell'angosciante problema dell' iden­ tità precaria dell'uomo contemporaneo un tema da sviluppare per via allegorica e attraverso una narrazione apparentemente tradizionale. Mattia Pasca!, Vitangelo Moscarda, Gregor Samsa o Josef K. sono personaggi qualunque, ma al tempo stesso sono simboli di un'uni­ versale condizione, in cui l' intima scissione individuale e il senso di inadeguatezza nei confronti di un universo che ha mutato i propri codici prendono la forma di ciò che Freud chiamava Unheimlich, ov­ vero il perturbante («quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo» ; Freud, 1919, p. 82). Qualcosa che è sempre rimasto nascosto affiora improvvisamente e sconvolge la vita di indi­ vidui costretti a elaborare un nuovo punto di vista per far fronte alla mutata situazione. n mondo assume d'un tratto un aspetto strano, appare mosso da logiche incomprensibili, che esasperano i protago­ nisti fino a spingerli alla perdita di sé. La mattina del suo trentesimo compleanno, il procuratore Josef K. viene a sapere di essere imputato in un processo. Non conosce il capo d'accusa e non sa quindi a cosa appellarsi quando è chiamato a difen­ dersi. Inizialmente il procedimento giudiziario si svolge secondo un percorso lineare e coerente - notifica del mandato d'arresto, udienza difensiva, primo appello -, ma a essere incoerente è tutto il resto: le udienze, ad esempio, si svolgono nei luoghi e nei modi più assurdi - Josef pronuncia un'arringa difensiva in un sottotetto affollato dove due persone fanno sesso. Quello del Processo (1925) è un mondo che Josef non riconosce più perché a reggerlo è una Legge superiore che non concede di conoscere la logica che la ordina. La realtà acquista le fattezze di un incubo, in cui i nessi logico-consequenziali vengo­ no rimpiazzati da un ordine schizofrenico : tutto ha a che fare con la vicenda di Josef e al tempo stesso nessuna azione è in grado di modi­ ficarne la situazione. 4.1.1. L' irruzione del perturbante

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La sovversione delle leggi diurne può arrivare anche a produrre sfon­ damenti nel fantastico: «Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme in­ setto» (Kafka, 1912, p. 51). Nell'universo kafkiano il perturbante si manifesta improvvisamente e di mattina; l' incipit in medias res è la formula più consona a rappresentare l'irruzione di un elemento che arriva a sconvolgere l'ordine su cui si era retta la vita ordinaria di un uomo come tanti. Da qui, la trama assume la forma di una parabo­ la: in un primo momento il narratore accompagna il protagonista alla scoperta della "stranezza" che ne ha sconvolto la quotidianità, dopodiché comincia la ricerca di un modo per porre rimedio all'in­ spiegabile trasformazione. Tuttavia, quanto più crede di andare verso un chiarimento, tanto più il protagonista si avvicina al compimento del proprio destino, che in Kafka agisce come un'infernale "mac­ china dell'organizzazione", che stritola l'individuo disorientato nei suoi ingranaggi. A muovere la macchina e a indirizzare le scelte del protagonista sono personaggi che sembrano burattini, che compio­ no gesti meccanici e apparentemente inconseguenti, eppure decisa­ mente funzionali in questo «teatro universale » retto da una Legge imperscrutabile (Benjamin, 1936, p. 289). Ogni tentativo di uscirne cade nel vuoto, le parole mancano il bersaglio, i gesti vengono mal­ interpretati. Se in Joyce da ogni minimo fatto poteva generarsi l'epi­ fania di molteplici significati, qui gli episodi che dovrebbero avere un valore decisivo per il destino dei protagonisti immancabilmente si rivelano insignificanti (Albérès, 1967, p. 130). Kafka recupera la lezio­ ne di Dostoevskij, ma lascia ai margini l'ipertrofia analitica dei suoi personaggi per dare forma a un universo folle e superficiale al tempo stesso, quasi banale nelle sue manifestazioni. Maschere e burattini appaiono anche i personaggi creati da Luigi Pi­ randello, e non solo quelli delle sue opere teatrali. Ilfu Mattia Pasca/ (1904), i Quaderni di Sera.fino Gubbio operatore (1925) e Uno, nessuno e centomila (1926) mettono in scena le vicende di individui che si trovano forzatamente a riflettere sulla propria identità in relazione alla società in cui sono sempre vissuti, che si rivela improvvisamente come un grande palcoscenico. L'elemento perturbante si manifesta nel momento in cui viene squarciato il «cielo di carta» che face-

va della vita una rappresentazione teatrale e obbliga i personaggi ad affrontare le finzioni sociali che ne hanno sempre condizionato l'e­ sistenza. È Ilfu Mattia Pasca! a inaugurare questa «critica delle forme » ( Gu­ glielmi, 1996, p. 561), celebrando la fine del romanzo in quanto rac­ conto di una vita; Matti a Pasca! infatti, approfittando di un equivoco, di vite ne vive addirittura due - o meglio tre. I suoi familiari, creden­ dolo morto in un incidente, ne hanno celebrato il funerale ; sedotto dalla possibilità di liberarsi delle incomprensioni e dei vincoli che hanno affossato la sua vita matrimoniale, Mattia decide di cambiare generalità e iniziare una nuova vita. La quale tuttavia si rivela presto fittizia, limitata proprio da questa identità provvisoria. Deciso a tor­ nare sui suoi passi, Mattia simula un suicidio e fa ritorno a casa, ma si accorge che troppe cose sono cambiate perché egli possa tornare a essere Mattia Pasca!. L'unica soluzione è allora quella di affidare alla scrittura la propria storia anomala, in attesa che una terza e definitiva morte arrivi a porre fine alla sua esistenza. Fatti di cronaca, scenari da commedia familiare e una serie rocambo­ lesca di "colpi di fortuna'' delineano la vicenda - cronologicamente ordinata ma concettualmente sconvolta - di un "personaggio in cer­ ca di nome", capostipite di una generazione nuova, ben lontana dal personaggio ottocentesco, complesso ma sempre risolto. Mattia Pa­ sca! d'altra parte è l'anticipazione del personaggio teorizzato da Pi­ randello nel saggio L 'umorismo (1908): un personaggio composto da tante anime diverse e inconciliabili tra loro, animato dal « sentimen­ to del contrario» (Pirandello, 1908, p. 12.6), ovvero dal sentimento della non-identità del soggetto con sé stesso. La sua più diretta mani­ festazione romanzesca si ha in quello che Giacomo Debenedetti ha definito un «trattato» delle metamorfosi del personaggio (Debene­ detti, 1998, p. 2.70 ), ovvero Uno, nessuno e centomila. Il protagonista Vitangelo Moscarda scopre per caso una mattina che non tutti lo ve­ dono alla stessa maniera: il suo aspetto fisico e la sua postura sociale sono infatti oggetto di sguardi e interpretazioni diverse che molti­ plicano la sua identità, mettendola in crisi. La verità si manifesta in maniera epifanica, ma produce conseguenze irreversibili; incapace di riconoscersi allo specchio, Vitangelo finisce per diventare pazzo. 90

Viene abbandonato dalla famiglia e trova rifugio nell'isolamento di un convento, dove potrà finalmente abbandonarsi all'oblio di sé e degli altri. 4·1-3- Il romanzo-saggio Le architetture narrative dei romanzi di Pirandello conservano ancora dei caratteri tradizionali: alle azio­ ni dei protagonisti, ad esempio, corrispondono delle conseguenze coerenti ; a essere impazzita non è la logica che regola l'ordine degli eventi, ma quella che spinge i personaggi a comportamenti estranei alle convenzioni sociali. Si potrebbe spiegare anche così la scelta di Pirandello di affidare la narrazione alla prima persona, in modo da poter affi ancare alla trama dei fatti una trama concettuale, fatta di considerazioni che preparino e spieghino le azioni dei personaggi. n fatto stesso poi che questi riescano a ricostruire coerentemente la lo­ ro vita in un racconto retrospettivo dice di un ordine che, al di fuori dell'individuo, sembra reggere ancora. Proprio contro questa finzione si scaglia Robert Musil. Citatissimo è il brano del primo libro dell' Uomo senza qualita (1930) in cui il protagonista Ulrich ragiona proprio sugli espedienti che consento­ no agli uomini quello che chiama un « accorciamento prospetti co dell'intelligenza » (Musil, 1930, vol. I , p. 756): disporre gli episodi lungo un filo in cui gli "allorché" si concatenano con i "prima che" e i "dopo che", imponendo ai fatti un'illusoria necessità, è ciò che tranquillizza l'uomo. Ulrich però ha perduto il filo del proprio rac­ conto e si trova nudo di fronte all'"insostenibile varietà della vita". Di qui la scelta da parte dell'autore di mimare lo smarrimento del personaggio attraverso una scrittura che riduce drasticamente il pro­ prio potenziale narrativo a vantaggio della componente riflessiva e teorica. È questo carattere che ha fornito lo spunto per l'etichetta di "roman­ zo-saggio", a indicare quelle opere che fondono forme e strategie re­ toriche del racconto e del saggio. Si tratta di una linea del romanzo che prende le mosse dall'esaurimento dell'estetica naturalista già de­ nunciata da Huysmans e che assurge a forma simbolica della crisi del­ la modernità (Ercoli no, 2.014, p. 10 ). All'accelerazione impressa alla Storia dal susseguirsi di grandi eventi traumatici - rivoluzioni tec-

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nologiche, guerre, crolli di imperi e nuovi totalitarismi - il romanzo offre una risposta "esteticà', rallentando drasticamente il tempo del racconto e introducendo lunghi inserti riflessivi in cui prende cor­ po una visione scettica, inquieta e ideologicamente contestataria del presente. Protagonisti del romanzo-saggio sono personaggi intellettuali, che vivono «ai margini della vita activa » perché incapaci di conciliare il pensiero con la prassi (Mazzoni, 2.011, p. 344). È il caso di Ulrich, che non riconosce la "rilevanzà' dei fatti della propria vita e in questo modo finisce per demistificarli (ribaltando il modello di don Chi­ sciotte, che prendeva per romanzo qualsiasi banalità gli capitasse). Dimissionario dalla vita, egli rinuncia all'ambizione, resta sospeso tra due opposti ideali d'amore (quello sensuale e quello mistico), ma non si pone in conflitto con il mondo e non si abbandona all'assur­ dità della vita, come faranno i personaggi del romanzo esistenzialista (Camus, Sartre, de Beauvoir). Ulrich cerca un' «altra condizione» dello stare al mondo (Musi!, 192.3), e la teorizza anche, decidendo di non assecondare più il comune senso di realtà per affidarsi a un « sen­ so della possibilità », a un pensiero asistematico che contraddica la pretesa ordinatrice e monologica tipica di ogni racconto (Ercolino, 2.014, pp. 151-62.). Le riflessioni di Ulrich tematizzano la forma stessa del romanzo-saggio - o dell'antiromanzo (Albérès, 1966) -, la perdita del centro, la scomparsa dell'intreccio, l'impossibilità della fine. Su un impianto teorico analogo è retta anche la trilogia dei Sonnam ­ buli (193 1-32.) di Broch, che adotta un'architettura labirintica per raccontare cinquant'anni di storia tedesca attraverso il filtro della disgregazione dei valori. L'avvento della scienza moderna e la rifor­ ma protestante hanno infranto l'antico ordine di verità metafisiche e hanno condannato l'umanità al relativismo della conoscenza, che trova adesso espressione nell'uomo "liberato" da qualsiasi valore, come Huguenau, protagonista della terza parte dell'opera. E proprio la terza parte è quella in cui la riflessione filosofica prende il soprav­ vento (Ercolino, 2.014, pp. 2.37-8), sorretta da una scrittura in cui si mescolano forme espressive (prosa e versi), spazi e tempi del raccon­ to, in quello che lo stesso Broch, in una lettera a Daniel Brody, ha definito un «romanzo polistorico>> (Broch, 193 1, p. 713).

Influenzati dal pensiero di Nietzsche nel loro tentativo di conciliare mimesis e filosofia, Musil e Broch esprimono una tentazione di tota­ lità che è forse la risposta più diretta che due scrittori austriaci posso­ no dare allo sconvolgimento prodotto dalla Prima guerra mondiale e dal crollo del mito asburgico. Da un contesto storico-culturale ben diverso nasce invece l'ultimo « book of che world» d'area germa­ nica (Jameson, 1997, p. II7), il Doctor Faustus (1947) di lhomas Mann, che vede la luce all'indomani della Seconda guerra mondia­ le. li vettore narrativo è la biografia fittizia del compositore Adrian Leverki.ihn, la cui parabola, narrata dall'amico d'infanzia Serenus Zeitblom, ripercorre allegoricamente la vicenda della cultura tede­ sca sotto il nazismo. Mann assembla generi, forme e temi diversi molto prendendo dalle riflessioni dell'amico lheodor Adorno sulla musica moderna e contemporanea - per dare rappresentazione for­ male a una questione cruciale: il ruolo del nuovo nell'arte. Si tratta di una riflessione che ossessionerà anche gli scrittori della postmoder­ nità, che risponderanno con il pastiche" e l'ironia alla fine di un' epo­ ca che il romanzo-saggio tenta ancora di mantenere in vita per via speculativa.

4 .2.

Le vite ordinate del romanzo poliziesco

Se questi sono i percorsi di una letteratura alca e aperta alle speri­ mentazioni, bisogna dire che il Novecento vede affermarsi una civiltà letteraria pienamente matura, in cui il pubblico si espande, diven­ ta massa e si settorializza, dando luogo a nicchie di mercato che gli editori cercano di soddisfare con una produzione mirata. Per questo servono romanzi in cui la ricerca del noto sia gratificata dall'intro­ duzione di piccole varianti dell'assetto narrativo, trovando un giusto equilibrio tra "effetto-sorpresa" e riconoscimento. La letteratura di massa, o paraletteracura (Spinazzola, 1984; Couégnas, 1992), si affida prevalentemente alla riproposizione dei moduli del realismo otto­ centesco e al variegato campo della narrativa "di genere": la lettera­ tura per ragazzi per i giovani lettori, il romanzo "rosà' per le lettrici e, per un pubblico trasversale, il romanzo poliziesco. Quest 'ultimo 93

si rivela particolarmente interessante per una storia della trama, non solo perché si è affermato grazie alla sua capacità di soddisfare una sempre crescente "fame di storie" (non estranea alla nuova curiosi­ tà per i fatti criminali e i grandi processi pubblici; Bertoni, 2.009, pp. 2.8-30 ), ma soprattutto per la dinamica che si sviluppa tra il ri­ spetto di regole fisse (Todorov, 1971 ) e l'introduzione di variazioni in uno schema narrativo molto semplice. Un romanzo poliziesco si può definire come il racconto «di un delitto, per lo più un omicidio, e delle indagini che qualcuno compie a risolvere il mistero, fino alla soluzione del caso» (Petronio, 2.000, p. 17 ) . L'originalità, « sorgen­ te d'interesse » di ogni racconto (Poe, 1846, p. 1308 ) , dipende tutta dali' abilità dell'autore di calibrare indizi, suspense e rivelazioni, sod­ disfacendo a pieno le attese di chi legge. Nel 1841 Edgar Allan Poe pubblica su una rivista di Philadelphia I delitti della rue Morgue: è l'inizio della storia del poliziesco. li pro­ tagonista è il detective francese Auguste Dupin, che deve indagare sull'uccisione di due donne. L'omicidio si rivela fin da subito come un enigma (il classico "delitto della camera chiusa"), che può essere risolto solo attraverso un esercizio di logica raffinata. Non per nulla i racconti di Poe entusiasmano i fratelli Goncourt, che vi vedono rea­ lizzato quel processo di liberazione del romanzo dalle passioni dram­ matiche, tutto a vantaggio delle cose e delle idee. Auguste Dupin è il padre di una schiera di investigatori che, senza sporcarsi le mani, acquisiscono tracce, memorizzano indizi e alla fine smascherano i delinquenti, affidandoli alla giustizia. Poe comprende rapidamente la centralità della figura del detective, rassicurante e al tempo stesso sorprendente per il lettore; per questo ripropone il personaggio di Dupin anche in altre indagini. È però Arthur Conan Doyle, inventore di Sherlock Holmes, a sfrut­ tare massicciamente questo meccanismo di fidelizzazione. Dandy su­ perbo e infallibile, Holmes è un dilettante di genio, capace di notare ciò che gli altri non vedono e di risolvere difficilissimi intrighi ricolle­ gando gli indizi ai contesti più lontani e restituendo ordine a un uni­ verso scombussolato dall'irruzione del crimine (Barthes, 1962.) : come in Uno studio in rosso ( 1887 ) , dove due omicidi verificatisi a Londra chiudono il cerchio di una vicenda nata nelle comunità mormone 94

americane. È anche per questo che i lettori non sono mai stanchi di leggere le sue storie, tanto che quando Conan Doyle decide di far mo­ rire Holmes, saranno le loro pressioni a costringerlo a tornare sui suoi passi riportandolo in vita. Merito senz'altro di un personaggio fuori dal comune, ma anche di un espediente narrativo originale: a raccon­ tare le avventure di Holmes è infatti il suo aiutante, il medico John Watson, facile destinatario delle proiezioni del lettore. n quale, svilito dalle esibizioni d'intelligenza dell'investigatore, trova conforto im­ medesimandosi nella sua spalla, che, come tutti gli uomini "normali", non riesce a dedurre perché distratto dalle apparenze e dalle passioni. A questo punto la serializzazione si impone e nascono cicli costruiti intorno a personaggi memorabili: il gendarme in pensione Hercule Poirot e la zitella Miss Marple nei romanzi di Agatha Christie, Nero Wolfe creato da Rex Stout o ancora padre Brown, il poliziotto-prete di Gilbert Keith Chesterton. Di tutt'altra razza sono invece Jules Maigret e Philip Marlowe. n primo, nato dalla penna di Georges Si­ menon, è un poliziotto che sostituisce alla logica deduttiva un me­ todo istintivo e intuitivo; che implica, fatto nuovo per il genere, una capacità di leggere nel profondo delle psicologie individuali. n se­ condo, invenzione di Raymond Chandler, è invece un detective pri­ vato, che si getta nell'indagine anima e corpo, inseguendo, lottando e anche sparando contro i criminali. Sono gli anni Trenta e Simenon dà vita al "poliziesco psicologico", mentre Chandler all' hard-boiled, da cui discenderanno poi anche il thriller e il romanzo di spionaggio. Più importante è però che questi autori, che costruiscono scenari vi­ vidi e portano alla luce le contraddizioni sociali, fanno approdare il poliziesco nel campo del realismo, trovando una sintonia forte con la narrativa americana (ad esempio in Ernest Hemingway e Sherwood Anderson) e il cinema francese contemporaneo (Jean Renoir). Una costante di questa prima stagione del romanzo poliziesco è la ne­ cessità di assegnare la vittoria finale alle forze dell'ordine, per dare al lettore una doppia soddisfazione, intellettuale e morale: la conclusione del racconto coincide sempre con la soluzione dell'intrigo (Petronio, 1ooo, p. ss ). Alla metà del Novecento, però, si produce uno scarto, che porta alla fase del "poliziesco a finale aperto": le catene consequenziali su cui le investigazioni si erano sempre rette si rompono e costringono 95

i detective - a questo punto sempre, necessariamente professionisti allo scacco. È così peraltro che il romanzo poliziesco, da intratteni­ mento per un pubblico medioborghese, diventa anche oggetto d' inte­ resse per lettori e autori colti. Come lo svizzero Friedrich Diirrenmatt, che a partire da Ilgiudice e il suo boia (1952.) fa dd Caso un demento centrale dell'intrigo poliziesco. Lo rivda il personaggio di un romanzo successivo, intitolato significativamente La promessa. Un requiem per il romanzo giallo (1958): «un fatto non può "tornare" come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma sol­ tanto pochi dementi per lo più secondari » (Diirrenmatt, 1958, p. 16). Come dimostra la vicenda dd commissario Matthiii, ossessionato da un caso in cui i tanti indizi e le coincidenze trovate non permettono comunque di scoprire il colpevole; la logica su cui si costruisce un'in­ dagine fallisce di fronte al caso particolare, che sfugge alle griglie di probabilità. La verità rimane un miraggio, un'approssimazione parzia­ le; tutt'al più un inverosimile romanzo poliziesco. Anche Carlo Emilio Gadda, con Quer pasticciacdo brutto de via Merulana (1957), rappresenta il fallimento dd metodo deduttivo. L'indolente commissario Ciccio Ingravallo, chiamato a indagare sull'uccisione della bellissima Liliana Balducci, si muove a tutti i li­ velli della società romana per cercare degli indizi. I fatti, però, così come i registri linguistici usati nd romanzo, si aggrovigliano in uno «gnommero» (Gadda, 1957, p. 7) inestricabile. D'altra parte, come dice lo stesso Ingravallo, anche se la causa apparente di un dditto è unica, ogni fatto è sempre «l'effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinella» (ibid. ). È ingenuo pretendere di spiegare qualsiasi evento con una causa, e quindi anche pretendere che uno solo sia il colpevole di un misfatto (Petronio, 2.000, p. 59); il romanzo si chiude con un' «apocope drammatica » , che nega la soluzione al caso poliziesco, ma dà perfetta riproduzione di quella «disarmonia prestabilita» che governa il mondo (Roscioni, 1975). Da questo punto in poi la strada dd poliziesco si biforca: da una parte la linea "tradizionale", che conserva una forte attenzione per il meccanismo narrativo perfetto, reso concreto da ambientazioni vivi­ de, grazie anche a una forte connotazione nazionale o regionale (ad esempio in Manuel Vazquez Montalban, Andrea Camilleri o Stieg

Larsson); dall'altra la linea "problematica", che fa ricorso ai moduli di una detection spesso fallimentare per mettere in discussione la socie­ tà o la politica contemporanee (si pensi ai romanzi "inquietanti" di Leonardo Sciascia), ma anche la possibilità stessa della forma roman­ zo. È quanto fa Alain Robbe-Grillet, esponente del nouveau roman francese, che all'inizio degli anni Cinquanta adotta lo schema del giallo per condurre una critica serrata al romanzo e alla sua pretesa di costruire architetture di senso. Infatti, se l'indagine poliziesca non è più un modello per la ricerca della verità, ma la prova di una verità impossibile, allora anche l'intreccio romanzesco diventa una macchi­ na senza capo né coda. Le gomme (1953) è un romanzo sperimentale costruito assecondando la poetica dell' école du regard: agli elementi fattuali e contestuali - cosa accade, dove e quando, chi sono i per­ sonaggi - si sostituiscono delle architetture simboliche sovrapposte, non tutte comprensibili alla prima lettura. I canoni del racconto po­ liziesco vengono ribaltati : la vittima non è stata uccisa dal ricercato, ma viene involontariamente ammazzata dali' investigatore alla fine dell'indagine. A confondere ulteriormente la ricomposizione ordi­ nata dei dati è una scrittura fitta di monologhi e improvvise illumina­ zioni, dove si mischiano realtà e immaginazione, la voce di chi cerca e quella di chi è ricercato. n lettore, al quale tradizionalmente sono rivolte tutte le strategie narrative, viene escluso da una macchina te­ stuale che assume l'enigma non come tema, ma come palinsesto di una narrazione dai significati mitico-esoterici. A questo punto, però, il poliziesco - così come gli altri generi ro­ manzeschi - è diventato un contenitore vuoto, un repertorio di temi e forme che ogni autore può riprendere e utilizzare a piacimento, de­ contestualizzandoli e risemantizzandoli all'interno di nuove confi­ gurazioni testuali (Petronio, 2ooo, p. 71).

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Romanzi di romanzi e vite letterarie

L'avvento della letteratura di massa nella seconda metà del Novecen­ to produce un panorama ricco e articolato, permeabile ai prestiti, alle ibridazioni e alle convergenze di generi, stili e forme narrative. Tante

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sono le tendenze che convivono nello stesso sistema. I modelli del modernismo ispirano riprese e rielaborazioni nell'opera delle nuove avanguardie europee : da un lato agisce quella che Luigi Weber (2007, pp. 7-33) ha definito «funzione Joyce» , un'istanza di completezza e onniscienza presente in alcune opere del nouveau roman francese (in particolare i romanzi di Michel Butor, Claude Simon e Nathalie Sarraute), di esponenti del tedesco Gruppo 47 (come il già citato Grass o Uwe Johnson) o nel lavoro di un solitario come Malcolm Lowry (Sotto il vulcano, 1947); dall'altro si definisce l'azione di una complementare «funzione Beckett » , che si orienta invece verso i do­ mini dell'impotenza e dell' insignificanza e che attecchisce nei lavori di diversi esponenti del Gruppo 63 italiano (Edoardo Sanguineti, Enrico Filippini, il giovane Gianni Celati). Contemporaneamente le forme del realismo ottocentesco vengono aggiornate da un'esigenza di contatto con la realtà, determinata in principal modo dall'urgenza di testimoniare i traumi della guerra, evidente in tutto il neorealismo italiano (Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, gli esordi di !calo Calvino), ma anche nella rielaborazione dell'esperienza autobiografica di auto­ ri come André Malraux e Louis-Ferdinand Céline. Ma non solo: è un realismo dalle risonanze ancestrali quello che arriva dagli Stati Uniti, e che passa per Jack Kerouac e Jerome David Salinger. Questi ultimi esprimono una sempre più diffusa contestazione del passato, inteso come sistema borghese, ma anche come letteratura consolatoria. Ne deriva una volontà di ripartire da zero, esplicita nelle dichiarazioni di poetica del già citato Robbe-Grillet, che considera rotto il lega­ me tra parole e cose su cui si regge il romanzo tradizionale (1961). I significati non sono dati di natura, ma prodotti di cultura, e in quan­ to tali sono oggetto di contrattazioni e interpretazioni. È così che il romanzo, che prima si curava di mettere in scena «la scrittura di un'avventura », si trasforma adesso nell' « avventura di una scrittu­ ra » (Ricardou, 1967, p. 1 1 1 ) . Si entra per questa via nella nuova temperie della postmodernità. Data la natura instabile, falsa e usurata della realtà empirica, è alla realtà testuale che ora si rivolgono le attenzioni: citazioni, riscritture, parodie,pastiehes di tecniche e motivi diversi (anche cinematografici) diventano gli strumenti attraverso cui il romanzo si appropria della

tradizione, rifunzionalizzandola secondo nuove logiche compositi­ ve, creando immagini ingannevoli di una realtà che svanisce progres­ sivamente dietro gli specchi della rappresentazione. È quanto acca­ de nell'opera di autori come }orge Luis Borges, Vladimir Nabokov, John Barth e Italo Calvino, che danno preminenza alla dimensione metaletteraria, ovvero alla messa in scena del processo attraverso cui il testo si compone, invitando il lettore a sostituire l'autore nella co­ struzione dei significati testuali. Ma esiste anche una linea del roman­ zo postmoderno che respinge la natura intransitiva di un testo che si presenta deliberatamente come finzione (Barthes, 1966) : è il caso delle monwnentali architetture narrative di Thomas Pynchon, Don DeLillo e Umberto Eco, che disorientano il lettore con intrecci la­ birintici da cui è possibile liberarsi solo a patto di rinunciare all'idea di uscirne con una verità in mano. A metà strada tra questi due poli si colloca Georges Perec, che con La vita istruzioni per l'uso (1978) mostra la strada per "combinare" metariflessione e ambizione alla ricomposizione dei tanti frammenti in unità. Una strada prosegui­ ta da autori come David Foster Wallace, Roberto Bolano o Mathias Énard, che fanno fronte all ' irresistibile molteplicità del mondo con­ temporaneo recuperando una modernistica spinta enciclopedico­ allegorica. Parallelamente - e talvolta intrecciata - alla tradizione postmoder­ nista, si sviluppa una linea del romanzo che cerca di rinsaldare il rapporto con la realtà, affrontandola a più livelli. Si affermano così generi nuovi, come il non-fiction nove!, romanzo che racconta fatti veramente accaduti, e l' autojiction, cioè l ' « autobiografia di fatti non accaduti » (Siti, 1999). Generi dallo statuto ambiguo perché nati dall'ibridazione di materiali d'invenzione e dati di realtà, generi che coinvolgono il lettore in una sfida non solo testuale, ma che mostra le proprie ricadute anche nel mondo dell'esperienza empirica. Solitamente, quando si parla di "romanzo postmodernistà', si chiama in causa una nebulo­ sa di elementi stilistici, opzioni tematiche e pratiche conoscitive che non aiutano a fare chiarezza su cosa effettivamente si possa intende­ re con questa formula. Affidandosi all 'ottimo prontuario di Remo 4·3·1· Le strade della postmodernità

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Ceserani (1997) si può dire innanzitutto che il posrmodernismo si definisce per differenza rispetto al modernismo: se gli scrittori mo­ dernisti cercavano «una qualche verità essenziale per restaurare un ordine » nella loro «età di frammenti » (Woolf, 1966, p. 156), gli scrittori postmodernisti hanno ormai accettato un mondo «il cui disordine eccede e sfida ogni ricomposizione » (Wilde, 1988, p. 2.8). S'impone una sorta di degenerazione dell"'opera aperta" che Um­ berto Eco (1962.) aveva teorizzato per l'arte d'avanguardia: ora la decostruzione dei processi creativi e la proliferazione dei percorsi intertestuali impedisce qualsiasi ricomposizione dell 'unità infranta. Finite le "grandi narrazioni", la postmodernità si disperde in una rid­ da di piccole storie (Lyotard, 1979) che non possono ambire, nean­ che per via allegorica, a una rappresentazione sintetica della totalità, a meno di non accettare il dominio del fraintendimento, dello scon­ tro tra le interpretazioni o della riduzione di qualsiasi conclusione a gioco o silenzio. Sono queste le reazioni a una serie di trasformazioni che si verificano tra gli anni Cinquanta e Sessanta e che hanno portata planetaria, tan­ to da sfuggire alle capacità di controllo e comprensione del singolo individuo. Da un lato c'è chi affronta questo spaesamento con ironi­ co distacco, rimettendo in discussione le categorie del moderno (a partire dalla distinzione tra letteratura alta e bassa) e sottoponendo a parodia sia la tradizione passata che le ricostruzioni del presente. Si tratta del procedimento di double coding che permette di dire una cosa e contemporaneamente porla tra virgolette mettendone in di­ scussione il significato (Hutcheon, 1989, p. 1): una doppiezza sfug­ gente diventa consustanziale a certe opere della postmodernità. Lo può dimostrare il grande successo del tema del complotto. Come ha scritto Fredric Jameson (1991; ma anche Ciuffoletti, 1993), la trama cospirativa, l'ipotesi che il mondo sia retto da personaggi e interessi che agiscono nel regno dell'invisibile, garantisce la soprav­ vivenza di un senso, la cui inaccessibilità rende la realtà apparente inaffi dabile. n complotto inoltre offre la possibilità di aprire il rac­ conto a un'infinità di soluzioni narrative, più o meno verosimili, in­ troducendo elementi provenienti dai generi più disparati. È quanto fa l'americano Thomas Pynchon, che in L 'arcobaleno della gravita 100

(1973) lega in un unico, inestricabile intreccio i fatti storici a cavallo della Seconda guerra mondiale, le paranormali capacità di seduzione del capitano Slothrop, lo spionaggio industriale e alcune coincidenze con ancestrali riti pagani; il tutto in una macchina narrativa in cui colpi di scena e digressioni saggistico-narrative si avvicendano sen­ za soluzione di continuità, lasciando il lettore nel piacevole smarri­ mento di chi sa che, in un modo o nell'altro, tutta questa entropia troverà una soluzione. Don DeLillo, in Libra ( 19 8 8) intreccia invece la ricostruzione dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy con quel­ la dell'assassinio del suo assassino, Lee Harvey Oswald. È questo un esempio di historiographic meta.fiction (Hutcheon, 1988): attraver­ so un arbitrario, ma sapiente uso delle fonti e un abile intreccio di finzione e verità storica, DeLillo arriva a costruire sull'avvenimento delle ipotesi controstoriche in conflitto con le versioni comunemen­ te tramandate dalla tradizione storiografica o dai mass media. Così facendo, non prova a stabilire una nuova verità, ma al contrario si diverte a intorbidare le acque, inserendo elementi eterogenei e fan­ tasmagorie inquietanti, mostrando come la realtà non sia altro che una rete di narrazioni ambigue e parziali. Un simile assunto viene peraltro consolidato dalla proiezione nella finzione romanzesca di un personaggio incaricato di ricostruire - in maniera analoga al vero autore - la trama segreta della storia. Un espediente che consente di mettere l'accento sul processo di composizione del racconto - e sui suoi limiti - piuttosto che sul racconto finale, che non può che essere un'inaffidabile finzione. Solo apparentemente spaesato invece risulta il lettore del Nome della rosa di Umberto Eco (1980). Questo ponderoso romanzo storico è infatti uno dei più consapevoli prodotti del postmoderno letterario, costruito sapientemente su più livelli in modo da permettere a ogni lettore di trovare soddisfazione alle proprie attese. Da un lato l'in­ treccio di romanzo storico e spy story, di atmosfere gotiche e proces­ si deduttivi alla Sherlock Holmes appassionano il lettore che cerca soddisfazione nell 'intreccio; dall'altro la riscritcura della trattatisti­ ca medievale, i passaggi eruditi e da conte philosophique, l'allegoria a chiave della situazione politica contemporanea stimolano il letto­ re colto e smaliziato. Inoltre Il nome della rosa esemplifica bene una

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serie di elementi-base del romanzo postmodernista: il pluristilismo evidente nella mescolanza dei codici e dei registri utilizzati; il cita­ zionismo parodico, che consente di mischiare richiami alla cultura pop e un'erudizione inaccessibile ai più; il gusto per gli enigmi e i complotti; un interesse superficiale per la Storia, ridotta ad affresco decorativo; il double coding, perché al centro di questa poderosa mac­ china narrativa c 'è il lettore, che sigla con l'autore un patto narrati­ vo "ambiguo", o quantomeno multiplo (Pischedda, 1994, pp. II1-2.), grazie al quale può riconoscere tutti i riferimenti intertestuali oppure accontentarsi di un primo livello di lettura. Italo Calvino si spinge oltre e fa di quel patto ambiguo e della con­ tinua elusione delle attese del lettore il tema di Se una notte d'inver­ no un viaggiatore (1979). L'autore si rivolge direttamente al Lettore, appellato alla seconda persona e trasformato nel protagonista di una vicenda che si svolge alla ricerca della vera copia dell'ultimo romanzo di Italo Calvino, appunto Se una notte d 'inverno un viaggiatore. Ai capitoli a cornice in cui si raccontano le avventure del Lettore, che insieme a una Lettrice si trova coinvolto in un complotto ordito dal falsario Ermes Marana, si succedono dieci incipit romanzeschi, corri­ spondenti ai tanti testi che il Lettore si trova a leggere nel corso della sua quéte. Anche Calvino, quindi, sfrutta temi e caratteri tipici della postmodernità, ma decide di giocare a carte scoperte. Quella che nel­ le Citta invisibili (1972.) era l'estensione incontrollabile dell'impero del Kublai Khan, che Marco Polo provava a mappare attraverso la descrizione minuta di tutte le città visitate, diventa qui la proliferante complessità di un "romanzo di romanzi" apparentemente impossi­ bile da leggere : nessuno degli incipit infatti viene portato a termine. Tuttavia Calvino, assecondando la propria indole razionalistica (Be­ rardinelli, 1991), non solo dà un happy end alla vicenda della cornice, ma attribuisce un ordine a quella scombussolata compagine testua­ le. Un ordine che mira all'esaustione e che deriva dall'arte combi­ natoria appresa dai colleghi francesi dell' OuLiPo (Ouvroir de lit­ térature potentielle) come Raymond Queneau e Georges Perec, che impongono alla scrittura dei vincoli matematici rigorosissimi, nella convinzione che la contrainte sia di stimolo alla creatività (Milanini, 1990, pp. 12.7-69). Da qui nascono la « scacchiera sghemba » in cui

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si organizzano le serie tematiche delle Citta invisibili (ivi, p. 129 ) , il cruciverba figurale del Castello dei destini incrociati (1973), la sele­ zione e combinazione dei dieci incipit di Se una notte, che coprono apparentemente tutta la rete dei possibili letterari (Calvino, 1979 ) : il vincolo strutturale fornisce così al racconto una griglia fondamentale per «riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno» (Calvino, 1972, p. 498). D'altra parte, la combinatoria è una soluzione efficace anche per chi, riprendendo lo spunto modernista, voglia provare a mimarne la complessità. È il caso di La vita istruzioni per l'uso di Georges Perec, che sceglie di trasformare un particolare microcosmo - un palazzo di una fittizia via parigina - nell'enciclopedia del mondo occidentale. Perché questa pretesa sia affidabile è necessario "esaurire" i caratteri e le possibilità narrative di quel microcosmo (un progetto letterario di Perec rimasto incompleto s'intitolava Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, 1982). Per questo viene data una descrizione minuzia­ sa e maniacale di tutti gli appartamenti dello stabile, colti nello stesso identico momento, la sera del 23 giugno I97S· li palazzo diventa un collettore di storie che proiettano il lettore in tempi e mondi lontani e toccano tutti i generi letterari. La vita assume così la forma di un ipertesto, un'enciclopedia dagli infiniti rimandi che può essere letta in qualsiasi senso (Zanotti, 2011, pp. 106-7 ) ; e Perec si diverte a non rivelare la contrainte che ordina il suo cosmo romanzesco, una rego­ la scacchistica che trasforma la statica successione di descrizioni in una narrazione mossa dalla ricerca del significato della frase su cui si apre l'opera ( « Gaspard Wi nckler è morto, ma la lunga vendetta che ha ordito con tanta impazienza, con tanta minuzia, non si è ancora compiuta» ; Perec, 1978, p. 14). Non è un caso che proprio questo Perec, il più romanzesco rispetto a quello oulipiano di Le cose (1965) o La scomparsa (1969), diventi il narratore francese più amato dagli scrittori americani della genera­ zione successiva a Pynchon, DeLillo o Barth (Zanotti, 2011, p. 111). Su tutti David Foster Wallace, il cui Infinite ]est (1996) può essere considerato una delle ultime manifestazioni di quelle «opere mon­ do» in cui una disposizione enciclopedica, un'ambizione totalitaria e un affiato epico si scontrano con la frammentazione e il disordine

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tipici del mondo moderno e postmoderno (Moretti, 1994, pp. 3-8). In questo orizzonte, già occupato da opere come Moby Dick, Ulisse, ma anche Cent'anni di solitudine (1967) di Gabriel Garda Marquez o !figli della mezzanotte (1981) di Salman Rushdie, si possono far convergere romanzi come Underworld ( 1997) di Don DeLillo o 2000 (2.004) del cileno Roberto Bolano (Ercolino, 2015); opere che mar­ cano uno scarto rispetto all'età precedente, poiché «partendo pro­ prio dalla frammentazione del soggetto, del tempo, della storia [ ] mirano a produrre un affresco totalizzante, composto di una coralità di storie e di personaggi che si intersecano » (Fusillo, 2012, p. 175). L'enciclopedismo modernista si incrocia in questi romanzi lunghis­ simi con caratteri di chiara ascendenza postmodernista, come la mescolanza dei generi o le strutture narrative rizomatiche e disper­ sive che depistano continuamente il lettore, e con altri già orientati a una nuova logica culturale, come la digressione saggistica, la rico­ struzione di spaccati storico-economici eterogenei, l'articolazione di dimensioni temporali complesse. La propensione centrifuga, dovuta a una smodata accumulazione di storie e personaggi, viene bilanciata da un'istanza centripeta "classica" come il narratore onnisciente, che pur celandosi dietro alle voci dei personaggi controlla lo sviluppo del racconto, garantendone l'organicità (Ercolino, 2015, pp. 163-74). Questa organicità è evidente in Underworld, dove la struttura ad anello (Tirinanzi De Medici, 2012, p. 118) è rinforzata dalla presenza di una palla da baseball che da una partita del 1951 arriva fino ai gior­ ni nostri, catalizzando attorno a sé tempi storici, scenari sociali, per­ sonaggi e sentimenti differenti; in modo analogo agisce il viaggio in treno da Milano a Roma del protagonista di Zona di Énard (2oo 8). In 2000, invece, Bolano contrappone alla dispersione geografica del racconto una trama di relazioni personali fitta ma in definitiva orga­ nica, tale da comprendere in un unico racconto la vicenda dei critici alla ricerca dello scrittore tedesco Benno von Arcimboldi, quella de­ gli omicidi seriali nella città messicana di Santa Teresa e quella del nipote di von Arcimboldi, accusato proprio per quegli omicidi. Poco importa che questa ipertrofica narrazione non restituisca, alla fine, un significato univoco; lo scopo di questi romanzi non è ristabilire un ordine laddove non c'è. Al contrario, l'accumulazione di materia. ..

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li eterogenei e la deflagrazione romanzesca inserite su un'impalcatu­ ra narrativa rigorosa consentono di riprodurre la natura policentrica, caotica e mobile della condizione contemporanea. Mimando il caos del mondo reale, questi autori non lo dissolvono nel caos delle riscrit­ ture; semmai ne impongono coincidenze ed enigmi con un'urgen­ za che l'ironia o il gioco citazionistico possono solo in parte velare (Donnarurnma, 2.014, p. 114).

non-fiction nove! e autojìction Tutto comincia con un fatto di cronaca nera: nel novembre 1959 a 4·3·2.·

Statuti ambigui di realtà:

Holcomb, Kansas, i coniugi Clutter e i loro due figli minori vengono uccisi da due giovani pregiudicati, spinti al delitto dalla prospettiva di una rapina che si rivela poi misera; poche settimane dopo Dick Hickock e Perry Smith vengono arrestati e condannati a morte. Nell'autunno del 1965 Truman Capote comincia a seguire la vicenda come reporter per il "New Yorker"; all'inizio del 1966 esce A sangue .freddo in cui viene raccontata l'intera storia. Non potendo sfruttare il meccanismo del romanzo poliziesco - essendo noto a tutti l'esito della vicenda giudiziaria -, Capote ricorre ad altre strategie per co­ struire un romanzo credibile e appassionante. Interviste, studi tec­ nici e testimonianze dirette vengono utilizzati per dare concretezza e profondità al racconto, ma non sono esibiti a giustificarne la veri­ dicità. Capote rinuncia a rappresentarsi come personaggio, anche se la lunga gestazione del romanzo è frutto di un'irrisolta tensione tra spontaneo coinvolgimento e necessità di distacco - morale, profes­ sionale, letterario. A irretire il lettore, allora, è proprio questo sguar­ do mobile e inquieto, che guadagna credibilità per le domande che pone più che per le risposte che fornisce (Bertoni, 2.009, pp. 68-9 ) ; e questo vale per le contraddizioni della provincia americana illumina­ te dal racconto, come per la colpevolezza dei due assassini, sfaccettata da una problematica introspezione psicologica. Capote è un precursore, A sangue.freddo mostra le potenzialità di una scrittura nuova, in bilico tra letteratura e giornalismo, e anticipa gli esiti del dibattito che negli anni Settanta e Ottanta si svolge intorno ai rapporti tra storia e letteratura. Studiosi come Hayden White e Linda Hutcheon mostrano come il discorso storico faccia ricorso a

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strategie retoriche e narrative di natura letteraria, che contribuiscono alla costruzione di un racconto che è anche un « artefatto letterario» (White, 2.oo6); ne deriva implicitamente che, « se la storiografia non è che letteratura, allora la letteratura può divenire storiogra­ fia» (Tirinanzi De Medici, 2.012., p. 18). Si determina così un nuovo investimento sulle risorse della parola letteraria, sulla possibilità di riplasmare materiali autentici attraverso tecniche narrative tradizio­ nali. Un atteggiamento che porta a due scelte, accomunate da una messa in rilievo della figura autoriale: c'è chi, sulla scia di Capote e degli esponenti del New journalism (Norman Mailer, Tom Wolfe, Hunter S. Thompson, Joan Didion), tenta la strada della narrativa «non d'invenzione » , nella convinzione che il romanziere possa far comprendere meglio il tempo storico, avvalendosi anche di qualche licenza (cfr. Bertoni, 2.009, pp. 65-7 ) ; e c'è chi innesta su una prima persona autobiografica un intrico di verità e finzioni, che se non per­ mette di capire quel che è effettivamente accaduto, finisce comunque per aprire varchi alla conoscenza (Cohn, 1999). Non-fiction novel e autofiction stipulano con i loro lettori patti narrativi nuovi, fondati su un rapporto di fiducia precario perché non chiarisce quando atti­ vare o disattivare la "sospensione dell'incredulità"; adesso la trama si costruisce attraverso una serie di nodi ermeneutici più che narrativi, il cui scioglimento impone di prolungare l'esperienza della lettura anche al di fuori della pagina scritta. Sul primo versante, all'inizio del nuovo secolo si distingue Emmanuel Carrère, che con L'avversario (2.0oo) s'ispira dichiaratamente a Ca­ pote: il romanzo ricostruisce un caso di cronaca nera di rilevanza nazionale, l'uccisione dell'intera famiglia da parte di Jean-Claude Romand, che per anni si era finto una persona diversa da quella che era, senza peraltro celare una vita parallela. Carrère intreccia la rico­ struzione della vicenda, grazie anche a lettere e conversazioni scam­ biate con l 'assassino, alla propria storia personale di uomo e scrittore. L'intenzione non è di riscrivere la verità dei fatti, inequivocabili nel­ la loro assurdità, quanto di indagare sull'uomo, sulla sua solitudine, sulle domande che la sua follia pone a ogni lettore. Un procedimento ripetuto nel successivo Vite che non sono la mia (2.009), dove vengo­ no affrontati alcuni drammi privati (un bambino sopravvissuto alla 106

scomparsa dei genitori, la morte di una madre). Agli episodi decisi­ vi della recente storia spagnola si rivolge invece la narrativa di Javier Cercas. Che si tratti della vicenda del miliziano repubblicano che du­ rante la guerra civile graziò l'ideatore della Falange (J soldati di Sa­ lamina, 2001) o della storia di Enric Marco, militante antifranchista che per 6o anni si è finto ex deportato (L'impostore, 2014), Cercas affronta piccoli e grandi casi noti a tutti i lettori, li ricostruisce, li ana­ lizza e intanto mette in scena il processo della sua ricerca, che è anche un tentativo di trovare, attraverso le armi del racconto, un'interpre­ tazione dei fatti meno retorica di quella veicolata dalla storiografia. Non c'è alcuna volontà di mischiare realtà e finzione, ma solo il pro­ getto di riscattare quelli che sembrano «punti ciechi » della storia politica e dell'identità nazionale (Cercas, 2016). Roberto Saviano affronta in Gomorra (2oo6) la piaga della camorra. n romanzo è composto da capitoli tematici che fanno luce sui diversi aspetti della criminalità organizzata: il reclutamento, lo spaccio della cocaina, l'imitazione dellafiction popolare da parte dei capi clan. A tenerli insieme è la controfigura autoriale, un io narrante ambiguo (Dal Lago, 2010, p. 37 ), pronto a ribaltare la formula pasoliniana, dichiarando "io so e ho le prove" anche quando, pur essendo veri nomi e dati esibiti, la testimonianza non è effettivamente diretta. Dal punto di vista giornalistico un azzardo - o forse un'infrazione -, ma dal punto di vista letterario un ordigno esplosivo, perché pro­ prio l'esibizione del coinvolgimento dell'io (Palumbo Mosca, 2014, pp. 156-64), sostenuta da un'affabulazione che non rinuncia a un facile pathos, finisce per risvegliare l'attenzione del lettore, abituato alla cauterizzazione che di questi argomenti fa l'asettico linguaggio giornalistico (Bertoni, 2009, p. 76). Oltre che non-fiction nove/, Gomorra è poi anche un esperimento di autojìction. Questo genere ha battesimo in Francia, dove la critica si dimostra particolarmente ricettiva rispetto alle nuove declinazioni dell'ipertrofica galassia autobiografi ca (Lejeune, 1975; Doubrovsky, 1977; Genette, 1982; 1991; Colonna, 2004). Come l'autobiografia, anche l' autojìction mira a un'accresciuta veridicità, ma solo allo sco­ po di «rovesciarla con un'inversione dei ruoli» (Marchese, 2014, p. 23). Si tratta di un genere ibrido, che da un lato rispetta proce107

dimenti antiromanzeschi - a partire dalla coincidenza nominale di autore, narratore e personaggio -, mentre dall'altra mescola roman­ zescamente fatti empiricamente avvenuti con altri che alla prova dei fatti risultano falsi (Donnarumma, 2014, p. 130 ) . Anzi, teatralmente falsi: Marie Darrieussecq in Tom e morto (2007) racconta la sofferen­ za per la perdita di un figlio fortunatamente ancora vivo; Bret Easton Ellis in Lunar Park (2oos) si attribuisce scandalose trasgressioni, analoghe a quelle dei personaggi del suo primo romanzo (American Psycho, 1991), arrivando poi a farsi morire. L' autojìction trova la propria ragion d'essere nell'incertezza referenzia­ le, che spinge il lettore a verificare l'aderenza della realtà testuale a quel­ la extratestuale (Marchese, 2014, p. 29 ) : ne nasce tuttavia un «dubbio insolvibile» (Donnarumma, 2014, p. 147), perché realtà e finzione vengono integrate senza che sia possibile distinguerne i punti di sutura. Alcuni autori hanno approfittato di questa ambiguità per dichiarare, in assonanza con un clima ancora postmodernista, la maggiore verità della finzione rispetto alla realtà. Philip Roth, ad esempio, proietta la propria identità e i fatti dellapropria vita su alter ego sempre diversi; tra questi s'impone Nathan Zuckerman, lo scrittore impotente, destinata­ rio di Ifatti. Autobiografia di un romanziere (1988). Tra confessioni e denegazioni immediate, in romanzi come La mia vita di uomo (1974) e Operazione Shylock (1993), la verità appare come un orizzonte irrag­ giungibile, tanto che l'unica dimensione affidabile risulta quella della finzione (ma il discorso non vale per un romanzo d'impianto non au­ tobiografico come Pastorale americana, 1997 ) . Nel frattempo, però, la «testualizzazione del mondo» annunciata dal postmodernismo si è realizzata in quello "spettacolo della realtà'' che i mass media trasmettono quotidianamente (Baudrillard, 1996). Tutto diventa materiale per un reality show o per una diretta live, che si tratti dei grandi eventi della storia contemporanea (la guerra del Golfo, l ' I I settembre) o della vita di persone comuni ; e così la realtà assume lo stesso aspetto di un prodotto di finzione. In questo conte­ sto l'io, soggetto d'esperienza e testimone (Agamben, 1998), acquista una centralità che l' autojìction sfrutta per affidargli una nuova verità, che finge di fondarsi sull'esperienza empirica, ma trae linfa dall'in­ venzione e dalla capacità di analisi del contemporaneo. In Troppi pa-

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radisi (2oo6), volume conclusivo della trilogia composta da Scuola di nudo (1994) e Un dolore normale (1999), Walter Siti avverte che nel romanzo che sta per iniziare « gli avvenimenti veri sono immersi in un Busso che li falsifica» (Siti, 2006, p. 2). Compaiono nomi di persone in carne e ossa a cui sono attribuite azioni compiute da altri; altrove vengono usati asterischi per indicare «la sostanziale inter­ cambiabilità dei nomi nel mercato delle notizie» (ibid. ). n paratesto introduce il lettore in un regime confusivo da cui non lo libererà nes­ sun tentativo di verificare punto per punto la corrispondenza del nar­ rato con il vissuto. Siti eleva le proprie ossessioni e manie a sintomi dell'intera condizione occidentale ( « Mi chiamo Walter Siti, come tutti » ; ivi, p. 3) e lo fa attraverso lo scandalo prodotto da temi "estre­ mi" (la pornografia, l'omosessualità, la violenza), gli unici in grado di risvegliare il lettore dall'intorpidimento conoscitivo in cui l'hanno costretto i decenni della postmodernità. Ne deriva un nuovo investi­ mento etico e politico sul romanzo quale « Strumento più adatto a capire il presente » (Donnarumma, 2014, p. n6). Le ultime manifestazioni del romanzo contemporaneo dimostrano allora che quanto più si fa urgente il confronto con una realtà com­ plessa, empirica e virtuale al tempo stesso, tanto più risulta decisiva la sapienza con cui si articolano gli intrecci, si dispongono tempi e spazi del racconto. Non-fiction nove!, autojiction e romanzo enciclopedico forzano i limiti della rappresentazione romanzesca, si appropriano di campi tematici disparati, superano le secche della narrazione di genere e della riflessione metaletteraria coinvolgendo attivamente il lettore, chiamandolo a costruire il proprio percorso di lettura senza per questo condannare il testo a un'indecidibilità semantica. In un'e­ poca in cui lo storytelling si afferma in ogni disciplina, il romanzo, con le sue trame articolate, efficaci e coinvolgenti, si trova attrezzato per competere con le tante forme di discorso che occupano l'orizzon­ te mediatico.

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Glossario Analessi

Si tratta di un caso di anacronia, ovvero di non coincidenza tra

fabula e intreccio, per cui non viene rispettato l'ordine cronologico degli eventi narrati; il racconto interrompe il flusso della storia per richiamare un evento precedente.

Diegesi

Si indicano con questo termine (spesso sovrapposto all' inglese

telling) le parti di

un

testo narrativo affidate alla mediazione di un narra­

tore, più o meno personalizzato, in contrapposizione a ciò che rientra nel campo della mimesi (o dello showing), che comprende invece il discorso dei personaggi e, più in generale, la rappresentazione diretta del mondo ro­ manzesco.

Discorso indiretto libero

Definibile formalmente come un discorso

indiretto privato del "sintagma di legamento" (ad esempio "disse che"), si presenta come forma discorsiva ambigua, poiché sbilancia la parola del narratore verso quella del personaggio, producendo un' incertezza circa la possibilità di attribuire termini, espressioni e giudizi formulati all'una o all'altra istanza.

Effetto di reale

Formula coniata da Roland Barthes per indicare la pre­

senza nella letteratura realista di dettagli privi di funzione all 'interno della logica narrativa che governa il racconto; questi particolari non hanno altro ruolo che quello di manifestare la loro stessa presenza e di contribuire a definire il mondo raccontato come "reale".

Ellissi

Deliberata omissione da parte del narratore di un particolare della

storia, e nello specifico di un' intera unità temporale.

Flusso di coscienza

Si distingue dal monologo interiore in quanto pro­

pone una "citazione" diretta dei pensieri, delle percezioni e delle impressio­ ni sensibili che animano la mente del personaggio; per fare questo, il flusso di coscienza forza la sintassi regolare (dalla punteggiatura ai nessi logico­ sequenziali) per piegarla alla restituzione dei procedimenti irrazionali e ca­ otici che regolano il fluire delle libere associazioni mentali.

Focalizzazione mobile

Si intende per focalizzazione la selezione da

parte del narratore delle informazioni sui contenuti della storia messe a

I lO

disposizione del lettore; diversamente dal punto di vista, con cui viene so­ litamente confusa, la focalizzazione contribuisce a orientare la totalità del racconto. Tra i diversi gradi che le sono stati riconosciuti (focalizzazione "zero" - corrispondente alla narrazione onnisciente -, interna o esterna al racconto), la focalizzazione interna mobile indica le situazioni in cui il nar­ ratore si nasconde dietro personaggi differenti, di cui riproduce di volta in volta sguardi e percezioni.

Lettore fittizio/Lettore implicito

Il primo è il destinatario delle allo­

cuzioni che il narratore palese, soprattutto nella tradizione del romanzo umoristico settecentesco, pronuncia nel corso del suo racconto. La sua fi­ sionomia può essere più o meno precisa, a seconda dei termini utilizzati dal narratore per riferirvisi, ma è comunque un'entità positiva, talvolta ad­ dirittura un personaggio. Al contrario, il lettore implicito è un'astrazione, l' idea del lettore ideale di un determinato testo che è possibile formulare a partire dalle conoscenze che l'autore suppone necessarie per comprenderne le forme, le norme e le strutture.

Mise en abyme

In letteratura, e più in generale nell'arte, si ha mise en

abyme quando un'opera contiene un riferimento a un'altra opera, che fi­ nisce per riRetterne in scala ridotta contenuti e forme; questa tecnica di rispecchiamento, utile a mettere in luce in maniera meno esplicita alcuni elementi dell'opera principale, ha alle spalle una tradizione letteraria lun­ ghissima e nell'epoca postmoderna ha acquisito una notevole importanza, affiancata spesso a pratiche metadiscorsive, di messa in scena del procedi­ mento con cui il discorso (letterario) viene composto.

Nuclei/ Satelliti

Con questi termini si definisce abitualmente l'ordine

gerarchico degli eventi di un racconto, dove i primi costituiscono i nodi dell'intreccio, mentre i secondi gli avvenimenti di rilevanza secondaria. Non del tutto sovrapponibile è la dicotomia biforcazioni-riempitivi utiliz­ zata per indicare la capacità di un evento di generare svolte narrative oppure di modulare il passaggio da una svolta all'altra.

Parallissi

Particolare forma di ellissi, detta anche "ellissi laterale", che

si verifica quando chi narra omette di riportare dettagli di una storia che pure ha seguito lungo tutto il suo sviluppo; più che un intervento sulla dimensione temporale, costituisce un'alterazione dell' informazione nar­ rativa.

III

Paratesto

Termine che indica tutti gli elementi, verbali e non, che cir­

condano il testo letterario e che contribuiscono alla sua presentazione al pubblico in forma di libro; nome dell 'autore e titolo, prefazioni, avvertenze e postfazioni, illustrazioni o quarte di copertina costituiscono soglie che orientano la ricezione del testo prima ancora che la sua lettura sia effettiva­ mente iniziata.

Pastiche

Viene considerato una caratteristica distintiva della letteratura

postmodernista, in quanto nega l 'elaborazione di uno stile individuale so­ stituendola con l' imitazione superficiale di stili passati o contemporanei, e con la mescolanza e la manipolazione di generi differenti, sempre all' inse­ gna di una diffusa intenzione parodica.

Protessi

Altro caso di anacronia, in cui il racconto anticipa con un salto

temporale alcuni eventi che saranno poi fatti oggetto di una trattazione più ampia.

Scena/Sommario

Termini che indicano la tipologia di una sequenza

narrativa in relazione al rapporto che vi si stabilisce tra tempo del raccon­ to (tempo necessario alla lettura di un brano) e tempo della storia (durata temporale del brano all' interno della storia). Nelle sequenze a sommario, il tempo del racconto è più breve rispetto agli eventi narrati, producendo un effetto di riassunto (evidente nell'uso di tempi e avverbi durativi o formule iterative); nelle sequenze a scena, invece, tempo del racconto e tempo della storia coincidono, dando al lettore l' impressione che i fatti si stiano svol­ gendo "in diretta�

Strano

All' interno dell'universo fantastico, Tzvetan Todorov fa rientrare

nel campo dello strano quei fenomeni misteriosi e inspiegabili che fanno ir­ ruzione all'interno di una realtà apparentemente normale, e che per questo potrebbero essere frutto di un' illusione dei sensi del personaggio, sorpreso, al pari del lettore, di non conoscere le leggi che governano il mondo in cui ha sempre vissuto. Vi si contrappone il meraviglioso, che prevede al con­ trario una realtà data fin dali' inizio nei suoi caratteri inverosimili, noti e pacificamente accettati da tutti i personaggi.

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I 2. 2.

Indice dei nomi e delle opere anonime Adorno T. W., 93 Aleman M., 1 9 Anderson S., 9 S Ariosto L., IS Aristotele, 7 Auerbach E., 2.1, 86 Austen J., 30, 52. Azeglio M. d', S9· 6s

Bachtin M. M., 8, 17 Balzac H. de, H-s. S7· 64, 67-9. 71, 84 Barbin C., 40 Barth J. S., 99, 103 Barthes R., 7, uo Beauvoir S. de, 92. Beckett S., 86, 98 Benjamin W., 8 Bergson H.-L., 81-2. Bernard C., 76 Bolano R., 99, 104 Booth W., 30 Borges J. L., 99 Boursault E., 41 Breton A., 2.8 Broch H., 82., 92.-3 Brody D., 92. Brooks P., 10 Butor M., 9 8

Calvino 1., 9 8-9, 102. Camilleri A., 96 Camus A., 92. Cantù C., 6 s Capote T., Ios-6 Capuana L., 78 Carrère E., 106 Caterina de' Medici, 36 Celati G., 98

Céline L.-F., 98 Cercas J., 107 Cervantes Saavedra M. de, 1 9-2.0, 2.2. Ceserani R., 100 Chandler R., 9 S Chateaubriand F.-A.-R. de, 63 Chaucer G., 6o Chauvet V., 61 Chesterton G. K., 9 S Christie A., 9 S Colet L., 7 S Comte A., 76 Conrad J., 72.-3

D'Annunzio G., 79 Darrieussecq M., 108 Debenedetti G., 90 Defoe D., 2.4- 9, 32. DeLillo D., 99, 101, 103-4 De Roberto F., 6s-7 Destutt de Tracy A. L. C., 63 Dickens C., 30, ss. 70-1, 73 Diderot D., 31, 34-s Didion J., 106 Dostoevskij F. M., 72.-4, 8 9 Doyle A. C., 94-s Dumas A., 70 Diirrenmatt F., 96

Easton Ellis B., 108 Eco U., 12., 99-101 Einstein A., 81 Eliot G., 70 Énard M., 99, 104 Enrico 11, 36 Enrico v m, 33 Erasmo da Rotterdam, 2.2.

123

Faulkner W., 85 Fenoglio B., 98 Fernandez de Avellaneda A., 2.0 Fielding H., Io, 2.4, 2.8-32., 3 5· 4I Filippini E., 9 8 Flaubert G., 54-5. 64, 72., 74-6, 78-9 Forster E. M., 9. I2. Foscolo U., 45, 48 Foster Wallace D., 99, I03 Freud S., 82., 88

Gadda C. E., 96 Garda Marquez G., I04 Goethe J. W. von, 45, 48-50, 54 Gogol' N. V., 72. Goncourt E. de, 76, 94 Goncourt J. H. de, 76, 94 Grass G., 85, 98 Guerrazzi F. D., 65 Guilleragues conte di, 38, 40

Hegel G. W. F., 9 Helvétius C. A., 63 Hemingway E., 9 5 Hickock D., I05 Huet P. D., 35 Hugo V.-M., 5 9 Huret J., 76 Husserl E., 8I Hutcheon L., I05 Huysmans J.-K., 79-80, 9I

James H., 72. Jameson F., 2.00 Johnson U., 98 Joyce J., 82., 84-5, 8 9, 98

Kafka F., 82., 88-9 Kennedy J. F., IOI

1 2. 4

Kermode F., 7 Kerouac J., 9 8

Laclos C. de, 38, 40-I, 43, 46, 48 La Fayette M.-M. Madame de, 36-7 Larsson S., 97 Lazan"l/o de Tormes, I2., I5-2.o, 2.2. Le mille e una notte, IO Lettere di una monaca portoghese, 38-42., 45 Locke J., 33 Lowry M., 98

Mailer N., Io6 Malraux A., 98 Mann T., 79, 82., 93 Manzoni A., n, 6I-2., 65 Marco E., I07 Maria Stuart, 36 Maupassant G. de, 76 Mazzoni G., 52. Melville H., 72. Moretti F., 49 Musi! R., 82., 9I, 9 3

Nabokov V. V., 99 Napoleone, 62., 64 Nashe T., I8 Nietzsche F. W., 7 9, 93 Nievo l., 66

Omero, 84 Oswald L. H., IOI Ovidio, 4I

Pavese C., 98 Perec G., 99, Io2.-3 Pine! P., 63 Pirandello L., 66, 82., 88- 9I

Poe E. A., 94 Polo M., 102. Prévost A.-F., 45 Propp V. J., 10 Proust M., 82.-s Pu�kin A. S., 72. Pynchon T., 99. 100, 103

Queneau R., 102.

Rabelais F., 2.2. Radcliffe A., 59 RenoirJ., 95 Richardson S., 2.8-9, 32., 35-6, 39. ·P -4 Ricoeur P., 7, 9 Robbe-Grillet A., 97-8 Romand C., 106 Roth P., 108 Rousseau J.-J., 40-1, 44-6, S4 Rovani G., 6s Rushdie S., 104

Siti W., 109 Smith P. E., IOS Stanze! F., 30 Stendhal, 53-4, 59. 62.-4 Sceme L., 31-4 Stevenson R. L., 72. Stoker B., 48 Stout R., 95 Sue E., 70 Svevo l., 82., 87 Swifi: J., 2.7-8

Taine H.-A., 76 Taparelli d'Azeglio C., 61 Thackeray W. M., 70 Thompson H. S., 106 Todorov T., Hl. Tolstoj L. N., S9· 64-s. 72. Tomasi di Lampedusa G., 66 Turgenev l . S., 72.

Urfé H. d', 36 Salinger J. D., 9 8 Sanguineti E., 9 8 Sarraute N., 9 8 Sarcre J.-P., 92. Saviano R., 107 Schopenhauer A., 79 Sciascia L., 97 Scott W., 30, S7. 59-62., 68 Scudéry M. de, 36 Selkirk A., l.S Shakespeare W., 6o Shelley M., 48 Simenon G., 9S Simon C., 98

Vazquez Moncalban M., 96 Verga G., 72., 78

Walpole H., S9 Weber L., 98 White H., IOS Wilde 0., 79 Wolfe T., 106 WoolfV., 82., 86

Zola É., 64, 66, 72., 76-9, 84

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