L'esperienza urbana
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L’ESPERIENZA URBANA

David Harvey

L’ESPERIENZA URBANA

Traduzione di Gabriele Ballarino

il Saggiatore

www.saggiatore.it [email protected]

© David Harvey 1989 © il Saggiatore, Milano 1998 Titolo originale: The Urban Experience Realizzazione editoriale: Il Paragrafo snc, Udine La scheda bibliografica, a cura del Servizio Biblioteche Provincia di Milano, è riportata nelfultima pagina del libro

Sommario

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Premessa

Introduzione

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1. L’urbanizzazione del capitale

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2. Il processo urbano nel capitalismo: un quadro analitico

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3. La rendita fondiaria nel capitalismo

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4. La struttura di classe e la teoria della differenziazione residenziale

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5. Il ruolo della politica urbana nella geografia dello sviluppo ineguale capitalista

6. Denaro, tempo, spazio e città

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7. Monumento e mito: la costruzione della basilica del Sacro Cuore

8. L’urbanizzazione della coscienza

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9. Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione: riflessioni sul “postmoderno”nella città americana

295

Bibliografia

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Indice analitico

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Premessa

Questo libro è una versione abbreviata e leggermente modificata di The Urbanization of Capital e di Consciousness and the Urban Experience, entrambi pubblicati nel 1985 per i tipi della Johns Hopkins Press negli Stati Uniti e della Blackwell Publishers nel Regno Unito. Ho seleziona­ to i saggi per questa edizione con un occhio alla loro coerenza teorica e alla loro utilità nel fornire un’interpretazione del perché l’esperienza urbana nel capitalismo prende la forma che ha. Ho aggiunto un saggio non incluso nei volumi originali perché mi sembra contribuisca a spie­ gare alcuni modi in cui la teoria può essere utilizzata per interpretare tendenze recenti. Ho anche pensato che potesse essere utile trasformare la “Prefazione” originaria in un’“Introduzione” più lunga, e riscrivere quasi completamente il saggio sull’“Urbanizzazione della coscienza” che compare qui come vili capitolo. Per il resto, i testi originali sono ri­ masti quelli che erano, a parte piccole modifiche necessarie per miglio­ rarne la coerenza e per eliminarne le ripetizioni. E sempre difficile elencare i debiti personali e intellettuali. Ho rice­ vuto un appoggio istituzionale dal Dipartimento di geografia e ingegne­ ria ambientale della Johns Hopkins University, e ci tengo a ringraziare il professor Wolman. John Davey è stato d’aiuto con i suoi consigli e con la sua collaborazione a questa edizione. Molti buoni amici di Balti­ mora mi hanno aiutato a vedere, capire e prendere parte a cose che al­ trimenti mi avrebbero forse lasciato indifferente. La scelta non è facile, ma voglio rivolgere un ringraziamento personale a Barbara Koeppel, Ric Pfeffer, Vicente Navarro, Cliff DuRand e Chester Wickwire. Tra i miei amici della Johns Hopkins voglio citare Lata Chatterjee, Jorn Barnbrock, Amy Kaplan ed Erica Schoenberger, e rivolgere un ringra­ ziamento molto speciale a Dick Walker, Neil Smit e Beatriz Nofal. Ver­ so tutti loro ho un debito enorme.

Il II capitolo è apparso originariamente su The International Journal o£ Urban and Regional Research, II, 1978, a cura di Edward Arnold; il III capitolo è una versione rivista di un articolo pubblicato con il medesimo titolo su Antipode, X/V, n. 3, 1982; il IV capitolo proviene da Bristol Es­ says in Geography, a cura di M. Chisholm e R. Peel, pubblicato da Hei­ nemann Press; il VII capitolo è stato originariamente pubblicato negli An­ nals, Association of American Geographers, LXIX, n. 3, 1979; il IX capi­ tolo, infine, proviene da Antipode, XIX, n. 3, 1987. Vorrei ringraziare tutti i curatori e i responsabili di questi libri e riviste per avermi consenti­ to di ripubblicare qui i miei articoli. La figura 10 è pubblicata con il per­ messo degli autori di B.J.L. Berry e E. Heils, "Location, Size and Shape of Cities as Influenced by Environmental Factors: The Urban Environment Writ Large", in The Quality of Urban Environment, a cura di H. Perloff, Baltimora 1969. Le figure 12, 13, 14 e 16 sono pubblicate con il permesso del Musée Carnavelet; la 15 proviene da Illustrated London News, e la 17 dalla Collection d’affiches politiques di Alain Gesgon.

Introduzione

Chi tra di noi, giunto in una città sconosciuta, rifiuterebbe la possibilità di salire su un punto abbastanza alto, e di guardare, laggiù, il complesso panorama di strade e di edifici, e il movimento incessante di attività umane che vi si svolge? Perché ci sentiamo così curiosi di fare qualcosa cui chi abita da tempo in una città raramente pensa, salvo quando riceve visite? Cosa ne ricaviamo? Michel de Certeau (1984) fornisce una rispo­ sta suggestiva quando racconta dei suoi pensieri durante la salita verso la cima del World Trade Center di New York. La salita, scrive, ci sot­ trae alla presa della città, al movimento febbrile della vita delle strade, e ci permette, anche solo per un attimo, di diventare voyeurs. La salita in ascensore «trasforma il mondo stregato da cui uno era “posseduto” in un testo che giace sotto i suoi occhi. Permette di leggerlo, di essere un Occhio solare, di guardare giù come un Dio». Da un punto di vista così favorevole, possiamo possedere nella nostra immaginazione la città, an­ ziché esserne posseduti. E interessante esaminare il rapporto tra una simile visione “divina” della città e la turbolenza della vita delle strade. Entrambe le prospettive, anche se diverse, sono reali Non sono indipendenti Puna dall’altra, né nei fatti né nei processi mentali. L’occhio che vede, quando percorre la città come un tutto, utilizza una serie di pregiudizi, di concetti (come per esempio quello di città), e anche di teorie faticosamente costruite a parti­ re dall’esperienza delle strade. Le nostre interpretazioni dall’alto com­ prendono quindi una grande quantità di associazioni e assunti, speranze e timori, desideri e volontà. L’occhio non è mai neutrale: molte battaglie sono state combattute per il “giusto” modo di vedere. Eppure, quali che siano le associazioni e le aspirazioni, quando si contempla dall’alto si prova una speciale soddisfazione: abbiamo visto la città come un tutto, l’abbiamo portata nella-mente come totalità. Successivamente, l’espe­ rienza della vita di strada non potrà che acquistare un nuovo significato.

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I saggi raccolti in questo libro hanno come argomento i modi di ve­ dere là città, di leggere il suo testo e di trovare un quadro interpretativo in cui collocare le infinite sorprese che la strada ci offre. La costruzione di un punto di vista privilegiato da cui osservare i processi urbani e da cui «possedere immaginariamente la città» ci porta, comunque, a com­ piere una fatica intellettuale tra le più dure. Si tratta di costruire un ap­ parato teorico.con.cui comprendere la città come un tutto, senza perde­ re di vista la molteplice confusione di cui è piena l’esperienza urbana quotidiana. La formazione di concetti e l’elaborazione teorica sono sempre stati elementi fondamentali dell’agire umano. E così che possiamo capire chi siamo, cosa siamo, dove siamo, e a volte anche perché ci siamo. Le teorie ci forniscono mappe cognitive per trovare la strada in un ambiente com­ plesso e in continua trasformazione. La mappa cognitiva può essere in­ stabile o addirittura incoerente. L’esperienza ci induce a costruirla, tra­ sformarla e modificarla di continuo. L’elaborazione di una teoria signifi­ cativa funziona proprio nello stesso modo: essa cerca di elaborare una mappa ordinata e coerente, anche se mai del tutto conclusa, al fine di migliorare la nostra comprensione e la nostra padronanza delle attività quotidiane, sociali, politiche, economiche o tecnologiche che siano. L’impulso a costruire un qualche tipo di mappe cognitive, e il bisogno di disporne, siano esse sofisticate o meno, rappresenta un attributo fonda­ mentale dell’uomo. Per fortuna, non dobbiamo ogni volta ricominciare da capo: il lavo­ ro di generazioni di studiosi e di pensatori ci fornisce un ricco patri­ monio di idee ed elaborazioni teoriche sulle quali e all’interno delle quali è possibile costruire. Tuttavia la scelta di un quadro teorico non è cosa facile, poiché ciascuno ha i suoi punti di forza e i suoi limiti. Na­ turalmente non tutti i modi di vedere sono mutuamente esclusivi. Un architetto che guarda dall’alto un paesaggio urbano può apprezzare le leggi del disegno architettonico, i ritmi visuali e i riferimenti storici. Un ingegnere esperto di traffico potrà pensare al disegno delle strade e al flusso dei veicoli, e riflettere su come migliorare il ritmo dei semafori. Lo storico potrà contemplare il palinsesto delle forme urbane che si sono sovrapposte nel corso dei decenni, ognuna rispecchiando le cir­ costanze tecniche, economiche e politiche della sua epoca, mentre un esperto di pianificazione urbana potrà chiedersi come sovrapporre il successivo strato di questo palinsesto in modo tale da venire incontro alle necessità future senza ledere quanto c’era prima. Il direttore di una ditta immobiliare guarderà agli edifici in termini di affitto per me­ tro quadro, destinazione d’uso, vincoli e limiti d’altezza. Tutte queste prospettive sulla città sono perfettamente valide, anche se parziali e

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fondate su un punto di vista limitato: in linea di principio, tutte posso­ no essere conciliate tra loro. I problemi diventano più seri quando andiamo alla ricerca di una sor­ ta. di meta teoria cioè di un quadro teorico che for­ nisca la possibilità di mettere insieme tutte queste visuali parziali, non so­ lo come loro sommatoria ma come una mappa cognitiva capace di mo­ strare in che modo ogni visuale parziale possa essere spiegata nel quadro di una concezione più vasta di cos’è la città e di cos e il processo urbano in genere. L’ambito della scelta è in questo caso più ristretto: dobbiamo preferire Marx, Weber, Durkheim, Simmel o i sociologi della scuola di Chicago? Se adottiamo una di queste meta-teorie particolari, vedremo con ogni probabilità il processo urbano attraverso una lente forgiata e modellata a partire dalle convinzioni di chi l’ha creata, e dai pensieri e le preoccupazioni della sua epoca. Allo stesso modo, il nostro quadro di ri­ ferimento per vedere e capire avrà connotazioni politiche e sociali, sarà influenzato da credenze e intenzioni e, naturalmente, dalla battaglia sen­ za fine per ottenere strumenti esplicativi più efficaci. Nel mio caso personale, ho adottato la meta-teoria marxiana all’ini­ zio degli anni settanta, in parte perché la ritenevo lo schema esplicativo più efficace di tutti. Essa offriva la possibilità - in realtà assai poco uti­ lizzata - di spiegare questioni tra loro molto lontane, come la formazio­ ne degli ambienti costruiti e il disegno architettonico, la cultura di stra­ da e la micro-politica, l’economia e la politica urbane, e il ruolo dell’ur­ banizzazione nella geografia storica, così ricca e complessa, del capitalismo. Anche l’origine e l’orientamento politico di questa scienza erano per me rilevanti: essa infatti si muove in senso critico e progressi­ vo, e si propone non solo di migliorare le condizioni di vita dei più svantaggiati, ma di percorrere i territori dell’emancipazione umana in generale. La scienza non può mai essere neutrale nelle cose umane: sa­ rebbe irrilevante. I tentativi di porsi al di fuori della storia e della politi­ ca producono, nel migliore dei casi, pseudo-scienze ben intenzionate, di cui il positivismo è un esempio, e nei casi peggiori rompono la catena morale tra l’operato degli scienziati e la società, ratificando'còsi”le'più gravi forme di irresponsabilità sociale e pplitica.JDi contro, la retorica politica che non si appoggi sulla comprensione.scientifica è sempre vuota: se non lo è, è solo per puro caso. Marx ha basato la sua lotta per trovare un’alternativa ai mali del capitalismo su uno studio approfondi­ to del suo funzionamento, e di come esso tenda a dar luogo a determi­ nati stati di coscienza politica e sociale. Marx vedeva nel capitalismo una forza rivoluzionaria, una fonte di continuo cambiamento. Aveva percepito che la domanda che ci si deve porre rispetto al capitalismo non è se qualcosa cambierà, mifcomàe con quale fine le cose cambia­

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no. Per intervenire in questo processo, anche noi Io dobbiamo com­ prendere. Ma come lo comprenderemo? Come saranno educati gli edu­ catori? Dalla contemplazione passiva non può venire una nuova com­ prensione del mondo, sostiene Marx: essa nasce invece da una lotta atti­ va. Ma questo processo non può essere compreso unilateralmente. La riflessione sulle nostre opinioni, sulle nostre idee e ideologie,JaJotta per rendere chiari e convincenti i concetti e i punti di vista, e il giudizio sulla nostra esperienza del cambiamento storico e geografico sono tanto importanti quanto l’impegno politico e sociale sulle barricate. Ecco perché Marx ha scritto 11 capitale. Ed ecco perché la tradizione marxi­ sta è così insistente nella sua volontà di scrivere, teorizzare, analizzare. Sto cercando di descrivere la natura dialettica dell’approccio marxiano alla comprensione del mutamento sociale e alla partecipazio­ ne a esso. Prima di agire, noi pensiamo, ma è. agendo, che impariamo a pensare. Vedere le cose dall’altezza maestosa della teoria, come dalla ci­ ma del World Trade Center, può essere cosa «da Dio e da voyeur», ma si tratta comunque di qualcosa che è sempre influenzato dall’esperienza e dall’azione, e che a sua volta le influenza. Contemporaneamente ci sarà senz’altro una tensione tra la visione generale della meta-teoria e la ricca varietà dell’esperienza urbana. Tale tensione può generare creati­ vità, sia nell’immaginazione che nella pratica, ma non è certo facile tene­ re i due modi di vedere insieme distinti e utili l’uno per l’altro. Le opere individuali, come questa, propendono generalmente per uno dei due lati del procedimento dialettico. Dati i limiti della mente umana, e i benefici che derivano dalla divisione del lavoro, è inevitabile e giusto che sia così. Anche la vita intellettuale, peraltro, è vittima delle mode. Gli studenti di scienze sociali e umane probabilmente l’avranno notato. Diverse discipline avanzeranno diritti su tutte le risposte, e di­ versi tipi di ricerca (meta-teorica, decostruzionista, ermeneutica, etnoscientifica o semplicemente empirica) saranno definiti l’unica via verso la conoscenza. Non è detto che simili spostamenti d’attenzione siano del tutto negativi. Il problema è trasformarli da semplici oscillazioni del pendolo della moda in una sorta di spirale di comprensione che si espande. Se i miei recenti interventi sul tema, per quanto riguarda lo studio dei processi urbani (vedi Dear et al. 1988), hanno un tono un po’ aspro, è perché vedo nell’attuale tendenza ad abbandonare la meta-teo­ ria marxiana e i suoi fondamenti storici e materialisti non tanto un mo­ vimento verso una nuova fase di comprensione e di azione politica crea­ tiva, quanto una frettolosa ritirata verso dimensioni di ricerca e di azio­ ne deboli e relativamente impotenti. In ogni caso, cercare di fornire un’interpretazione dell’urbanizzazio­ ne capitalista in termini marxiani, come cerco di fare in questi saggi, si­

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gnifica utilizzare un quadro interpretativo controverso, incompleto e da certi punti di vista molto problematico. Ho cercato di rimediare a que­ sta incompletezza nel mio libro The Limits to Capital. In esso ho prova­ to a riempire tutte le “scatole vuote” della teoria marxiana, come il rap­ porto tra formazione del capitale fisso e ambienti costruiti; l’appropria­ zione della rendita; l’azione della moneta, della finanza e del credito; la produzione delle crisi monetarie e finanziarie, e via dicendo. Dovevo teorizzare questi fenomeni, se volevo costruire una teoria completa del­ l’urbanizzazione. Eppure, curiosamente, la maggior parte dei recensori ha trascurato quello che pensavo fosse il principale contributo dell’ope­ ra, ovvero l’integrazione della produzione di spazi e di configurazioni spaziali come elemento attivo all’interno del nucleo stesso della teoria marxiana. Grazie a questa forte innovazione teorica sono potuto passa­ re dalla riflessione sulla storia alla geografia storica, rendendo così pos­ sibile la formazione di una teoria sul processo urbano in quanto ele­ mento attivo della geografia storica della lotta di classe e dell’accumula­ zione del capitale. Sono pronto a confessare, naturalmente, che molto del fascino che provo per la dimensione spaziale delle attività umane deriva dalla mia formazione disciplinare di geografo. Ma se, come sottolinea Anthony Giddens (1981), le relazioni spaziotemporali sono «caratteristiche costi­ tutive dei sistemi sociali», allora la questione dello spazio è di certo trop­ po importante per essere lasciata esclusivamente ai geografi. Eppure vi è stata una forte e quasi completamente egemone predisposizione a dare al tempo e alla storia la priorità rispetto allo spazio e alla geografia. Que­ sto è ciò che hanno in comune Marx, Weber, Durkheim e Marshall. Ci manca quindi, come osserva Giddens, l’apparato concettuale «che possa rendere lo spazio, e il controllo dello spazio, parte integrante della teoria della società». Questa mancanza è doppiamente problematica. Innanzi­ tutto, l’inserimento in una qualsiasi teoria della società di concetti di spazio e di relazioni spaziali, locali e ambientali ha l’imbarazzante effetto di bloccare le proposizioni centrali di quella stessa teoria. Gli economisti micro che lavorano con il concetto di perfetta concorrenza si trovano di fronte a monopoli e prezzi situati che mettono in crisi gli assunti di equi­ librio; gli economisti macro si trovano di fronte a tante economie quante sono le banche centrali, e a un mucchio di congetture che influenzano i rapporti tra queste; i sociologi trovano ogni tipo di “strati spaziotempo­ rali” che disturbano processi di strutturazione altrimenti coerenti e ordi­ nati; e i marxisti, che utilizzano una terminolgia riferita a rapporti di classe universali, trovano avvicinate comunità e nazioni che spezzettano la lotta di classe e l’accumulazione del capitale in strane configurazioni di sviluppo geograficamente squilibrato. Ogni volta che i teorici della so­

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cietà cercano di analizzare il significato delle categorie spaziali e geogra­ fiche o sono costretti a tanti adattamenti ad hoc che la loro teoria scivola nell’incoerenza, o devono riformularne le proposizioni fondamentali. C’è poco da stupirsi allora quando Peter Saunders (1986, pag. 278), in un recente tentativo di salvare la presunta sottodisciplina della sociolo­ gia urbana da una simile brutta fine, ci fornisce una straordinaria propo­ sizione secondo la quale «i problemi dello spazio [...] devono essere se­ parati dallo studio dei processi sociali specifici». Purtroppo i marxisti non possono vantare prestazioni migliori su questo terreno. Si possono consultare invano le principali riviste marxi­ ste, alla ricerca di una seria discussione di concetti spaziali e di dimensionalità geografica. Marx stesso è in parte colpevole di questa situazio­ ne. Senza dubbio ha dato la precedenza al tempo sullo spazio, ed era piuttosto incline a tralasciare la questione della variazione geografica come «complicazione non necessaria». A dire il vero, Marx a volte ha riconosciuto l’importanza dello spazio e del luogo (vedi il mio The Ur­ banization of Capital, cap. Il), questo però non compensa i limiti di una meta-teoria valida dal punto di vista del tempo ma debole da quello dello spazio. Il materialismo storico ha reso possibile lo studio delle tra­ sformazioni storiche, ma ha ignorato il fatto che il capitalismo produce la propria geografia. Così, Lenin e gli altri teorici dell’imperialismo per rimediare a tale lacuna, sono ricorsi ad adattamenti ad hoc che hanno consentito di dibattere sullo sviluppo capitalistico in Russia o in India, per esempio, come se queste unità d’analisi avessero di per sé un senso, e hanno provocato una varietà di retoriche dello sfruttamento, in cui il centro sfrutta le periferie, il Primo Mondo soggioga il Terzo, e i blocchi di potere capitalisti competono per il dominio dello spazio, ovvero per i mercati, l’offerta di lavoro, le materie prime, le capacità produttive e così via. Ma come possiamo far convivere l’idea che un popolo sfrutti o combatta un altro popolo, con la visione marxiana di una dinamica ca­ pitalista alimentata dallo sfruttamento di una classe da parte di un’al­ tra? Queste concessioni ai problemi dello spazio, fatte da Lenin, da Luxemburg e dagli altri teorici dell’imperialismo, hanno semplicemente reso ambigue le basi teoriche del marxismo-leninismo, dando luogo a dispute incontrollate e spesso distruttive sulla questione nazionale e il diritto all’autodeterminazione, il significato della contraddizione tra campagna e città, le prospettive del socialismo in un solo paese, la ri­ sposta appropriata ai movimenti sociali urbani, l’importanza del decen­ tramento geografico e così via. Gli adattamenti ad hoc hanno preso in considerazione il capitalismo come situato in uno spazio, ma non hanno considerato come lo spazio stesso venga prodotto, e come il processo di produzione dello spazio sia parte integrante della dinamica capitalista e

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delle sue contraddizioni. Il materialismo storico deve trasformarsi in un materialismo storico e geografico. La geografia storica del capitalismo deve diventare oggetto della nostra teoria. Si spiega così, almeno in parte, la mia scelta della dimensione urba­ na come unità di analisi a sé stante. Quella urbana, comunque, è solo una delle molte dimensioni spaziali in cui deve essere studiata la produ­ zione di configurazioni spaziali, organizzazioni sociali e coscienza poli­ tica: regioni, stati-nazione e blocchi di potere ne sono alcune altre. È ve­ ro che ci sono numerosi teorici della società, compresi non pochi marxisti, che respingono l’idea dell’urbanizzazione come «oggetto d’a­ nalisi teoricamente specifico». Esaminare il processo urbano, si dice, può al massimo fornire «intuizioni reali, ma relativamente poco impor­ tanti» sull’attività della società civile (Saunders 1986). Anche Anthony Giddens (1981, pag. 147), il quale, come abbiamo visto, prende sul se­ rio il problema dell’organizzazione dello spazio, sostiene che «con l’av­ vento del capitalismo la città non è più il contenitore spaziotemporale più importante, né il “crogiolo del potere”; questo ruolo è assunto dallo stato nazionale territorialmente definito». Solo di rado studiosi anti­ conformisti come Jane Jacobs (1984) insistono nel dare la priorità alla dimensione urbana come unità d’analisi. Focalizzando l’analisi sull’urbanizzazione non intendo sostenere che questa debba essere considerata come un oggetto di indagine specifico, separato dalla geografia storica del capitalismo come totalità. Marx insi­ ste sul fatto che il capitale va concepito come processo, e non reificato. Studiare.l’.ur.baniz2azioiie^signifi.ca >^tudiatne.iL..divenire-,--nelLa-mis-ui:a in cui_si.di^piega_nella produzione dipanprami-fisici erodali.e.di partico­ lari modi di pensare e di agire propri di chi vive in città. Lo studio del­ l’urbanizzazione non è lo studio di un’entità legale o politica, o di un ar­ tefatto materiale, ma riguarda anche i processi di circolazione del capi­ tale; gli spostamenti dei flussi di forza-lavoro^ merci e capitale; l’organizzazione spaziale della produzione e, la trasformazione delle re­ lazioni, spaziotemporali; le dinamiche delle informazioni; i conflitti geo­ politici tra alleanze di classe geograficamente determinate e così via. E senz’altro vero che le città hanno perso potere politico in senso giuridi­ co e che la loro evidente rilevanza geopolitica è venuta meno, o che le economie urbane oggi assumono la forma di megalopoli allungate fino ai distretti rurali, in aree suburbane sempre più vaste: questi fatti appar­ tengono al processo urbano. Non è un caso che tutto ciò sembri ambi­ guo. L’ambiguità ci consejit£jdi..jstudùroXyxb-a.nÌZ^àPIie-cQme--proGesso: non c’è ragione di utilizzare concetti reificati e apparentemente sicu­ ri che cancellano, anziché mostrare, la fluidità dei processi in corso. In questo modo possiamo inserire meglio la nostra comprensione del pro-

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cesso urbano in una più ampia concezione delle dinamiche capitaliste, e capire in che misura esso ne è parte. Allo stesso modo, se ci concentriamo sugli aspetti specifici del pro­ cesso urbano possiamo riuscire a costruire un altro punto di osservazio­ ne all’interno del quadro generale della meta-teoria marxiana, dal quale analizzare diversi fenomeni che altrimenti rimarrebbero inspiegati. Si pone quindi il problema della giusta relazione tra la geografia storica direttamente provata nella realtà e la teoria che cerca di cono­ scerla. Si è molto insistito sui presunti limiti del marxismo in proposito, in particolare sul legame che unisce teoria ed evidenza empirica in un quadro così coerente da impedire una verifica “indipendente”. Più di recente, autori postmoderni come Lyotard (1981) e Rorty (1986) han­ no messo in questione la legittimità di qualsiasi meta-teoria, non solo di quella di Marx. Queste idee sono poi entrate nel campo degli studi ur­ bani, andando incontro a coloro che preferiscono un approccio più empirico alla ricerca. A queste critiche si può rispondere in diversi modi. In primo luogo, è errato credere che non ci siano problemi nel modo in cui il linguag­ gio, di qualsiasi tipo, cattura l’esperienza e rappresenta le strutture del mondo esterno. Come ci ricorda Bourdieu (1977), il linguaggio non so­ lo dipende «dal particolare punto di vista che un osservatore “situato nello spazio e nel tempo” assume riguardo il suo oggetto», ma coinvol­ ge «una trasformazione molto più fondamentale e pericolosa». Ritiran­ dosi dall’azione per «osservarla dall’alto e da lontano», noi rendiamo «l’attività pratica un oggetto di osservazione e analisi, una rappresentazio­ ne». Anche le rappresentazioni proprie del linguaggio ordinario costi­ tuiscono in realtà delle oggettivazioni, il cui potere e significato sta «non nel linguaggio in sé, ma nel gruppo che lo autorizza e lo riveste di autorità». Le particolari rappresentazioni che chiamiamo “fatti” e “da­ ti” non sono in nessun modo indipendenti dalle teorie che le ispirano e a cui possono essere applicate. In realtà, si può scegliere tra diversi ap­ procci a questo problema universale. In secondo luogo, vi sono buone ragioni per preferire un tipo di approccio a un altro. Le teorie astratte del positivismo, per esempio, devono prima essere tradotte in modelli operativi (un passaggio che necessariamente implica la disposizione di teoria e dati all’interno dello stesso quadro), e quindi testate su dati che dovrebbero essere campioni di eventi ripetuti e indipendenti gli uni da­ gli altri. Una procedura di questo tipo può essere ragionevole in certi ambiti di ricerca limitati, ma non è interessante per la geografia storica, che è una configurazione complessa di eventi spaziotemporali interdi­ pendenti. Non ha molto senso misurare la crescita delle città come se ognuna di esse fosse “un evento indipendente”, come se tra loro non vi

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fossero commerci, flussi di capitale, emigrazioni, o reciproci influssi culturali e politici. Per questo motivo, molti storici, umanisti e geografi storici preferiscono seppellire i loro orientamenti teorici e politici nelle ambiguità del linguaggio quotidiano. Da questa scelta possono venire delle buone storie, ma in termini di rigore si finisce per rimpiangere il positivismo. Come marxista, io cerco sempre di avere una teoria coerente e priva di contraddizioni per spiegare le particolari configurazioni dei processi storico-geografici. La costruzione di una teoria di questo tipo richiede un dialogo continuo tra esperienza, azione, formazione di concetti e svi­ luppo dialettico di teorie. Dato, però, che tra marxisti c’è un dibattito notevole e spesso concitato su cosa siano il rigore teorico e il potere esplicativo, compresa la famosa contrapposizione tra gh strutturalisti seguaci di Althusser e gli storici come E.P. Thompson, devo forse met­ tere in chiaro, nel modo più semplice possibile, qual è la mia interpreta­ zione dell’approccio marxista. Uno degli è che dobbiamo mangiare per vivere, pensare, discutere, allevare bambini, combattere, godere, o per fare qualsiasi altra cosa. Le modalità di sod­ disfazione di desideri e bisogni essenziali sono variate storicamente, e continuano a variare geograficamente. Studiando la vita quotidiana possiamo così incominciare un’elaborazione teorica. Per esempio, se volessi ricostruire la provenienza della mia cena, potrei rendermi conto delle migliaia di persone coinvolte nel far giungere sulla mia tavola an­ che il più semplice dei pasti. Però, posso mangiare la mia cena senza che sia necessario sapere alcunché di tutta questa gente. Le loro condi­ zioni di vita e di lavoro, le loro gioie, dolori, aspirazioni: tutto mi resta nascosto. Ciò deriva dal fatto che le nostre relazioni sociali con coloro che contribuiscqnp al nostro sostentamento qupiidÌ3Jl£>„s.Qnp.mascherate dallo scambio di merci suT mercato. Marx definisce «feticismo della merce» questo effetto di mascheramento proprio dèlio scambio di mer­ cato. PeFcàplfe col^^ riproduce, non ci possiamo limitare all’esperienza della spesa al supermercato. Sulla lattuga non ci sono tracce di sfruttamento, né c’è sapore di apartheid sulla frutta suda­ fricana. Dobbiamo superare le apparenze superficiali, smascherare il fe­ ticismo della merce del mercato, e costruire una teoria generale che spieghi come le merci sono prodotte, vendute e consumate: solo in que­ sto modo possiamo capire meglio le condizioni tecniche e le relazioni sociali che fanno sì che il pane quotidiano arrivi in tavola. Si presenta quindi la tentazione di salire immediatamente alle altez­ ze della teoria marxiana, poiché II capitale parla proprio di un modo di vedere le cose che smaschera il feticismo. E utile, però, ritornare sul

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metodo impiegato da Marx per costruire la sua teoria, per verificare quanto la sua costruzione sia solida. Se vediamo tutti 1 diversi elementi che compongono, per esempio, una normale colazione, ci rendiamo conto che per la maggior parte sono stati prodotti come merci all’inter­ no di un sistema di circolazione di capitale. Quest’ultimo è definito, nella sua forma tipica, come un sistema nel quale il denaro (posseduto da “capitalisti”) viene utilizzato per acquistare materie prime, semilavo­ rati, macchine e forza-lavoro (posseduta dagli “operai”), al fine di com­ binare questi fattori in un processo produttivo organizzato e di ricavar­ ne una nuova merce utilizzabile dagli uomini. Questa merce viene nor­ malmente venduta, sul mercato, al prezzo del suo valore iniziale, più un aumento detto profitto. I concetti che noi usiamo per descrivere questo processo - denaro, materie prime, macchine e altri mezzi di produzio­ ne, lavoro, acquisto, vendita e profitto - sono astrazioni concrete. In al­ tri termini, questi concetti vengono utilizzati nel linguaggio quotidiano: qui essi descrivono come i beni sono prodotti, venduti e consumati, nonché il fatto che noi usiamo denaro, merci e mezzi di produzione concretamente, quando facciamo i conti, in modo altrettanto pratico, con le esigenze del lavoro, dello scambio, della ricerca di profitto e di quant’altro (vedi cap. Vi). L’analisi svolta finora sembra solida: non do­ vrebbe essere difficile convincere una persona ragionevole del fatto che la maggior parte delle cose che abbiamo di fronte per colazione è stata prodotta per mezzo di un processo di circolazione di capitale di questo tipo. Certo, alcune cose sembrano arrivare per strade deserte (i pomodori dell’orto, o il burro in sovrapproduzione regalato dallo stato), ma la caratteristica che definisce la vita nel capitalismo, in contrasto con la vita in altri modi di produzione, è proprio il fatto che la maggior parte di quanto consumiamo è prodotta con questo tipico sistema di circola­ zione di capitale. Fino a questo punto abbiamo seguito la strada che Marx definisce di discesa (per invertire la metafora della visione dal World Trade Center) dalla complessità della vita quotidiana a una semplice serie di rappre­ sentazioni concrete di come si riproduce la vita materiale. Non c’è nulla di problematico in questo passaggio. Però Marx va oltre, e postula con­ cetti astratti e non osservabili, che chiariscono come gli infiniti piccoli processi di circolazione del capitale, messi in moto da individui che la­ vorano in ogni tipo di condizioni specifiche, si intersecano e interagisco­ no fino a dar luogo a determinate dinamiche all’interno del sistema so­ ciale capitalista concettualizzato come totalità. Concetti quali “valore” e “plusvalore”, “relazioni di classe” e “forze produttive”, sono qualitati­ vamente diversi da astrazioni concrete come “denaro”, “lavoro” e “mer­ ce”. La loro validità non può essere definita allo stesso modo: sono

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quindi molto più problematici, tanto che alcuni marxisti si sentono au­ torizzati a fare a meno anche di concetti basilari come “valore”. Possia­ mo proporre leggi di corrispondenza, più o meno precise, per esempio, tra salari e valore della forza-lavoro, tra denaro e valore; tra profitti e plusvalore, ma Marx sottolinea proprio che, anche se, per esempio, il prezzo è «il nome in denaro del valore», tuttavia il prezzo non è il valore stesso, né, necessariamente, una sua rappresentazione adeguata. La veri­ fica di questo apparato concettuale consiste quindi nell’usarlo, mostran­ do cioè come i concetti che contiene possono, una volta messi in moto, aiutarci a capire ogni sorta di circostanze fenomeniche che altrimenti non riusciremmo a spiegare. Il potere esplicativo diventa il principale criterio di accettabilità. A partire da qui, la strategia di ricerca si rovescia: dalla discesa dalla vita quotidiana e dalla costruzione delle categorie astratte che la sotten­ dono, alla salita per mezzo di una graduale elaborazione di queste cate­ gorie fino al punto in cui esse possano, nelle parole di Marx, «riflettere come uno specchio la vita quotidiana». La strategia di Marx è simile a quella che si riscontra nella maggior parte delle ricerche scientifiche. In fisica, la teoria usa concetti astratti e non osservabili per spiegare gli eventi osservabili. Freud si comporta in modo simile, con concetti come Io, Es e Super-io, e così fa la maggior parte dei teorici della società. Non vi è quindi nulla di particolare in que­ sto aspetto del metodo marxiano, anche se sicuramente Marx è stato uno dei pionieri dello sviluppo delle astrazioni e della sofisticazione del­ la teoria della società. Il suo monito che «se tutto fosse come sembra superficialmente,nQn„vi sarebbe alcun bisogno della scienza» ha determi­ nato una rottura profonda con l’empirismo radicale; è “ha contribuito a definire il modo in cui possono essere elaborate quelle che oggi, a volte con senso peggiorativo, vengono chiamate “meta-teorie” della società. Le qualità peculiari del metodo teorico di Marx derivano soprattut­ to dal suo procedere dialettico. In questo si vede spesso un’eredità he­ geliana. Sarebbe certo stupido negare quest’influenza, ma io credo che l’approccio dialettico di Marx abbia un altro fondamento. Torniamo al­ la sua descrizione della circolazione del capitale. La merce, per esem­ pio, è vista come un singolo oggetto unitario: eppure, essa ha sia un va­ lore d’uso che un valore di scambio. La maggior parte della gente sa­ rebbe disposta a riconoscere che la casa in cui abita ha questo doppio valore, e capirebbe al volo le tensioni che possono nascere nel loro comportamento in virtù di questi due diversi modi di vedere. Ancora più ovvia è l’inevitabile opposizione di interessi tra compratori e vendi­ tori sul mercato. Nei mercati del lavoro spesso troviamo questa opposi­ zione, condotta a un antagonismo così assoluto tra livelli salariali e con­

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dizioni di lavoro (lunghezza dell’orario, intensità del lavoro) che è diffi­ cile fare a meno di vedere nella lotta di classe la forza vitale della geo­ grafia storica del capitalismo. In altri termini, possiamo ritornare alle astrazioni concrete che descrivono la circolazione del capitale e scopri­ re contraddizioni, antagonismi e opposizioni di tutti i tipi. Marx quindi non fa altro che trasportare questo senso dialettico sul piano della teo­ ria astratta, utilizzandolo al fine di rappresentare la costituzione del ca­ pitalismo come sistema socioeconomico. Il modo di ragionare dialettico e aperto adottato da Marx è un filo che ci guida in quello che altrimenti sarebbe un labirinto di interrela­ zioni e astrazioni. La logica interna di una tecnica di questo tipo merita di essere compresa nei suoi termini propri. Le opposizioni inerenti al­ l’apparato concettuale astratto vengono utilizzate per sviluppare nuove linee argomentative. Dialetticamente, anziché internamente e dedutti­ vamente, cerchiamo di mappare mari sconosciuti, salpando da poche isole concettuali, in apparenza note e sicure. Partendo da diversi punti di vista, si ottengono diverse prospettive. Quello che da un determinato punto di osservazione sembra un apparato concettuale solido, di fronte a un’investigazione ulteriore si dimostra parziale e unilaterale. Costruire una teoria da prospettive opposte ci aiuta a mappare con maggiore pre­ cisione la ricca complessità di un sistema socioeconomico quale il capi­ talismo, proprio come la triangolazione è fondamentale per l’elabora­ zione delle mappe catastali. Per esempio, nel primo libro del Capitale Marx costruisce un quadro molto elaborato della dinamica storica del capitalismo (l’accumulazione diacronica del capitale) solo dal punto di vista della produzione; poi nel secondo libro analizza lo stesso sistema dal punto di vista dello scambio di mercato e dei modelli aggregati di produzione, consumo e circolazione. Le conclusioni tratte dal secondo libro, per esempio l’idea che il valore della forza-lavoro e del salario to­ tale devono tendere verso un qualche livello di equilibrio rapportato al­ l’accumulazione del capitale, si presentano molto diverse da quelle del primo, come la tesi della progressiva pauperizzazione del proletariato. Entrambe le spiegazioni sono ugualmente vere, ma solo insieme esse forniscono un quadro dialettico e multidimensionale della realtà capita­ lista. Unire le due prospettive, cosa che Marx non ha mai fatto, ci forni­ sce un quadro più completo del funzionamento del modo di produzio­ ne capitalista e delle sue contraddizioni interne, quali, per esempio, la tendenza a dare luogo all’accumulazione per l’accumulazione, alla pro­ duzione per la produzione oltre i livelli compatibili con l’offerta di lavo­ ro, o ad accelerare l’innovazione tecnologica in modo tale da mettere in crisi i profitti. Condurre in questo modo le argomentazioni ci consente di capire come vengono risolti gli antagonismi del capitalismo, e come

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ogni contraddizione venga inserita in nuovi contesti, quali il sistema fi­ nanziario e creditizio, l’apparato statale, o la geografia storica dello svi­ luppo ineguale. Queste sono alcune delle questioni teoriche e pratiche che ho esplorato in The Limits to Capital. Mettendo a punto questa edizione abbreviata e rifusa di The Urba­ nization of Capital e di Consciousness and the Urban Experience, cui ho aggiunto un ulteriore saggio sul “postmoderno” nella città contempora­ nea, ho deciso di scegliere e disporre i saggi in modo tale da mostrare come un tale percorso teorico possa essere utilizzato per studiare i feno­ meni dell’urbanizzazione capitalistica. Dopo uno schizzo storico introduttivo (l capitolo) sul ruolo variabi­ le che i processi urbani possono avere nella storia e nella geografia del­ lo sviluppo capitalista, prendo in considerazione le modalità in cui ven­ gono prodotti surplus di capitale e di forza-lavoro, che sono poi utiliz­ zati per produrre infrastrutture fisiche e sociali. Mi concentro in particolare sulla circolazione di capitale e di valore che si determina con la produzione e l’uso di ambienti costruiti: questo è un aspetto molto importante dell’urbanizzazione. Credo sia utile vedere il paesag­ gio geografico, del capitalismo.come espressione dei flussi di capitale. I flussi possono cambiare direzione, dal punto di vista del settore pro­ duttivo o dal punto di vista geografico, e possono essere coinvolti nella creazione e nella soluzione di varie crisi. Fenomeni come la suburba­ nizzazione del secondo dopoguerra, la deindustrializzazione, o la ten­ denza contemporanea al rinnovamento dei centri storici (le Docklands di Londra o il porto interno di Baltimora) possono essere utilmente vi­ sti in questi termini. La dimensione spaziale è, comunque, sviluppata abbastanza debolmente in questo capitolo, e dunque i due successivi si concentrano sulle teorie della rendita fondiaria e della differenziazione residenziale, al fine di capire come l’organizzazione spaziale di una città .viene prodottadall’intersecarsi dei flussi di capitale con lo sviluppojondiario, da una parte, e dall’altra dalle esigenze di riproduzione di una fqr_za-layoro_differenzfatifper competenze e qualifiche, nonché dalle relazioni di classe. Il problema dei mercati del lavoro localizzati ci fa poi riflettere su come le regioni urbane possano acquisire una “coerenza strutturata” a livello di organizzazione politica ed economica, coerenza che risulta in­ stabile, a volte poco chiara, ma comunque molto potente (v capitolo). Questo pone le basi per la creazione di alleanze di classe territorialmen­ te fondate, che trasformano la regione urbana quasi in un’unità in con­ correnza all’interno di una divisione geografica del lavoro. Un esame delle strategie politiche di concorrenza interurbana offre indicazioni preziose rispetto al ruolo delle città nella creazione di una geografia ine­

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guale di sviluppo capitalistico. Possiamo quindi vedere in modo più chiaro come si esprime geograficamente la dinamica capitalista. Nel VI capitolo prendo in considerazione le modalità con cui il dena­ ro, il tempo e' lo spazio sono collegati, e come assumono un significato particolare quando la circolazione del capitale domina la vita sociale. Cerco quindi di mostrare come le categorie, che usiamo normalmente per descrivere il mondo, e che sembrano ben distinte, in realtà siano fondamentalmente correlate: non si può capire il denaro indipendente­ mente dal tempo e dallo spazio, e quest’ultimo assume un significato particolare in un’economia monetizzata. Questo saggio potrebbe quindi, di primo acchito, sembrare diverso rispetto ai precedenti. Tuttavia, no­ nostante la differenza stilistica e l’uso che viene fatto di forme di eviden­ za più letterarie, quello che cerco di fare è esplicitare i temi dell’integra­ zione delle dinamiche di accumulazione di denaro, tempo, spazio e capi­ tale con quelle della lotta di classe, integrazione già abbozzata nei saggi precedènti. In questo mòdo, posso disporre di una solida base su cui co­ struire unatep,ria ddla geografia storica del capitalismo in generale e del ruolo del processo urbano al suo interno in particolare. Nel VII capitolo mi avvalgo dei suggerimenti della teoria per analiz­ zare un particolare fenomeno di trasformazione urbana. Considero la costruzione della basilica del Sacro Cuore di Parigi, e le modalità in cui questa è stata coinvolta dalle lotte di classe nate dai particolari problemi propri dell’accumulazione del capitale nel Secondo Impero (esaminati in dettaglio nel III capitolo di Consciousness and the Urban Experience). La basilica può essere vista come prodotto e simbolo della lotta di clas­ se; e per molti anni vi si sono intrecciati attorno contrasti così forti che il suo completamento è stato seriamente minacciato. Nell’vni capitolo approfondisco le riflessioni sui motivi per cui l’esperienza urbana ci porta a vedere i processi urbani e la società in generale in modi così contraddittori, e quali possano essere le implicazioni sociali e politiche di questa situazione. L’ultimo saggio verte sull’accumulazione flessibile, sull’urbanizzazione e il postmoderno. Qui cerco di mostrare come una rilevante trasformazione nell’economia politica del capitalismo, in par­ ticolare dopo la recessione del 1973, sia venuta a coincidere, soprattut­ to negli Stati Uniti, con una veloce trasformazione dei processi urbani, e abbia dato vita a una serie di simboli culturali e politici differenti, che rappresentano il senso dell’urbanizzazione capitalistica. Qui mi sforzo anche di capire perché lo stile e la retorica postmoderni sono diventati così popolari e diffusi, non soltanto in architettura e in filosofia. La spiegazióne sta, credo, nelle trasformazioni della vita quotidiana cui ha dato luogo lo spostamento del paradigma di accumulazione dalla confi­ gurazione keynesiana e fordista del dopoguerra, relativamente stabile, a

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un sistema molto più “flessibile”, spinto da una concorrenza esasperata, dallo sviluppo imprenditoriale, e dal neoconservatorismo. Anche se sono orientati teoricamente, alcuni saggi contengono mol­ to materiale illustrativo: in una misura sufficiente, credo, per indicare come e quando possono essere messe in opera le prospettive proposte. Anche se sono utili come evidenza empirica a sostegno delle tesi pre­ sentate, questi materiali non costituiranno una prova in grado di con­ vincere gli scettici della correttezza delle proposizioni teoriche in que­ stione. Non è semplice, del resto, stabilire cosa effettivamente costitui­ sca una verifica di una meta-teoria come quella di Marx. Alcuni commenti in merito possono essere comunque utili. Il processo di veri­ fica non può essere ridotto, come sembrano proporre molti critici della meta-teoria marxiana, a una semplice procedura in cui la si testa rispet­ to a un set di dati. Imporre alla teoria marxiana un simile stile positivi­ sta di verifica significa usare il positivismo, e non il marxismo, come punto di partenza. Dal punto di vista marxiano, la verifica della teoria deriva in parte dalla fiducia che proviene dal processo di formazione dei concetti, e in parte dal suo potere esplicativo. Ciò significa che con essa si può interpretare la geografia storica in modi coerenti e convin­ centi. Era questo il mio obiettivo quando ho intrapreso un lungo studio sulla Parigi del Secondo Impero, in Consciousness and the Urban Expe­ rience. Il grande problema, comunque, sta nel portare la teoria a tocca­ re l’esperienza, politica e pratica, in tante e diverse circostanze. La fidu­ cia nella potenza della teoria può in questo modo essere costruita incrementalmente. JI.rovo,inaccettabile l’idea che esista qualcosa come un’lesperienza” non mediata dall’immaginazione. AJtÉefiantojnaccettabile è l’opinione distorta secondo la quale i fatti e i dati esistono indipendentemente dal­ la teoria. Di solito noi ci accostiamoal mondo con un preciso apparato concettuale, che rappresenta la risorsa maggiore di cui è dotata la no­ stra mente, e interpretiamo eventi ed esperienze nei termini che questo ci propone. Ma ci sono anche momenti, avvenimenti, persone, espe­ rienze che investono in modo inatteso l’immaginazione, e così agitano e scuotono i modi consueti di pensare e di comportarsi, e richiedono un passo avanti della fantasia o della teoria per acquistare un significato. L’esperienza ha molti modi di proporsi. Le interazioni e le osservazioni che si fanno per strada, in modo casuale; la lettura della stampa locale e di tutti i volantini che ci vengono messi in mano; l’azione politica locale e i tentativi di fare politica a livello più ampio, nazionale e internaziona­ le: tutto questo si compone in una massa di impressioni spesso in con­ trasto tra loro. E poi c’è la letteratura: vasta, incoerente, piena di con­ trasti, a volte retorica e polemica (e non per questo meno interessante),

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altre addirittura in competizione con la scienza. Lo studioso non può estrarre un campione di tutto ciò: quello che fa è combattere con le idee e le informazioni in circolazione, o a volte lottare intellettualmente con­ tro coloro che le fanno circolare. La letteratura non è solo accademica. Ci sono racconti, commedie, poesie, canzoni, quadri, scritte sui muri, fotografie, progetti e piani architettonici... tutto ciò fornisce indizi e contiene possibili sorprese. Il mio pensiero sul processo urbano è stato influenzato da Dickens, Zola, Balzac, Gissing, Dreiser, Pynchon e molti altri tanto quanto lo è stato dagli specialisti di storia urbana. Mi sento attirato, soprattutto, dalle opere che sono al tempo stesso letterarie e di teoria della società, storiche e di cronaca d’attualità, di cui un grande esempio ritengo sia La condizione della classe operaia inglese nel 1844 di Engels. Credo sia stato a partire dall’ammirazione per que­ st’opera che ho incominciato a svolgere studi approfonditi sul mercato immobiliare di Baltimora, e poi sulla trasformazione di Parigi dopo il 1848 e sulla nascita della Comune del 1871. Entrambe le ricerche mi hanno fornito qualche elemento nuovo con cui sviluppare la teoria. Ep­ pure esse dipendevano in modo decisivo dalla precedente formulazione di un qualche quadro concettuale e teorico su cui basare le ricostruzioni storiche e geografiche. Engels mi ha fornito il quadro per gli studi sulle case di Baltimora, e The Limits to Capital mi ha dato la base per studiare la trasformazione di Parigi nell’epoca di Haussmann. Gli studi storici e geografici formano un terreno di prova su cui valu­ tare la validità della meta-teoria marxiana. Un altro sta nella sua attuale rilevanza politica: forse questo è ancora più importante, visto l’impegno marxista per l’emancipazione umana attraverso una trasformazione poli­ tica e sociale. La notevole frustrazione provata nell’ultimo decennio per quanto riguarda la praticabilità del progetto marxista, nonché la capa­ cità della meta-teoria marxiana di ispirarlo e guidarlo, hanno dato luogo a un ostentato abbandono delle posizioni marxiste e, nel campo marxi­ sta, a un crescente scetticismo sull’importanza politica dell’elaborazione teorica. Credo sia importante distinguere buone e cattive ragioni di que­ sto scetticismo. Tra le cattive annovererei le tendenze della moda, o un abbandonarsi troppo facilmente alle pressioni della destra (non sto par­ lando del Cile, ma dei paesi socialdemocratici dove il neoconservatori­ smo è nato e si è rafforzato al governo, nei media, nell’istruzione), un certo ennui provato per la teoria marxiana dopo che nel giro di cinque anni dalla rivolta del 1968 non si era ancora materializzato il millennio socialista, e le solite lotte interne all’intellighenzia per essere forti e in­ fluenti imponendo nuove tendenze e condannando le vecchie. Se invece si considerano le buone ragioni, esse suggeriscono una maggiore attenzione all’elaborazione teorica. Il grande sviluppo di ricer­

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che marxiste seguito alla metà degli anni sessanta ha dovuto per prima cosa recuperare una tradizione di pensiero che era stata spenta dal fasci­ smo e dalla guerra fredda all’Ovest e dallo stalinismo all’Est, e inventarsi nuove tradizioni adatte alle condizioni contemporanee. Nel corso di questo lavoro si è presto capito che la teoria marxiana presentava molte lacune e che serviva ancora molto impegno per capire come porvi rime­ dio. Gli studiosi dei fenomeni urbani, per esempio, si sono dovuti fare carico di argomenti come il significato dell’organizzazione spaziale, i po­ teri dell’apparato locale dello stato, i movimenti sociali urbani, i proble­ mi posti dal consumo collettivo nei contesti urbani, e cose di questo ti­ po: a volte tali argomenti sono stati integrati nel corpo della teoria marxiana. Non è stato un compito facile, e il fatto che ci sia voluto così tanto tempo per tentare di accordarci rappresenta ancora un fatto politi­ camente negativo. Nessuno, probabilmente, sosterrebbe che si deve aspettare ad agire fino a che la teoria non migliori, ma retrospettivamente credo sia chiaro che nell’agitazione della fine degli anni sessanta la teoria non era abba­ stanza solida, anche quando vi si ricorreva con precauzione, per fornire più che una guida rudimentale all’azione. Il successivo fallimento del movimento operaio nel dare una risposta radicale alla recessione del 1973-1975, il trionfo della deindustrializzazione, l’abbandono del fordi­ smo-keynesismo per quelli che chiamo modi di accumulazione più “flessibili”, la crescita del neo-conservatorismo, e la rinascita della “cul­ tura d’impresa” negli anni ottanta: tutto ciò ha creato difficoltà per con­ cetti pensati per intervenire sulle condizioni del boom del dopoguerra. Abbiamo dovuto mettere in discussione molti dei presupposti della teo­ ria, per esempio la teleologia implicita nel percorso dalla libera concor­ renza al monopolio e di qui al monopolio di stato, con il socialismo co­ me inevitabile passo successivo. Se gli ultimi tempi sono stati grami dal punto di vista dell’azione politica (i movimenti operai sono ovunque sulla difensiva, e comunque confusi con questioni occupazionali, di ge­ nere, etnico-razziali o locali), credo però che siano stati salutari dal punto di vista dell’elaborazione teorica, proprio perché siamo stati co?str£ttLa...dis£U.t.ere e ricalibrare i nostri modi di pensare alla luce di vent’anni di esperienza. In particolare nel IX capitolo, il lettore troverà brani in cui si discute del significato politico della teoria. Vorrei sottolineare quanto sia inco­ raggiante il segnale che proviene dalla forza recentemente acquisita dalla Rainbow Coalition, e dalle iniziative politiche cui questa sta dando luogo negli Stati Uniti, con la sua riscoperta della retorica di classe e il suo ten­ tativo di mettere in piedi una vasta coalizione di forze, superando le divi­ sioni che hanno frammentato in passato il movimento operaio. Però, le

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difficoltà cui ci troviamo di fronte nel costruire ponti tra le diverse loca­ lità e i diversi gruppi non devono essere minimizzate. In questo conte­ sto, io spero che le analisi di questi grumi di attività politica e coscienza che sorgono dall’esperienza urbana possano essere d’aiuto. Credo che la pretesa della teoria marxiana di costituire la guida più sicura all’elabora­ zione di una teoria radicale e di azioni politiche capaci di essere tali sia ancora valida. Il compito che il marxismo si trova di fronte è, in breve, quello di approfondire e precisare la teoria in modo che possa raggiun­ gere contesti finora rimasti poco chiari, e definire nuove pratiche sociali che possano integrarsi in un progetto d’emancipazione socialista. Il ter­ reno della politica è forse il più difficile su cui lavorare per verificare una teoria. Ma, alla fine, è l’unico che conti davvero.

1. L’urbanizzazione del capitale

Nella formulazione di una domanda si ha l’abitudine, un po’ imbaraz­ zante, di suggerire gli elementi per la risposta. Per questo motivo ho sempre ritenuto molto importante l’osservazione di Marx secondo cui «spesso-larispostapuò consistere soltanto nella critica del problema, e può esserci soluzione.spltanto negarido n problema stesso» (Gririzz/r/rr?. vol. I, pag. 58). Lo scetticismo perpetuo dello sforzo scientifico marxia­ no sta proprio in questa prescrizione metodologica. La domanda con la quale iniziai la mia ricerca, ormai più di dieci an­ ni fa, era all’incirca la seguente: è possibile, derivare una comprensione teorica e. storica del processo urbano nel capitalismo dallo studio delle presunte leggi di movimento di un modo di produzione capitalistico? Mi sono presto convinto che la risposta era positiva, purché queste leggi venissero specificate in modo più rigoroso, in particolare in termini di dinamica temporale e spaziale. Ma era una domanda corretta? Dopo un decennio di riflessioni e di scritti sul tema, è necessario riformularla. Ora mi chiedo: comeche il capitale si urbanizza? E quali sono le conseguenze.-dLq.uesta urbanizzazione? La risposta presenta, indubbiamente, im­ plicazioni rilevanti per la comprensione del futuro del capitalismo e per le prospettive di transizione a un qualche altro modo di produzione. Incominciamo con alcune note su come si può concettualizzare l’ur­ banizzazione nel contesto di un modo di produzione prevalentemente capitalista.

1. La produzione dell’urbanizzazione in un modo di produzione capitalista

I valori d’uso necessari alla riproduzione della vita sociale nel capitali­ smo vengono prodotti fondamentalmente come merci, all’interno di un

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processo di circolazione del capitale che ha come proprio fine principa­ le l’aumento dei valori di scambio. La forma normale di questo proces­ so di circolazione può essere rappresentata in simboli in questo modo: FI

{

MP

. . . P . . . M' —> D -l- Ad -* ecc.

dove D sta per denaro; M e M1 per merci; MP per ogni tipo di mezzo di produzione, compresi macchinari, input di energia, materie prime e se­ milavorati; FL per forza-lavoro; P per produzione, e Ad per profitto. Questo è il sistema che Marx ha studiato così attentamente, per capirne le leggi interne di movimento. Tra le altre cose ha mostrato che il capi­ talismo deve essere sia espansivo che tecnologicamente dinamico; che il profitto dipende dallo sfruttamento del lavoro vivo nel processo pro­ duttivo; che questo definisce la principale relazione di classe e il fronte della lotta di classe tra compratori (capitalisti) e venditori (operai) di forza-lavoro come merce. Marx ha mostrato anche che l’espansione in­ dispensabile al capitalismo (accumulare per accumulare, produrre per produrre) spesso si trova in conflitto con la spinta a rivoluzionare le for­ ze produttive nel quadro di un simile sistema di relazioni di classe. Il si­ stema è quindi instabile, e dà luogo a crisi periodiche di sovraccumula­ zione, una condizione in cui surplus di capitale e di forza-lavoro si tro­ vano inutilizzati. La sovraccumulazione determina la svalutazione dell’uno e dell’altro elemento, salvo nel c;j.so in cui possa essere trovato un modo di assorbirli che crei profitto (cfr. Harvey 1982). Lo studio dell’urbanizzazione in un simile modo di produzione ri­ chiede di prestare alle dinamiche spaziali e temporali un’attenzione mag­ giore di quanto Marx fosse disposto a fare, anche se va detto che l’autore del Capitale era ben consapevole di questi aspetti del processo. Possiamo accostarci a questa integrazione esaminando i diversi momenti del pro­ cesso: denaro, merce, forza-lavoro e sua riproduzione, produzione all’in­ terno della circolazione del capitale, e i passaggi (che Marx chiama meta­ morfosi) tra un momento e l’altro. È subito evidente che ogni momento ha una diversa predisposizione alla mobilità geografica, e che ogni pas­ saggio porta inevitabilmente con sé un qualche movimento spaziale. Ma vediamo più da vicino il punto dello scambio di merci (D —► M e M' —»• D + Ad). Marx sostiene che l’intervento del denaro nel processo di scambio consente la separazione nello spazio e nel tempo di acquisti e vendite. Malquanto è grande la separazione? Non si può proseguire con l’analisi della circolazione del capitale se non si dà risposta a questa domanda. E evidente che gli orizzonti spaziali e temporali dello scam­ bio sono socialmente determinati. Investimenti in nuovi sistemi di tra­

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sporto e di comunicazione riducono le barriere spaziali e i vincoli tem­ porali, rendendo gli investimenti a lungo termine sia possibili che com­ patibili con altri sistemi di produzione con ritmi completamente diversi (per esempio, tra la produzione di centrali elettriche, granoturco e pasti rapidi). Cionondimeno, se si acquistano e si vendono merci, compreso l’acquisto di macchinari e altri semilavorati, è inevitabile che per supe­ rare la separazione spaziale si perdano tempo e denaro. Ciò significa che i mercati delle merci si articolano in strutture commerciali geografi­ camente distinte, all’interno delle quali è vitale l’efficienza del coordi­ namento spaziotemporale. I dettagli di questi processi sono estremamente complessi. Anche se il movimento delle merci è vincolato da costi e tempi di trasporto, il de­ naro di credito oggi si muove con la stessa velocità e assenza di vincoli dell’informazione. Inoltre, ogni, merce ha una diversa, potenzialità di movimento che deriva dal suo peso, dalla sua deperibilità e dal suo va­ lore, mentre il tempo e i costi introducono due dimensioni spesso mol­ to diverse dalla distanza fisica. La divisione sociale e geografica del la­ voro è in parte un adattamento a queste possibilità, così come è un esito delle condizioni sociotecniche generali proprie dell’ambito della produ­ zione. Il punto generale comunque rimane valido: §p,la,siXQn§idgJCà=dal punto di vista4eU^G«Hbi©^a-cH«01a^jBe^leLjjapjtalejj_pr.esenta comejnpym^LQ..^SO^rafkQ,,.jje.lj;.empQ, Più avanti cercherò di mostrare che le strutture geografiche dei mercati sono qualcosa di più di un sem­ plice riflesso della circolazione del capitale e che fungono da vere deter­ minanti della dinamica capitalista. L’acquisto e la vendita di forza-lavoro meritano un’analisi particola­ re. Diversamente da altre merci, la forza-lavoro deve andare a casa ogni sera e riprodursi prima di poter riprendere il lavoro il mattino dopo. Il limite della giornata lavorativa implica un limite al tempo di sposta­ mento quotidiano. I mercati del lavoro quotidiani sono quindi limitati all’interno di uno spazio di pendolarità che è dato. I loro confini geo­ grafici sono flessibili: dipendono dalla lunghezza della giornata lavora­ tiva, dai tempi e i dai costi della pendolarità (date le modalità e le tecni­ che della mobilità di massa) e dalle condizioni sociali ritenute accetta­ bili per la riproduzione della forza-lavoro, che di solito sono un risultato culturale della lotta di classe. Ci sono quindi, a prima vista, buoni motivi per considerare il processo urbano nei termini della for­ ma e del funzionamento di mercati del lavoro geograficamente integra­ ti, all’interno dei quali sono in linea di principio possibili sostituzioni quotidiane di forza-lavoro e di opportunità di lavoro. Almeno in parte, la storia dell’urbanizzazione^dglxaptìdeÀla.Siflliajdeirévoluzìonéj^glla geografia del mercato del lavoro.

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Esso è in perpetua trasformazione. Con grandi investimenti di capi­ tale si cerca di ottenere miglioramenti relativamente piccoli nelle condi­ zioni di pendolarità quotidiana. L'immigrazione e la crescita della po­ polazione aumentano l’offerta di forza-lavoro, ma richiedono anche in­ vestimenti notevoli e a volte massicci in alloggi, cibo e assistenza. L’investimento nella formazione e nella produzione di competenze è un processo di lunga durata, che a sua volta assorbe spesso grandi quantità di risorse. Le aspirazioni e le richieste dei lavoratori, soprattutto quan­ do sono intensificate dalla scarsità deE’offerta di lavoro o dalla lotta di classe organizzata, hanno un loro peculiare influsso sulle quantità e sul­ le qualità dell’offerta di lavoro, influenzando così le possibilità di accu­ mulazione e di trasformazione nella struttura sociotecnica della produ­ zione. Il risultato è una notevole differenziazione tra mercati del lavoro geograficamente distinti, con inevitabili conseguenze che si ripercuoto­ no sull’urbanizzazione capitalista. Consideriamo ora il momento della produzione. Con l’eccezione, unica ma importante, dei trasporti e delle comunicazioni, i processi lavo­ rativi sono fissati a un posto previsto per tutta la durata del lavoro (il tempo necessario per produrre la merce finita). Ma anche il cuoco di pa­ sti rapidi, che ha un periodo lavorativo molto breve, può utilizzare una dotazione di capitale fisso che ha una vita economica di molti anni. E parte di questo capitale fisso non può essere spostata senza essere di­ strutta. La produzione non può cambiare localizzazione nel bel mezzo del periodo lavorativo senza distruggere una parte del capitale coinvol­ to, e l’immobilità relativa e la durata della vita economica del capitale fis­ so utilizzato sono elementi ulteriori che limitano la mobilità geografica. La capacità di muoversi dipende anche dalle condizioni sociotecniche della produzione. L’approccio marxista considera l’evoluzione di queste condizioni come il risultato della concorrenza intercapitalistica o della lotta di classe, con in più dinamiche di diffusione ed effetti di trasferi­ mento da un settore industriale all’altro. Qui però devo introdurre una modifica fondamentale dell’analisi marxiana. Bisogna sottolineare come la concorrenza intercapitalista e la lotta di classe stimolino la concorren­ za spaziale per il dominio delle localizzazioni favorevoli, e come la scelta di un dato assetto sociotecnico sia anche una risposta alle particolarità della situazione geografica. Vedere le cose in questi termini ci aiuta a co­ gliere meglio le relazioni tra la divisione del lavoro sociale e la divisione del lavoro spaziale di una data società. E immediatamente evidente, per esempio, che le forme sociotecni­ che del processo lavorativo non sono indipendenti dalle possibilità geo­ grafiche offerte dai mercati del lavoro e delle merci dati, ed è altrettanto evidente il contrario. Suddividere la produzione in molte unità speda­

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lizzate consente una migliore 'mettendo quindi ai capitalisti di sfruttarnei differenziali e;di accumula­ re capitale sempre più velocemente. Anche funzioni limitate possono esséfe'su3ciivisè‘s^zìamént^riin'anendo sempre sotto il controllo pia­ nificato dell’impresa. Questo fenomeno vale non solo per la separazio­ ne delle funzioni di progettazione, pianificazione, produzione, com­ mercializzazione, ma anche per tutti gli elementi di un sistema di pro­ duzione complesso, i quali possono essere prodotti in molti luoghi differenti, sparsi per il mondo, per poi venire riuniti nel prodotto finale. Queste separazioni geografiche hanno un impatto di rilievo sulle strut­ ture del commercio e sono realizzabili solo nella misura in cui piani di produzione integrati possono darsi un’organizzazione efficiente nello spazio. Il risultato è un’evidente tensione tra i vantaggi della concentra­ zione geografica, che minimizza la separazione spaziale (mettendo in­ sieme tutte le funzioni in una fabbrica, o agglomerando diverse unità produttive in un solo centro urbano), e quelli della dispersione geogra­ fica, che fornisce opportunità di ulteriore accumulazione grazie allo sfruttamento di determinati vantaggi geografici, naturali o artificiali. La soluzione che viene data a questa tensione ha conseguenze rilevanti per la forma del sistema urbano e per il suo assetto. Il sistema urbano a sua volta, in quanto strutturato al fine di rendere più facile il coordinamen­ to temporale di intensi flussi spaziali, influisce sul modo in cui la tensio­ ne viene risolta. I vantaggi derivanti dall’unione della divisione sociale del lavoro con quella geografica possono quindi essere investiti per ac­ celerare l’accumulazione. Nel capitalismo, normalmente, produzione e consumo sono sepa­ rati dallo scambio di mercato. Questa situazione ha conseguenze molto importanti per l’urbanizzazione e per la struttura urbana. Gli spazi e i tempi di lavoro si separano dagli spazix.dai tempLdi„con,sumo-in---un modo sconosciuto., alle, culture artigiane e contadine. Il momento del consumo, come quello della produzione, si presta poi a una frammen­ tazione ulteriore. Le vacanze, il divertimento e le sedi di spettacoli si separano dagli spazi della riproduzione quotidiana, e anche questa si frammenta nel bar vicino all’ufficio, nella cucina, nella trattoria di quartiere. Dal punto di vista del processo urbano, la divisione spaziale del consumo è importante quanto la divisione spaziale del lavoro: le qualità di New York, Parigi, Roma e il modo in cui queste e altre città sono organizzate non potrebbero essere compresi prescindendo da tali fenomeni. Si tratta comunque di un argomento che non viene molto esplorato dalla teoria marxiana, in parte per la tendenza a concentrarsi esclusivamente sulla produzione, che è il momento egemonico nella circolazione del capitale.

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Si può guardare al consumo anche da un’altra prospettiva. La circo­ lazione del capitale, se vista in aggregato, presuppone l’espansione co­ stante della domanda reale per poter realizzare sul mercato il valore creato nella produzione. Ma da dove viene la domanda reale? (cfr. Har­ vey 1982, cap. in). Essa ha tre grandi origini: i lavoratori acquistano be­ ni-salario (a seconda dello standard di vita che hanno raggiunto); la borghesia acquista beni necessari e di lusso, e i capitalisti acquistano beni-investimento (macchine e fabbriche) e semilavorati. Ognuno di questi mercati ha le sue qualità e le sue sensibilità geografiche. La divi­ sione spaziale del lavoro premia il flusso continuo: diventa quindi inelu­ dibile la spinta al coordinamento stretto di tempi e spazi e alla mimimizzazione dei costi. E consumo finale, soprattutto quello di oggetti di lusso da parte della borghesia, è meno sensibile a questi vincoli, anche se nel caso dei lavoratori salariati è molto importante il tenore di vita abituale (il salario reale) e la matrice di costi in cui ha luogo la riprodu­ zione sociale della forza-lavoro. Comunque, bisogna tenere presente anche il fatto che il consumo finale richiede l’uso di una certa quantità di strumenti e quindi di capitale fisso. Quanto più questi sono stabili e di lunga durata (gli alloggi, per esempio), tanto più il “modo di consu­ mo” tende a diventare stabile dal punto di vista quantitativo, qualitati­ vo e geografico. La divisione spaziale del consumo implica una struttu­ razione tendenzialmente stabile degli spazi sociali e fisici sia all’interno dei centri urbani sia nei territori che li separano. Veniamo infine al momento del denaro. Esso assume forme diverse, dall’oro come merce tangibile all’indefinitezza di una linea di credito aperta. Il denaro ha la qualità peculiare di concentrare nel tempo e nello spazio una forma di potere universale in cui si esprime la temporalità storica del mercato mondiale. Esso rappresenta la massima concentra­ zione di potere sociale nella massima dispersione possibile. Può essere utilizzato per superare i limiti geografici dei mercati delle merci e del la­ voro, e per determinare una dispersione ancora maggiore della divisione spaziale del lavoro e del consumo. Può anche trascendere tutti i limiti della concentrazione geografica e consentire che una quantità enorme di potere sociale si concentri in poche mani e in pochi luoghi. Può essere distribuito su orizzonti temporali lunghi, come nel caso del debito pub­ blico, degli investimenti azionari, delle ipoteche e così via, o può essere riunito in dati momenti per dati fini. Come forma superiore di potere so­ ciale, esso può comandare non solo la proprietà di altri mezzi di produ­ zione, ma anche lo spazio e il tempo come fonti di potere sociale (vedi Consciousness and the Urban Experience, cap. l). Avere denaro e la possi­ bilità di disporne dà un potere sociale formidabile. Però, nel capitali­ smo, questo potere dipende dall’uso continuo di denaro come capitale.

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Il denaro, la finanza e il credito formano un sistema nervoso centra­ le gerarchicamente organizzato che controlla la circolazione del capitale nel suo complesso ed esprime un interesse di classe, anche se questo av­ viene attraverso un’azione individuale (vedi Harvey 1982, capp. IX e x). I mercati finanziari si distinguono dai mercati delle merci e del lavoro e acquisiscono una certa autonomia rispetto alla produzione. I centri urbani diventano quindi centri di coordinamento, dijcelta^di controllo, noìmaìmaHe geffrdn.iaaifinte^organi^ata. Ricapitoliamo. L’esame dei diversi momenti e dei passaggi di cui si compone la circolazione del capitale mostra che essa ha una base geo­ grafica, e che questa consiste nella strutturazione dei mercati del lavoro e delle merci; nella divisione spaziale tra produzione e consumo, in condi­ zioni sociotecniche che a loro volta sono in parte adattamenti a variazio­ ni geografiche; e in sistemi di coordinamento finanziario gerarchicamen­ te organizzati. Il flusso di capitale presuppone uno stretto coordinamen­ to temporale e spaziale in un quadro di frammentazione crescente. E impossibile immaginare che un simile processo materiale abbia luogo senza che venga prodotto un qualche tipo di urbanizzazione come “pae­ saggio razionale” all’interno del quale possa procedere l’accumulazione di capitale. L’acciimulazione-d-i-eapi-tale-e-la produzione-di urbanizzazione procedono di pari.p.^sso. Questa prospettiva dev’essere modificata in due punti. I profitti di­ pendono dalla realizzazione del plusvalore creato nella produzione in un arco di tempo determinato. Il tempo di rotazione del capitale (il tempo che si impiega per riottenere l’investimento iniziale più un pro­ fitto) è una dimensione molto importante: è da qui che viene il vecchio adagio “il tempo è denaro”. La concorrenza dà luogo a forti pressioni per la riduzione del tempo di rotazione. La medesima pressione si esprime spazialmente. Poiché ogni movimento nello spazio prende tempo e denaro, la concorrenza spinge il capitalismo verso l’eliminazio­ ne. delle barriere spaziali e «la distruzione dello spazio a opera del tem­ po». Rendere possibile l’aumento dell’efficienza del coordinamento spaziotcmpo.rale è.una delle caratteristiche essenziali del', urbanizzazio­ ne capitalistica. L’analisi della circolazione del capitale mostra dunque che la matri­ ce urbana e il “paesaggio razionale” per I’accumulazione devono essere soggetti a una trasformazione continua. Anche in questo senso l’accu­ mulazione di capitale, l’innovazione tecnologica e l’urbanizzazione ca­ pitalista devono stare insieme.

2. Le città, i surplus e le origini urbane del capitalismo Il rapporto tra formazione delle città e processi di produzione, appro­ priazione e concentrazione di un surplus economico è stato messo in luce da tempo (vedi Harvey 1978, pagg. 216-226). La circolazione del capitale presuppone l’esistenza di surplus, sia di capitale che di forzalavoro. Un esame più attento di questa dinamica mostra che la circola­ zione di capitale, una volta messa in moto, produce surplus di capitale sotto forma di profitto, insieme con surplus relativi di lavoro che ven­ gono ottenuti per mezzo di innovazioni nelle condizioni sociotecniche di produzione, con possibile risparmio di lavoro. Buona parte della storia del capitalismo può essere scritta attorno a questo tema: produ­ zione e assorbimento di surplus di capitale e di lavoro. Quando il capi­ talismo produce questi surplus nella misura precisa di cui ha bisogno per continuare il suo percorso espansivo, si hanno fasi di crescita equi­ librata e apparentemente autopropulsiva. D’altra parte, la tendenza al­ la sovraccumulazione pone un problema: come si possono assorbire o impiegare i surplus, senza svalutare o distruggere capitale e forza-lavo­ ro? Questa tensione tra il bisogno di produrre e assorbire surplus, sia di capitale che di forza-lavoro, sta alla base della dinamica capitalista. Essa è strettamente collegata con la storia dell’urbanizzazione capitali­ sta. Nelle pagine seguenti userò questo legame come asse centrale del­ la mia analisi. Nei primi stadi del capitalismo, i surplus sono prodotti per lo più da processi esogeni alla circolazione del capitale propriamente detta. L’e­ spropriazione violenta dei mezzi di produzione nell’accumulazione pri­ mitiva, o anche manovre di appropriazione più sottili, mettono nelle mani di pochi i surplus di capitale, mentre la maggioranza è costretta a diventare salariata per sopravvivere. Potenzialmente il capitale esiste comunque in molte forme: dunque quello che realmente conta sono le varie mosse di appropriazione di denaro, beni, risorse produttive (terra, ambienti costruiti, mezzi di comunicazione e così via), diritti sulla for­ za-lavoro; e poi la trasformazione di tutto ciò in forma di merce per mezzo del valore di scambio. L’appropriazione, la mobilitazione e la concentrazione geografica di questi surplus di capitale e di forza-lavoro in forma di merce costituisce un momento vitale della storia del capita­ lismo, e l’urbanizzazione vi gioca un ruolo fondamentale (cfr. Braudel 1984). Molti sono i mezzi con cui il surplus di capitale viene mobilitato e concentrato geograficamente in poche mani. Tra questi i principali sono la concentrazione urbana della ricchezza operata dapcomrhefcianti, che drenano denaro e merci da tutto il mondo per mezzo di scàmbi ineguali o mal strutturati; la trasformazione della proprietà fondiaria_in

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una merce, per produrre ricchezza urbana tramite la sua monetizzazione diretta o l’usura; e ancora l’estrazione diretta di surplus dalla campa­ gna per mezzo di affitti in denaro, tassazione statale, e altri meccanismi di redistribuzione, come quelli organizzati dalla Chiesa. L’uso di questi surplus al fine di costruire infrastrutture fisiche, sistemi di comunica­ zione e centri di mercato crea una base potenziale per la circolazione del capitale, proprio mentre la concentrazione nei centri urbani di valo­ ri d’uso mercificati, tra cui i lavoratori salariati, crea le condizioni di partenza in cui la circolazione del capitale può mettersi più efficace­ mente in moto. L’urbanizzazione, insieme con l’affitto in denaro, gli interessi degli usurai, il profitto dei commercianti e la tassazione a opera dello stato, deve fare la sua comparsa storica prima che possa incominciare la for­ ma tipica di circolazione di capitale attraverso la produzione (cfr. Il ca­ pitale, libro I, pag. 264). La successione storica è quindi l’esatto contra­ rio della sequenza logico-analitica che utilizziamo oggi per studiare le relazioni tra produzione e distribuzione, e il loro rapporto con gli inve­ stimenti a lungo termine in infrastrutture fisiche e sociali nel loro conte­ sto urbano. Prima che il capitalismo possa garantirsi un controllo diret­ to sulla produzicwtre sul consumo-immediati, è'necessària la creazione eh un ambiente costruito su cui possano appoggiarsi produzione, con­ sumo e scambio. Prima cKe si crei'là base materfele^perihxnnande^apitalisticò’sullo stato, o anche solo che nasca una sorta di alleanza di classe urbana nella quale i capitalisti abbiano un ruolo rilevante, è ne­ cessario che il potere politico e l’autorità dello stato si strutturino in modp-vàntàggiosò per l’accumulazione primitiva e la mobilitazione dei surplus di capitale e lavoro. La crescita di centri urbani con una classe dominante che si appropria di ricchezze e denaro, con una filosofia mercantilista, e che detiene un’autorità superiore e il potere militare è quindi stato, come mostra Braudel (1984), un momento cruciale nello sviluppo del capitalismo. La maturazione del capitalismo si fonda su un processo di scambio di ruoli graduale e a volte rivoluzionario, nel corso del quale i processi politici, le alleanze di classe, le rendite, gli interessi, il profitto commerciale, la tassazione, e tutte le risorse fornite dalle in­ frastrutture fisiche e sociali vengono trasformati da elementi interdi­ pendenti (nel quadro di precondizioni tra loro connesse) e determinan­ ti di processi politico-economici in meccanismi strettamente funzionali all’accumulazione capitalistica. Con questo rovesciamento, il ruolo del processo urbano e i meccanismi del suo sviluppo vanno incontro a una drastica trasformazione. L’accumulazione primitiva e gli altri processi di appropriazione non garantiscono automaticamente che i surplus vengano riuniti nel tempo e

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nello spazio proprio nelle proporzioni richieste perché si possa avviare una rilevante accumulazione di capitale. Nella Gran Bretagna del xvni secolo, per esempio, i forti surplus di capitale erano sovrabbondanti ri­ spetto a quelli di forza-lavoro. I salari si sono così alzati, e buona parte del surplus è stato assorbito dai consumi. Di contro, gran parte dei paesi africani, asiatici e latino-americani si trova oggi in una situazione in cui è necessario espropriare immense quantità di forza-lavoro per dare luogo a poco capitale: si crea così un surplus massiccio e cronico di forza-lavo­ ro in un contesto di grave carenza di capitale. Possono quindi crearsi e mantenersi situazioni in cui i surplus di un tipo non possono essere as­ sorbiti per la mancanza di altri surplus nelle quantità e qualità necessa­ rie. Nelle condizioni attuali, ciò vuol dire che viene svalutato il capitale o la forza-lavoro, ma non possono essere svalutati tutti e due insieme. Nel­ la misura in cui i rapporti di potere dominanti favoriscono il capitale, e le sue qualità possono rapidamente adattarsi alle carenze di forza-lavoro per mezzo dell’innovazione tecnologica, è probabile che la condizione persistente, al di là delle congiunture, sarà di carenza di capitale e di sur­ plus di forza-lavoro. Questa è, per esempio, la caratteristica di buona parte dell’urbanizzazione contemporanea del Terzo Mondo. La riunione in un contesto urbano di simili surplus non garantisce, a ogni modo, che questi saranno usati capitalisticamente. Ci troviamo qui di fronte a un problema storico di straordinaria complessità politica, so­ ciale ed economica. I centri urbani che hanno avuto maggiore successo dal punto di vista della riunione dei surplus hanno spesso utilizzato il loro potere politico in modo ostile allo sviluppo diretto dell’accumula­ zione di capitale tramite la produzione. Quest’ultima, in effetti, implica una radicale trasformazione della struttura di classe e dei rapporti di potere, nonché il venir meno dei controlli sull’innovazione tecnologica: trasformazioni che avrebbero potuto minacciare, come sempre poi ac­ cade, ogni distribuzione data delle risorse. Per di più, lo scopo dell’appròpriazione dei surplus è di accumulare ricchezza come base per con­ sumi elevati, e coloro che detengono questa ricchezza non sono in gra­ do di capire immediatamente che il miglior modo di conservarla è utilizzarla come capitale. Le alleanze di classe urbane più potenti hanno spesso usato il loro potere sociale e politico per organizzarsi contro il capitalismo che avevano contribuito a creare. Purtroppo per le città-stato, i metodi utilizzati per riunire i surplus finiscono per minare il loro potere e il loro controllo monopolistico su denaro, spazio e flussi di merci. Il commercio implica da sempre la monetizzazione, e questo ha inevitabilmente un effetto negativo sulla coe­ sione di una comunità (Grundrisse, vol. I, pagg. 183-184; Consciousness and the Urban Experience, cap. l). Chiunque possieda del denaro può es­

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sere tentato di usarlo per fini personali, al di fuori dei poteri di controllo di qualsiasi alleanza di classe urbana. Il commercio ha inoltre come con­ seguenza la formazione di altri centri commerciali che in seguito posso­ no trasformarsi in rivali. E nella misura in cui i nuovi prodotti e le tecno­ logie militari diventano aspetti rilevanti del potere di una città, l’innova­ zione diventa una forza vitale, che nessuna alleanza di classe a base urbana può permettersi di reprimere se vuole sopravvivere e prosperare. La concorrenza tra i centri urbani diventa a questo punto un freno ai controlli monopolistici interni, e tende a creare condizioni di instabilità in cui la circolazione di capitale fondata sulla produzione trova più facil­ mente una base. La separazione dei lavoratori dal controllo dei mezzi di produzio­ ne, tramite violenza fisica o legale in alcuni casi, tramite la loro attra­ zione da parte delle opportunità della vita urbana in altri, e dunque la loro trasformazione in lavoratori salariati costituiscono l’altro presup­ posto delle condizioni necessarie allo sviluppo del capitale come modo di produzione e di circolazione egemonico. Anche in questo caso, non vi sono garanzie del fatto che i lavoratori spossessati si trasformino in salariati. Lo spostamento dei lavoratori dalla campagna alla città e la loro socializzazione al proletariato sono processi tutt’altro che tran­ quilli (Pollard 1965). Non è stato semplice in passato, né lo è adesso, abituare i lavoratori al lavoro salariato, né inculcare loro la disciplina del lavoro e tutto quanto vi si collega, né è stato facile formare dei mer­ cati del lavoro libero che funzionassero. I lavoratori stessi hanno spes­ so ricercato e acquisito poteri corporativi che vincolavano la libertà del lavoro: nel fare ciò hanno imparato ad appoggiare le iniziative mercantiliste e corporative dei loro signori. Le gilde urbane e l’organizzazione corporativa del lavoro hanno quindi formato una barriera piuttosto re­ sistente alla Ubera accumulazione di capitale. Questo problema, per esempio, è durato a lungo in Francia, ancora per tutto il XIX secolo, co­ me dimostra il caso della Parigi del Secondo Impero (vedi Consciou­ sness and the Urban Experience, cap. III). Se i mercati del lavoro si irri­ gidiscono in configurazioni bloccate, il processo lavorativo tende a ri­ stagnare in mosaici monopolistici e controlli corporativi. Ci sono poi processi che minano i controlli delle gilde, degli artigia­ ni e dei mestieri. L’immigrazione del lavoro rurale espropriato verso i centri urbani fa sì che non venga mai meno la pressione dei surplus di lavoro. La concorrenza tra i centri urbani, per nuovi prodotti e nuove tecnologie, implica una pressione nel senso dell’apertura del processo lavorativo alle nuove possibilità, pressione che viene a volte organizzata direttamente dalla classe dominante e che si traduce quindi in aspre lotte di classe. I lavoratori salariati stessi possono mettere in crisi la lo­

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gica corporativa, soprattutto se aspirano, come è spesso accaduto, a di­ ventare capi di bottega e piccoli imprenditori. Le qualità originarie del­ la forza-lavoro e la capacità del lavoro di organizzarsi nelle diverse in­ dustrie hanno sempre, comunque, un impatto rilevante sulla possibilità di utilizzare la ricchezza in surplus come capitale nella produzione. E ovvio che il ritmo di accumulazione e di innovazione tecnologica cono­ sca grandi variazioni da un centro urbano all’altro. Senza la forza della concorrenza interurbana, il capitalismo sarebbe penetrato nella produ­ zione molto più lentamente, e forse la sua espansione sarebbe stata del tutto bloccata. Per queste ragioni, l’industrializzazione capitalista fa la sua compar­ sa più facilmente in centri urbani del tutto nuovi, dove la politica dei controlli monopolistici e le tattiche mercantiliste sono meno radicate. In alcuni casi la penetrazione capitalista nel mondo agricolo, accompa­ gnata da una innovazione tecnologica, può costituire il fronte di svilup­ po capitalistico più avanzato. Le circostanze che danno via libera alla circolazione e all’accumulazione di capitale per mezzo della produzio­ ne, che consentono ai mercati del lavoro di funzionare senza ostacoli e alle nuove tecnologie e forme di organizzazione del lavoro di dispiegar­ si senza vincoli, sono evidentemente svariate, anche se limitate (Merrington 1975; Holton 1984). I centri urbani, comunque, presentano sempre vantaggi cruciali rispetto all’accumulazione. La presenza di molte risorse in un ambiente costruito, anche se è orientata in primo luogo al commercio, al consumo e al dominio politico-militare, può es­ sere trasformata quasi a costo zero in risorse utili per l’accumulazione di capitale: il fondo di consumo può essere trasformato in capitale fisso semplicemente cambiandone la modalità d’uso. I sistemi di trasporto e di comunicazione realizzati per agevolare l’appropriazione, il commer­ cio, il consumo e il controllo militare possono essere usati anche dai produttori capitalisti. Paesi come la Gran Bretagna e la Francia del XVIII secolo, che disponevano di grandi risorse di questo tipo, si trova­ vano quindi in una situazione molto più favorevole allo sviluppo capita­ listico di quanto non succeda oggi a buona parte dei paesi del Terzo Mondo, le cui risorse di base sono molto scarse. Inoltre, le istituzioni sociali e politiche, i diritti di proprietà e i sistemi di comando sul dena­ ro (banche e tesorerie) possono essere mobilitati anch’essi nella geopo­ litica dell’accumulazione di capitale, come centri di comando sulla cir­ colazione. L’ingresso in un modo di produzione e circolazione preva­ lentemente capitalista non è quindi stato un evento strettamente urbano o rurale. D’altra parte, senza l’accumulazione urbana di surplus di capitale e di forza-lavoro, non si sarebbe data una delle condizioni indispensabili allo sviluppo del capitalismo.

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La transizione verso un modo di produzione capitalista viene segna­ lata dallo spostamento del luogo di produzione dei surplus di capitale e di lavoro. Mentre prima questi si producono in processi esterni alla cir­ colazione di capitale, essi vengono poi internalizzati nella circolazione stessa. Come ho detto, questo spostamento è segnalato anche da un ro­ vesciamento di ruolo in cui la rendita, l’interesse, il profitto commer­ ciale, il potere e le funzioni dello stato, nonché la produzione di am­ bienti costruiti, vengono asserviti all’accumulazione di capitale e alla sua logica. Si consideri, per esempio, il modo di produzione e di uso del pae­ saggio fisico e sociale necessario per l’accumulazione di capitale. La sto­ ria di come questo paesaggio è prodotto e utilizzato è centrale nella mia teoria del processo urbano. Vi attribuisco un particolare risalto perché è il risultato di una serie di processi: qualcosa di complicato, che confe­ risce una forma e un assetto definiti a un’urbanizzazione capitalista che altrimenti sembrerebbe molto più flessibile e fluida di quanto non sia in realtà. Il passaggio da una condizione storica in cui questo paesaggio è costruito da forze che si trovano al di fuori della logica dell’accumula­ zione, a una che vi è integrata, ha inizio nel momento in cui la circola­ zione di capitale produce i surplus necessari e le condizioni sufficienti per dare forma allo spazio fisico e sociale all’interno dei suoi confini. E questo accade allorché la sovraccumulazione incomincia a far presa sul­ le condizioni immediate di produzione e di consumo, quando insomma le crisi diventano una chiara manifestazione delle contraddizioni inter­ ne del capitalismo piuttosto che una ragionevole conseguenza di circo­ stanze esterne come le calamità naturali (un raccolto povero) o rotture sociali (guerre d’espansione, o conflitti interni, civili o politici). Anche se ve ne sono stati accenni in precedenza, il 1848 è stato forse la prima manifestazione evidente e priva di ambiguità di questo tipo di crisi al­ l’interno del mondo capitalista. La produzione del paesaggio fisico e sociale del capitalismo è stata quindi sempre più coinvolta nella ricerca di soluzioni al problema della sovraccumulazione, tramite l’assorbimento dei surplus di capitale e lavo­ ro per mezzo di un qualche tipo di spostamento temporale e geografico del capitale in surplus nella produzione di infrastrutture fisiche e sociali (si tratta dei circuiti “secondario” e “terziario” rappresentati nella fig. 3). In The Urbanization of Capital (ma vedi anche Harvey 1982; 1985) mi sono occupato a lungo delle potenzialità e dei limiti di tale processo. Ba­ sta comunque notare che in questo processo i problemi di sovraccumu­ lazione e di svalutazione sono trasferiti al paesaggio fisico e sociale in modo tale che tutta la sua evoluzione storica viene da essi influenzata. Perché questo possa succedere, comunque, devono darsi alcune precon-

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dizioni, compresa, naturalmente, la più importante di tutte, e cioè il co­ mando di produzione e consumo immediati da parte del capitalista in­ dustriale. A questo punto, passiamo a occuparci di questo fenomeno e della forma di urbanizzazione che vi si collega.

3. La produzione capitalistica di surplus e la forma di urbanizzazione industriale

Con lo sviluppo della città industriale la circolazione del capitale si im­ mette nella produzione e nel consumo immediati. Lo spostamento della modalità di appropriazione del surplus dal commercio, dai monopoli e dal controllo militare alla produzione diretta di surplus per mezzo del comando capitalistico sul processo lavorativo nella produzione è stato, a ogni modo, piuttosto lento. Naturalmente non tutti i settori produtti­ vi sono stati immediatamente catturati. L’agricoltura, come è noto, è ri­ masta a lungo recalcitrante, e ha ceduto, nei paesi capitalistici avanzati, solo dopo la seconda guerra mondiale, e anche allora non ovunque. I settori sottomessi vanno incontro a una drastica trasformazione dell’or­ ganizzazione delle condizioni sociotecniche di produzione, e del fun­ zionamento dei mercati del lavoro e delle merci. Di conseguenza, tutta la base dell’urbanizzazione deve cambiare. La città preindustriale deve essere disciplinata e svezzata, deve abbandona­ re le sue propensioni mercantiliste, i monopoli, l’idea che il luogo abbia un primato sull’organizzazione capitalistica dello spazio nella quale de­ vono prevalere le localizzazioni relative, a scapito di ogni localizzazione assoluta. L’incorporazione della città-stato nel quadro più ampio dello stato-nazione, una tensione studiata a fondo da Braudel (1984), rappre­ senta un passo importante nella direzione giusta, permettendo un fun­ zionamento più libero dei mercati del lavoro, delle merci e del credito, nonché un flusso più libero di capitale e di forza-lavoro tra settori pro­ duttivi e regioni. I capitalisti industriali sono alla ricerca di nuove fonti di risorse e di nuove condizioni sociotecniche di produzione, all’interno di aree urbane del tutto nuove e al di fuori dei controlli monopolistici prevalenti nei vecchi centri urbani. Essi possono trovare quello che cer­ cano solo in un contesto in cui uno stato nazionale relativamente forte abbia reso sicure le basi politiche e istituzionali della proprietà privata e garantisca un controllo dei mezzi di produzione che consenta lo sfrutta­ mento della forza-lavoro. Dove il capitalismo industriale si è inserito su strutture preesistenti, come è accaduto a Parigi e a Londra, ha assunto caratteristiche molto diverse da quelle dell’industrialismo capitalista fiorito a Manchester o a Birmingham. Alcuni, infatti, attribuiscono la

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relativa stagnazione della Francia aU’incapacità di rompere le strutture urbane preesistenti, e al potere politico di alleanze di classe molto forti a base urbana. Solo una città importante, Saint-Etienne, fu fondata nel XIX secolo. In Gran Bretagna, in Germania e negli Stati Uniti le cose so­ no andate diversamente: ovunque sono stati fondati nuovi centri indu­ striali, sotto l’occhio acuto delle istituzioni e delle leggi di un forte pote­ re statale. La città industriale è quindi un nuovo elemento centrale dei proces­ si di accumulazione. Il suo tratto distintivo è lo sfruttamento diretto del lavoro vivo nella produzione. Questo implica la concentrazione geogra­ fica della forza-lavoro e della forza produttiva, espressa nel sistema di fabbrica, e l’apertura degli accessi al mercato mondiale: questo, a sua volta, implica il consolidamento del denaro e del credito come strumen­ ti generali. In breve, essa porta con sé l’implementazione di tutti gli ele­ menti caratteristici dell’organizzazione della circolazione del capitale nel tempo e nello spazio, nei termini esposti sopra. La strutturazione geografica dei mercati del lavoro e delle merci, delle divisioni spaziali e sociali della produzione e del consumo, e di diversi assetti sociotecnici del processo produttivo si fa molto più evidente nel paesaggio urbano. La concorrenza intercapitalista e la lotta di classe spingono tutta la di­ namica dell’accumulazione verso la produzione di paesaggi fisici e so­ ciali razionali e finalizzati all’accumulazione di capitale. La ricerca del­ l’equilibrio ottimale tra il controllo sulle localizzazioni vantaggiose e la creazione di nuove, accompagnata dagli aggiustamenti delle condizioni sociotecniche di produzione, diventa una forza motrice molto più visi­ bile del processo urbano. Allo stesso modo, diminuisce la possibilità per qualsiasi alleanza di classe a base urbana di esercitare un controllo monopolistico, sia inter­ no che a livello mondiale. Non voglio dire che alcuni tra i centri indu­ striali più importanti, come Manchester nel XIX secolo e Detroit nel XX, non fossero dotati di potere sufficiente per imitare per un po’ il com­ portamento di ceti analoghi in epoche precedenti. Le pretese di gran­ deur geopolitica furono però ben presto deluse, e scomparvero nelle di­ namiche di crescita ed espansione geografica, di mutamento tecnologi­ co e innovazione di prodotto, di lotta di classe e concorrenza internazionale all’interno di un quadro spaziale estremamente mobile, strutturato dalle rivoluzioni dei trasporti e della comunicazione, e di di­ struttive crisi di sovraccumulazione. Anche se la città industriale è un centro di accumulazione e di produzione di surplus, bisogna sempre vederla come un luogo a sé stante nella divisione del lavoro internazio­ nale, un semplice elemento in un sistema capitalistico sempre più gene­ ralizzato di sviluppo geografico ineguale.

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L’organizzazione urbana ha un ruolo vitale in questa evoluzione. Anche se le singole città, proprio come le singole aziende, esercitano un controllo sempre minore sui processi e sui risultati aggregati, la loro prestazione individuale nella concorrenza interurbana dà il tono, il rit­ mo e la direzione dello sviluppo storico-geografico. La città industriale diventa, in breve, un mezzo concreto ai fini della definizione del lavoro astratto sul mercato mondiale (vedi Harvey 1982, pagg. 422-426). Il punto di riferimento per valutare la prestazione di ogni città diventa quindi il suo valore sul mercato mondiale. La concezione della città in­ dustriale come unità in concorrenza all’interno dello sviluppo geografi­ co ineguale del capitalismo globale acquista, in queste condizioni, tutto il suo significato. Dopo i tentativi di darsi un atteggiamento geopolitico, ruolo che ri­ mane riservato agli stati nazionali o alle loro capitali, come Parigi, i compiti della politica urbana nella città industriale devono rivolgersi ad aspetti più prosaici. I problemi di organizzazione e di controllo, di ge­ stione di strutture fisiche e sociali, rappresentano qualcosa di compietamente diverso da tutto ciò che si conosceva del passato. Nel frattempo, muta anche il contesto in cui si formano le alleanze di classe, e le strut­ ture di classe si ridefiniscono. I conflitti tra capitale e lavoro, e la spinta a riprodurre il rapporto di classe e di dominio fondamentale divengono i nodi centrali delle politiche urbane. La creazione di strutture fisiche e sociali in grado di sostenere la riproduzione di capitale e forza-lavoro, e di servire come contesti efficienti in cui organizzare la produzione, il consumo e lo scambio, diventa il motivo principale dell’azione di politi­ ci e dirigenti d’azienda. L’approccio con cui affrontare questi problemi deve tenere sempre presenti l’efficienza e i vincoli economici: così è possibile garantire crescita, accumulazione, innovazione ed efficienza nella concorrenza interurbana. Anche gli investimenti pubblici devono essere organizzati su scala crescente, e sempre più sul lungo periodo, in modo da compensare la sottoproduzione di infrastrutture a uso colletti­ vo da parte dei singoli capitalisti. Proprio su questi temi Joseph Chamberlain diede vita a Birmin­ gham, negli anni successivi al 1860, a una forte alleanza di classe che comprendeva rappresentanti dell’industria, del commercio e delle pro­ fessioni, con un buon appoggio da parte della classe operaia. La nascita di una tradizione civica particolare a Leeds, Manchester, Birmingham nel XIX secolo, processo che si ripete in molte nuove città industriali, è parte del tentativo di definire una nuova politica urbana adatta alle nuove circostanze. Le città più antiche, come la Parigi di Haussmann (vedi Consciousness and the Urban Experience, cap. Ill), sono invece co­ strette a percorrere una strada molto più tortuosa per acquisire i van-

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taggi di una modernità capitalistica efficientemente organizzata. Le basi per la formazione di alleanze di classe, e per lo scontro tra queste, sono molto differenti, così come gli obiettivi. Tuttavia i problemi da risolvere sono i medesimi, dall’indebitamento necessario a finanziare gli investi­ menti in infrastrutture, al problema di trovare sistemi di razionalizza­ zione dello spazio urbano complessivo; e anche le tecniche impiegate sono le medesime, in particolare l'uso di competenze ingegneristiche che si traducono in pianificazione urbana razionale. Tutto questo dà luogo a una certa convergenza tattica verso una modalità di amministra­ zione della città specificamente capitalista. Il capitalismo industriale determina grandi trasformazioni in tutti gli aspetti della società civile. Le tradizionali relazioni sociali sono trasfor­ mate o distrutte, e nascono nuove strutture sociali a partire dal libero funzionamento dei mercati del lavoro e da forti correnti di innovazione tecnologica. L’integrazione degli immigrati e l’assorbimento degli squi­ libri determinati dall’innovazione tecnologica pongono problemi rile­ vanti alle politiche socioeconomiche e alla gestione della cosa pubblica. Il ruolo delle donne cambia, sia nel mercato del lavoro che in famiglia, mentre quest’ultima deve riuscire ad adattarsi alla compravendita di la­ voro come modo di vivere, ridefinendosi in questo quadro. Contempo­ raneamente, i processi di riproduzione sociale devono incorporare al proprio interno meccanismi capaci di produrre offerta di lavoro con le giuste qualità e nella giusta quantità. Si deve prestare attenzione a pro­ blemi di questo tipo, proprio nel momento in cui i legami della società civile rischiano di crollare per le tensioni apportate dall’alienazione del conflitto di classe, dall’anomia dei mercati del lavoro individualistici, dalla brutalità dei nuovi regimi di comando. Sono perciò necessari no­ tevole talento politico e fini capacità di manovra: la nuova borghesia de­ ve trovare nuovi modi per tenere sotto controllo le turbolenze rivolu­ zionarie. Incomincia seriamente la sorveglianza borghese della famiglia, e l’intervento nel contesto culturale, politico e sociale della classe ope­ raia. Soprattutto, l’alleanza di classe dominante deve trovare il modo di inventare una nuova tradizione comunitaria, che sia capace di fronteg­ giare o assorbire l’antagonismo di classe. Essa lo fa in parte assumendo­ si la responsabilità di vari aspetti della riproduzione della classe operaia (la sanità, l’educazione, il welfare, anche la fornitura di alloggi), e met­ tendo in opera mezzi di coop,tazione e di controllo sociali a volte bruta­ li e a volte morbidi: la polizia, una democratizzazione limitata, il con­ trollo ideologico ottenuto tramite le chiese o i nuovi organi di comuni­ cazione di massa, e la manipolazione dello spazio come forma di potere sociale. Anche la classe operaia deve cercarsi, tra le altre tattiche di so­ pravvivenza, una nuova identità comunitaria. Con il suo aiuto il capita­

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lismo riesce quindi a forgiare, con rapidità impressionante, nuove tradi­ zioni di comunità urbana a partire da uno stato di disintegrazione socia­ le e di conflitto di classe. I legami popolari si fanno così forti che nel breve volgere di una generazione diventano una grande barriera che impedisce la trasformazione urbana. D’altra parte questo senso di comunità urbana, la “coerenza struttu­ rata” delle condizioni sociotecniche di produzione e consumo, e l’inte­ grazione in questa di un’offerta di lavoro adeguata alle esigenze del ca­ pitalismo industriale, non possono dare luogo a una configurazione sta­ bile. Le dinamiche di accumulazione e sovraccumulazione, di mutamento tecnologico e di innovazione di prodotto, la concorrenza internazionale in strutture di spazio relativo in continua trasformazio­ ne, dovuta alle rivoluzioni nei trasporti e nelle comunicazioni, tengono anche la città meglio ‘amministrata e organizzata nel modo più efficiente in una condizione di perpetua incertezza economica. La mobilità del capitale e della forza-lavoro non è controllabile: questa è l’essenza del capitalismo di libero mercato. Né è possibile controllare l’andamento delle opportunità di salario e di profitto disponibili altrove. Ogni parte­ cipante o partigiano di una qualsiasi alleanza di classe urbana si trova di fronte alla tentazione di abbandonarla o di danneggiarla per i propri fi­ ni personali. E all’interno di questa incertezza relativa che si apre lo spazio per una politica urbana relativamente autonoma. Una leadership carismati­ ca, a volte collettiva e a volte individuale, è potenzialmente in grado di costruirsi una reputazione su strategie di crescita e sopravvivenza che siano efficaci in un mondo incerto e competitivo. Le sue strategie posso­ no variare: dalla distruzione creativa e incessante di tutto quanto si met­ te sulla strada della razionalità capitalistica, della modernità e del pro­ gresso, ai tentativi di isolarsi più o meno completamente dalla coercizio­ ne delle leggi della concorrenza introducendo una sorta di socialismo municipale. Un’iniziativa di questo tipo, però, finisce sempre per essere bloccata da due poteri ulteriori. Non si può tenere a bada a lungo la di­ sciplina della concorrenza e del “lavoro astratto” sul mercato mondiale senza cadere in un isolazionismo che finisce per distruggere i successi passati. L’esperienza politica insegna alla borghesia un’altra lezione, uti­ lizzabile per bloccare il radicalismo indebito di qualsiasi movimento po­ litico a base urbana: un controllo superiore dello spazio fornisce una potente arma per la lotta di classe. Le rivoluzioni parigine del 1848 e del 1871 sono state represse dalla borghesia poiché questa era in grado di mobilitare le sue forze nello spazio. Il controllo sul telegrafo e sui flussi di informazione è stato decisivo nel bloccare lo sciopero che nel 1877 si stava rapidamente diffondendo nei centri industriali degli Stati Uniti.

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Chi ha costruito un senso di comunità trasversale agli spazi viene quindi a trovarsi in una posizione di vantaggio rispetto a chi mobilita una co­ munità locale. Dal punto di vista politico, ciò significa che la classe do­ minante si affida sempre più a fonti di potere nazionali e internazionali, e che le alleanze di classe a base urbana vedono sempre più ridotto il proprio spazio di autonomia. Non è quindi casuale che lo stato naziona­ le assuma ruoli e poteri nuovi proprio nel momento in cui, alla fine del XIX secolo, hanno successo svariati movimenti di socialismo municipale e organizzazioni politiche della classe operaia o degli immigrati. Quanto più la borghesia perde il controllo dei centri urbani, tanto più riafferma il ruolo dominante dello stato nazionale, rinforzando quindi l’autorità degli spazi sotto il suo controllo rispetto a quelli che le sfuggono. Que­ sta è la lezione politica che la borghesia trae dalla crescita della città in­ dustriale come accumulatore di capitale e di lotta di classe. In virtù delle forze contradditorie che le danno vita, la città indu­ striale rappresenta quindi una configurazione instabile, sia dal punto di vista economico che da quello politico. Da una parte essa cerca, e a vol­ te ottiene, un ordinamento interno razionale, per agevolare il coordina­ mento spaziotemporale della produzione, dei flussi di beni e di perso­ ne, e del consumo necessario; e insieme per costruire spazi sociali che consentano la riproduzione della forza-lavoro e di poter disporre di strutture ben gestite di previdenza sociale, di produzione di ambienti costruiti e di amministrazione politica urbana. Da questo punto di vista essa ha l’aspetto di un’azienda relativamente efficiente e ben equipag­ giata per competere nell’arena del capitalismo mondiale. D’altra parte, la città industriale è assillata dall’anarchia sociale prodotta dalle crisi di sovraccumulazione, dal cambiamento tecnologico, dalla disoccupazio­ ne e dalla dequalificazione del lavoro, dall’immigrazione, da tutti i tipi di rivalità tra frazioni e di divisioni sia tra le diverse classi che al loro in­ terno. La concorrenza interurbana aumenta i problemi, in un certo senso, perché aumenta le pressioni all’innovazione di prodotto e al mu­ tamento tecnologico. La città industriale, se vuole sopravvivere, deve consolidare la sua funzione di centro d’innovazione accettando però anche i problemi di sovraccumulazione che questo comporta. In quan­ to fabbrica di accumulazione e innovazione, essa deve quindi essere il primo veicolo anche della produzione di sovraccumulazione. Come possono essere assorbiti i fantastici surplus di capitale, e in misura minore di forza-lavoro, senza che questo dia luogo a svalutazio­ ne o distruzione? Le crisi periodiche del capitalismo industriale non hanno mai dato una risposta semplice al problema. I surplus possono essere in teoria assorbiti, e spesso lo sono stati in pratica, semplicemen­ te sviluppando le forze produttive, forza-lavoro compresa, all’interno

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della città industriale: questo richiede l’accrescimento dei flussi di inve­ stimento in infrastrutture fisiche e sociali di lunga durata. In altri casi sono stati assorbiti mediante l’espansione geografica. La ricerca di un “appoggio spaziale” per il problema della sovraccumulazione produce così sviluppo industriale in paesi lontani, e collega l’industrialismo ur­ bano a un sistema di città unite da movimenti di denaro, capitale, mer­ ci, capacità produttiva e forza-lavoro. In questo modo si può ritardare la minaccia dell’accumulazione: è però necessario avviare processi di accumulazione primitiva da società precapitaliste, o costringere forzatamente all’industrializzazione capitalista società, come quella degli Stati Uniti, che avevano tentato un percorso diverso verso il progresso socia­ le. La città industriale deve quindi essere imperialista. Se vuole conser­ vare la sua posizione egemone in un mercato mondiale in rapido svilup­ po, deve essere pronta a unire all’imperialismo politico e militare un imperialismo economico, fondato sulla superiorità e sull’innovazione tecnologiche, e su una migliore organizzazione della produzione, dei mercati dei capitali e del commercio nella divisione sociale e geografica del lavoro. Joseph Chamberlain mise proprio questi temi al centro del­ l’ideologia dell’alleanza di classe, che comprendeva anche molti lavora­ tori, cui diede vita a Birmingham nei difficili anni di depressione dei de­ cenni 1880 e 1890. In ogni caso, la concorrenza interurbana, l’accrescersi a spirale del­ l’innovazione tecnologica e della sovraccumulazione e l’espansionismo geografico costituiscono una miscela altamente instabile. Sono proprio queste pressioni di fondo che hanno prodotto le rivalità geopolitiche in­ ternazionali e due guerre mondiali, la seconda delle quali ha inflitto di­ struzioni enormi e geograficamente ineguali alle risorse urbane: una so­ luzione efficace, ma spaventosamente violenta del problema della so­ vraccumulazione capitalista. Era possibile evitare una soluzione così distruttiva delle contraddizioni interne del capitalismo?

4. L‘assorbimento dei surplus: dal fordismo alla città keynesiana II sottoconsumo può sembrare, e in un certo senso è, l’altra faccia della medaglia della sovraccumulazione. Se le cose stanno così, non è forse possibile risolvere le contraddizioni del capitalismo prestando maggio­ re attenzione all’espansione del consumo, particolarmente di quello delle masse operaie, che non solo sono economicamente bisognose, ma soprattutto sono politicamente aggressive? La ricerca di una soluzione di questo tipo è alla base dello spostamento di attenzione dalla produ­ zione alla distribuzione e al consumo. Il capitalismo, in questo caso,

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cambia strategia, e si sposta dall’urbanizzazione “basata sull’offerta” a un’urbanizzazione “basata sulla domanda”. Analizziamo gli elementi di questo passaggio. Lo sviluppo della grande impresa dalle ceneri dell’azienda familiare e le grandi ristrutturazioni dei processi lavorativi in molti settori indu­ striali permettono a numerosi aspetti della produzione di non dipende­ re dall’accesso a una determinata risorsa naturale o urbana. L’industria diventa sempre più libera, non tanto dal calcolo dei vantaggi locali in termini di offerta di lavoro o di infrastrutture fisiche e sociali: essa ora è sicuramente in grado di sfruttare la loro disponibilità ineguale all’inter­ no del sistema urbano. Questo non dà luogo automaticamente al decen­ tramento geografico della produzione sotto un controllo aziendale uni­ ficato. Proprio perché la spinta verso la nascita di grandi imprese e di grandi cartelli deriva dall’esigenza di diminuire la concorrenza in ecces­ so, si sottolineano i vantaggi del monopolio piuttosto che i rigori della concorrenza. I poteri monopolistici, inoltre, possono essere usati geopoliticamente, o per concentrare ulteriormente la produzione in senso geografico, o per proteggere le concentrazioni geografiche già esistenti. La distorsione degli spazi relativi imposta dai produttori di acciaio degli Stati Uniti con il loro sistema di definizione dei prezzi (il Pittsburgh Plus) è uno dei tanti esempi in etti si è fatto uso di poteri monopolistici per proteggere una determinata regione urbana contro la concorrenza esterna. Ci sono voluti parecchi anni, e in alcuni casi gravi traumi finan­ ziari, perché le grandi imprese imparassero a internalizzare la concor­ renza (per esempio quella tra fabbriche della stessa regione) e a usare il loro potere per dominare lo spazio e manipolare a proprio vantaggio la dispersione geografica. Naturalmente vi sono dei limiti anche a questa strategia, in primo luogo l’esigenza di conservare economie di scala in­ terne e un flusso di produzione continuo, mantenendo una ragionevole vicinanza alle reti di subfornitura, nonché un’offerta di lavoro adegua­ ta. In breve, si incominciano a considerare i vantaggi della decentraliz­ zazione della produzione dei componenti e dell’assemblaggio finale. Tutti questi adattamenti si susseguono con una certa lentezza, sempre vincolati alla trasformazione delle relazioni spaziali creata dal nuovo si­ stema di trasporto e comunicazione. Nella misura in cui le aziende utilizzano la possibilità di disperdere i processi, diminuisce la tendenza delle regioni urbane a competere tra loro sulla base dei propri assetti industriali, mentre vengono sempre più costrette a competere dal punto di vista della capacità di attrarre gli in­ vestimenti delle grandi imprese in quanto mercati del lavoro e delle merci, e come contenitori di risorse fisiche e sociali che le grandi impre­ se possono sfruttare a proprio vantaggio. Le grandi imprese, quindi, di­

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ventano sempre meno localizzate, rappresentando sempre più l’univer­ salità del lavoro astratto sul mercato mondiale. Allo stesso modo, l’in­ novazione tende a spostarsi dagli interstizi della matrice urbana verso i laboratori di ricerca pubblici e privati, anche se l’innovazione di pro­ dotto continua a mantenere le sue tradizionali basi urbane. L’aumento del potere del sistema creditizio contribuisce a questi spostamenti. La centralizzazione del potere di credito non è certo un fat­ to nuovo: i Baring e i Rotschild avevano imparato molto tempo prima i vantaggi che derivano da una informazione puntuale e dalla possibilità di utilizzare in qualsiasi spazio dato il potere del denaro: potere che era arrivato fino a comandare agli stati nazionali per buona parte del XIX se­ colo. Essi avevano però limitato il loro intervento al debito degli stati e a pochi progetti selezionati di grandi dimensioni, come le ferrovie, lascian­ do il credito commerciale e industriale, nonché i prestiti ai consumatori, nella misura in cui esistevano, ad altre fonti, più frammentate. Il fatto che le crisi del XIX secolo si fossero presentate come crisi commerciali e del credito, di cui il 1847-1848 fu l’esempio più spettacolare, determina dunque grandi trasformazioni nei mercati del credito e dei capitali. Pri­ ma della fine del secolo, il mercato azionario e la riorganizzazione del­ l’attività bancaria trasformarono completamente il sistema del credito e della finanza. Lo sviluppo del capitale finanziario (vedi Harvey 1982, cap. x) ha diverse implicazioni. Rende più facile il movimento di capita­ le da un settore produttivo all’altro, o da una regione geografica all’altra, e in questo modo consente una definizione assai più accurata delle rela­ zioni tra divisione geografica e divisione sociale del lavoro. Inoltre sem­ plifica la produzione di infrastrutture urbane finanziate col debito e age­ vola la produzione degli investimenti a lungo termine che riducono le barriere spaziali e consentono di superare lo spazio con il tempo. Flussi di capitale più scorrevoli e abbondanti possono dunque essere indirizza­ ti al consolidamento e all’ampliamento geografico delle infrastrutture urbane, proprio nel momento in cui le imprese, sempre più Ubere, inco­ minciano a capire i vantaggi derivanti da questo tipo di investimento. L’effetto, a ogni modo, è quello di collegare più strettamente la produ­ zione di infrastrutture urbane alla logica generale del flusso di capitale, soprattutto tramite i movimenti nella domanda e nell’offerta di denaro capitale, che si manifestano nei tassi d’interesse. Il “ciclo di costruzione urbana” acquista quindi maggiore evidenza, così come il movimento rit­ mico di sviluppo urbano ineguale nello spazio geografico. Il sistema del credito sembra a questo punto riuscire in un’impresa tale da risolvere in un istante il problema deUa sovraccumulazione. Una corretta allocazione del credito alla produzione e al consumo può consentire, in teoria, di equilibrare entrambi gli elementi all’interno

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dei vincoli posti dalla continua realizzazione di profitto. E molto sem­ plice: al flusso di denaro e di credito diretto verso la produzione deve corrispondere un flusso di denaro e di credito verso il consumo, e in questo modo si può avere una crescita auto-sostenuta e perpetua. Cer­ to ci sono dei problemi da risolvere. La crescita equilibrata non può darsi, in nessun modello di produzione e di consumo, se si deve accu­ mulare e si devono realizzare profitti. E necessario definire l’equilibrio corretto tra il consumo produttivo (gli investimenti che aumentano la capacità delle forze produttive) e il consumo finale (investimenti e flus­ si che aumentano il tenore di vita di borghesia e classe operaia). Ma il sistema del credito non è mai stato in grado di fare quello che hanno cercato di realizzare, senza tuttavia riuscirci, a causa della loro scarsa capacità di influire sulla distribuzione, le singole aziende alla ricerca di un compromesso fordista. Nella misura in cui il sistema creditizio si orienta verso questi compiti, esso porta a un cambiamento dell’urba­ nizzazione: dall’urbanizzazione che non si basa più sulla domanda ma, piuttosto, sull’offerta. Si presentano però, a questo punto, due problemi tra loro collegati. Il primo concerne i mercati finanziari. Questi, come il denaro stesso, rappresentano un potere di centralizzazione colossale proprio nel mez­ zo della massima dispersione possibile dei poteri di appropriazione. Ciò consente di concentrare le più importanti funzioni decisionali del capitalismo globale in poche mani, come quelle di J.P. Morgan, o in po­ chi centri urbani, come New York o Londra. Vi è quindi il rischio che questo gigantesco e centralizzato potere sociale venga utilizzato per fini strettamente individuali, o che il potere di monopolio venga utilizzato per angusti scopi geopolitici. Conseguenze ancora peggiori, e così ve­ niamo al secondo problema, ha la formazione del “capitale fittizio”, che comprende tutte le forme di debito: è necessario che in qualche modo questo venga regolato, se non si vuole che scompaia, fuori da ogni vin­ colo, in orge di speculazione e di creazione di debito senza controlli (vedi Harvey 1982, capp. IX e X). Come si possono pagare i debiti con­ tratti per le infrastrutture urbane, se queste poi non aumentano la pro­ duzione del plusvalore? E se gli investimenti sono invece produttivi, non si finisce con l’aggravare il problema della sovraccumulazione? Le crisi finanziarie periodiche mostrano che è troppo facile trasformare la sovraccumulazione in sovraccumulazione di titoli di credito su risorse che non producono valore. E su questo sfondo, quindi, che dobbiamo capire la spinta crescente verso l’intervento dello stato nella politica macroeconomica. Ovviamen­ te, la borghesia si rivolge allo stato nazionale, in parte perché questo è lo spazio più facilmente controllabile, in parte perché lo stato nazionale è il

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quadro istituzionale nel quale sono tradizionalmente formulate le politi­ che fiscali e monetarie. Il passaggio a strategie keynesiane di gestione del fisco e della moneta stabilizza il passaggio a un’urbanizzazione basata sulla domanda. Il processo è catalizzato dal trauma del 1929-1945. Quando la Depressione colpisce gli Stati Uniti, Ford, fedele alla sua li­ nea, ritiene si tratti di un problema di sottoconsumo e cerca di aumenta­ re i salari. Nel giro di sei mesi la logica del mercato lo costringe a fare marcia indietro. Il fordismo dunque fallisce, e si deve trasformare, spesso con riluttanza, in keynesismo a gestione statale, dando luogo alle riforme istituzionali e alle politiche pubbliche del New Deal. Per più di una ge­ nerazione, l’urbanizzazione capitalistica, soprattutto negli Stati Uniti, as­ sume la forma di una risposta organizzata dallo stato a quelli che veniva­ no visti come i problemi di sottoconsumo cronici degli anni trenta. Questo passaggio ha conseguenze strutturali sull’urbanizzazione del capitale. La città keynesiana viene strutturata come una macchina da consumo, e la sua vita economica, sociale e politica si organizza attorno al tema del consumo supportato dallo stato e finanziato dal debito. Il centro della politica urbana si sposta, passando dal confronto tra allean­ ze e problemi di classe a coalizioni di interessi più diffuse, che si raccol­ gono attorno a questioni di consumo e distribuzione, nonché di produ­ zione e controllo dello spazio. La “crisi urbana” degli anni sessanta porta i segni di questo passaggio. Esso provoca anche una forte tensione tra le città come “officine” di produzione e le città come centri di consumo e realizzo del plusvalore. La tensione passa tra la circolazione dei capitali e quella dei redditi, tra il centro storico e le aree suburbane, e così via. Le politiche keynesiane trasformano in profondità, in effetti, le modalità di spostamento temporale (il finanziamento tramite il debito) e spaziale del problema della sovraccumulazione. Vediamo come. Si può ottenere uno spostamento temporale illimitato nella misura in cui il credito sorretto dallo stato permette la creazione di quantità il­ limitate di capitale fittizio. Keynes riteneva che il finanziamento tramite deficit fosse un trucco manageriale utilizzabile sul breve periodo, ma in realtà, prima che si riuscisse a rimettere sotto controllo il ciclo comples­ sivo e a eliminare il ciclo di costruzioni urbane che era stato così forte prima del 1939, si erano ormai creati deficit stabili e crescenti. Il capita­ le e la forza-lavoro sovraccumulati vengono usati per produrre infra­ strutture fisiche e sociali, e se questi investimenti aiutano a produrre surplus ulteriori, può avere luogo un altro giro. Si fa largo, sia per le re­ gioni urbane che per le nazioni, la prospettiva di una spirale di crescita economica permanente, a condizione, ovviamente, che siano ben scelti gli investimenti da finanziare con il debito. Gli investimenti in trasporti, istruzioni, alloggi e sanità sembrano i più adatti per migliorare le qualità

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del lavoro, per acquistare la pace sociale, e per aumentare il ritmo di ro­ tazione del capitale sia nella produzione che nel consumo. In ogni caso, comunque funzioni, il processo si basa sulla creazione illimitata di debi­ to. Negli anni settanta, sugli Stati Uniti gravava quella che persino Busi­ ness Week definì «una montagna» di debito pubblico, privato e delle grandi imprese, gran parte del quale rinchiuso in infrastrutture urbane. L’accumulazione dei titoli di debito pone un problema. Il tentativo di monetizzarli dà luogo a inflazione, dimostrando così che il rischio di svalutazione può essere trasferito dalle merci e dalle altre risorse nel de­ naro (cfr. Harvey 1982, cap. x). Ma ogni azione di contrattacco contro l’inflazione può solo mettere in pericolo una grande massa di capitale urbanizzato. Il crollo mondiale dei mercati dei beni del 1973, il collasso delle istituzioni bancarie e finanziarie che lo avevano finanziato, e la cri­ si fiscale di New York del 1974-1975 aprirono una nuova partita, in un nuovo tipo di processo urbano basato su approcci non più keynesiani. Lo spostamento temporale della sovraccumulazione tramite creazio­ ne di infrastrutture finanziate col debito è accompagnato da significativi processi di riorganizzazione spaziale del sistema urbano. Soprattutto ne­ gli Stati Uniti la speculazione sulla terra, ormai da tempo ridotta a merce e a mera forma di capitale fittizio, rappresenta un’altra potente forza che spinge per l’espansione urbana e per rapidi passaggi nell’organizzazione dello spazio. Già dagli anni venti sono disponibili i mezzi per dar luogo a questa ulteriore dispersione, in primo luogo l’automobile. Ma perché venga creata la “soluzione suburbana” al problema del sottoconsumo è necessario che si sviluppi il potere economico degli individui e che questi abbiano la possibilità di appropriarsi di spazio per fini esclusivamente privati, tramite la casa di proprietà, finanziata dal debito, e l’accesso, sempre finanziato dal debito, ai servizi di trasporto (automobili e auto­ strade) (Walker 1976; 1981). La storia della suburbanizzazione è antica, ma è l’urbanizzazione del dopoguerra a esserne segnata in modo decisi­ vo. La suburbanizzazione implica la mobilitazione della domanda reale per mezzo di una ristrutturazione integrale dello spazio, finalizzata a ren­ dere una necessità, e non più un lusso, il consumo dei prodotti delle in­ dustrie automobilistica, petrolifera, della gomma ed edilizia. Dopo il 1945, e per quasi una generazione, la suburbanizzazione è stata una delle scelte necessarie per proteggere il capitalismo dalla minaccia delle crisi di sottoconsumo. Tra le altre mosse decisive ricordiamo l’espansione globa­ le del commercio, la ricostruzione dei sistemi urbani dell’Europa Occi­ dentale e del Giappone, devastati dalla guerra, e una corsa agli armamen­ ti più o meno continua. Oggi è difficile pensare a come il capitalismo avrebbe potuto sopravvivere dopo la guerra, o che aspetto avrebbe avu­ to, senza la suburbanizzazione e la proliferazione dello sviluppo urbano.

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Tutto il processo si basa comunque sulla ristrutturazione continua e approfondita delle matrici spaziotemporali che inquadrano le decisioni economiche e la vita sociale e politica. La rivoluzione dei rapporti spa­ ziali supera i modelli di insediamento puntiformi del capitalismo indu­ striale e li sostituisce con strutture di mercati del lavoro e delle merci che “coprono” e “inscatolano” lo spazio, fondendosi nell’espansione senza fine della megalopoli. Nelle società capitaliste avanzate, la distin­ zione tra spazio rurale e spazio urbano scompare, dal punto di vista del­ la produzione, ma si riproduce come importante opzione offerta ai con­ sumatori. La dispersione spaziale e l’inscatolamento dello spazio han­ no, comunque, i loro limiti. Quanti più investimenti si cristallizzano in configurazioni spaziali fisse, tanto più difficile diventa apportare allo spazio modifiche ulteriori senza dare luogo a svalutazioni. Il problema non è nuovo. Ristrutturare la città industriale in base alle esigenze keynesiane ha dei costi e produce resistenza sociale, spesso da parte di co­ munità operaie che hanno forgiato la loro identità nell’esperienza indu­ striale. In Europa la ristrutturazione incontra un maggiore attaccamen­ to alle comunità, e una certa riluttanza a trattare la terra come puro capitale fittizio: di qui un rallentamento del ritmo della suburbanizza­ zione, e forse della crescita complessiva. Anche negli Stati Uniti, co­ munque, l’erosione, e a volte la distruzione completa delle comunità preesistenti nelle aree più antiche, viene vista da molti come il rovescio della medaglia della suburbanizzazione. E quanto più aumenta il ritmo dei processi di trasformazione dello spazio, tanto più i problemi si in­ tensificano, aumentando il potere di resistenza delle comunità a medio reddito, e talvolta anche di quelle a basso reddito. La città keynesiana sottolinea molto di più la divisione spaziale del consumo rispetto a quella del lavoro. L’urbanizzazione basata sulla domanda dipende dalla mobilitazione di massa dello spirito di sovra­ nità del consumatore. I surplus sono ampiamente distribuiti, anche se in modo ineguale, e la scelta di come spenderli è lasciata sempre più nelle mani dell’individuo. La sovranità, anche se feticistica nel senso marxiano, non è comunque illusoria, e ha implicazioni di rilievo (vedi Consciousness and the Urban Experience, cap. v). Poiché nel conti­ nuum del potere monetario non vi sono rotture naturali, è possibile in­ trodurre distinzioni artificiali di ogni sorta. Possono essere costruite, impacchettate e vendute nuove forme di comunità, in una società in cui l’identità personale dipende sempre meno dalla posizione di classe e sempre più da come si spendono i soldi. Gli spazi in cui si vive devo­ no rappresentare lo status, il prestigio. La concorrenza per lo stile di vita e il controllo dello spazio sociale e dei suoi significati diventano aspetti importanti dell’accesso alle opportunità vitali. Ne conseguono

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dure lotte sulla distribuzione, sui diritti al consumo, sul controllo del­ lo spazio sociale, lotte un tempo limitate allo strato superiore della borghesia e diventate ora parte della vita della massa della popolazio­ ne. È attraverso lotte di questo tipo, e della concorrenza che ne deriva, che l’urbanizzazione basata sulla domanda viene organizzata per fini capitalistici. La politica urbana si trova dunque costretta a cambiare. Il successo del progetto keynesiano dipende dalla creazione di una forte alleanza di classi, che comprende lo stato, il grande capitale, gli interessi finanziari e tutti coloro che hanno interessi allo sviluppo fondiario. Una simile al­ leanza deve trovare il modo di dirigere e incanalare una base in costan­ te espansione di consumatori sovrani, e una crescente concorrenza so­ ciale intorno al consumo e alla distribuzione. Deve dare risposta e for­ ma alla ricerca di nuovi stili di vita e di accesso a nuove opportunità, in modo tale da creare strutture di crescita temporale e spaziale atte a de­ terminare un’accumulazione di capitale sostenuta e ragionevolmente stabile. D’altra parte, la legittimazione popolare, sia a livello locale che a livello nazionale, deve sempre fondarsi sulla distribuzione e sulla sod­ disfazione dei bisogni e dei desideri dei consumatori. Tra queste due fi­ nalità ci sono momenti di convergenza, ma anche di tensione. Il tentativo di utilizzare il processo urbano come veicolo di redistri­ buzione finisce per cozzare contro la realtà della struttura di classe, dei differenziali di reddito e della deprivazione delle minoranze. I processi di riorganizzazione dei paesaggi del consumo lasciano sempre più die­ tro di sé sacche di abbandono e miseria, che si concentrano per la mag­ gior parte nei centri storici delle città. Sembra quasi che la distruzione creativa si sia scissa, lasciando la distruzione sociale e fisica nei centri e la creazione nelle aree suburbane. All’estremo opposto della scala so­ ciale anche gli strati superiori della borghesia, in quanto consumatori, possono chiedere di essere protetti contro gli speculatori e quanti cer­ cano di strutturare lo spazio con fini di crescita e di profitto. In aree ricche, come Santa Monica (California), possono persino radicarsi for­ me di “socialismo dei consumatori”, costruite attorno alla capacità dell’amministrazione locale di controllare politicamente la macchina della crescita. Se la si prende sul serio, la sovranità del consumatore presup­ pone la possibilità per il popolo di determinare la qualità della vita ur­ bana, e di costruire spazi collettivi a partire da una concezione della co­ munità radicalmente diversa da quella incorporata nella circolazione del capitale. La produzione dello spazio tende a scontrarsi con la sensi­ bilità locale. Il confine tra l’innovazione consumista promossa dal capi­ tale e i tentativi di costruzione di comunità realmente appaganti diven­ ta estremamente labile.

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In tale contesto le insurrezioni dei centri storici degli anni sessanta, e parte del conflitto urbano successivamente diffuso in Europa, insieme con la crescita zero e i movimenti ambientalisti bloccano l’accelerazone della trasformazione urbana tipica della città keynesiana. I movimenti sociali urbani di quegli anni si concentrano su questioni di distribuzio­ ne e di consumo, e la politica urbana deve abbandonare i percorsi linea­ ri di crescita automatica per occuparsi di questioni di redistribuzione. E necessario gestire la circolazione dei redditi, in modo tale da assicurarsi l’inclusione economica e politica di una sottoclasse spazialmente isola­ ta, e una distribuzione socialmente equa dei vantaggi del sistema urba­ no. La città viene sempre più interpretata come sistema redistributivo. Nella complessa matrice delle forze attive nel processo urbano, le que­ stioni occupazionali e quelle collegate con la città intesa come ambiente produttivo tendono a non essere considerate centrali, anche se non ven­ gono certo meno. Lo scontro sulla circolazione dei redditi e la redistri­ buzione tende, comunque, ad accentuare le tensioni tra le diverse co­ munità e a incentivare i conflitti geopolitici, come quello tra i centri sto­ rici e le aree suburbane. E nulla, in una strategia di questo tipo, assicura un andamento tranquillo alla circolazione del capitale. Tre sono i problemi centrali conseguenti allo spostamento spazio­ temporale della sovraccumulazione che si ottiene tramite l’urbanizza­ zione basata sulla domanda. In primo luogo, lo spostamento temporale conduce all’aumento del debito e a forti spinte inflazionistiche. Se si fa ritorno a forme classiche di svalutazione, grandi investimenti urbani so­ no comunque messi in pericolo e vengono distrutte strutture di redistri­ buzione ormai consolidate: è molto difficile gestire un simile ribalta­ mento di politica. In secondo luogo, l’investimento nell’espansione su­ burbana e l’urbanizzazione che “ricopre” lo spazio portano con sé la definizione di spazi frammentati, nei quali la spinta all’acquisizione di potere su base locale e la formazione di comunità crea ostacoli al prose­ guimento della soluzione suburbana, determinandone un blocco. Il processo di spostamento spaziale o rallenta o è costretto a livelli ancora più alti di distruzione creativa e di svalutazione, con tutti i conflitti che quest’ultima implica. In terzo luogo, l’urbanizzazione guidata dalla do­ manda, con la sua attenzione all’individualismo, alla sovranità del con­ sumatore, allo stile di vita e allo status e alla concorrenza per il control­ lo dello spazio, finisce per far passare in secondo piano la circolazione diretta del capitale, lasciando in primo piano solo quella dei redditi. Vengono così messe in luce le precondizioni per la produzione della di­ visione spaziale del consumo, piuttosto che della produzione. Lo spo­ stamento è rischioso e provocatorio: esso dà per scontato che dal lato dell’offerta venga una risposta automatica e adeguata alla crescita finan­

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ziata dal debito della domanda effettiva. Non è facile ridurre la tensione tra la città come “laboratorio” per la produzione e la città come centro di consumo. L’investimento nelle infrastrutture fisiche e sociali per il consumo, che si accompagna alle politiche di redistribuzione, non crea necessariamente un clima favorevole alla produzione capitalista. Poiché le grandi imprese dispongono a questo punto di una grande capacità di movimento geografico, e il capitale finanziario è straordinariamente mobile, le città diventano ora molto più vulnerabili alla disoccupazione, alla fuga dei capitali e al disinvestimento da parte delle grandi imprese. Questo sarà il dilemma degli anni settanta, e lo si sarebbe potuto vedere molto prima. Questa analisi dell’urbanizzazione basata sulla domanda e delle sue tensioni interne è, non c’è dubbio, molto semplificata e orientata al caso americano. E anche superficiale, nella misura in cui non pone particola­ re attenzione all’indispensabile unità di produzione e consumo all’inter­ no della logica della produzione e realizzo del plusvalore. In realtà il problema è sempre stato centrale nell’urbanizzazione industriale. En­ gels lo ha rilevato nel suo studio su Manchester del 1844, nella celebre descrizione delle diverse zone residenziali di consumo, che rispecchia­ no le relazioni di classe della produzione. I proletariati urbani hanno costituito sempre un importante e sicuro mercato per i capitalisti, e da molto tempo è nota l’importanza della domanda effettiva locale come base di un commercio orientato all’esportazione. E città come Parigi o Londra hanno funzionato come centri di grande consumo, e qui pro­ prio il volume e la qualità della domanda effettiva sono sempre stati cri­ tici nel definire ritmi e andamento dell’attività industriale locale. La città keynesiana non è neppure cieca di fronte ai problemi della produzione. Vi è però uno spostamento di priorità, che è lecito inter­ pretare come una trasformazione di rilievo. Anche se la Grande De­ pressione non è stata semplicemente una crisi di sottoconsumo, il fatto che essa si sia presentata come tale e che la classe capitalista l’abbia af­ frontata con questo presupposto ha gettato le fondamenta di una strut­ turazione completamente nuova del processo urbano. Di fronte a una risposta al problema del sottoconsumo che cerca di creare una “città postindustriale” in cui lo sviluppo industriale non ha alcun ruolo, il fat­ to generale che l’urbanizzazione nel suo complesso non possa sopravvi­ vere senza tenere presente che le città sono laboratori per la produzione non ha grande importanza. La creazione della città keynesiana è una ri­ sposta reale a un fenomeno di superficie: il sottoconsumo come origine dei problemi del capitalismo. In quanto tale, essa ovviamente crea tanti problemi quanti ne risolve. L’urbanizzazione basata sulla domanda produce una città dall’a­

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spetto diverso, con un’espansione a bassa densità, con spazi di consu­ mo, che variano dall’idillio rurale artificiale a un’intensa vita cittadina, separati da quella che sempre più viene percepita come la terra di nes­ suno suburbana, nella quale i codici più strani di stile di vita e di status sociale si incidono in un paesaggio di monotono consumismo. La pro­ duzione diventa sempre più produzione di spazio e di investimenti a lungo termine, dietro cui si muovono potenti coalizioni di interessi orientate alla crescita che gestiscono la nuova urbanizzazione del capi­ tale in modo coerente con i loro interessi privati. A questo fine, esse hanno bisogno di nuovi strumenti, che vengono individuati nel capitale finanziario, nello stato e nelle agenzie di persuasione e di controllo ideologico, mobilitate per assicurare che la sovranità del consumatore sia tale nel modo giusto, che produca cioè un “consumo razionale” ri­ spetto aH’accumulazione, contribuendo a espandere alcuni settori indu­ striali decisivi come l’automobile, gli elettrodomestici e l’arredamento, il petrolio e così via. La città keynesiana assume quindi l’aspetto di una città postindustriale, un aggregato artificiale di consumi nutrito dalla fornitura di servizi, dalla gestione delle informazioni, dall’appoggio del­ le funzioni di comando dello stato e deha finanza. Anche la politica si trasforma. Le relazioni di classe determinate dal­ la produzione vengono in parte mascherate dai segni artificiali del con­ sumo, e le lotte sulle quote di distribuzione e sul controllo dello spazio sociale danno luogo a una frammentazione che ha il fortunato effetto collaterale di consentire all’alleanza dominante di mettere in opera un classico divide et impera. La base della legittimità politica si sposta dalla gestione di relazioni di classe alla giustizia distributiva e all’attenzione, non necessariamente compatibile con questa, rivolta alla soddisfazione del consumatore e della sua sovranità. Una serie di conflitti, a volte pro­ gressivi e a volte reazionari, e la divisione crescente tra centri storici e aree suburbane producono nuove linee di tensione geopolitica. Le crisi urbane degli anni sessanta si sviluppano a partire da questi presupposti. Si tratta di conflitti sul consumo, individuali e collettivi, e per il coman­ do sullo spazio sociale e sui suoi contenuti. Tutto il pensiero urbanisti­ co di quegli anni trova qui la sua origine. La letteratura dell’epoca si oc­ cupa di fornitura di servizi di sanità, educazione, trasporti e welfare, di organizzazione razionale dello spazio per l’accumulazione e di soluzio­ ne dei conflitti intercomunitari: vi si riflette uno stile di urbanizzazione che tiene in sospeso, e sullo sfondo, i problemi della produzione e delle relazioni di classe strutturali, mentre vengono in primo piano preoccu­ pazioni politiche ed economiche molto diverse.

5. Come mettere in equilibrio produzione e assorbimento dei surplus: la lotta per la sopravvivenza urbana nella transizione postkeynesiana Il crollo del programma keynesiano cambia interamente il quadro. Pri­ ma della fine degli anni sessanta, vengono meno tutti i pilastri della stra­ tegia postbellica per evitare i pericoli del sottoconsumo. Il ritorno del commercio mondiale e dei flussi internazionali di capitale ingigantisce il problema della sovraccumulazione. La concorrenza dell’Europa Occi­ dentale e del Giappone diventa più forte, e diminuisce la capacità di as­ sorbire nuovi investimenti in modo profittevole. Il finanziamento infla­ zionistico risolve il problema ma provoca un’ondata di prestiti interna­ zionali che sarà poi alla base delle successive difficoltà monetarie, in particolare dell’instabilità del dollaro come valuta di riserva, e della crisi del debito internazionale degli anni ottanta. Le stesse politiche produ­ cono un flusso a spirale di capitale e forza-lavoro in surplus destinati so­ prattutto alla produzione di ambienti costruiti (investimenti immobilia­ ri, costruzione di uffici, sviluppo di quartieri residenziali), e in misura minore all’espansione del salario sociale (istruzione e welfare). Quando, però, nel 1973, in risposta all’inflazione crescente la politica monetaria diventa rigida, il boom della creazione di capitale fittizio finisce di col­ po, aumenta il costo del denaro, crollano i mercati immobiliari e le am­ ministrazioni locali si trovano sull’orlo della crisi fiscale, o vi cadono, come nel caso di New York (un aspetto, questo, non privo di importan­ za: il bilancio e il debito di New York sono molto maggiori di quelli di buona parte degli stati nazionali). I flussi di capitale finalizzati alla crea­ zione di infrastrutture fisiche e sociali (i circuiti secondario e terziario della fig. 3) rallentano e le dinamiche di recessione e di inasprimento della concorrenza mettono in primo piano il problema della loro pro­ duttività. Tutti si rendono conto che ci sono stati, e continuano a esser­ ci, seri problemi di sovraccumulazione di risorse nell’ambiente costruito e di obblighi nel campo della spesa sociale. Buona parte di questi inve­ stimenti stavano producendo, se ne producevano, un tasso di ritorno molto basso. Il problema che si pone è allora il seguente: si deve cercare di salvare o di stabilizzare quanto più possibile gli investimenti senza gravi svalutazioni di risorse fisiche e distruzioni dei servizi offerti. Si svi­ luppa una spinta fortissima alla razionalizzazione del processo urbano, per renderlo efficiente e controllarne i costi. Gli intoppi dell’urbanizzazione basata sulla domanda vengono a in­ trecciarsi quindi con i problemi economici più generali degli anni settan­ ta e ottanta. E così, come l’urbanizzazione è parte del problema, allo stesso modo dev’essere parte della soluzione. Ne deriva una fondamen­

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tale trasformazione del processo urbano dopo il 1973. Si tratta, in realtà, di uno spostamento di accento più che di una rivoluzione, con buona pace di quanto sostengono, su entrambe le sponde dell’Atlantico, i neoconservatori e i teorici dello sviluppo basato sull’offerta. Si tratta di tra­ sformare l’eredità urbana delle epoche precedenti, con i vincoli dati dal­ la quantità, dalla qualità e dalla configurazione di questa materia prima. Ci si muove a sbalzi, precariamente, al ritmo dei mutamenti, apparente­ mente arbitrari, della politica monetaria e fiscale e della crescita della concorrenza internazionale e interurbana all’interno della divisione so­ ciale e spaziale del lavoro. Si deve procedere a tentoni di fronte ai poteri non ben definiti della resistenza popolare. Non è chiaro in che modo l’urbanizzazione del capitale si debba adattare a problemi che non sono affatto di sottoconsumo. I problemi della stagflazione possono essere ri­ solti solo per mezzo di un equilibrio meno precario tra la produzione dei surplus e il loro assorbimento: quello reale, però, non quello fittizio. Il problema di un’organizzazione corretta della produzione ritorna al cen­ tro della scena, dopo che per oltre una generazione il processo urbano era stato guidato dalla domanda e dal consumo. Ma come potevano adattarsi a un mondo basato sull’offerta le regioni urbane con un retag­ gio basato sulla domanda? Sembrano a questo punto possibili quattro diverse soluzioni. Esse non si escludono, e nessuna è a costo zero, o priva di gravi difetti politi­ ci ed economici. Le prendo in considerazione separatamente. Per esse­ re più chiaro, le studio dal punto di vista delle regioni urbane come unità economiche e geopolitiche in concorrenza, all’interno di una geo­ grafia capitalista di sviluppo ineguale e ad altalena (Smith 1984). CONCORRENZA NELLA DIVISIONE SPAZIALE DEL LAVORO

Le regioni urbane possono cercare di migliorare individualmente la loro posizione competitiva nella divisione internazionale del lavoro. L’aggre­ gazione non ha un effetto necessariamente positivo. La trasformazione delle condizioni del lavoro concreto all’interno di una regione può, se viene replicata altrove, cambiare il significato del lavoro astratto sul mer­ cato mondiale, cambiando così il contesto in cui sono possibili diversi ti­ pi di lavoro concreto. L’aumento della concorrenza tra le regioni urba­ ne, come l’aumento della concorrenza tra le aziende, non porta necessa­ riamente il capitalismo a una situazione di comodo equilibrio, ma può dare luogo a movimenti che allontanano ulteriormente il sistema dall’e­ quilibrio. A ogni modo, le regioni urbane che ottengono una posizione di vantaggio competitivo sopravvivono meglio, almeno sul breve perio­ do, di quelle che non sono in grado di ottenerlo. Vi sono strade diverse

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per raggiungere questo fine: la più importante distinzione è tra l’aumen­ to del tasso di sfruttamento della forza-lavoro (estrazione del plusvalore assoluto) e la ricerca di miglioramenti tecnologici e organizzativi (estra­ zione del plusvalore relativo). Vediamoli uno per uno. Il passaggio a una tecnologia e a un’organizzazione del lavoro supe­ riori aiuta determinate industrie di una regione urbana a sopravvivere di fronte all'aumento della concorrenza. D’altra parte, questo passaggio può eliminare così come può creare posti di lavoro. La crescita del pro­ dotto e dell’investimento, unita alla diminuzione dei posti di lavoro, co­ stituisce un fenomeno ormai familiare (Massey e Meegan 1982). La ri­ cerca di un’organizzazione migliore a volte può imporre trasformazioni radicali nella scala delle imprese, influenzando così la loro capacità di inserirsi nella matrice delle possibilità urbane, se non altro per le diver­ se esigenze immobiliari. Essa porta anche a considerare costi ed effi­ cienza delle infrastrutture fisiche e sociali. L’alleanza di classe dominan­ te all’interno della regione urbana deve quindi fare molta più attenzio­ ne ai micro-dettagli dell’organizzazione urbanistica delle città come laboratori per la produzione di plusvalore relativo. Ci sono molti modi di fare ciò. Se si migliorano le infrastrutture fisiche e si seguono più da vicino le forze produttive fornite dal territorio (per esempio le acque e il loro scarico), migliora la capacità di generare plusvalore relativo. Il medesimo effetto hanno gli investimenti in infrastrutture sociali, come l’istruzione, la scienza e la tecnologia, che valorizzano la città come cen­ tro di innovazione. Oppure, i costi industriali possono essere ridotti ar­ tificialmente, per mezzo di sussidi. Ma questo significa ridistribuire il salario sociale (plusvalore assoluto). L’intensificazione della concorrenza interurbana, di cui vi sono mol­ te tracce, pone alcuni problemi. La trasformazione continua delle for­ me tecnologiche e organizzative, comprese quelle fornite dall’investi­ mento pubblico, genera una concorrenza ancora più forte per assicu­ rarsi gli investimenti e i posti di lavoro prodotti da una grande impresa altamente mobile. Ne seguono effetti di destabilizzazione, e la tendenza all’accelerazione della svalutazione di risorse e infrastrutture collegate ad assetti tecnologici più vecchi. Inoltre, se si accelera la trasformazione tecnologica a scapito della crescita, del prodotto e dell’occupazione, è tutta la logica dell’accumulazione a venire meno, e si finisce dritti nella palude della crisi globale. I tentativi di creare un “clima favorevole al business” o l’appoggio e il sovvenzionamento delle grandi imprese pos­ sono generare resistenza popolare, soprattutto se questi minacciano, come di solito succede, il salario sociale. La politica urbana si trova quindi di fronte al pericolo di ritornare alla lotta di classe, anziché arti­ colarsi attorno a dibattiti distributivi più frammentati.

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Ci sono diversi ostacoli a questi passaggi. In primo luogo, il control­ lo della tecnologia si trova più nell’impresa che nella capacità innovati­ va del contesto urbano (anche se l’innovazione di prodotto mantiene parte della sua antica base urbana). I trasferimenti di tecnologia tra le regioni urbane sono quindi decisi dalle imprese. Questo freno non si applica alla fornitura di infrastrutture. Qui è lo stato che si comporta da imprenditore (Goodman 1979), fornendo occasioni d’investimento al capitale d’impresa, che è sensibile alle qualità e quantità della forza-la­ voro e delle infrastrutture sociali, nonché delle risorse fisiche sviluppate in una regione urbana. Un’altra strada per sopravvivere alla concorrenza internazionale nella produzione è l’aumento del tasso di sfruttamento della forza-lavo­ ro. La classica analisi marxiana lo dipinge come un attacco premeditato al tenore di vita dei lavoratori e come un tentativo di abbassare i salari reali aumentando la disoccupazione, la precarietà del lavoro, la diminu­ zione del salario sociale, soprattutto dei servizi e dei trasferimenti di welfare, la mobilitazione di un esercito industriale di riserva a buon mercato, costituito da immigrati, donne, minoranze e così via. Esso im­ plica anche l’attacco alle istituzioni della classe operaia, come i sindaca­ ti, e alla rilevanza delle competenze e della qualificazione nel lavoro. Ma si tratta di un attacco contro quella che potrebbe essere una parte im­ portante di un’alleanza di classe a base urbana. Molte regioni urbane si stanno muovendo su questa strada, e in alcuni casi l’amministrazione locale è diventata l’avanguardia del disciplinamento del lavoro tramite tagli e riduzioni salariali. Ma ci sono possibilità meno conflittuali. Il tas­ so di sfruttuamento, dopo tutto, è relativo alle qualità della forza-lavo­ ro. Il pacchetto di competenze offerto da ciascun mercato del lavoro urbano, appoggiato da infrastrutture di un certo tipo, può essere un’e­ sca allettante per il capitale delle grandi imprese. La concorrenza inte­ rurbana su quantità, qualità e costi della forza-lavoro è dunque molto più ricca di sfumature di quanto non suggerisca la versione semplice del modello marxiano. Sono le sfumature che permettono a un’alleanza di classe dominante di comandare sulla forza-lavoro, dividendola. Inoltre, la mobilità della forza-lavoro tra regioni urbane ostacola ulteriormente le tattiche repressive per mezzo delle quali si può aumentare il plusvalo­ re assoluto. Comunque, la concorrenza interurbana sui mercati del la­ voro in un’epoca di accumulazione incerta esercita un effetto di disci­ plinamento sulla forza-lavoro. La minaccia di perdita di posti e di disin­ vestimento, la necessità di tagliare i bilanci in un contesto competitivo segnalano lo spostamento del centro della politica urbana: dall’egua­ glianza e dalla giustizia sociale si passa all’efficienza, all’innovazione e all’aumento dei tassi reali di sfruttamento.

CONCORRENZA NELLA DIVISIONE SPAZIALE DEL CONSUMO

Come seconda possibilità, le regioni urbane possono cercare di miglio­ rare individualmente la loro posizione competitiva rispetto alla divisio­ ne spaziale del consumo. Non si tratta solo delle redistribuzioni otte­ nute dal turismo, per quanto queste possano essere rilevanti. Per più di una generazione, l’urbanizzazione basata sulla domanda si è concen­ trata sugli stili di vita, sulla costruzione di comunità e sull’organizza­ zione dello spazio sociale dal punto di vista dei segni e dei simboli del prestigio, dello status e del potere. E stata prodotta una partecipazione sempre più allargata a tale consumismo. Anche se la recessione, la di­ soccupazione e l’alto costo del denaro hanno a un certo punto escluso strati rilevanti di popolazione, gli altri hanno continuato. La concor­ renza per il denaro dei consumatori è diventata sempre più frenetica, mentre i consumatori avevano la possibilità di essere più selettivi. Il consumo di massa degù anni sessanta si è trasformato nel consumo più contenuto e più selettivo degli anni settanta e ottanta. La concorrenza interurbana per questo tipo di consumo può essere dura e costosa. Gli investimenti capaci di produrre un “buon ambiente di vita” e di au­ mentare la cosiddetta qualità della vita non costano poco, e quelli che cercano di stabilire nuovi modelli di divisione spaziale del consumo so­ no notoriamente rischiosi. Comunque, le regioni urbane che li effet­ tuano con successo possono appropriarsi di surplus adeguati dalla cir­ colazione dei redditi. E in queste strategie possono crearsi forti coali­ zioni. A proprietari terrieri e immobiliari, speculatori e finanzieri, e amministrazioni locali alla ricerca disperata di un aumento della loro base fiscale possono aggiungersi lavoratori alla ricerca altrettanto di­ sperata di un posto: tutti uniti per promuovere nuove possibilità di di­ vertimento (di cui Disney World è un prototipo), nuovi spazi per i consumatori (come il porto interno di Baltimora, o i progetti delle Docklands di Londra), stadi sportivi e centri congressi, centri balneari e hotel, ristoranti esotici e ritrovi culturali, e così via. La costruzione di ambienti di vita completamente nuovi, come le comunità di pensionati o i “villaggi in città” integrati, rientra in un simile programma. Naturalmente non c’è solo l’investimento materiale. La città deve sembrare innovativa, eccitante e creativa nello stile di vita, nella cultura, nella moda. Gli investimenti nelle attività culturali e in una vasta gam­ ma di servizi urbani si ricollegano a questa spinta all’appropriazione di surplus dalla circolazione dei redditi. Ci sono rischi, ovviamente, ma la posta in gioco è adeguata. Una forte competizione in questa sfera porta a lotte geopolitiche tra imperialismi culturali. La sopravvivenza di città come New York, Los Angeles, Londra, Parigi e Roma dipende in buo­

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na parte dalle loro posizioni relative in questa concorrenza internazio­ nale per l’egemonia culturale e per un pezzetto della circolazione globa­ le dei redditi. La concorrenza interurbana rispetto alla suddivisione spaziale del consumo ha effetti rilevanti. Essa dà risalto al contrasto tra le città come laboratori produttivi e di innovazione tecnologica e le città come centri di grande consumo e di innovazione culturale. Possono sorgere grandi conflitti tra le infrastrutture necessarie per queste funzioni, così diverse tra loro. Ha pure implicazioni rilevanti per la struttura occupazionale, esaltando i cosiddetti servizi rispetto alle competenze operaie. Essa ri­ chiede poi la formazione di una particolare alleanza di classe a base ur­ bana in cui è fondamentale la cooperazione di pubblico e privato nel­ l’assistenza al grande consumo e all’innovazione culturale. Di qui viene una tendenza, esacerbata dalla concorrenza interurbana, alla sovvenzio­ ne pubblica dei consumi dei ricchi a spese del contributo locale al sala­ rio sociale dei poveri. E difficile tener conto degli effetti di polarizzazio­ ne di questo processo. L’argomentazione secondo cui l’unico modo di conservare il lavoro per una sottoclasse sempre più povera è la creazio­ ne di palazzi del consumo per i ricchi, pubblicamente sovvenzionati, non è molto convincente. E non lo è l’ideologia della città postindu­ striale come soluzione delle contraddizioni del capitalismo. Oltre a que­ sta giustificazione, incentrata sulla ricerca della sopravvivenza della città attraverso la concorrenza spaziale per il consumo, questa ideologia ha comunque un’altra base, di cui ora ci occupiamo. CONCORRENZA PER LE FUNZIONI DI COMANDO

Le aree urbane possono, come terza possibilità, concorrere per le fun­ zioni chiave di controllo e di comando nell’alta finanza e nell’ammini­ strazione statale, che, per loro stessa natura, tendono a essere molto centralizzate pur esercitando un potere colossale su ogni tipo di attività e di spazio. Le città possono entrare in concorrenza per diventare centri di capitale finanziario, di raccolta e controllo di informazioni, di attività decisionali a livello governativo. Questo tipo di concorrenza richiede una strategia di predisposizione di infrastrutture. E vitale essere effi­ cienti e centrali in una rete mondiale di trasporto e comunicazione: ciò significa forti investimenti pubblici in aeroporti, strade scorrevoli, siste­ mi di comunicazione e così via. La fornitura di spazi adatti per gli uffici e di comunicazioni adeguate dipende da una coalizione tra pubblico e privato, tra speculatori immobiliari, finanzieri e interessi pubblici capa­ ci di rispondere a questi bisogni e di anticiparli. Per riunire una vasta gamma di servizi di supporto, soprattutto quelli che raccolgono ed eia-

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borano informazioni ad alta velocità, sono necessari ulteriori investi­ menti, mentre la domanda di competenze specifiche per questo genere di attività privilegia i centri urbani dotati di un certo tipo di istituzioni educative (scuole di management e di diritto, strutture di formazione informatica e così via). La concorrenza in questo ambito è costosa e particolarmente dura, perché si tratta di una sfora caratterizzata da un potere monopolistico difficile da rompere. La concentrazione di funzioni importanti in una città come New York attira naturalmente altre funzioni rilevanti. Per essere efficaci al massimo, le funzioni di comando e di controllo devono organizzarsi gerarchicamente nello spazio, e quindi imprimono un forte impulso nel senso di un’organizzazione gerarchica del sistema urbano complessivo (Cohen 1981). Gli spostamenti a livello di strutture spazia­ li relative, in particolare quelli determinati dai nuota sistemi di comuni­ cazione, creano grandi opportunità di trasformazione nella forma e nel­ la struttura della gerarchia e possono far emergere nuovi centri regiona­ li, determinando così ulteriori spostamenti nella divisione sociale e spaziale del lavoro e del consumo. In effetti, le funzioni di comando e di controllo possono rappresentare l’avanguardia di ristrutturazioni regio­ nali e di processi di crescita urbana differenziata. Ne conseguono grossi vantaggi. La semplice esistenza di poteri di monopolio consente di ap­ propriarsi di surplus prodotti altrove. In momenti di difficoltà econo­ mica, come ha osservato Marx, i finanzieri tendono sempre ad arric­ chirsi a scapito dell’interesse industriale, per il semplice motivo che il controllo sul denaro e sul credito permette un controllo a breve termine della linfa vitale del capitalismo in un momento di crisi. Non è un caso, quindi, che la concorrenza interurbana nei difficili anni settanta e ot­ tanta si sia incentrata sul tentativo di procurarsi funzioni di comando e di controllo, in un momento in cui queste erano in rapida crescita e molte forze spingevano nel senso di ristrutturazioni geografiche (Fried­ mann e Wolff 1982). L’effetto generale di una competizione di questo tipo è che si finan­ zia la localizzazione delle funzioni di comando e di controllo, sperando che i poteri monopolistici che queste contengono permettano di recu­ perare quanto versato appropriandosi di plusvalore. Che tutto ciò non abbia un grande effetto di stabilizzazione sul sistema capitalistico com­ plessivo dovrebbe essere chiaro. Ma sicuramente questa politica apre un percorso di sopravvivenza per una singola città, in un mondo in cui la competizione interurbana continua ad aumentare. L’effetto, comun­ que, è che il futuro si muove nel senso di una città di puro comando e controllo, la città dell’informazione, in cui i servizi costituiscono il cen­ tro dell’economia urbana.

CONCORRENZA PER LA REDISTRIBUZIONE

In quarto luogo, in una società a organizzazione complessa come la no­ stra, vi sono molti canali di redistribuzione diretta del potere economico rispetto ai quali le regioni urbane possono competere. I sistemi privati di redistribuzione, canali come la Chiesa, i sindacati, le associazioni profes­ sionali, le organizzazioni di beneficienza, non devono essere trascurati. Però, la maggior parte della concorrenza interurbana ha come obiettivo le redistribuzioni che si possono ottenere dai livelli superiori dell’ammi­ nistrazione statale. Tali spese sono aumentate rapidamente nel corso dell’era keynesiana, e sono ancora rilevanti anche se sotto accusa, poiché la borghesia riconosce in esse il principale colpevole del finanziamento inflazionistico del debito. I canali attraverso cui avviene questa redistri­ buzione sono comunque molteplici, diversificati e spesso nascosti in oscure disposizioni dei codici fiscali o in strani provvedimenti ammini­ strativi. L’ammontare dei flussi che vi scorrono dipende dalla situazione politica, economica e delle imprese. Uno spostamento di flussi da un ca­ nale all’altro può devastare l’economia di una regione urbana e favorire quella di un’altra. Per esempio, negli Stati Uniti il passaggio dopo il 1980 da politiche pubbliche volte ad appoggiare il salario sociale alle spese per la difesa finanziate dal deficit pubblico, una sorta di keynesismo “dal lato della difesa”, ha portato la prosperità economica in molte regioni urbane coinvolte nell’industria della difesa. Queste regioni urbane, si­ tuate in un ampio arco che va dal Connecticut e Long Island fino allo stato di Washington, attraverso la Carolina del Nord, il Texas e la Ca­ lifornia, non erano certo contrarie alla prosecuzione di tale politica. Le redistribuzioni dipendono, tra l’altro, dalla capacità delle alleanze di classe dominanti di procurarsi i fondi su cui possono avanzare qualche pretesa: fondi per autostrade, fogne, istruzione, trasporti di massa e così via. Ma dipendono anche dal puro potere geopolitico rispetto a dinami­ che politiche di livello superiore, come l’importanza del voto urbano, e poi dalla minaccia di disordine sociale e di conflitto politico ed economi­ co. Le tattiche della concorrenza interurbana sono varie tanto quanto Io sono i modelli di redistribuzione. L’attacco alle politiche redistributive degli anni settanta e ottanta non deve far pensare che questa strategia non sia più utile alla sopravvivenza delle città. Essa conserva i suoi privi­ legi e le sue funzioni redistributive, ma le modalità della concorrenza so­ no del tutto cambiate dal crollo del compromesso keynesiano. Le quattro opzioni che abbiamo considerato non sono mutuamente esclusive. La regione urbana che concorre bene per la divisione spaziale del consumo attrae funzioni di comando e controllo il cui personale, ad

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alti salari, contribuisce a ottenere redistribuzioni fiscali per le industrie della difesa. Ancor meglio se c’è un mix di tecnocrati altamente istruiti e di numerosi nuovi immigrati disposti a lavorare per salari molto bassi non solo nei servizi ma anche nella produzione di base per un vasto mercato locale di consumatori, che forma poi la base per una grande espansione delle esportazioni. Los Angeles, per esempio, negli anni dif­ ficili successivi al 1973 ha ottenuto un buon risultato su tutti e quattro i fronti. Di contro, città come Baltimora, Lille e Liverpool hanno ottenu­ to un risultato mediocre, con esiti molto negativi. Il vincolo delle leggi della concorrenza interurbana per la produzio­ ne, il controllo e il realizzo del plusvalore determina spostamenti decisi­ vi nei percorsi dell’urbanizzazione del capitale. Le forze che sostengono l’urbanizzazione stanno cambiando, così come cambia il senso del pro­ cesso urbano per tutti gli aspetti della vita economica, sociale e politica. In tempi come questi, di passaggio brusco e a volte apparentemente privo di ogni coerenza, è difficile cogliere il senso di tale cambiamento, decodificarne i messaggi, o anche capire intellettualmente ed empirica­ mente come si stanno intrecciando le varie forze all’opera, e quali ne sa­ ranno i risultati. Purtroppo lo abbiamo visto: fuga di capitali, perdita di posti di lavo­ ro, disinvestimento nella produzione, e sullo sfondo una veloce trasfor­ mazione tecnologica, un’accumulazione difficoltosa, una nuova divisio­ ne internazionale del lavoro, un sistema finanziario internazionale fragi­ le, e il crollo della capacità operaia di evitare disoccupazione, tagli salariali, diminuzione delle agevolazioni di ogni tipo. Gli stessi fenome­ ni si possono osservare nelle più diverse circostanze politiche: Stati Uni­ ti, Francia, Gran Bretagna, Svezia, Spagna, Canada, la Usta non ha fine. Sono molte le analisi della deindustrializzazione, molti i programmi di reindustrializzazione, così come numerose sono le speculazioni sulle prospettive di sopravvivenza in base alle cosiddette funzioni di servizio e di comando. La modalità fenomenica della crisi, e quindi il centro dell’attenzione politica e sociale, ha conosciuto un netto spostamento tra il 1970 e il 1980. Il sottoconsumo non si presenta più come il problema principale del capitalismo: questo ruolo spetta ora alla stagflazione. Le soluzioni sono dunque molto diverse rispetto alla risposta keynesiana data alla Grande Depressione. Ma dietro l’elegante apparenza dell’industria high tech, che dovrebbe curare i problemi della produttività decrescente e insieme diffondere una nuova ondata di innovazioni di prodotto, c’è una realtà di dequalificazione e di routinizzazione di lavoro noioso e sottopagato, soprattutto femminile. Questa realtà è stata presentata da numerosi articoli giornalistici dedicati alla rinascita del “lavoro forzato”

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in tante piccole fabbriche a New York, Los Angeles, Londra e Parigi: si tratta di un altro tipo di soluzione, basata sul ritorno, consentito dalla de-regolazione, a condizioni di lavoro che molti pensavano fossero state abolite da tempo da un mondo capitalista che si presume portatore di civiltà. Compaiono nuovi sistemi di esternalizzazione del lavoro e di subfornitura, come il lavoro a domicilio, che rappresenta un ottimo modo di risparmiare sugli investimenti diretti in capitale fisso e di sfrut­ tare il lavoro recluso delle donne. Tutto questo è agevolato da sistemi sofisticati di comunicazione e di controllo dall’esterno. Alla centralizza­ zione delle funzioni di comando possono corrispondere sistemi produt­ tivi estremamente decentrati, persino individualizzati, in modo tale da rendere difficile la comunicazione tra i lavoratori e quindi bloccare la coscienza e l’azione collettive. In effetti, dietro all’illusione della città postindustriale c’è una città che rinnova la propria industrializzazione. Hong Kong e Singapore sono esempi perfetti di centri urbani che ven­ gono risospinti nel mondo del capitalismo avanzato attraverso la con­ correnza interurbana nella divisione spaziale del lavoro. Abbiamo inoltre visto, anche nella regione urbana più malridotta, motivi di grande speranza in un miglioramento, dovuto alla creazione di uffici, centri commerciali e per il tempo libero, investimenti in nuovi quartieri residenziali e riqualificazione di vecchi. Alcune città presenta­ no al mondo un volto così elegante e dinamico che si stenta a credere al­ le realtà che contengono. A New York, questo fantastico centro di pote­ re economico ipercentralizzato, di imperialismo culturale, di consumo grande e sofisticato, di intensa riqualificazione urbana (Soho, l’Upper West Side, anche fino a Harlem), oggi una famiglia su quattro trae di che vivere da redditi che sono al di sotto del livello di povertà, e un bambino su due cresce in queste condizioni. A Baltimora, l’offerta di al­ loggi a prezzo decente è peggiore oggi di quanto non fosse negli anni sessanta e la popolazione è molto più povera di allora. Eppure Baltimo­ ra viene presentata come un modello nazionale, o addirittura interna­ zionale, di rinascimento urbano basato sul turismo e su un consumo sempre più sofisticato. Stranamente, le notizie sulla mancanza di allog­ gi, sulla fame, suU’impossibilità di accedere alla sanità e all’istruzione, sulle ingiustizie distributive o la discriminazione basata su razza, genere e luogo d’abitazione non hanno più il risalto che avevano nel quadro della presunta crisi urbana degli anni sessanta, anche se oggi la situazio­ ne è molto peggiore di allora. Se sull’agenda politica compare il proble­ ma della redistribuzione, questo avviene in termini di ristrutturazione degli incentivi materiali alle attività imprenditoriali, di diminuzione del potere del lavoro: tutto questo, per far fronte alla diminuzione della ca­ pacità di produrre plusvalore, piuttosto che di realizzarlo. Di qui deriva

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il feroce attacco di alcuni paesi, in primo luogo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, al welfare state. La concorrenza interurbana, concentrata sulle sovvenzioni alle imprese e al consumo delle classi superiori, nutre generosamente questo processo di polarizzazione a livello locale. L’ur­ banizzazione capitalista getta la maschera di umanità. Torniamo allo sti­ le di urbanizzazione che i pianificatori sociali keynesiani avevano corag­ giosamente cercato di trasformare dopo la seconda guerra mondiale. I ricchi oggi diventano più ricchi, e i poveri più poveri: non necessaria­ mente perché qualcuno vuole che vada così (anche se molti di coloro che sono al potere lo vogliono), ma perché questo è l’esito naturale del­ le leggi della concorrenza. E tra le molte dimensioni in cui questa si arti­ cola, la concorrenza interurbana gioca un ruolo di rilevo. 6. Ifurbanizzazione del capitale Per molto tempo Henri Lefebvre ha sostenuto, senza trovare particola­ re ascolto, che nella dinamica del capitalismo il processo urbano ha un ruolo più importante di quanto non creda la maggior parte degli stu­ diosi. Le mie ricerche degli ultimi anni sulla storia e sulla teoria dell’ur­ banizzazione del capitale confermano l’importanza del messaggio di Lefebvre, da molti punti di vista. L’urbanizzazione si misura da sempre con la mobilitazione, la pro­ duzione, l’appropriazione e l’assorbimento di sovrappiù economici. Possiamo quindi sostenere che il processo urbano ha un significato che va oltre l’analisi specifica di un modo di produzione determinato: si potrebbe quasi dire che il capitalismo ne è una versione particolare. Questa è la strada seguita da gran parte della ricerca urbana compara­ tiva. D’altro canto, nel capitalismo l’urbanizzazione è usata in modi molto specifici. I surplus cercati, messi in moto e assorbiti sono sur­ plus del prodotto del lavoro, appropriati come capitale e di solito espressi in forma concentrata, come denaro, e surplus della capacità di lavorare, espressi come forza-lavoro in forma di merce. Il carattere di classe del capitalismo impone un certo modo di appropriazione e la suddivisione del surplus nelle forme antagoniste e a volte inconciliabili del capitale e del lavoro. Quando non si può domare l’antagonismo, il capitalismo deve aggiungere al suo arsenale la capacità di distruggere e svalutare capitale e lavoro. La borghesia, così creativa in tanti campi, come nella tecnologia, nell’organizzazione, nella capacità di trasforma­ re la natura materiale in ricchezza sociale, deve fare i conti con il fatto sgradevole di essere, come dice Berman (1985), «la classe dominante più distruttiva della storia mondiale». È maestra di distruzione creati­

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va. Il carattere di classe del capitalismo modifica modalità e significati della mobilitazione, produzione, appropriazione, assorbimento dei so­ vrappiù economici. Allo stesso modo si ridefinisce radicalmente il si­ gnificato dell’urbanizzazione. Quando ci si trova di fronte a categorie di questo tipo si prova sem­ pre la tentazione di trasformarle in “stadi storici” dello sviluppo capita­ lista. In una certa misura ho seguito anch’io questa strada, descrivendo la mobilitazione dei surplus nella città mercantile, la produzione dei surplus nella città industriale, e l’assorbimento dei surplus nella città keynesiana come puntine cui appendere una descrizione abbreviata della storia dell’urbanizzazione capitalista. In realtà le cose sono più complicate e sfumate. Anche se le proporzioni possono cambiare, l’ap­ propriazione, la mobilitazione, la produzione e l’assorbimento sono sempre momenti separati di un processo integrato. Quello che conta è come si connettono nel tempo e nello spazio. La ricostruzione delle di­ namiche temporali e spaziali della circolazione del capitale all’interno delle relazioni di classe specifiche del capitalismo, indica quali sono i punti di integrazione del modo di produzione capitalista in quanto tale. Ma, come abbiamo visto nel caso dell’urbanizzazione nella fase di tran­ sizione postkeynesiana, sono possibili molti tipi di commistioni di stra­ tegie, data la forma particolare di organizzazione e di economia urbana e il quadro delle sue relazioni spaziali. Anche se è ragionevolmente possibile presentare l’urbanizzazione come espressione di tutto ciò, bisogna però mettere in chiaro che è per mezzo dell’urbanizzazione che i sovrappiù sono mobilitati, prodotti, as­ sorbiti e appropriati, e che è per mezzo della decadenza urbana e del degrado sociale che i sovrappiù vengono svalutati e distrutti. Come ogni mezzo, l’urbanizzazione ha modo di determinare fini e risultati, di stabilire possibilità e vincoli, di modificare le prospettive dello sviluppo capitalistico e della transizione verso il socialismo. Il capitalismo deve produrre la città, per potersi riprodurre. D’altra parte, l’urbanizzazione del capitale crea contraddizioni. Il paesaggio sociale e fisico di un capi­ talismo urbanizzato è qualcosa di più della testimonianza muta della potenza trasformatrice della crescita capitalista e del mutamento tecno­ logico. Lo sviluppo urbano di tipo capitalista ha la sua propria logica e le sue forme tipiche di contraddizione. Si possono capirne le ragioni da un altro punto di vista. C’è molto da guadagnare, a guardare da vicino la ricca complessità e i fitti intrecci della vita urbana come crocevia di ciò che è fondamentale per l’espe­ rienza umana, la formazione della coscienza e l’azione politica. Affronto questi argomenti in modo più esteso in Consciousness and the Urban Experience, ma non posso trascurarli del tutto in questa sede. Se osser­

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viamo lo svolgersi quotidiano della vita urbana, vedremo persone che svolgono molti ruoli: lavoratori, padroni, costruttori, consumatori, gen­ te di quartiere, attivisti politici, gente che si indebita, usurai e così via. I ruoli non necessariamente sono ben compatibili. Gli individui interio­ rizzano ogni tipo di stress e fatica, e non mancano i segni manifesti di conflitto collettivo e individuale. D’altra parte, l’urbanizzazione implica una determinata organizzazione umana nello spazio e nel tempo che può riguardare tutte queste forze che si scontrano. L’esito non sarà ne­ cessariamente la loro armonizzazione: esse, piuttosto, verranno incana­ late in tante possibilità di trasformazione sociale, creativa e distruttiva. Qui c’è in gioco qualcosa di più del semplice interesse di classe. L’urba­ nizzazione capitalista presuppone la possibilità di mobilitare il processo urbano in configurazioni che contribuiscono al perpetuarsi del capitali­ smo. Com’è possibile? La risposta più semplice è che non è necessaria­ mente così. La forma urbana di organizzazione che il capitalismo mette in opera non si adatta a tutti gli ordini del modo di produzione: non più di quanto la coscienza individuale o collettiva si riduce a una lotta di classe semplice e polarizzata. Dilemmi di questo tipo si nascondono nelle varie strategie di so­ pravvivenza urbana tipiche della transizione postkeynesiana. Si cerca di produrre surplus in un posto perché si è in grado di realizzarlo e di as­ sorbirlo in un altro. La mobilitazione dei surplus per mezzo delle fun­ zioni di comando presuppone che da qualche parte vi sia una produzio­ ne da comandare. La stabilità generale del capitalismo dipende dalla coerenza di queste integrazioni. Le aUeanze di classe a base urbana, co­ munque, anche quando si organizzano nel modo più coerente, non si formano rispetto a simili considerazioni di coordinamento globale, né elaborano le proprie strategie a partire da questo. Sono in concorrenza per mantenere le loro risorse di base nel modo migliore possibile e per conservare a tutti i costi il loro potere di appropriazione. A dire il vero, il capitale d’impresa e finanziario e, in misura minore, la forza-lavoro, possono muoversi da un’entità urbana all’altra mettendo permanentemente a rischio le alleanze di classe a base urbana. Questo però non ga­ rantisce un’evoluzione ben disposta verso le esigenze del capitalismo. In realtà, non fa che sottolineare la tensione, sempre presente, tra la di­ visione sociale e spaziale di produzione, consumo e controllo. La concorrenza interurbana è dunque un fattore determinante nell’e­ voluzione del capitalismo ed è centrale, come si vedrà nel V capitolo, per il suo sviluppo geografico ineguale. Se fosse giusta l’idea di Adam Smith, secondo la quale la mano invisibile del mercato trasforma l’individuali­ smo, l’ambizione e la prospettiva limitata di ciascuno in un risultato so­ ciale complessivo che va a vantaggio di tutti, si potrebbe anche pensare

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che questa concorrenza sia, almeno potenzialmente, armoniosa. Ma an­ che in questo caso la violenta critica marxiana di tale tesi ha la meglio. Quanto più si perfeziona la mano invisibile della competizione interur­ bana, tanto più si sviluppa la diseguaglianza tra capitale e lavoro, e tanto meno stabile diventa il capitalismo. Sul lungo periodo, l’aumento della concorrenza è una via d’entrata e non d’uscita dalla crisi capitalista. Dunque, a cosa conduce la transizione postkeynesiana? A questa do­ manda non c’è una risposta automatica. Le leggi di movimento del capi­ talismo mostrano le contraddizioni di fondo che ne determinano l’evolu­ zione, ma non specificano i sentieri che questa prenderà. La nostra geo­ grafia storica è sempre da fare, e siamo noi a farla. Ma le condizioni nelle quali cerchiamo di costruirla sono sempre strutturate e presentano molti vincoli. Se consideriamo solo il punto di vista della concorrenza interur­ bana, per esempio, e riconosco che si tratta di una semplificazione dra­ stica, che non sto a giustificare, vi sono numerosi elementi che indicano uno squilibrio temporale crescente a spirale all’interno di un movimento di sviluppo geografico ineguale che ha un andamento ad altalena; e spo­ radiche svalutazioni locali unite ad ancora più sporadiche esplosioni di accumulazione locale. L’evidenza empirica che sostiene questa tesi non è di poco conto. Le città americane della Sun Belt che hanno conosciuto un così grande sviluppo nell’esplosione dell’industria energetica seguito al 1973 sono rapidamente scivolate nella depressione a ogni diminuzione del prezzo del petrolio: Houston, Dallas e Denver, già città-miracolo, oggi hanno gravi problemi. I centri dell’industria high tech come Silicon Valley si inaridiscono velocemente, mentre New York, che sembrava sull’orlo del collasso totale all’inizio degli anni settanta, oggi ospita fun­ zioni di comando e anche attività manifatturiere a basso salario orientate al mercato locale. Questi sono esempi del rapido volgere delle fortune che ci possiamo aspettare nelle attuali condizioni di esasperata concor­ renza interurbana per la mobilitazione, produzione, appropriazione e assorbimento dei surplus. Ci sono altri indicatori? La centralità del comando e del consumo negli Stati Uniti danno risalto maggiore all’appropriazione piuttosto che alla produzione, e a lungo andare questa situazione crea gravi peri­ coli geopolitici, perché un numero sempre crescente di città diventano sedi di sforzi mercantilisti, in un mondo in cui le possibilità di produrre con profitto continuano a diminuire. Questo mix instabile è simile a quello che a livello di stati nazionali ha condotto all’andamento sbilan­ ciato e allo sviluppo geografico ineguale che hanno caratterizzato l’epo­ ca dell’imperialismo. E da questa tensione sono venute due guerre mondiali. D’altra parte, la ricerca di possibilità di produzione ad alto profitto in condizioni di concorrenza esasperata tra imprese, regioni ur-

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bane e nazioni dà luogo a veloci trasformazioni nelle condizioni socio­ tecniche e organizzative di produzione e consumo. E questo preannun­ cia la distruzione di qualsiasi coerenza strutturata si dia nelle economie urbane, la svalutazione di molte delle risorse infrastrutturali fisiche e sociali che vi sono state costruite, e instabilità in qualsiasi alleanza di classe al potere. Riportarsi in casa il Terzo Mondo non è una continua­ zione da poco dell’urbanizzazione keynesiana. Ironicamente, muoven­ dosi troppo velocemente su questa strada si finisce per trovarsi in un circolo: dallo sviluppo basato sui consumi, si ritorna alla crisi capitalista come crisi di sottoconsumo. Ma quali sono allora le possibilità di un passaggio a un modo di pro­ duzione e di consumo alternativo? In un momento in cui l’attività e la consapevolezza politica ed economica sono dominate dalla lotta per so­ pravvivere all’interno del capitalismo, diventa doppiamente difficile pensare a una rottura radicale e alla costruzione di un’alternativa socia­ lista. Eppure le insicurezze e la precarietà del presente, senza contare la minaccia di colossali svalutazioni e distruzioni determinate da ristruttu­ razioni interne, scontri geopolitici e crisi politiche ed economiche, ren­ dono più vitale che mai la domanda. L’alternativa non può certo essere costruita a partire da un qualche astratto modello socialista. Deve essere faticosamente costruita per mezzo di una trasformazione della società che noi conosciamo, che comprenda anche le sue tipiche forme di urbanizzazione. L’analisi del­ l’urbanizzazione del capitale mostra le possibilità e i vincoli ineludibili che la lotta per questo obiettivo si trova di fronte. La geografia storica del capitalismo ha dato forma a paesaggi fisici e sociali, modellandoli in profondità. Questi paesaggi oggi formano le risorse e le forze produtti­ ve create dall’uomo e riflettono le relazioni sociali a partire dalle quali si possono produrre configurazioni sociali socialiste. Lo sviluppo geogra­ fico ineguale del capitalismo può, nel migliore dei casi, venire modifica­ to lentamente, e il mantenimento delle configurazioni spaziali esistenti, così importante per la riproduzione della vita sociale come la conoscia­ mo, significa che in continuazione vengono strutturati e riprodotti spazi di dominio e servitù, di vantaggio e svantaggio. Come porvi termine, senza distruggere la vita della società: questo è il problema. L’urbaniz­ zazione del capitale ci rende prigionieri in molti modi, tutti vincolanti. Come ogni scultore, noi siamo necessariamente limitati dalla natura della materia prima da cui cerchiamo di costruire nuove forme. Dob­ biamo ricordare che il paesaggio fisico e sociale del capitalismo, per co­ me si è strutturato nelle sue specifiche forme di urbanizzazione, contie­ ne difetti, ostacoli e pregiudizi che impediscono la costruzione di qual­ siasi socialismo ideale.

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D’altra parte il capitalismo distrugge anche questo. Esso si rivoluzio­ na di continuo, ed è sempre in bilico tra la conservazione dei suoi valori e delle sue tradizioni e la distruzione indispensabile per aprire nuovi spazi di accumulazione. Quello che Henry James chiamava «il ripetuto sacrifi­ cio al profitto pecuniario» rende l’urbanizzazione del capitale una que­ stione particolarmente aperta e dinamica. Il territorio urbano è, come so­ stiene Lefebvre (1974), «il luogo dell’inatteso»: di qui può nascere ogni possibilità. Il problema è capire queste possibilità, e creare strumenti po­ litici che siano in grado di sfruttarle. La tattica della lotta operaia dev’es­ sere fluida e dinamica come il capitalismo stesso. Per esempio, negli Stati Uniti della transizione postkeynesiana il passaggio a un’urbanizzazione più corporativa apre uno spazio in cui si possono inserire movimenti orientati verso un socialismo municipale, e qui possono crearsi le basi per una lotta politica ad ampio raggio. Però, affinché si possa sfruttare questa opportunità, è necessario che la politica urbana americana abban­ doni l’attuale pluralismo frammentato per un approccio più consapevole della struttura di classe. Come ho spiegato in Consciousness and the Ur­ ban Experience, vi sono forti barriere a questo processo, barriere profon­ damente radicate nelle strutture dello stesso capitalismo contemporaneo. L’individualismo del denaro, la coscienza familistica e comunitaria, lo sciovinismo delle amministrazioni locali e statali contrastano con l’espe­ rienza delle relazioni di classe, e creano una cacofonia di ideologie in conflitto che tutti in qualche misura interiorizziamo. Anche presupponendo che la coscienza di classe riesca ad avere la meglio tra le complesse rivalità dei movimenti sociali urbani, ci si trova di fronte a un’altra dimensione di lotta. È interessante, per esempio, il fatto che nei paesi europei in cui il socialismo municipale ha già vinto le sue battaglie, i poteri corporativi dell’alleanza di classe a base urbana sono ridotti a vantaggio dei poteri dello stato nazionale, nel quale la borghesia può meglio difendere la propria posizione. La stessa alloca­ zione dei poteri tra regione urbana, stato e organi multinazionali è un esito della lotta di classe. La borghesia cercherà sempre di sottrarre au­ torità, potere e funzioni agli spazi che non è in grado di controllare per spostarli in quelli in cui è egemone. La tensione tra città e stato, cui Braudel dà così tanto rilievo nella sua descrizione dell’ascesa del capita­ lismo, è ancora con noi. Merita di essere studiata più a fondo, come parte essenziale dei processi di lotta di classe che hanno come posta in gioco la sopravvivenza del capitalismo e la nascita del socialismo. Il ca­ pitalismo è sopravvissuto non solo per mezzo della produzione di spa­ zio, come sostiene Lefebvre, ma anche per mezzo di un migliore co­ mando sullo spazio: questo è vero sia nelle regioni urbane che nello spa­ zio globale dell’azione capitalista.

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L'urbanizzazione del capitale è solo una parte dei problemi cui ci tro­ viamo di fronte nella nostra ricerca di un’alternativa al capitalismo. Ma è una parte fondamentale. Comprendere come il capitalismo si è urbaniz­ zato, e le conseguenze di questa urbanizzazione, è necessario per artico­ lare qualsiasi teoria della transizione al socialismo. Nell’ultimo paragrafo di Social Justice and the City ho scritto: Un urbanesimo veramente amico dell’uomo deve ancora nascere. La teoria rivoluzionaria ha di fronte a sé il compito di tracciare un sentiero che conduca dall’urbanesimo fondato sullo sfruttamento a un urbanesi­ mo adatto alla specie umana. E la pratica rivoluzionaria deve compiere questa trasformazione.

Questo è ancora il nostro scopo. Ma oggi lo vorrei porre in una pro­ spettiva più ampia. Qualsiasi movimento verso il socialismo che non faccia i conti con l’urbanizzazione del capitale e le sue conseguenze è votato al fallimento. La costruzione di una forma specificamente socia­ lista di urbanizzazione è necessaria alla transizione al socialismo pro­ prio come la nascita della città capitalista lo è stata per lo sviluppo del capitalismo. Pensare alle strade dell’urbanizzazione socialista è come tracciare la via verso l’alternativa socialista stessa. E questo il compito che spetta alla pratica rivoluzionaria.

2. Il processo urbano nel capitalismo: un quadro analitico

Obiettivo della mia ricerca è la comprensione del processo urbano nel capitalismo. Mi limito alla forma capitalista di urbanizzazione perché ritengo che Inurbano” abbia nel modo di produzione capitalistico un significato specifico, che non può venire esteso ad altri contesti sociali senza subire una profonda trasformazione, tanto del significato quanto della realtà. Nel quadro del capitalismo, fondo la mia interpretazione del proces­ so urbano su due temi gemelli: accumulazione e la lotta di classe. Essi sono essenziali l’uno all’altro, e li si deve considerare come due facce della stessa medaglia, o come due diverse finestre da cui guardare all’at­ tività capitalista. Il carattere di classe della società capitalista implica il dominio del capitale sul lavoro. Detto più concretamente: una classe di capitalisti comanda il processo lavorativo e lo organizza al fine di pro­ durre profitto. Il lavoratore, invece, comanda la propria forza-lavoro, che dev’essere venduta sul mercato come una merce. Il dominio nasce dal fatto che il lavoratore deve procurare al capitalista un profitto (plu­ svalore) in cambio del salario. Detto così, sembra tutto molto semplice: tuttavia i reali rapporti tra le classi e tra le frazioni di classe, all’interno del reale sistema produttivo, che comprende produzione, servizi, costi di circolazione, distribuzione, scambio, e così via, sono estremamente com­ plessi. L’idea essenziale di Marx, comunque, è che il profitto nasce dal dominio del capitale sul lavoro e che i capitalisti come classe devono continuamente espandere la base del loro profitto, se vogliono riprodur­ si. Giungiamo così al concetto di una società che si basa sul principio deU’«accumulazione per l’accumulazione, produzione per la produzio­ ne». La teoria dell’accumulazione costruita da Marx nel Capitale consi­ ste in un attento studio delle dinamiche dell’accumulazione, studio che ne esamina il carattere contraddittorio. Il quadro dell’analisi può sem­ brare economicista: ci si deve però ricordare che l’accumulazione è il

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mezzo con cui la classe capitalista riproduce se stessa, e il proprio domi­ nio sul lavoro. Non è quindi possibile separare accumulazione e lotta di classe.

1. Le contraddizioni del capitalismo Partendo dall’analisi delle contraddizioni del capitalismo, possiamo tes­ sere un fitto intreccio di tesi sul processo urbano. Vediamo le forme principali assunte da queste contraddizioni. Consideriamo in primo luogo la contraddizione interna alla stessa classe capitalista. Nell’ambito dello scambio ogni capitalista agisce in un mondo di individualismo, libertà ed eguaglianza, e può e deve agire in modo spontaneo e creativo. D’altra parte, attraverso il meccanismo della concorrenza le leggi interne della produzione capitalista si affer­ mano come «leggi esterne e coercitive, che hanno potere su ogni singo­ lo capitalista». Un mondo di individualità e libertà nasconde sotto la su­ perficie un mondo di conformismo e coercizione. Però il passaggio dal­ l’azione individuale a un comportamento secondo norme di classe non è mai completo né perfetto: non può essere tale, perché il processo di scambio presuppone sempre, secondo le regole del capitalismo, l’indi­ vidualità, mentre la legge del valore opera sempre in termini sociali. Di conseguenza i singoli capitalisti, ognuno agendo per il proprio interesse immediato, possono produrre un risultato aggregato contrario al loro interesse collettivo in quanto classe. Per prendere un esempio forte: la concorrenza può spingere ogni capitalista ad allungare e intensificare il processo lavorativo in modo tale che la capacità della forza-lavoro di produrre plusvalore viene seriamente diminuita. Gli effetti collettivi dell’attività imprenditoriale individuale possono mettere in grave peri­ colo le basi sociali dell’accumulazione futura. In secondo luogo, consideriamo le conseguenze dell’accumulazione per i lavoratori. Sappiamo dalla teoria del plusvalore che lo sfruttamen­ to della forza-lavoro è la fonte del profitto. La forma di accumulazione capitalista si basa quindi su un certo grado di violenza inflitto dalla clas­ se capitalista al lavoro. Marx, comunque, mostra che questa appropria­ zione può compiersi in modo tale da non violare le regole di eguaglian­ za, individualità e libertà che devono essere egemoni nell’ambito dello scambio. Come i capitalisti, i lavoratori vendono “liberamente” sul mercato la merce di cui dispongono. I lavoratori sono anche in concor­ renza tra loro per i posti di lavoro, mentre il processo lavorativo è con­ trollato dal capitalista. In condizioni di concorrenza sfrenata, i capitali­ sti sono costretti, volenti o nolenti, a esercitare una violenza sempre

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maggiore su coloro cui danno lavoro. Il singolo lavoratore non è in gra­ do di resistere a questo assalto. L’unica soluzione è che i lavoratori si costituiscano in classe e che trovino mezzi collettivi di resistenza allo sfruttamento cui sono sottoposti. La forma capitalista di accumulazione dà quindi luogo a una lotta di classe manifesta ed esplicita tra lavoro e capitale. Questa contraddizione tra le classi spiega buona parte della di­ namica della storia capitalista, ed è da molti punti di vista fondamentale per capire il processo di accumulazione. Le due forme di contraddizione sono necessarie Luna all’altra. Esprimono un’unità sottostante e devono essere sviluppate come aspetti diversi della stessa realtà. D’altra parte, in alcuni casi possiamo separarle in modo utile. Per quanto siano strettamente collegate, la contraddizione interna alla classe capitalista è molto diversa dallo scon­ tro di classe tra capitale e lavoro. Nelle pagine seguenti analizzerò l’an­ damento del processo di accumulazione quando manchi una risposta esplicita da parte della classe operaia alla violenza che la classe capitali­ sta è costretta a esercitare. Poi allargherò la prospettiva, considerando come l’organizzazione della classe operaia e la sua capacità di determi­ nare una risposta di classe esplicita influisca sul processo urbano nel capitalismo. Per ampliare l’analisi si possono prendere in esame molte altre for­ me di contraddizione. Per esempio, il sistema di produzione capitalista spesso mantiene un rapporto di antagonismo con settori non capitalisti o precapitalisti che possono esistere al suo interno (l’economia domesti­ ca, settori produttivi contadini e artigiani) o al suo esterno (società pre­ capitaliste, paesi socialisti e così via). Dobbiamo anche tenere presente la contraddizione con la “natura” che sorge inevitabilmente dal rappor­ to tra le dinamiche di accumulazione e la base “naturale” di risorse, com’è definita in termini capitalisti. Questi problemi devono chiara­ mente essere considerati in qualsiasi analisi della storia dell’urbanizza­ zione nel capitalismo.

2. Le leggi dell’accumulazione Per prima cosa è opportuno descrivere la struttura dei flussi di capitale in un sistema di produzione e realizzo di valore. Lo farò avvalendomi di alcuni diagrammi che hanno un aspetto molto “funzionalista” e forse un po’ troppo semplice: in ogni caso sono d’aiuto alla comprensione della logica di base del processo di accumulazione. Vedremo come in esso si determinino dei problemi, perché i singoli capitalisti producono un risultato non in linea con il loro interesse di classe, e studieremo al-

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cimi dei modi in cui si possono trovare soluzioni a tali problemi. In bre­ ve, cerco di riassumere l’argomentazione marxiana del Capitale nello spazio, quasi ridicolo, di tre o quattro pagine. IL CIRCUITO PRIMARIO DEL CAPITALE

Nel primo libro del Capitale Marx presenta un’analisi del processo pro­ duttivo capitalista. La creazione di plusvalore può basarsi o sull’aumento della durata della giornata lavorativa (plusvalore assoluto) o sui guadagni che si possono ottenere rivoluzionando di continuo le “forze produtti­ ve”, cioè ristrutturando il processo lavorativo in modo tale da aumentare la produttività della forza-lavoro (plusvalore relativo). Il capitalista ottie­ ne plusvalore relativo organizzando la cooperazione e la divisione del la­ voro all’interno del processo produttivo, oppure introducendovi capitale fisso (macchine). Il motore di queste rivoluzioni continue del processo lavorativo e dell’aumento della produttività del lavoro sta nella competi­ zione capitalista: ogni capitalista cerca di aumentare il proprio profitto adottando una tecnica produttiva superiore alla media sociale. Le implicazioni di tutto questo per il lavoro sono considerate in un capitolo intitolato “La legge generale dell’accumulazione capitalista”. Marx vi esamina le trasformazioni del tasso di sfruttamento e dei ritmi temporali di cambiamento del processo lavorativo, in rapporto alle con­ dizioni di offerta della forza-lavoro (in particolare la formazione di un esercito industriale di riserva), ammesso che nel frattempo vi sia un asso di accumulazione positivo, altrimenti la classe capitalista non può ripro­ dursi. L’analisi si svolge su poche interazioni, mentre tutte le altre varia­ bili sono tenute al di fuori o considerate costanti. La figura 1 mostra le relazioni prese in considerazione da questo modello. Il secondo libro del Capitale si conclude con un modello di accumu­ lazione su scala più ampia. Vi vengono studiati i problemi di proporzio­ nalità derivanti dalla produzione aggregata di mezzi di produzione e di mezzi di consumo, mentre vengono tenute costanti tutte le altre variabi­ li, tra cui il mutamento tecnologico, l’investimento in capitale fisso e co­ sì via. L’obiettivo è mostrare la possibilità di crisi di sproporzionalità al­ l’interno del processo produttivo. Marx qui aumenta il numero di rela­ zioni strutturali cui guardare da vicino (fig. 2). E da notare, comunque, che in entrambi i casi Marx assume tacitamente che tutte le merci ven­ gano prodotte e consumate in un unico arco di tempo. Le relazioni strutturali considerate nella figura 2 possono essere definite come cir­ cuito primario del capitale. Anche buona parte dell’analisi della caduta del tasso di profitto e delle tendenze che la contrastano, svolta nel terzo libro, presuppone che

(fonte: Il capitale, libro II).

Fig. 2. Le relazioni studiate nella rappresentazione di Marx della “riproduzione allargata

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la produzione e il consumo avvengano nello stesso periodo, anche se al­ cuni elementi fanno supporre che Marx intendesse ampliare questa pro­ spettiva: egli comunque non visse abbastanza da completare la sua ope­ ra. E utile, però, considerare l’analisi del terzo libro come sintesi delle argomentazioni presentate nei primi due e, almeno, come un’attenta di­ samina delle contraddizioni interne del circuito primario. Possiamo dunque vedere quali sono le contraddizioni determinate dalla tendenza dei singoli capitalisti a comportarsi in maniere che, una volta aggregate, vanno contro i loro stessi interessi in quanto classe. Questa contraddi­ zione produce una tendenza alla sovraccumulazione-, viene prodotto, in complesso, troppo capitale rispetto alle possibilità disponibili di impie­ go. Questa tendenza si manifèsta in molti modi, che sono: 1. Sovrapproduzione di merci: il mercato è saturo. 2. Discesa del tasso di profitto (in termini di prezzi: diversa cosa è la caduta del tasso di profitto in termini di valore, che è un costrutto teorico). 3. Un surplus di capitale, che si può manifestare o come capacità pro­ duttiva inutilizzata o come capitale monetario che non trova modo di impiegarsi profittevolmente. 4. Un surplus di lavoro e/o un aumento del tasso di sfruttamento della forza-lavoro.

Si può verificare solo una di queste condizioni, oppure possono presen­ tarsi combinate. Esse ci forniscono un quadro preliminare per l’analisi delle crisi capitaliste (cfr. Harvey 1982, cap. Vil). IL CIRCUITO SECONDARIO DEL CAPITALE

Ora lascio cadere l’assunzione implicita di produzione e consumo in un unico periodo di tempo, e considero i problemi posti dalla produzione e dall’uso di merci che richiedono periodi di lavorazione o di circolazio­ ne differenti, e i vari altri aspetti della questione. Si tratta di una temati­ ca estremamente complessa, che Marx in una certa misura affronta nel secondo libro del Capitale e nei Grundrisse. Mi limiterò ad alcune note in merito alla formazione del capitale fisso e del fondo di consumo. II ca­ pitale fisso, dice Marx, merita di essere analizzato a parte, in virtù di al­ cune peculiarità inerenti al suo modo di produzione e di realizzo. Esse derivano dal fatto che le componenti del capitale fisso vengono prodot­ te nel corso della normale produzione capitalista di merci, ma vengono utilizzate come ausilio al processo produttivo piuttosto che come input di materie prime. Il loro uso si estende quindi su un periodo di tempo

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relativamente lungo. Possiamo anche distinguere utilmente tra capitale fisso racchiuso nel processo produttivo e capitale fisso che funge da contesto fisico della produzione. Definisco quest’ultimo ambiente co­ struito per la produzione. Dal lato del consumo, la struttura è parallela. A partire dalle merci che fungono da ausilio, anziché da input diretto, al consumo si costitui­ sce un fondo di consumo. Alcune cose sono inserite direttamente nel processo di consumo (beni durevoli di consumo come cucine, lavatrici eccetera), mentre altre fungono da contesto fisico per il consumo (case, marciapiedi, e così via): definisco queste ultime ambiente costruito per il consumo. Dobbiamo notare che alcuni elementi dell’ambiente costruito servo­ no sia alla produzione che al consumo, come per esempio le reti di tra­ sporto, e che essi possono essere trasferiti dall’una all’altro cambiando­ ne la modalità d’uso. Inoltre, il capitale fisso nell’ambiente costruito è immobile nello spazio: il valore che vi è incorporato non può essere mosso senza venire distrutto. L’investimento nell’ambiente costruito dà quindi luogo a un intero paesaggio fisico, finalizzato alla produzione, alla circolazione, allo scambio e al consumo. Definisco i flussi di capitale nelle risorse fisse e la formazione del fondo di consumo il circuito secondario del capitale. Vediamo come può darsi questo flusso. Ovviamente per far sì che il capitale si muova nella produzione di risorse di lunga durata, in particolare di quelle che costi­ tuiscono l’ambiente costruito, dev’essere disponibile un “surplus” sia di capitale che di lavoro rispetto alle esigenze di produzione e di consumo del momento. La tendenza alla sovraccumulazione produce periodica­ mente tab condizioni all’interno del circuito primario. Una soluzione possibile, ma provvisoria, a questo problema di sovraccumulazione può quindi consistere nello spostamento di flussi di capitale verso il circuito secondario. Per i singoli capitalisti è spesso difficile effettuare tale spostamento. E ciò per molte ragioni. In particolare, questi ostacoli sono molto forti nel caso dell’ambiente costruito: gli investimenti tendono a essere su larga scala e di lunga durata, è difficile definirne il prezzo nei modi con­ sueti, e in molti casi essi si prestano a essere usati collettivamente da tut­ ti i singoli capitalisti, i quali, se lasciati a se stessi, tenderanno a svilup­ pare un’offerta di ambiente costruito insufficiente rispetto alle loro stesse esigenze. Essi tendono a sovraccumulare nel circuito primario e a sottoinvestire nel secondario e non riescono a organizzare un flusso di capitale equilibrato tra i due circuiti. Una condizione generale per l’afflusso di capitale nel circuito secon­ dario è quindi l’esistenza di un mercato dei capitali funzionante, e forse

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di uno stato disposto a finanziare e a garantire progetti a lungo termine e su larga scala volti alla creazione di ambiente costruito. Nei periodi di sovraccumulazione, si possono spostare flussi dal circuito primario al se­ condario solo se i vari fenomeni di sovraccumulazione possono essere trasformati in capitale monetario in grado di muoversi liberamente e senza impedimenti verso queste forme di investimento. Lo spostamento è possibile solo se esistono un’offerta di denaro e un sistema di credito che creano “capitale fittizio” prima della produzione e del consumo rea­ li. Questo vale sia per il fondo di consumo (e di qui viene l’importanza del credito al consumo, dei mutui immobiliari, del debito pubblico), che per il capitale fisso. Poiché la produzione di denaro e di credito è un processo relativamente autonomo, dobbiamo concepire le istituzioni fi­ nanziarie e statali che controllano il processo come una sorta di sistema nervoso collettivo che governa e media le relazioni tra il circuito prima­ rio e il circuito secondario del capitale. La natura e la forma di queste istituzioni, e le loro strategie politiche, possono esercitare un ruolo mol­ to importante nel bloccare o incentivare i flussi di capitale nel circuito secondario, o nei suoi segmenti specifici (come i trasporti, gli alloggi, le strutture pubbliche e così via). Un cambiamento in queste strutture di mediazione può dunque influenzare sia il volume che la direzione dei flussi di capitale bloccandone alcuni canali di movimento e aprendone di nuovi da qualche altra parte. IL CIRCUITO TERZIARIO DEL CAPITALE

Per completare il quadro della circolazione del capitale in generale, dob­ biamo concepire un circuito terziario del capitale. Esso comprende in pri­ mo luogo gli investimenti in scienza e tecnologia, scopo dei quali è appli­ care la scienza alla produzione, contribuendo così al continuo rivoluzio­ namento delle forze produttive sociali, in secondo luogo la spesa sociale nelle sue diverse articolazioni, collegate soprattutto ai processi di ripro­ duzione della forza-lavoro. Essa può essere utilmente suddivisa in inve­ stimenti diretti al miglioramento qualitativo della forza-lavoro dal punto di vista del capitale, come nel caso degli investimenti nell’istruzione e nella sanità, per mezzo dei quad si migliora la capacità dei lavoratori di contribuire al processo produttivo; e in investimenti finalizzati alla coop­ tazione, all’integrazione o eventualmente alla repressione della popola­ zione lavoratrice con mezzi ideologici, militari o di altro tipo. I singoli capitalisti in quanto tali hanno difficoltà a compiere simili investimenti, sebbene li ritengano molto opportuni. Anche in questo caso, essi sono in una certa misura costretti a costituirsi in classe, di so­ lito con l’aiuto dello stato, e quindi a trovare il modo di incanalare inve­

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stimenti in ricerca e sviluppo, e nel miglioramento quantitativo e quali­ tativo della forza-lavoro. Dev’essere chiaro che spesso devono fare que­ sti investimenti, per poter disporre di una base sociale adeguata per proseguire l’accumulazione. Per quanto riguarda le spese sociali, i flussi di investimento sono particolarmente influenzati dalla situazione del conflitto di classe. L’entità dell’investimento in repressione e in control­ lo ideologico è in funzione della minaccia portata dalla resistenza ope­ raia alla rapina capitalista. E il bisogno di cooptare il lavoro sorge solo quando la classe operaia ha accumulato un potere tale da rendere ne­ cessaria la cooptazione. Dato che lo stato può diventare un terreno di lotta di classe, non è affatto sicuro che le mediazioni che esso esprime siano perfettamente funzionali alle esigenze della classe capitalista. Il ruolo dello stato dev’essere studiato attentamente, da un punto di vista storico e teorico, nel suo rapporto con l’organizzazione dei flussi di ca­ pitale nel circuito terziario.

3. La circolazione complessiva del capitale e le sue contraddizioni La figura 3 rappresenta la struttura generale delle relazioni che costitui­ scono la circolazione del capitale fra i tre circuiti. Per come è presenta­ to, il diagramma sembra molto struttural-funzionalista, ma non credo vi siano altri modi di spiegare chiaramente le diverse dimensioni del flusso di capitale. Dobbiamo ora considerare le contraddizioni insite in queste relazioni. In un primo momento, assumerò che non vi sia lotta di classe esplicita tra capitale e lavoro. Così potremo vedere che la contraddizio­ ne tra il singolo capitalista e il capitale in generale è già di per sé una fonte di notevole instabilità nel processo di accumulazione. Abbiamo già visto come le contraddizioni interne alla classe capita­ lista determinino una tendenza alla sovraccumulazione nel circuito pri­ mario. Ho detto che questa tendenza può essere superata, almeno prov­ visoriamente, spostando capitale negli altri due circuiti. Il capitale si trova dunque aperte diverse opzioni di investimento: creazione di capi­ tale fisso o di fondo di consumo, investimento in scienza e tecnologia, investimento in «capitale umano, come di solito è chiamato il lavoro nella letteratura borghese», o anche pura e semplice repressione. In particolari congiunture storiche i capitalisti possono non essere in gra­ do di scegliere liberamente tra tutte queste possibilità: ciò dipende dal loro grado di organizzazione, dalle istituzioni che hanno creato, e dalle possibilità oggettive fornite dallo stato della produzione e da quello del­ la lotta di classe. Per il momento metterò tra parentesi questi problemi, per esaminare come la tendenza alla sovraccumulazione, seguita finora

Fig, 3. Struttura delle relazioni tra circuito primario, secondario e terziario del capitali

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solo nel circuito primario, si manifesta nella struttura generale della cir­ colazione. Per questo devo prima specificare il concetto di produttività dell’investimento. SULLA PRODUTTIVITÀ DEGLI INVESTIMENTI

NEI CIRCUITI SECONDARIO E TERZIARIO

Uso il concetto di “produttività” anziché quello di “profittabilità” per diversi motivi. In primo luogo, il tasso di profitto trattato da Marx nel terzo libro del Capitale è misurato in termini di valore e non di prezzo, e non considera la distribuzione del plusvalore nelle parti che lo compon­ gono: l’interesse del capitale monetario, il profitto del capitale produtti­ vo, la rendita della terra, il profitto del capitale commerciale, e via dicen­ do. Il tasso di profitto è trattato come media sociale di quanto guadagna­ to dai singoli capitalisti in tutti i settori, e si assume che la concorrenza lo renda effettivamente uguale per tutti. Questa concezione, tuttavia, non è molto adatta per prendere in esame i flussi tra i tre circuiti del capitale. In primo luogo, la formazione di capitale fisso nell’ambiente costruito, in particolare nei mezzi collettivi di produzione, non può essere compre­ sa se non si considera la formazione di un mercato dei capitali e la distri­ buzione di parte del surplus come interesse. Inoltre, molti dei prezzi prodotti per i circuiti secondario e terziario non possono ricevere un prezzo nel modo consueto, poiché l’azione collettiva dello stato non può essere esaminata a partire dai normali criteri di profittabilità. In terzo luogo, il tasso di profitto espresso in quei termini è utile per studiare il comportamento dei singoli capitalisti in concorrenza tra loro, ma non può essere adattato allo studio del comportamento dei capitalisti come classe senza aggiungervi alcune importanti assunzioni (per esempio eguagliando il profitto totale al plusvalore totale). Il concetto di produttività, purché sia ben specificato, ci aiuta a evita­ re alcuni di questi problemi. Il fatto è che i capitalisti come classe, spesso usando lo stato come strumento, investono nella produzione di condizio­ ni che sperano favorevoli all’accumulazione, alla loro riproduzione come classe e al mantenimento del loro dominio sul lavoro. Ne viene una defi­ nizione dell’investimento produttivo come investimento che espande, di­ rettamente o indirettamente, le basi per la creazione di plusvalore. E, per farla breve, gli investimenti nei circuiti secondario e terziario hanno, a certe condizioni, il potenziale di dare questo risultato. Il problema, che assilla e confonde i capitalisti, sta nell’individuare le condizioni e i mezzi che consentono la realizzazione di questo potenziale. II caso più semplice è l’investimento in nuove macchine. Queste so­ no direttamente produttive solo se espandono la base di produzione di

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plusvalore. Allo stesso modo, l’investimento in scienza e tecnologia può o non può produrre nuove forme di conoscenza scientifica applicabili al­ l’espansione dell’accumulazione. Ma che dire degli investimenti in stra­ de, alloggi, sanità e istruzione, polizia ed esercito, e via dicendo? Se i la­ voratori creano problemi sul luogo di lavoro, e alcuni capitalisti avvedu­ ti hanno investito in un corpo di polizia capace di intimidirli e di diminuire il loro potere collettivo, questo investimento può risultare in­ direttamente produttivo di plusvalore. Se invece la polizia è utilizzata per proteggere una borghesia che non fa che consumare il suo reddito, incurante della povertà e della miseria che la circonda, in questo caso es­ sa non fa nulla per agevolare 1’accumulazione. La distinzione è forse un po’ sottile, ma permette di capire il dilemma. Come può la classe capita­ lista individuare, con sufficiente precisione, le opportunità di investi­ menti indirettamente e direttamente produttivi nei circuiti secondario e terziario del capitale? La spinta all’interesse, tipicamente moderno, per la pianificazione, a livello statale o aziendale che sia, sta nella convinzione che certe for­ me di investimento nei circuiti secondario e terziario sono potenzial­ mente produttive. Questo interesse è alla base dell’intero apparato di analisi costi-benefici, di programmazione, di definizione di budget e di valutazione dei vantaggi sociali, come pure del concetto di capitale umano: esso testimonia tanto della complessità del problema quanto della difficoltà di determinare una base appropriata per prendere deci­ sioni, in assenza di segnali di profitto chiari e inequivocabili. Ma il co­ sto delle cattive decisioni di investimento che non contribuiscono di­ rettamente o indirettamente all’accumulazione di capitale, deve pur emergere da qualche parte. Deve venire in superficie, direbbe Marx, e così mostrare gli errori commessi. Possiamo iniziare a cogliere il pro­ blema considerando l’origine delle crisi all’interno del modo di produ­ zione capitalistico. SULLA FORMA DELLE CRISI NEL CAPITALISMO

Le crisi sono la manifestazione reale delle contraddizioni nascoste nel processo di accumulazione capitalista. L’argomento sostenuto da Marx per buona parte del Capitale è che nel capitalismo vi è sempre la possibi­ lità di avere una “crescita equilibrata”, ma che questo potenziale non vie­ ne attualizzato a causa della struttura dei rapporti sociali prevalente in una società capitalista. Essa porta i singoli capitalisti a determinare esiti collettivi in contrasto con il loro stesso interesse di classe, e li conduce a esercitare una violenza insopportabile sulla classe operaia, che dunque è spinta a rispondere dando luogo a un conflitto aperto.

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Abbiamo già visto come i capitalisti tendano a produrre stati di so­ vraccumulazione nel circuito primario, e ne abbiamo considerato i vari effetti. Con l’aumento della pressione, o il processo di accumulazione si blocca, o vengono trovate nuove opportunità d’investimento, e il capi­ tale affluisce per vari canali agli altri due circuiti. Questo movimento può incominciare come un rivoletto e trasformarsi in inondazione se così facendo si mostra chiaramente la possibilità di aumentare la produ­ zione di plusvalore. La tendenza alla sovraccumulazione non viene però eliminata: piuttosto, si trasforma in una tendenza diffusa al sovrainvestimento nei circuiti secondario e terziario. Esso dipende esclusivamen­ te dalle esigenze del capitale, e non ha nulla a che vedere con i reali bi­ sogni della gente, che restano insoddisfatti. Così la crisi si manifesta an­ che nel circuito secondario e nel terziario. Per quanto riguarda il capitale fisso e il fondo di consumo ha luogo una crisi della valutazione delle risorse. La sovrapproduzione cronica porta alla svalutazione delle componenti del capitale fisso e del fondo di consumo, un processo che interessa l’ambiente costruito e i beni durevoli di produzione e di consumo. Possiamo osservare in vari pun­ ti del diagramma dei flussi di capitale altre possibilità di crisi: delle spese sociali (salute, istruzione, repressione militare e simili), della creazione del fondo di consumo (alloggi), della tecnologia e della scienza. In ognuno di questi casi essa si determina quando la possibi­ lità di investimento produttivo si esaurisce. L’arrivo di ulteriori flussi di capitale non espande la base per la produzione di plusvalore. Biso­ gna notare inoltre che, di qualsiasi dimensione essa sia, ognuna di que­ ste sfere ha automaticamente un riflesso nelle strutture della finanza e dello stato, mentre queste, nella loro autonomia relativa, possono co­ stituire a loro volta una fonte indipendente di crisi (possiamo così par­ lare di crisi finanziarie, bancarie o monetarie, della crisi fiscale dello stato e così via). Esse sono insomma il “razionalizzatore irrazionale” del modo di produzione capitalistico. Sono indicatori di squilibrio e rendono neces­ saria la razionalizzazione di produzione, scambio, distribuzione e con­ sumo. Tale processo può essere doloroso anche per settori della classe capitalista, oltre che per il lavoro. Possono anche rendere necessaria una razionalizzazione delle strutture istituzionali, in particolare dello stato e della finanza. Dal punto di vista della struttura complessiva delle relazioni che ho descritto, si distinguono diversi tipi di crisi: 1. Crisi parziali, che riguardano un settore particolare, una regione geografica determinata, o una serie di istituzioni di mediazione. Pos­ sono avere cause diverse, ma sono potenzialmente risolvibili all’in­

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terno del contesto in cui si producono. Per esempio, crisi monetarie che si formano autonomamente e sono risolvibili con le riforme isti­ tuzionali, o crisi nelle creazioni dell’ambiente costruito, superabili con la riorganizzazione della produzione per quel settore, e così via. 2. Crisi di spostamento, che implicano una vasta riorganizzazione e ri­ strutturazione dei flussi di capitale e/o una massiccia ristrutturazione delle istituzioni di mediazione, per aprire nuovi canali agli investi­ menti produttivi. E utile distinguere tra due tipi di crisi mobili: a. Crisi di spostamento di settore, che comportano lo spostamento del­ l’allocazione di capitale da una sfera all’altra: per esempio, dalla creazione di capitale fisso all’istruzione. b. Crisi di spostamento geografico, che comportano lo spostamento dei flussi di capitale da un posto all’altro. Notiamo per ora che questa forma di crisi è particolarmente importante rispetto all’investimento in ambiente costruito, poiché questo è immobile e per prodursi ri­ chiede flussi di denaro capitale interregionali o internazionali. 3. Crisi globali, che riguardano, in misura maggiore o minore, tutti i settori, le sfere e le regioni del sistema produttivo capitalistico. In questo caso si avrà una svalutazione del capitale fisso e del fondo di consumo, una crisi della scienza e della tecnologia, una crisi fiscale nella spesa pubblica, e una crisi di produttività del lavoro: tutte nel­ lo stesso momento in tutte, o quasi, le regioni del sistema. Va detto, tra l’altro, che vi sono state solo due crisi globali estese all’intero si­ stema capitalistico: la prima durante gli anni trenta e nella guerra mondiale in cui questi sono terminati, la seconda è quella manifesta­ tasi dopo il 1973 ma che si era preparata per tutti gli anni sessanta.

Una teoria completa delle crisi capitalistiche dovrebbe mostrare come essè, in varie forme e manifestazioni, sono collegate nello spazio e nel tempo (vedi Harvey 1982). Questo esula dai fini del presente capitolo, ma posso chiarire qualcosa tornando al mio tema centrale: la compren­ sione del processo urbano nel capitalismo. 4. Jdaccumulazione e il processo urbano La mia teoria del processo urbano ha una particolarità: esso è analizza­ to in rapporto alla teoria dell’accumulazione. Dobbiamo quindi stabili­ re i punti di contatto generali tra quelli che sembrano a prima vista due modi completamente diversi di vedere il mondo.

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Il processo urbano, quali che ne siano gli aspetti, implica comunque la creazione di un’infrastruttura materiale per la produzione, la circola­ zione, lo scambio e il consumo. Il primo punto di contatto sta quindi nel considerare il modo in cui si produce questo ambiente costruito e come esso funge da sistema di risorse, o complesso di valori d’uso, per la produzione di valore e plusvalore. In secondo luogo bisogna conside­ rare il consumo. A questo proposito è utile distinguere tra il consumo di reddito da parte della borghesia e l’esigenza di riprodurre la forza-la­ voro. Il primo ha un impatto rilevante sul processo urbano, ma lo esclu­ derò dall’analisi perché altrimenti dovrei affrontare un lungo discorso sulla cultura borghese e sui suoi complessi significati, che non direbbe molto sulla forma specificamente capitalista dei processo urbano. Il consumo borghese è in effetti la ciliegina di una torta i cui ingredienti principali sono capitale e lavoro in rapporto dinamico. La riproduzione della forza-lavoro è invece essenziale, e richiede determinate spese so­ ciali e la creazione di un fondo di consumo. I flussi che abbiamo indica­ to, nella misura in cui rappresentano movimenti di capitale nell’am­ biente costruito, sia per la produzione che per il consumo, e nella pre­ disposizione di spese sociali per la riproduzione della forza-lavoro, ci forniscono i nessi strutturali di cui abbiamo bisogno per capire il pro­ cesso urbano nel capitalismo. Si può tuttavia obiettare che questi punti d’integrazione non tengo­ no conto della “dialettica urbano-rurale”, e che la riduzione del proces­ so urbano a noi familiare alla creazione di un ambiente costruito o alla riproduzione della forza-lavoro è fuorviarne, se non del tutto sbagliata. Si tratta, naturalmente, di un’obiezione giustificata. Tuttavia vorrei di­ fendere la riduzione per diversi motivi. In primo luogo, in pratica, la massa di capitale che affluisce nell’ambiente costruito e buona parte della spesa sociale sono assorbite in aree normalmente definite “urba­ ne”. Sotto questo aspetto la riduzione è un’utile approssimazione. In se­ condo luogo, è possibile affrontare buona parte dei problemi tipici del­ la ricerca urbanistica nei termini concettuali dell’ambiente costruito e delle spese sociali collegate alla riproduzione della forza-lavoro, con in più il vantaggio di cogliere meglio i legami con la teoria dell’accumula­ zione. In terzo luogo, vi sono buone ragioni per mettere in discussione la correttezza della dicotomia urbano-rurale anche quando viene espressa come unità dialettica: essa non costituisce una contraddizione primaria nel modo di produzione capitalistico. In altre parole, e detto in modo diretto, se la concezione normale del processo urbano sembra violata dalla riduzione che propongo, il problema allora sta nella conce­ zione normale. La dicotomia urbano-rurale è intesa da Marx come espressione del­

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la divisione sociale del lavoro. Il concetto fondamentale per lui è la divi­ sione del lavoro e non la dicotomia urbano-rurale, che ne è solo una forma particolare. Concentrarsi sulla dicotomia può essere utile allo studio delle formazioni sociali che sorgono nel corso del passaggio al capitalismo, come quelle in cui un settore industriale urbano si oppone a un settore contadino rurale solo formalmente compreso nel sistema di produzione e scambio di merci. Ma in un modo di produzione pura­ mente capitalista, in cui i lavoratori industriali e agricoli sono tutti real­ mente sussunti dal capitale, questa forma di divisione del lavoro perde buona parte del suo significato specifico. Scompare di fronte alla spe­ cializzazione geografica della divisione del lavoro, che diventa il punto centrale. Anche l’altro aspetto del processo urbano, cioè la concentra­ zione geografica di forza-lavoro e di valori d’uso per produzione e ri­ produzione, scompare da sé all’interno di un’analisi dell’organizzazione razionale nello spazio di infrastrutture fisiche e sociali. Nel contesto dei paesi a capitalismo avanzato e nell’analisi del modo di produzione capi­ talistico, la distinzione urbano-rurale perde la sua ragione economica: essa continua a esistere come ideologia, con esiti rilevanti. Ma conside­ rarla come uno strumento analitico fondamentale significa basarsi su una distinzione ormai superata, e che in ogni caso era solo un epifeno­ meno della divisione del lavoro. LA SOVRACCUMULAZIONE EI CICLI LUNGHI DELL’INVESTIMENTO

NELL’AiMBIENTE costruito

La prova del fuoco di ogni insieme di proposizioni teoriche arriva quando cerchiamo di metterle in relazione con l’esperienza storica e con la realtà politica. Nello spazio di un capitolo non posso certo spe­ rare di chiarire, così in dettaglio da risultare convincente, la relazione tra la teoria dell’accumulazione e delle sue contraddizioni, da una par­ te, e il processo urbano dall’altra. Quindi mi limiterò a illustrare alcu­ ni dei temi principali che si possono individuare. Per prima cosa mi concentrerò sui processi che determinano l’investimento nell’ambien­ te costruito. Il sistema di produzione messo in opera dal capitale si basa sulla se­ parazione fisica tra il luogo di lavoro e quello di residenza. La crescita del sistema di fabbrica, che ha creato questa separazione, si basa sull’or­ ganizzazione della cooperazione, sulla divisione del lavoro e sulle eco­ nomie di scala nel processo lavorativo, e sull’utilizzo delle macchine. Il sistema determina l’aumento della divisione del lavoro tra le imprese e le economie di scala collettive con la riunione delle attività in grandi centri urbani. Tutto questo implica la creazione di un ambiente costrui-

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to che funga da infrastruttura fisica per la produzione, ed esso com­ prende anche un sistema adeguato di trasporto delle merci. La creazio­ ne di un ambiente costruito per la produzione offre molte possibilità di impiego produttivo di capitale. Lo stesso vale per l’investimento in am­ biente costruito per il consumo. Si tratta allora di scoprire in che modo il capitale affluisce nella costruzione di questo ambiente, e vedere quali contraddizioni sono interne al processo. Dovrei innanzitutto dire qualcosa sul concetto di ambiente costrui­ to, e considerarne gli attributi principali. Si tratta di una merce com­ plessa e composita, che comprende strade, canali, porti, fabbriche, ma­ gazzini, fogne, uffici pubblici, scuole, ospedali, case, negozi e via dicen­ do, ognuno dei quali viene prodotto in condizioni e secondo regole diverse. Parlare di “ambiente costruito” è quindi una semplificazione notevole: il concetto richiede di essere disaggregato non appena inco­ minciamo ad approfondirne l’applicazione e l’uso. D’altra parte sappia­ mo che questi elementi devono funzionare come un insieme rispetto ai processi aggregati di produzione, scambio e consumo. Per comodità espositiva posso permettermi di restare a questo livello di generalità. Sappiamo anche che l’ambiente costruito è duraturo, difficile a trasfor­ marsi, immobile nello spazio, e che spesso assorbe grandi investimenti. Parte di esso viene usata insieme da capitalisti e consumatori, e anche gli elementi accessibili all’appropriazione privata (case, fabbriche, ne­ gozi eccetera) sono usati in un contesto in cui gli effetti d’esternalità de­ gli usi privati sono diffusi e spesso molto forti. Tali caratteristiche in­ fluiscono sull’investimento nell’ambiente costruito. L’analisi della formazione del capitale fisso e del fondo di consumo nel contesto dell’accumulazione fa pensare che l’investimento nell’am­ biente costruito proceda secondo una certa logica. Poniamo per il mo­ mento che lo stato non assuma un ruolo di guida nella promozione di grandi programmi di opere pubbliche anticipandone la domanda. I sin­ goli capitalisti, lasciati alle loro strategie, tendono a sottoinvestire nel­ l’ambiente costruito, rispetto alle loro esigenze individuali e collettive: contemporaneamente tendono a sovraccumulare. La teoria allora sug­ gerisce che la sovraccumulazione può essere aspirata via dalle istituzio­ ni finanziarie e statali e dalla creazione di capitale fittizio nel sistema bancario. Questo spostamento dal circuito primario al secondario può avvenire nel corso di una crisi o avvenire in modo più semplice: dipen­ de dall’efficienza delle istituzioni mediatrici. La teoria mostra che c’è un limite a questo processo, e che a un certo punto gli investimenti ces­ sano di essere produttivi. Allora il valore di scambio messo nell’ambien­ te costruito perde di valore, o viene addirittura perso del tutto. Il capi­ tale fittizio contenuto nel sistema bancario si mostra per quello che è, e

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le istituzioni della finanza e dello stato possono trovarsi in grave diffi­ coltà finanziaria. La svalutazione del capitale contenuto nell’ambiente costruito non distrugge necessariamente il suo valore d’uso, cioè l’am­ biente costruito come risorsa fisica. Questa può essere usata come “ca­ pitale svalutato”, e come tale funziona alla stregua di un bene gratuito che può contribuire a ristabilire le basi per un nuovo ciclo di accumula­ zione. È chiara, così, la logica della frase di Marx, secondo cui le perio­ diche svalutazioni del capitale fisso forniscono «uno dei mezzi imma­ nenti alla produzione capitalistica per bloccare la caduta del tasso di profitto, e per accelerare l’accumulazione di valore capitale formando nuovo capitale». Gli impulsi derivanti dalla tendenza alla sovraccumulazione e al sot­ toinvestimento sono ritmici, e non costanti: è dunque possibile costrui­ re un modello ciclico dell’investimento in ambiente costruito. Il ritmo è dato in parte dai tempi dell’accumulazione di capitale, e in parte dal tempo di vita fisico ed economico degli elementi presenti nell’ambiente costruito: questo significa che le trasformazioni devono essere relativa­ mente lente. La cosa migliore è dunque andare a vedere qual è l’eviden­ za storica delle “onde lunghe” di investimento nell’ambiente costruito. In qualche modo, a metà tra i movimenti di breve periodo dei cicli con­ giunturali, i “cicli di Juglar”, di circa vent’anni, e i “cicli di Kondratieff”, di lungo periodo, possiamo individuare movimenti di durata in­ termedia (a volte definiti “cicli di Kuznets”) che sono fortemente corre­ lati alle ondate di investimento nell’ambiente costruito. La ricerca di Gottlieb sui cicli dell’edilizia in trenta aree urbane in otto paesi ha mo­ strato una periodicità comune, tra i quindici e i venticinque anni.1 An­ che se la sua metodologia e il suo quadro d’analisi lasciano un po’ a de­ siderare, l’evidenza empirica raccolta da molti altri ricercatori consente di concludere che si tratta di una prima generalizzazione accettabile. Le figure 4, 5, e 6 illustrano il fenomeno. L’evidenza storica è quindi quan­ to meno in linea con la mia tesi: e comunque basta tener presente le ca­ ratteristiche materiali dell’ambiente costruito, e in particolare la sua lunga durata, il che significa che è molto difficile edificare delle città usa e getta, per quanto a Los Angeles ci possano provare. L’immobilità nello spazio dà anche luogo a problemi specifici, che richiedono soluzioni adeguate. A questo proposito l’evidenza storica è illuminante. Nell’“economia atlantica” del XIX secolo, per esempio, le onde lunghe di investimento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si 1 Gottlieb (1976), oltre alla sua analisi statistica, fornisce un’estesa bibliografia sul­ l’argomento. La questione delle onde lunghe è di recente ricomparsa nella letteratura marxista a opera di Mandel (1975) e Day (1976).

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Fig. 4. Investimento in particolari componenti dell’ambiente costruito in Gran Bretagna, 1835-1914 (milioni di sterline ai prezzi attuali).

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Fig. 5. Attività edilizia a Parigi: materie prime edili sdoganate in città, 18001910; milioni di metri cubi (fonte: Rougerie 1968).

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F/g. 6. Cicli edilizi negli Stati Uniti, 1810-1950. Sopra: attività edilizia pro capite negli Stati Uniti; dollari dal 1913 pro capite (fonte: B. Thomas 1972). Sotto: ven­ dite di terreni pubblici negli Stati Uniti; milioni di acri di terra di nuova acquisi­ zione (dati del Dipartimento dell’agricoltura degli Sati Uniti).

Fig. 7. Diversi ritmi di investimento nell’ambiente costruito in rapporto al PNL (Stati Uniti) e al PIL (Gran Bretagna), I860 1970 (medie mobili quinquennali).

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Fig. 8. Sviluppo ineguale nell’economia atlantica, 1865-1914, Gran Bretagna e Stati Uniti (fonte: B. Thomas 1972).

muovevano in senso opposto l’una all’altra (vedi figure 7 e 8). I due movimenti non erano indipendenti, ma collegati da migrazioni di capi­ tale e lavoro nel quadro dell’economia internazionale dell’epoca. Le crisi commerciali del XIX secolo spostarono capitale britannico dagli investimenti in patria a investimenti oltremare, o viceversa. Il “tutto” capitalista, quindi, è così riuscito ad avere una crescita più o meno bi­ lanciata, per mezzo di oscillazioni, che si controbilanciavano, di parti comunque inquadrate in un processo globale di espansione geografi­ ca.2 Lo sviluppo ineguale dell’ambiente costruito è stato quindi un ele2 La fonte migliore è Brinley Thomas, Migration and Economie Growth, che contiene una vasta bibliografia e una grande quantità di dati.

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mento cruciale per dar luogo alla stabilità globale relativa all’insegna della Pax Britannica del XIX secolo. Le crisi dell’epoca sono state o par­ ziali o di spostamento, e se guardiamo con attenzione ai dati possiamo vedere segni di crisi di quest’ultimo tipo, sia di settore che geografiche. Le crisi globali degli anni trenta e degli anni settanta possono essere in parte spiegate dalla scomparsa dei meccanismi che sfruttavano lo svi­ luppo ineguale in questo modo. In congiunture di tal genere l’investi­ mento in ambiente costruito acquista un senso diverso. Ogni crisi capita­ listica globale è stata in effetti preceduta da un movimento massiccio di capitale in investimenti a lungo termine: una sorta di estrema resistenza, nel tentativo di trovare usi produttivi per un capitale che si andava rapi­ damente sovraccumulando. Uno splendido esempio è lo straordinario boom immobiliare conosciuto da molti paesi a capitalismo avanzato tra il 1969 e il 1973, il cui crollo alla fine del 1973 ha messo in moto (senza es­ serne la causa reale) l’avvio della crisi ancora in corso (vedi fig. 9). Non sto cercando di verificare strido sensu la teoria che ho esposto in base al materiale storico, ma questo sicuramente non le è incompati­ bile. Del resto, fare in modo che la teoria si appoggi alla storia è un compito particolarmente difficile, e che di sicuro non ci si può propor­ re nell’arco di un breve capitolo. Proverò tuttavia a descrivere quali le­ gami si possono trovare, esaminando più in dettaglio i due aspetti cru­ ciali della teoria: la sovraccumulazione e la svalutazione. Il flusso di investimenti in ambiente costruito dipende dall’esistenza di surplus di capitale e di lavoro, e di meccanismi in grado di unirli e di renderli operativi. La storia di questo processo è molto interessante. Per esempio, il xvm secolo in Gran Bretagna è stato caratterizzato da un surplus di capitale, buona parte del quale, in mancanza di altri sboc­ chi, è finito nell’ambiente costruito. L’investimento, in questo caso, è dovuto quindi più a motivi finanziari che a ragioni collegate al suo valo­ re d’uso. Gli investitori infatti cercavano un tasso di ritorno costante e garantito per il loro capitale: le sole opzioni disponibili erano l’investi­ mento in terreni, in buona parte adibiti a consumi di lusso per la bor­ ghesia, in strade, canali e affitti, tutti fonte di migliorie per l’agricoltura, e in obbligazioni dello stato. Le varie crisi speculative che afflissero gli investimenti nelle strade e nei canali, e i mercati immobiliari urbani, mostrarono ben presto che i ritorni non erano per niente certi, e che gli investimenti, per avere successo, dovevano essere produttivi? 5 Il problema del surplus di capitale del XVIII secolo è stato sollevato da Postan (1935) e poi approfondito da Deane e Cole (1967). Ricerche recenti sul finanziamento di strade e canali in Gran Bretagna, di Albert (1972) e Ward (1974), forniscono informazio­ ni più dettagliate.

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Fig. 9. Alcuni indici del boom immobiliare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, 1955-1975. Sopra; tasso annuo di variazione del debito ipotecario negli Stati Uniti (dati del Dipartimento del commercio). Al centro; prezzi delle azioni dei fondi d’investimento immobiliare negli Stati Uniti. Sotto; indice dei prezzi delle azioni immobiliari in Gran Bretagna (fonte: Investors Chronicle/

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Sarebbe difficile sostenere che in questo periodo il surplus di capi­ tale sia sorto dalla tendenza alla sovraccumulazione appena descritta. Questo è, a rigore, un fenomeno che sorge solo nel modo di produzio­ ne capitalistico, o in formazioni sociali capitalistiche relativamente svi­ luppate. I cicli lunghi di investimento nell’ambiente costruito precedo­ no la nascita del capitalismo industriale, e possono essere individuati con una certa precisione nel corso del passaggio dal feudalesimo al ca­ pitalismo stesso.4 In ogni caso, si può vedere una forte correlazione tra questi cicli lunghi e le fluttuazioni dell’offerta di denaro e della struttu­ ra dei mercati del capitale. L’esempio più eclatante è quello degli Stati Uniti (vedi fig. 6): quando Andrew Jackson bloccò le transazioni di ter­ reni in titoli di pagamento per incentivare le transazioni in contanti, tutto il processo di speculazione fondiaria si fermò, e questo arresto fe­ ce sentire i propri effetti ovunque, soprattutto tra coloro che investiva­ no nell’ambiente costruito. Il ruolo del capitale “fittizio” (vedi Harvey 1982, capp. IX e x) e il sistema di offerta di credito e di denaro sono sempre stati decisivi per le varie onde di investimento speculativo nel­ l’ambiente costruito. È difficile stabilire con precisione quando la tendenza alla sovrac­ cumulazione è diventata la maggiore fonte di surplus di capitale, e quando le onde lunghe le si sono esplicitamente collegate. L’evidenza empirica suggerisce che alla fine del decennio 1840 il legame era già solido, almeno in Gran Bretagna. A quel punto, il funzionamento del mercato del capitale era saldamente collegato ai ritmi imposti dallo svi­ luppo del capitalismo industriale. Dopo il 1830, il “sistema nervoso centrale”, che controlla e media le relazioni tra i circuiti primario e se­ condario, funzionava sempre più secondo una logica puramente capi­ talista: questo valeva sia per il governo che per i privati. E forse sinto­ matico il fatto che la caduta della monarchia di luglio in Francia nel 1848 fosse direttamente collegata all’indebitamento in cui quel regime era incorso nel promuovere un vasto programma di opere pubbliche, molte delle quali non furono affatto produttive. Quando le crisi finan­ ziarie, nate in Inghilterra dalle straordinarie speculazioni nella costru­ zione delle ferrovie, investirono la Francia alla fine del 1846 e nel 1847, nemmeno il debito pubblico francese fu in grado di resistere.5 Perciò questa può essere ritenuta la prima crisi profonda e universale del mondo capitalista. E che ne è stato della svalutazione che inevitabilmente ne risulta­

4 La ricerca migliore è quella di Parry Lewis (1965).

5 Vedi Girard (1952) e The Urbanization of Capital, cap. m.

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va? Secondo la nostra teoria, se la svalutazione funziona, deve lasciare dietro di sé un valore d’uso utilizzabile come base per lo sviluppo ulte­ riore. Quando molti stati americani annullarono il loro debito all’ini­ zio del decennio 1840, non rimborsarono le obbligazioni da loro emesse sul mercato finanziario britannico, ma mantennero i canali e le altre migliorie costruite. Si trattò in effetti di un esproprio senza rim­ borso, una possibilità considerata con grande indignazione morale da­ gli Stati Uniti di oggi, quando qualche paese del Terzo Mondo la mi­ naccia. I grandi boom ferroviari del XIX secolo hanno di solito svaluta­ to capitale, ma hanno abbandonato nel paesaggio risorse fisiche che di solito sono poi state utilizzate. Quando il sistema di trasporto urbano di massa è andato in bancarotta alla fine del secolo per la sua cronica sovracapitalizzazione, i sistemi di trasporto sono comunque rimasti in quanto risorsa fisica. Naturalmente qualcuno doveva pagare per la svalutazione. Vi sono quindi stati gli inevitabili tentativi di scaricare i costi sulla classe operaia, spesso per mezzo delle spese municipali, o sui piccoli investitori. Neanche il grande capitale, comunque, era im­ mune, e i problemi conosciuti negli anni 1973-1976 dalle aziende im­ mobiliari in Gran Bretagna e dai fondi di investimento immobiliari ne­ gli Stati Uniti erano esattamente di questo tipo (anche se il coinvolgi­ mento dei fondi pensione e delle compagnie assicurative riguarda anche i singoli privati). Lo spazio degli uffici c’è ancora, comunque, anche se la loro costruzione è stata svalutata e viene giudicata una ri­ sorsa priva di guadagni. La storia delle svalutazioni dell’ambiente co­ struito è piuttosto vivace, e in generale si adatta bene alle tesi che ho esposto. IL CARATTERE CONTRADDITTORIO DEGLI INVESTIMENTI NELL’AMBIENTE COSTRUTTO

Finora ho trattato il processo di investimento nell’ambiente costruito come un puro riflesso di forze provenienti dal circuito primario del ca­ pitale. Vi sono, comunque, una serie di problemi che sorgono a causa delle caratteristiche specifiche dell’ambiente costruito stesso. Le consi­ dererò brevemente. La vasta analisi marxiana del capitale fisso in rapporto all’accumula­ zione mostra una contraddizione centrale. Da una parte, il capitale fisso aumenta la produttività del lavoro e quindi contribuisce all’accumula­ zione di capitale. Dall’altra parte, però, esso funziona come valore d’u­ so e richiede la conversione di valori di scambio in una risorsa fisica con determinate caratteristiche. Il valore di scambio racchiuso in questo va­ lore d’uso fisico può essere recuperato solo mantenendo il valore d’uso

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pienamente attivo per tutta la sua durata: per semplicità, parlerò a que­ sto proposito di “periodo di ammortamento”. Come valore d’uso il ca­ pitale fisso non può essere modificato facilmente, e così tende a conge­ lare la produttività a un certo livello, fino alla fine del periodo di am­ mortamento. Se prima che il vecchio capitale fisso abbia finito di ammortarsi ne nasce uno nuovo e più produttivo, allora il valore di scambio di quello vecchio è svalutato (Harvey 1982, cap. Vin). Se ci si oppone alla svalutazione si blocca la crescita della produttività e quindi si diminuisce l’accumulazione. La ricerca di forme nuove e più produt­ tive di capitale fisso, insomma, a sua volta determinata dalla ricerca di plusvalore relativo, accelera la svalutazione del vecchio capitale fisso. Possiamo trovare esattamente le stesse tendenze contraddittorie nel caso dell’investimento nell’ambiente costruito, anche se qui sono anco­ ra più esasperate a causa del tempo d’ammortamento generalmente lungo, della staticità spaziale della risorsa e dalla natura composita della merce in questione. E più facile dimostrare questa tesi utilizzando il ca­ so dell’investimento nei trasporti. Il costo, la velocità e la capacità del sistema di trasporto sono diret­ tamente collegati con l’accumulazione per l’effetto che hanno sul tem­ po di rotazione del capitale. Quindi, l’innovazione e l’investimento nei trasporti sono potenzialmente produttivi per il capitale in generale. Nel capitalismo vediamo quindi la tendenza a «superare tutte le barriere spaziali» e a «distruggere lo spazio con il tempo», per usare le espres­ sioni di Marx (vedi cap. II). Questo processo presenta cicli lunghi, del tipo che abbiamo già individuato, sviluppo ineguale nello spazio e mas­ sicce svalutazioni periodiche di capitale.6 Comunque, il punto in questione riguarda le contraddizioni implici­ te nel processo di sviluppo del trasporto stesso. Vengono impiegati va­ lori di scambio per creare configurazioni “efficienti” e “razionali” per il movimento nello spazio. In teoria vi dovrebbe quindi essere una certa ricerca di equilibrio e di armonia spaziali. Di contro, l’accumulazione per l’accumulazione determina continue rivoluzioni nella tecnologia dei trasporti e una tendenza continua a superare le barriere spaziali: tutto ciò distrugge qualsiasi configurazione spaziale esistente. Si giunge quindi a un paradosso. Per superare le barriere e per di­ struggere lo spazio con il tempo, vengono create strutture spaziali che si trasformano in ostacoli all’accumulazione ulteriore. Queste si manife­ stano come strutture immobili per il trasporto e strutture supplementa­ ri inserite nel paesaggio. Possiamo estendere questa idea fino a com-

6 Vedi Isard (1942) per l’interessante materiale in merito.

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prendere la formazione dell’ambiente costruito in generale. Il capitale si rappresenta nella forma di un paesaggio fisico creato a sua immagine, come valore d’uso al fine di aumentare l’accumulazione progressiva di capitale. Il paesaggio geografico che ne risulta è il trofeo dello sviluppo capitalistico passato. Contemporaneamente, però, esso esprime il pote­ re del lavoro morto sul lavoro vivo, e come tale imprigiona e impedisce il processo di accumulazione dentro a una serie di vincoli fisici specifici. Questi possono venire rimossi solo lentamente, a meno che non vi sia una svalutazione sostanziale del valore di scambio rinchiuso nella crea­ zione di queste risorse fisiche. Lo sviluppo capitalistico deve dunque crearsi un passaggio sul filo del rasoio, tra la conservazione dei valori di scambio dei precedenti investimenti di capitale nell’ambiente costruito e la distruzione del valore di questi per aprire nuovi spazi di accumulazione. Dietro al paesaggio del capitalismo c’è sempre, quindi, una lotta continua in cui il capitale costruisce un paesaggio fisico adeguato alla sua situazione in un mo­ mento preciso, per doverlo distruggere, di solito nel corso di una crisi, in un momento successivo. I flussi e riflussi temporali dell’investimento nell’ambiente costruito possono essere capiti solo in questi termini. Gli effetti delle contraddizioni interne del capitalismo, proiettati nel conte­ sto specifico di questi investimenti fissi e immobili nell’ambiente co­ struito, sono quindi scritti a grandi lettere nella geografia storica del paesaggio che ne risulta.

>. Lotta di classe, accumulazione e il processo urbano nel capitalismo

Che dire, allora, della lotta di classe aperta, della resistenza collettiva­ mente opposta dalla classe operaia alla violenza che la forma di accu­ mulazione capitalistica inevitabilmente le infligge? Questa resistenza, una volta divenuta più che nominale, deve sicuramente interessare il processo urbano nel capitalismo in modo specifico. Dobbiamo quindi cercare di inserirla in qualsiasi analisi del processo urbano capitalistico. Spostiamo dunque la nostra attenzione dalle leggi contraddittorie del­ l’accumulazione, alla lotta aperta della classe operaia contro l’effetto di queste leggi. Potremo così cogliere più chiaramente diversi aspetti dello stesso processo. Nelle pagine seguenti cercherò di mostrare come i due argomenti siano complementari. In un certo senso, non è difficile scrivere sulla lotta di classe: infatti, non ci troviamo di fronte una teoria, ma solo attività sociali specifiche in contesti sociali specifici. Questo però, se vogliamo capire come la lot-

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ta di classe si è inserita nel processo urbano, ci obbliga a capirne la sto­ ria. Non potendone parlare in poche pagine, mi limiterò a considerare le condizioni contestuali della lotta di classe e la natura delle risposte borghesi. Queste sono determinate dalle leggi dell’accumulazione, che resta comunque il mezzo con cui la classe capitalista riproduce se stessa e il proprio dominio sul lavoro. Il punto di tensione centrale tra capitale e lavoro è il luogo di lavoro, in cui si producono lotte sul processo lavorativo e sul tasso di salario. Esse, inoltre, hanno luogo in un contesto. La natura delle richieste, le capacità organizzative dei lavoratori, e la determinazione con cui essi affrontano la lotta dipendono in buona parte dalle condizioni conte­ stuali. La legge (diritti di proprietà, regimi contrattuali, relazioni indu­ striali), e il potere della classe capitalista di applicarne le disposizioni utilizzando il potere statale, è fondamentale, come qualsiasi studio an­ che superficiale della storia del movimento operaio mostra chiaramen­ te. Qui, comunque, la nostra attenzione è rivolta al processo di riprodu­ zione della forza-lavoro rispetto alla lotta di classe nel luogo di lavoro. Si considerino innanzitutto gli aspetti quantitativi della forza-lavoro rispetto alle esigenze dell’accumulazione capitalistica. Quanto maggio­ re è il surplus di lavoro, e quanto più velocemente questo si espande, tanto più facilmente il capitale può controllare il conflitto sul luogo di lavoro. Il principio dell’esercito industriale di riserva è una delle intui­ zioni più profonde di Marx. Le migrazioni di lavoro e di capitale, e i va­ ri processi di mobilitazione per mezzo dei quali elementi “inutilizzati” della popolazione sono spinti tra i lavoratori, sono manifestazioni di questo bisogno fondamentale di disporre di un surplus relativo di po­ polazione. Dobbiamo anche prendere in considerazione i costi della ri­ produzione della forza-lavoro a un tenore di vita determinato, il quale riflette una serie di elementi culturali, storici, morali e ambientali. Un cambiamento di questi costi, o della definizione del tenore di vita, ha conseguenze evidenti per le richieste di salario reale e per la somma to­ tale dei salari che la classe capitalista deve pagare. La dimensione del mercato interno formato dal potere d’acquisto della classe operaia non è, del resto, irrilevante ai fini dell’accumulazione. Di conseguenza, le abitudini di consumo dei lavoratori sono molto importanti, direttamen­ te e indirettamente, per la classe capitalista. Ma dobbiamo anche considerare una serie di aspetti qualitativi della forza-lavoro, che non sono solo capacità e competenze tecniche e pro­ fessionali, ma sistemi di opinione, livelli di accondiscendenza, di etica del lavoro e di “individualismo possessivo”, nonché il grado di fram­ mentazione della forza-lavoro derivante dalla divisione del lavoro e dei ruoli occupazionali, o da frammentazioni precedenti di tipo razziale, re­

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ligioso ed etnico. La capacità e il desiderio dei lavoratori di organizzarsi secondo determinate linee dipende dalla creazione e dal mantenimento di un senso di coscienza di classe a dispetto di queste frammentazioni. Lo sforzo per superarle di fronte alla tattica di divide et impera spesso utilizzata dai capitalisti è fondamentale per capire le dinamiche della lotta di classe sul posto di lavoro. Questo ci conduce alla nozione di lotta di classe spostata, con cui intendo un conflitto che ha origine nel processo lavorativo ma che si ramifica e si estende in tutti gli aspetti del sistema di relazioni stabilito dal capitalismo. Possiamo rinvenire simili ramificazioni in ogni angolo della totalità sociale, e sicuramente le vediamo all’opera nei flussi di ca­ pitale tra i diversi circuiti. Per esempio, se sul luogo di lavoro non au­ menta la produttività, forse un adeguato investimento in capitale uma­ no (educazione), in cooptazione (proprietà della casa da parte dei lavo­ ratori), in persuasione (indottrinamento ideologico) o in repressione può dare sul lungo periodo risultati migliori. Un esempio viene dall’i­ struzione pubblica e dai conflitti cui essa dà luogo. In Tempi difficili Dickens costruisce un brillante contrappunto sa­ tirico tra il sistema di fabbrica e le istituzioni educative, filantropiche e religiose destinate a sviluppare nella classe operaia opinioni e disposi­ zioni adeguate all’attività del sistema di fabbrica, mentre altrove fa dire al suo archetipo borghese, Mr. Dombey, che l’istruzione pubblica è una cosa eccellente perché insegna alla gente comune quale sia il suo posto nel mondo. Il diritto alla pubblica istruzione è stato a lungo una rivendicazione fondamentale della classe operaia. La borghesia a un certo punto ha capito che essa poteva essere mobilitata contro gli inte­ ressi di quella classe. In generale, il conflitto sui servizi sociali non ri­ guarda solo la loro fornitura, ma anche la loro natura. Un sistema di sanità nazionale che definisce lo stato di malattia come impossibilità di andare a lavorare (per produrre plusvalore) è infatti diverso da uno im­ perniato sul benessere mentale e fisico complessivo dell’individuo in un dato contesto fisico e sociale. La socializzazione e la formazione del lavoro, in altri termini la ge­ stione del capitale umano, non possono essere lasciate al caso. Il capi­ tale cerca quindi di giungere a dominare il processo vitale, la riprodu­ zione della forza-lavoro: lo fa perché è necessario. In questo passag­ gio, i collegamenti e i rapporti sono complessi e molto difficili da districare. Ora prenderò in considerazione diversi aspetti dell’attività: quotidiana, fuori dal luogo di lavoro, come esempi di lotta di classe spostata.

ALCUNE NOTE SUL PROBLEMA DEGLI ALLOGGI

La rivendicazione di un alloggio adeguato rientra chiaramente tra le priorità della classe operaia. Anche il capitale ha interesse a produrre merci per il fondo di consumo, purché questa produzione offra adegua­ te possibilità di accumulazione. L’andamento generale del conflitto di classe sugli alloggi ha sempre avuto un ruolo molto importante nel pro­ cesso urbano. Possiamo ricondurlo direttamente alle dinamiche del luogo di lavoro. La concentrazione della produzione pone un problema quantitativo immediato, di alloggiare i lavoratori nei posti giusti: problema che ini­ zialmente i capitalisti hanno cercato di risolvere creando alloggi azien­ dali, e che poi hanno lasciato al mercato. Il costo della casa è una parte importante del costo della forza-lavoro. Più i lavoratori sono in grado di rivendicare il diritto all’abitazione in quanto parte del salario, tanto più il problema dei costi degli alloggi diventa rilevante per il capitale. In­ nanzitutto, la struttura complessiva del consumo in generale è correlata alla forma assunta dalla fornitura di alloggi. I problemi di potenziale so­ vraccumulazione che gli Stati Uniti si trovarono di fronte nel 1945 furo­ no in gran parte risolti dalla creazione di un nuovo stile di vita con la ra­ pida proliferazione del processo di suburbanizzazione. Inoltre, il con­ flitto sociale degli anni trenta spinse la borghesia ad adottare una politica volta ad assicurare ai lavoratori più benestanti la proprietà di una casa individuale, al fine di assicurare la stabilità sociale. Questa so­ luzione presentava il vantaggio ulteriore di espandere la produzione di alloggi come strumento di rapida accumulazione a mezzo di produzio­ ne di merci. La soluzione ebbe un tale successo che il settore degli al­ loggi divenne un regolatore keynesiano “anti-ciclico” del processo com­ plessivo di accumulazione, almeno fino al disastro del 1973. Le linee se­ guite dalla lotta di classe in Francia sono invece state molto diverse (vedi Houdeville 1969). Dato chela stabilità sociale era assicurata dalla presenza di un settore agricolo in cui prevaleva la piccola proprietà pri­ vata fondiaria, il problema degù alloggi è sempre stato visto politicamente soprattutto come problema di costi. Il controllo degli affitti negli anni tra le due guerre mondiali ne ridusse il costo, ma ebbe un effetto negativo sulla costruzione di abitazioni come settore produttivo di mer­ ci, con tutti gli effetti che ne sono conseguiti in termini di scarsità e qua­ lità dell’offerta. Solo dopo il 1958 il settore divenne terreno di investi­ mento e accumulazione, grazie però alle incentivazioni statali. Molto di quello che è accaduto nel campo degli alloggi e la conseguente forma dell’“urbano” si possono spiegare solo riferendosi a queste diverse for­ me di lotta di classe.

l’“influenza morale” della suburbanizzazione

COME ANTIDOTO ALLA LOTTA DI CLASSE

Il mio secondo esempio è ancora più complesso. Consideriamo in gene­ rale la storia della risposta borghese alle più forti minacce di conflitto so­ ciale, spesso correlate con forti concentrazioni spaziali di classe operaia e di disoccupati. Le rivoluzioni in tutta Europa del 1848, la Comune di Parigi del 1871, la violenza urbana dei grandi scioperi ferroviari degli Stati Uniti del 1877 e gli incidenti di Chicago del 1886 mostrarono con chiarezza i rischi di rivoluzione collegati con un’alta concentrazione di “classi pericolose” in determinati luoghi. La risposta borghese si avvalse, tra l’altro, di una politica di “dispersione”, in modo tale che poveri e la­ voratori potessero essere investiti da quella che i riformatori urbani del XIX secolo di entrambe le sponde dell’oceano definirono 1’“influenza morale” delle zone suburbane. Terreni suburbani a buon mercato, allog­ gi e trasporti erano tutti parte di questa soluzione che implicava, di con­ seguenza, un certo tipo e una certa quantità di investimenti in ambiente costruito da parte della borghesia. Nella misura in cui questa politica era necessaria, essa ebbe un impatto rilevante sulla forma delle città, sia americane che britanniche. E qual è stata la risposta borghese alle rivolte urbane dei ghetti americani degli anni sessanta? Aprire le aree suburba­ ne, incentivare la proprietà della casa anche per i neri e i meno abbienti, migliorare la mobilità col sistema di trasporto e così via. Le analogie, co­ me si vede, sono notevoli. LA DOTTRINA DEL “PROGRESSO COMUNITARIO” E LE SUE CONTRADDIZIONI

Un’alternativa alla dispersione è fornita dall’applicazione delle dottrine del progresso comunitario. Già nel 1812 il reverendo Thomas Chalmers propose di mobilitare lo “spirito comunitario” come antidoto alla co­ scienza di classe e alle minacce di violenza rivoluzionaria che ne deriva­ vano alle città inglesi da parte della crescente massa proletaria. Chalmers vedeva soprattutto nella Chiesa e in altre istituzioni comunitarie le armi di controllo ideologico, nel tentativo di promuovere un insegnamento di armonia di fronte alle realtà della lotta di classe. Ma i riformatori civili, urbani e “morali” della fine del secolo, in paesi diversi come la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti, intendevano attuare uno sforzo rea­ le di miglioramento della qualità della vita almeno per la classe operaia rispettabile, se non per i poveri di città. Per i sociologi come Le Play o i fondatori della scuola di Chicago, l’imperativo religioso era sottilmente celato sotto quelli che sembravano principi neutrali di ricerca scientifica, che suggerivano anche modalità di azione sociale per fare fronte alle mi­

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nacce di conflitto. Il filo della risposta borghese a un problema struttura­ le e irrisolvibile va dai riformatori urbani come Joseph Chamberlain di Birmingham e i “progressisti” americani, fino agli architetti dei pro­ grammi della “grande società” negli Stati Uniti degli anni sessanta. D’altra parte il “principio comunitario” non è solo un’invenzione borghese. Ha un suo vero e proprio equivalente nel ceto operaio, che funge da arma difensiva e anche offensiva nella lotta di classe. Le condi­ zioni di vita nella comunità sono molto importanti per la classe operaia, e possono quindi diventare un oggetto di contrasto che acquista una certa autonomia dal conflitto di fabbrica. Le istituzioni comunitarie possono essere utilizzate ai fini della classe. Agli inizi della rivoluzione industriale la Chiesa si è in diverse occasioni mobilitata, a livello locale, in difesa degli operai; negli anni sessanta è stata uno dei centri del movi­ mento di liberazione nero negli Stati Uniti e oggi è un fulcro di mobili­ tazione anche nelle Province Basche in Spagna. Il principio comunita­ rio può dunque costituire un trampolino per l’azione di classe, e non es­ sere solo un antidoto al conflitto. In effetti, si può dire che nella società capitalistica la definizione della comunità e il controllo delle sue istitu­ zioni sono tra le poste in gioco del conflitto di classe, il quale può poi esplodere in infinite dimensioni, mettendo un settore di borghesia con­ tro l’altro, o frammenti di classe operaia gli uni contro gli altri: i campa­ nilismi e i principi dell’“autonomia della comunità” sono diventati una parte essenziale della vita nella società capitalistica. Troviamo quartieri suburbani borghesi che resistono all’ulteriore accumulazione di capita­ le nell’ambiente costruito, e singole comunità che lottano per espansio­ ni che generano un ordine spaziale estremamente inefficiente e irrazio­ nale anche dal punto di vista del capitale, proprio quando vanno incon­ tro a livelli di debito che minacciano la stabilità finanziaria complessiva. Le drammatiche difficoltà fiscali di New York tra il 1973 e il 1976 sono tipiche dell’esperienza storica americana. I conflitti interni al processo urbano possono sfuggire al controllo anche nel momento in cui tensioni etniche, religiose e razziali assumono dinamiche autonome a volte in ri­ sposta a stimoli provenienti dalla borghesia. L’utilizzo delle differenze etniche e razziali da parte della borghesia per frammentare l’organizza­ zione operaia sul luogo di lavoro ha una storia lunga e infame, soprat­ tutto negli Stati Uniti. RESISTENZA OPERAIA E CIRCOLAZIONE DEL CAPITALE

Le strategie della dispersione, del progresso comunitario e della con­ correnza tra le comunità sono fondamentali per capire la storia mate­ riale del processo urbano nel capitalismo, poiché nascono dalla rispo­

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sta borghese all’antagonismo di classe. Esse, peraltro, non sono prive di implicazioni per la circolazione del capitale. Le vittorie dirette e le concessioni strappate dalla classe operaia hanno la loro importanza an­ che sotto questo profilo. Ora, però, ritorniamo alle dinamiche dell’accumulazione, perché se i capitalisti si devono riprodurre e riprodurre il proprio dominio sul la­ voro, devono anche essere in grado di rendere qualsiasi conquista del lavoro compatibile con le leggi che determinano la produttività degli investimenti per l’accumulazione. Questi possono spostarsi da una sfe­ ra all’altra in risposta alla lotta di classe solo nella misura in cui sono ri­ spettate le leggi dell’accumulazione. L’investimento in alloggi per la classe operaia o in un servizio sanitario nazionale può quindi essere trasformato in un mezzo di accumulazione producendo merci per que­ sti settori. La lotta di classe può dunque produrre crisi di spostamento, il risultato delle quali è in grado di cambiare la struttura dei flussi di investimento a vantaggio degli operai. Ma tutte le rivendicazioni inter­ ne alle compatibilità economiche dell’accumulazione complessiva pos­ sono essere accettate senza particolari perdite da parte della classe ca­ pitalista. Solo nel caso in cui la lotta di classe spinga il sistema oltre le sue possibilità interne sono messe in questione l’accumulazione di ca­ pitale e la riproduzione della classe capitalista. La risposta della bor­ ghesia a una situazione di questo tipo dipende dalle possibilità a sua disposizione. Per esempio, se il capitale si può spostare geograficamen­ te in luoghi dove la classe operaia è più docile, la borghesia può cerca­ re di evitare in questo modo le conseguenze dell’aggravarsi del conflit­ to. Altrimenti può investire in repressione economica, politica e fisica, o semplicemente crollare di fronte all’assalto operaio. La lotta di classe dunque ha un ruolo significativo nella determina­ zione dei flussi di capitale tra sfere e regioni. La sequenza temporale de­ gli investimenti nell’ambiente costruito di Parigi, per esempio, è carat­ terizzata da fosse profonde negli anni di violenza rivoluzionaria (1831, 1848, 1871: vedi fig. 6). A prima vista il ritmo sembra dettato da eventi puramente politici, ma il ritmo tipico dei quindici-venticinque anni fun­ ziona in questo caso come funziona in paesi dove l’agitazione politica è stata molto meno rilevante. Le dinamiche della lotta di classe non sono impermeabili all’influsso dei ritmi dell’accumulazione capitalistica, ma sarebbe troppo semplici­ stico interpretare gli eventi politici parigini solo in questi termini (vedi The Urbanization of Capital, cap. III). Quello che sembra incredibile è che i ritmi generali di accumulazione rimangono all’incirca intatti nono­ stante le variazioni nell’intensità della lotta. A pensarci bene, però, non è affatto strano. Viviamo ancora in una società capitalista e se essa resi-

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ste ciò è dovuto alla sua capacità di imporre le leggi di accumulazione che le consentono di sopravvivere. Il che non significa diminuire il valo­ re della resistenza della classe operaia, ma segnalare che la lotta per l’a­ bolizione del lavoro salariato e del dominio del capitale sul lavoro deve guardare al giorno in cui le leggi dell’accumulazione capitalistica saran­ no lasciate ai libri di storia. E fino ad allora, queste stesse leggi, con tut­ te le loro contraddizioni interne, rimarranno necessariamente la forza che spinge la nostra storia.

3. La rendita fondiaria nel capitalismo

Con il concetto di rendita l’economia politica di tutte le scuole di pen­ siero affronta tradizionalmente il problema dell’organizzazione spaziale e del valore per gli utenti dei differenziali di fertilità, siano questi di ori­ gine naturale o creati dall’uomo. Nel regime di proprietà privata, l’ap­ propriazione reale della rendita fondiaria da parte dei proprietari costi­ tuisce la base di varie forme di controllo sociale dell’organizzazione spaziale e dello sviluppo geografico del capitalismo. L’interpretazione della rendita nel contesto della società rimane an­ cora oggi un elemento controverso nella letteratura marxista. Lo stesso Marx lascia l’argomento in uno stato di notevole confusione teorica, af­ frontandolo in una serie di scritti incompleti e quasi sempre pubblicati solo postumi, in cui pone tanti problemi quanti ne risolve. Il punto teo­ rico centrale è questo: come si può spiegare sulla base di una teoria del valore fondata sul lavoro, che qualcosa venga pagato ai detentori dei terreni in quanto tali, cioè distinti dalle migliorie che vi ha apportato il lavoro umano? A questa domanda fondamentale, Marx dà risposte a prima vista diametralmente opposte. Da una parte definisce il valore della terra come un’espressione del tutto irrazionale, che non può avere alcun senso in un contesto di relazioni sociali puramente capitalistiche; dall’altra definisce la rendita fondiaria come «la forma in cui si realizza economicamente la proprietà fondiaria» (Il capitale, libro in, pagg. 771, 1018-1024). Nelle Teorie del plusvalore (vol. II, pag. 158) Marx sostiene che se la relazione di classe dominante è quella tra capitale e lavoro, al­ lora «le circostanze in cui il capitalista deve a sua volta dividere parte [...] del plusvalore da lui predato con terze persone non lavoratrici, vengono solo in seconda istanza», mentre nel Capitale (libro III, pag. 771) discute di come «lavoratori salariati, capitalisti industriali, proprie­ tari fondiari» insieme costituiscano «l’una di fronte all’altra, il quadro della società moderna», il che rappresenta in effetti un salto non da po­

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co, visto che i proprietari fondiari vi compaiono improvvisamente come una terza “classe principale”, proprio alla fine di un'analisi che si fonda su un’interpretazione del capitalismo basata su due classi. Ogni soluzione alla confusione teorica lasciata da Marx deve poter spiegare una grande quantità di circostanze pratiche e materiali. Marx stesso osserva che la terra può avere diverse funzioni: può fungere da elemento, da mezzo, o da condizione della produzione, o semplicemente da riserva di altri valori d’uso, come nel caso dei minerali. Il tipo di so­ cietà in questione e il tipo di attività che vi si svolgono determinano qua­ le di queste diverse funzioni possibili acquista significato politico-econo ­ mico. Nell’agricoltura, per esempio, la terra diventa un mezzo di produ­ zione, nel senso che un processo di produzione ha luogo letteralmente dentro al suolo stesso. Nel capitalismo, invece, il suolo diventa un canale per il flusso del capitale attraverso la produzione: la terra quindi è una forma di capitale fisso (o «terra-capitale», come dice Marx). Quando si costruiscono fabbriche e case la terra su cui esse sorgono funge da condi­ zione della produzione (spazio), mentre per l’industria edilizia essa rap­ presenta in primo luogo un elemento della produzione. La terra «chiede il suo tributo», come dice Marx, in tutti questi casi diversi, e dobbiamo anche tener presente che la forma e il significato sociale della rendita va­ riano a seconda dei diversi usi possibili. Inoltre, la teoria della rendita deve comprendere una grande e differenziata quantità di pagamenti provenienti dai soggetti più disparati: contadini affamati di terra che pa­ gano l’affitto ai proprietari; magnati del petrolio in cerca di attici di pre­ stigio nelle capitali del mondo; industriali in cerca di siti adeguati per la produzione; imprenditori immobiliari in cerca di terra per costruirci so­ pra; immigrati che cercano una stanza in città; proprietari di negozi che vogliono accedere a clientele ad alto reddito. E gli stessi proprietari fon­ diari sono un gruppo ben assortito: famiglie ricche con grandi proprietà, operai che hanno investito i loro risparmi in un piccolo podere, aziende fondiarie, banche e compagnie di assicurazione, grandi imprese multina­ zionali e simili. È evidente che il “tributo” pagato in base alla proprietà fondiara si muove in molte direzioni diverse. Eppure dobbiamo trovare un modo di comprendere tutto questo. Abbiamo un bisogno disperato di un’«analisi scientifica della rendita fondiaria», della «specifica, indipendente forma economica della pro­ prietà fondiara, sulla base del modo di produzione capitalistico» nella sua «purezza, libera da tutte le aggiunte che la falsano e la obliterano» (77 capitale, libro III, pag. 779). Nelle pagine che seguono cercherò di svol­ gere tale analisi scientifica sulla base di risultati acquisiti altrove (Harvey 1982). Per ridurre la confusione, incomincerò con analizzare la rendita fondiaria appropriata dalla circolazione del capitale nella produzione,

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per poi considerarla rispetto alla circolazione dei redditi e infine dal punto di vista delle condizioni di transizione che di solito si manifestano prima che il capitalismo sia pienamente affermato come forma economi­ ca dominante in una formazione sociale. Questo mi consente di affronta­ re il problema dei cosiddetti “residui feudali” e il ruolo della rendita fondiaria nella transizione al capitalismo. Spero così di giungere a una comprensione più adeguata di come abbia inciso la rendita fondiaria nella geografia storica dello sviluppo capitalistico. 2. La rendita e la circolazione del capitale

Marx sostiene che il monopolio della proprietà privata sulla terra è sia «un presupposto storico» che «la base permanente» del modo di produ­ zione capitalistico (Il capitale, libro III, pag. 768). Nostro compito è mo­ strare come, perché e in che senso questa tesi è vera. A tal fine, incomincerò con una serie di assunzioni forti, per semplificare l’argomentazione. In primo luogo, assumo che tutti gli elementi di transizione (i residui feudali) siano scomparsi e che ci si trovi di fronte a un modo di produ­ zione puramente capitalista. In secondo luogo, che la rendita fondiaria possa essere distinta chiaramente da tutti i pagamenti per le merci incor­ porate nella terra (migliorie dei terreni, costruzioni eccetera, che sono frutto di lavoro umano e non sono state ancora del tutto ammortate). In terzo luogo, che la circolazione del capitale possa essere chiaramente di­ stinta da quella delle rendite. E, infine, che la terra abbia un valore d’uso in quanto elemento, mezzo o condizione di produzione (piuttosto che di consumo; si consideri anche che tralascio, come caso speciale, il concet­ to di terra come riserva di valori d’uso, come nel caso delle risorse mine­ rarie). In questo modo siamo in grado di analizzare la rendita fondiaria direttamente in rapporto alla circolazione del capitale. La descrizione complessiva che Marx ci dà della persistenza della rendita fondiaria nel capitalismo è la seguente: La proprietà fondiaria non ha nulla a che vedere con l’effettivo processo di produzione. La sua funzione si limita a trasferire tura parte del plu­ svalore prodotto dalle tasche del capitale nelle sue. Tuttavia, il proprie­ tario terriero svolge un ruolo nel processo produttivo capitalistico, non solo per la pressione che esercita sul capitale, e neppure soltanto per il fatto che la grande proprietà fondiaria è un presupposto ed una condi­ zione della produzione capitalistica perché è presupposto e condizione dell’espropriazione del lavoratore dalle condizioni di lavoro, ma specifi­ camente per il fatto di apparire come personificazione di una delle più essenziali condizioni della produzione. (Il capitale, libro ili, pag. 1015)

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Possiamo quindi distinguere tre ruoli diversi. L’espropriazione del la­ voratore dalla terra è vitale nella fase dell’accumulazione primitiva, proprio perché la terra può sempre essere usata come mezzo di produ­ zione. Se il lavoro dev’essere lavoro salariato, il lavoratore non deve po­ ter avere libero accesso alla terra. Da questo punto di vista la barriera che la proprietà fondiara erige tra il lavoro e la terra è socialmente ne­ cessaria per l’esistenza del capitalismo. Questa funzione può essere svolta altrettanto bene, comunque, se la terra diventa proprietà dello stato, «proprietà comune della classe borghese, del capitale». In questo caso, però, sorge il problema che molti membri della borghesia, capita­ listi compresi, sono proprietari di terra, e che «l’assalto ad una forma di proprietà [...] diventerebbe molto pericoloso per l’altra forma» {Teorie del plusvalore, vol. Il, pagg. 42, 104). Da questo punto di vista, si può vedere nella rendita un pagamento collaterale, che viene effettuato ai proprietari fondiari per conservare la santità e l’intangibilità della pro­ prietà privata in generale e di quella dei mezzi di produzione in parti­ colare. Questo aspetto ideologico, giuridico e politico della proprietà fondiara è estremamente importante, ma di per sé non è sufficiente a spiegare la forma capitalistica della rendita. Per interpretare dal punto di vista sociale la rendita fondiaria nel capitalismo, è quindi cruciale il terzo ruolo della proprietà fondiara, che è peraltro il più difficile da precisare. La chiave interpretativa del ruolo della proprietà fondiaria nel capi­ talismo sta nella pressione che essa esercita sui capitalisti. La natura di tale pressione varia a seconda del tipo di rendita estratta. Le rendite di monopolio e assolute interferiscono con l’accumulazione, e sorgono so­ lo nella misura in cui la proprietà fondiaria ostacola la libera circolazio­ ne del capitale. La rendita assoluta, dice Marx, alla fine deve scompari­ re {Il capitale, libro IH, pag. 944; Teorie del plusvalore, vol. Il, pag. 325). Le rendite monopolistiche, che in una certa misura sono inevitabili, so­ prattutto nelle aree urbane e in terre dotate di qualità peculiari o di una posizione particolare, devono essere tenute più basse possibili. Ma le categorie importanti non sono le rendite di monopolio e assolute. Una simile conclusione va, in realtà, contro le affermazioni spesso citate di Marx sull’importanza della rendita assoluta {Il capitale, libro III, Appen­ dice, pagg. 1151-1152), ma concorda con la brevità del trattamento ri­ servato a questi concetti dal Capitale e dalle Teorie del plusvalore, so­ prattutto se la si confronta con le moltissime pagine dedicate al dibatti­ to sulla natura delle rendite differenziali. Io quindi mi trovo d’accordo con l’opinione di Fine (1979), il quale ritiene che le vedute di Marx sul­ la rendita differenziale, soprattutto quelle parzialmente elaborate nel Capitale, sono piuttosto diverse da quelle di Ricardo e forniscono la

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chiave per la corretta interpretazione della rendita fondiaria in rapporto alla circolazione del capitale. Marx segue Ricardo nel distinguere due tipi di rendita differenziale, ma introduce un’innovazione analizzando come le due rendite si rap­ portano l’una all’altra, e come «costituiscano nello stesso tempo, l’una per l’altra una barriera» (Il capitale, libro ni, pag. 911). E difficile distri­ care le intuizioni di Marx all’interno di capitoli fitti di argomentazioni involute e di calcoli matematici complessi. Mi limiterò a esporne i punti principali. La rendita differenziale del primo tipo (RD1) nasce perché i produt­ tori che dispongono di suoli più fertili o situati in posizioni più favore­ voli ricevono un profitto supplementare rispetto ai costi di chi produce su una terra peggiore o in posizioni meno favorevoli. I suoli e le posi­ zioni migliori, infatti, sono, proprio come la tecnologia più avanzata, fonti di plusvalore relativo per i singoli produttori: questo spiega per­ ché essi sembrano “produttivi di valore”. Diversamente dalla tecnolo­ gia avanzata, però, i suoli e le posizioni migliori possono costituire fon­ ti relativamente stabili di profitti supplementari. Se questi sono prele­ vati come rendite, il tasso di profitto nei diversi suoli e nelle diverse posizioni si eguaglia. Allora i capitalisti possono concorrere tra loro so­ lo adottando tecniche migliori: così il sistema capitalista viene riportato al suo percorso centrale, ovvero alla ricerca di rivoluzioni delle forze produttive come sua unica possibile salvezza. L’estrazione di RD1 ha quindi una funzione sociale vitale rispetto alle dinamiche dell’accumu­ lazione. Se non ci fosse, alcuni produttori potrebbero sedersi compia­ ciuti sui profitti supplementari forniti dai vantaggi “naturali” o “posi­ zionali” e venire meno al loro compito di rivoluzionare le forze produt­ tive anche sulla terra. La concezione di RD1, che nell’essenziale non diverge da quella di Ricardo, deve essere modificata su tre punti importanti. In primo luo­ go, fertilità e posizione sono sostituibili, e quindi la terra peggiore deve essere concepita come una combinazione di caratteristiche. In secondo luogo, sia la fertilità che la posizione sono prodotti sociali e quindi pos­ sono essere modificate: sia direttamente, con l’esaurimento o il miglio­ ramento del suolo, o una trasformazione delle possibilità di trasporto, che indirettamente, cambiando le tecniche di produzione e quindi cam­ biandone le esigenze in termini di suolo o di posizione. In terzo luogo, RD1 dipende da un “normale” afflusso di capitale nella produzione sul­ la terra. E se andiamo a vedere che cosa costituisce tale afflusso norma­ le, incontriamo subito il problema del secondo tipo di rendita differen­ ziale (RD2). La conseguenza immediata è che RD1 dipende dai flussi di capitale che generano automaticamente RD2.

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Pensiamo a una situazione in cui non vi sono vantaggi dovuti alla posizione o alla fertilità. I differenziali nella produttività della terra in questo caso sarebbero causati esclusivamente dalle diverse quantità di capitale investito, assumendo un qualche tipo di ritorno in scala. I pro­ fitti supplementari di questo tipo sono interamente dovuti all’investi­ mento di capitale. La conversione di questi profitti in RD2 bloccherà l’afflusso di capitale sulla terra, nel caso in cui si verifichino due condi­ zioni particolari. Primo: se gli investimenti collocano sulla terra forze produttive relativamente stabili, allora il flusso di capitale lascia dietro di sé un residuo di migliorie che formano la base per l’appropriazione di RD1. Residui di questo tipo, come terreni bonificati o disboscati, o al­ tre forme di miglioria dei terreni, sono di grande e diffusa importanza. Secondo: l’appropriazione diretta di RD2 può, nelle circostanze oppor­ tune, evitare che i capitali fluiscano attraverso canali che possono essere produttivi di profitto per il singolo capitalista ma che avrebbero un im­ patto negativo sulla crescita aggregata della produzione di plusvalore. Ci troviamo di fronte al classico caso in cui gli individui, lasciati ai loro piani e sotto la pressione della concorrenza, si impegnano in strategie d’investimento che possono mettere in pericolo la riproduzione della classe capitalista in generale. In condizioni di questo tipo, la disciplina esterna imposta dai proprietari terrieri, come la disciplina esterna eser­ citata dal sistema bancario, ha un effetto potenzialmente positivo sulla stabilizzazione dell’accumulazione. Bisogna comunque sottolineare che si tratta di un esito “potenziale”: quello che i noiosi esempi matematici di Marx sembrano voler mostrare è che l’appropriazione di RD2 può esercitare una pressione sia negativa che neutra o positiva sull’accumu­ lazione del capitale, a seconda delle circostanze. Inoltre, l’afflusso di ca­ pitale sulla terra dipende anche dalle condizioni di accumulazione, per esempio da un’abbondanza di capitale in generale, o dalle particolari condizioni del sistema bancario (Il capitale, libro III, pagg. 951, 822). Cerchiamo ora di mettere insieme il concetto di RD 1 e quello di RD2. Sarebbe un grave errore, come segnala Fine (1979), se trattassimo le due forme di rendita come separate e additive. Nella misura in cui RD1 dipende da una stima sociale del “vantaggio naturale e posizionale”, es­ sa dipende da flussi di capitale che a volte trasformano a fondo la natu­ ra. Da parte sua, l’appropriazione di RD2 non potrebbe avvenire senza il presupposto di RD1. Le due forme di rendita differenziale in effetti si fondono, fino al punto in cui diventa difficile distinguere tra ciò che è dovuto alla terra (al fine di eguagliare il tasso di profitto e mantenere la spinta al rivoluzionamento delle forze produttive impegnate) e ciò che è dovuto al capitale (al fine di mantenere l’afflusso di capitale nel rivolu­ zionamento delle forze produttive agricole a un livello compatibile con

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un buon ritmo di accumulazione). In altri termini, l’appropriazione del­ la rendita ha al suo interno funzioni contraddittorie. La continua ten­ sione tra proprietari fondiari e capitalisti all’interno di un modo di pro­ duzione strettamente capitalistico riflette questa contraddizione. Inol­ tre, nella misura in cui l’appropriazione della rendita può avere effetti negativi, neutri o positivi sull’accumulazione, le relazioni sociali che sorgono in risposta a questa contraddizione possono avere un forte ef­ fetto sull’allocazione di capitale alla terra, su tutta la struttura organiz­ zativa dello spazio, e quindi sulla dinamica generale dell’accumuazione. Per esplorare queste contraddizioni e i loro effetti dobbiamo comun­ que per prima cosa determinare la forma che deve assumere la pro­ prietà privata della terra se dev’essere integrata in un modo di produ­ zione puramente capitalistico. La conclusione cui giunge Marx, ma senza spiegare bene il suo per­ corso, è che la terra dev’essere considerata come una pura risorsa finan­ ziaria, perché si è trasformata in una forma di “capitale fittizio”. Tale conclusione richiede di essere spiegata (Harvey 1982, capp. IX e X). Il “capitale fittizio” esprime un diritto di proprietà su un qualche reddito futuro. Le azioni, per esempio, possono essere vendute prima che abbia luogo la produzione effettiva. Gli acquirenti danno il loro denaro in cambio di una quota dei frutti del lavoro futuro. Finché il denaro è usa­ to per mettere in opera del lavoro, o per creare condizioni, come infra­ strutture fisiche, capaci di aumentare la produttività del lavoro sociale, allora il capitale fittizio può effettivamente essere realizzato. Ma anche nelle migliori condizioni, esso porta con sé la speculazione; nelle peg­ giori, fornisce abbondanti opportunità di frode e svalutazione. Il capi­ talismo, comunque, non potrebbe funzionare senza la creazione su lar­ ga scala e la mobilitazione delle diverse forme del capitale fittizio, attra­ verso il sistema bancario e i mercati del capitale. Solo in questo modo il capitale può essere spostato rapidamente dai settori e dalle regioni im­ produttivi a quelli produttivi, si possono aprire nuove linee di attività, si può ottenere la centralizzazione dei capitali e così via. Il sistema del cre­ dito, e soprattutto il mercato del capitale, assume un ruolo centrale per il coordinamento dell’accumulazione e in tutte le contraddizioni inter­ ne del capitalismo. Le crisi quindi si mostrano sempre, in prima istanza, come crisi finanziarie e monetarie. Una volta chiarito il significato delle forme fittizie di capitale, vedia­ mo in che modo possono essere comprati e venduti i diritti di proprietà su qualsiasi forma di reddito futuro. Il debito pubblico è il diritto a una quota delle entrate fiscali future, le ipoteche sulla terra un diritto sulle rendite future, i mutui fondiari un diritto ai pagamenti di ammortamen­ to futuri: tutti possono essere venduti. Nel caso della terra, si vende e si

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compra il diritto alla rendita fondiaria che essa garantisce. Tale rendita, scontata al tasso d'interesse attuale, determina il prezzo della terra. Ne consegue una relazione stretta tra rendita e interesse. Il denaro sborsato dal compratore è equivalente a un investimento che frutterà un interes­ se: si tratta di una pretesa sui futuri frutti del lavoro. La proprietà di ter­ ra diventa allora una forma di capitale fittizio, in linea di principio non distinto da azioni, obbligazioni e simili, anche se comunque ha alcune qualità specifiche di sicurezza, non liquidità eccetera. La terra, in breve, può essere considerata una pura risorsa finanziaria. Questa è la condi­ zione, a mio parere, che determina la forma pura di proprietà fondiaria nel capitalismo. La teoria della rendita fondiaria dice che i proprietari devono ap­ propriarsi senza esitazione di tutti i profitti supplementari dovuti ai vantaggi relativamente permanenti di fertilità e di posizione, siano que­ sti prodotti dal capitale o meno. Le aspettative di profitti supplementa­ ri futuri, dovuti a flussi di capitale e a lavoro futuri, determinano il prezzo presente della terra nella misura in cui essa diventa una pura ri­ sorsa finanziaria, una forma di capitale fittizio. Marx ha escluso una si­ mile attività di speculazione dalla sua analisi (salvo in qualche caso: per esempio, Il Capitale, libro III, pagg. 954-956) e si è quindi limitato a ve­ dere la proprietà fondiaria come una funzione interamente passiva. Ma i mercati fondiari, come quelli dei capitali, giocano un ruolo di coordi­ namento vitale nell’allocazione alla terra di capitale e lavoro futuri. I proprietari abbandonano la loro posizione passiva e possono quindi giocare un ruolo attivo nella creazione delle condizioni che permettono la futura appropriazione di rendite maggiori. In questo modo essi ov­ viamente condannano il lavoro futuro a livelli sempre crescenti di sfrut­ tamento, nel nome della terra stessa; ma al tempo stesso giocano un ruolo vitale nell’accumulazione. I proprietari fondiari possono costringere il capitale alla creazione di rendite fondiarie maggiorate nel futuro, o cooperare con esso a que­ sto fine. Cercando sempre di utilizzare la terra per i suoi usi «migliori e più avanzati», creano uno strumento di scelta che seleziona tali usi e de­ termina allocazioni di capitale e lavoro che altrimenti non si avrebbero. Essi introducono nell’utilizzo della terra una fluidità e un dinamismo altrimenti difficili a generarsi, e in questo modo lo adeguano alle esigen­ ze sociali. Formano la struttura geografica di produzione, scambio e consumo, la divisione tecnica e sociale del lavoro nello spazio, gli spazi socioeconomici di riproduzione, ed esercitano invariabilmente una for­ te influenza sugli investimenti in infrastrutture fisiche, soprattutto nei trasporti. Essi sono normalmente in concorrenza per un certo modello di sviluppo, per un certo insieme di investimenti e attività che offrano le

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migliori prospettive di crescita delle rendite future. In questo modo, co­ me dice Marx, «la rendita, invece di legare l’uomo alla natura, ha sol­ tanto legato lo sfruttamento della terra alla concorrenza» {Miseria della filosofia, pag. 109). Possiamo ora completare l’argomentazione. Non solo l’appropria­ zione della rendita è socialmente necessaria, nel capitalismo, in virtù dell’importante funzione di coordinamento che essa svolge, ma i pro­ prietari fondiari devono trattare la loro terra come una pura risorsa fi­ nanziaria, una forma di capitale fittizio, e devono pertanto cercare di esercitare un ruolo attivo nel coordinare l’afflusso di capitale verso e at­ traverso la terra. L’effetto è che si apre la proprietà fondiaria alla circo­ lazione di capitale produttivo d’interesse, e si legano i mercati fondiari, gli usi dei terreni e l’organizzazione dello spazio che ne consegue al pro­ cesso generale di circolazione del capitale. Contemporaneamente, però, più aperto è il mercato fondiario, più si scatena il capitale monetario in surplus: esso crea piramidi di titoli di debito e cerca di realizzarsi saccheggiando e distruggendo la terra stes­ sa. L’investimento in appropriazione, necessario se si vuole che il mer­ cato fondiario svolga le sue vitali funzioni di coordinamento, contem­ poraneamente apre la terra a «ogni tipo di forme insane» scatenatesi nel sistema del credito in generale. Quello che può sembrare uno strumen­ to sano e razionale per coordinare l’uso della terra a fini di produzione e realizzo di plusvalore, si può troppo facilmente trasformare in un in­ cubo di incoerenza e di orge periodiche di speculazione. Anche in que­ sto caso, come in altri, l’unica forma di razionalità cui in definitiva il ca­ pitalismo risponde è l’irrazionalità della crisi. A questo punto si possono trarre le conclusioni. Vi è una forma di proprietà fondiaria e di rendita fondiaria che si integra pienamente con la circolazione del capitale. I mercati fondiari, come quelli dei capitali, non producono valore in senso proprio, ma giocano un ruolo vitale nel coordinamento del lavoro sociale. Il capitalismo non funzionerebbe sen­ za di loro. E i mercati fondiari non esisterebbero se non vi fosse la rendi­ ta: l’appropriazione di profitto supplementare dal capitale. La facilità del capitalismo a entrare in crisi è quindi mantenuta e aumentata tanto all’interno del sistema del credito quanto nei mercati fondiari. C’è gran­ de bisogno di un’analisi dettagliata della forma specifica assunta da que­ ste contraddizioni all’internò dei mercati finanziari. Tutto ciò richiede che la terra sia trattata come una pura risorsa fi­ nanziaria, come una forma di capitale fittizio. Questo richiede a sua vol­ ta che il potere di qualsiasi classe distinta di proprietari fondiari sia in­ franto, e che la proprietà di terreni diventi da tutti i punti di vista, com­ preso quello psicologico, semplicemente un problema di scelta tra i

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diversi tipi di risorse da includere in un portafoglio complessivo di in­ vestimenti. E questo è il modo in cui, in misura sempre crescente, i fon­ di pensione, le compagnie assicurative e anche i privati tendono a vede­ re l’investimento fondiario. Non voglio dire, con questo, che tutte le for­ me tradizionali di proprietà terriera siano in pratica scomparse nel mondo del capitalismo avanzato. Ma è interessante notare che negli Sta­ ti Uniti, il paese meno interessato da “residui feudali", la terra viene vista già da molto tempo come una risorsa finanziaria pura, e che in paesi co­ me la Gran Bretagna è evidente un passaggio in questo stesso senso. Na­ turalmente, il punto è che queste forme di proprietà fondiaria, e le di­ sposizioni sociali che esse determinano, sono del tutto coerenti con la circolazione del capitale, e contemporaneamente esprimono appieno le contraddizioni interne allo stesso processo di circolazione.

2. La rendita e la circolazione dei redditi All’interno di un modo di produzione puramente capitalistico, tutte le fome di reddito, salari, profitto d’impresa, interessi, tasse, rendita, e così via, hanno origine nella produzione di valore e plusvalore. Ma, una volta distribuiti, i redditi sono liberi di circolare, rendendo possibili varie for­ me secondarie di sfruttamento. Le rendite possono quindi essere appro­ priate altrettanto facilmente dalla circolazione dei redditi che da quella dei capitali. I proprietari fondiari sono presumibilmente indifferenti al­ l’origine immediata del pagamento della loro rendita: a loro basta che questa continui ad arrivare. Però le distinzioni teoriche sono importanti, perché si danno spesso circostanze, soprattutto ma non solo nelle aree urbane, in cui è impossibile capire il significato sociale dei pagamenti di rendita senza considerare esplicitamente la circolazione dei redditi. La circolazione dei redditi è molto complicata, e rende quindi ne­ cessaria un’analisi preliminare. La somma totale dei salari, per esem­ pio, si suddivide tra le diverse frazioni del proletariato secondo i loro costi di riproduzione e i guadagni che ottengono dalla lotta di classe. I capitalisti, inoltre, normalmente non fanno caso ai bisogni individuali dei loro lavoratori e li pagano al salario corrente per l’occupazione spe­ cifica. Ma i desideri e i bisogni individuali del lavoratore variano enor­ memente, a seconda dello status sociale della famiglia, dell’età, della sa­ lute, e anche delle preferenze e dei gusti soggettivi. In un dato giorno, quindi, alcuni lavoratori avranno dei surplus monetari, mentre altri non saranno in grado di soddisfare le loro esigenze. Tutto questo dà luogo alla circolazione dei redditi da salario all’interno della classe ope­ raia. In primo luogo, si possono effettuare pagamenti per servizi presta­

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ti (babysitting, lavanderia, cucito, cucina eccetera). In secondo luogo, i lavoratori possono prestarsi i soldi gli uni agli altri, a volte con un tasso d’interesse. Le prime mutue operaie, le casse di risparmio, le cooperative'e altre forme simili non erano che tentativi di istituzionalizzare tale attività. L’estensione di questa circolazione di reddito può variare, ma può essere anche piuttosto grande. Il sistema di previdenza sociale, per esempio, è un trasferimento da coloro che lavorano a coloro che sono in pensione, trasferimento che avviene in cambio del diritto a una quo­ ta dei salari futuri. Anche diverse frazioni di borghesia possono dare luogo a circola­ zione di redditi al loro interno o tra di loro, o vendendo servizi, o attra­ verso intricati sistemi di prestito. Le storie di Balzac o di Dickens dan­ no bene il senso dell’importanza sociale di questa forma di circolazione dei redditi. Essa inoltre può avvenire anche tra le classi sociali. La bor­ ghesia spesso prende in affitto lavoratori al tasso corrente per procu­ rarsi i servizi che il gusto, la moda, il costume o le inclinazioni persona­ li fanno desiderare. Il cuoco, il cameriere, la prostituta, il giardiniere sono tutti pagati dalla circolazione dei redditi e non da quella dei capi­ tali. Allo stesso modo i lavoratori possono pagare, o essere costretti a pagare, per i servizi loro forniti dalla borghesia: servizi legali, ammini­ strativi e così via. E chiaro che nei dettagli la circolazione dei redditi è qualcosa di complicato e di grandi dimensioni. Buona parte dei dettagli di quanto accade nella società borghese, appropriazione della rendita inclusa, de­ ve essere compresa in rapporto alla circolazione dei redditi. Se si voles­ se cercare di spiegare questi dettagli riferendoli direttamente alle cate­ gorie elaborate da Marx per trattare la dinamica della circolazione del capitale, si commetterebbe un grave errore. D’altra parte, la circolazio­ ne dei redditi si congiunge, in determinati punti, con quella del capita­ le. In un modo di produzione puramente capitalistico, tutti i redditi hanno la loro origine nella produzione di valore e plusvalore, e in ulti­ ma analisi ritornano alla circolazione di capitale attraverso l’acquisto di merci. Se questa relazione aggregata viene meno, anche la circolazione del capitale crolla. Inoltre, dato che il tempo di circolazione è impor­ tantissimo per il capitale, il tempo perso nella circolazione dei redditi è un ostacolo all’accumulazione. Da questo punto di vista ci troviamo di fronte a situazioni in cui un’adeguata circolazione dei redditi può avere un ruolo positivo rispetto all’accumulazione. Per esempio, se le case devono essere comprate in contanti e gli individui devono risparmiare tutti i soldi necessari all’acquisto, devono essere accumulate notevoli somme di denaro. La circolazione del denaro come capitale e la do­ manda di alloggi, che rappresenta un importante campo di accumula­

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zione, sono ambedue tenute sotto controllo e frenate. Il blocco può es­ sere superato se c’è la possibilità di contrarre prestiti da un sistema bancario grazie a cui gli individui con un surplus di denaro ne possono prestare a chi lo richiede. I freni si riducono e la libera circolazione del capitale viene massimizzata. Una struttura inadeguata per la circolazio­ ne dei redditi può dunque fungere da ostacolo alla circolazione del ca­ pitale. Le politiche pubbliche, soprattutto quelle del welfare state, han­ no spesso cercato di produrre strutture più efficienti per la circolazione dei redditi rispetto a quella del capitale. La mossa è piuttosto conve­ niente: spesso il disordine sociale può essere placato da riforme che sembrano soddisfare le esigenze dei lavoratori razionalizzando la circo­ lazione dei redditi, mentre in realtà aumentano, e non diminuiscono di certo, quella del capitale. Le riforme del New Deal americano sono sta­ te di questo tipo. Il problema è che una volta iniziata la circolazione dei redditi, nulla garantisce che essa soddisferà le esigenze della circolazione del capitale. Contrarre un prestito per riuscire a comprarsi la casa può essere perfet­ tamente razionale dal punto di vista dell’accumulazione, ma far circola­ re mandati di pagamento per coprire debiti di gioco non lo è di certo. Esistono inoltre infinite possibilità di forme di sfruttamento seconda­ rio: il prestito a usura o lo strozzinaggio. E, in definitiva, la distinzione tra la circolazione del capitale e quella dei redditi è poco sostenibile an­ che nel caso delle diverse transazioni in denaro che caratterizzano la vi­ ta quotidiana. Se i lavoratori fanno prestiti ad altri lavoratori a un dato tasso d’interesse, perché non li possono fare anche ai capitalisti, soprat­ tutto se il tasso d’interesse è più alto? E se i lavoratori contraggono pre­ stiti, cosa può fermare lo sviluppo dell’usura aH’interno della classe, il banco dei pegni tanto odiato, o la penetrazione del prestito capitalista, che controlla e stimola il consumo operaio? Il problema si pone poiché la distinzione tra lavoratori e capitalisti nel sistema del credito viene co­ perta: la relazione fondamentale è tra chi prende a prestito e chi presta, tra debitori e creditori di ogni tipo. Compaiono quindi numerosi feno­ meni cha vanno controcorrente rispetto alle forme di sfruttamento pri­ mario, mentre Marx si occupa a lungo ed esclusivamente di queste. Vediamo ora in che modo tutto ciò è in rapporto con l’interpreta­ zione, dal punto di vista sociale, del pagamento delle rendite. Il potere di monopolio conferito dalla proprietà privata sulla terra ne resta la base. Però ora siamo in grado di vedere che la rendita non è solo tratta dai capitalisti, come semplice deduzione di parte del plusvalore pro­ dotto sotto il loro comando. La rendita proviene anche dai lavoratori, da altri membri della borghesia (finanzieri, professionisti, uomini d’af­ fari in pensione, altri proprietari fondiari), dallo stato e dalle diverse

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organizzazioni culturali, religiose ed educative. Ci può essere appro­ priazione di rendita a partire dalla circolazione di redditi di ogni tipo. E difficile usare le categorie di Marx, che si occupa solo della circola­ zione del capitale, per spiegare la rendita pagata dai dirigenti d’impre­ sa per affittare attici a Parigi o a Londra, o quella pagata dai ricchi pensionati della Florida o dai neri disoccupati del ghetto di Baltimora. Per di più, dato che la terra è stata ridotta a una forma di capitale fittizio, a una pura risorsa finanziaria, chiunque risparmi può investire in terreni, appropriarsi di rendita e speculare sui prezzi. Se un operaio è proprietario di un piccolo appezzamento, può partecipare al gioco co­ me tutti gli altri. In effetti, la piccola proprietà fondiaria e il piccolo commercio immobiliare, a partire dall’affitto di camere, è stato per se­ coli un importante mezzo di mobilità verso l’alto per la classe operaia e la piccola borghesia. La distruzione del potere di una classe unitaria di proprietari fondiari apre a chiunque disponga di risparmi la possibilità di investirli in terreni, e di acquisire così il potere di appropriarsi di rendite. È possibile vedere chiaro in questo bizzarro intreccio di relazioni sociali, e dire qualcosa di coerente sul significato sociale del pagamento di rendite? Credo che l’analisi di Marx, opportunamente modificata, sia sempre d’aiuto. Tanto per cominciare, possiamo definire l’appropriazione di rendita un momento interno alla circolazione dei redditi in generale, e quindi fare riferimento alla necessaria relazione tra questa e la circolazione del capitale per verificarne i limiti. Se tutto il plusvalore è appropriato e de­ tenuto come rendita, non ci sarebbe posto per l’accumulazione del ca­ pitale, né, se è per questo, per alcuna altra forma di circolazione di red­ dito. Faccio riferimento al caso della reductio per porre la seguente do­ manda: quale misura di appropriazione di rendita è adeguata a sostenere l’accumulazione di capitale? Abbiamo già detto che l’appro­ priazione di rendita per la produzione ha un’importante funzione di al­ locazione della terra a usi diversificati, e di adattamento dell’organizza­ zione dello spazio alle esigenze del capitalismo. Il flusso di capitale fittizio attraverso la terra ha quindi la caratteristica di poter forgiare configurazioni spaziali “razionali” rispetto all’accumulazione aggregata sia della produzione che del consumo. Il capitalismo, quindi, si avvan­ taggia della persistenza della proprietà fondiaria privata e delle rendite che ne derivano. Il problema, naturalmente, è che non vi è modo di prevenire lo sviluppo di qualsiasi tipo di folli attività speculative e mo­ nopolistiche nel campo dell’appropriazione di queste rendite, né la tra­ smissione degli impulsi speculativi dall’interno del sistema del credito. Vi sono così due conseguenze: un’appropriazione di rendita eccessiva

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rispetto alla circolazione del capitale e una forte distorsione della strut­ tura spaziale. Questo conduce a forti spinte verso l’eliminazione o il controllo, per mezzo deh’intervento statale, del potere di appropriazio­ ne di rendita, i cui effetti positivi, neutri o negativi sull’accumulazione di capitale non vengono quindi meno, e restano parte fondamentale delle tendenze per e contro l’equilibrio presenti nel modo di produzio­ ne capitalistico. Anche i dettagli interni dell’appropriazione di rendita in rapporto con la circolazione dei redditi vanno esaminati più da vicino, sfruttan­ do in parte l’analogia con le categorie marxiane di base. Sia Marx, di passaggio, che Engels (1950) sostengono che la rendita estratta dal la­ voratore, come forma secondaria di sfruttamento, può influire sul va­ lore della forza-lavoro e quindi diminuire il plusvalore appropriato dal capitalista. Su questa base Engels critica coloro che cercano una solu­ zione al problema degli alloggi senza prendere in considerazione il problema dei salari. Anche se corretta nella sostanza, questa posizione non fa venir meno la necessità di analizzare le conseguenze economi­ che, sociali e ideologiche del pagamento di rendite. Se si analizzano questi problemi, vengono alla luce cose piuttosto interessanti. Per esempio, se i lavoratori ricevono un salario uniforme, coloro che vivo­ no vicino al luogo di lavoro avranno costi di trasporto inferiori e quin­ di inferiori costi di riproduzione sociale. Se gli affitti pagati per gli al­ loggi della classe operaia sono strutturati in modo appropriato, essi avranno l’effetto di eguagliare il salario reale pagato ai lavoratori che abitano in luoghi diversi. L’analogia con la rendita differenziale del ca­ pitale è corretta. Il problema, naturalmente, è che non vi è nulla, nel rapporto tra i proprietari della terra e gli operai che pagano gli affitti che garantisca che questi siano “strutturati in modo appropriato”. Inol­ tre, i lavoratori sono in concorrenza con i produttori capitalisti e i con­ sumatori borghesi per lo spazio vitale. Il grado di appropriazione di rendita da un reddito di un certo tipo non può essere compreso indi­ pendentemente dagli altri. Le relazioni tra la terra e la rendita fondia­ ria, la disponibilità di trasporti, le opportunità occupazionali, gli allog­ gi, e le altre funzioni del consumo, definiscono il complesso di forze che danno forma alla configurazione spaziale dell’uso della terra. Tut­ to ciò accade in un contesto dinamico di strutture geografiche di circo­ lazione di capitale e redditi. E in una situazione di questo tipo che si inseriscono gli intermediari fondiari e i costruttori, coloro cioè che usano la terra come un elemento di produzione; essi sono i primi ad avviare la creazione di nuove confi­ gurazioni spaziali dell’ambiente costruito e nuove possibilità di appro­ priazione di rendita. C’è un’analogia con RD2, ma in questo caso l’inve­

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stimento di capitale dà il suo ritorno aumentando la capacità di attinge­ re alla circolazione dei redditi. Questo vale tanto per i costruttori di condomini a buon mercato quanto per le agenzie immobiliari che forni­ scono ville di lusso all’alta borghesia. Il capitale fittizio della terra avan­ za le sue pretese sul lavoro futuro in modo indiretto, come nel caso del­ l’acquisto di alloggi con l’aiuto di un mutuo, per mezzo della futura cir­ colazione di salari e di altre forme di reddito. Ma la combinazione dei privilegi monopolistici contenuti in ogni forma di proprietà privata della terra e dei processi attivi di produzione di particolari configurazioni spaziali dà luogo a diverse opportunità di procurarsi rendite di monopolio. Questa tendenza, osserva Marx, è molto forte nelle aree urbane. Luoghi specifici possono avere un sup­ plemento di rendita fondiaria in virtù della loro posizione privilegiata rispetto a investimenti precedenti. In effetti possono venire costruite in­ tere isole di privilegio, all’interno delle quali tutti i proprietari acquisi­ scono il potere collettivo di mantenere rendite di monopolio: si può trattare dei proprietari all’interno del ghetto, o delle immobiliari che vendono i loft ai ricchi giovani professionisti del quartiere di Soho a New York (Zukin 1982). Si verificano quindi situazioni cui il concetto di “rendita monopolistica di classe” si adatta perfettamente. In questi casi non dobbiamo fare riferimento all’idea di un potere di classe dei proprietari in quanto tali, né abbandonare il concetto di terra come pu­ ra risorsa finanziaria in quanto forma di capitale fittizio. Dobbiamo semplicemente renderci conto del fatto che nella complessa matrice dello sviluppo urbano si verificano situazioni in cui lo spazio può venire monopolizzato collettivamente, e nei suoi confini può quindi venire in­ trappolato un segmento di circolazione dei redditi. In questi termini, anche il concetto di “classe degli alloggi” acquista senso. Rimane comunque da elaborare la teoria completa di queste relazio­ ni. La teoria della rendita marxiana è parziale, perché si occupa solo della circolazione del capitale ed esclude ogni analisi diretta della circo­ lazione dei redditi. Non è sufficiente, quindi, ricorrere alle categorie di Marx per un’analisi reale del complesso costituito dai mercati fondiario e immobiliare (soprattutto quello urbano). C’è in gioco qualcosa di più, anche ammettendo che il modo di produzione sia puramente capitali­ sta. E c’è qualcosa di più nella circolazione dei redditi, anche se è sem­ pre collegato con la circolazione del capitale che necessariamente le sta alla base. Studiare più da vicino come la rendita è appropriata dalla cir­ colazione sia del capitale che dei redditi ci fornirà una comprensione più precisa della forma fenomenica del funzionamento del mercato fon­ diario, senza per questo dover abbandonare le profonde intuizioni di Marx in merito alla sua struttura.

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3. La rendita nelle formazioni sociali di transizione

L’interpretazione della rendita da un punto di vista sociale varia da una società all’altra, e cambia profondamente col passaggio da un modo di produzione all’altro. Marx scrive che «in ogni epoca storica la proprietà si è sviluppata diversamente e in rapporti sociali interamente differenti» (Miseria della filosofia, pag. 104). Si commetterebbe un grave errore se si interpretassero le rendite feudali, o le rendite nella fase di passaggio in cui predominava il capitale-terra, riferendosi direttamente al ruolo della rendita in una società a capitalismo avanzato. Eppure la conoscen­ za di quest’ultimo è indispensabile per interpretare le fasi precedenti. Inoltre, è proprio nella natura della transizione unire due ruoli antago­ nisti in modo tale da renderli spesso indistinguibili. La difficoltà sta quindi nel mantenere distinte tra loro le due diverse funzioni sociali, cercando al tempo stesso di capire come esse possano coesistere all’in­ terno dello stesso pagamento di denaro in cambio dell’uso di terra. Solo così possiamo capire come una forma di rendita si trasforma gradual­ mente nell’altra, in un processo che è storico e materiale. Marx riteneva che la rendita in denaro sulla terra e il suo corolla­ rio, la formazione di mercati fondiari, fossero precondizioni per la na­ scita del capitalismo. Come il capitale mercantile e quello di usura, il capitale-terra precede la normale forma moderna di capitale. Questa poi, alla fine, sottomette le forme precedenti e le trasforma a partire dalle proprie esigenze. La storia reale di questo processo è complicata dalle caratteristiche della lotta di classe e dalle diverse condizioni ini­ ziali di proprietà e possesso della terra. La versione generale fornita da Marx di questa storia, basata sull’esperienza dell’Europa Occidentale, può essere divisa in due fasi. Nella prima, le rendite del lavoro feudale (fonte di un plusprodotto) sono trasformate in rendite in natura e infi­ ne in un pagamento monetario. La terra viene sempre più sgravata da questi vincoli, che le impediscono di essere comprata e venduta libera­ mente come una merce. Inoltre, il passaggio a pagamenti in denaro comporta l’integrazione, volontaria o forzata, di chi abita sulla terra, soprattutto dei produttori agricoli, in un qualche tipo di sistema gene­ rale di produzione e di scambio di merci. Nessuno di questi passaggi, comunque, garantisce che la rendita assuma la sua forma moderna e puramente capitalistica, compietamente integrata alla circolazione del capitale e dei redditi. Si può veri­ ficare ogni tipo di forma intermedia. In un’opera stimolante e non convenzionale, Pierre-Philippe Rey (1975) propone di vedere quest’ultime in quanto «articolazioni complesse» di diversi modi di pro­ duzione, l’uno sull’altro. Rey mostra come le condizioni materiali, le

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configurazioni e le alleanze di classe possano congelare per lunghi pe­ riodi la transizione in stati intermedi tra modi di produzione precapi­ talisti e capitalisti: spesso questo è il caso delle società contadine del Terzo Mondo. Quella che Marx vedeva come una transizione inelutta­ bile, anche se prolungata, può secondo Rey venire bloccata piuttosto facilmente. Lo studioso prosegue sostenendo che la rendita è priva di basi reali in un modo di produzione capitalista, e che può essere vista solo come relazione distributiva che riflette i rapporti di produzione di modi di produzione precapitalisti, come il feudalesimo, con cui il capitalismo è «articolato». Abbiamo visto come questa conclusione possa venire respinta, e che anche in una economia puramente capita­ lista la rendita ha una base sociale reale. Per il momento, comunque, seguiamo l’acuta argomentazione di Rey, finché viene applicata alla fa­ se di transizione. In questa fase, i proprietari fondiari possono svolgere un ruolo di­ retto e attivo nello sfruttamento del lavoro, e non il ruolo passivo e di sfondo che Marx, a torto, riconosce loro nel capitalismo. Questo vale per le economie schiavistiche, come il Sud degli Stati Uniti prima della guerra civile, così come per gli attuali sistemi di produzione agricoli composti da proprietari e contadini. Il proprietario è direttamente in­ centivato a estrarre il massimo possibile di rendita (che sia in natura o in denaro per ora non ci interessa) non solo perché questo massimizza il suo reddito, ma anche perché il contadino è costretto a lavorare sempre di più per produrre sempre più merci per il mercato a prezzi sempre in­ feriori, dato l’aumento dell’offerta. Tale massiccio sfruttamento della classe contadina rurale da parte dei proprietari fondiari è, da questo punto di vista, perfettamente compatibile con il capitalismo industriale: esso fornisce a buon mercato cibo per gli operai e materie prime per l’industria. Anche se i contadini sono i proprietari nominali della loro terra, e non c’è una classe proprietaria definita come tale, l’indebita­ mento a tassi di usura e l’obbligo di pagare tasse allo stato possono ave­ re lo stesso effetto. Spesso si crea una forte alleanza di classe tra pro­ prietari fondiari, borghesia industriale e prestatori di denaro, appoggia­ ta dallo stato, che può bloccare la piena transizione a rapporti sociali capitalistici sulla terra. Ma una simile forma di sfruttamento ha conseguenze sociali nega­ tive e limiti interni, esattamente come il plusvalore assoluto, del quale è una forma ibrida. In primo luogo, l’estrazione di un pagamento mo­ netario fisso da produttori che si trovano a un livello sostanzialmente di sussistenza può diminuire l’offerta di merci quando i prezzi aumen­ tano, perché i produttori devono vendere meno per raggiungere l’o­ biettivo monetario prefissato. I prezzi dunque continuano a salire.

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Quando i prezzi scendono, invece, i contadini devono vendere di più e quindi aumentano l’offerta nonostante la discesa dei prezzi. I movi­ menti dei prezzi e dell’offerta di merci in queste condizioni non sono ben integrati con la dinamica generale dell’accumulazione. Questa poi, in secondo luogo, richiede invariabilmente un’espansione del pro­ dotto, il che, essendo stabile la tecnologia di produzione dei contadini, comporta un aumento del tasso di sfruttamento cosicché maturano le condizioni per movimenti rivoluzionari. Anche se non si verifica una resistenza di questo tipo, lo sfruttamento assoluto ha un limite assolu­ to. A un certo punto le forze produttive agricole devono essere rivolu­ zionate per venire incontro alle nuove esigenze del capitalismo. Si sco­ pre allora che le forme organizzative di transizione impediscono «lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro, le forme sociali del lavoro, la concentrazione sociale dei capitali [...] e il progressivo im­ piego della scienza» {Il capitale, libro ni, pag. 996). Devono dispiegar­ si nuove forze produttive, e ciò significa aprire la terra al libero afflus­ so di capitale. Questo ci conduce alla seconda fase della versione marxiana della transizione a forme capitalistiche di appropriazione della rendita. Il capi­ tale e il lavoro devono confrontarsi l’uno con l’altro sulla terra senza al­ cuna interferenza da parte dei proprietari. Questi devono essere trasfor­ mati in figure puramente passive. L’alleanza tra la borghesia industriale e la classe dei proprietari fondiari crolla, e le relazioni tra le due diventano antagonistiche, fino a quando quest’ultima scompare in quanto forza unitaria nella società. Tutto ciò deve avere luogo, perché questo è l’unico modo di rivoluzionare le forze produttive agricole nel capitalismo. Possiamo dunque capire la presente transizione dal punto di vista del proprietario. Questi può dominare una classe contadina legata alla terra, e ha tutto da guadagnare se massimizza l’estrazione della rendita. Ma non può obbligare il capitalista a investire, e quindi ha molto da per­ dere dalla massimizzazione dell’estrazione di rendita dal capitalista. Il potere della proprietà fondiaria fa così da barriera contro il libero afflus­ so di capitale sulla terra e blocca lo sviluppo delle forze produttive. Vi è però un terreno di compromesso tra proprietario e capitalista. Il valore d’uso della terra per il capitalista è un elemento, un mezzo o una condi­ zione di produzione che, con l’intervento del lavoro, produce plusvalo­ re. La rendita interessa al capitalista in rapporto alla produzione di plu­ svalore. Il proprietario, di contro, è interessato alla rendita per acro. In condizioni di afflusso sostenuto di capitale sulla terra la rendita pér acro può aumentare, mentre la rendita come parte del plusvalore prodotto diminuisce (vedi 11 capitale, libro III, pag. 829). In queste condizioni, il proprietario ha tutto da guadagnare dal minimizzare le barriere poste

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dalla sua proprietà all’afflusso di capitale. Questo è stato il compromes­ so inglese all’epoca della “grande agricoltura”, tra il 1850 e il 1873. Il rapporto tra capitale e proprietà fondiaria comunque non è sem­ pre armonioso. Spesso è difficile distinguere, per esempio, tra produt­ tori contadini e piccoli produttori capitalistici, mentre i proprietari possono non essere abbastanza intelligenti da capire il guadagno pro­ veniente, sul lungo periodo, dal passaggio dallo sfruttamento feroce dei contadini all’investimento da parte dei capitalisti. Dunque, poiché con lo sviluppo del lavoro sociale «cresce direttamente la domanda del suolo stesso», la proprietà terriera acquista la capacità «di carpire una parte sempre crescente» di plusvalore {Il capitale, libro III, pagg. 794795). Quale proprietario terriero non sfrutterebbe una simile fortuna? Il proprietario è sempre assillato da un dilemma: estrarre troppo poco dal capitale è evidentemente un errore, ma cercare di estrarre troppo è molto rischioso. E vi sono poi tutti i vari problemi istituzionali connes­ si con le migliorie, con le condizioni e gli accordi di affittanza e di pos­ sesso, e cose simili, che sono fonte di conflitti interminabili tra capitali­ sta e proprietario. In ultima analisi questi rapporti istituzionali sono regolati dallo stato, proprio come accade per i problemi contrattuali che nascono tra capitale e lavoro. Evidentemente Marx non si sentiva troppo sicuro del suo resoconto relativo alla nascita della forma capitalista di proprietà privata. Ebbe a scrivere che aveva semplicemente cercato di «tracciare il percorso con cui in Europa Occidentale il sistema economico capitalistico è emerso dal grembo del sistema economico feudale», ed era critico verso chi tra­ sformava il suo «schizzo storico della genesi del capitalismo in una teo­ ria di filosofia della storia del percorso di sviluppo generale prescritto dal destino a tutte le nazioni, quali che siano le circostanze storiche in cui esse si trovano». I suoi studi dell’evoluzione della proprietà fondia­ ria nelle colonie e negli Stati Uniti, nonché in Russia, lo convinsero che la transizione non è unilineare. Anche in Europa Occidentale c’è una notevole variazione, dovuta in parte a caratteristiche residuali in quanto «dall’economia naturale la rendita si trascina [...] fino nell’era moder­ na», in parte alla penetrazione ineguale dei rapporti capitalistici in cir­ costanze storiche che presentano «innumerevoli varianti e gradazioni fenomeniche infinite» che richiedono un attento studio empirico {Il ca­ pitale, libro ni, pagg. 972-977). In queste condizioni anche la precisione concettuale della transizione in due fasi viene meno. Quasi di sicuro troveremo quindi fianco a fianco diverse forme di appropriazione della rendita. Se usato con attenzione, il quadro di riferimento di Marx può essere molto utile. Per esempio, in una dettagliata ricostruzione dell’andamen-

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to storico dell’appropriazione della rendita nel distretto di Soissons in Francia, Postel-Vinay (1974) mostra che negli ultimi due secoli i colti­ vatori su larga scala, che lavorano la terra migliore, hanno sistematicamente pagato circa la metà dell’affitto per acro pagato dai piccoli pro­ prietari contadini, che lavorano terre peggiori. A giudizio di Rey, que­ sto fenomeno contraddice tanto la nozione marxiana quanto quella neoclassica di rendita differenziale, che dovrebbe venire estratta dalla terra migliore, e conferma la sua tesi secondo cui la rendita non è che un rapporto di produzione feudale che si perpetua nel capitalismo co­ me rapporto di distribuzione. Rey ha ragione solo in parte. Se la mia let­ tura di Marx è corretta, l’affitto più alto pagato dai piccoli proprietari contadini è un riflesso del rapporto tra proprietario fondiario e lavoro, opposto al rapporto tra proprietario e capitale che si trova nelle terre migliori. Due diversi tipi di rapporto sociale hanno convissuto nella stessa regione per due secoli. Ma l’affitto per la terra viene ancora paga­ to dai capitalisti secondo una logica che non ha nulla a che fare con l’ar­ ticolazione del modo di produzione feudale, né di quello capitalistico. Il quadro fornito da Rey delle condizioni nella fase di transizione è for­ se corretto, compresa la sua descrizione del blocco di questa fase, che congela i rapporti sociali nella struttura proprietario-lavoratore. Ma Rey sbaglia completamente quando sostiene che questa è l’unica forma che può assumere la rendita nel capitalismo. La possibilità che in una data regione e per un periodo prolungato possano coesistere rapporti sociali radicalmente diversi deve farci riflet­ tere. È pericoloso assumere che del pagamento di rendite possa essere sempre data la stessa interpretazione, anche all’interno di formazioni sociali apparentemente capitaliste da ogni punto di vista. Non si tratta di riaffermare l’esistenza di “residui feudali” nel capitalismo. Significa semplicemente che i proprietari di qualsiasi importante mezzo di pro­ duzione (terra, capacità produttiva, denaro) sono abituati a cercare di appropriarsi di quanto più plusvalore possono in virtù della loro pro­ prietà, e che devono verificarsi circostanze molto particolari per ridurli allo stato “passivo” descritto da Marx. Inoltre, come ho detto all’inizio, l’appropriazione di rendita ha un ruolo attivo anche nella forma più pu­ ra di capitalismo. Conclusioni

La rendita è quindi, ripetiamo, un pagamento di denaro per l’uso della terra e di quanto vi si aggiunge. Questo semplice pagamento può na­ scondere numerosi significati sociali, individuabili solo con un accurato

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studio storico e sociale. Il compito della teoria, in queste circostanze, è di stabilire quali sono le forze sottostanti che le danno il suo significato sociale, e che ne fissano il livello in un dato momento storico. In un mo­ do di produzione puramente capitalistico, queste forze devono essere disaggregate tra quelle che si collegano alla circolazione del capitale e quelle che si collegano alla circolazione di redditi, anche se bisogna sempre tenere presente che i due processi di circolazione dipendono l’uno dall’altro. Ulteriori complicazioni sorgono dal fatto che non è sempre facile distinguere tra l’interesse sul capitale fisso sulla terra (l’in­ teresse sugli edifici e sulle migliorie permanenti) e la rendita fondiaria pura e semplice. Inoltre, i diversi utilizzi della terra come mezzo, condi­ zione o elemento della produzione, o come riserva di valori d’uso attua­ li o potenziali, fanno sì che il suo significato per chi se ne serve vari di settore in settore. Se mettiamo tutti questi elementi di complessità nel quadro della concorrenza per l’utilizzo della terra, in cui essa è solo una di molte forme di capitale fittizio (azioni, titoli, debito pubblico eccete­ ra) in concorrenza per attrarre investimenti, dobbiamo concludere che in questo pagamento di denaro non vi è nulla di semplice, neanche nel quadro di una economia puramente capitalistica. La nozione di un modo di produzione capitalistico, del resto, è nel migliore dei casi una finzione utile, più o meno opportuna a seconda delle circostanze storiche. E vi sono molte situazioni in cui le forze sot­ tostanti al pagamento di rendite possono essere comprese meglio se analizzate come articolazione di diverse modalità produttive, una so­ vrapposta all’altra. Rispetto a queste ultime, che hanno forme specifi­ che di distribuzione e di circolazione dei redditi, la complessità di un modo di produzione puramente capitalistico si articola ulteriormente. Io credo che la ricca complessità di questi argomenti teorici costi­ tuisca una sfida stimolante: si deve far risalire la teoria della rendita dalla semplicità delle strutture profonde, dove alcuni marxisti la vor­ rebbero lasciare per sempre, e portarla passo dopo passo verso la su­ perficie della vita quotidiana. Il quadro che si è tratteggiato può essere utile nell’analisi del ruolo della proprietà privata fondiaria e dell’ap­ propriazione della rendita nel mutamento sociale di Kinshasa, o può essere usata per guardare alla proprietà immobiliare di Baltimora, alla vita degli yuppie dei quartieri residenziali di New York, o alla pro­ prietà fondiaria nel distretto di Soissons, o alle aziende agricole dello lowa. La teoria non ci offre risposte, ma ci aiuta a porre le domande giuste. Può anche aiutarci a tornare ad alcune questioni di fondo sulla struttura di classe e sulle alleanze di classe, sui diversi modi di appro­ priazione e di sfruttamento, sul ruolo della proprietà fondiaria come forma di potere sociale nella creazione di configurazioni spaziali di uti­

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lizzo della terra. E tutto questo si può fare, vorrei aggiungere, senza bi­ sogno di rifiutare o di “andare oltre” formule marxiane che si credono datate, ma semplicemente applicando in modo corretto il metodo di Marx ai problemi che egli stesso non è riuscito a risolvere come avreb­ be voluto.

4. La struttura di classe e la teoria della differenziazione residenziale

La teoria della differenziazione residenziale dev’essere assolutamente riformulata. Le spiegazioni sociologiche dell’argomento (vedi la rasse­ gna di Timms 1971) non sono mai andate oltre le variazioni sul tema, piuttosto semplicistico, che la gente simile ama vivere vicina, o che vive vicina perché ha comportamenti simili. L’apparente complessità degli studi sociologici deriva dalla difficoltà di definire il concetto di “simile”, e di capire se le persone sono simili perché vivono vicine o se vivono vi­ cine perché sono simili. Le spiegazioni fondate sulla teoria economica neoclassica sono altrettanto semplicistiche: esse si basano sulla sovranità del consumatore, e sul comportamento individuale di massimizzazione dell’utilità che esprimendosi sul mercato produce la differenziazione re­ sidenziale. In questo caso la complessità sorge perché non è facile dare un significato concreto al concetto di utilità, e perché è possibile imma­ ginare svariate condizioni in cui gli individui possono esprimere le loro scelte di mercato. Gli interventi più ponderati sul tema sono giunti alla conclusione che il problema risiede nello specificare le relazioni necessarie tra la struttura sociale in generale e la differenziazione residenziale in particolare. Haw­ ley e Duncan (1957, pag. 342), per esempio, notano che «si cerca invano una tesi che spieghi perché le aree residenziali siano diverse l’una dall’al­ tra, o perché esse siano internamente omogenee. Da nessuna parte si se­ gnala la rilevanza per il problema di un’articolata analisi delle tendenze sociali che accompagnano l’urbanizzazione». La maggior parte dei tenta­ tivi di unire teoria della società e teoria della differenziazione residenzia­ le hanno prodotto «non una singola teoria integrata, che unisce differen­ ziazione residenziale e sviluppo sociale, ma due teorie distinte che sono in qualche modo collegate perché hanno i medesimi metodi operativi». Il problema è quindi in parte metodologico. Non è appropriato parlare della differenziazione residenziale come di un qualcosa che

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causa o viene causato dalle trasformazioni della struttura sociale gene­ rale. Una terminologia funzionalista, anche se più appropriata, è a sua volta così condizionata dalla nozione di equilibrio armonico da non es­ sere in grado di affrontare le dinamiche complesse e il carattere evoluti­ vo di una società capitalista. Eppure molti studiosi, quando hanno osa­ to avventurarsi oltre le descrizioni statistiche, sono stati intrappolati nell’uso di un linguaggio inappropriato, causale o funzionalistico che fosse. Così si è prodotta una quantità enorme di materiali sui vari aspetti del processo di differenziazione residenziale, ma non vi sono idee molto precise su come integrare questo materiale nella teoria ge­ nerale della società. Il metodo marxiano, basato sul principio delle relazioni interne (Oi­ lman 1971), è invece in grado di fornire una metodologia coerente ca­ pace di collegare le parti al tutto e il tutto alle parti. In effetti, la conce­ zione essenziale della versione marxiana della dialettica sta nel conside­ rare le cose relazionalmente, in modo da conservare sempre l’integrità delle relazioni tra il tutto e le parti. Per questo Marx critica le categorie della scienza sociale borghese, perché sono costruite in modo astratto, senza riferimento alle «relazioni che collegano queste astrazioni alla to­ talità» (Oilman 1973, pag. 495). Le astrazioni di Marx sono differenti, perché si concentrano sulle relazioni sociali. Strutture relativamente semplici possono venire isolate dal tutto per fini analitici, ma «la cosa decisiva è se questo processo di isolamento è un mezzo per la compren­ sione del tutto, e se la conoscenza astratta di un frammento isolato con­ serva la sua “autonomia” e diventa un fine in sé» (Lukàcs 1967). La teoria della differenziazione residenziale di rado è stata conside­ rata da un punto di vista marxiano, ed è quindi ovvio che detta “teoria” consista in un’ammasso incoerente di pezzi e brandelli di informazione autonomi. Vi si è giunti dopo una quantità di ricerche a sé stanti, con­ dotte studiando relazioni specificate in linguaggio causale, funzionalista o empiricista, con tutti i limiti che ognuno di questi impone. E si può prevedere che i tentativi di integrare il materiale raccolto in una qual­ che teoria generale della società avranno ben poco successo. In questo capitolo cercherò quindi di descrivere il rapporto tra differenziazione residenziale e struttura sociale. Tale descrizione sarà necessariamente preliminare, quasi un abbozzo, ma spero comunque di mostrare le rela­ zioni principali e di indicare dove si deve guardare per apportare alla teoria della differenziazione residenziale una revisione che la renda più efficace. Inizierò dall’analisi delle forze che producono la struttura di classe nelle società a capitalismo avanzato.

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1. Le classi e la struttura di classe Le teorie delle classi e della struttura di classe sono numerose. Marx e Weber ne hanno creato le basi, e molti interpreti contemporanei hanno aggiunto commenti, note, reinterpretazioni e, occorre dire, mistificazio­ ni. Piuttosto che cercare di sintetizzare quest’opera, presenterò in breve una teoria delle classi che deriva in primo luogo dalla lettura di Marx, e poi dall’adattamento di materiali elaborati da Giddens (1985) e Poulantzas (1975). Un aspetto centrale del metodo storico e materialista di Marx è che un concetto come quello di “classe” può acquistare significato solo in rapporto al contesto storico cui dev’essere applicato. Esso ha quindi un significato che dipende dal modo di produzione preso in esame: feuda­ le, capitalista o socialista. La teoria delle classi non è quindi un modo di individuare categorie fisse e applicabili sempre e ovunque. La visione relazionale delle classi cui Marx aderisce ci fa guardare alle forze della «strutturazione di classe», come le chiama Giddens, che danno forma alle configurazioni di classe reali. Nel contesto del modo di produzione capitalista, comunque, “classe” ha un significato più specifico, collega­ to con le relazioni sociali fondamentali che caratterizzano la società ca­ pitalista. Le forze di strutturazione di classe nel capitalismo sono le stes­ se che si riscontrano all’interno della sua dinamica: vi è quindi una rela­ zione necessaria tra l’evoluzione delle società capitaliste e l’evoluzione delle configurazioni sociali. Marx sostiene che il rapporto sociale fondamentale nel capitalismo è il rapporto di potere tra capitale e lavoro. Questo rapporto si esprime direttamente in un’economia integrata dal mercato. Dunque, la propor­ zione di prodotto nazionale disponibile per salari e profitti (che inclu­ dono rendita fondiaria e interesse) dipende dal risultato di un conflitto di classe, tra i rappresentanti del lavoro, che oggi sono normalmente i sindacati, e i rappresentanti del capitale, che oggi sono normalmente i datori di lavoro. Marx sostiene anche che i rapporti di potere tra queste due grandi classi sociali possono essere compresi solo considerando le peculiari condizioni storiche createsi con la nascita dell’ordine capitali­ sta. In esso la forza-lavoro ha assunto carattere di merce, il che significa che può essere comprata e venduta “liberamente” sul mercato e che il lavoratore ha i diritti legali sulla disponibilità del proprio lavoro. La proprietà e il controllo dei mezzi di produzione dà al capitale il suo po­ tere sul lavoro, dato che il lavoratore deve lavorare per vivere e il datore di lavoro detiene il controllo dei mezzi necessari per lavorare. Per po­ tersi mantenere, un rapporto di potere relativamente stabile tra capitale e lavoro richiede una serie di supporti istituzionali, giuridici, coercitivi

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e ideologici, la maggior parte dei quali è fornita o gestita da istituzioni statali. Il rapporto di potere tra capitale e lavoro può essere visto come la forza primaria di strutturazione di classe della società capitalista. Il mo­ dello a due classi presentato da Marx nel primo libro del Capitale è un rapporto astratto, con il quale egli cerca di mettere a nudo il carattere di sfruttamento della produzione capitalista: non vuole essere una de­ scrizione di una struttura di classe reale (Il capitale, libro I, pagg. 262266; libro II, pagg. 470-472). Marx distingue anche tra i ruoli del capita­ le e del lavoro e la personificazione di questi ruoli: il capitalista, anche se quasi sempre si comporta come mera personificazione del capitale, è pur sempre un essere umano. I concetti di “classe” e di “ruolo di clas­ se” hanno nel Capitale la funzione di costrutti analitici. Però Marx mol­ te volte utilizza il modello dicotomico di struttura di classe come se avesse un contenuto empirico, e nei suoi scritti più programmatici so­ stiene che si giungerà al socialismo solo con una lotta che opponga i ca­ pitalisti al proletariato. Non è difficile capire le ragioni di questa posizione. Marx attribui­ sce il carattere di sfruttamento della società capitalista al rapporto tra capitale e lavoro, e riconduce anche le innumerevoli manifestazioni di alienazione a questa origine fondamentale. A suo parere, gli aspetti ne­ gativi della società capitalista possono essere eliminati solo superando il rapporto di potere che consente il dominio del lavoro da parte del capi­ tale. Nei suoi scritti programmatici i costrutti analitici del Capitale di­ ventano quindi costrutti normativi (dover-essere). E se la lotta di classe reale si cristallizza attorno al rapporto tra capitale e lavoro, allora sia i costrutti analitici che quelli normativi acquistano validità empirica, co­ me descrizioni di configurazioni sociali reali. Ma nella realtà le configurazioni sociali si possono cristallizzare su linee molto diverse. Nel Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, per esem­ pio, Marx analizza il conflitto nella Francia degli anni tra il 1848 e il 1851 in termini di interessi di classe di sottoproletariato, proletariato industriale, piccola borghesia, industriali, finanzieri, aristocrazia terrie­ ra e contadini. Usando questo modello più complesso di configurazione sociale, Marx non intende certo negare che in quell’epoca la Francia era capitalista. Egli suggerisce, piuttosto, che il capitalismo in quel tempo e in quel luogo determinati aveva raggiunto una fase in cui gli interessi di classe, spesso miopi e non rivoluzionari, potevano cristallizzarsi, e si cri­ stallizzavano effettivamente, attorno a forze diverse dal rapporto di po­ tere fondamentale tra capitale e lavoro. È opportuno chiamare queste forze “forze secondarie di struttura­ zione di classe”, e dividerle in due gruppi. Chiamerò il primo “residua-

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le”, poiché esse derivano o da qualche modo di produzione storicamen­ te anteriore, o dal contatto geografico tra un modo di produzione do­ minante e uno subordinato. Nei primi anni del capitalismo, i residui dell’ordine feudale, come l’aristocrazia terriera e la classe contadina, per esempio, hanno avuto grande importanza. Inoltre, ci sono buone prove del fatto che queste caratteristiche residuali possono essere molto persistenti, e possono durare per secoli dopo la penetrazione dei rap­ porti sociali capitalisti. Anche l’espansione geografica del capitalismo in un sistema globale ha creato dei residui. Le strutture di dominio e di sottomissione proprie del colonialismo e del neocolonialismo sono pro­ dotte dall’intersezione tra le forze di strutturazione di classe di una so­ cietà capitalista dominante e le forme di differenziazione sociale delle società tradizionali subordinate. Gli elementi residuali possono scom­ parire col tempo, o essere trasformati tanto da diventare irriconoscibili. Ma possono anche durare. E poiché possono anche essere incorporati nella struttura sociale delle società capitaliste avanzate, essi spiegano l’esistenza di classi di transizione. La proprietà fondiaria conservata in forma capitalista, oppure un gruppo soggetto a dominio neocoloniale e trasformato in una sottoclasse relativamente stabile (i neri, i portoricani e i chicanos negli Stati Uniti, per esempio): questi sono esempi di ele­ menti di una configurazione sociale che devono essere spiegati in termi­ ni di forze residuali di strutturazione di classe. Le altre forze derivano dalla dinamica della società capitalista. Que­ ste “forze derivate”, come le chiamerò, sorgono per le esigenze generate dal bisogno di conservare i processi di accumulazione del capitale trami­ te innovazione tecnologica e trasformazioni nell’organizzazione sociale, nel consumo e così via. Possiamo, seguendo Giddens (1985), individua­ re cinque forze di questo tipo: consideriamole in breve una per una. LA DIVISIONE DEL LAVORO E LA SPECIALIZZAZIONE FUNZIONALE

L’espansione della produzione richiede miglioramenti nella produttività del lavoro e nelle forme di organizzazione industriale, di comunicazione, di scambio e di distribuzione. Questi miglioramenti implicano di solito un aumento della divisione del lavoro e una specializzazione funzionale. Quando cambia la base tecnica e organizzativa della società, devono mu­ tare anche i rapporti sociali che rendono possibile una differenziazione. Per esempio, la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale si può ri­ flettere in quella sociale tra operai e impiegati. Inoltre la complessità cre­ scente dell’organizzazione economica può richiedere lo sviluppo nell’e­ conomia di intermediari finanziari specializzati, quali le banche e altre istituzioni finanziarie, che si può riflettere nella distinzione tra finanzieri

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e industriali all’interno della classe capitalista in generale. La divisione del lavoro e la specializzazione funzionale possono frammentare il prole­ tariato e la classe capitalista in strati distinti. Tra questi si può avere con­ flitto sociale, e questo finisce quindi per sostituire la lotta di classe in senso marxiano come principio giuda della differenziazione sociale. LE CLASSI DI CONSUMO, O GRUPPI DISTRIBUTIVI

Il procedere dell’accumulazione capitalista può essere bloccato dalla mancanza di domanda effettiva per i suoi prodotti materiali. Se lasciamo da parte la crescita della domanda connessa con la crescita demografica e Io sviluppo delle esportazioni, la domanda effettiva dipende dalla crea­ zione di un mercato esterno tale da assorbire quantità crescenti di pro­ dotti materiali. Marx (Grundrisse, vol. II, pagg. 9-31) sostiene che la creazione di nuove modalità di consumo e di nuovi desideri e bisogni so­ ciali è essenziale alla sopravvivenza del capitalismo: altrimenti l’accumu­ lazione di capitale si troverebbe di fronte all’ostacolo insuperabile rap­ presentato da una domanda fissa, il che significherebbe sovrapproduzio­ ne e crisi. Spesso il sottoconsumo, anche se non è la causa fondamentale delle crisi capitaliste (vedi Harvey 1982), è spesso un sintomo diffuso di crisi e quindi dev’essere affrontato direttamente come un problema poli­ tico ed economico centrale. Malthus (1972, pagg. 393-413), che per pri­ mo ha proposto una versione della teoria keynesiana della domanda ef­ fettiva, sostiene che affinché vi possa essere una domanda effettiva suffi­ ciente a consentire l’accumulazione del capitale è necessaria l’esistenza di una classe di “consumatori di lusso”, allora rappresentata soprattutto dall’aristocrazia terriera. La prospettiva di Malthus è interessante. Non solo egli suggerisce che per stimolare il consumo devono essere utilizzati mezzi specifici, ma anche che per determinare un consumo adeguato de­ vono esistere determinate classi di consumo. Se questo accade, la diffe­ renziazione sociale sorge nella sfera del consumo. Devono quindi crearsi, nel corso della storia capitalista, classi di consumo, o gruppi distributivi (Giddens 1985, pagg. 155-157). Dato che si può osservare empiricamen ­ te che lo stile di vita e le abitudini di consumo variano tra i diversi strati della popolazione, e poiché questo è un importante elemento di diffe­ renziazione nella società moderna, possiamo concludere che la creazio­ ne di classi specificamente di consumo fa parte della dinamica della so­ cietà capitalista. La differenziazione sociale può quindi strutturarsi se­ condo criteri collegati con la distribuzione e il consumo {Grundrisse, vol. II, pag. 11).

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Le istituzioni sociali non di mercato devono essere disposte in modo da sostenere il rapporto di potere tra capitale e lavoro, e da servire all’or­ ganizzazione della produzione, della circolazione e della distribuzione. Marx (1/ capitale, libro I, pagg. 456-458) afferma, per esempio, che la cooperazione nella produzione richiede una «direzione» e che quando la produzione capitalista diventa più complessa un gruppo specializzato di lavoratori (amministratori, dirigenti, capi e simili) deve assumere un ruolo gerarchico nella direzione della produzione. Per l’economia in ge­ nerale queste funzioni di gestione si trovano prevalentemente nella sfe­ ra di attività dello stato, definito come insieme collettivo di funzioni giuridiche, amministrative, burocratiche, militari e politiche (Miliband 1974). In questa sfera, e all’interno della grande impresa, i rapporti ge­ rarchici sono la base dei rapporti sociali in genere. La struttura dei rap­ porti gerarchici è coerente con i vincoli imposti dalle dinamiche dell’ac­ cumulazione all’interno di un sistema organizzato capitalisticamente. Tali rapporti sembrano però essere indipendenti dal legame tra capitale e lavoro e in effetti nel loro operare sono in una certa misura autonomi (Poulantzas 1975). La loro struttura può quindi fornire una base alla differenziazione sociale nella popolazione. Marx (Teorie del plusvalore, vol. Il, pag. 620) scrive dunque dell’importanza del «continuo accresci­ mento delle classi medie che si trovano nel mezzo fra operai da una par­ te e capitalista e proprietario fondiario dall’altra». COSCIENZA DI CLASSE E IDEOLOGIA

Marx sostiene che una classe diventa un aggregato di individui osserva­ bile solo quando tutte le differenze al suo interno vengono meno, e que­ sto aggregato diventa consapevole della sua identità di classe nella lotta tra capitale e lavoro. Poiché il capitalismo si è evoluto ed è sopravvissu­ to, si può supporre che questo sia avvenuto grazie a un intervento attivo nei processi che creano la coscienza di classe nel senso inteso da Marx. Vi è quindi una lotta per la mente dei lavoratori, in cui si scontrano da una parte una coscienza di classe politica orientata al superamento del rapporto tra capitale e lavoro, e dall’altra stati di coscienza sociale che consentono l’esistenza di differenziazioni sociali compatibili con l’accu­ mulazione del capitale e il mantenimento del rapporto tra capitale e la­ voro. La lotta per la mente dei lavoratori è una lotta politica e ideologica. Marx dice che, in generale, le idee dominanti nella società sono sempre le idee della classe più potente. L’alfabetizzazione e l’istruzione hanno l’effetto di esporre le masse all’ideologia borghese, che cerca di produrre

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stati di coscienza compatibili con la sopravvivenza dell’ordine capitali­ sta. La cultura di massa, o quella che Marcuse (1967) chiama «la cultura affermativa», ha la funzione di depoliticizzare le masse, e non di mostra­ re loro qual è la vera fonte dell’alienazione sociale (vedi Consciousness and the Urban Experience, cap. v). Nella sfera politica si possono osservare processi analoghi. La so­ pravvivenza del capitalismo richiede un crescente intervento dello sta­ to che, lungi dall’essere neutrale, sostiene attivamente il rapporto di potere del capitale sul lavoro. In una situazione determinata può acca­ dere che lo stato getti il suo peso dalla parte del lavoro, al fine di ripri­ stinare un certo equilibrio tra profitti e salari, ma il suo intervento non è mai rivolto al superamento del rapporto tra capitale e lavoro. Eppure lo stato sembra neutrale. Questa apparenza è in parte reale, poiché le istituzioni statali spesso fungono da arbitro tra frazioni della classe do­ minante (tra finanzieri e industriali, per esempio) e tra strati della po­ polazione lavoratrice. La separazione tra la sfera economica e quella politico-amministrativa, tipica del capitalismo, consente allo stato di presentarsi come parte neutrale nel conflitto economico. Contempora­ neamente le prospettive di eguaglianza giuridica e politica proprie del­ la sfera politica tendono a distogliere l’attenzione dall’inevitabile su­ bordinazione del lavoro al capitale sul mercato. Questa separazione tra economia e politica ha rappresentato, come sottolinea Giddens (1985, pagg. 254-260), una fondamentale influenza mediatrice nella forma­ zione della coscienza di classe e della consapevolezza sociale nella so­ cietà capitalista. Essa normalmente produce una coscienza sindacale nei lavoratori e, nei gruppi intermedi nella struttura gerarchica, una particolare “consapevolezza di classe media” i cui valori principali so­ no le libertà civili e politiche, ma che esclude il problema del controllo dell’economia. Le lotte politiche e ideologiche, e la manipolazione di entrambe, so­ no molto importanti per capire gli stati di coscienza dei vari strati della popolazione. Solo in questi termini è possibile spiegare come e perché un determinato problema (per esempio la disoccupazione) avrà come conseguenza una lotta tra capitale e lavoro anziché un conflitto interno al lavoro. Il secondo tipo di conflitto può aver luogo tra gli occupati re­ golari e una grande sottoclasse di disoccupati, per esempio una mino­ ranza razziale o etnica. Il primo tipo di conflitto rappresenta una mi­ naccia per l’ordine capitalista, il secondo no. Ovviamente, è nell’inte­ resse del capitalismo trasformare un conflitto del primo tipo in uno del secondo. Pertanto, l’ideologia e la politica borghesi cercano normal­ mente di creare una coscienza favorevole al mantenimento dell’ordine capitalista e si sforzano di tracciare distinzioni sociali diverse da quella

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tra capitale e lavoro. In Consciousness and the Urban Experience affron­ to in modo dettagliato questi problemi. POSSIBILITÀ DI MOBILITÀ

Se il ritmo delle trasformazioni nell’organizzazione di produzione, scam­ bio, comunicazione e consumo continua ad aumentare, è necessario che la popolazione sia molto adattabile. Gli individui devono esser pronti a cambiare le loro capacità professionali, la posizione geografica, le abitu­ dini di consumo e così via. Ciò significa che nella popolazione la mobi­ lità dev’essere sempre possibile. D’altra parte una società completamen­ te aperta a essa crea una certa instabilità. Per dare un assetto durevole a una società in cui il cambiamento è necessario, si deve trovare un modo sistematico di organizzare la mobilità. Questo significa strutturarla se­ condo determinate modalità rilevanti. Nella società capitalista la mobilità è organizzata in modo tale che la maggior parte del movimento ha luogo tra uno strato della divisione del lavoro e un altro (per esempio, dal lavoro manuale al lavoro impie­ gatizio). I meccanismi necessari per ottenere questo tipo di mobilità controllata si trovano in parte, a quanto sembra, nella distribuzione differenziata, sia socialmente che geograficamente, delle opportunità di acquisire quella che Giddens (1985, pag. 149) chiama «capacità di mercato», cioè quell’insieme di competenze e qualità che consente agli individui di portare sul mercato la loro forza-lavoro all’interno di de­ terminate categorie occupazionali, o di operare in determinati ruoli funzionali. Le restrizioni e le barriere alla mobilità danno luogo alle differenziazioni sociali. Poiché i gruppi professionali hanno, per esem­ pio, un migliore accesso all’acquisizione di queste capacità di mercato per i loro figli, una “classe” professionale può dunque auto-perpetuarsi. Se la mobilità intergenerazionale è limitata, le distinzioni sociali di­ ventano caratteristiche relativamente stabili del paesaggio sociale e rendono possibile la differenziazione sociale a livello di popolazione complessiva. In base a quanto detto finora possiamo individuare tre tipi di forze che spingono nel senso della differenziazione sociale della popolazione;

1. Una forza primaria, che deriva dal rapporto di potere tra capitale e lavoro. 2. Una serie di diverse forze secondarie, che derivano dal carattere con­ traddittorio ed evolutivo del capitalismo e che stimolano la differen­ ziazione sociale su linee definite da: a) divisione del lavoro e specia­ lizzazione funzionale; b) modelli di consumo e stili di vita; c) relazio­

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ni gerarchiche; d) manifestazioni manipolate di coscienza ideologica e politica; e) ostacoli alla mobilità. 3. Forze residue, che riflettono i rapporti sociali propri di un modo di produzione anteriore, oppure di un modo di produzione geografi­ camente distinto ma subordinato. In generale, queste forze sono in conflitto incessante, e in particolare c’è un contrasto tra quelle che creano configurazioni di classe antagoni­ stiche al mantenimento dell’ordine capitalista e quelle che creano diffe­ renziazioni sociali favorevoli alla riproduzione della società capitalista.

2. La differenziazione residenziale e l’ordine sociale L’accumulazione di capitale su scala progressivamente crescente ha mes­ so in moto un processo di urbanizzazione specifico, il cui ritmo diventa sempre più veloce (vedi Harvey 1978; Castells 1974; Lefebvre 1973a, 1976). Per i nostri scopi, basta segnalare la concentrazione progressiva della popolazione in grandi centri urbani. Nella struttura sociale vi si è invece verificata una frammentazione, dato che le forze primarie, deriva­ te e residuali di differenziazione sociale hanno interagito per un secolo o più. Ora dobbiamo collocare questi processi di progressiva concentra­ zione e di frammentazione sociale nell’ambiente costruito che chiamia­ mo città ed elaborare alcune ipotesi di base che possano collegare la dif­ ferenziazione residenziale con la struttura sociale. Possiamo definire quattro ipotesi: 1. La differenziazione residenziale deve essere interpretata in termini di riproduzione dei rapporti sociali intemi alla società capitalista. 2. Le zone residenziali (quartieri, comunità, vicinati) forniscono ambi­ ti separati di interazione sociale, da cui gli individui derivano buona parte dei loro valori, delle aspettative, delle abitudini di consumo, delle capacità di mercato, e dei loro stati di coscienza. 3. La frammentazione delle grandi concentrazioni di popolazione in comunità separate serve a frammentare la coscienza di classe in sen­ so marxiano, e quindi rende difficile la trasformazione del capitali­ smo in socialismo per mezzo della lotta di classe. 4. Le strutture di differenziazione residenziale, d’altra parte, riflettono e incorporano buona parte delle contraddizioni della società capita­ lista: i processi che le creano e le mantengono sono dunque fonte di instabilità e contraddizione.

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Queste ipotesi, una volta che vengano arricchite e verificate, forniscono un indispensabile collegamento tra differenziazione residenziale e ordi­ ne sociale. Nel breve spazio di questo capitolo, posso solo abbozzare un’argomentazione molto generale per sostenerle. La differenziazione residenziale nella città capitalista significa un ac­ cesso diversificato alle scarse risorse necessarie per acquisire capacità di mercato (Giddens 1985; Harvey 1978, cap. Il): per esempio, quello alle opportunità educative, intese in termini ampi, come l’insieme delle esperienze provenienti dalla famiglia, dalla comunità geografica, dalla scuola e dai mezzi di comunicazione di massa, agevola il trasferimento intergenerazionale delle possibilità di mobilità e quindi normalmente dà luogo a una diminuzione delle stesse. Le opportunità possono essere strutturate in modo tale che gli impiegati si riproducono in quartieri impiegatizi, gli operai in quartieri operai e così via. La comunità, il vici­ nato, il quartiere sono il luogo di riproduzione in cui viene riprodotta forza-lavoro adeguata alla produzione. Questa è solo una tendenza, na­ turalmente, e vi sono molte forze in grado di modificarla o di bloccarla del tutto. E i rapporti tra le due sfere non sono affatto semplici. La ca­ pacità di mercato, definita in termini di capacità di svolgere un determi­ nato tipo di funzioni all’interno della divisione del lavoro, comprende, oltre alle competenze professionali specifiche, una serie di atteggiamen­ ti, valori e aspettative. Il rapporto tra la funzione e l’acquisizione di ca­ pacità di mercato a volte può essere stretto: i minatori quasi sempre si riproducono in comunità di minatori. Ma in altri casi esso risulta molto più debole: un raggruppamento di impiegati, per esempio, comprende un’ampia serie di categorie occupazionali ma è comunque differenzia­ bile, sia socialmente che spazialmente, da altri raggruppamenti. I raggruppamenti residenziali che riproducono forza-lavoro per soddisfare le esigenze di una divisione del lavoro data possono formare un raggruppamento distinto anche dal punto di vista del consumo. Una simile coincidenza dà alla differenziazione residenziale un caratte­ re molto più omogeneo. In questo rapporto, un elemento di necessità è rappresentato dal consumo di istruzione, che unifica una classe di con­ sumo con un raggruppamento basato sulla divisione del lavoro. Non è un elemento sufficiente a dare conto di tutto, ma negli Stati Uniti i rap­ porti tra differenziazione residenziale e qualità dell’istruzione sono molto forti, e sono una fonte costante di conflitto e tensione sociale. Il punto è mostrare come gli atteggiamenti creati dall’esperienza lavorati­ va implichino atteggiamenti paralleli nella sfera del consumo. Non è fa­ cile seguire questo collegamento, ma è ragionevole supporre che la qualità dell’esperienza lavorativa e gli atteggiamenti necessari a svolge­ re un lavoro in determinate circostanze sociali debbano riflettersi, in

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un modo o nell’altro, negli atteggiamenti e nei comportamenti del luo­ go di residenza. Le relazioni tra valori, coscienza, ideologia ed esperienza vissuta so­ no fondamentali; e sono le più difficili da chiarire. Per quanto riguarda la creazione di differenziazione residenziale, è evidente che gli individui fanno scelte ed esprimono preferenze. Per sostenere la mia tesi, quindi, devo dimostrare che le preferenze e i sistemi di valore, e forse anche le scelte, sono determinati da forze esterne alla volontà individuale. L’idea di una sovranità del consumatore autonoma e spontanea come spiega­ zione dello sviluppo diversificato degli spazi abitativi, anche se è alla base delle teorie convenzionali, è priva di fondamento. Non è così sem­ plice, invece, sapere esattamente con cosa sostituirla. Ed è troppo facile attribuire tutto alle lusinghe dei pubblicitari, per quanto queste possa­ no essere importanti. Se ci chiediamo, comunque, da dove vengono i valori della gente e che cosa li crea, è evidente l’importanza della comunità: essa rappresen­ ta il contesto sociale da cui derivano determinati sistemi di valori, aspi­ razioni e aspettative. Il vicinato è la prima fonte di esperienze di socializ­ zazione (Newson e Newson 1970). Dato che la differenziazione residen­ ziale dà luogo a comunità distinte, questo processo avviene in modo segmentato. I quartieri operai, per esempio, di solito producono indivi­ dui dotati di valori che li portano a far parte della classe operaia, e que­ sti valori, profondamente radicati nei codici cognitivi, linguistici e mora­ li della comunità, diventano parte integrante del bagaglio culturale con cui gli individui affrontano il mondo (Giglioli 1973). La stabilità dei quartieri e dei vicinati, e dei sistemi di valori che contraddistinguono chi ci vive sono notevoli, se si considera quanto forti siano le dinamiche di cambiamento in quasi tutte le città capitaliste. La riproduzione dei siste­ mi di valore consente la riproduzione delle classi di consumo e dei rag­ gruppamenti collegati alla divisione del lavoro, e ha anche la funzione di diminuire le possibilità di mobilità. I valori e gli atteggiamenti nei con­ fronti dell’educazione, per esempio, variano parecchio e influiscono sul consumo di istruzione, che è uno dei mezzi per migliorare le proprie possibilità di mobilità (Robson 1969). L’omogeneizzazione delle espe­ rienze vissute, determinata da questa restrizione, rinforza la tendenza al­ lo sviluppo di gruppi sociali relativamente stabili all’interno di una struttura altrettanto stabile di differenziazione residenziale. Nel mo­ mento in cui questo processo si trasforma in una consapevolezza diffusa che ha al proprio centro il quartiere o la comunità, e questa consapevo­ lezza diventa la base dell’azione politica, allora la coscienza di comunità sostituisce la coscienza di classe marxiana come punto di partenza per l’azione e come fulcro del conflitto sociale.

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Una volta formatisi gruppi di questo tipo, è relativamente semplice capire come possono conservarsi. Dobbiamo anche considerare, però, la storia di questi gruppi: alle odierne differenziazioni sociali si è giunti passando attraverso una serie di trasformazioni e frammentazioni cu­ mulative di configurazioni sociali precedenti. Per esempio, la recipro­ cità che si può trovare nei quartieri operai è essenzialmente uno stru­ mento di difesa, nato dalla trasformazione, sotto il capitalismo, di un’antica e ben nota modalità di integrazione economica (Harvey 1978, cap. vi). Negli Stati Uniti, ondate migratorie verificatesi in momenti de­ terminati dell’evoluzione della divisione capitalistica del lavoro hanno dato una forte caratterizzazione etnica a precise categorie occupaziona­ li, e anche a determinati quartieri e zone residenziali: entrambe le cose si sono poi mantenute. La continua oppressione dei neri, seguita alla fi­ ne della schiavitù, e la più moderna oppressione neocoloniale dei por­ toricani e dei chicanos hanno prodotto il ghetto, una colonia del Terzo Mondo nel cuore della città americana, ed è sicuramente vero che in questa società la sottoclasse è individuata dalla repressione neocolonia­ le basata sul razzismo (Blaut 1974). Le radici storiche della differenzia­ zione sociale e residenziale sono importanti. Ma sono importanti anche i processi di trasformazione della società, che creano nuovi raggruppa­ menti all’interno di una configurazione sociale. Pensiamo per esempio alla nascita di una classe media distinta, istruita e dotata di competenze intellettuali, incline al comportamento che McPherson ha felicemente definito «individualismo possessivo», e quindi a certi modi di consumo specifici, politicamente orientata verso i diritti civili e politici, sicura del fatto che il successo economico è esclusivamente questione di capacità individuali, dedizione e ambizio­ ne personale. Come se chiunque, con la sola forza della volontà, potes­ se diventare un medico, un avvocato o un dirigente d’azienda di suc­ cesso. La nascita di una simile classe media nel secolo scorso si è incisa nel tessuto urbano con la creazione di particolari quartieri residenziali, con specifiche opportunità di acquisire capacità di mercato. In tempi più recenti, gli operai benestanti e gli impiegati sono stati spinti ad adottare lo stile di vita della classe media. E nella città americana que­ sto processo si è collegato, a partire dagli anni trenta, con un forte pro­ cesso di suburbanizzazione. Come spieghiamo il collegamento tra la nascita di questi gruppi sociali e il processo di differenziazione resi­ denziale? Per rispondere a questa domanda bisogna, tra l’altro, capire i pro­ cessi con cui questa differenziazione è prodotta dall’agire di forze ester­ ne all’individuo e anche alla volontà collettiva di determinati gruppi so­ ciali. I tempi di questi processi sono relativamente lunghi: a quanto

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sembra l’attuale differenziazione residenziale era già consolidata nella maggior parte delle città britanniche e americane del 1850. Da certi punti di vista la situazione è sempre la stessa: per spiegare come si pro­ ducono l’ambiente costruito e i quartieri residenziali bisogna considera­ re le attività dei costruttori, dei proprietari speculatori e dei mediatori immobiliari, appoggiati dal potere delle istituzioni finanziarie e statali. Ho cercato altrove di descrivere a fondo questo processo nel caso della città americana, quindi posso qui limitarmi a riassumerlo. Le istituzioni finanziarie e statali sono ordinate gerarchicamente da relazioni d’autorità finalizzate a sostenere l’ordine capitalista. La loro funzione è di coordinare le “esigenze nazionali”, intese come riprodu­ zione della società capitalista e dell’accumulazione di capitale, con le at­ tività e le decisioni locali: in questo modo vengono coordinati gli aspet­ ti micro e macro del comportamento del mercato immobiliare. Queste istituzioni regolano la dinamica del processo di urbanizzazione, nor­ malmente secondo gli interessi deU’accumulazione e della gestione del­ le crisi economiche, e tra le conseguenze del loro intervento c’è la pro­ duzione di determinate strutture di differenziazione residenziale. La creazione di particolari segmenti di mercato immobiliare, che avviene soprattutto per mezzo del mercato dei mutui, migliora l’efficienza con cui le istituzioni sono in grado di gestire il processo di urbanizzazione. Contemporaneamente essa limita la possibilità di scelta degli individui. Nasce così una struttura nella quale essi potenzialmente possono sce­ gliere, ma sulla cui produzione non hanno alcun potere. Se la differenziazione residenziale è in buona parte prodotta, gli in­ dividui devono adattarvi le loro preferenze. Il meccanismo del mercato diminuisce la possibilità di scelta: i più poveri non ne hanno affatto, perché devono accontentarsi di ciò che rimane dopo che i gruppi più benestanti hanno scelto. La formazione delle preferenze di questi ulti­ mi presenta invece problemi maggiori. La pubblicità gioca un ruolo notevole, e anche le questioni di status e di prestigio sono decisamente importanti. Pensiamo per esempio a un impiegato costretto a trasferir­ si in una zona suburbana a causa del degrado delle condizioni di vita nel centro storico, nel processo che altrove ho definito di «esplosione» (Harvey 1978, cap. v). In questo caso la preferenza espressa per il tra­ sferimento può essere l’apparente razionalizzazione, a posteriori, di una “scelta” che in realtà non è stata tale. In gruppi di questo tipo cre­ sce facilmente il malcontento. Un individuo che abita in un’area su­ burbana, preoccupato dal rischio di rimanere senza benzina, ripensan­ do ai vantaggi della vita in centro si lamenta del fatto che «ci hanno fregati tutti», perché per poter «vivere lo stile di vita deciso da costrut­ tori, immobiliari e pianificatori, non posso fare altro che mantenere

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due automobili nella mia famiglia: una per andare a lavorare, l’altra per far andare avanti la casa» {Baltimore Sun, 11 febbraio 1974). Una volta che si sia presa la decisione di abitare in un’area suburbana, i va­ lori di consumo collegati alla vita di quella zona non sono oggetto di una preferenza, e la stessa decisione originaria può non essere l’esito di una scelta reale. In effetti, si potrebbe motivare in molti modi la tesi secondo cui la suburbanizzazione è creata dal modo di produzione capitalista. In pri­ mo luogo, essa è prodotta attivamente perché appoggia la domanda ef­ fettiva di prodotti e quindi agevola l’accumulazione di capitale. In se­ condo luogo, la trasformazione della divisione del lavoro nella società capitalista ha creato un gruppo specifico di impiegati che, soprattutto in virtù della loro istruzione e delle condizioni di lavoro, sono imbevuti dell’ideologia dell’individualismo competitivo e possessivo: tutto que­ sto sembra prestarsi molto bene alla produzione di quel modo di con­ sumo che normalmente definiamo “suburbano”. E interessante notare che a partire dagli anni trenta gli Stati Uniti hanno avuto il tasso di cre­ scita economico più alto, dunque la maggiore accumulazione di capita­ le, delle nazioni a capitalismo avanzato, la maggiore crescita del settore impiegatizio e il più rapido sviluppo della suburbanizzazione. Questi fenomeni non sono indipendenti fra loro. Possiamo quindi leggere la predilezione per la vita suburbana come un mito, nato dall’individualismo possessivo, nutrito dalla pubblicità e cresciuto dalla logica dell’accumulazione capitalista. Ma come tutti i miti, una volta creato esso acquista una certa autonomia, da cui posso­ no emergere notevoli contraddizioni. Il contesto suburbano americano, nato come risposta economica e sociale ai problemi interni dell’accu­ mulazione capitalista, oggi rappresenta una barriera al mutamento eco­ nomico e sociale. Il potere politico delle zone suburbane è usato in sen­ so conservatore, per difendere gli stili di vita e i privilegi, e per evitare una crescita non desiderata. Così si sviluppano elementi irrazionali nel­ la geografia del sistema di produzione capitalista: per esempio, le op­ portunità residenziali e occupazionali possono venire a trovarsi separa­ te le une dalle altre. Il blocco della crescita ulteriore crea un altro pro­ blema: se i movimenti “anti-crescita” diventano forti, come si possono avere domanda effettiva e accumulazione di capitale? Un fenomeno prodotto per sostenere l'ordine capitalista può, a lungo andare, esacer­ barne le tensioni interne. Questa conclusione può essere estesa a tutti gli aspetti delle diffe­ renziazioni sociali e residenziali. Le prime sono strutturate in modo da agevolare la riproduzione dei rapporti sociali capitalisti. Per questo nella città capitalista prevale la coscienza di comunità piuttosto che

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quella di classe. In questo modo si è allontanato il pericolo che si po­ tesse sviluppare una coscienza di classe nelle grandi concentrazioni di popolazioni proprie delle aree urbane: essa è stata frammentata grazie alla differenziazione residenziale. Però la coscienza di comunità, con tutti i suoi campanilismi, una volta creata mette radici profonde, e di­ venta molto difficile fare sì che si adatti all’interesse nazionale, in quanto funzionale all’accumulazione di capitale. Altrettanto difficile, ovviamente, è trasformarla in una coscienza di classe antagonistica al mantenimento dell’ordine capitalista. Al fine di conservare la sua dina­ mica, il capitalismo è costretto a distruggere ciò che la sua strategia di autoconservazione ha appena creato. La speculazione deve distruggere le comunità, la crescita deve proseguire, e interi quartieri residenziali devono essere sconvolti per venire incontro alle esigenze dell’accumu­ lazione. In questo momento della nostra storia, è qui che sorgono le contraddizioni e i potenziali di trasformazione sociale della sfera del­ l’urbanizzazione. La differenziazione residenziale è prodotta, almeno nei suoi aspetti generali, da forze che derivano dal processo produttivo capitalista, e non dev’essere intesa come il prodotto di preferenze autonome e spon­ tanee della gente che, però, cerca sempre di realizzarsi e di esprimersi nelle esperienze della vita quotidiana: sul lavoro, nel quartiere, a casa. Molte delle micro-variazioni del tessuto urbano testimoniano di queste spinte costanti. Ma c’è un livello d’azione in cui l’individuo perde il controllo delle condizioni sociali della sua esistenza di fronte a forze che non sembrano, nelle condizioni e con le istituzioni attuali, potere essere riportate a meccanismi politici di controllo collettivo. Quando superiamo questo confine, passiamo da una situazione in cui gli indivi­ dui possono esprimere la loro umanità e rapportarsi gli uni agli altri, a una situazione in cui essi non hanno altra scelta che l’adattamento, e in cui i rapporti sociali tra le persone vengono sostituiti da rapporti di mercato tra le cose. La differenziazione residenziale gioca da quest’ultimo punto di vi­ sta un ruolo vitale nel mantenimento e nella riproduzione delle relazio­ ni sociali alienate della società capitalista. Però, mentre cercano modi di autoperpetuarsi, le forze dell’accumulazione creano sistemi di valo­ ri, abitudini di consumo, stati di coscienza politica e anche interi am­ bienti costruiti che, col passare del tempo, bloccano l’espansione del­ l’ordine capitalista stesso. La natura assolutamente rivoluzionaria della società capitalista abbatte di continuo le barriere che essa erige per proteggersi. La continua ri-configurazione degli ambienti urbani e del­ le strutture di differenziazione residenziale è un segno di questo pro­ cesso incessante. Pertanto, anziché vedere la differenziazione residen­

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ziale come prodotto passivo di un sistema di preferenze basato sui rap­ porti sociali, dobbiamo pensarla come un importante fattore interno ai processi che producono e mantengono i rapporti di classe e la distin­ zione sociale. E chiaro, anche a questo livello di analisi preliminare, che la teoria della differenziazione residenziale ha molto da dare e mol­ to da prendere da una più completa integrazione con la teoria generale della società.

5. Il ruolo della politica urbana nella geografia dello sviluppo ineguale capitalista

Sono sempre più numerosi gli studiosi che sostengono la tesi, pericolo­ sa e priva di fondamento, secondo cui la fluidità dei processi politici ur­ bani e regionali non può essere inserita in una formulazione rigorosa della teoria marxista dell’accumulazione del capitale. E sorprendente quanti siano i sostenitori di questa tesi. Non solo autori come Saunders (1986), che naturalmente tendono a vedere con disprezzo qualsiasi for­ ma di teoria marxista, ma anche molti che in passato sono stati vicini al marxismo, o persino autori tuttora riconducibili a questa tradizione. Mollenkopf (1983), per esempio, sostiene con decisione che non è pos­ sibile costruire sulle proposizioni di Marx una teoria politica adeguata: la politica e lo stato devono essere visti come «forze guida a sé stanti», capaci di annullare la dimensione economica. Più importante, dal ver­ sante marxista, è la defezione di Castells. In The City and the Grassroots (1983, pagg. 296-300) l’autore confessa che la sua «matrice intellettua­ le» marxista «non è stata di grande aiuto dal momento in cui siamo en­ trati sul terreno infido dei movimenti sociali urbani». Il problema, so­ stiene, sta «in profondità, al cuore della teoria marxista del mutamento sociale», la quale non è mai riuscita a superare il dualismo tra la logica dell’accumulazione del capitale e i processi storici della lotta di classe. Riconoscendo che le critiche di Saunders sono «acute», Castells respin­ ge senza alcun dubbio l’idea che la città e lo spazio possano essere com­ presi in termini di logica del capitale. Dubita persino della rilevanza dei concetti di classe e di lotta di classe per la comprensione dei movimenti sociali urbani, e cerca quindi di costruire un’analisi più complessa della storia, delle città e della società, uscendo fuori dalle «gloriose rovine della tradizione marxista». Simili defezioni testimoniano la gravità della frustrazione che molti provano nel tentativo di applicare i concetti generali della teoria marxia­ na agli eventi di un luogo o un momento particolari. In questo capitolo

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affronterò direttamente tale malessere. Cercherò di mostrare come, per­ ché e con quali limiti possa sorgere una politica urbana “relativamente autonoma” e come questa “autonomia relativa” sia non solo compatibi­ le, ma necessaria ai processi di accumulazione del capitale. In questo modo, riconosco evidentemente che i problemi posti da chi abbandona il marxismo e da chi lo critica sono veri, non immaginari. E anche vero che la teoria generale dell’accumulazione non sempre è stata specificata in modo tale da rendere possibile lo studio dei processi urbani, e che nella tradizione marxista c’è un certo peso intellettuale che crea proble­ mi, anziché contribuire all’elaborazione di valide analisi e di alternative praticabili. Per tacere del dogmatismo. In un solo capitolo non è certo possibile affrontare tutti i problemi ancora aperti. Mi accontenterò dunque di proporre una linea argo­ mentativa relativamente semplice, che deriva la sua forza, credo, dal definire da subito l’accumulazione come processo spaziotemporale. Prendo le mosse dall’osservazione che lo scambio di forza-lavoro è sempre spazialmente situato. Un attributo fondamentale nella defini­ zione di un’area urbana è il mercato del lavoro geografico, nel quale è possibile scambiare giornalmente forza-lavoro contro opportunità di lavoro. Dopo aver considerato come si comportano i capitalisti nel contesto dei mercati del lavoro localizzati, proseguo mostrando come all’interno di una regione urbana, approssimativamente definita, si for­ mino alleanze di classe instabili. Queste alleanze sono collegate con la tendenza dell’economia urbana ad assumere quella che io chiamo una “coerenza strutturata”, che si definisce attorno a una tecnologia domi­ nante di produzione e di consumo e a un quadro dominante di rappor­ ti di classe. Le alleanze, come la coerenza strutturata che rispecchiano, sono instabili perché la concorrenza, l’accumulazione e il mutamento tecnologico distruggono da una parte quanto tendono a produrre dal­ l’altra. Qui c’è lo spazio in cui può sorgere una politica urbana relati­ vamente autonoma. Questa autonomia relativa si inserisce perfetta­ mente nelle dinamiche geografiche dell’accumulazione e della lotta di classe. In effetti, essa diventa un ottimo mezzo per unire la logica del­ l’accumulazione di capitale alla storia della lotta di classe. Robert Goodman (1979) non è il solo a vedere nello stato e nelle amministra­ zioni locali «gli ultimi imprenditori»: le diverse regioni urbane rendo­ no possibile lo sviluppo geografico ineguale del capitalismo perché sono jnxonnorrenza^ tra loro, per attirare occupazione, investimenti, nuove tecnologie, offrendo in cambio pacchetti specifici di infrastrut­ ture fisiche e sociali, qualità e quantità di forza-lavoro, costi dei mate­ riali, stili di vita, sistemi fiscali, qualità dell’ambiente, e così via. L’ef­ fetto di questa concorrenza è, ovviamente, quello di rendere qualsiasi

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alleanza di classe a base urbana compatibile con le esigenze generali del capitalismo. Ma c’è un altro aspetto importante. Il capit.alism.Q è.xm.modo di produzione sempre rivoluzionario. L’innovazione speculativa dei processi produttivi è imo dèi siiotc\unttcrf peculiari. L’innovazione nella proda zione, d’altra parte, ne richiede una parallela nel consumo, ma anche nelle infrastrutture fisiche, nelle forme spaziali,..nei processi.so.ciali.di ri­ produzione. Essa deve coinvolgere gli stili di vita,de forme organizzati­ ve politiche, culturali, ideologiche nonché quelle burocratiche, com­ merciali e amministrative, e infine le configurazioni spaziali. Il fermento della politica urbana e i suoi vari movimenti sociali sono una parte im­ portante di questo processo di innovazione, che è imprevedibile nei suoi dettagli proprio come lo sono i processi capitalisti di innovazione di prodotto e di mutamento tecnologico e di posizione. Inoltre, un comportamento di questo tipo presuppone una vasta gamma di libertà individuali, in modo tale che gli individui, le organizzazioni e i gruppi sociali possano intraprendere azioni di tutti i tipi e orientate in ogni di­ rezione. Quanto più una società è aperta, tanto più è innovativa. D’altra parte, nel capitalismo il successo nell’innovazione rappresenta un modo di trarre profitto. Qui entra di nuovo in gioco la dura logica della razio­ nalità capitalista. Le città, proprio come gli imprenditori, possono avere la peggio di fronte ai loro concorrenti, possono fare bancarotta, o sem­ plicemente restare indietro nella corsa verso il successo economico. La p.ohtica.urbana-si-m0stra-aJlor3,.cQme,.U,bLrac.cio„p,QteiJte^.spes.s,o. jinnovatiyojmajn ultima analisi coercitivo dell’accumulazioneL_ejle.lla lotta di .class.ejn.eguali;,imllo spazio geografico. La coercizione ovviamente sti­ mola il conflitto, polche le liberta concesse rendono possibile l’esplora­ zione di direzioni incompatibili con il capitalismo, o che gli sono addi­ rittura antagoniste. Le città possono diventare centri della rivoluzione. Ma, come ha dimostrato una volta per tutte la Comune di Parigi, a que­ sto punto vi sono solo due risultati immediatamente possibili. O la rivo­ luzione si diffonde e arriva a comprendere tutta la società, o le forze della reazione riprendono in mano la città e con la forza riportano la politica sotto controllo. Da molto sostengo che l’urbanizzazione dev’essere intesa come un processo che non conosce necessariamente limiti spaziali fissi, anche se si manifesta sempre all’interno di uno spazio determinato. Quindi, quando parlo di politica urbana, la concepisco in senso lato, intenden­ do cioè quei processi politici che agiscono in uno spazio definito. I suoi confini, interni ed esterni, sono fluidi, ma comunque esplicitamente de­ finiti. Non mi riferisco al sindaco e alla giunta comunale, per quanto anch’essi siano un’espressione importante della politica urbana. Né fac-

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ciò riferimento a una regione urbana definita in modo esclusivo: quan­ do si tratta dei grandi processi che vi agiscono, le regioni metropolitane si sovrappongono e si intersecano. Lo spazio urbano che propongo di analizzare è fisso solo nella misura in cui i processi fondamentali che in­ dividuerò sono confinati all’interno di spazi fissi. Ma se i processi sono in continuo movimento, anche lo spazio urbano è preso in un flusso continuo.

1. Il mercato del lavoro urbano

Da tempo Marx ha sottolineato l’importanza della giornata lavorativa come unità d’analisi. Essa definisce il quadro temporale normale al cui interno i datori di lavoro possono cercare di sostituire un lavoratore al­ l’altro, e in cui allo stesso modo i lavoratori possono cercare di sostitui­ re un’opportunità di lavoro all’altra. Propongo quindi di vedere Inur­ bano” in prima istanza come un mercato di lavoro caratterizzato da contiguità geografica, all’interno del quale sono possibili scambi quoti­ diani e sostituzioni di forza-lavoro. Evidentemente, l’estensione geogra­ fica di un mercato del lavoro urbano così definito dipende dallo spazio di pendolarità, a sua volta determinato da condizioni sociali e tecnolo­ giche. Inoltre, i mercati del lavoro possono sovrapporsi spazialmente (fig. 10), e tendono a sfumare nello spazio senza concludersi con un qualche confine discreto. La cosa migliore è pensare il mercato del la­ voro urbano come un complesso bacino di drenaggio, meglio definito al centro che in periferia (Coing 1982). Si può dunque avanzare una te­ si a prima vista piuttosto plausibile, secondo la quale il mercato del la­ voro urbano-regionale è un’unità di grande importanza nell’analisi del­ l’accumulazione di capitale nello spazio. In un giorno dato, le quantità e le qualità della forza-lavoro disponi­ bile all’interno di questa area sono date. Si tratta di un’inelasticità del­ l’offerta di breve periodo cui i capitalisti si devono spesso adattare. Che lo facciano o meno dipende da molte condizioni, tra le quali il divario tra l’offerta di lavoro potenziale e quella utilizzata (surplus di lavoro), l’orizzonte temporale degli investimenti di capitale, la facilità di movi­ mento del capitale e così via. Questi problemi sono trattati nella secon­ da sezione di questo capitolo. I mercati del lavoro urbani presentano peculiarità e imperfezioni di ogni tipo. La forza-lavoro, sottolinea Marx, è una merce particolare, di­ versa dalle altre da molti punti di vista. Tanto per cominciare, essa non viene prodotta sotto il controllo dei capitalisti ma in una famiglia. Nella determinazione del suo valore di scambio, inoltre, rientrano una serie di

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Ftg. 10. Zone di pendolarità individuale negli Stati Uniti nel 1960. Riproduzione autorizzata, da B.J.L. Berry e E. Neils, "Location, Size, and Shape of Cities as Influenced by Environmental Factors: The Urban Environment Writ Large", in The Quality of the Urban Environment, a cura di FL Perloff, Johns Hopkins University Press, Baltimora 1969.

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circostanze morali, ambientali e politiche. Infine, il suo valore d’uso è difficile da quantificare, a causa della natura fluida dei processi lavorati­ vi che creano il valore. Per questo Storper e Walker (1984, pag. 22-23) concludono che «il lavoro è completamente diverso dalle merci vere e proprie, poiché è incarnato in esseri umani vivi e coscienti e poiché l’at­ tività umana, cioè il lavoro, è l’essenza irriducibile della produzione e della vita della società». Nel mercato del lavoro non si possono ottenere il livellamento e la standardizzazione ottenuti in altre sfere di scambio. Le qualità del lavoro restano sempre «idiosincratiche e situate». Ne con­ segue che ogni mercato del lavoro è unico. Altrettanto peculiari sono le imperfezioni dei mercati del lavoro ur­ bani. Possono esistere segmentazioni, per cui certi tipi di lavoro sono ri­ servati solo ad alcuni lavoratori (maschi bianchi, donne, minoranze raz­ ziali, immigrati recenti, gruppi etnici eccetera), mentre può anche venire meno l’unità geografica, se certi tipi di lavoratori, come i neri nei centri storici o le donne nelle aree suburbane, sono bloccati dalla mancanza di mezzi di trasporto in sub-mercati geograficamente distinti, o se diversi gruppi sociali hanno, in virtù dei loro redditi, un accesso diversificato al­ le varie modalità di trasporto. Sulla vigenza empirica del principio della sostituibilità influisce anche la distribuzione differenziata delle compe­ tenze professionali, in rapporto a tutte le attività lavorative che hanno luogo nella regione urbana. E c’è infine il problema del surplus di lavoro disponibile, composto da persone disoccupate, sotto-occupate o poten­ zialmente occupabili. I mercati del lavoro urbani hanno normalmente una riserva di questo tipo, anche se a volte non è semplice mobilitarla. Da tutti questi punti di vista, la rigidità dell’offerta con cui i capitalisti devono fare i conti all’interno di questi mercati è una rigidità strutturata. Le rigidità si possono ammorbidire, se ampliamo l’orizzonte tem­ porale. L’emigrazione (occasionale, periodica o permanente) libera l’offerta di forza-lavoro dal vincolo dello spazio di pendolarità quoti­ diano. L’offerta dipende allora dalle condizioni di un “campo migrato­ rio” che di solito ha un qualche limite geografico, ma che in teoria non ha confini. L’offerta di forza-lavoro all'interno di un mercato del lavoro urbano varia su base settimanale, mensile o annuale a seconda del rap­ porto tra immigrazione ed emigrazione. I piccoli aggiustamenti, quanti­ tativi e qualitativi, sono rapidi, ma i flussi maggiori pongono problemi più seri, ancora una volta per le particolari caratteristiche della forzalavoro in quanto merce. Il portatore di questa forza-lavoro, il lavorato­ re vivente, deve essere nutrito, alloggiato e in qualche modo curato, e ciò comporta costi sociali e la fornitura di merci per soddisfare le sue esigenze quotidiane. Anche i lavoratori temporanei o immigrati hanno bisogno di un certo livello di approvvigionamenti, per quanto grama

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sia la loro vita. L’offerta di lavoro è la merce più difficile da importare, e una volta arrivata ha una presenza relativamente stabile, tranne nel caso di programmi particolari per lavoratori stranieri con contratti a tempo determinato o cose di questo tipo. La crescita della popolazione ha pure l’effetto di rendere meno rigidi i vincoli all’offerta, ma, anche in questo caso, gli adattamenti sono lenti e difficilmente reversibili. I mutamenti qualitativi del lavoro dipendono in buona parte da processi educativi formali e informali di lungo periodo, e da trasformazioni cul­ turali altrettanto lunghe: per esempio, l’acquisizione di una disposizio­ ne al lavoro adeguata, l’interiorizzazione di un’“etica protestante” e co­ sì via. Una maggiore flessibilità può venire ai mercati del lavoro urbani anche da aggiustamenti delle linee interne di segmentazione, come per esempio dal rafforzamento o dall’indebolimento delle barriere discri­ minatorie tra le razze e tra i sessi, oppure da nuove spinte sociali alla mobilitazione di riserve “nascoste” di lavoro: è questo il caso della par­ tecipazione delle donne alla popolazione attiva, o dell’imposizione da parte dello stato di programmi assistenziali che rendono obbligatorio il lavoro. Comunque, nonostante i costi sociali, la lunghezza degli oriz­ zonti temporali per determinati investimenti e alcune rilevanti irrever­ sibilità, sul lungo periodo l’offerta di forza-lavoro riesce a essere discre­ tamente elastica, sia dal punto di vista quantitativo che da quello quali­ tativo. Date le condizioni, come funziona un mercato del lavoro urbano? In primo luogo, guardiamo la cosa solo dal punto di vista dell’accumu­ lazione del capitale. Accumulare significa determinare o un’espansione quantitativa della popolazione attiva, o una sua trasformazione qualita­ tiva in risposta alle rivoluzioni organizzative e tecnologiche dei metodi di produzione. Come si producono e come si conservano i surplus di forza-lavoro, o le riserve intatte di determinate qualità del lavoro (per esempio atteggiamenti adeguati e competenze particolari)? La «legge generale dell’accumulazione capitalistica» di Marx fornisce una prima risposta. I percorsi dell’accumulazione e del mutamento tecnologico si intersecano, e, quali che siano il ritmo di crescita della popolazione o il tasso di immigrazione, producono un surplus di lavoro, un esercito in­ dustriale di riserva. La disoccupazione prodotta dalla tecnologia con­ sente ai capitalisti di agire sul mercato del lavoro non solo dal lato del­ l’offerta, ma anche da quello deUa domanda: essi sono così in grado di controllare i livelli salariali, la disoccupazione e tutti i fenomeni che vi si collegano (Harvey 1982, cap. vi). La condizione della riserva di lavoro dipende quindi dalle tradizioni di welfare, che a loro volta derivano dal­ l’evoluzione socio-economica e politica. La capacità di spostare la pro­ duzione verso nuove tecnologie e nuove forme organizzative dipende in

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ogni caso dall’adattabilità del lavoro. La “legge generale” è utile come prima approssimazione, ma richiede una maggiore elaborazione se vo­ gliamo comprendere le dinamiche dei mercati del lavoro urbani. Pensiamo ora all’importanza delle economie di scala nello spazio geografico di un mercato del lavoro urbano. I capitalisti che operano in una linea produttiva con bassi costi d’ingresso o una buona capacità di espansione (il che significa che non vi sono incrementi discreti nell’oc­ cupazione dovuti alla natura “ammassata” degli altri investimenti) sono attratti dai grandi mercati del lavoro urbani, poiché un surplus di lavo­ ro relativamente piccolo in un vasto bacino di lavoro disponibile forni­ sce a ciascuno di loro buone riserve per incominciare l’attività o per espanderla. Le rigidità quotidiane dell’offerta di lavoro possono essere meglio aggirate a questo livello. L’effetto, però, è che i capitalisti si con­ centrano nei grandi mercati del lavoro urbani, e si avvicinano quindi al tetto dell’offerta di lavoro complessiva. In assenza di un’immigrazione sostenuta, o di una forte crescita della popolazione, ciò determina un innalzamento dei tassi salariali e una tendenza a stimolare innovazioni in grado di risparmiare lavoro. Questo implica a sua volta uno sposta­ mento della domanda di particolari qualità del lavoro. Tuttavia un grande mercato del lavoro urbano offre ai singoli capitalisti abbondanti opportunità di sostituzione, enfatizzando di nuovo i vantaggi della con­ centrazione. Il bisogno di competenze particolari può anche diminuire per tutti i lavoratori, a eccezione di una piccola élite, mentre può au­ mentare l’importanza di altre qualità come la disciplina, la laboriosità, il rispetto della gerarchia, la lealtà e la cooperazione, qualità non sempre facilmente reperibili. La dequalificazione quindi non significa, come suppongono alcuni, la scomparsa del problema della qualità del lavoro, la flessibilità della quale è pertanto un attributo importante dei mercati del lavoro urbani. Si parla di “qualità” in senso lato, intendendo l’evo­ luzione socio-psicologica e culturale della popolazione attiva. Mentre le industrie con grandi unità produttive e investimenti ammassati si trova­ no in una certa misura al di fuori di questi imperativi, esse presentano la medesima tendenza verso la concentrazione geografica: in questo caso la tendenza si manifesta all’interno dell’organizzazione industriale stes­ sa, poiché gli investimenti a lungo termine richiesti rendono preferibile disporre di un’offerta di lavoro quantitativamente e qualitativamente stabile (Storper e Walker 1983; 1984). Vediamo ora le cose dal punto di vista dei lavoratori. Marx parla di «istinto di autoconservazione dei lavoratori» per spiegare la riproduzio­ ne quotidiana e di lungo periodo della forza-lavoro. Questa formula na­ sconde però una realtà complessa: la formazione della famiglia, le rela­ zioni di genere, familiari e parentali, le reti personali, la solidarietà co-

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inunitaria, l’ambizione individuale e così via. Queste condizioni sono al di fuori del controllo diretto dei capitalisti, o di altri attori, ma vi sono innumerevoli percorsi attraverso i quali i capitalisti li possono influen­ zare indirettamente: la religione, l’istruzione, i programmi pubblici di assistenza sociale, eccetera. Le attività per mezzo delle quali il lavoro si riproduce sono infinite, e il particolare assetto cui si perviene ha note­ voli implicazioni per la quantità e la qualità dell’offerta di lavoro di una determinata regione urbana. Gli “istinti di autoconservazione” possono manifestarsi a livello in­ dividuale o collettivo, e in ogni caso si prestano a numerose interpreta­ zioni sociologiche o psicologiche. Alcuni lavoratori vedono l’emigrazio­ ne individuale come mezzo di ascesa sociale, altri scelgono di rimanere, organizzarsi nella propria regione urbana e lottare collettivamente per migliorare la propria situazione. Tra i due estremi si trovano numerose possibilità intermedie: questa realtà è descritta bene da chi parla di par­ ticolari culture della classe operaia, nelle quali si uniscono elementi di individualismo, disposizioni collettiviste e atteggiamenti comuni nei confronti del lavoro, della vita, del consumo e del “progresso sociale”. Va detto poi che l’aumento del salario e delle opportunità di lavoro non sono gli unici motivi per emigrare. La motivazione socio-psicologica può essere altrettanto importante ai fini della scelta di spostarsi verso un grande mercato del lavoro urbano. La particolare miscela di libertà e di alienazione, di speranze e di rischi offerti che esso può offrire costi­ tuisce un forte incentivo. Anche se le strade di Birmingham e di Chica­ go non sono lastricate d’oro, in città c’è comunque in giro una quantità d’oro tale che qualsiasi individuo può ragionevolmente sperare di aver­ ne un pezzetto. Come i capitalisti sono attratti verso i mercati del lavoro dalle economie di scala, così lo sono i lavoratori, per ragioni analoghe: la gamma di scelta e le possibilità di sostituzione sono molto maggiori. L’effetto però è che i singoli lavoratori, seguendo il proprio interesse in­ dividuale, tendono a produrre un surplus di forza-lavoro all’interno di un determinato mercato, e quindi vanno contro il loro stesso interesse di classe. Dato che i singoli capitalisti si comportano allo stesso modo, si sviluppa una spinta all’incremento della scala delle attività economi­ che all’interno della regione urbana. I lavoratori organizzati dotati di coscienza di classe possono anche essere spinti a cercare modi di limita­ re l’immigrazione, al fine di conservare i livelli salariali e le condizioni di lavoro e di vita. Possono farlo monopolizzando determinati tipi di la­ voro, o semplicemente accogliendo male i nuovi immigrati. Anche que­ sta è una situazione in cui le differenze di razza, religione, etnia e sesso si prestano a essere usate come mezzi di controllo o di integrazione se­ lettiva di nuova offerta di lavoro in un dato mercato. Sottolineo questa

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circostanza per mostrare che le segmentazioni del mercato del lavoro sorgono dal desiderio dei lavoratori di controllare l’offerta tanto quanto dalla volontà dei datori di comandare dividendo. Il problema della qualità del lavoro merita di essere considerato più da vicino. Che effetto ha, da questo punto di vista, l’istinto di autocon­ servazione dei lavoratori? Come sottolineano Storper e Walker (1984), qui non si tratta solo di un particolare insieme di competenze e capacità che mettono chi le possiede in grado di svolgere questo o quel processo lavorativo: in gioco sono tutta la sociologia e la psicologia del lavoro. Le abitudini di lavoro, il rispetto per l’autorità, l’atteggiamento verso gli al­ tri, lo spirito di iniziativa, l’individualismo, l’orgoglio e la lealtà sono al­ cune delle qualità che determinano tanto la produttività della forza-lavo­ ro quanto la sua capacità di impegnarsi nella lotta contro il dominio ca­ pitalista. Queste caratteristiche non sono presenti in modo uniforme in un mercato del lavoro urbano: a volte sono differenziate, e tendono a produrre le loro particolari rigidità strutturali. Essendo il prodotto dello sviluppo sociale e politico, sono spesso relativamente inelastiche, sul me­ dio e forse anche sul lungo periodo. Esse comunque tendono a trasfor­ marsi, così come la loro distribuzione all’interno della popolazione, per effetto di una complessa interazione di processi di classe. I lavoratori possono educarsi, sviluppare la loro coscienza, cercare di estendere i vantaggi ottenuti per mezzo della militanza politica, o anche cercare di monopolizzare particolari competenze, determinando una segmentazio­ ne delle qualificazioni che fornisce vantaggi a sottogruppi come un’ari­ stocrazia operaia o uno strato di capi, o anche una peculiare struttura di occupazioni collegate a competenze specifiche. Le motivazioni e le aspi­ razioni dei singoli lavoratori, insieme con i loro sforzi collettivi, giocano un ruolo cruciale nella trasformazione della qualità del lavoro, un ruolo che è indipendente dalle iniziative e dalle motivazioni dei capitalisti. L’impulso dei lavoratori al miglioramento personale e collettivo è qual­ cosa che non è controllabile da parte dei capitalisti, che vi si devono adattare, non essendo in grado di metterlo in moto deliberatamente. I capitalisti possono anche avviare o appoggiare nei modi più conve­ nienti iniziative finalizzate alla modifica delle qualità del lavoro. Altri gruppi interni alla borghesia (religiosi, intellettuali, burocratici) hanno i loro programmi in merito, e possono formare alleanze strategiche con i capitalisti o con i lavoratori per creare iniziative pubbliche o private al fine di migliorare competenze e qualità del lavoro. L’evoluzione della competenza del lavoro non procede quindi necessariamente in modo funzionale alle esigenze dei capitalisti. Naturalmente le trasformazioni del processo lavorativo determinano il contesto in cui si dispiegano tut­ ti questi impulsi, e in alcuni casi tracciano il percorso generale lungo il

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quale deve muoversi l’evoluzione della qualità del lavoro. Possono an­ che creare condizioni che obbligano i lavoratori ad adattare le loro ca­ pacità e i loro atteggiamenti. Ma in ogni caso c’è un’interazione, media­ ta dall’istinto di autoconservazione e di autovalorizzazione degli stessi lavoratori. Diversamente da altre forme di investimento, le qualità del lavoro, una volta acquisite, non vengono meno con il passare del tempo. Per usare una metafora marxiana particolarmente efficace: la produttività del lavoro è come quella del suolo, e può aumentare con il tempo, pur­ ché venga seguita in modo adeguato. L’effetto quindi è che ogni merca­ to è unico nelle sue caratteristiche, poiché i lunghi processi di sviluppo sociale e politico di ogni regione producono combinazioni uniche di qualità del lavoro. Se però tali qualità sono sottratte dai capitalisti con la dequalificazione, un eccessivo carico di mansioni, un clima negativo nell’ambiente lavorativo, la disoccupazione e così via, il lavoro, proprio come il suolo, può perdere rapidamente la sua forza produttiva. Atteggiamenti cooperativi possono diventare in un batter d’occhio vio­ lentemente conflittuali; le competenze tecniche possono essere superate o andare perdute; gli atteggiamenti verso il genere e la razza possono essere stravolti in modo tale da fare divampare conflitti sul mercato del lavoro e sul luogo di lavoro stesso. Il problema, ovviamente, è che l’a­ zione delle leggi della concorrenza spinge i singoli capitalisti ad adotta­ re strategie di rapina, anche quando ciò contrasta con i loro stessi inte­ ressi di classe. Che si giunga o meno a questo esito dipende da una serie di circostanze: le condizioni della domanda e dell’offerta interne di la­ voro, la possibilità di rifornire le riserve di lavoro con immigrazioni di forza-lavoro o di capitale, e la capacità dei capitalisti di porre un limite alla concorrenza accordandosi su un qualche tipo di regolazione del mercato del lavoro. Una volta che i surplus di forza-lavoro sul mercato urbano sono esauriti, i capitalisti hanno a loro disposizione diverse scelte: spostarsi altrove; cercare innovazioni che risparmino lavoro per creare un eser­ cito industriale di riserva; introdurre trasformazioni nelle modalità di utilizzo della forza-lavoro, come la riduzione dei vincoli sociali e giuri­ dici alla durata della giornata lavorativa, o l’aumento del tasso di sfrut­ tamento di donne, bambini e anziani; o semplicemente l’importazione all’ingrosso di lavoro da qualche altro luogo. In pratica i capitalisti, o almeno una loro parte, usano tutte queste strategie molto prima che il punto di totale assorbimento del surplus di lavoro sia raggiunto. Anche incrementi modesti dei costi del lavoro, c modeste minacce di organizzazione dei lavoratori possono dare luogo a grandi spostamenti delle strategie individuali di accumulazione. Ma queste strategie gene­

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rano resistenza e lotta, perché per definizione esse minacciano la sicu­ rezza del lavoro. Il valore della forza-lavoro, inteso come tenore materiale di vita dei lavoratori, e quello di altre importanti grandezze della vita sociale, come la durata della giornata lavorativa, sono da vedere non solo come esito di processi collegati con la struttura di classe, ma anche come risultato del conflitto di classe attivo. Ciò è così evidente che è quasi inutile parlarne. Quello che invece dev’essere spiegato è la modalità con cui questi pro­ cessi agiscono all’interno dei confini di mercati del lavoro geografica­ mente specifici, in modo tale da enfatizzare anziché diminuire le qualità che li rendono unici. Vi sono numerosi studi del XIX secolo, tra i quali Le condizioni della classe operaia inglese nel 1844 di Engels è uno degli esempi più noti, che mostrano come i conflitti si manifestino in contesti urbani e regionali specifici. Lo studio comparativo di John Foster (1974) della struttura di classe, dei conflitti e dell’evoluzione dei processi lavo­ rativi a Oldham, Northampton e South Shields, è un ottimo esempio di questo tipo di storia del lavoro. Le differenziazioni tra i diversi mercati del lavoro urbani nel periodo considerato sembrano altrettanto rilevanti delle tendenze verso l’uniformità. Ma anche a questo proposito c’è un problema. Lo stato è un’unità di regolazione che stende la sua rete su uno spazio molto più ampio di quello di un mercato del lavoro urbano. Anche se l’esigenza di un intervento della regolazione statale può sorge­ re in determinati mercati del lavoro e non in altri, l’effetto dell’interven­ to statale è che su tutti i mercati del lavoro viene stesa una vernice super­ ficiale di uniformità. La lotta di classe che si esprime al livello dello stato nazionale tende a ridurre i mercati del lavoro urbani a variazioni attorno a una norma nazionale. Le differenze tra le nazioni diventano più grandi di quelle esistenti al loro interno. E quindi chiaro che la geografia dei mercati del lavoro nel XX secolo si è evoluta nel senso della disposizione dei mercati internazionali, nazio­ nali, regionali e urbani in una struttura gerarchica più unitaria. Anche se i mercati del lavoro urbani sono comprensibili solo se rapportati agli al­ tri, la mia opinione è che comunque essi rappresentano un’unità d’anali­ si fondamentale, in questa gerarchia, proprio per lo stesso motivo per cui sono un’arena fondamentale di conflitto di classe e di metamorfosi del lavoro. In ogni caso, i processi politici che trasmettono le rivendica­ zioni dal livello urbano a quello nazionale e viceversa sono molto com­ plessi. La regolazione statale si può concentrare in alcuni settori, e avere quindi sul mercato del lavoro urbano un impatto differenziato e non uniforme. L’esecuzione delle disposizioni regolative nazionali può anche variare da un luogo all'altro, a seconda della coscienza e della mobilita­ zione di classe, e della spinta dei capitalisti a violare la legge. E poiché lo

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stesso apparato statale è decentrato, come ad esempio negli Stati Uniti, parte della regolazione del mercato del lavoro si trasforma in un mosaico di differenze regionali e anche locali. La contrattazione collettiva a livel­ lo nazionale lascia sempre spazio per le variazioni locali, e anche la sindacalizzazione varia di luogo in luogo. Il forte radicamento del sindacali­ smo rende ancora significative espressioni come “città operaia”. Negli Stati Uniti, per esempio, esistono manuali antisindacali, che consigliano di fare in modo che le fabbriche siano piccole, con non più di cento di­ pendenti, e distanti almeno cento miglia le une dalle altre. Ma nella lotta di classe e nelle metamorfosi della forza-lavoro c’è ben altro che la regolazione giuridica alla contrattazione collettiva. Esistono infinite verietà di assetti informali: può nascere un’intera cultura di lavo­ ro o di lotta, di cooperazione e di interazione sociale, che dà alla qualità del lavoro di una regione urbana un colore unico. La religione, l’istruzio­ ne, la tradizione, le motivazioni individuali, le strutture di mobilitazione collettiva si uniscono all’istinto di sopravvivenza dei lavoratori e produ­ cono un vero mosaico di mercati del lavoro urbani che, anche se posso­ no sovrapporsi, confondersi o integrarsi verso l’alto in configurazioni re­ gionali e nazionali, rappresentano comunque unità di analisi importanti, se non altro perché rimangono il quadro di fondo all’interno del quale la giornata lavorativa trova la sua gamma di possibilità geografiche. Pertan­ to manterrò l’obiettivo analitico su questo livello, anche se dev’essere chiaro che questa non è la sola scala geografica rilevante per studiare i comportamenti sul mercato del lavoro.

2. Spazi, tecnologie e concorrenza capitalista nei mercati del lavoro urbani La ricerca di profitti supplementari da parte degli imprenditori è fonda­ mentale nei rapporti sociali capitalisti. Si possono avere profitti supple­ mentari grazie a una tecnologia innovativa o a un’organizzazione più ra­ zionale, o perché si occupano posizioni più vantaggiose. La posizione in sé, ovviamente, significa ben poco: quello che serve al capitalista è un ac­ cesso privilegiato in termini di tempi e di costi alle materie prime, ai se­ milavorati, ai servizi e alle infrastrutture fisiche e sociali, ai mercati finali e, naturalmente, a un’offerta di lavoro di quantità e qualità adeguate alle sue esigenze. La coercizione esercitata dalle leggi della concorrenza costringe i ca­ pitalisti a cercare tecnologie e posizioni migliori. Questo conferisce a produzione, scambio e consumo un forte dinamismo tecnologico e geo­ grafico. Esistono però forti ostacoli a un dinamismo incontrollato. Tra­

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sformare la tecnologia costa, così come spostare la posizione dell’attività. Un capitalista razionale non modifica nulla se il profitto supplementare non supera i costi. Ma la concorrenza non incentiva necessariamente una simile razionalità. Allo stesso modo in cui i singoli lavoratori posso­ no vedere le strade della città lastricate d’oro, i singoli capitalisti posso­ no vedere scaturire l’oro da ogni marchingegno tecnologico o da ogni nicchia geografica. Allettati, possono prendere l’iniziativa con conse­ guenze disastrose, non solo per loro ma per tutta la classe capitalista. La ricerca di profitti supplementari significa speculazione, e la speculazione dà luogo molto facilmente a eccessi. Di fronte a questa situazione, può svilupparsi una tendenza razionale da parte dei capitalisti a trovare mi­ sure di contrappeso. Essi possono cercare di trasformare il controllo del­ la tecnologia o della posizione in privilegi monopolistici, che li mettano fuori della concorrenza anziché solo ai primi posti. I processi lavorativi possono essere protetti dal segreto industriale o dai brevetti. In alcuni settori queste protezioni sono deboli: chiunque può mettere in piedi una fabbrica tessile comprando qualche macchinario e pagando delle ope­ raie. In altri settori invece, come il farmaceutico o l’elettronica, le prote­ zioni sono di solito più forti. La capacità di trasformare il “monopolio naturale” fornito dalla posizione spaziale in un monopolio di mercato può anche variare: si va dalle protezioni forti di norma accordate ai pro­ duttori di servizi pubblici come gas, luce, acqua, a quelle deboli accor­ date nell’edilizia a costruttori e appaltatori. Probabilmente la maggior parte dei capitalisti preferirebbe stare al di fuori della concorrenza piuttosto che guidarla. La ricerca di profitti supplementari si può quindi dividere in due correnti: il percorso della concorrenza, in cui si cerca di adottare nuove tecnologie e di trovare posizioni capaci di fornire un vantaggio temporaneo; e il percorso della ricerca di un potere monopolistico, tramite il controllo esclusivo di un vantaggio tecnologico o posizionale. La spinta a trasformare un vantag­ gio momentaneo in un monopolio permanente è più importante di quanto si pensi, e serve a spiegare il comportamento dei capitalisti nei mercati del lavoro urbani. Una volta che si vengano a trovare in una po­ sizione favorevole, essi possono adottare numerose strategie: per esem­ pio spingere per rinforzare il loro potere di monopolio, o per bloccare la penetrazione della concorrenza; cercare di impedire l’accesso a deter­ minate qualità presenti nell’offerta di lavoro; controhare l’afflusso di in­ put alla produzione per mezzo di contratti di fornitura esclusivi; mono­ polizzare il mercato con concessioni o rapporti commerciali esclusivi e altre iniziative di questo tipo. In tal modo, essi si ingarbugliano sempre più nella totalità dei processi politici ed economici attivi in un determi­ nato mercato del lavoro. In realtà gestiscono i loro effetti di esternalità

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positivi e traggono vantaggi dalle sinergie urbane che consapevolmente cercano di promuovere. Questo duplice percorso verso profitti supplementari si suddivide ancora una volta, dato che vantaggi tecnologici e vantaggi posizionali so­ no sostituibili. Una tecnologia superiore può compensare una posizione inferiore, e viceversa. In condizioni di concorrenza, all’interno del pae­ saggio della produzione capitalista si potrebbe stabilire un equilibrio ap­ prossimativo in cui le sostituibilità tra vantaggi tecnologici e posizionali si bilancino tra tutti i produttori. Questo paesaggio sarebbe comunque molto poco stabile. La gamma della competizione spaziale è definita dal­ la tecnologia, attraverso le economie di scala e la gamma di un bene. La tecnologia adeguata dipende dalla dimensione e dalla scala dell’area che costituisce il mercato degli input e degli output, senza considerare la fluidità del movimento dell’offerta di lavoro. La ricerca di un profitto supplementare per mezzo di innovazione tecnologica non è quindi indi­ pendente dalla ricerca di profitto supplementare per mezzo di posizioni migliori. Anche senza speculazioni eccessive, la competizione provoca contemporaneamente spostamenti delle configurazioni spaziali e degli assetti tecnologici, rendendo impossibile un “equilibrio spaziale” nel senso della teoria classica della posizione. Quanto più un’economia spa­ ziale si avvicina allo stato di equilibrio, tanto più l’accumulazione di ca­ pitale e la ricerca di profitto supplementare lo ùnpediranno. Il ritmo del mutamento, di qualsiasi tipo esso sia, è rallentato dal tempo di rotazione dei capitali impegnati. Beni di tipo diverso richiedo­ no periodi differenti di lavorazione: dalla cottura quotidiana del pane al­ la produzione di un’annata in agricoltura, fino ai tempi ancora più lun­ ghi richiesti per produrre, per esempio, una diga o una centrale elettrica. Per di più, il tempo di rotazione dei diversi input può variare (macchine, edifici eccetera). Quanto più i tempi di lavorazione e i periodi di rotazio­ ne si allungano (vedi Harvey 1982, cap. Vin), tanto maggiore è l’inerzia tecnologica e geografica. Non si possono avere nuove tecnologie e nuove posizioni fino a che il valore incorporato nel capitale fisso impiegato non sia stato pienamente recuperato: in caso contrario una parte di valore si svaluta, prima che la sua vita economica sia conclusa. Quanto più lunghi sono questi periodi di vita, tanto più vulnerabili sono i sistemi produttivi. Ogni volta che l’afflusso giornaliero di lavoro viene meno, a causa di scioperi, emigrazioni, o trasferimenti ad altre op­ portunità di lavoro all’interno del mercato locale, i capitalisti che usano grandi quantità di capitale fisso sono in pericolo. Anche l’introduzione di nuovi metodi o di nuove linee di prodotto o di fornitura mette a ri­ schio i sistemi produttivi esistenti e il capitale fisso impiegato. Questi problemi sono così seri che i capitalisti non intraprendono investimenti

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a lungo termine senza avere la sicurezza di una certa stabilità dei merca­ ti del lavoro, e senza essersi assicurati ima protezione contro un eccesso di innovazione speculativa. In tali condizioni, sembra indispensabile il controllo monopolistico di tecnologia e posizione, mezzo vitale per ga­ rantire le condizioni necessarie per investire a lungo termine. Anche in questo caso, però, entra in gioco la sostituibilità tra posizione e tecnolo­ gia. Le aziende molto competitive dal punto di vista tecnologico posso­ no assicurarsi spazi di monopolio su scala mondiale, mentre le aziende molto competitive sui mercati locali, come per esempio nell’edilizia, possono esser poco competitive nella tecnologia. Finiamo così per ave­ re una classificazione a quattro celle: modalità monopolistiche o con­ correnziali di cercare profitti supplementari dalla tecnologia o dalla po­ sizione. In pratica, è probabile che la maggior parte delle aziende fini­ sca più verso il centro che verso i margini di questa tabella. Quanto maggiore è il potere di monopolio, tanto più il paesaggio geografico della produzione capitalista tende verso uno stato relativa­ mente stabile. I ritmi di mutamento tecnologico e posizionale si rallenta­ no anche oltre il punto richiesto per garantire l’adeguato ammortamen­ to del capitale fisso. Il problema, naturalmente, è che questa stabilità è incompatibile con la prosecuzione deiraccumulazione del capitale. Può anche mettere in pericolo la capacità dei capitalisti di lottare con succes­ so contro il lavoro. Di qui possono dunque venire situazioni di stagna­ zione e successivamente di crisi. Una rottura improvvisa con l’assetto tecnologico o con la configurazione spaziale esistenti comporta spesso massicce svalutazioni del capitale preesistente e la rottura di forti privi­ legi monopolistici, compresi quelli costruiti dalle organizzazioni dei la­ voratori. La crisi “libera” il capitale dalla stagnazione delle sue catene quasi monopolistiche e consente di sviluppare nuove tecnologie e di creare nuove configurazioni spaziali. Essa produce nuovi modelli di re­ lazioni con il lavoro, e nuovi rapporti sociali nella produzione. Le sosti­ tuibilità tra tecnologia e posizione vengono completamente ridefinite ed emergono nuove divisioni del lavoro, a livello interurbano, interregiona­ le, internazionale, in cui poi si creano nuovi monopoli. Il paesaggio geo­ grafico e tecnologico del capitalismo è quindi in bilico tra una calma stabile ma stagnante e incompatibile con l’accumulazione e rovinosi processi di svalutazione e “distruzione creativa”. Quando consideriamo questi processi dal punto di vista della divi­ sione sociale, spaziale e tecnologica del lavoro, vediamo un’altra serie di vincoli. La complementarietà di molti flussi produttivi e il carattere “trasversale” delle tecniche produttive rende difficile che certe imprese possano cambiare tecnica o posizione senza che vi siano mosse parallele da parte deUe altre. Nelle aree in cui è possibile una vasta gamma di so­

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stituzioni, di input o di mercati, la concentrazione dà luogo a forti eco­ nomie di scala. L’effetto è che le possibilità di innovazione per le impre­ se competitive tendono a limitarsi a luoghi ben precisi: di qui il signifi­ cato delle grandi aree metropolitane (Chinitz 1958). Solo nei settori re­ lativamente monopolistici l’innovazione si può disperdere, come nel caso dei laboratori di ricerca e sviluppo situati in campagna. Analoghi vincoli sono posti allo spostamento di posizione: non è facile fare in modo che fornitori e canali commerciali seguano lo spostamento. Solo quando le imprese hanno un potere di monopolio sufficiente esse pos­ sono portare con sé fornitori e canali commerciali, o anche risparmiare sui costi di trasporto in modo tale che la posizione non abbia più im­ portanza. La dinamica che ho presentato per il caso delle singole impre­ se competitive è quindi modificata dalle circostanze di complementa­ rietà nel quadro di una divisione spaziale generale del lavoro. Il comportamento dei capitalisti rispetto ai mercati del lavoro urba­ ni spazialmente definiti è quindi ambiguo. Da una parte, la spinta a ot­ tenere vantaggi monopolistici che E mettano al di sopra della concor­ renza, insieme con le economie di concentrazione proprie della divi­ sione spaziale del lavoro, può indurre le imprese a cercare di ottenere e di conservare i vantaggi particolari derivanti dall’accesso esclusivo a un’offerta di lavoro, di quantità e qualità determinate. Esse possono intervenire attivamente per conservare le qualità del lavoro, o giungere a compromessi con le rivendicazioni degli operai in cambio della loro cooperazione, e anche impegnare parte delle loro risorse nel migliora­ mento delle qualità del lavoro: sempre, naturalmente, facendo atten­ zione a quelle ritenute più utili dal loro punto di vista. Dall’altra parte la concorrenza, spaziale o tecnologica, può spingere le imprese a pas­ sare a marce forzate da un mercato del lavoro all’altro, senza particola­ re riguardo alle conseguenze del saccheggio quantitativo e qualitativo della forza-lavoro. A questo punto esse sono però costrette ad affron­ tare i costi della distruzione creativa sulla forza-lavoro e delle sue con­ seguenze: l’esplosione del malcontento dei lavoratori e la minaccia di un forte conflitto di classe. Riassumendo: la ricerca di profitti supplementari basati su vantaggi tecnologici e posizionali è limitata dagli elementi di monopolio presenti in entrambi. La sostituibilità tra tecnologia e posizione è un fattore atti­ vo nella formazione del paesaggio geografico della produzione e lo di­ venta sempre di più, nella misura in cui entrambe rendono possibili vantaggi monopolistici all’interno della divisione spaziale e tecnologica del lavoro. Il processo di accumulazione esige in ogni caso che i mono­ poli siano distrutti. E questo si può fare solo con processi di distruzione creativa, il che implica la svalutazione di capitale e forza-lavoro. Il pae­

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saggio della produzione capitalista oscilla quindi tra la stagnazione sta­ bilizzatrice dei controlli monopolistici e il dinamismo distruttivo della crescita competitiva.

3. La tendenza alla “coerenza strutturata” nell’economia delle regioni urbane

Nelle condizioni che abbiamo descritto, il rapporto di classe tra capita­ le e lavoro tende a produrre una “coerenza strutturata” nell’economia di una regione urbana. Al centro di questa coerenza sta un determinato assetto tecnologico, che comprende non solo le macchine ma anche le forme organizzative, e un quadro dominante di rapporti sociali. Insie­ me, essi definiscono i modelli di consumo e i processi lavorativi. La coe­ renza riguarda il tenore di vita, le abitudini, il grado di benessere, la percezione del lavoro come più o meno soddisfacente, le gerarchie so­ ciali presenti nel luogo di lavoro e nei sistemi di status della sfera consu­ mo, e una serie di atteggiamenti sociologici e psicologici verso il lavoro, la vita, il divertimento, il tempo libero e così via. Vedremo oltre come questa coerenza generi anche una determinata politica urbana. Ma co­ me si produce questa tendenza alla coerenza strutturata? I lavoratori, abbiamo visto, sono liberi di sostituire giornalmente le opportunità di lavoro in un ambito di pendolarità socialmente dato, nei limiti posti dalle loro competenze e dal grado di concorrenza, dalla seg­ mentazione e dai livelli di domanda. I tassi salariali e le condizioni di la­ voro in un settore di un mercato del lavoro urbano devono quindi equi­ librarsi in maniera più precisa di quanto accada tra mercati diversi. Per riprodurre il lavoro su scala giornaliera, i lavoratori devono anche spen­ dere buona parte dei loro guadagni in beni e servizi disponibili in un analogo ambito di pendolarità socialmente dato. Al suo interno essi so­ no Uberi di essere clienti di questo o di quel negozio, di acquistare que­ sto o quel servizio, di fare un’offerta per questa o quella casa, e richie­ dere questo o quel servizio sociale. Così trasformano il salario in stili di vita e modelli di consumo ben determinati, nel quadro di ima serie di spazi di mercato, dei beni e del lavoro, geograficamente definiti. Per de­ terminate persone o famiglie, i due mercati possono non avere la stessa estensione: chi sta ai confini di un’area può lavorare in un mercato e fa­ re i suoi acquisti in un altro. In genere, però, si tende alla definizione di aree urbane che uniscono opportunità di lavoro e di consumo. In realtà, la struttura delle competenze e dello status dei lavoratori e le di­ verse segmentazioni del mercato del lavoro impediscono l’eguaglianza dei livelli salariali, delle condizioni lavorative, del tenore di vita o del­

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l’assistenza sociale all’interno di una regione urbana. Dal lato del con­ sumo discriminazioni altrettanto forti possono essere create da ostacoli all’eguaglianza del tenore e degli stili di vita: è il caso delle discrimina­ zioni razziali, di genere o religiose nel mercato degli alloggi o nell’assi­ stenza sociale. A ogni modo, è possibile considerare l’unità di fondo di opportunità di lavoro e di consumo come la norma attorno alla quale si dispongono queste deviazioni. Tale norma stabilisce, per esempio, lo standard su cui misurare il senso di deprivazione relativa. Il quadro cui si giunge è quindi il seguente: vi è uno scambio quoti­ diano di forza-lavoro, associato a una sua riproduzione quotidiana, ed entrambi sono situati dentro i confini di un ambito di pendolarità possi­ bile. Da un punto di vista puramente tecnico, questa definizione consi­ dera il lavoro come un’appendice della circolazione del capitale dentro alla regione urbana. I redditi salariali escono dalla produzione solo per farvi ritorno sotto forma di lavoratori nutriti, alloggiati, riposati e pronti a lavorare. Questa immagine da “spaccio aziendale” non deve però fare pensare che l’operaio sia privo di potere. Certo l’esercizio del suo potere è limitato, finché non si giunge a una rivoluzione. Ma le lotte collettive interne a questo rapporto molte volte determinano i dettagli della coe­ renza strutturale raggiunta. Questo vale sia per la fornitura di servizi pubblici (di qui il significato della politica locale), sia per le lotte sui li­ velli salariali locali, sulle condizioni di lavoro, sulla natura, il prezzo, la qualità di beni e servizi disponibili al consumo. Nel quadro che ho defi­ nito, dunque, i lavoratori hanno l’opportunità di migliorare la propria qualificazione professionale, di costruire organizzazioni di classe per aiu­ tarsi reciprocamente (associazioni di risparmio, mutue operaie), e di co­ struirsi una base di potere politico. Anche i datori di lavoro sono coin­ volti nella stessa relazione: i loro profitti dipendono dallo scambio quoti­ diano di forza-lavoro proprio come i lavoratori dipendono da loro per il proprio sostentamento quotidiano. La proprietà e il controllo dei mezzi, dei meccanismi e delle forme della produzione danno ai capitalisti un vantaggio notevole nella lotta di classe, ma essi non possono mai soppri­ mere la relazione di dipendenza che, in prima istanza, è articolata nei mercati del lavoro quotidiani. Pensiamo agli aspetti fondamentali del conflitto tra capitale e lavoro nei confini di una regione urbana. La tecnologia offre ai capitalisti un mezzo di controllo vitale, che media la produzione di surplus di lavoro, i livelli e la distribuzione dei salari, le mansioni e le gerarchie interne ai luoghi di lavoro. I conflitti attorno allo sviluppo di nuove tecnologie so­ no fondamentali per il tipo di coerenza strutturata proprio di una regio­ ne urbana. Le lotte dei capitalisti o dei lavoratori per sostenere e au­ mentare quantità e qualità del lavoro sono pure importanti, dato che

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definiscono la gamma delle possibilità tecnologiche. Cooperazione, cooptazione e consenso sono anch’essi parte della lotta di classe. Han­ no il vantaggio, sia per i capitalisti che per i lavoratori, di garantire una certa stabilità e sicurezza tanto al lavoro quanto al tenore di vita, anche se sempre sotto il dominio del capitale. La cooperazione di classe ha un ruolo fondamentale nel dare una coerenza strutturata relativamente sta­ bile alla produzione e al consumo di una regione urbana. I capitalisti, comunque, possono scegliere di comprare e vendere merci su base giornaliera dentro o fuori dalla regione urbana, a seconda della natura del bene, dei costi di trasporto, della domanda effettiva, dei prezzi relativi e così via. La produzione di merci e servizi in una re­ gione urbana si divide schematicamente, come la teoria della base eco­ nomica sostiene da tempo, in beni e servizi prodotti e consumati local­ mente, e un commercio di '‘esportazione” controbilanciato dalle “im­ portazioni” di beni e servizi da altre aree. Il volume e le qualità specifiche del mercato interno sono parametri molto importanti per buona parte del capitale che vi opera. La domanda effettiva espressa da questo mercato dipende dai salari pagati, dai nuovi investimenti effet­ tuati, e dai redditi erogati (rendite, interessi, tasse, profitti). I rapporti distributivi hanno quindi un effetto sul tipo di coerenza strutturata cui si giunge: per esempio, il rapporto tra beni di lusso e beni-salario, o tra il consumo finale e i nuovi investimenti. I conflitti attorno alla distribu­ zione e alle forme di consumo si diffondono in modo ineguale da una regione urbana all’altra e quindi contribuiscono a loro volta all’unicità di ciascuna (cfr. Katznelson 1981). Pensiamo ora alle complessità che sorgono dalla concorrenza spa­ ziale e dalle complementarietà tra diverse regioni urbane nel quadro della divisione geografica del lavoro. Bassi costi salariali in una deter­ minata industria possono migliorare la competitività sia sugli altri mer­ cati che sul mercato interno. Bassi salari, però, significano una minore domanda effettiva locale, il che può ridurre le economie di scala per la produzione localmente orientata e quindi indebolire la competitività nella divisione geografica del lavoro. Uso questo esempio per chiarire l’idea che alti costi salariali non sempre diminuiscono la competitività: a volte la possono aumentare, a seconda del settore. Processi di questo tipo sottolineano la specificità della posizione di ogni regione urbana, nella sua coerenza strutturata, in rapporto alla sua posizione nella divi­ sione geografica deb lavoro. Il principio che sembra em ergere è il se­ guente: i conflitti di classe sui livelli salariali, sulle condizioni di lavoro, sul consumo pubblico e privato, sulle relazioni distributive e così via che hanno luogo all’interno di una regione urbana si intersecano se­ condo percorsi estremamente specifici con l’equilibrio esportazioni-

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importazioni della regione nella divisione geografica del lavoro. La causalità è reciproca, e il sistema è, come vedremo, necessariamente fluido e dinamico. La tendenza verso la coerenza strutturata prende forma da questi rapporti reciproci. L’effetto complessivo è che vengo­ no enfatizzate l’unicità della posizione geografica e le qualità specifi­ che di ogni regione urbana. In questo quadro, vorrei esaminare più da vicino due questioni. Pensiamo, per prima cosa, a come l’assetto tecnologico di una regione urbana tenda a definire simultaneamente i processi produttivi e di con­ sumo. Tanto per cominciare, vi sono determinati settori, uno dei quali è rappresentato dai trasporti, in cui un’industria serve simultaneamente produzione e consumo, unendo in modo automatico la tecnologia uti­ lizzata da entrambi. In altri casi, la spinta a servire sia i mercati dei pro­ duttori che quelli dei consumatori viene dalla ricerca di economie di scala: questo è il caso dell’elettronica. Poi vi sono altre forze unificanti, meno tangibili ma non meno importanti. I progettisti e i lavoratori che sul luogo di lavoro sono diventati pratici di una tecnologia, dei suoi scopi e della sua manutenzione, possono rapidamente riadattarla per utilizzarla nello spazio in cui vivono. È vera anche la relazione contra­ ria. Le capacità che i bambini apprendono nel gioco formano la base di quelle che potranno usare al lavoro: i giochi elettronici sono un impor­ tante strumento educativo. La spinta all’innovazione può incominciare a casa tanto quanto sul lavoro: è il caso della domanda di apparecchi che risparmiano lavoro domestico, o dei giochi innovativi, e così via. Le motivazioni e le logiche dello sviluppo sono comunque molto diversifi­ cate. La concorrenza, la lotta di classe e le esigenze di coordinamento della produzione spingono i capitalisti all’innovazione anche di fronte all’ostacolo rappresentato dall’ammortamento degli investimenti passa­ ti. Nella sfera del consumo, viene prodotta obsolescenza prematura e pianificata per mezzo della mobilitazione della moda, dello stile, della ricerca di status, dell’individualismo possessivo, o anche da appelli al progresso sociale. L’effetto è comunque quello di accentuare il paralle­ lismo nell’evoluzione delle tecnologie di produzione e consumo della regione urbana. Una netta separazione tra le tecnologie delle due sfere si trova solo nell’economia delle “nicchie di esportazione”, cioè di alcu­ ne città del Terzo Mondo. Per quanto riguarda le economie urbane delle società a capitalismo avanzato, la tendenza è lo sviluppo di legami potenti e significativi tra le tecnologie relative alle due sfere. In effetti si può avanzare una tesi: più forte è il legame, più dinamica sarà l’econo­ mia urbana. Pensiamo poi ai legami tra i rapporti sociali del luogo di lavoro e quelli dello spazio vitale. Anche in questo caso la tendenza alla coeren-

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za strutturata si basa su evoluzioni parallele, sebbene anche qui si diano circostanze e motivazioni molto diverse. Rapporti patriarcali in fami­ glia, per esempio, possono essere completamente soppiantati nell’orga­ nizzazione dei rapporti sociali sul lavoro. Al tempo stesso; cambiamenti sul lavoro, a loro volta determinati da trasformazioni tecnologiche e della domanda di lavoro, come per esempio l’esigenza di mobilitare le donne nell’esercito industriale di riserva, hanno effetti sui rapporti so­ ciali in famiglia (cfr. Il capitale, libro I, pag. 529). I legami familiari e pa­ rentali, le relazioni di genere e di età si adattano alle nuove forme di or­ ganizzazione industriale (cfr. Hareven 1982), mentre i datori di lavoro sono costretti, volenti o nolenti, a usare questi rapporti familiari e pa­ rentali come strumenti di controllo e di cooptazione. Tali caratteristi­ che della forza-lavoro si evolvono insieme, nell’esperienza quotidiana di vita e di lavoro. Io parlo solo di una tendenza alla coerenza strutturata, perché que­ sta si dà in mezzo a un insieme di forze che tendono a indebolirla e a di­ struggerla. La concorrenza nell’evoluzione tecnologica, l’innovazione di prodotto e l’organizzazione sociale della produzione; i conflitti di classe nella distribuzione; i rapporti sociali di produzione e distribuzione; lo spostarsi delle relazioni spaziali, e la spinta all’accelerazione dei tempi di rotazione: tutto questo dà luogo a continui sbilanciamenti. All’equili­ brio si giunge solo per caso, e momentaneamente. Dato che il capitali­ smo contiene forti contraddizioni, come quella tra crescita e progresso tecnologico, o quella tra sviluppo delle forze produttive e rapporti so­ ciali di produzione prevalenti, l’economia di ogni regione urbana è sempre aperta alle crisi. La sovraccumulazione e la svalutazione sono minacce perpetue che devono essere controllate. Le risposte potenziali a questa minaccia sono molto diverse, e porta­ no l’economia urbana su strade dissimili. In primo luogo, aumentare le tendenze monopolistiche fornisce un modo di controllare le dinamiche di squilibrio. Abbiamo già visto che i monopoli privati, spaziali e tecno­ logici, sono una soluzione efficace alla competizione eccessiva e distrut­ tiva, e abbiamo anche sostenuto che la spinta al monopolio nell’ambito di un’economia urbana è il primo livello in cui si può avere un monopo­ lio di tipo spaziale. Ora ci troviamo di fronte a una versione collettiva di questa soluzione. Gli interessi al mantenimento dello status quo coope­ rano attivamente per fermare le forze distruttive. Nel fare questo essi cercano di rinforzare, e forse anche di istituzionalizzare, la specifica coerenza strutturale già ottenuta nell’economia della regione urbana. Seguire questa strategia presenta però due svantaggi: conduce alla sta­ gnazione interna e alla perdita esterna di competitività nella geografia dell’accumulazione.

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La seconda strada cerca di risolvere le contraddizioni per mezzo di spostamenti spaziali e temporali (cfr. Harvey 1982; 1985). I surplus di capitale e di lavoro vengono assorbiti mediante strategie di crescita a lungo termine, di solito attraverso il finanziamento col debito di investi­ menti a lungo termine, che sospingono la crisi nel futuro; e mediante strategie di espansione geografica, cioè di esportazione di capitale-dena­ ro, aumento delle esportazioni di beni e servizi verso altre regioni, e co­ se simili. Anche quando una determinata economia urbana si è evoluta, magari grazie ai monopoli, verso un punto di forte coerenza strutturata, influenze esterne di questo tipo minacciano sempre di distruggerla. Ritorneremo più avanti sugli aspetti geopolitici di questi processi. Per il momento voglio solo sottolineare la forza della tendenza alla coe­ renza strutturata in un’economia urbana, e che sono gli stessi processi che spingono in questo senso a distruggere quello che hanno prodotto. Così le contraddizioni interne al capitalismo riposano all’interno dell’e­ conomia delle regioni urbane.

4. Infrastrutture fisiche e sociali La riproduzione del capitale e della forza-lavoro richiede una serie di infrastrutture fisiche e sociali. Queste consolidano e rinforzano la ten­ denza del mercato del lavoro urbano alla coerenza strutturata. Alcune di queste infrastrutture sono situate nella terra stessa, come ambiente costruito composto da strade, ponti, fogne, case, scuole, fab­ briche, centri commerciali, strutture sanitarie e così via. Tutte si presen­ tano come un insieme complesso e spazialmente specifico di risorse create dall’uomo per agevolare la produzione (capitale fisso) e il consu­ mo (fondo di consumo). Spesso esse assorbono notevoli quantità di in­ vestimenti di capitale a lungo termine e geograficamente immobili, e ri­ chiedono durante la loro esistenza capitale ulteriore per compensare l’usura e per le esigenze di manutenzione. L’invecchiamento dello stock di capitale non ha alcuna sistematicità. Di solito esso dev’essere gra­ dualmente rinnovato, e in questo processo i rapporti interni alla confi­ gurazione spaziale della combinazione complessiva delle risorse vinco­ lano quanto può accadere alle parti a causa dell’esigenza di conservare l’armonia del tutto. Lo stock di capitale fisso e di risorse relative al fon­ do di consumo fornisce, comunque, una solida forma di ricchezza che può essere utilizzata per produrre e consumare ricchezza ulteriore. La regione urbana acquista dunque un altro significato: può essere definita come una particolare configurazione spaziale di ambiente costruito per la produzione, il consumo e lo scambio.

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Altrove ho esaminato le condizioni generali per la produzione di questo genere di risorse, e le tensioni che si verificano tra tali condizioni e le dinamiche generali di accumulazione (Harvey 1982). Qui mi limi­ terò a ribadire i punti generali necessari a sviluppare la mia tesi. In pri­ mo luogo, le risorse stesse rappresentano o incentivano una combina­ zione tecnologica dominante. Troviamo dunque un altro fattore che de­ termina la coerenza strutturata tra produzione e consumo. In secondo luogo, l’accesso privilegiato a un unico insieme di risorse nell’ambiente costruito è una potenziale fonte di profitto supplementare. I capitalisti hanno quindi un interesse diretto alla creazione e alla localizzazione di investimenti di questo tipo, sicché cercheranno una posizione vantag­ giosa. Ciò può condurre a una forte concorrenza nella richiesta di siti e posizioni specifici. In terzo luogo, per produrre l’ambiente costruito si deve ritirare capitale dal consumo e dalla produzione, e di solito questo avviene con il ricorso al finanziamento del debito. Le istituzioni statali e finanziarie sono quindi generalmente coinvolte nella produzione e nel mantenimento di tali investimenti. Si ha così un vantaggio ulteriore: la configurazione della combinazione complessiva delle risorse può essere pianificata in modo “razionale”, avendo presente l’armonia operativa complessiva. In quarto luogo, se le modalità di uso previste non si veri­ ficano, il capitale materializzato nell’ambiente costruito è esposto alla svalutazione. Detto altrimenti: se si vuole evitare la svalutazione, datori di lavoro e consumatori sono vincolati a determinate modalità d’uso e a precisi tipi di attività per tutta la durata degli investimenti. E sempre possibile cambiare la destinazione d’uso, naturalmente: tali strutture sono quindi in una certa misura flessibili. Infine, la protezione del valo­ re di queste risorse è un obiettivo vitale per coloro che detengono il de­ bito contratto per produrle, soprattutto per istituzioni finanziarie ed enti pubblici e privati. Proteggere il valore significa in questo caso spin­ gere gli utenti a limitarsi alle possibilità predefinite dalle risorse stesse. Da tutti questi punti di vista, ci sono forze potenti che agiscono per mantenere e istituzionalizzare la coerenza strutturata dell’economia della regione urbana. Le infrastrutture sociali non sono immobili e fisse nello spazio come gli ambienti costruiti. Nella misura in cui devono, per svolgere le pro­ prie funzioni, appoggiarsi ad ambienti costruiti determinati sono anch’esse spazialmente vincolate. Esse sono utilizzate per curare gli anzia­ ni; tenere pronta la riserva di lavoro in vista del suo impiego; implemen­ tare politiche attive per aumentare la qualificazione del lavoro e instillare disciplina e rispetto per la gerarchia; fornire al capitalista i ser­ vizi amministrativi, legali, tecnici e scientifici che sono per lui essenziali, e così via. L’area di mercato cui si rivolge ciascun servizio spesso non è

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ben definita, e in ogni caso la dimensione può variare: dai day hospital locali alle istituzioni culturali che servono grandi regioni. Le infrastrut­ ture sociali in ogni caso assorbono grandi quantità di capitale, e con il loro effetto aggregato contribuiscono a rinforzare la tendenza della re­ gione urbana alla coerenza strutturata. Inoltre, le istituzioni sociali che facilitano la vita, il lavoro e la circolazione del capitale non si creano da un giorno all’altro: esse richiedono un certo grado di stabilità, se devo­ no essere efficaci. Le istituzioni spesso hanno un campo d’intervento nazionale e regionale, anziché locale, ma localmente godono sempre di un certo livello di autonomia, per quanto centralizzato possa essere il potere finanziario o politico di cui sono espressione. Le infrastrutture sociali tendono a essere organizzate gerarchicamente, come i mercati del lavoro e delle merci, e la regione urbana costituisce solo un gradino della scala gerarchica. In una regione urbana, comunque, le istituzioni e le persone che gestiscono le infrastrutture sociali tendono a unirsi, a volte strettamente e a volte meno, ma raramente senza conflitti, in una matrice di risorse sociali interconnesse e interdipendenti, che offrono una combinazione specifica di possibilità sociali. Questa matrice deter­ mina in ogni loro aspetto le qualità della forza-lavoro, dalle competenze agli atteggiamenti verso il lavoro, e poi le condizioni dell’esercito indu­ striale di riserva e altri aspetti cruciali dell’offerta di forza-lavoro. Essa ha un significato analogo anche per la riproduzione del capitale: influi­ sce sulla produzione di conoscenza scientifica e tecnologica, sull’evolu­ zione delle capacità manageriali, finanziarie e imprenditoriali. Alcune infrastrutture sono pubbliche, altre, come l’istruzione, possono essere miste; altre ancora possono essere organizzate al di fuori del quadro di riferimento statale (la religione, per esempio). La riproduzione delle in­ frastrutture sociali è quindi aperta a una curiosa combinazione di pres­ sioni private e di classe, di convenzioni e tradizioni sociali, di processi politici contenuti in un apparato statale gerarchicamente organizzato. In queste condizioni, le differenze iniziali di cultura, religione, ere­ dità razziale, atteggiamenti sociali, coscienza di classe, possono essere ri­ prodotte e ingrandite per creare le basi della segmentazione del mercato del lavoro. Gli interessi borghesi possono frammentarsi in modo analo­ go in virtù, per esempio, della preponderanza di un gruppo religioso o etnico in determinati settori di attività economica. L’effetto è la produ­ zione di un’ulteriore frammentazione a livello di ideologia e di apparte­ nenza politica. Riunite insieme, queste caratteristiche conferiscono un aspetto del tutto particolare ai processi socio-economici e politici propri di ogni regione urbana. Le infrastrutture sociali sono a loro volta pro­ dotte, del resto, da una lunga storia di trasformazioni e di interazioni so­ ciali. Non sono completamente imposte dall’alto o date dall’esterno. Gli

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industriali locali possono appoggiare le istituzioni scientifiche o educati­ ve, sperando di attingere poi alle competenze tecnologiche e manageria­ li che vi sono prodotte, e l’accesso a questi centri, come Stanford o il MIT, può dare vantaggi competitivi. I conflitti sociali nella regione urba­ na possono a loro volta produrre un forte impegno locale nell’istruzione pubblica, cui anche i capitalisti possono aderire per i propri fini. L’effet­ to generale è il rafforzamento della tendenza alla coerenza nella struttura sociale ed economica della regione urbana. D’altra parte la coerenza raggiungibile ha i suoi limiti. Le infrastrut­ ture sociali assorbono grandi quantità di capitale e forza-lavoro e sono vincolate alla disponibilità di surplus di entrambi. Nella misura in cui esse vengono coinvolte nella circolazione del capitale, la loro capacità di aumentare la produttività locale di plusvalore diventa un fattore de­ terminante. In questo caso il problema è reso ancora più complesso perché i vantaggi degli investimenti locali possono diffondersi veloce­ mente e ampiamente. Sono frequenti le “fughe di cervelli”, cioè di lavo­ ro qualificato e di competenze imprenditoriali o manageriali che si spo­ stano da una città all’altra. Nuove tecnologie sviluppate in un luogo possono essere istantaneamente implementate in un altro. Anche le mo­ dalità di finanziamento possono implicare ogni tipo di redistribuzione di risorse da una regione urbana all’altra: attraverso la spesa pubblica, ma anche tramite trasferimenti privati, come nel caso delle donazioni di ex alunni alle scuole private. In queste condizioni, diventa molto diffici­ le stimare l’esposizione di una determinata località ai pericoli di sovrac­ cumulazione e svalutazione. Svalutare parte delle risorse che vi sono in­ corporate, per non dire delle capacità umane che essa contiene, è un la­ voro sporco e pericoloso. Come nel caso dell’ambiente costruito, è difficile intervenire su un solo aspetto. La svalutazione comporta la tra­ sformazione e a volte anche la distruzione di un intero sistema di ripro­ duzione comunitaria. Le infrastrutture sociali, che sono a loro volta il prodotto del conflitto e della storia, sono difficilmente trasformabili, se non per mezzo dello stesso tipo di distruzione creativa che può investi­ re gli ambienti costruiti. Un esame delle infrastrutture fisiche e sociali aiuterà ad ampliare il concetto di regione urbana. Si tratta di qualcosa di più di una serie di mercati di merci e del lavoro sovrapposti e interconnessi; qualcosa di più di una serie di processi lavorativi e di forze produttive che si intersecano; qualcosa di più, anche, di una semplice coerenza strutturata di produ­ zione e consumo. Si tratta di una comunità viva, dotata di particolari ri­ sorse fisiche e sociali, che sono esse stesse prodotto di un lungo processo di sviluppo storico e di lotta di classe. Queste risorse definiscono la ric­ chezza di una comunità, e la produttività della forza-lavoro può essere

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mantenuta e aumentata solo a condizione che esse siano curate, arricchi­ te, sviluppate. Lo stesso vale ovviamente per la riproduzione e l’espan­ sione del capitale. Il problema, naturalmente, è che questa ricchezza è prodotta e alimentata dalla circolazione del capitale, che è facilmente creatrice di crisi. La funzionalità delle infrastrutture fisiche e sociali è continuamente minacciata dai venti freddi della sovraccumulazione, del­ la svalutazione, del dissolvimento. Comunque, ora vediamo che quella urbana è una comunità in cui si svolgono processi di vita e di lavoro quotidiani, sullo sfondo di un qua­ dro apparentemente solido, stabile e relativamente permanente di infra­ strutture sociali e fisiche ben radicate nel paesaggio sociale e fisico del capitalismo. Questo significa che un modo di produzione e di consumo strutturato in classi non può funzionare senza che vi operi una qualche concezione geografica di comunità. La “comunità”, in ogni caso, non è definita come una qualche entità autonoma ma come una serie di pro­ cessi che creano un prodotto geografico, cioè qualcosa di reale e tangi­ bile. Così si arriva direttamente alla domanda: in che misura questo processo, messo in moto dall’azione degli uomini, viene poi dominato dal suo stesso prodotto? Detto in altri termini: le comunità sono un ostacolo all’accumulazione connessa con la struttura di classe? Ne deri­ vano importanti conseguenze politiche.

J. La formazione di alleanze di classe nelle regioni urbane La tendenza deE’economia delle regioni urbane alla coerenza struttu­ rata fornisce una base materiale alla formazione di alleanze di classe, il cui obiettivo è conservare o migliorare i modelli di produzione e di consumo dati, le combinazioni tecnologiche e i modelli sociali, i livelli dei profitti e dei salari, le qualità della forza-lavoro e le competenze imprenditoriali e manageriali, le infrastrutture sociali e fisiche, e le ca­ ratteristiche culturali della vita e del lavoro. L’alleanza di classe è sem­ pre instabile, per ragioni che spiegherò tra breve, e il suo ambito spa­ ziale è sempre sfocato e di solito frammentato all’interno (per esempio, centro contro zone suburbane). Essa può avere un atteggiamento di­ fensivo o aggressivo rispetto ad altre regioni urbane, ma la sua forza è molto importante nei momenti di crisi, quando sorgono conflitti ri­ guardo il tempo e il luogo in cui si debba verificare una svalutazione locale. Essa può anche allearsi con le forze politiche di altre regioni ur­ bane, e così costruire configurazioni di potere politico regionali o na­ zionali. L’alleanza di classe che si forma in una regione urbana è in ogni caso una potente forza creativa nel paesaggio del capitalismo.

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Prodotta dall’accumulazione di capitale e dalla lotta di classe dispiega­ tesi in uno spazio geografico, essa a sua volta influisce in modo decisi­ vo sulle loro dinamiche. Su queste alleanze di classe bisogna porsi tre domande. Primo: chi vi prende parte e perché? Secondo: come si formano e come si articola­ no politicamente i diversi interessi in gioco? Terzo: cosa le rende insta­ bili e vulnerabili? La risposta più breve alla prima domanda è: tutti, ma nessuno in par­ ticolare. Tutti gli attori economici occupano uno spazio, e hanno un de­ terminato interesse a controllare le attività che si svolgono nello spazio che li circonda. Se, come abbiamo detto, nell’economia urbana c’è una tendenza inevitabile alla nascita di una coerenza strutturata, ne segue che tutti hanno un qualche interesse a trovare strumenti politici per in­ fluenzare la forma che questa coerenza assume. Alcuni, però, hanno un interesse maggiore di altri. Sappiamo per esempio che il capitale investi­ to nell’ambiente costruito non può essere spostato senza venire distrut­ to. Il capitale che affluisce nelle infrastrutture sociali, anche se più flessi­ bile, è comunque difficile a muoversi senza effetti distruttivi su molte delle sue qualità essenziali. Sappiamo anche che, se dobbiamo conserva­ re il valore di questo grande investimento di capitale, la produzione e il consumo devono proseguire a certi ritmi e in un certo modo per un pe­ riodo relativamente lungo. I possessori di questo capitale, o dei titoli del debito pubblico o privato contratto per produrlo, hanno un interesse enorme a difendere le risorse e i modelli di produzione e di consumo che sostengono il loro investimento. La proprietà di queste risorse e del debito si può diffondere ampiamente nelle varie classi sociali, dagli ope­ rai proprietari di casa alle grandi istituzioni finanziarie che spesso pos­ siedono buona parte del debito pubblico e dei mutui contratti dai comu­ ni. Tutti vogliono che la regione urbana sia prosperosa e hanno ottimi motivi per partecipare a un’alleanza di classe che difenda i loro interessi. Alcune frazioni di capitale e lavoro sono però più inclini di altre agli in­ vestimenti immobiliari. I proprietari, compresa la frazione di classe ope­ raia che ha la casa in proprietà, le imprese immobiliari ed edilizie, l’am­ ministrazione locale, e i detentori del debito pubblico: tutti hanno molto da guadagnare dalla formazione di un’alleanza locale per proteggere i lo­ ro interessi e vigilare contro la minaccia di una svalutazione localizzata; meno da guadagnare, ovviamente, hanno i lavoratori di passaggio, i commercianti itineranti e le multinazionali in continuo movimento. D’altra parte, quantità e qualità delle infrastrutture fisiche e sociali determinano la posizione competitiva di una regione urbana nella divi­ sione internazionale del lavoro, i profitti d’impresa, il tenore di vita dei lavoratori, e una serie di altre caratteristiche della vita e del lavoro nella

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regione. Dietro alla produzione e all’utilizzo delle infrastrutture vi sono dunque interessi di classe più ampi di quelli immediati di coloro che ne detengono la proprietà. Le multinazionali le valutano con grande atten­ zione. I ricchi vagabondi non sono affatto indifferenti al loro luogo di soggiorno. Vi è quindi un’estesa coalizione di interessi che appoggia il principio (non necessariamente l’attuazione) dell’aumento degli investi­ menti nelle infrastrutture sociali e fisiche della regione urbana; posto, naturalmente, che l’investimento sia produttivo, dia profitti, e non favo­ risca o sfavorisca troppo una frazione di classe rispetto alle altre. Dato che le alleanze di classe in una regione urbana si formano sul tema della protezione e del miglioramento delle infrastrutture sociali e fisiche im­ mobili, tutte le classi e le frazioni trovano conveniente partecipare al gioco politico. L’interesse a formare alleanze di classe non si limita a questo. I pro­ duttori che non si possono spostare facilmente perché hanno investito in capitale fisso, o che hanno acquisito un certo grado di potere di mo­ nopolio in quanto dotati di accessi privilegiati a determinati mercati o input, comprese particolari qualità dell’offerta di lavoro, possono unirsi a una folla immensa di commercianti, professionisti, impiegati pubblici e privati che derivano le loro entrate dalla circolazione locale dei reddi­ ti: il fine di tutti è appoggiare e mantenere lo sviluppo dell’economia ur­ bana. Le frazioni di lavoro che, organizzandosi e lottando, sono riuscite a creare isole di relativo privilegio nel mare dello sfruttamento, si uni­ ranno a una simile alleanza se tra le sue istanze compare la protezione dell’occupazione e del tenore di vita raggiunto, e vedranno la partecipa­ zione attiva a essa come un buon mezzo per migliorare ulteriormente la propria posizione. Qui si vedono le basi per la nascita di una coalizione tra classi diverse, a difesa della riproduzione sociale sia dell’accumula­ zione che del lavoro all’interno della regione urbana. L’alleanza si im­ pegna nella produzione di consenso, e cerca di creare solidarietà nella comunità, sventolando le bandiere del progresso sociale e della difesa degli interessi locali. Attività di questo tipo, bisogna sottolinearlo, non sono deviazioni dalla lotta di classe, ma sono una determinata manife­ stazione necessaria del modo in cui i rapporti di classe e l’accumulazio­ ne si dispiegano nello spazio. D’altra parte queste alleanze sono costitutivamente instabili. Le di­ visioni interne e le pressioni esterne rendono difficile tenerle insieme di fronte a una dinamica sociale incessantemente sospinta in avanti dalla ricerca di profitto e di accumulazione di capitale, e di fronte alle varie linee di frattura di classe e al conflitto che queste portano in sé. Le divi­ sioni emergono subito, quando si tratta di pianificare il futuro. Interessi diversi spingono in direzioni differenti, e ciascuno sostiene che Finte-

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resse pubblico sta proprio nella sua direzione. Ci sono divisioni tra le frazioni della borghesia: tra interessi finanziari, commerciali, produttivi, immobiliari, fondiari, o tra i produttori locali e le organizzazioni multi­ nazionali; ci sono divisioni tra le frazioni della classe operaia: tra uomini e donne, tra operai qualificati e operai semplici, tra occupati e disoccu­ pati, tra i diversi segmenti. Dietro la formazione di alleanze di classe, quindi, è difficile scorgere un interesse di classe coerente. Ma c’è di peggio: gli individui occupano vari ruoli, e pertanto possono muoversi in direzioni diverse. I lavoratori possono anche essere proprietari di ca­ se, consumatori, genitori e investitori, e possono cercare di partecipare all’alleanza di classe in modo incoerente. E non è possibile che un’al­ leanza agisca in modo tale da non favorire o sfavorire una particolare frazione rispetto ad altre. Per prendere il caso più semplice: le decisioni sugli investimenti pubblici hanno impatti ineguali sulle varie classi, e contemporaneamente modificano la configurazione spaziale delle risor­ se e la loro accessibilità relativa. Le segmentazioni della popolazione at­ tiva manifestatesi come segregazioni spaziali si prestano a essere inde­ bolite o rinforzate a seconda delle decisioni che verranno prese. La con­ correnza tra lavoratori, produttori di beni e servizi, commercianti e simili, il conflitto per ottenere poteri di monopolio non scompaiono con la formazione di un’alleanza di classe. Si tratta, piuttosto, di forze distruttive permanenti che essa deve contenere. Buona parte dell’arte della politica urbana, come si vedrà tra breve, consiste nel trovare i mo­ di di bilanciare costi e vantaggi tra i gruppi d’interesse, contenendo la concorrenza e i poteri monopolistici in modo tale da conservare all’al­ leanza al potere il consenso della maggioranza. Vi sono due tipi di pressioni esterne sulla stabilità della coalizione. In primo luogo, tutti gli agenti economici possono scegliere se rimanere dove sono, e cercare di migliorare la situazione locale, o andarsene al­ trove, dove i profitti, i livelli salariali, le condizioni di lavoro, gli stili di vita, la qualità dell’ambiente, le speranze per il futuro e così via sembra­ no migliori. Questa tensione è comune a tutti, ma l’equilibrio che essa determina non è lo stesso per tutti. Le diverse classi e frazioni di classe hanno differenti possibilità di mobilità geografica, a seconda dei privi­ legi di cui dispongono, delle risorse che possiedono, dei vincoli intangi­ bili che tendono a mantenerle là dove sono. Un uomo solo con un sacco d’oro, o con titoli di credito, ha normalmente più possibilità di scelta di quante non ne abbiano il padrone di un’acciaieria o una donna sposata con una famiglia numerosa e con legami di parentela impegnativi. In un’alleanza alcuni membri sono migliori di altri semplicemente perché hanno meno possibilità di spostarsi altrove. A volte però l’apparenza in­ ganna. Banchieri e finanzieri detengono la risorsa più mobile di tutte, il

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denaro, ma spesso sono saldamente legati a una particolare regione ur­ bana perché detengono parte del suo debito pubblico: questo è stato il dilemma di molte delle banche internazionali di New York durante la crisi fiscale della città nel 1974-1975. Le multinazionali sembrano in grado di dislocare rapidamente la produzione, ma a volte dipendono da una combinazione così particolare di capitale fisso, qualificazione del lavoro locale e infrastrutture, che muoversi diventa molto difficile. Un lavoratore con forti legami di parentela può utilizzarli a fini di mobilità geografica, anziché per rimanere fermo dove si trova. Questi esempi mostrano che la decisione di appoggiare, abbandonare, costruire o di­ struggere un’alleanza di classe deve nascere dalla risoluzione di tensioni complesse e contraddittorie. Le istituzioni finanziarie, per esempio, se finanziano la suburbanizzazione o l’esportazione di capitali verso tassi d’interesse più elevati, possono mettere in crisi la qualità del debito che possiedono e il potere dell’alleanza di classe locale cui fanno riferimen­ to. I lavoratori possono far diminuire i posti di lavoro rivendicando sa­ lari più alti. Si potrebbero fare decine di esempi di effetti contraddittori e involontari di questo tipo. In secondo luogo, l’alleanza di classe può essere investita da forze distruttive provenienti dall’esterno. L’immigrazione di forza-lavoro a costi inferiori e dotata di qualità diverse, l’acquisizione della produzio­ ne e del commercio al dettaglio locali da parte di capitale esterno, l’im­ portazione di merci che prima venivano prodotte localmente, l’afflusso di capitale monetario e la redistribuzione dei redditi alterano l’equili­ brio di potere tra i partecipanti all’alleanza. L’importazione può essere organizzata da ciascuna frazione con una motivazione specifica: i datori di lavoro incentivano l’immigrazione di forza-lavoro più a buon merca­ to; i commercianti incentivano l’importazione di merci più economiche di quelle prodotte localmente, e così via. La capacità di mobilitare rela­ zioni e opportunità all’esterno rappresenta un forte vantaggio nei nego­ ziati interni all’alleanza. La classe o frazione che più è in grado di otte­ nere appoggi dall’esterno ha un vantaggio notevole sugli altri gruppi: per esempio i sindacati che possono disporre di fondi per appoggiare uno sciopero, o i capitalisti che possono contare su un intervento per domare il disordine. Di contro, i gruppi in grado di minacciare di tra­ sferirsi altrove nel caso in cui non vengano soddisfatte le loro richieste sono in una posizione migliore di coloro che non possono avanzare questa minaccia. Le medesime forze che ostacolano la tendenza di un’economia ur­ bana alla coerenza strutturata rendono instabili e insicure le alleanze di classe. Ma c’è un’altra dimensione da aggiungere a tutte queste, che ora dobbiamo considerare più attentamente. Si tratta degli strumenti politi­

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ci disponibili per definire, articolare e perseguire gli obiettivi di un’al­ leanza di classe, e dell’arte politica di trasformare gli impulsi conflittua­ li e contraddittori che stanno dietro la formazione dell’alleanza stessa in capacità di prendere il potere e di governare. 6. La politica urbana e la ricerca di una coalizione di classe dominante

La confusione e l’instabilità in cui si formano le alleanze di classe crea­ no lo spazio per una politica urbana relativamente autonoma. La confu­ sione di ruoli, orientamenti e interessi di individui, gruppi, frazioni e classi, e gli sconvolgimenti prodotti dall’accumulazione del capitale (crescita, mutamento tecnologico, conflitto di classe, crisi di sovraccu­ mulazione) mantengono i rapporti sociali in uno stato permanentemen­ te fluido, e spesso li immergono completamente nelle tensioni del muta­ mento sociale. Questo è lo spazio dell’arte politica. Il politico geniale è capace di creare una coalizione di interessi relativamente stabile e po­ tente, in modo da unire la comunità locale e di diffondere il consenso. La situazione è così aperta che dallo sfruttamento delle sue possibilità può nascere un vero e proprio ceto politico. Engels scrive che «da nes­ suna parte i “politici” formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell’America del Nord Proprio in America pos­ siamo vedere nel miglior modo come si compia questa separazione e contrapposizione del potere dello stato alla società» (Marx 1970, pag. 20). In questo spazio si può anche inserire un’intera classe di «impren­ ditori urbani» come una fonte apparentemente indipendente di potere sociale (Saunders 1986, pagg. 118-136). Sia i politici che gli imprendito­ ri urbani - e spesso sembra difficile distinguerli da questo punto di vi­ sta - giocano alla coalizione in modo tale da costruire una classe di go­ verno che si presenta quale simbolo della comunità e che si appropria dei mezzi necessari, sia tradizionali e simbolici che giuridici, finanziari e tecnici per legittimare la propria autorità e il proprio potere. Di solito essa parlerà “nell’interesse di tutti”, e tramite concessioni, cooptazione, scambio politico e repressione avrà modo di ottenere l’autorità e il con­ senso di massa sufficienti per bloccare l’opposizione che inevitabilmen­ te si svilupperà di fronte alla sua azione. Il governo locale è, naturalmente, uno strumento politico fondamen­ tale: è attorno a esso che una coalizione dominante tende a forgiare la propria identità e le proprie modalità di azione nel contesto della regio­ ne urbana. Non ritengo, però, che sia l’unico, né che sia il più importan­ te. I processi politici operanti nella società civile sono molto più ampi e

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profondi di quanto non sia la sfera di intervento del governo locale. An­ zi, vi sono diversi elementi che rendono il governo poco adatto al compi­ to di dar vita a una coalizione. I confini amministrativi non necessaria­ mente coincidono con le zone fluide in cui si articolano i mercati urbani del lavoro e delle merci, e in cui si formano le infrastrutture; e l’adatta­ mento dei confini stessi, tramite annessioni, riorganizzazioni ammini­ strative, o cooperazione a livello intercomunale, è un’operazione com­ plessa, anche se spesso produce effetti rilevanti sul lungo periodo. Le amministrazioni locali spesso dividono invece di unire una regione urba­ na, e quindi ne esaltano le segmentazioni, come quella tra centro e zone suburbane, anziché la tendenza alla coerenza strutturata e alla creazione di alleanze di classe. Per forgiare una coalizione di classe dominante si devono trovare altri mezzi, ai livelli superiori dello stato o all’interno del­ la società civile: per esempio reti informali di interessi economici e finan­ ziari. Da una parte, Robert Moses ha ristrutturato New York senza al­ cun mandato popolare, usando poteri statali e federali, con l’appoggio di una forte rete di interessi finanziari, commerciali, edilizi, sindacati compresi, e immobiliari, e in questo modo è riuscito a dominare un ap­ parato amministrativo locale altrimenti frammentato e diviso. Dall’altra parte, il sindaco Schaefer usa il municipio di Baltimora come base per raggiungere la società civile, e per costruire una coalizione di interessi pubblici e privati capace di dominare l’intera regione urbana. Si può concludere che l’elemento che fornisce la matrice di possibilità necessa­ ria per creare una coalizione dominante sta proprio nell’interpenetrazio­ ne di rapporti di classe, di gruppo e individuali all’interno dello stato e della società civile, e nella rete di relazioni che si stabilisce tra i due. Poiché tutti gli attori economici hanno interesse a far parte di una coalizione dominante, la sua composizione è più facilmente aperta che predeterminata ed è dunque oggetto di negoziati che possono dare esiti diversificati. Le alleanze sono suscettibili di cambiamenti a seconda del problema in questione: per esempio, il capitale e il lavoro possono tro­ varsi d’accordo sull’esigenza di creare nuovi posti di lavoro, ma non su quella di regolare le condizioni di lavoro; e coalizioni diverse definisco­ no obiettivi differenti e a volte tra loro in contrasto. Certe coalizioni so­ no per la crescita, e altre contro, e componenti del capitale e del lavoro possono trovarsi da entrambe le parti. La politica può seguire molte strade diverse. Da un lato, ci sono i movimenti rivoluzionari a base ur­ bana, come quello della Comune di Parigi, e la forte tradizione del “so­ cialismo municipale”: Milwaukee all’inizio del secolo, Vienna negli anni venti, e oggi Bologna, il Greater London Council e Santa Monica, che si mantengono grazie al controllo elettorale dell’apparato amministrativo locale. Dall’altro, ci sono le coalizioni per la crescita apparentemente

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onnipotenti che si sono sviluppate in tante città americane dopo il 1945, in alcuni casi utilizzando l’amministrazione locale e in altri aggirandola, come nel caso di Robert Moses (Molotch 1976; Mollenkopf 1983). In mezzo stanno ibridi di ogni tipo, dalla politica conflittuale descritta da Katznelson (1981) in City Trenches alle macchine politiche solide ma autoritarie di Boss Tweed a New York, del sindaco Daley a Chicago, del sindaco Schaefer a Baltimora. Ogni strategia politica dipende dalla for­ mazione di una particolare coalizione di interessi, e a modo suo ognuna è unica. Inoltre, ogni coalizione dispone di strumenti e di risorse diversi, che determinano ciò che può e che non può fare: il controllo dell’appa­ rato amministrativo, del bilancio locale, dei vincoli sull’uso dei terreni conferiscono un potere molto diverso da quello derivante dal controllo dei canali di investimento finanziario. Di qui le tensioni che possono da­ re luogo a conflitti e far cadere una coalizione dominante. Quando il sindaco Kucinich cercò di mettere l’amministrazione locale di Cleve­ land contro la comunità bancaria, perse e venne sostituito da una nuova coalizione in cui banchieri e municipalità collaboravano. L’impatto della coalizione dominante sui ritmi della crescita, dell’in­ novazione, del mutamento e della riproduzione sociali può essere molto forte, e avere conseguenze assai rilevanti. Non solo essa è in grado di esercitare un controllo diretto sulla creazione di infrastrutture fisiche e sociali, e per mezzo di queste influenzare le fondamentali caratteristiche economiche e sociali della regione urbana, ma può anche prendere l’ini­ ziativa di attirare o allontanare posti di lavoro, individui di varie classi e gruppi, e attività produttive, commerciali, finanziarie, immobiliari, cul­ turali e politiche. Può sforzarsi di creare un “clima economico” adegua­ to, produrre nuovi ambienti di vita, incoraggiare nuovi costumi, agevo­ lare e attirare nuove forme di sviluppo. Può essere innovativa o conser­ vatrice, passiva o aggressiva nella sua battaglia per raggiungere obiettivi sociali ed economici. La sua influenza può estendersi alla struttura dei rapporti sociali e rinnovarli: può venire meno un certo tipo di segmenta­ zione, tra le razze e i sessi per esempio, ed essere accentuato un altro ti­ po di discriminazione: per esempio una frazione di classe operaia privi­ legiata e politicamente consapevole si separa dal resto della classe con l’acquisizione di determinati privilegi tramite l’inclusione in un’alleanza di governo. Da tutti questi punti di vista, l’evoluzione politico-economi­ ca di una regione urbana si presenta come un processo relativamente autonomo, unico e peculiare. Il fermento multidimensionale e le caratteristiche specifiche di questi processi politici interni alle regioni urbane, la nascita di coalizioni domi­ nanti formate da individui, gruppi e frazioni di classe differenti, la parti­ colarità delle direzioni che esse possono prendere, la potente mobilita­

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zione dello spirito di una comunità geografica localizzata: tutti questi elementi sembrano a prima vista molto poco compatibili con la defini­ zione del modo di produzione e di consumo capitalista. Ma c’è un aspet­ to profondo, per cui tali caratteristiche non solo sono compatibili ma in­ dispensabili ai processi e alle contraddizioni del capitalismo, nella misu­ ra in cui questi agiscono nello spazio geografico. E importante vedere come e perché. Ogni alleanza di classe dominante deve adattarsi alla logica di fondo della circolazione e dell’accumulazione del capitale, se vuole rimanere all’interno del sistema capitalista e riprodurre con successo le sue stesse condizioni di esistenza. Un’alleanza dominante di successo dev’essere, nello spirito e nell’azione, pro capitalista. Essere tale non vuol dire cer­ to svendersi alla classe capitalista locale: gruppi di questo tipo non agi­ scono necessariamente a favore dei propri interessi, non più di quanto non facciano gli individui, soprattutto nel caso in cui essi esercitino un qualche tipo di controllo monopolistico. Se consideriamo i problemi della concorrenza spaziale in un quadro di continua trasformazione del­ le relazioni geografiche, diventa chiaro che nessuna singola frase e nes­ suna singola azione possono definire cosa significhi essere pro capitali­ sta. Anche se i capitalisti dessero vita a una potente cospirazione, e a volte lo fanno, ci sono molte probabilità che non funzionerebbe. Questo è il tipo di situazione che fa disperare i marxisti, e gioire i lo­ ro avversari. È alla base di tutti i dibattiti sui vantaggi dell’analisi di clas­ se contro l’imprenditorialità urbana; sull’“autonomia relativa” dei pro­ cessi politici locali, sul «territorio come processo storicamente contin­ gente», come lo ha definito Pred (1973), contro una teoria generale dello sviluppo ineguale del capitalismo nello spazio geografico. Come possia­ mo tagliare il nodo gordiano di questi dibattiti così ingarbugliati?

7. La regione urbana come unità geopolitica nello sviluppo geografico ineguale del capitalismo Nel capitalismo, la vita quotidiana si riproduce grazie alla circolazione del capitale. Questo processo ha una sua particolare logica contradditto­ ria, comprende rapporti e conflitti di classe, dà luogo a continue rivolu­ zioni nelle forze produttive e nei modi di consumo, e richiede una gran­ de quantità di organizzazione e di infrastrutture per riprodursi. Sappia­ mo molto di questa logica contraddittoria (cfr. Harvey 1982). Il problema è mostrare come i fenomeni del processo urbano vi sono con­ tenuti. Ho detto ‘‘vi sono contenuti” anziché “ne dipendono” proprio perché credo che qualsiasi analisi della circolazione del capitale che non

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includa, tra le altre cose, una specificazione geografica sia incompleta. Ammetto quindi che vi sono aspetti della vita e della cultura urbane che sembrano rimanere al di fuori dell’effetto immediato della logica dell’ac­ cumulazione: ma nulla di significativo sta al di fuori del suo contesto e delle sue conseguenze. Il compito del teorico urbano è dunque di mo­ strare dove si collocano i punti di integrazione e come funzionano i rap­ porti interni. L’accumulazione del capitale, se considerata sin dall’inizio come processo geografico, tende a produrre determinate regioni urbane, al­ l’interno delle quali si ha una certa coerenza strutturata e in cui tendo­ no a formarsi determinate alleanze di classe. Se si considera l’instabi­ lità di questo processo, che comprende l’instabilità dello spazio geo­ grafico e della sua definizione, si vede che si apre lo spazio per processi politici apparentemente autonomi e per la formazione di coalizioni do­ minanti apparentemente uniche, che conducono ogni regione urbana su di un particolare percorso di sviluppo politico-economico. Ora de­ vo mostrare come e perché l’autonomia e l’unicità sono non solo com­ patibili, ma indispensabili alla logica dell’accumulazione nello spazio geografico. Una volta posta la domanda in questo modo, non è diffici­ le abbozzare una risposta. Lo farò considerando quattro punti fonda­ mentali. Pensiamo per prima cosa all’idea della «città come macchina per la crescita». Uso questa eloquente immagine di Molotch in parte perché ri­ flette l’imperativo capitalista che ordina «accumulazione per l’accumula­ zione, produzione per la produzione». Ma se la studiamo più a fondo sa­ remo condotti, oltre la semplice analogia, verso terreni teorici più fertili. L’accumulazione implica la conversione del surplus di capitale, combi­ nato con quello di mezzi di produzione e di forza-lavoro, in una nuova produzione di merci. Questa attività è essenzialmente speculativa. L’ac­ cumulazione richiede anche la produzione delle indispensabili precon­ dizioni della produzione stessa: da questo punto di vista sono essenziali le infrastrutture fisiche e sociali. La creazione di queste precondizioni per opera del capitale implica una speculazione duplice e composta. Gli investimenti speculativi antecedenti devono corrispondere ai requisiti della crescita speculativa successiva. Questi investimenti pregressi sono almeno in parte situati nella terra stessa come immobili e come capitale fisso di lunga durata. Per il singolo capitalista, ovviamente, la circostanza più conveniente è quella in cui egli si può interamente appropriare delle condizioni antecedenti, quando esse sono già date, come nel caso delle risorse frutto di un qualche modo di produzione passato, o dovendo fa­ re a proprie spese un investimento ridotto, come un collegamento ferro­ viario, qualche casa per gli operai, uno spaccio aziendale. Questo però

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non basta per un’accumulazione sostenuta. La politica deve quindi pre­ cedere l’economia. E a questo punto che entrano in gioco una coalizione dominante e la sua autonomia politica. Una coalizione dominante in effetti specula sul­ la produzione delle precondizioni per l’accumulazione; collettivizza i ri­ schi tramite il capitale finanziario e lo stato. Una «macchina per la cre­ scita» serve a tale scopo. Si tratta, come sottolinea Molotch, di una mac­ china per la crescita capitalista, in cui a dare il la sono determinati interessi dominanti: quelli del capitale bancario e finanziario, della pro­ prietà immobiliare e degli interessi edilizi, compresi gli operai e i loro sindacati, dei costruttori e degli esponenti più ambiziosi dell’apparato statale. Essi cercano di trarre profitto dalla produzione delle precondi­ zioni, profitto che dipende dalla profittabilità dell’accumulazione che le precondizioni aiutano a creare. La coalizione per la crescita usa il suo potere politico ed economico per spingere la regione urbana in una spi­ rale verso l’alto di accumulazione continua e sostenuta. Un simile pro­ cesso contiene al suo interno tensioni e conflitti, e non può durare per sempre, data la logica contraddittoria dell’accumulazione del capitale. Ritorneremo tra breve alle sue instabilità. In secondo luogo, pensiamo alle invenzioni e all’innovazione. La con­ correnza intercapitalista e la lotta di classe determinano rivoluzioni pe­ riodiche delle forze produttive. Queste condizioni cambiano a seconda della regione urbana specifica. Ma la ricerca di profitto supplementare genera anche l’innovazione per l’innovazione e i tentativi di opporsi a questa spinta tramite controlli di monopolio e spostamenti di posizione. Jane Jacobs (1969a; 1984) sostiene da tempo, per esempio, che il ruolo fondamentale delle città è produrre «lavoro nuovo», e che, in questo sen­ so, alcune sono più produttive di altre. Le città con strutture industriali e imprenditoriali caotiche rendono possibile l’incontro inatteso di nuove idee, di tecniche e di opportunità, da cui possono sorgere prodotti e me­ todi nuovi. Quelle in cui è ben radicato un potere di monopolio sono meno aperte e più inclini alla stagnazione. Questa tesi, in parte plausibile per il secolo scorso, lo è molto meno per l’epoca con temporanea. Se l’in­ novazione è diventata un settore industriale, come Marx aveva previsto, allora la creazione delle precondizioni per il suo sviluppo si fa sempre più importante. Queste possono essere prodotte molto più facilmente al­ l’interno delle grandi imprese multinazionali e statali piuttosto che nelle piccole imprese. Il concentramento spaziale di queste precondizioni è importante, come nel caso dei centri di innovazione high tech che si tro­ vano vicino a Boston e Palo Alto, nella Carolina del Nord, a Long Island, ma il trasferimento della tecnologia nello spazio, anche se spesso control­ lato monopolisticamente, oggi è così rapido che l’elemento specifica­

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mente urbano ha ormai perso di rilievo. C’è però una versione più ampia della tesi della Jacob, che è più corretta, anche se sempre solo in parte. L’innovazione, a guardar bene, comprende qualcosa di più dell’in­ venzione. Per svilupparsi essa pretende capitale di rischio e specifiche competenze lavorative, accesso ai sistemi distributivi per giungere sul mercato, e apertura da parte degli interessati, poiché essa può richie­ dere la ristrutturazione del mercato e la trasformazione di gusti e mo­ de. Essa agisce sull’assetto tecnologico proprio della coerenza struttu­ rata cui tendono tutte le economie urbane. In breve: l’innovazione non viene, e non può venire, confinata alla sfera della produzione. Essa in­ teressa anche il consumo, la riproduzione all’interno della famiglia, i servizi sociali (l’istruzione e la sanità, per esempio), l’amministrazione, le attività culturali e i processi politici. Anche l’esercito e gli altri setto­ ri dell’amministrazione che si occupano di sorveglianza e di controllo esprimono una forte domanda di innovazione. In tutte queste sfere, es­ sa ha per la dinamica del capitalismo la medesima importanza delle trasformazioni dirette del processo lavorativo. D’altra parte, l’innova­ zione sociale e politica dev’essere “razionale” dal punto di vista del­ l’accumulazione. Ma come ci si arriva? In quest’ottica possiamo consi­ derare la regione urbana un centro di innovazione politica e sociale, al­ l’interno del quale la ricerca della combinazione più adeguata di stili di vita, servizi sociali, modelli culturali, va di pari passo con la continua spinta al dinamismo tecnologico e organizzativo nella sfera della pro­ duzione. L’autonomia dell’alleanza di classe dominante e delle sue po­ litiche è vitale perché una regione urbana possa produrre questo tipo di dinamismo sociale e politico. Inoltre, la possibilità per individui e gruppi di intervenire liberamente in queste politiche è fondamentale tanto quanto la libertà degli imprenditori di ricercare trasformazioni tecnologiche e innovazioni di prodotto. Il fermento e le lotte dei movi­ menti sociali urbani espressi dal conflitto di classe, l’individualismo possessivo, le rivalità tra comunità, le segmentazioni e le segregazioni fondate sulle competenze e sugli stili di vita: tutto ciò può essere mobi­ litato per i processi creativi dell’innovazione sociopolitica. Una regio­ ne urbana di successo riesce a determinare la combinazione di stili di vita e di forme culturali, sociali e politiche che meglio si presta alle di­ namiche dell’accumulazione del capitale. Ma come si fa a sapere se ci si trova di fronte alla combinazione giu­ sta? Si arriva così a un terzo punto. Possiamo vedere la regione urbana come una sorta di unità collettiva inserita nella concorrenza e nella di­ namica globali del capitalismo. Come un singolo imprenditore, ogni re­ gione urbana è autonoma e libera di scegliere la strada che preferisce, ma alla fine è vincolata alle leggi esterne e coercitive del capitalismo. La

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sua industria deve concorrere in una divisione internazionale del lavo­ ro, e la sua forza competitiva dipende dalle qualità della forza-lavoro; dall’efficienza e dalla solidità delle infrastrutture sociali e fisiche; daEa “razionalità” degli stili di vita, delle culture e dei processi politici; dallo stato della lotta di classe e dei conflitti sociali; dalla posizione geografica e dalla dotazione di risorse naturali. Le regioni urbane che compiono scelte sbagliate perdono di fronte alla concorrenza, esattamente come accade agli imprenditori che sbagliano. Le regioni urbane sconvolte dal conflitto di classe o governate da coalizioni dominanti che prendono strade antagoniste all’accumulazione, verso economie senza crescita o il socialismo municipale, a un certo punto devono confrontarsi con la du­ ra realtà della concorrenza per i posti di lavoro, per il commercio, il de­ naro, i servizi e così via. Una regione urbana può restare indietro, rista­ gnare, decadere, mentre altre crescono al suo posto. Non si vuole dire, con questo, che è impossibile la coesistenza di specializzazioni vincenti, di particolari combinazioni di economia urbana e divisione del lavoro, di coalizioni dominanti e differenti forme politiche. Il capitalismo non cancella le caratteristiche che rendono unica una regione urbana, più di quanto non faccia nel caso di una singola impresa. Alcune regioni urba­ ne si specializzano nella produzione di plusvalore, altre sembrano spe­ cializzarsi nel suo consumo. Alcune si presentano in un certo momento storico come punti di riferimento e di innovazione culturale e politica, e poi declinano sotto la mano pesante di una classe dominante così re­ pressiva del dissenso da bloccare l’innovazione. Altre alleanze di classe usano forti poteri coercitivi per spingere una popolazione recalcitrante verso il fronte dell’accumulazione, disciplinando il movimento operaio e riducendo i livelli salariali e la resistenza dei lavoratori. Tutte le com­ binazioni sono possibili. E l’unicità dev’essere interpretata come qual­ cosa di storicamente e geograficamente contingente. Ai diversi assetti di ogni regione urbana si giunge attraverso conflitti volontaristici e auto­ nomi, ed essi devono essere analizzati in rapporto ai processi di accu­ mulazione del capitale e alla circolazione spazio-temporale dei redditi che vi si connette. Ora però modificherò in una certa misura questa concezione pren­ dendo in considerazione un quarto punto importante. Il potere politico di un’alleanza di classe dominante non è limitato a una regione urbana: esso si proietta geograficamente in altri spazi. Dobbiamo ora vedere la regione urbana come entità geopolitica nel quadro dello sviluppo geo­ grafico ineguale del capitalismo. Le modalità di proiezione e di utilizzo di questo potere geopolitico sono estremamente importanti, non solo per il destino della regione urbana ma per quello del capitalismo. Vedia­ mo perché.

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LI potere proiettato da un’alleanza di classe dominante dipende in parte dalle risorse interne che essa è in grado di mobilitare. La disponi­ bilità di leve economiche e finanziarie è decisiva. Essa dipende in parte dalla posizione competitiva della regione urbana. La concorrenza non è mai tra uguali: le regioni urbane con economie forti e articolate gettano un’ombra spessa e a volte dominante sugli spazi circostanti, e il potere economico si dispiega in una struttura essenzialmente gerarchica. Me­ tropoli come New York o Londra, che possono disporre di potere nel quadro del credito e della finanza, il sistema nervoso centrale del capi­ talismo, possono utilizzare tale potere in tutto il mondo capitalista. La gerarchia delle dimensioni è sostituita da quella delle funzioni. Anche il potere derivante dall’innovazione, sia in ambito sociopolitico che nella produzione di beni e servizi, conferisce una particolare influenza. Ma anche la disponibilità di leve politiche nella gerarchia dell’apparato sta­ tale ha la sua importanza. In questo caso, il potere dipende dalla com­ patibilità e dalla legittimazione della coalizione di governo locale rispet­ to alla politica nazionale. Queste diverse fonti di potere locale non sono sempre compatibili tra loro. Sono frequenti divisioni e frammentazioni, e spesso queste ostacolano l’influenza geopolitica della regione urbana in quanto sog­ getto unitario. Il conflitto derivante da innovazioni sociali e politiche, per esempio, può spaccare e dividere un’alleanza locale, lasciandola aperta a influenze e manipolazioni esterne. I capitalisti possono fare appello a quelli di altre regioni o all’autorità dello stato per reprimere il conflitto operaio, e i lavoratori allo stesso modo possono costruire coalizioni estese a più regioni urbane, e cercare di ottenere il controllo del potere statale centrale per i propri fini. Gli esclusi dalla coalizione di governo locale cercheranno con ogni probabilità aiuto esterno. Coa­ lizioni diverse controllano risorse diverse. Un movimento socialista lo­ cale può avere una buona misura di legittimazione e appoggio popola­ re a livello locale ma non avere alcuna disponibilità di leve finanziarie o commerciali. In simili circostanze l’esercizio del potere geopolitico può quindi dividersi in due o più frazioni: a Londra la city di banchieri e finanzieri ha un raggio e un tipo di influenza molto diverso da quello del Greater London Council. Oltre che sociale, la frammentazione può essere geografica. Per esempio, possono essere introdotte circoscrizio­ ni politiche e amministrative che enfatizzano la separazione tra centro e aree suburbane. Ci troviamo di fronte, a questo punto, all’affascinante questione del­ la portata e della rilevanza dell’autorità politica locale rispetto agli inte­ ressi economici della regione urbana. Nel XIX secolo si cercava di esten­ dere e di aumentare l’autorità politica locale, in modo tale da far diven­

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tare le città grandi entità geopolitiche capaci di riflettere le principali li­ nee di influenza economica e di potere politico. Ma dopo l’introduzio­ ne del suffragio universale e la crescita del movimento operaio la ten­ denza si è rovesciata, in direzione di una frammentazione politica delle aree urbane e di una separazione tra il piano economico e quello politi­ co. Il problema pratico per l’economia politica urbana è quindi dare al­ lo spazio urbano una presenza geopolitica coerente anche di fronte a queste frammentazioni. A tal fine, una coalizione di classe dominante cercherà di mobilitare i sentimenti di solidarietà comunitaria, di coop­ tare la popolazione creando un’appartenenza localista, di appropriarsi o di inventare una tradizione locale. Userà quotidiani, radio e televisio­ ni locali per rinforzare il localismo in un mondo di scambio universale: questo processo è molto forte negli Stati Uniti. Cercherà di costruire una macchina politica, senza necessariamente limitarsi ai canali politici convenzionali, capace di affermarsi nel conflitto geopolitico interno a un mondo di sviluppo geografico ineguale. Le strategie geopolitiche entrano a far parte dell’arsenale di una coa­ lizione dominante. A livello nazionale, essa parteciperà alla lotta politica per l’allocazione degli investimenti pubblici, per l’imposizione fiscale, per i redditi, per la rappresentanza politica e così via. Cercherà di miglio­ rare la propria posizione geografica, per mezzo di concessioni politiche e investimenti pubblici, soprattutto nei trasporti e nelle comunicazioni, settori in cui la coalizione dominante tende a comportarsi come uno spe­ culatore fondiario collettivo di successo. La costruzione di una potente macchina politica capace di gestire il voto e altre modalità di sostegno spesso viene ricompensata da favori politici ed economici. I poteri eco­ nomici, culturali e di innovazione possono d’altra parte essere utilizzati come strumenti di dominio nei confronti di altre regioni urbane. I sur­ plus di capitale e di lavoro prodotti nella regione urbana possono essere utilizzati altrove, in circostanze che ne consentono il controllo, per esem­ pio con la costruzione di fabbriche in altre regioni, per mezzo di una rete commerciale esclusiva, o con la messa in opera di potenti legami finan­ ziari. I tentacoli del potere economico possono uscire all’esterno, e anda­ re a dominare altre regioni urbane, mentre i tentacoli che dall’esterno tentano di invadere una regione vengono combattuti energicamente da parte della coalizione dominante con strumenti che vanno dalle manovre politiche ai controlli monopolistici. La concorrenza tra le regioni urbane si trasforma così in un duro conflitto geopolitico. La coalizione dominante ha, dopo tutto, molto da difendere, in ter­ mini di investimenti, tenore di vita, condizioni di lavoro, stili di vita e culturali, organizzazione sociale, modelli politici e di governo. Ha an­ che molto da guadagnare da processi innovativi rapidi e anche conflit­

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tuali in tutte queste sfere. Quando il momento è favorevole, essa può cercare di migliorare la propria posizione competitiva portando i frutti del “progresso” capitalista dentro la comunità. Può cercare di mobilita­ re forze interne ed esterne in una spirale verso l’alto di sviluppo locale. In tempi di crisi, ha altrettanto da guadagnare cercando di evitare la svalutazione e la distruzione delle capacità produttive, della forza-lavo­ ro, dei mercati locali e delle infrastrutture sociali e fisiche. Può fare in modo di mobilitare il suo potere competitivo e geopolitico al fine di esportare la minaccia di sovraccumulazione e di impedire l’importazio­ ne di simili problemi sul suo territorio. E dunque evidente che la coalizione dominante deve comportarsi come una sorta di imprenditore collettivo. Il suo ruolo ha due facce. La concorrenza tra le diverse regioni urbane e tra le coalizioni che le rap­ presentano contribuisce ad adattare il paesaggio politico e sociale alle esigenze del capitalismo. Contribuisce inoltre a ricondurre le variazioni geografiche dell’accumulazione e del conflitto di classe alla disciplina della dinamica capitalista, e contemporaneamente apre nuovi spazi e nuove possibilità in cui questa si può espandere. Le diverse coalizioni diventano agenti decisivi nello sviluppo ineguale del capitalismo. Poi­ ché lo sviluppo geografico ineguale, come ho sostenuto altrove (Harvey 1982, capp. xn e XHl), è un elemento di stabilizzazione rispetto alle con­ traddizioni del capitalismo, l’agenzia che contribuisce a promuoverlo diventa indispensabile. Il capitalismo cerca un riferimento spaziale per le sue contraddizioni: questa ricerca viene mediata attivamente in ogni regione urbana dall’azione di una coalizione dominante interessata alle sorti dell’accumulazione e del conflitto di classe locali. Come tutti gli imprenditori, del resto, la coalizione è lacerata dalle tentazioni: da una parte il fuoco di una competizione aperta e sempre crescente, dall’altra la palude stagnante di controlli monopolistici creati a partire dalla geo­ politica del dominio. Questi determinano la cristallizzazione del pae­ saggio geografico del capitalismo in configurazioni stabili, ma a lungo andare stagnanti, di gerarchie di dominio in un sistema di regioni urba­ ne. Il problema, naturalmente, è che non è facile contenere il capitali­ smo; la stagnazione non è il suo forte, anzi essa non fa che ricombinare e accentuare le sue contraddizioni interne. In queste circostanze, la coe­ sione di una coalizione dominante è messa in pericolo, dal momento in cui si inasprisce l’opposizione esterna al suo potere. L’imprenditore collettivo, ricordiamo, nasce da una coalizione difficile e instabile di in­ dividui, frazioni e classi, ciascuno dei quali oscilla tra i vantaggi che gli verrebbero uscendo dalla coalizione, o anche solo indebolendola, e il mantenimento della solidarietà, che assicura la conservazione di ciò che è già stato ottenuto. Insomma, gli elementi della coalizione sono sempre

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sospesi tra conflitto e accondiscendenza. Nella misura in cui un’allean­ za dominante non mantiene le sue promesse, come succede di norma, a lungo andare, nel caso dei monopoli, le forze che spingono per il suo rovesciamento, sempre latenti, giungono a una rivolta aperta e a volte anche violenta. L’indebolimento dell’unità interna fornisce varie op­ portunità di ridefinire i legami e le alleanze con l’esterno, e di formare nuove combinazioni di forze all’interno. Nascono altre regioni urbane, come nuovi centri di potere nella divisione internazionale del lavoro; l’innovazione e la crescita competitiva riprendono e vengono messe al lavoro le forze della ristrutturazione e della distruzione creativa. Il pae­ saggio geopolitico del capitalismo, proprio come quello della produzio­ ne, «oscilla tra la stagnazione stabilizzante del controllo monopolistico e la dinamica spesso distruttiva della crescita competitiva». Questo processo è carico di tensioni. Esso dà luogo a specifiche for­ me di resistenza, che a volte si trasformano in rivolte contro la logica stessa del capitalismo. Le regioni urbane sono costruite come comunità dotate di tradizioni di comportamenti sul mercato del lavoro, di forme di azione dei capitalisti, di alleanze di classe e di un particolare stile po­ litico. Non è facile abbattere queste costruzioni, messe in piedi dai rap­ porti di classe interni all’accumulazione del capitale. Le coalizioni di classe dominanti, i processi politici urbani, le rivalità che il capitalismo produce possono quindi figurare, a un certo punto, come ostacoli alla prosecuzione dello sviluppo capitalista. Il potere rivoluzionario del ca­ pitalismo deve distruggere e ricreare le forme socio-politiche che crea nello spazio geografico. L’apparente autonomia e il continuo fermento dei processi politici urbani sono il cuore di questa contraddizione. Lo stesso vale per il potenziale rivoluzionario sempre a disposizione della politica urbana. La regione urbana o si sottomette alle forze che l’hanno creata, o diventa il focolaio di un movimento rivoluzionario.

8. Conclusioni

Ho detto precedentemente che il capitalismo costruisce un paesaggio fisico e sociale a sua immagine e somiglianza, adeguato al suo stato in un particolare momento storico, e che poi, in una fase successiva, deve rivoluzionare questo stesso paesaggio, solitamente nel corso di crisi di distruzione creativa (cfr. capp. I e II). Ora ci troviamo di fronte a una particolare versione di questa tesi, svolta su una scala geografica parti­ colare, quella delle regioni urbane, e con un contenuto politico molto più forte. Non voglio però dare l’impressione che questa sia la sola sca­ la su cui si può costruire una simile rappresentazione geopolitica. Altro­

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ve ho cercato di descriverla dal punto di vista di regioni più vaste, e de­ gli stati nazionali (Harvey 1982; 1985). A ogni modo, gli studiosi del processo urbano, a qualsiasi corrente politica o metodologica apparten­ gano, sono d’accordo almeno su un punto: i processi sociali, economici e politici hanno un significato determinato e particolare, se si considera l’ambito urbano come unità d’analisi, e questo livello di generalizzazio­ ne ha conseguenze reali per il modo in cui gli individui e gli altri attori economici collegano le loro attività quotidiane ai processi globali. L’ambito urbano è quindi un’“astrazione concreta”, che riflette il modo in cui gli individui agiscono e cercano di costruire e controllare la pro­ pria vita, e che contemporaneamente riunisce nel suo quadro i poteri reali che dominano gli individui stessi. La politica urbana è un contesto d’azione che gli individui comprendono facilmente e a cui possono rap­ portarsi immediatamente. Il genere di processi che abbiamo studiato in questo capitolo indica un ambito reale di condizioni a cui individui, gruppi e classi devono adattarsi o reagire. Tali condizioni possono sembrare determinate da forze astratte, senza dubbio, ma non si tratta del tipo di forze da cui possiamo permetterci di fare astrazione. Soste­ nere, per esempio, che la lotta di classe può svolgersi indipendentemen­ te dalle rappresentazioni e dai conflitti geopolitici è un’astrazione asso­ lutamente priva di fondamento. Purtroppo i marxisti hanno troppo spesso seguito questa strada. Da questo punto di vista, le opinioni espresse da coloro che criticano e abbandonano la tradizione marxista di analisi urbana sono valide. Essi però si sbagliano quando cercano di negare che la comunità urbana e la sua politica specifica siano prodotte nel quadro dei rapporti di produzione e di consumo capitalisti e della loro azione nello spazio geografico. Dal mio punto di vista, la concezione marxista considera individui e gruppi sociali, tra cui le classi, come attori in continuo conflitto per con­ trollare e migliorare le condizioni storiche e geografiche della loro esi­ stenza. Il modo in cui confliggono, se individualmente o collettivamente, formando coalizioni o scontrandosi, ha conseguenze importanti. Ma sappiamo anche che le condizioni storiche e geografiche in cui questo accade sono date, non scelte. E ciò è vero, sia che queste condizioni sia­ no date dalla natura sia che vengano prodotte dall’uomo. Vi sono molti modi, tra l’altro, di specificare quali siano le condizioni importanti, e al­ cuni sembrano migliori di altri. Dove facciamo cadere l’accento è molto importante. In una società capitalista, sappiamo che la vita sociale si ri­ produce tramite la circolazione del capitale, che determina rapporti e conflitti di classe, accumulazione, innovazione e crisi periodiche. Ma sia­ mo in grado di dire anche qualcosa di più concreto sulle condizioni sto­ riche e geografiche di questo processo. I marxisti hanno prestato molta

Il ruolo della politica urbana

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attenzione alla storia: la creazione del lavoro salariato, la crescita della forma-merce e della reale produzione di merci, la nascita dei necessari sostegni sociali e istituzionali, lo sviluppo di determinati tipi di teoria e di autorità politiche, le costruzioni del sapere scientifico e tecnico e così via. Ma hanno fatto poca attenzione alla geografia. Se invece le si ricono­ sce la giusta importanza è subito necessario considerare l’urbanizzazione del capitale come una delle condizioni principali in cui hanno luogo i conflitti. Così prestiamo attenzione, anche, a come il capitalismo orga­ nizza lo spazio, vedendo in tale organizzazione una delle precondizioni della sua stessa sopravvivenza. Lungi dal far venire meno la visione marxiana, l’introduzione della realtà geografica la arricchisce oltremisu­ ra. Percorrendo questa strada possiamo sperare di liberarci dalle catene di un’ortodossia marxista priva di senso dello spazio, e anche dall’inutile ritirata borghese nelle rappresentazioni spaziali e nell’empirismo inge­ nuo. La posta in gioco della lotta storica e geografica è troppo grande per consentirla. La geografia storica del capitalismo deve essere un og­ getto centrale per la ricerca, così come lo è per l’azione politica.

6. Denaro, tempo, spazio e città

Oggetto della mia ricerca sono le forze che nel capitalismo formano il processo urbano e l’esperienza della città. Denaro, spazio e tempo sono i temi su cui lavorare: metterli in primo piano aiuta a sgombrare il campo da molti dettagli poco rilevanti, e a far vedere qual è il quadro di riferi­ mento essenziale in cui l’urbanizzazione ha luogo. Possiamo così coglie­ re meglio il significato dell’esperienza urbana, trovare modi più validi di interpretarla, e pensare alternative possibili. Si tratta sicuramente di temi molto astratti. Ma le astrazioni non sono create da noi. Sono radicate in un processo sociale che produce forze astratte, che hanno però effetti as­ sai concreti sulla vita quotidiana di ciascuno. La “razionalità” del denaro e il potere del tasso d’interesse, la suddivisione del tempo a opera dell’o­ rologio e dello spazio a opera del registro del catasto: queste sono carat­ teristiche astratte della vita sociale. Ma ognuna di esse sembra avere su di noi molto più potere di quanto noi ne abbiamo su di loro. Credo che la sola esistenza del denaro come mediatore dello scam­ bio di merci trasformi profondamente i significati del tempo e dello spazio nella vita sociale, irrigidendoli, e definendo limiti ed esigenze della forma dell’urbanizzazione. L’uso del denaro come capitale, in par­ ticolare, rinforza queste connessioni proprio mentre la dinamica del­ l’accumulazione, che accelera la crescita, le rivoluzioni tecnologiche e le crisi le rende sempre meno stringenti. Questa mancanza di coerenza fa sì che il processo urbano nel capitalismo sia particolarmente aperto: confusione, conflitto e lotta sono il suo stato normale, e i suoi esiti non possono essere in alcun modo predeterminati. Ma questa apertura è ap­ parente: essa nasconde un processo profondo che impedisce di liberarsi dagli aspetti più repressivi del dominio di classe, e da tutta la sofferenza e la confusione che questo porta con sé. All’interno di questa tesi generale ne vorrei sviluppare un’altra che spero aiuti a comprendere la politica della protesta urbana, le forme

Denaro, tempo, spazio e città

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del potere urbano, e i vari tipi di esperienza urbana. Mostrerò come na­ sce la confusione: il comando del denaro, dello spazio e del tempo rap­ presentano fonti di potere sociale indipendenti ma interconnesse, e in quanto repressive esse generano innumerevoli momenti di contestazio­ ne e di rivolta. L’esigenza di sottrarre lo spazio alle varie forme di do­ minio che lo occupano, di liberare il tempo per farne l’uso che ciascu­ no desidera, di vivere indipendentemente dalla rozza volgarità delle va­ lutazioni monetarie: tutto questo può essere alla base di movimenti sociali di protesta di ampiezza e potenzialità enormi. Però l’uso creati­ vo di denaro, spazio e tempo sta anche al cuore dell’esperienza urbana creativa. E proprio questa la dialettica da cui attingono i grandi roman­ zieri urbani, delle cui intuizioni qui mi servirò, e con questa intrecciano le loro storie e i sentimenti che raccontano. La confusione è circondata dalla dinamica incessante e contraddittoria della circolazione e dell’ac­ cumulazione del capitale. Anche quando si fa avanti la lotta di classe, come il principale asse di protesta e di rivolta, gli altri assi non scom­ paiono ma assumono forme curiosamente strane e contorte, che a loro volta oscurano la lotta di classe e i suoi obiettivi. Proprio per questo motivo, i movimenti sociali urbani assumono colori politici variegati, e possono cambiare posizione molto rapidamente, seguendo il mutare delle circostanze. Si smette di pensare alternative possibili, e l’analisi politico-economica finisce per sembrare troppo rigida, o semplicemen­ te priva di senso di fronte a una storia urbana tanto confusa quanto le molteplici forze che la producono. Credo che parte di questa confusio­ ne possa essere riordinata studiando attentamente il denaro, il capitale, lo spazio e il tempo come i quadri di riferimento che ordinano l’econo­ mia politica del processo urbano, disponendone i contenuti in configu­ razioni stabili e determinate.

1. Denaro

Zola (1996a) sostiene che «è molto difficile scrivere un romanzo sul de­ naro: è freddo, glaciale e poco interessante». Simmel (1984) lamenta che il denaro, anche se centrale in qualsiasi aspetto della nostra vita e della nostra cultura, è di per sé privo di qualsiasi contenuto «al di là della pura forma del possesso»: esso «rappresenta le forze astratte del gruppo» (pagg. 466; 433), forze che «in ogni campo e in ogni senso ten­ dono a dissolvere l’elemento sostanziale in processi Uberamente svinco­ lati» (pag. 248). Sempre Simmel (1995, pag. 43) scrive: «Nella misura in cui il denaro, con la sua assenza di colori e la sua indifferènza, si erge a equivalente universale di tutti i valori, esso diventa il più terribile livel­

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latore, svuota senza scampo il nocciolo delle cose, la loro particolarità, il loro valore individuale, la loro imparagonabilità. Le cose galleggiano con lo stesso peso nell’inarrestabile corrente del denaro». Non si tratta quindi di materiale particolarmente promettente per la grande letteratura, né per la buona filosofia, come Simmel ha scoper­ to a proprie spese. Le lunghe indagini di Marx sull’argomento, com­ preso il terzo libro del Capitale, costituiscono una lettura piuttosto noiosa, se le si confronta con la prosa ispirata delle descrizioni dello sfruttamento nel lavoro. Come l’autore stesso aveva previsto, Il denaro di Zola è un libro privo di ispirazione, e .Dreiser, che in Sister Carrie esplora con così grande intensità drammatica i temi della distanza, del desiderio e della mercificazione, è diventato piuttosto sconnesso quan­ do ha cercato di costruire una trilogia epica sul mondo senza cuore e distinzione del denaro e delle manipolazioni finanziarie. Gli stessi ro­ manzieri epici della scena urbana del XIX secolo, come Dickens e Bal­ zac, che pure usano la circolazione del denaro per tenere insieme la lo­ ro «visione totalizzante» della vita cittadina (Williams 1960, pag. 28), hanno evidentemente ritenuto più sicuro trattare il denaro come un fatto naturale, o almeno proprio della natura umana, tanto immutabile quanto pervasive. «Papà, cosa sono i soldi?» chiede il piccolo Paul a un sorpreso signor Dombey, le cui esitanti divagazioni sul tema lasciano il suo giovanissimo futuro partner «ancora pensieroso, in cerca di una spiegazione nel fuoco». Non avendo risposte da dare, Dickens lascia che la domanda si disperda su per il camino, quasi per farla riapparire come la «nube scura e invisibile» che vede gravare sulla brulicante vita sociale della città. Ma il denaro non è solo la principale preoccupazione del signor Dombey. Nei romanzi e nella società reale, esso forma il tes­ suto connettivo che mette uomini e donne, ciascuno dei quali segue il corso della propria vita, tutti insieme «in una vita realmente comune, nella quale sono contenute e determinate tutte le singole vite individua­ li» (Williams 1960, pag. 28). Alla profondità della domanda del piccolo Paul corrisponde solo la nostra incapacità di fornire risposte soddisfacenti. Il denaro è allo stes­ so tempo tutto e niente, ovunque e in nessun luogo: è uno strumento che diventa fine, la forza più profonda e completa tra tutte quelle che cercano di riportare al centro una società in cui esso stesso rende possi­ bile la massima dispersione, è una rappresentazione che sembra separa­ ta da tutto quello che dovrebbe rappresentare. E un’astrazione concre­ ta che esiste fuori di noi e che su di noi esercita un potere molto reale. Il significato dell’espressione "astrazione concreta” merita di essere studiato a fondo. Marx mostra come il denaro provenga da attività so­ ciali concrete quali lo scambio di merci e la divisione del lavoro. I molti

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e svariati processi lavorativi concreti con cui si produce ogni tipo di be­ ni dalle qualità specifiche, cioè il lavoro concreto applicato alla produ­ zione di valori d’uso, vengono livellati e rappresentati nell’unica dimen­ sione astratta del denaro: il valore di scambio. I legami di dipendenza personale vengono così infranti, e sostituiti da «relazioni di dipendenza oggettiva» tra individui che si rapportano gli uni agli altri per mezzo dei prezzi di mercato e dello scambio di merci e di denaro. Marx (1978, vol. I, pagg. 75-84) scrive che «ora gli individui sono dominati da astra­ zioni, mentre prima dipendevano l’uno dall’altro». Con lo sviluppo del­ la divisione del lavoro, il denaro si presenta sempre più come «un pote­ re esterno e indipendente dai produttori», così che «ciò che originaria­ mente si presentava come un mezzo per promuovere la produzione diventa un rapporto estraneo ai produttori». Il “fuoco creatore” del processo lavorativo è rappresentato feticisticamente, come qualcosa di passivo: il denaro. E ancora: «il potere che ogni individuo esercita sulle attività degli altri o sulla ricchezza sociale esiste in lui in quanto posses­ sore di valori di scambio, di denaro». Il denaro diventa dunque il me­ diatore e regolatore di tutti i rapporti economici tra gli individui, la mi­ sura astratta e universale della ricchezza sociale e lo strumento concreto in cui si esprime il potere sociale. Marx (1978, vol. I, pag. 183) prosegue osservando che il denaro dis­ solve la comunità e così «esso stesso è la comunità». Ma qual è la comu­ nità definita dal denaro? Cosa rappresenta il denaro per questa comu­ nità? Come possiamo collocarvi il significato di questo particolare tipo di comunità che chiamiamo “urbana”? Pensiamo in primo luogo a cosa rappresenta il denaro. «Poiché il la­ voro è movimento, il tempo ne è la sua misura naturale», scrive Marx (1978, vol. 1, pag. 162): si può così vedere che il denaro è «oggettificazione di tempo di lavoro generale» sul mercato mondiale (lavoro astrat­ to). La comunità del denaro, dunque, non può essere compresa senza prendere in considerazione il significato sociale dello spazio e del tem­ po. Per il momento lascio da parte questi rapporti cruciali: me ne occu­ però in seguito. La comunità del denaro è caratterizzata dall’individualismo, e da de­ terminate nozioni di libertà ed eguaglianza, fondate sulle leggi della pro­ prietà privata, sui diritti di appropriazione, sulla libertà di mercato. Queste libertà personali esistono, naturalmente, dentro a una “schiavitù oggettiva” definita dalla generale dipendenza reciproca all’interno della divisione sociale del lavoro e dell’economia monetaria. Ma le libertà hanno un significato sociale maggiore: «Se libertà significa in genere in­ dipendenza dalla volontà altrui, essa comincia allora con l’indipendenza dalla volontà di alcuni altri ben determinati Indipendente, nel sen-

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so positivo della parola, è il moderno cittadino della metropoli. Questi ha certamente bisogno di un’infinità di fornitori, operai o collaboratori, senza i quali sarebbe del tutto impotente, ma ha con loro soltanto un rapporto, mediato dal denaro, assolutamente oggettivo» (Simmel 1984, pag. 433). Chi possiede denaro è libero, all’interno dei vincoli dati, di scegliere come, quando, dove e con chi usarlo per soddisfare le proprie esigenze, i propri desideri e le proprie voglie: un fatto su cui insistono sempre gli ideologi del Ùbero mercato, ignorandone però molti altri. Se­ condo Simmel il forte interesse per le libertà personali, l’esigenza di li­ bertà, e la frustrazione che deriva dal non trovarne, provengono dalle caratteristiche delle economie monetarie. Allo stesso modo Marx colle­ ga la nozione borghese di costituzionalite alla caratteristiche proprie della forma-denaro. Nel denaro vi è anche qualcosa di molto democratico. Marx scrive che esso «è un grande livellatore, ed è cinico», perché elimina tutti gli al­ tri segni di distinzione salvo quelli collegati al suo possesso. Simmel (1984, pag. 557) scrive a sua volta che «l’infinita graduabilità della ric­ chezza in denaro dal punto di vista quantitativo avvicina l’un l’altro i di­ versi strati e rende imprecisa la forma della classe aristocratica che non può esistere senza saldi confini». L’erosione delle distinzioni di classe tradizionali, e la loro sostituzione con la rozza democrazia del denaro era il tipo di trasformazione che Henry James, tanto per fare un nome, vede­ va con profonda preoccupazione. Secondo Simmel, inoltre, la tendenza all’eliminazione delle nette distinzioni di classe è rinforzata dallo svilup­ po di una serie di occupazioni, dal commerciante ambulante al banchie­ re, che non hanno altro obiettivo che accumulare denaro. La turbolenza tipica della circolazione e del guadagno stimola la «coscienza della diffe­ renza» che sta dietro alla rivendicazione di riforme egualitarie, alcune delle quali sono destinate a venire soddisfatte (Simmel 1984, pagg. 412, 619-620). Lo stile della vita urbana riflette necessariamente queste condizioni. L’abbattimento delle nette distinzioni di classe va di pari passo con la co­ struzione di nuove barriere tra gli individui. Simmel finisce per trasfor­ mare questo dato di fatto in una visione tragica della solitudine dell’indi­ vidualismo creativo, una condizione che, diversamente da Marx, ritiene non trascendibile e tuttavia «indispensabile per la forma moderna» della vita urbana. «L’influsso del denaro sulle relazioni, palese o travestito in mille forme, crea un’invisibile distanza funzionale tra gli uomini che co­ stituisce una protezione interna e una compensazione nei confronti di ogni eccessiva vicinanza e ogni attrito nella vita civile» (pag. 672). L’idea di struttura sociale presentata da Simmel è molto diversa da quella tradizionalmente attribuita a Marx. Ma nulla di quanto dice del

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denaro è incompatibile con la teoria del denaro marxiana. Naturalmen­ te, manca l’analisi della circolazione del capitale come distinta da quella del denaro, e i rapporti di classe che vi sono connessi. I processi che ab­ biamo descritto finora sono sicuramente reali, ma il contrasto con le leggi della circolazione del capitale è qualcosa di estremamente rilevan­ te. Esso indica una profonda tensione tra l’individualismo e l’eguaglian­ za derivanti dal possesso di denaro e i rapporti di classe vissuti nel gua­ dagnare quello stesso denaro. Le qualità oggettive, misurabili e universali del denaro richiedono altre forme di mutamento sociale all'interno della comunità da esso de­ finita. «L’idea che la vita sia fondata prevalentemente sull’intelletto, e che l’intelletto stesso valga in pratica come la più preziosa delle nostre energie psichiche, va passo passo con la diffusione dell’economia mo­ netaria» scrive Simmel (1984, pag. 226). Due aspetti di questa attività intellettuale meritano di essere commentati. In primo luogo, quanto più abbiamo a che fare con simboli astratti del denaro, come le banconote, anziché con una merce tangibile dal valore intrinseco, come l’oro, tanto più siamo costretti a ricorrere a modi di pensare astratti e simbolici che corrispondono all’“astrazione concreta” della forma-denaro. «Pensia­ mo» dice Simmel «alle complicate precondizioni psicologiche necessa­ rie per coprire le banconote con le riserve di valuta» e a quello che ne consegue per i contenuti simbolici del nostro pensiero. Anche Marx se­ gnala come la fede necessaria per operare con la moneta cartacea o con i titoli di credito debba essere quasi di tipo religioso, se si vuole che le transazioni complesse di una moderna economia monetaria vi si possa­ no basare. In secondo luogo, il contenuto di questa attività intellettuale è profondamente influenzato dalla natura delle operazioni monetarie. «La precisione nella misura, nel peso e nel calcolo propria dei tempi moderni» è «strettamente collegata con l’economia monetaria» la quale esige «continue operazioni matematiche nelle nostre transazioni quoti­ diane». Un’economia monetaria richiede un razionalismo particolare, basato sulla misurazione esatta e rigorosa di grandezze calcolabili (Godelier 1970). Questa è l’attrezzatura intellettuale positivista cui faccia­ mo necessariamente riferimento ogni volta che ci troviamo di fronte a una cosa semplice come un prezzo. Un’economia monetaria, conclude Simmel (1984, pagg. 607-608), presuppone «una notevole espansione» e intensificazione dei processi mentali, al fine di produrre «un fondamentale riorientamento della cul­ tura verso l’intellettualità». In questa situazione nascono le attività in­ tellettuali indipendenti, e le professioni orientate all’esplorazione del calcolo razionale della vita economica. Si forma la base materiale per lo sviluppo di forti e stabili interessi nei principi della misurazione oggetti­

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va, del calcolo razionale, dell’analisi economica. Simili modi di pensiero possono estendersi su tutte le sfere socialmente rilevanti. Non è stato un caso che Sir Isaac Newton sia stato per qualche tempo alla guida della zecca reale inglese. La scienza materialista e positivista appiattisce dunque tutte le qualità, proprio come la forma-denaro che essa imita. Ogni fenomeno è ricondotto a una sola forma di pensiero, omogenea e universale. Tutto è ridotto a un piano intellettuale comune, che funge da religione secolare dell’economia monetaria. A loro volta questi modi di pensare devono essere energicamente difesi. Come sottolinea Simmel (1984, pag. 254), «chd un materiale così delicato e facilmente logorabile come la carta sia diventato portatore dei più elevati valori monetari, è stato possibile soltanto in un ambito culturale solidamente e stretta mente organizzato, capace di fornire garanzie di reciproca protezione, in modo tale da escludere una serie di pericoli elementari, sia di natura esteriore che puramente psicologica». Questo schizzo «Iella “comunità” definita dal denaro, tracciato con l’aiuto di Marx e di Simmel, non è sicuramente completo. Esso fornisce però una base sufficiente su cui sviluppare un’interpretazione di altri aspetti della vita urbana in una realtà capitalista e delle sue qualità spe­ cifiche, tra cui anche la reazione e la rivolta contro il calcolo monetario. Il primo passo in questa direzione, però, richiede l’integrazione nell’a­ nalisi delle idee di spazio e tempo.

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«Economia di tempo».scrive Marx (1974) «a questo si riduce in ultima analisi tutta l’economia». Ma quali sono le qualità di questo tempo cui tutta l’economia deve ridursi? Ci troviamo di fronte a un paradosso. Anche se il denaro rappresenta tempo di lavoro sociale, lo sviluppo del­ la forma-denaro trasforma il significato del tempo in modo profondo e specifico. Simmel (1984, pag. 710) sostiene che «il concetto moderno di tempo inteso come valore determinato dall’utilità e dalla scarsità» ven­ ne accettato diffusamente solo con la fioritura del capitalismo di merca­ to. Anche Le Goff (1984, pagg. 35-36) è d’accordo, quando sostiene che con l’allargarsi della sfera della circolazione monetaria e con l’orga­ nizzazione di reti commerciali nello spazio, i commercianti furono co­ stretti, almeno a partire dal XIV secolo, a «misurazioni del tempo più adeguate e affidabili, per la gestione ordinata dei loro affari». Questa esigenza veniva rinforzata dal fatto che i commercianti erano anche gli organizzatori della produzione che si svolgeva nelle città. Così la «rior­ ganizzazione del lavoro urbano nel secolo XIV» diede luogo a una «tra­

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sformazione fondamentale nella misurazione del tempo, che costituiva un trasformazione nel tempo stesso». Commercianti e mastri artigiani crearono «una sorta di rete cronologica che avviluppava la vita urba­ na», ben distinta dai ritmi della natura e priva di qualsiasi significato re­ ligioso, e simbolizzata dagli orologi e dalle campane che chiamavano i lavoratori all’opera e i commercianti al mercato. La nuova definizione del tempo non nacque senza contrasti da parte dell’autorità religiosa, e dei lavoratori urbani chiamati ad accettare la nuova disciplina del tem­ po. Le Goff conclude che «l’evoluzione di queste strutture mentali e delle loro espressioni materiali erano profondamente collegate con i meccanismi della lotta di classe». L’ampiezza di questa nuova rete cronologica e la finezza della maglia di cui era intessuta rispecchiavano però il potere della classe che l’aveva creata. Nonostante gli interessi della burocrazia statale la sostenessero, come comodo quadro di riferimento per il controllo sociale, solo i com­ mercianti e i mastri artigiani erano tenuti a rispettare la nuova definizio­ ne del tempo: questi gruppi ebbero a lungo un potere solo locale, e spes­ so neanche dominante, ed erano inseriti in un più ampio contesto sociale e di potere (Thrift 1981). La questione del tempo e della sua definizione rimase dunque, come segnala E.P. Thompson, un punto focale del con­ flitto di classe durante la nascita e anche il consolidamento del capitali­ smo industriale urbano. Il lento passaggio storico che ha portato all’ege­ monia del nuovo senso del tempo fu in parte un processo tecnologico, consentito dall’introduzione di orologi a buon mercato (Landes 1983) e dell’illuminazione a gas ed elettrica, con cui vennero superati i vincoli della giornata lavorativa “naturale”.1 Ma soprattutto sono stati i rapporti di classe a rendere necessario l’utilizzo di quelle possibilità tecnologiche nel senso imposto dalla circolazione del capitale. La società venne cattu­ rata in una rete cronologica unitaria e universale solo nella misura in cui si dispiegarono le forze di classe impegnate nella produzione e nello scambio, e ciò accadde in grande stile solo verso la fine del XIX secolo. Sia Le Goff che Thompson sono concordi nel far risalire il conflitto sul tempo nella sfera della produzione almeno all’età medievale. Da parte sua, Marx nota che la lotta sulla durata dell’orario di lavoro risale al periodo elisabettiano, quando lo stato dispose per legge un aumento della tradizionale giornata lavorativa, che interessava i lavoratori da po­ co allontanati dalla terra dalla violenza dell’accumulazione primitiva e pertanto inclini all’instabilità, all’indisciplinatezza, al vagabondaggio. 1 Engels (1973, pagg. 327-340) descrive in modo molto interessante le lotte dei car­ pentieri di Manchester dopo il 1844, quando venne introdotta l’illuminazione a gas, nel quadro di una strategia finalizzata all’allungamento della giornata lavorativa.

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La reclusione dei disoccupati insieme agli alienati, fenomeno sottoli­ neato da Marx e al quale Foucault ha dedicato un intero libro, è stato solo uno degli strumenti utilizzati per piegare la forza-lavoro. Nel vol­ gere di molte generazioni «furono formate nuove abitudini di lavoro, e fu imposta una nuova disciplina» scrive E.P. Thompson (1967, pag. 90), disciplina forgiata al fine di sincronizzare sia la divisione macro del lavoro sociale che quella micro, di fabbrica, e per massimizzare l’estra­ zione del tempo di pluslavoro dall’operaio, base del profitto. Nacque così «il paesaggio familiare del capitalismo industriale, con gli orari, i cronometristi, gli informatori e le multe». Ebbero inizio allora le batta­ glie che si combattono ancora oggi: su minuti e secondi, sui ritmi e l’in­ tensità delle mansioni, sulla vita lavorativa e il diritto alla pensione, sul­ la settimana e sulla giornata lavorative e il diritto al “tempo libero”, sul­ l’anno lavorativo e il diritto alle ferie pagate. I lavoratori impararono rapidamente a difendersi, nel quadro del nuovo senso del tempo che avevano interiorizzato. «La prima generazione di lavoratori di fabbrica venne istruita dai capi sull’importanza del tempo; la seconda formò i suoi comitati per abbreviare il tempo di lavoro con il movimento delle dieci ore; la terza generazione diede vita agli scioperi per il riconosci­ mento degli straordinari. Avevano accettato le categorie dei loro datori di lavoro e avevano imparato a lottare nel quadro che queste definiva­ no. Avevano imparato fin troppo bene la lezione: il tempo è denaro» (Thompson 1967, pag. 90). Se la nuova disciplina del tempo e l’etica del lavoro che vi era asso­ ciata furono introdotte piuttosto presto e con buon successo nelle Man­ chester, Mulhouse e Lowell dell’inizio della rivoluzione industriale, fu per esse molto più difficile radicarsi nella grande metropoli e nelle aree rurali. Nel mondo di Dickens il tempo si espande, letteralmente, riflet­ tendo il quadro temporale del commerciante capitalista. L’orologio del­ la High Street dava l’impressione che «il Tempo fosse venuto a fare af­ fari qui, e vi avesse appeso il suo simbolo». I personaggi di Dickens non sono ben inseriti nei rigidi orari che Gradgrind impone alla città indu­ striale di Coketown. Furono necessarie delle vere rivoluzioni nell’ambi­ to della circolazione, e non solo della produzione (come ritiene Thom­ pson), perché si imponesse ovunque il senso di un tempo astratto e og­ gettivo, che oggi noi accettiamo comunemente come base della nostra esistenza materiale. E questo processo venne portato a termine solo con la conquista straordinariamente rapida dello spazio consentita dalla fer­ rovia, dal telegrafo, dal telefono e dalla radio (Pred 1973). Kern (1983, pag. 12) ci ricorda che solo nel 1883 vennero riordinate sistematicamente le oltre duecento ore locali che un viaggiatore incontra­ va nel corso di un viaggio in ferrovia da Washington a San Francisco. Si

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poneva così fine all’imbarazzante confusione per cui la rete della Penn­ sylvania Railroad operava in base all’ora di Filadelfia, diversa di cinque minuti da quella di New York. Solo nel 1884, del resto, si mossero i pri­ mi passi verso un accordo internazionale sui meridiani, i fusi orari, e l’ini­ zio della giornata globale. E questo avvenne molti anni prima che i paesi a capitalismo avanzato sincronizzassero i loro rispettivi orologi. Stringere la rete cronologica stesa intorno alla vita quotidiana era in­ dispensabile, se si voleva ottenere il coordinamento necessario per attua­ re spazialmente processi di produzione e di scambio capaci di dare pro­ fitto. Simmel (1995, pagg. 40-41) esprime questa ragione con precisione devastante: «Se tutti gli orologi di Berlino si mettessero di colpo a funzio­ nare male andando avanti o indietro anche solo di un’ora, tutta la vita economica e sociale della città sarebbe compromessa molto a lungo». La separazione nello spazio, che a sua volta è incentivata dall’economia mo­ netaria, «ha l’effetto di rendere le attese e gli appuntamenti persi uno spreco di tempo che pochi si possono permettere». La «tecnica della vita metropolitana» prosegue Simmel «non sarebbe neppure immaginabile se tutte le attività e le interazioni non fossero integrate in modo estremamente puntuale in uno schema temporale rigido e sovraindividuale». L’organizzazione temporale rigida dei nuovi sistemi di trasporto di mas­ sa della fine del XIX secolo, per esempio, trasformò radicalmente il ritmo e la forma della vita urbana, anche se l’idea di orari fissi su percorsi inva­ riabili a prezzo fisso era in circolazione sin dall’epoca dei primi omnibus, dal terzo decennio del secolo. Così l’arrivo della ferrovia «sconvolse i ri­ ferimenti temporali del mondo agricolo», perché anche «la fretta relati­ vamente lenta dell’accelerato di campagna che sbuffa di città in città» scrive Stilgoe (1983, pag. 23) «diede a ogni struttura e a ogni luogo situa­ ti vicino alla ferrovia un nuovo senso del tempo». Il treno del latte del mattino descritto in Tess di Thomas Hardy esprime magnificamente questo nuovo senso del tempo e del rapporto tra campagna e città. La conquista dello spazio avvenuta dopo il 1840 ha avuto anche nu­ merosi effetti indiretti, altrettanto significativi, che hanno contribuito a trasformare in tutte le classi sociali il senso del tempo e la sua percezio­ ne. Il viaggio per recarsi al lavoro diventò un tipico fenomeno della vita urbana, collegandosi con la crescente suddivisione del tempo in “lavo­ ro” e “vita”, articolati in spazi separati. Le conseguenze indirette furo­ no molteplici e riguardarono gli orari tradizionali dei pasti, il lavoro fa­ miliare e la sua divisione sessuale, i rapporti nella famiglia, le attività di svago e così via. Lo sviluppo dei quotidiani a diffusione di massa, l’in­ troduzione del telegrafo e del telefono, della radio e della televisione: tutto contribuì a un nuovo senso di simultaneità nello spazio e di uniformità totale in un tempo coordinato e uguale per tutti.

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In tali circostanze le qualità del denaro potevano avere un’influenza ulteriore. Il fatto che il denaro possa fungere da deposito di valore, e quindi di potere sociale, conservabile nel tempo, consente agli individui di scegliere tra utilità presenti e future, e anche di spostare nel tempo il consumo per mezzo del prestito (Sharp 1981, pag. 163). Gli individui sono dunque costretti a definire i loro orizzonti temporali, il loro “tasso di sconto” o “preferenza temporale” personali: decidono se spendere adesso il loro potere sociale o conservarlo per più tardi. La rappresenta­ zione sociale della preferenza temporale è data dalle istituzioni finanzia­ rie, che stabiliscono gli orizzonti temporali e i tassi di sconto per il pre­ stito. I tassi di interesse per i mutui e le scadenze relative si presentano allora come “astrazioni concrete” cui gli individui, le imprese e gli stes­ si stati devono conformarsi. La funzione del denaro come deposito di valore consente anche l’accumulazione progressiva di potere sociale nelle mani degli individui. Come sottolinea Marx, il potere del denaro, se confrontato con altre forme di ricchezza sociale, può essere accumulato senza limiti: sono possibili curve logistiche di espansione temporale con progressione geometrica. Il denaro in questo caso va contro la sua stessa funzione de­ mocratica: tra le sue qualità compare anche la capacità di rendere più ineguale la distribuzione di una forma universale di potere sociale. Sor­ ge quindi il problema del trasferimento intergenerazionale della ric­ chezza, o dei debiti: di qui il significato sociale che Marx ed Engels at­ tribuiscono all’eredità nel quadro della forma borghese della famiglia. Anche coloro che dispongono di risorse monetarie limitate possono trovare i modi, come mostra brillantemente Hareven (1982), di integra­ re il loro senso e il loro uso del «tempo familiare» nelle nuove esigenze e scadenze del «tempo industriale». Per quanto contestata e osteggiata, la definizione del tempo come grandezza misurabile, calcolabile e oggettiva, ha avuto conseguenze ri­ levanti per i modi di pensare intellettuali. Gli ultimi due secoli hanno visto la nascita di innumerevoli professioni con un interesse forte e sta­ bile alla definizione e misurazione rigorose del tempo: la loro unica ra­ gion d’essere consiste nel fornire indicazioni su come distribuire nel modo più efficiente quella che è diventata una risorsa scarsa e quantifi­ cabile. Ingegneri, chimici, economisti, psicologi, industriali, per non parlare degli esperti delle misurazioni di “tempi e movimenti”, la com­ puterizzazione, I’automazione, l’elettronica: tutto ciò ha in comune una concezione del tempo astratta, che può però essere utilizzata in modo molto concreto, di solito per fare soldi. Non stupisce quindi che il cal­ colo differenziale, con la sua capacità di analizzare dettagliatamente il tasso di cambiamento in un tempo misurabile, sia diventato la base di

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buona parte dell’educazione tecnica moderna. Così gli economisti, che richiedono la conoscenza del calcolo differenziale come prerequisito per capire quanto hanno da dire, mettono subito in chiaro che «il tem­ po è una risorsa scarsa che deve essere spesa» e che «un problema es­ senziale dell’esistenza umana», su cui sono pronti a darci consigli da amici, «è spenderlo bene, usarlo per dare luogo al massimo ritorno in felicità ottenibile» (Sharp 1981, pag. 2). Il carico intellettuale che l’e­ quazione “il tempo è denaro” porta con sé è pesante e sofisticato. 3. Spazio «Tess iniziò il suo percorso su per la strada buia e curva, poco adatta per camminare veloci: la strada era stata fatta prima che un pollice di terra avesse valore, all’epoca in cui bastava un orologio con una sola lancetta per suddividere la giornata» (Thomas Hardy). Così incomincia il classico contributo di E.P. Thompson (1967) sul tempo e la disciplina del lavoro nel capitalismo industriale. Ma Thompson non approfondi­ sce il fatto che la strada che impedisce a Tess di camminare veloce «era stata fatta prima che un pollice di terra avesse valore». Muovo questo rilievo perché gli storici e i teorici della società troppo di rado danno ascolto al consiglio di Le Goff (1984, pag. 36) di mettere al centro delle loro analisi la conquista simultanea del tempo e dello spazio. Il com­ merciante medievale, sostiene Le Goff, fece la scoperta del fondamen­ tale concetto del “costo del tempo” solo nel corso della sua esplorazio­ ne dello spazio. E abbiamo già visto che solo grazie alla conquista dello spazio avvenuta dopo il 1840 un senso astratto, oggettivo e universale del tempo è giunto a dominare la vita e le attività sociali. In sé e per sé la priorità data al tempo sullo spazio non è sbagliata. In effetti, essa rispecchia sotto molti aspetti importanti l’evoluzione del­ le attività sociali. Quello che manca, però, è la considerazione delle atti­ vità che stanno dietro a questa priorità. Solo tenendole presenti possia­ mo capire le circostanze in cui la posizione, il territorio e la dimensione spaziale tornano ad affermarsi nelle faccende umane come forze poten­ ti, almeno apparentemente, e a sé stanti. E simili circostanze sono dav­ vero numerose. Comprendono lo speculatore urbano che trasforma i pollici di terra in valore e profitto personale; le forze che definiscono la nuova divisione del lavoro regionale e internazionale; i conflitti geopoli­ tici che portano allo scontro anche violento del centro contro le zone suburbane, delle regioni contro altre regioni, e di una metà del mondo contro l’altra. Data la loro rilevanza, se trascuriamo la questione dello spazio abbiamo tutto da perdere.

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Lo spazio non può essere considerato separatamente dal denaro, per­ ché è proprio il denaro a permettere la separazione nello spazio e nel tempo dell’acquisto dalla vendita (Marx 1978, vol. I, pag. 85). La rottura dei legami di dipendenza personale a opera dello scambio di denaro va dunque di pari passo con la rottura delle barriere locali, di modo che «il mio prodotto diventa dipendente dallo stato generale del commercio, ed è così tratto fuori dai suoi confini locali, naturali e individuali». Il merca­ to mondiale definisce in ultima analisi la “comunità” delle interazioni di scambio, e il denaro che possediamo rappresenta il nostro legame ogget­ tivo con quella comunità, e il nostro potere sociale nei suoi confronti. Anche qui il denaro è il grande e cinico livellatore, il grande integratore e unificatore delle varie comunità tradizionali e degli interessi dei gruppi. Lo scambio di merci e la monetizzazione sfidano, sottomettono e infine eliminano le qualità assolute del luogo e vi sostituiscono definizioni rela­ tive e contingenti di luoghi situati all’interno di una circolazione di beni e di denaro estesa a tutta la superficie del globo. Zola in La terra ha colto con grande intensità drammatica l’impatto di tale processo. Frank Norris (1981, pag. 44) ha descritto il sorgere di questa connessione. I coltivatori di grano della California persero il senso dell’individualità quando videro i prezzi del grano arrivare dai fili del telegrafo che li collegavano con il mercato mondiale. «Il ranch diventava una semplice parte di un tutto enorme, un’unità in una concentrazione di terra coltivata a frumento estesa a tutto il mondo, che risentiva degli effetti di cause lontane mi­ gliaia di miglia.» Dopo l’impatto della rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni, il mercato mondiale e lo spazio in esso compreso venne a essere percepito come un’astrazione molto reale e concreta rispetto al­ l’attività sociale di ciascuno. Gli effetti sociali sono innumerevoli. Tanto per cominciare, il dena­ ro «consente di intendersi a distanze altrimenti inaccessibili, rende pos­ sibile l’inclusione delle personalità più varie nella stessa sfera d’azione, l’interazione e quindi l’unificazione di uomini che a causa della distanza spaziale, sociale, personale, dei loro interessi, o a causa di una distanza d’altro tipo, non potrebbero essere raggruppati in alcun altro modo» (Simmel 1984, pag. 496). Alla stessa stregua, il denaro crea grandi pos­ sibilità di concentrazione spaziale di potere sociale, perché diversamen­ te da altri valori d’uso esso può venire accumulato senza limiti in un luogo determinato. E queste immense concentrazioni di potere sociale possono essere utilizzate per realizzare grandi trasformazioni localizzate della.natura, per la creazione di ambienti costruiti e così via. Simili con­ centrazioni hanno sempre luogo, del resto, in un contesto di forte di­ spersione, perché il potere sociale rappresentato dal denaro è collegato a infinite attività sparse per il mercato mondiale.

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Qui incontriamo paradossi dalle conseguenze molto importanti. Il sistema dei prezzi, per esempio, è il più decentrato, socialmente e spa­ zialmente, di tutti i meccanismi decisionali socialmente coordinati, ma al tempo stesso è una potente forza centralizzatrice che consente di concentrare un potere in denaro immenso in poche mani. Anche il con­ cetto di distanza acquista nuovi significati. Il desiderio, dice Simmel (1984, pagg. 116-117), sorge «in una distanza nei confronti delle cose», eppure presuppone «una certa vicinanza tra noi e gli oggetti in modo tale che la distanza esistente possa perlomeno venire percepita». Il de­ naro e gli scambi di tutto il mercato mondiale trasformano la metropoli in un vero bordello di tentazioni per il consumatore, nel quale il dena­ ro, o la sua mancanza, diventa misura della distanza. Questo è il tema che Dreiser ha espresso in modo così straordinario in Sister Carrie. Ed esso ha significati vitali. Nella Fifth Avenue di New York, o all’Harborplace di Baltimora tutto un mondo di commercio e di scambi monetari si concentra nel confronto tra il desiderio individuale e una massa di merci provenienti da ogni angolo della terra. La natura della partecipa­ zione politica viene anch’essa trasformata. Il denaro, come nota Simmel (1984, pagg. 492-493), consente la partecipazione politica senza impe­ gno personale: infatti è più facile dare denaro che tempo; e inoltre per­ mette di prendere parte a vicende molto lontane, magari trascurando quelle a portata di mano. In La casa pallida, Dickens mette in caricatura questo tipo di abitudini nel personaggio della signora Pardiggle, così ossessionata dalla raccolta di denaro per gli indiani Tookaloopo da tra­ scurare i suoi stessi figli. Ma qual è la natura di questo “spazio” sul quale e dentro il quale agi­ scono taH processi? La sua conquista richiede innanzitutto che esso sia concepito come qualcosa di utilizzabile, di malleabile, qualcosa che può essere dominato dall’azione umana. La navigazione e la cartografia han­ no creato una nuova rete cronologica per le esplorazioni e le azioni uma­ ne. La ricerca catastale ha consentito di definire in modo incontestabile i diritti di proprietà sulla terra. Lo spazio è stato così rappresentato, pro­ prio come il tempo e il valore, come qualcosa di astratto, oggettivo, omogeneo e universale nelle sue qualità. Ciò che i cartografi e gli esplo­ ratori avevano prodotto in termini di rappresentazioni mentali venne utilizzato da commercianti e proprietari terrieri per i loro fini di classe. Anche lo Stato assoluto era interessato alla definizione precisa di spazi oggettivi in un quadro stabile, per poter tassare la terra e definire il suo ambito di dominio. Costruttori, ingegneri e architetti diedero il loro contributo, mostrando come la rappresentazione astratta dello spazio oggettivo si possa combinare con l’esplorazione delle proprietà concrete e malleabili dei materiali disponibili nello spazio stesso. Ma si trattava

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solo di isole di attività, di una rete cronologica leggera gettata su un mondo di attività sociali nelle quali continuavano a esistere indisturbate le più diverse concezioni del territorio e dello spazio: sacre e profane, simboliche, personali o animistiche. Per consolidare la percezione dello spazio come oggetto universale e omogeneo, e astratto rispetto alle atti­ vità sociali, occorreva qualcosa di più. Questo “qualcosa” era la compravendita dello spazio come merce. L’effetto fu quindi di portarlo, nella sua totalità, sotto l’unica misura del valore monetario. La sussunzione di luoghi e spazi sotto il giudizio uniforme di Pluto­ ne diede ovunque luogo a resistenze, anche violente. Il conflitto sulla mercificazione della terra e dello spazio è altrettanto antico, prolungato e duro quanto quello sul significato e il controllo del tempo. Anche in questo caso, l’evento che ha consolidato definitivamente la concezione dello spazio come astrazione concreta dotata di potere reale sulla so­ cietà è stata la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni del XIX se­ colo. Il potere indipendente della classe dei proprietari terrieri venne distrutto, e così la terra non divenne altro che una particolare specie di risorsa finanziaria, una forma di “capitale fittizio” (Harvey 1982, cap, Xl). Detto in altri termini: i titoli di proprietà sulla terra divennero null’altro che «terra monetizzata» (Simmel 1984, pag. 713). In tutto questo, però, c’è una contraddizione. L’omogeneità dello spazio è ottenuta per mezzo della sua totale “polverizzazione” in particelle liberamente alienabili di proprietà privata, che possono essere vendute e commerciate a piacimento sul mercato (Lefebvre 1974, pag. 385). Ne risulta una tensione permanente tra l’appropriazione e l’uso dello spazio per fini individuali e sociali, e il suo dominio per mezzo della proprietà privata, dello stato, e delle altre forme di potere sociale e di classe (Lefebvre 1974). Questa tensione sta dietro all’ulteriore frammentazione di uno spazio altrimenti omogeneo. La facilità con cui ora può essere formato lo spa­ zio, sia fisico che sociale, con tutto ciò che ne consegue per la distruzio­ ne delle sue qualità assolute e della territorialità privilegiata delle comu­ nità tradizionali, sancita a livello aristocratico, religioso o dinastico, pone una seria sfida all’ordine sociale. A immagine di chi sarà formato lo spa­ zio? A vantaggio di chi? Dove il mercato fondiario è dominato dal pote­ re del denaro, subentra la democrazia del denaro stesso. Anche il palaz­ zo più grande può essere comprato e abbattuto, e al suo posto si posso­ no costruire uffici o case popolari. Il mercato fondiario attribuisce gli spazi alle funzioni sulla base del prezzo dei terreni, e lo fa solo in base al­ la capacità di pagamento, che, per quanto possa essere differenziata, non lo è abbastanza per tracciare negli spazi sociali della città nette distinzio­ ni sociali e di classe. Ogni strato sociale risponde a questa situazione cer­

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cando di usare tutti i poteri di cui può disporre (denaro, influenza politi­ ca, violenza) per cercare di separarsi, o di separare altri giudicati indesi­ derabili, in frammenti di spazio all’interno dei quali si possano protegge­ re gelosamente i processi di riproduzione della distinzione sociale. Al progressivo aumento del potere della democrazia del denaro nei mercati fondiari nel secolo scorso si accompagnò dunque una forte tra­ sformazione del senso dello spazio urbano. Come nota acutamente John Goode (1978, pagg. 91-107), «in Dickens l’organizzazione dello spazio si fonda sulla tensione tra oscurità e vicinanza»; si tratta di uno spazio di incontri accidentali in cui lo slancio esplorativo della classe commerciale può ancora avere la meglio. Qui i personaggi possono muoversi liberamente, proprio perché il movimento non implica la sfi­ da di alcuna distinzione di classe. Ma i romanzi di George Gissing, del­ la fine del XIX secolo, dipingono una Londra molto diversa. «La città non è più il luogo d’incontro delle classi, al contrario, essa è uno spazio strutturato di separazione», che può essere «rappresentato, letteral­ mente mappato», con «distanze prive di contingenza» e «zone che fun­ zionano come differenziali economici e di classe». Goode conclude che «nella misura in cui è spazio creato, lo spazio sociale della città è in par­ te organizzato per rendere astratti i rapporti di classe; quartieri subur­ bani, ghetti, divieti di transito sono tutti modi di tenere sotto controllo le possibilità di confronto diretto». Paradossalmente, proprio nel mo­ mento in cui la città toccava il suo apice come potenziale «luogo di in­ contri», per usare un’espressione di Lefebvre, essa divenne un terreno frammentato, sottomesso e ordinato da ogni genere di dominio: di clas­ se, di razza e sessuale. Come si può conciliare questa frammentazione con l’omogeneità dello spazio universale e oggettivo? Alla domanda sono state date nu­ merose risposte, teoriche e pratiche. Durkheim (1971), per esempio, vi­ de l’importanza delle frammentazioni e le rappresentò come spazi so­ ciali a sé stanti all’interno della solidarietà organica della totalità sociale. Riformatori come Charles Booth, Octavia Hill e Jane Addams, e i socio­ logi urbani della scuola di Chicago, si dedicarono all’esplorazione dei frammenti e all’individuazione, o all’imposizione, di un qualche senso di “ordine morale” che li comprendesse. Nacque una serie di professio­ ni la cui missione consisteva nella razionalizzazione dei frammenti, e nell’imposizione di una coerenza unitaria al sistema spaziale complessi­ vo (Giedion 1941). Ingegneri, architetti, urbanisti e pianificatori, il ruo­ lo dei quali divenne sempre più importante nella misura in cui i rifor­ matori progressisti acquisivano potere politico, svilupparono un inte­ resse profondo e duraturo per un concetto di spazio omogeneo, astratto e oggettivo, proprio allo stesso modo in cui i loro colleghi lo

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avevano sviluppato per le astrazioni concrete del tempo e del denaro. Anche l’arte, come suggerisce Kern (1.983, pagg. 144-152), fu conqui­ stata a sua volta dal cubismo, che, se da un lato affermava r«irrealtà del luogo», dall’altro cercava di limitare le forme a una superficie piatta in uno spazio omogeneo e astratto. La tensione derivante tra «il mondo tridimensionale che li ispirava e le due dimensioni della pittura che pra­ ticavano» produsse tele il cui aspetto era spezzato e frantumato proprio come i paesaggi sociali urbani che spesso cercavano di ritrarre. Nonostante le sue evidenti frammentazioni, lo spazio deve quindi essere oggettivo, misurabile e omogeneo. Come potrebbe altrimenti es­ sere disponibile per la gestione razionale degli affari? Su questo punto erano tutti d’accordo. Si aggiunse poi, verso la fine del XIX secolo, un’altra opinione largamente condivisa. Autori tra loro diversi come Alfred Marshall e Proust giunsero alla conclusione che per gli affari umani lo spazio è una dimensione meno rilevante del tempo. Anche a questo proposito la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni eb­ be un ruolo fondamentale. Già negli anni quaranta, ci informa Leo Marx (1964, pag. 194), gli americani erano presi dal sentimento «stra­ vagante» che i sublimi sentieri del progresso tecnologico stavano con­ ducendo inesorabilmente alla «distruzione dello spazio e del tempo» (si tratta di un’espressione che sembra presa a prestito da due versi di Alexander Pope: «O Dei! distruggete spazio e tempo / e fate felici due amanti»). L’altro Marx (Karl, 1974), più sobriamente, riduce questa idea stravagante alla distruzione dello spazio operata dal tempo. Anche se i commercianti medievali sono stati i primi a scoprire il prezzo del tempo, nel corso delle loro esplorazioni dello spazio, sostiene Marx, è stato il tempo di lavoro a definire il denaro, mentre il prezzo del tempo, cioè il profitto, ha rappresentato la dimensione fondamentale della lo­ gica decisionale del capitalismo. Da questo Marx deduceva l’inevitabile spinta del capitalismo a distruggere i vincoli e gli attriti dello spazio, in­ sieme alle peculiarità dei luoghi. Le rivoluzioni nei trasporti e nelle co­ municazioni sono quindi un aspetto necessario, e non contingente, del­ la storia capitalista. La vittoria del tempo sullo spazio e sul territorio ha avuto il suo prezzo. Ha significato l’accettazione di un modo di vita la cui essenza sono la velocità e la corsa a superare lo spazio. Musil credeva di fare una caricatura quando, nell’Uomo senza qualità dipinge «una sorta di città super-americana dove ognuno corre, o sta fermo, con un crono­ metro in mano [...]. Treni sospesi in aria, treni sopraelevati, treni sot­ terranei, sistemi di posta pneumatica che recapitano esseri umani, ca­ tene di veicoli a motore che corrono tutti insieme orizzontalmente, ascensori espresso che pompano verticalmente folle da un livello di

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traffico all’altro [...]» (citato in Kern 1983, pag. 127). In realtà stava descrivendo il tipo di organizzazione dei flussi spaziali corrispondente alla rappresentazione simmeliana delle esigenze temporali della metro­ poli moderna. «Il flusso costante e ininterrotto stava diventando l’esi­ genza universale di tutta l’America» dice Jackson (1972, pag. 238), e ingegneri e pianificatori posero al vertice del loro sapere professionale la scienza di questi flussi di beni, persone, informazioni, processi pro­ duttivi (Stilgoe 1983, pag. 26). Da questo punto di vista gli Stati Uniti si affermarono rapidamente come «la forma di esistenza più moderna delle società borghesi» (Marx 1978, vol. I, pag. 32). Gertrude Stein (1974, pagg. 93-95) era più o meno d’accordo. «Il ventesimo secolo è diventato il secolo americano» scrisse, ed «è qualcosa di strettamente americano concepire uno spazio sempre pieno di movimento». I per­ sonaggi di Sulla strada di Kerouac (1997), nella loro corsa frenetica da una costa all’altra degli Stati Uniti, sono espressioni viventi di questo spirito: «[...] lasciavamo indietro la confusione e la mancanza di senso, e svolgevamo la nostra unica e sola funzione nobile dell’epoca, muo­ verci». Una simile corsa al movimento implicava naturalmente la disso­ luzione di qualsiasi senso tradizionale di comunità. «Non c’era nessun luogo dove andare, se non ovunque» scrive Kerouac, e i sociologi e i pianificatori urbani si affrettarono tardivamente a mettersi all’altezza di concetti come la «comunità senza vicinanza» di Webber, situata nel «non luogo del contesto urbano». La comunità definita dal denaro è evidentemente tale che l’organiz­ zazione dello spazio e del tempo, compreso il privilegio del secondo sul primo, acquista determinate qualità. Il denaro, a sua volta, non è indi­ pendente da queste qualità, poiché esso non rappresenta altro che lavo­ ro sociale astratto, tempo di lavoro socialmente necessario, sviluppato­ si, come dice Marx (1973), «nella misura in cui il lavoro concreto diven­ ta una totalità di diversi modi di lavorare estesa al mercato mondiale». Le interrelazioni tra denaro, tempo e spazio formano quindi reti che si intersecano tra loro, portatrici delle qualità specifiche che formano il complesso della vita sociale come la conosciamo. Ma i vincoli posti da questa forma non passano inosservati, e qualcuno li sfida. Ora dobbia­ mo occuparci di queste sfide.

4. Reazione e rivolta

Mentre la comunità definita dal denaro nel tempo e nello spazio consen­ te ogni tipo di libertà, i vincoli imposti dall’intreccio delle reti spaziale, cronologica e monetaria sono repressivi in modo sufficiente da generare

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reazioni e rivolte. Di quando in quando gli spezzoni di resistenza si uni­ scono e ne scaturisce la rivendicazione di una società alternativa, sogget­ ta a regole diverse, al di fuori e oltre il discorso razionale e le discipline e i vincoli della comunità del denaro. È interessante notare che gli elemen­ ti utopici presenti in proposte e attività di questo genere contengono quasi sempre la ricerca di una nozione di valore, e di modi di operare nel tempo e nello spazio diversi da quelli che sempre più si sono impadroni­ ti di ogni aspetto della vita sociale. L’appiattimento cinico di tutte le attività e di tutte le esperienze uma­ ne sulle qualità prive di cuore e di colore del denaro è sempre stato diffi­ cile da accettare. «Nell’essenza del denaro si percepisce qualcosa dell’es­ senza della prostituzione» scrive Simmel (1984, pag. 537), e Marx (1978, vol. I, pagg. 105-106) esprime un sentimento analogo. Anche Baudelaire toma spesso su questo tema. Di qui deriva «un profondo, nostalgico de­ siderio di conferire alle cose una nuova significatività, un senso più profondo, un valore proprio» diverso dalla «vendita e sradicamento dei valori personali» (Simmel 1984, pagg. 574-575). «Il commercio» dice Baudelaire (1982, pagg. 89, 99), «è per essenza satanico». E «una delle forme dell’egoismo, la più bassa e la più vile» in cui «l’onestà stessa è una speculazione lucrativa». «Fra gli uòmini» aggiunge «grandi sono soltanto il poeta, il prete e il soldato. L’uomo che canta, l’uomo che sa­ crifica e si sacrifica». Simmel (1984, pag. 149) attribuisce a questo grido di dolore un significato psicologico più profondo. «Nello scambio e nel pagamento ci si sottomette a una norma oggettiva nei confronti della quale la personalità forte e autonoma deve retrocedere e molto spesso non è affatto disposta a ciò. Per questo, le nature molto aristocratiche e volitive disdegnano lo scambio». Il criminale, il ladro, il rivoluzionario messianico, anche il finanziere truffatore suscitano tanta ammirazione segreta quanta riprovazione pubblica, soprattutto quando le loro impre­ se sono svolte in modo spettacolare.2 La possibilità di vivere una vita che «non ha bisogno di chiedersi il valore monetario delle cose» commenta Simmel (1984, pag. 322) esercita «un fascino estetico straordinario», e Baudelaire visse in prima persona questa estetica, essendo insieme un 2 Chevalier (1976) suggerisce che la particolare paura provata dai borghesi del XIX secolo nei confronti delle classi criminali dipendeva dall’idea che ci fosse un mondo sot­ terraneo, alternativo e sovversivo, che costituiva una forma di società completamente di­ versa da quella voluta dalla cultura borghese. Balzac scrive che «i ladri formano ima re­ pubblica con i suoi modi c i suoi costumi; essi rappresentano sulla scena sociale un rifles­ so di quei.briganti il coraggio, le persone, le imprese e le grandi qualità dei quali saranno sempre ammirati. I ladri hanno il loro linguaggio, i loro capi e la loro polizia, e a Londra, dove sono meglio organizzati, hanno anche i loro funzionari, il loro parlamento e i loro deputati» (cit. in Chevalier 1976, pagg. 70-71).

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poeta povero e un finissimo dandy. I sentimenti di reazione e i gesti di sfida contro la stupida razionalità del calcolo monetario abbondano nel mondo contemporaneo. La reazione contro la rete cronologica stretta attorno a tutti gli aspetti della vita sociale è stata altrettanto energica. Sono stati necessari decenni prima che i lavoratori qualificati inglesi, per esempio, rinun­ ciassero al loro “diritto” al blue monday di assenza dal lavoro, e in certe occupazioni, come le miniere e l’edilizia, l’assenteismo e l’occupazione intermittente sono così normali da non suscitare commenti particolari. E all’interno del processo lavorativo la lotta su ogni minuto e su ogni istante è continua e violenta, tanto che i datori di lavoro anche in anni recenti sono stati costretti alle più diverse concessioni (tempi flessibili, circoli di qualità) per contenere lo spirito di rivolta. Anche tra le fila della borghesia vi sono state molte voci, come quella di Simmel, che si sono preoccupate della rigida disciplina dell’orologio, quando non vi si sono rivoltate contro. «A ogni minuto» si lamentava Baudelaire (1982, pag. 65) «siamo schiacciati dall’idea e dalla sensazione del Tempo», pensando che la sua apparente scarsità nascesse dal ritmo e dallo stile della vita moderna, in cui «si può dimenticare il Tempo solo usandolo». «Per qualche tempo fu di moda» segnala Benjamin (1973) tra i parigini degli anni attorno al 1840, esprimere il disprezzo per la di­ sciplina del tempo portando «tartarughe a spasso per i passages». So­ prattutto alla fine del XIX secolo, gli intellettuali borghesi cercarono rifu­ gio dal dominio del tempo pubblico universale e astratto nell’esplorazio­ ne soggettiva del loro senso personale del tempo. E il caso di Joyce e Proust. Conrad esprime in maniera più aperta questo senso di rivolta, assegnando all’anarchico dell’Agente segreto l’impresa di far saltare il meridiano di Greenwich. Ma anche se il nostro modo di pensare al tem­ po non è più stato lo stesso, questo spirito di rivolta, che Kern (1983) tra gli altri descrive ampiamente, si è nutrito di un contesto in cui esso stava diventando sempre più razionalmente e universalmente definito. Ciò che gli intellettuali scoprirono, era in realtà evidente alla classe operaia da intere generazioni: occorrono soldi per poter avere tempo libero, cioè una liberazione reale e non immaginaria dalla rigida disciplina del tempo pubblico organizzato. Da questo punto di vista il povero Baudelaire vis­ se un doppio dolore: disprezzando il denaro, fu sempre privo dei mezzi per mettersi al di fuori di questa disciplina. Non desta meraviglia il fatto che non abbia mai smesso di tuonare contro la volgarità del materiali­ smo borghese e che abbia eletto a eroi il dandy e il flaneur. Sia nel pensiero che nell’azione sociale la possibilità di appropriarsi dello spazio è stata sempre ritenuta una libertà importante e vitale. La possibilità di aggirarsi per le vie della città senza temere guai non è neces-

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sanamente data dal denaro. In effetti, si verificano spesso situazioni in cui i meno privilegiati della gerarchia sociale sono quelli che hanno più libertà da questo punto di vista (Cobb 1975, pag. 126). La restrizione della libertà di appropriarsi dello spazio dovuta alla proprietà privata e ad altre forme di dominio e di controllo sociale, comprese quelle eserci­ tate dallo stato, determina spesso movimenti sociali di protesta: dalla riappropriazione del centro di Parigi durante la Comune operata dalle classi popolari espulse dai lavori di Haussmann, fino ai sit-in per i diritti civili e alle dimostrazioni all’insegna del “riprendiamoci la notte”. Al centro di numerosi movimenti di protesta urbani e di molti conflitti localisti e comunitari c’è la volontà di rivendicare la liberazione dello spazio da questa o quella forma di dominio, di ricostruirlo in una nuova figura, o di proteggere spazi privilegiati da qualche minaccia esterna o dalla dis­ soluzione interna (Lefebvre 1974; Castells 1983). E dato che la frammen­ tazione dello spazio che ne accompagna l’omogeneizzazione ha consenti­ to la formazione di isole protette al di fuori di ogni controllo sociale di­ retto, sono venute alla luce infinite visioni sovversive della comunità e del suo territorio. Innumerevoli gruppi di opposizione, anarchici come Kro­ potkin (1968), donne come quelle descritte da Hayden (1981), movi­ menti comunitari come i gruppi religiosi e laici, per esempio i cabetisti, che hanno avuto un ruolo così importante nella nascita degli Stati Uniti, il movimento alternativo che ha creato le “comuni” degli anni sessanta: tutti hanno cercato di liberare spazio, e di appropriarsene per i propri fi­ ni. In questo modo essi hanno creato una sfida attiva alla pretesa omoge­ neità dello spazio astratto e universalizzato. Simili movimenti sociali devono essere interpretati a partire da ciò contro cui si rivoltano. La ricerca di una “comunità autentica” e del “senso del territorio” diventa sempre più pressante nella misura in cui aumenta la percezione dell’egemonia della comunità del denaro e della distruzione dello spazio assoluto sotto il dominio del denaro stesso. E la ricerca ha prodotto alcuni risultati parziali. Gli abitanti delle città han­ no riscoperto i legami di parentela (Hareven 1982) e hanno creato nuo­ ve reti di contatti sociali (Fischer 1982). Sono nate nuove comunità che spesso sono riuscite a occupare spazi protetti da simboli e segni finaliz­ zati a sottolineare le qualità speciali del luogo e del vicinato: dalle porti­ nerie ai muri di cinta, dai nomi delle strade ai codici postali. Simmel (1984) sottolinea che lo stile e la moda urbani sono efficaci strumenti per reintrodurre le distinzioni sociali che la democrazia del denaro ten­ de a cancellare. È nato così il senso moderno della “comunità”, tanto caro ai sociologi, i quali comunque hanno avuto bisogno di parecchio tempo per liberarsi dal pregiudizio secondo cui solo la campagna è la vera incarnazione della comunità autentica, mentre la città è il luogo

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della frattura sociale, del puro individualismo e dell’anomia. Gans (1962) ha espresso in The Urban Villagers ciò che da tempo gli osserva­ tori attenti della scena urbana avevano notato: la lotta per creare luoghi e comunità protetti viene combattuta sempre più accanitamente nelle aree urbane, come la Londra di Gissing, mentre è ormai data per persa nelle aree rurali, come il Wessex di Hardy. In simili condizioni la fami­ glia può assumere nuovi significati: diventa il «rifugio in un mondo sen­ za cuore» (Lasch 1995), un centro di socialità in cui i problemi di dena­ ro, tempo e spazio possono essere affrontati in modo del tutto diverso che nella vita pubblica (Hareven 1982). Nei circoli intellettuali è stata diffusa e duratura la rivolta contro la razionalità propria della comunità del denaro, razionalità che come ab­ biamo visto riguardava anche la concezione del tempo e dello spazio, oltre a quella del valore. Se Auguste Comte, il padre del positivismo, ha posto i banchieri alla testa della sua società utopica (utopia che oggi sembra realizzarsi concretamente), molti altri, da Carlyle e Ruskin a William Morris e Nietzsche, fino a Heidegger e Sartre, hanno avuto un’opinione del tutto diversa in proposito. Se i liberali, questi «portato­ ri storici dell’intellettualismo e del traffico monetario», come li chiama Simmel (1984, pag. 612), sono stati disposti a «perdonare tutto perché comprendono tutto», e a rappresentarlo in un discorso scientifico og­ gettivo e privo di passione, altri, dai conservatori ai marxisti, hanno messo in discussione entrambe le cose, con una passione che i liberali hanno trovato sconcertante e di cattivo gusto. I movimenti che respingono la razionalità e cercano rifugio nel mi­ sticismo, nella religione o in qualche altra ideologia trascendente o inti­ mista pongono problemi maggiori. Le alternative religiose, o le propo­ ste di comunità alternative a quella del denaro, sono numerose, e spesso generano attività sociali che si pongono al di fuori dei parametri razio­ nali prevalenti nella vita moderna. Anche il fascismo stabilisce un senso di comunità alternativo a quello del denaro, esalta i luoghi assoluti (il suolo, la patria), fa appello a un senso del tempo storico completamen­ te diverso, in cui ha un ruolo importante la ripresa del mito, e venera valori superiori a quelli incarnati nel denaro. Lungi dall’essere una di­ retta espressione del capitalismo, il fascismo come ideologia esprime un’opposizione violenta alla razionalità implicita nella comunità del de­ naro, e i simboli storici di questa, ebrei e intellettuali, vengono conse­ guentemente perseguitati. Anche i marxisti sono alla ricerca di una so­ cietà in cui il valore della vita umana sia stimato in modo diverso. Seb­ bene normalmente essi abbiano esaltato l’idea di una pianificazione razionale, in pratica hanno abbracciato spesso definizioni nazionaliste della comunità, tanto contrarie al loro stesso internazionalismo ideolo­

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gico quanto lo sono all’universalità del denaro. In effetti, non vi è stato un movimento culturale, politico o sociale di contestazione che in qual­ che modo non abbia avuto alle sue radici il desiderio di superare la for­ ma-denaro e le concezioni dell’uso dello spazio e del tempo proprie della sua razionalità. Il colore e l’esuberanza deUa vita moderna deriva­ no in buona parte proprio dallo spirito di reazione e di rivolta contro il potere opaco e incolore, ma irresistibile, del denaro e dello spazio e del tempo astratti e universali. Ma questi movimenti sociali, per quanto ben articolate siano le loro rivendicazioni, vengono a scontrarsi con un paradosso che sembra ine­ vitabile. Non solo la comunità del denaro li definisce, sia pur in senso negativo, ma se vogliono avere successo devono confrontarsi direttamente col potere sociale del denaro. Sarà anche senza cuore e senza co­ lore, ma il denaro rimane la principale fonte di potere sociale e quelli che Marx chiama i suoi «effetti dissolventi» sono sempre all’opera al­ l’interno della famiglia o delle “comunità autentiche” alternative che i gruppi sociali cercano di formare. Questa tendenza è scritta a grandi lettere nella storia di innumerevoli organizzazioni: le comuni che crolla­ no per problemi di finanziamento, o si trasformano in imprese efficien­ ti; le organizzazioni religiose che diventano così ossessionate dall’accu­ mulazione di denaro da tradire completamente il messaggio che pro­ pongono; i governi socialisti che giungono al potere con nobili progetti per poi scoprire di non avere denaro per portarli avanti. Tutti i movi­ menti d’opposizione hanno fallito quando si sono scontrati con la roc­ cia del denaro, fonte centrale e universale del potere sociale. Serve denaro, si può quindi concludere, per costruire qualsiasi alter­ nativa alla società fondata sulla comunità del denaro. Questa è la verità essenziale che tutti i movimenti sociali per non soccombere devono af­ frontare. Forse il denaro è, come sostengono i moralisti, la fonte di tutti i mali, ma sembra essere anche l’unico strumento per fare del bene. Zo­ la (1996a) lo ha compreso molto chiaramente: Madame Caroline fu colpita dalla rivelazione improvvisa che il denaro era il letamaio che nutriva la crescita dell’umanità futura Senza la speculazione non ci potrebbero essere imprese eccitanti e fruttuose, proprio come senza piacere non ci potrebbero essere figli. Per assicura­ re la continuazione della vita è stato necessario questo eccesso di passio­ ne, questa vita orribilmente sprecata e persa [...]. Il denaro, assassino e distruttore, stava diventando la culla di tutti i tipi di sviluppo sociale. Era il concime necessario per alimentare i grandi lavori pubblici che stavano unendo tutti i popoli del mondo e portando la pace sulla terra. Essa aveva maledetto il denaro, ma ora vi si prostrava di fronte in un’a­ dorazione spaventata: solo il denaro può radere al suolo tuia montagna,

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riempire un braccio di mare, rendere la terra inabitabile per l’umanità [...]. Tutto ciò che è buono deriva da qualcosa di malvagio.

L’amore e il denaro forse fanno girare il mondo, sembra dire Zola, ma l’amore del denaro fornisce l’energia pura che sta al centro del vortice.

Denaro, spazio e tempo come fonti di potere sociale Non c’è bisogno di dimostrare che il possesso di denaro dà un potere sociale enorme a chi lo detiene. Marx (1980a, pag. 153) fa una parodia dei suoi poteri magici che in fondo non è molto lontana dalla realtà, quando scrive che [...] quanto è grande il potere del denaro, tanto grande è il mio potere [...]. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comprarsi le persone intel­ ligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il denaro non trasforma tutte le mie deficien­ ze nel loro contrario?

Il potere sociale del denaro è sempre stato oggetto di un desiderio cari­ co di libidine e di avidità. E così che l’astrazione concreta del denaro prende potere su di noi. Ma che ne è dello spazio e del tempo? Una volta costruiti come astrazioni sociali all’interno della comunità del denaro, non diventano anch’essi fonti di. potere sociale? Coloro che li dominano non possiedo­ no anche un forte potere di controllo sociale? Questa tesi richiede quanto meno di essere brevemente dimostrata. La dimostrazione non sarà completa, comunque, se non teniamo presente che ciò che in defi­ nitiva conta sono le connessioni tra il comando di denaro, spazio e tem­ po come fonti tra loro legate di potere sociale.3 Il denaro può essere uti­ lizzato per disporre di tempo, compreso quello degli altri, e di spazio, 3 Ho il sospetto che proprio queste connessioni siano alla base del fascino provato da Benjamin (1973) per le figure del dandy, del flaneur e del giocatore d’azzardo della cultura del XLX secolo. Benjamin scrive, per esempio, che «alla fantasmagoria dello spa­ zio, da cui è dipendente il flàneur, corrisponde la fantasmagoria del tempo, cui si dedica il giocatore. Il gioco d'azzardo trasforma il tempo in una droga».

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mentre la disponibilità di tempo e spazio può facilmente essere di nuo­ vo trasformata in denaro. Lo speculatore immobiliare che ha denaro e può permettersi di aspettare, e che può influire sull’utilizzo degli spazi adiacenti al suo, si trova in una situazione migliore di quella di un suo collega cui manchi il potere in una di queste dimensioni. Il controllo dello spazio, come sanno tutti i generali e gli studiosi di geopolitica, è di importanza strategica in qualsiasi lotta per il potere. Lo stesso principio si applica al mondo dello scambio di merci. Ogni diret­ tore di supermercato sa che il controllo di uno spazio strategico all’inter­ no della costruzione generale dello spazio sociale vale tanto oro quanto pesa. Questo valore dello spazio è alla base della rendita fondiaria. Ma la concorrenza spaziale è sempre una concorrenza monopolistica, perché due funzioni non possono mai occupare esattamente la stessa posizione. La conquista di spazi strategici può dare molto più della corrispondente aliquota di controllo. Il conflitto tra diversi interessi ferroviari nel XIX se­ colo fornisce numerosi esempi pratici di questo principio, e Tarbell (1904, pag. 146) raffigura Rockefeller «piegato su una carta geografica, che [pianifica] con precisione militare la conquista delle posizioni strate­ giche sulla mappa delle raffinerie della East Coast». Il controllo di por­ zioni strategiche di terreno all’interno della matrice urbana conferisce un potere immenso su tutta la struttura dello sviluppo. E anche se la li­ berazione dello spazio e la distruzione del tempo cancellano a lungo an­ dare qualsiasi potere fondato sul controllo di spazi strategici, l’elemento monopolistico si ricrea di continuo: il controllo della produzione di or­ ganizzazione spaziale diventa infatti fondamentale per la creazione di nuovi monopoli spaziali. L’importanza di questo potere monopolistico sta proprio nel fatto che esso dà vita alla rendita di monopolio, e che quindi può essere convertito in denaro. D’altra parte, come sottolinea Lefebvre (1974), lo spazio prodotto della società è anche quello della riproduzione sociale. Pertanto il con­ trollo sulla creazione di questo spazio conferisce un determinato potere sui processi di riproduzione sociale. Vediamo questo principio all’ope­ ra nelle circostanze sociali più disparate. L’organizzazione dello spazio nella dimora familiare dice molto delle relazioni di potere e di genere interne alla famiglia, per esempio, e la sua organizzazione simbolica può rendere direttamente percepibili strutture gerarchiche di autorità e pri­ vilegio. Il controllo dell’organizzazione dello spazio e l’autorità sul suo utilizzo sono strumenti cruciali per la riproduzione dei rapporti sociali di potere. Lo stato o qualche altro gruppo sociale, come i finanzieri, gli imprenditori immobiliari o i proprietari fondiari possono quindi na­ scondere il loro potere di determinare la riproduzione sociale dietro l’apparente neutralità del loro potere di organizzare lo spazio (Lefebvre

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1974). Solo in certi momenti particolari emerge la natura non neutrale della creazione dello spazio: è il caso delle grosse manipolazioni dei confini politici, della distruzione di spazi di opposizione da parte di un potere superiore, come la soppressione della Comune di Parigi o i re­ centi tentativi di sciogliere il Greater London Council, della corruzione sistematica nella concessione di licenze edilizie. Il potere di dare forma allo spazio si mostra in questi casi come uno dei più forti poteri di con­ trollo sulla riproduzione sociale. E proprio su queste basi che ingegneri, architetti e pianificatori, coloro cioè che hanno le capacità professionali e intellettuali richieste per dare forma materiale ed effettiva allo spazio, possono acquisire potere e trasformare la loro conoscenza specialistica in vantaggi finanziari. Il rapporto tra comando di denaro e comando di tempo come fonti di potere sociale è altrettanto importante. Coloro che possono permet­ tersi di aspettare hanno sempre un vantaggio su coloro che non possono. Questo è molto evidente nel caso degli scioperi e delle serrate: i lavorato­ ri, se non dispongono di buone riserve di denaro, possono presto trovar­ si ridotti alla fame, mentre i proprietari, anche se i loro profitti sono bloc­ cati, possono sempre sedersi a tavola per la cena. I capitalisti possono continuare a disporre del tempo di pluslavoro dei lavoratori anche per­ ché possono aspettarli durante le fasi di lotta di classe attiva. Il medesimo principio vale per la borghesia. Il commerciante che può permettersi di aspettare un pagamento ha un forte vantaggio su chi non ha questa pos­ sibilità, e nei momenti di crisi gli imprenditori finanziariamente solidi so­ no in grado di disporre dei rivali costretti a rincorrere i loro debitori: in questo modo James Rotschild potè impossessarsi nel 1867 del Crédit Mobilier di Pereires. I differenziali di capacità di comandare tempo rinforzano la gerarchia del potere monetario all’interno della borghesia. Tra i lavoratori, e all’interno della famiglia, si trovano dinamiche si­ mili. Per esempio, il significato dello strano concetto di “formazione di capitale umano’’ è che chi può permettersi di differire gratificazioni presenti ha la possibilità di acquisire competenze che possono essere al­ la base di un miglioramento futuro delle sue opportunità di vita. In ef­ fetti, i lavoratori usano il loro tempo o quello dei loro figli nella speran­ za, a volte vana, che l’istruzione determinerà sul lungo periodo un au­ mento del loro potere monetario. L’organizzazione del denaro e del tempo all’interno della famiglia, per questi e altri fini, è dunque estre­ mamente complessa: infatti, come mostra Hareven (1982), esistono di­ verse sostituibilità tra i membri di una famiglia (la capacità di mobilita­ re tempo non è sempre questione di denaro), e si possono individuare modi diversi di ottenere vantaggi in denaro. Anche se i lavoratori sala­ riati maschi possono ritenere che il fatto di portare a casa i soldi dia lo­

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ro il diri tto di disporre del tempo di moglie e figli, il tempo di lavoro ca­ salingo delle donne può essere visto come una risorsa cruciale a disposi­ zione della famiglia, perché dà al tempo degli altri la possibilità di otte­ nere denaro sul mercato (Pahl 1984). Non c’è da stupirsi quindi del fat­ to che i rapporti tra la disponibilità di denaro e quella di tempo rappresentino un’area decisiva di conflitto di genere. Pertanto, mentre molti borghesi sciupano il “tempo libero” concesso loro dalla ricchezza monetaria in forme di spreco effimero e lussuoso, at­ tività giudicate vergognose se svolte dai lavoratori, ci sono anche coloro che lo dedicano alla scienza, all’arte e alla cultura, con risultati che pos­ sono essere a loro volta convertiti in potere, nei contesti della conoscen­ za scientifica, della tecnologia e dell’ideologia. Il potere sul tempo dedi­ cato alla ricerca e alla produzione culturale, compreso il potere di di­ sporre a questi fini di tempo altrui, è vitale nella riproduzione sociale, di cui sono in possesso i ricchi e lo stato. Molti artisti e ricercatori hanno cercato di ribellarsi contro l’egemonia del potere monetario sul loro tempo. Quelli che hanno avuto successo sono stati, ovviamente, coloro che hanno trasformato in una sorta di potere monopolistico la loro pre­ parazione nelle tecniche finalizzate a disporre efficacemente del tempo altrui: ciò che ha permesso loro di ottenere un prezzo di monopolio. Qui sta il significato della compravendita di competenze scientifiche sull’uso migliore di tempo, spazio e denaro nella società contemporanea. Il denaro, il tempo e lo spazio sono le astrazioni concrete che danno forma alla vita quotidiana: universali, oggettive e quantificabili in modo dettagliato. Ciascuna acquisisce queste peculiari qualità in virtù dell’a­ zione di determinate attività sociali dominanti, le più importanti delle quali sono lo scambio di merci e la divisione sociale del lavoro. I prezzi, i movimenti dell’orologio, i diritti a spazi ben delimitati sono i fenome­ ni sociali che formano il quadro in cui noi agiamo e ai cui segni e signi­ ficati siamo tenuti a rispondere, come a poteri esterni alla nostra co­ scienza e alla nostra volontà. Non importa quanto possa bruciare lo spi­ rito della reazione e della rivolta: le norme rigide definite da queste astrazioni concrete sono ormai così radicate da sembrare prodotte dalla natura. Sfidare queste norme, e le astrazioni concrete su cui sono fon­ date, significa attaccare i pilastri centrali della nostra vita sociale. Ma le astrazioni concrete del denaro, del tempo e dello spazio non sono definite indipendentemente l’una dall’altra. Il denaro, per esempio, nasce dallo scambio e dalla divisione spaziale del lavoro, e rappresenta tempo di lavoro sociale. Alla stessa stregua la formazione del mercato mondiale dipende direttamente dalla nascita di una forma monetaria adeguata, e dalla diffusione delle condizioni psicologiche indispensabili perché ne venga fatto un uso corretto. Mi soffermo sul significato di

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queste interrelazioni non solo perché altri studiosi, come gli economisti neoclassici o la maggior parte dei geografi, tendono spesso a ignorarle, ma anche perché i rapporti di potere tra individui, gruppi e anche intere classi, e la capacità che ne consegue di trovare sentieri percorribili di tra­ sformazione sociale, sono definiti dall’intreccio delle reti monetarie, spa­ ziali e cronologiche che stabiliscono i parametri dell’azione sociale. An­ che l’agente segreto di Conrad, che voleva far saltare in aria il meridiano di Greenwich, potrebbe rimanere stupito dal caos provocato da quell’e­ splosione.

6. La circolazione e l’accumulazione del capitale Cosa succede se introduciamo in questo quadro teorico la circolazione e l’accumulazione del capitale? I capitalisti devono sicuramente usare il potere sociale del denaro, e prestare grande attenzione al controllo di tempo e spazio come fonti di potere sociale.4 Ma l’attività del capitalista dà al denaro, al tempo e allo spazio significati ancora più specifici, in qualche caso più restrittivi, di quelli che essi hanno nella semplice co­ munità del denaro. Contemporaneamente, questa attività crea incoe­ renze e contraddizioni nelle reti intrecciate del potere sociale. Non tutto il denaro è capitale. Il capitale è il potere sociale del dena­ ro impiegato per produrre ancora denaro, solitamente per mezzo di una forma di circolazione nella quale il denaro è usato per acquistare merci (forza-lavoro e mezzi di produzione) che, combinate in un deter­ minato processo produttivo, creano una nuova merce da vendersi per un profitto. L’importanza di questa forma di circolazione può essere di­ mostrata dal fatto che la maggior parte delle merci su cui si fonda la vi­ ta quotidiana nel capitalismo avanzato è prodotta in tal modo. Marx mette a nudo le caratteristiche essenziali di questo modo di produzione e di circolazione. La continua ricerca di profitto implica “ac­ cumulazione per l’accumulazione”, cioè la continua espansione nel cor­ so del tempo del valore e della quantità del prodotto. La crescita logisti­ ca, necessaria per mantenere la stabilità, è normalmente giudicata inevi­ tabile e buona. Ma l’espansione ha luogo grazie allo sfruttamento della forza-lavoro nella produzione. Ciò presuppone a sua volta la compravendita di forza-lavoro come merce, un rapporto di classe tra capitale e lavoro, e un conflitto tra i due, nel processo e nel mercato del lavoro. La

4 Questo è uno dei temi più profondi, di rado riconosciuto come tale, dei Manoscritti economico-fìlosofici di Marx.

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lotta di classe, unita alla concorrenza intercapitalistica, costringe il siste­ ma al dinamismo tecnologico, e i mutamenti tecnologici sono giudicati inevitabili e positivi. Marx è riuscito a mostrare come e perché questo si­ stema è necessariamente instabile. Il mutamento tecnologico tende ad allontanare il lavoro vivo, che è l’agente dell’espansione, dalla produzio­ ne, e quindi mette in crisi la capacità espansiva del sistema. Le crisi pe­ riodiche sono dunque inevitabili tanto quanto la doppia spinta verso la crescita logistica e la rivoluzione tecnologica (cfr. Harvey 1982,1985). Il capitalismo produce quindi un senso sempre più universale di quello che Hareven (1982) chiama «tempo storico». I ritmi ciclici di prosperità e depressione danno luogo a periodiche trasformazioni del processo lavorativo. Dal 1848 al 1933, e dal 1933 a oggi, il mondo ha conosciuto una sincronizzazione crescente delle sue attività economi­ che. Le nostre esperienze, le possibilità di vita, perfino la capacità intel­ lettuale, dipendono sempre più dalla nostra posizione sulle curve di crescita logistica e dalle loro periodiche interruzioni e cadute verso crisi e confusione. La rete temporale di possibilità sembra sempre meno aperta e sempre più attaccata all’andamento, regolato da leggi ferree, dello sviluppo diacronico del capitalismo. Tutta questa storia ha luogo in una geografia che va incontro a tra­ sformazioni radicali. Il capitalismo, dice Marx (1978), accelera necessa­ riamente l’integrazione spaziale nel mercato mondiale, la conquista e la “liberazione” dello spazio, e la distruzione dello spazio operata dal tem­ po. Malgrado ciò, il significato dello spazio aumenta anziché diminuire. Il capitalismo, dice Lefebvre (1976) sopravvive «solo perché occupa spazio, perché produce spazio». La capacità di trovare un “appoggio spaziale” per le sue contraddizioni si è rivelata una delle sue armi vin­ centi (cfr. Harvey 1982; 1985). Mentre la comunità del denaro implica la creazione di un mercato mondiale, la comunità del capitale richiede l’approfondimento e l’ampliamento geografico di processi sempre più veloci di accumulazione del capitale. Anche se i ritmi temporali e spaziali di espansione e di contrazione sono dati, in linea di massima, dalle leggi dell’accumulazione, vi sono una quantità di tensioni in senso contrario che rendono la geografia sto­ rica del capitalismo qualcosa di imprevedibile e spesso incoerente. Se, per esempio, la condizione fondamentale della crisi è la sovraccumula­ zione, cioè l’esistenza contemporanea di un eccesso di capitale e di la­ voro, simili surplus possono essere assorbiti con uno spostamento tem­ porale, tramite investimenti a lungo termine finanziati dal debito, con un’espansione spaziale, tramite la creazione di nuovi spazi, o con la combinazione di entrambi. Quale sia prevalente, e dove, non può esse­ re specificato a priori. Possiamo dire che i meccanismi della crescita ur­

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bana, e dell’indebitamento che la rende possibile, e della costruzione geografica, periferica o in un sistema di città, sono radicati in questo processo generale. Esistono però altre tensioni. Pensiamo per prima cosa al tempo che il capitale impiega per completare la sua circolazione da denaro a dena­ ro più profitto. Ogni processo lavorativo ha il suo tempo di rotazione, e la frammentazione crescente nella divisione del lavoro pone gravi pro­ blemi di coordinamento, per di più in un contesto in cui il profitto è l’unico obiettivo. Le difficoltà sono superate ricorrendo di nuovo al de­ naro. Viene in primo piano il sistema del credito, che coordina tempi di rotazione divergenti. L’accelerazione del tempo di rotazione, inoltre, produce vantaggio competitivo e diventa quindi uno scopo del muta­ mento tecnologico. L’accelerazione, peraltro, dipende in larga misura dal dispiegamento di capitale fisso, il cui tempo di rotazione è molto lento. Anche qui i problemi tecnici che si incontrano nel mettere a pun­ to simili investimenti vengono risolti rivolgendosi al sistema del credito. La peculiare relazione tra tempo e denaro è messa all’opera. Ma ne vie­ ne una tensione, perché la circolazione di parte del capitale dev’essere rallentata per accelerare quella dell’altra parte. In questo gioco non c’è necessariamente un guadagno netto. Si sviluppa la spinta ad accelerare il tempo di rotazione del capitale fisso, a svalutarlo sempre più veloce­ mente, e indipendentemente dal suo tempo di vita fisico, e persino a so­ stituirlo prima che il suo tempo di vita economico si sia concluso. Le macchine, gli edifici e persino intere infrastrutture e stili di vita urbani sono resi prematuramente obsolescent!: per la sopravvivenza del siste­ ma diventa necessaria la “distruzione creativa”. La capacità di mettere in moto processi di questo genere dipende da condizioni interne al si­ stema del credito: la domanda e l’offerta di denaro-capitale, il tasso di crescita della massa monetaria, e così via. I ritmi ciclici di investimento e disinvestimento in macchine e ambiente costruito si collegano ai mo­ vimenti del tasso d’interesse, all’inflazione e alla crescita dell’offerta di moneta, e dunque alle fasi di espansione e di disoccupazione. Orizzonti temporali sempre più rigidi sono definiti dal sistema del credito. Ma ve­ diamo anche che il significato del valore e la stabilità del denaro in quanto sua misura, cioè la sua svalutazione a opera dell’inflazione, di­ ventano più elastici in risposta al mutamento degli orizzonti temporali. Le astrazioni concrete del tempo e del denaro si intrecciano sempre più strettamente. Pensiamo poi a come le pressioni provenienti dalla circolazione del capitale portino alla distruzione sistematica dello spazio per mezzo del tempo. Anche qui però incontriamo una contraddizione. Lo spazio può essere superato solo producendo altro spazio, fatto di sistemi di cornu-

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nicazione e di infrastrutture fisiche inserite nella terra. I paesaggi natu­ rali sono sostituiti da ambienti costruiti, cui dà forma la concorrenza ri­ spetto alle esigenze di un’accumulazione sempre più veloce. La “polve­ rizzazione” e la frammentazione necessarie per rendere omogeneo lo spazio devono assumere una forma definita. La proprietà fondiaria dev’essere sottomessa al potere del denaro come forma di proprietà su­ periore, e la terra diventa una forma di “capitale fittizio”: il controllo della produzione di spazio si trasferisce così all’interno del sistema del credito. Lo sviluppo ineguale dello spazio diventa la principale espres­ sione della sua omogeneità. Nelle aree urbane si creano immense con­ centrazioni di forze produttive e di forza-lavoro, e insieme si ha la mas­ sima dispersione spaziale possibile dei flussi di merci, in una gerarchia urbana organizzata e spazialmente articolata al fine di minimizzare il tempo di rotazione. Questo paesaggio rigido di sviluppo ineguale di­ venta poi la barriera da superare. E viene superata, ma solo per mezzo degli stessi processi di “distruzione creativa” che lavano via dagli impe­ gni presenti il peso morto degli investimenti passati. La distruzione del­ lo spazio da parte del tempo procede a ritmo serrato. Ma adesso a veni­ re distrutti sono gli spazi creati dal capitalismo, quelli della sua stessa ri­ produzione. Pensiamo ora alle conseguenze sociali di queste doppie contraddi­ zioni. Lo spazio può essere superato solo tramite la produzione di uno spazio rigido, e il tempo di rotazione può essere accelerato solo irrigi­ dendo nel tempo una parte del capitale totale. Queste rigidità spazio­ temporali possono essere superate solo dall’autodistruzione creativa. Si vede la solidità materiale di un edificio, di un canale, di un’autostrada, e dietro a questa compare l’insicurezza nascosta nella circolazione del ca­ pitale, che chiede sempre: quanto si rimarrà ancora in questo spazio re­ lativo? Alla corsa attraverso lo spazio degli esseri umani corrisponde ora un ritmo di trasformazione sempre più veloce dei paesaggi costruiti attraverso i quali essi corrono. Processi tra loro diversi come la subur­ banizzazione, la deindustrializzazione e la ristrutturazione, la residenzializzazione e il rinnovamento urbano, per non dire della riorganizza­ zione totale della struttura spaziale della gerarchia urbana, sono parte di un processo generale di continua ridefinizione dei paesaggi geografi­ ci, per mantenere il ritmo dell’accelerazione del tempo di rotazione. La distruzione dei luoghi familiari e degli spazi sicuri di riproduzione so­ ciale provoca lamenti angosciosi, non solo nei poveri che sono lasciati «a piangere per la casa perduta», privati anche delle più piccole «fonti di soddisfazione residenziale in un bassofondo urbano», per rubare due dei più appropriati titoli di Fried (1963; Fried e Gleicher 1961). Zola (1996b) descrive l’angoscia di un uomo daffari di umili origini che sco-

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pre che la casa della sua infanzia è coinvolta nelle demolizioni di Haus­ smann. Henry James (1946) non è da meno. Di ritorno a New York do­ po anni d’assenza, vede un paesaggio urbano posseduto dal «sacrificio ripetuto al profitto pecuniario» (pag. 191) e «che ripudia continuamen­ te il passato» (pag. 53). «Non siamo altro che simboli, installazioni, fer­ mate» sembrano dire fiere le piccole abitazioni, «non abbiamo nulla a che vedere con la continuità, la responsabilità, la trasmissione» (pag. 11). James aggiunge che molto del passato merita senza’altro di essere abbandonato, «ma vi era stata anche una vita di coscienza e di memo­ ria, ed era stata questa la vittima» (pag. 53). Tutto il paesaggio america­ no si mostra «solo nella luce lurida degli affari, e sai bene [...] quali ga­ ranzie, quale continuità ed eredità prestigiosa sia rappresentata da que­ sti» (pag. 161). I luoghi familiari e gli spazi sicuri erano in corso di distruzione nella «giostra del tempo»: ma la canzone la cantava la circo­ lazione del capitale. Da simili sentimenti possono nascere movimenti di reazione e di ri­ volta contro la figura mostruosa del costruttore, dello speculatore, di chi ricostruisce la città, o crea un’autostrada, o, come Robert Moses, porta una «scure di carne» su comunità vive. La malvagità di tali perso­ naggi è diventata leggendaria. Sono le figure centrali di quella che Ber­ man chiama «la tragedia dello sviluppo», il cui simbolo è il Faust di Goethe, che s’infuria sulla cima di un colle mentre osserva il piccolo terreno, occupato da una venerabile coppia di anziani, che sta per esse­ re integrato nello spazio razionalizzato e artificiale adeguato alle forme moderne e capitaliste di sviluppo. Zola (1995) riprende la stessa imma­ gine. Saccard, l’archetipo dello speculatore della Parigi del Secondo Impero, sta sul colle di Montmartre con il «gigante sdraiato» ai suoi piedi, sorride e «con la mano distesa, aperta e tagliente come una scia­ bola» taglia lo spazio per rappresentare i colpi infetti da Haussmann al­ le vene di una città viva, e queste ferite hanno prodotto oro e dato da vi­ vere «a centinaia di migliaia di sterratori e di muratori». La continua ri­ definizione del paesaggio geografico del capitalismo è un processo violento e doloroso. Le obiezioni borghesi alle conseguenze del capitalismo si basano su qualcosa di più del lamento di Baudelaire (1983, pag. 159) che «più vo­ lubilmente / del cuore d’un mortale una città si muta». Esse vanno al di là della nostalgia per la perdita del passato, la distruzione dell’affetto delle «comunità conoscibili» e dei luoghi familiari (Williams 1973). Ol­ trepassano pure quella cultura angosciata della modernità che Berman (1985) descrive come «modalità di esperienza vitale, esperienza del tempo e dello spazio, del sé e dell’altro, delle possibilità e dei rischi del­ la vita» universalmente condivisa, esperienza che «ci promette avvenni-

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ra, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo, e che al tempo stesso minaccia di distruggere tutto quello che abbiamo, tutto quello che sappiamo, tutto quello che siamo». In realtà, tutto ciò esprime una paura diffusa: la paura che il modo di produzione e di ri­ produzione sociale dominante, su cui si fonda il mantenimento del po­ tere borghese, a stia volta non poggi su nulla di più di quello che Marx chiama «una contraddizione che si dissolve da s'é». È come se, in realtà, i fili delle reti monetarie, temporali e spaziali che definiscono la vita sociale venissero tirati, di fronte a un processo di accumulazione che ne richiede il rapido adattamento e la riorganiz­ zazione. Strette e tirate al tempo stesso, le reti si distorcono e si spezza­ no, per venire poi subito ricucite in un intreccio che produce nuove possibilità. La sensazione di distruzione e di incoerenza nella definizione della vita sociale, nelle fonti reali del potere sociale è avvertita universalmen­ te, ma in modi diversi. Per esempio, gli spazi sociali della riproduzione, così coerenti agli occhi di Gissing, e che i sociologi di Chicago inqua­ drarono assai bene in una teoria organica della forma urbana, perdono la loro unità funzionale e sono trasformati dall’azione di pressioni con­ traddittorie, provenienti da un lato dalla trasformazione della domanda nel mercato del lavoro, dall’altro dal bisogno di stimolare il consumo per mezzo della mobilitazione della moda e dello stile, come segni arti­ ficiali di distinzione sociale. L’obsolescenza della “comunità creata” di­ venta importante quanto il suo consolidamento. La velocizzazione dei processi lavorativi e della circolazione di denaro, beni, informazioni provoca resistenza e contestazione da parte dei lavoratori, i quali ven­ gono comunque integrati nelle aspettative di soddisfazione istantanea di desideri e bisogni. Il controllo dello spazio perde anch’esso la sua coerenza. La distruzione dello spazio operata dal tempo procede diffe­ renzialmente, a seconda di cosa si muove: denaro, merci, capacità pro­ duttiva, forza-lavoro, informazioni o competenza tecnica. Il controllo di una di queste reti di movimento può essere facilmente superato dal mo­ vimento di un’altra: il denaro e l’informazione sembrano poteri supe­ riori semplicemente in virtù della velocità a cui si possono muovere. La compravendita di titoli come i futures è un fatto straordinario, che ri­ chiede precondizioni psicologiche e intellettuali ben superiori a qualsia­ si cosa un Simmel abbia mai immaginato. Essa può invertire la realtà del tempo economico, in modo tale da rendere le incoerenze temporali di un romanzo di Robbe-Grillet simili a una descrizione realistica. Il va­ lore del denaro, un tempo riferimento stabile, oggi gira vorticosamente come gli orizzonti spaziotemporali dell’azione sociale. Non solo l’infla­ zione rende sospetto il potere sociale del denaro, ma è il denaro stesso a

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disintegrarsi in una cacofonia di definizioni in concorrenza: cartamone­ ta, debiti privati, moneta metallica, debito pubblico, diritti su fondi di vario tipo, quantificati da numeri misteriosi come Ml, M2, M3. La circo­ lazione del capitale fa esplodere le contraddizioni inerenti alla formadenaro e si dimostra molto più efficace di qualsiasi agente segreto nel far saltare la coerenza di denaro, spazio e tempo in quanto quadri di ri­ ferimento stabili del potere sociale. Queste incoerenze creano svariate opportunità di mutamento socia­ le, nelle quali quasi ogni gruppo d’interesse può entrare con la speranza di guadagnarci. Per una classe operaia minacciata dalle trasformazioni dei mercati del lavoro, dei processi lavorativi e dei suoi spazi di ripro­ duzione si profila la possibilità di una lotta vittoriosa. Ma l’incocrenza generale e la minaccia permanente ai rapporti di potere esistenti, insie­ me all’amore sentimentale del passato, determinano altrettanto forti movimenti di opposizione all’interno di una borghesia sempre più frammentata. I movimenti di reazione e di rivolta contro il capitalismo, le sue basi sociali e i suoi effetti particolari si diversificano e diventano incoerenti tanto quanto il sistema contro il quale nascono. Ciò può dar luogo a sua volta alla rivendicazione di un ordine, di una definizione stabile delle fonti e delle forme del potere sociale. E se il capitalismo sembra minacciato dalle sue stesse contraddizioni interne, la società ci­ vile, se vuole rimanere capitalista, deve in qualche modo fare ordine nel caos, evidenziare le incoerenze e contenere i fermenti di reazione e ri­ volta. Le aperture venutesi a creare per possibili trasformazioni sociali devono essere ben chiuse, o definite chiaramente. Per la sopravvivenza della società viene invocato un potere superiore, quello dello stato. Il potere e l’autorità dello stato devono essere utilizzati non solo per contenere direttamente i vari movimenti d’opposizione, ma anche per fissare i quadri di riferimento di denaro, spazio e tempo come fonti del potere sociale. La gestione della quantità e della qualità dell’offerta di moneta è una delle funzioni statali più antiche e venerabili. Il denaro della banca centrale ora domina tutte le altre forme di denaro presenti in un’economia, ed è solido come il potere dello stato su cui si fonda. L’arte della gestione della banca centrale è la cartina di tornasole del buongoverno, poiché lo stato non detiene poteri assoluti di creazione monetaria, ma deve fungere da mediatore potente e sicuro tra i processi caotici di creazione monetaria al suo interno e le forme di denaro uni­ versali del mercato mondiale. Lo stato gestisce e assicura molti dei qua­ dri temporali di fondo dei processi decisionali e di coordinamento. Sin­ cronizza gli orologi; regola l’orario di lavoro; la durata della vita lavora­ tiva, con l’obbligo scolastico e la definizione dell’età della pensione; le vacanze legali e le ferie pagate; le ore di apertura e di chiusura delle

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strutture commerciali e di svago; e applica tutti gli altri elementi di legi­ slazione che definiscono l’assetto temporale di buona parte della vita sociale. Lo stato stabilisce il tempo di rotazione del capitale o indiretta­ mente, con procedure fiscali create apposta per ammortamenti e svalu­ tazioni, e definendo un qualche tasso sociale di sconto del tempo, o di­ rettamente, facendosi carico degli investimenti a lungo termine e deter­ minando in questo modo gli orizzonti temporali che la circolazione del capitale e i mercati finanziari non si possono permettere di considerare. Lo stato inoltre agevola l’obsolescenza pianificata, o la diffusione dei costi della distruzione creativa: può per esempio incentivare finanzia­ riamente il rinnovamento urbano, o attenuare l’impatto sociale della trasformazione dei processi lavorativi. Da tutti questi punti di vista, in­ terviene ponendo un quadro temporale all’interno del quale possono essere effettuati investimenti privati e decisioni individuali. Lo stato protegge anche i diritti di appropriazione dello spazio, sia privato che pubblico. La pianificazione della localizzazione dell’industria e della popolazione, degli alloggi e dei servizi pubblici, dei trasporti e delle co­ municazioni, dell’uso della terra e così via crea un quadro spaziale ge­ nerale che contiene e agevola le decisioni, innumerevoli e frammenta­ rie, che determinano lo sviluppo urbano. Il totalitarismo dello stato li­ berale capitalista, quindi, mette a freno le tendenze disintegranti del denaro, del tempo e dello spazio di fronte alle contraddizioni della cir­ colazione del capitale. Per rendere sicuri questi quadri di riferimento e imporre la propria volontà, lo stato ha bisogno di potere, autorità e legittimazione. Ma non solo. Deve essere in grado di contare su adeguate competenze scientifiche e tecniche. Questo dà valore aggiunto alla razionalità e al­ l’intellettualità contenuti nella comunità del denaro. Le professioni che creano e conservano questo sapere diventano importanti, e le loro figure guida, come Keynes, Le Corbusier, Wiener o Koopmans, acqui­ stano grande prestigio. Intellettuali di questo tipo acquisiscono un po­ tere sociale ben radicato, poiché il loro sapere è una forza materiale vi­ tale, non solo rispetto alle tecniche produttive, ma anche rispetto alla definizione generale dell’azione sociale, che avviene tramite il control­ lo e la gestione di denaro, spazio e tempo. Coloro che sono in grado di monopolizzare questo tipo di sapere occupano una posizione sociale molto potente. Non è stato un caso, quindi, che nella seconda metà del XIX secolo l’irrigidimento delle reti monetarie, spaziali e temporali sia stato accompagnato dallo sviluppo di particolari professioni, ognu­ na in possesso di un pezzo della conoscenza necessaria a rendere coe­ renti queste reti. Il movimento progressista americano - che ebbe con­ seguenze enormi per la gestione e per la pianificazione del territorio

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urbano e regionale - esprimeva una spinta formidabile a trasformare il potere sul sapere nel potere di una classe di intellettuali, professionisti e accademici che fosse al di sopra della guerra di classe tra capitale e lavoro. Anche se ciò non si è mai verificato, il potere di ingegneri e manager, economisti e architetti, analisti di sistema ed esperti di orga­ nizzazione industriale, non dev’essere sottovalutato. Esso si è radicato in funzioni statali e aziendali fondamentali, e la pianificazione è ovun­ que entrata a fare parte dell’ordine del giorno. I conflitti intellettuali sui significati da attribuire a denaro, tempo e spazio avevano, e conti­ nuano ad avere, reali effetti materiali. In architettura, per esempio, il conflitto sulla modernità e sul disegno è qualcosa di più di un conflitto di gusti e parametri estetici. Esso ha a che fare direttamente con il pro­ blema della corretta definizione spaziotemporale del processo urbano (Giedion 1941). Gli ideali del socialismo e della pianificazione centralizzata possono piacere a una simile classe di professionisti, come dimostrano i casi di Oskar Lange, Le Corbusier, Hans Blumenthal, e di tanti altri. L sociali­ smo sembrava offrire la possibilità di fare tutto quello che lo stato bor­ ghese voleva ma che non era in grado di realizzare. Nei circoli intellet­ tuali il dibattito sul socialismo si riduceva spesso, in pratica, al dibattito sulla superiore organizzazione delle forze produttive e sulla superiore razionalità di allocazioni di spazio e di tempo pianificate dallo stato ri­ spetto a quelle determinate da processi di mercato in cui il potere mo­ netario aveva un ruolo dominante. Furono necessari molti anni di espe­ rienze amare e di difficili autocritiche per riconoscere che la razionaliz­ zazione totale degli usi dello spazio e del tempo da parte di un’autorità esterna era forse ancora più repressiva delle caotiche allocazioni del mercato (cfr. Lefebvre 1974; Duclos 1981). Certo, dato che lo spazio e il tempo sono forme di potere sociale, il loro controllo può troppo facil­ mente degenerare nella replica di forme di dominio di classe che l’eli­ minazione del potere del denaro avrebbe dovuto abolire.

7. Il processo urbano e le sue confusioni politiche

Il processo urbano nel capitalismo presenta incredibili confusioni poli­ tiche, le cui radici possono essere brevemente esposte considerando co­ me l’urbanizzazione sia definita dall’intersezione delle astrazioni con­ crete di denaro, spazio e tempo, e prenda forma direttamente dalla cir­ colazione spaziotemporale del capitale monetario. La tensione tra l’individualismo collegato alla spesa di denaro, e l’esperienza di classe del guadagno di questo stesso denaro, produce le basi sociali e psicoio-

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giche per l’azione politica. Il conflitto per la disponibilità di tempo, proprio o altrui, o per porsi al di fuori della rozza equazione di tempo e denaro, conduce inoltre a prospettive politiche divergenti. Coloro che per sopravvivere sono obbligati a dare pluslavoro agli altri si impegne­ ranno in ogni tipo di lotta non solo per limitare il tempo loro sottratto, ma anche per avere a disposizione quello altrui: il tempo cioè che altri membri della famiglia dedicano ai lavori di casa, o quello di chi offre servizi. Coloro che hanno potere monetario sufficiente possono cercare di definire e utilizzare il loro tempo in modi idiosincratici. Il denaro di­ venta il mezzo fondamentale per acquistare tempo libero. Solo il clo­ chard e Yhobo sfuggono a questa equazione. Comunque, anche il più idiosincratico tra i suoi utilizzatori ammetterà senz’altro che un coordi­ namento sociale corretto ed efficiente del tempo universale della pro­ duzione, dello scambio e delle comunicazioni, può essere uno strumen­ to per affrancare il tempo dagli affanni quotidiani della produzione e della riproduzione. Anche i più anarchici tra noi vogliono che i semafo­ ri funzionino bene e che gli orari di apertura e di chiusura dei negozi siano rispettati. Da una parte, vediamo che il coordinamento sociale ra­ zionale del tempo universale è indispensabile alla vita in un mondo ur­ banizzato, dall’altra, però, individualmente cerchiamo di sfuggire a questa disciplina cronologica. L’individualismo imposto dal denaro al­ l’uso del tempo si scontra con la razionalità sociale richiesta per un suo uso creativo e corretto. La pianificazione e la regolazione statali degli orari di lavoro, di apertura e di chiusura e così via, sembrano mali spie­ tati da una parte e virtù salvifiche dall’altra. La lotta per il controllo dello spazio è altrettanto pervasa da ambi­ guità di ogni genere. La libertà di appropriarsi di spazio e di muoversi al suo interno a proprio piacimento è tenuta in grande considerazione. Il denaro è uno strumento importante a questo fine, ma non è certo l’u­ nico, come ogni barbone è in grado di testimoniare. Il denaro viene an­ che usato per difendere determinati spazi dalle intrusioni. L’acquisizio­ ne di diritti di proprietà privata assicura il diritto esclusivo al dominio di una porzione di spazio. Credo che il motivo per cui l’automobile e l’acquisto della casa siano una combinazione così attraente, è che essa mette a disposizione la possibilità individualizzata di controllare e insie­ me di proteggere lo spazio. Chi non ha potere monetario deve definire i suoi privilegi territoriali con altri strumenti. La gang urbana protegge il suo territorio con la violenza, e le popolazioni a basso reddito o minori­ tarie cercano di definire ambiti collettivi all’interno dei quali possono esercitare il più rigido controllo sociale. I vicinati, i quartieri e le comu­ nità possono quindi organizzarsi secondo sistemi antagonistici alle pure valutazioni di mercato, anche se è sorprendente quante iniziative politi­

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che comunitarie e localiste, soprattutto nelle zone più benestanti, siano orientate a fini strettamente di mercato: dalla difesa degli investimenti nelle case al controllo dell’accesso alle possibilità di vita tramite mercati del lavoro strutturati. Ma la polverizzazione dello spazio operata dalla proprietà privata e la sua segmentazione in spazi sociali controllati sono antagonistiche alla possibilità di appropriarsi liberamente dello spazio stesso. L’impossibi­ lità di attraversare a piedi una città per paura di essere arrestati per vio­ lazione della proprietà privata, o per timore della violenza che colpisce qualsiasi trasgressione di uno spazio sociale, rappresenta un’esperienza estremamente frustrante. Le frammentazioni dei poteri di dominio pos­ sono anche impedire che lo spazio urbano sia strutturato in modo adat­ to all’uso efficiente del tempo. La difesa violenta degli spazi privati e so­ ciali spesso rende la struttura del paesaggio urbano relativamente stati­ ca, e fa sì che i processi di ridefinizione degli spazi siano estremamente conflittuali. Anche il grande potere del capitale monetario, con la sua inclinazione a ridurre lo spazio a una forma di capitale fittizio, può esse­ re bloccato da questi monopoli. La pianificazione razionale dello spazio e il controllo statale si presentano come risposte adeguate al problema, ma tale potere può essere usato per fini di classe molto diversificati. L’uso del potere statale per liberare spazio per il capitale, con espro­ priazioni forzate, rinnovamenti urbani e interventi simili, è molto diver­ so da quello per controllare l’estrazione di ingenti redditi monetari da coloro che devono appropriarsi di spazio di proprietà altrui per potere vivere. D’altra parte, la nazionalizzazione della terra e l’abolizione dei diritti di proprietà non necessariamente liberano spazio per l’appro­ priazione popolare. Esse possono persino portare all’erosione di quei pochi diritti di appropriarsi di spazio assicurati dalla proprietà privata e da altri meccanismi che garantiscono la disponibilità di spazio sociale. L’eliminazione di una modalità di dominio dello spazio non fa che crearne un’altra. Tensioni di questo tipo oscurano la coscienza politica e rendono problematici tutti i programmi politici. La lotta per reprimere il potere del denaro deve condurre alla repressione dell’uso del denaro? La lotta per reprimere la sete di pluslavoro dev’essere accompagnata dall’ab­ bandono dei tentativi di definire strumenti efficaci per produrre un plusprodotto? La lotta per aprire lo spazio a una libera appropriazione può essere combattuta senza dare luogo a forme di dominio nuove e an­ cora più dannose? La lotta per liberare lo spazio e il tempo da una ra­ zionalità dominante e repressiva deve portare con sé l’abbandono della ricerca di un’organizzazione dello spazio e un’allocazione del tempo ta­ li da riprodurre i bisogni quotidiani col minimo sforzo?

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L’esperienza urbana

L’analisi di denaro, tempo e spazio nel contesto dell’accumulazione del capitale e dei rapporti di classe che la dominano consente di capire le dinamiche del processo urbano, le sue tensioni interne, e il significato dell’urbanizzazione per l’evoluzione del capitalismo. Ci aiuta anche a comprendere i dilemmi e le confusioni che l’esperienza urbana produce per la coscienza politica e intellettuale. Data l’intricata complessità e la grande scala dell’urbanizzazione capitalista, e la particolare combina­ zione di alienazione e di opportunità che nasce dall’esperienza urbana, gli obiettivi dei movimenti radicali e rivoluzionari non possono che es­ sere confusi. La coscienza politica diventa multidimensionale, spesso contraddittoria, e sempre frammentaria. La storia dei movimenti sociali urbani dev’essere letta proprio in questa luce. Anche la storia dei movi­ menti politici di classe mostra quanto facilmente questi possono essere annientati da questa frammentazione. Non sorprende il fatto che i mo­ vimenti politici di sinistra troppo spesso ignorino ostentatamente i mo­ vimenti sociali urbani, come una schiuma periferica: in questo modo, però, essi limitano la loro credibilità e la loro capacità di dare luogo a una trasformazione totale del capitalismo in un qualche modo di pro­ duzione alternativo. Con la sua forma dominante di urbanizzazione, il capitalismo ha pro­ dotto nel corso degli ultimi due secoli non solo una “seconda natura” di ambiente costruito che può essere più difficile a trasformarsi di quanto non fosse la natura vergine delle antiche regioni di frontiera, ma anche una natura umana urbanizzata, dotata di un senso molto specifico del denaro, del tempo e dello spazio come fonti di potere sociale, e di sofi­ sticate capacità e strategie per ottenere da un angolo della vita urbana quanto può andare perduto in un altro. Anche se forse è vero che ovun­ que c’è un perdente, la grande maggioranza trova da qualche parte al­ meno un piccolo compenso, mentre altri ancora si divertono e ripongo­ no grandi speranze nella complessità del gioco. E questo il tipo di co­ scienza frammentaria e spesso contraddittoria che pervade le nostre rappresentazioni intellettuali, e le nostre idee di cosa potrebbe essere un’esperienza urbana realmente umanizzante. È quindi il caso di fermar­ ci a riflettere sulla razionalità delle nostre concezioni di denaro, tempo e spazio come quadri di riferimento in cui hanno luogo l’urbanizzazione capitalista e l’esperienza urbana. Così possiamo essere in grado di pro­ durre idee che liberino, anziché bloccare, il nostro pensiero di cosa po­ trebbe mai essere un futuro non capitalista ma urbanizzato.

7. Monumento e mito: La costruzione della basilica del Sacro Cuore

In una posizione strategica, sulla collina nota come la butte Montmartre, la basilica del Sacro Cuore domina Parigi. Le sue cinque cupole di mar­ mo bianco e il campanile sono visibili da tutti i quartieri della città. E possibile scorgerla fugacemente dalla fitta e buia rete di strade della vec­ chia Parigi. Si mostra, spettacolare e grandiosa, alla giovani mamme che portano a passeggio i bambini nei giardini del Lussemburgo, ai turisti che faticosamente salgono sul tetto di Notre Dame, o che si fanno como­ damente trasportare dalle scale mobili del Beaubourg, ai pendolari che attraversano la Senna sul metrò a Grenelle o che entrano nella Gare du Nord, agli immigrati algerini che la domenica pomeriggio ciondolano al parco delle Buttes Chaumont. La possono vedere bene i vecchi che gio­ cano a bocce in piazza Colonel Fabien, e la si può anche scorgere dai bordi dei vecchi quartieri operai di Belleville e La Villette, luoghi che hanno un ruolo importante nella storia che stiamo per narrare. Nelle fredde giornate d’inverno, quando il vento ammassa le foglie cadute sulle vecchie lapidi del cimitero Pere Lachaise, si può scorgere la basilica dai gradini della tomba di Adolphe Thiers, il primo presidente della Terza repubblica francese. Anche se oggi è quasi completamente nascosta dal moderno complesso di uffici della Défense, è visibile da più di venti chilometri di distanza dal padiglione Henry IV a St. Germainen-Laye, dove Thiers morì. Ma per una stranezza topografica non la si può vedere dal celebre muro dei Federati, sempre al cimitero Pére La­ chaise, dove il 27 maggio 1871 parte degli ultimi soldati della Comune venne circondata dopo un violento scontro tra le tombe, e fu sommaria­ mente fucilata. Da questo muro coperto d’edera, oggi ombreggiato da un vecchio castagno, non si vede il Sacro Cuore. Questo luogo, meta di pellegrinaggio per i socialisti, gli operai e i loro capi è nascosto dall’altro luogo di pellegrinaggio, quello dei fedeli cattolici, dal profilo della colli­ na su cui sta la tetra tomba di Thiers.

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Pochi sarebbero disposti ad ammettere che la basilica del Sacro Cuore è bella o elegante (fig. 11). Molti però potrebbero riconoscerne il fascino e la particolarità: il suo stile esplicitamente bizantino ha una sor­ ta di grandeur arrogante, che esige rispetto dalla città distesa ai suoi pie­ di. Nelle giornate di sole risplende da lontano, e anche nei giorni più scuri sembra che le sue cupole catturino ogni particella di luce, per irra­ diarla attorno in un bianco splendore di marmo. La notte, illuminata dai fari, sembra sospesa nello spazio, sepolcrale ed eterea. Così la basili­ ca emana un’immagine di grandezza sacra, di memoria perpetua. Ma memoria di che cosa? Il visitatore che si spinge verso il Sacro Cuore, alla ricerca di una ri­ sposta a questa domanda, deve prima salire lungo la ripida collina di Montmartre. Se si ferma per riprendere fiato, vedrà davanti a sé una meravigliosa distesa di tetti, camini, cupole, torri, monumenti: il pano­ rama della vecchia Parigi, che non è molto cambiato da quella mattina di ottobre fosca e nebbiosa in cui l’arcivescovo della città salì su per le stradine ripide, e giunto in cima vide il sole che miracolosamente cac­ ciava la nebbia e le nubi, mostrando lo splendido panorama di Parigi disteso ai suoi piedi. L’arcivescovo rimase per un attimo meravigliato, e poi gridò forte: «E qui, è qui che sono i martiri, è qui che deve regnare il Sacro Cuore, così da poter chiamare a sé tutto questo!» (Jonquet s.d.). Ma chi sono i martiri commemorati dalla grandeur della basilica? E visitatore che vi entra sarà probabilmente colpito per prima cosa dall’immenso ritratto di Gesù che ricopre la cupola dell’abside. Raffi­ gurato con le braccia aperte e distese, Cristo porta un’immagine del Sa­ cro Cuore sul petto. Sotto, due parole in latino: Gallia poenitens. E sot­ to ancora c’è un grande scrigno d’oro che contiene l’immagine del Sa­ cro Cuore di Gesù, che brucia dalla passione, intriso di sangue e incoronato di spine. Questo è il luogo, sempre illuminato, dove i pelle­ grini vengono a pregare. Di fronte a una statua a grandezza naturale di santa Marguerite-Ma­ rie Alacoque, alcune parole scritte dalla santa (data 1689, luogo Parayle-Monial) ci dicono qualcosa di più sul culto del Sacro Cuore: L’eterno padre, desiderando un risarcimento per l’amarezza e il dolore provati dal venerabile cuore del suo divino figlio tra le umiliazioni e gli oltraggi alla sua passione desidera un edificio dove l’immagine di questo divino cuore po.ssa ricevere venerazione e omaggio.

Secondo le Scritture il Sacro Cuore era stato esposto quando un centu­ rione trapassò con la lancia il fianco di Gesù che soffriva in croce. La sua adorazione era diffusa già prima del XVII secolo. Ma Marguerite-Marie,

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Fig. 11. La basilica del Sacro Cuore.

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presa dalle visioni, trasformò l’adorazione del Sacro Cuore in un culto particolare e riconosciuto dalla Chiesa cattolica. Anche se la sua vita era stata segnata da dure prove e da sofferenze, e le sue maniere erano seve­ re e rigorose, l’immagine di Cristo espressa dal culto era calda e amoro­ sa, contrita e soffusa di un misticismo dolce (Jonquet s.d.; Dansette 1965). Marguerite-Marie e i suoi discepoli si dedicarono con grande zelo alla diffusione del culto. Lei, per esempio, scrisse a Luigi XIV, sostenen­ do di portare un messaggio da parte di Cristo, il quale chiedeva al re di pentirsi, di salvare la Francia votandosi al Sacro Cuore, di metterne l’immagine sul suo stendardo e di costruire una cappella in suo onore. È da questa lettera del 1689 che sono tratte le parole oggi incise nella pietra della basilica. Il culto si diffuse con una certa lentezza. Non era proprio in sintonia con il razionalismo francese del xvin secolo, che ebbe una grande in­ fluenza sulla fede dei cattolici opponendosi direttamente all’immagine di Gesù dura, rigorosa e autodisciplinata proposta dai Giansenisti. Ma prima che il secolo finisse contava già alcuni sostenitori importanti e potenzialmente influenti. Luigi XVI, in privato, aveva raccomandato sé e la propria famiglia al Sacro Cuore. Imprigionato durante la Rivoluzio­ ne, fece voto che entro tre mesi dalla sua liberazione si sarebbe pubbli­ camente votato al Sacro Cuore. Così facendo avrebbe salvato la Fran­ cia. Non disse esattamente da cosa, e non aveva bisogno di dirlo. Le modalità della sua liberazione non gli permisero di adempiere al voto, e Maria Antonietta non fu più fortunata. La regina consegnò al Sacro Cuore le sue ultime preghiere, prima di recarsi all’appuntamento con la ghigliottina. Questi fatti sono interessanti perché presaghi di una relazione, im­ portante per la nostra storia, tra il culto del Sacro Cuore e il monarchi­ smo reazionario dell’awczew régime. Gli aderenti al culto si opponevano fermamente ai principi della Rivoluzione francese. Chi invece credeva negli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità, chi era incline a senti­ menti e azioni fortemente anticlericali, non provava a sua volta un gran­ de amore per il culto. Anche le ossa e le altre reliquie di MargueriteMarie, esposte oggi a Paray-le-Monial, furono accuratamente nascoste negli anni della Rivoluzione. Con la restaurazione della monarchia nel 1815 le cose cambiarono. Sotto l’occhio attento delle potenze europee, i re borboni cercarono di restaurare tutto quello che potevano del vecchio ordine sociale. Il tema del pentimento per gli eccessi dell’epoca rivoluzionaria ebbe grande diffusione. Luigi xvni non realizzò il voto del suo defunto fratello mag­ giore, ma costruì, a proprie spese, una “cappella dell’espiazione’’ nel

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luogo in cui il fratello e la sua famiglia erano stati seppelliti senza tante cerimonie: Gallia poenitens. Venne fondata una società per la diffusio­ ne del culto del Sacro Cuore, e nel 1819 furono trasmessi a Roma gli at­ ti per la beatificazione di Marguerite-Marie. Il legame tra monarchia conservatrice e culto del Sacro Cuore si faceva cosi sempre più stretto. Il culto si diffuse tra i cattolici conservatori, ma era visto con un cer­ to sospetto dall’ala liberale e progressista del cattolicesimo francese. Ma ora un altro nemico stava devastando.il paese, disturbando l’ordine so­ ciale. La Francia stava affrontando le tensioni dell’industrializzazione capitalista. Questa iniziò a piccoli passi, sotto la monarchia di luglio, stabilita nel 1830 e altrettanto velocemente deposta con la rivoluzione del 1848, ma fu nei primi anni del Secondo Impero di Napoleone III che il paese conobbe una trasformazione radicale di alcuni settori del­ l’economia, della struttura istituzionale e dell’ordine sociale (Price 1975; Braudel e Labrousse 1976). Questa trasformazione minacciava ciò che di più sacro vi era nella vita francese: portava con sé un materia­ lismo rozzo e arido, una cultura borghese ostentata e moralmente deca­ dente, e l’aggravarsi delle tensioni di classe. Sotto la bandiera del culto del Sacro Cuore si radunavano ora non solo i devoti attratti, per tempe­ ramento o per le circostanze, dall’immagine di un Cristo dolce e miseri­ cordioso, non solo chi sognava la restaurazione dell’ordine politico pas­ sato, ma tutti coloro che si sentivano minacciati dai valori materialisti del nuovo ordine. A questi problemi generali, i cattolici francesi aggiunsero, dopo il 1860, alcune proteste più specifiche. Napoleone III si era finalmente schierato al fianco dell’unificazione italiana, impegnandosi politicamen­ te e militarmente nella liberazione degli stati dell’Italia centrale dal pote­ re temporale del papa. Questi però, di fronte all’esercito piemontese, si ritirò in Vaticano, rifiutandosi di uscire finché il suo potere temporale non fosse stato restaurato. Dal Vaticano, il papa prese a lanciare attacchi durissimi alla politica francese e alla decadenza morale che a suo parere regnava nel paese. Sperava in questo modo di trascinare i cattolici fran­ cesi nella difesa attiva della sua causa. Il momento era favorevole. Mar­ guerite-Marie venne beatificata da Pio IX nel 1864. Incominciò l’era dei grandi pellegrinaggi a Paray-le-Monial. I pellegrini venivano a pentirsi dei peccati pubblici e privati. Si pentivano del materialismo e della ric­ chezza decadente della Francia, delle restrizioni poste al potere tempo­ rale del papa, del venir meno dei valori tradizionali incarnati nell’ordine sociale antico e venerabile: Gallia poenitens. . Subito dentro alla porta principale della basilica del Sacro Cuore a Parigi, il visitatore può leggere queste parole:

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L’esperienza urbana Nell’anno del signore 1875, il 16 giugno, nel regno di sua santità papa Pio IX, a compimento di un voto formulato durante la guerra del 18701871 da Alexander Legentil e Hubert Rohault, ratificato da sua eminen­ za mons. Guibert, arcivescovo di Parigi, eseguendo il voto dell’Assem­ blea nazionale del 23 luglio 1873, secondo il progetto dell’architetto Abadie; la prima pietra di questa basilica eretta al Sacro Cuore di Gesù fu solennemente posta da sua eminenza il cardinal Guibert [...].

Cerchiamo ora di dare sostanza a questo concentrato di storia e vedia­ mo cosa nasconde. Nell’estate del 1870, mentre i battaglioni di Bi­ smarck andavano di fattoria in vittoria, un forte senso di catastrofe si diffuse in tutta la Francia. Molti interpretavano le sconfitte come la giu­ sta vendetta inflitta dal volere divino a un paese in errore e moralmente decadente. Tn questo spirito l’imperatrice Eugenia fu esortata a recarsi a piedi con la famiglia e la corte, tutti vestiti a lutto, dal palazzo delle Tui­ leries a Notre Dame, per votarsi pubblicamente al Sacro Cuore. Anche se l’imperatrice accolse di buon grado il consiglio, era ancora una volta troppo tardi. Il 2 settembre Napoleone III fu sconfitto e fatto prigionie­ ro a Sedan, il 4 settembre sui gradini dell’Hotel-de-Ville fu proclamata la repubblica e fu formato un governo di Difesa nazionale. Nello stesso giorno l’imperatrice Eugenia fuggì da Parigi, avendo da tempo, su con­ siglio dell’imperatore, preparato prudentemente i bagagli e spedito in Inghilterra i suoi averi più preziosi. La sconfitta di Sedan mise fine all’impero ma non alla guerra. Gli eserciti prussiani continuavano ad avanzare, e il 20 settembre avevano circondato Parigi e assediato la città (l’assedio sarebbe durato fino al 28 gennaio dell’anno successivo). Come molti altri rispettabili cittadini bor­ ghesi, Alexander Legentil fuggì dalla capitale all’awicinarsi dell’esercito prussiano, e si rifugiò in provincia. A Poitiers, macerandosi nel dolore e soffrendo terribilmente per il destino di Parigi, ai primi di dicembre egli fece un voto: «Se Dio avesse salvato la Francia e Parigi e messo in libertà il sommo pontefice, egli avrebbe contribuito con i suoi mezzi alla costru­ zione, a Parigi, di un santuario dedicato al Sacro Cuore». Legentil cercò poi altre adesioni al suo voto, trovando ben presto l’appoggio fervente di Hubert Rohault de Fleury (1903; 1905; 1907). La formulazione del voto non gli procurò, però, un’accoglienza mol­ to favorevole: Legentil scoprì ben presto che le province «erano in preda a un sentimento d’odio per Parigi». Una situazione del genere non era affatto strana: possiamo fare un’utile digressione per capirne il motivo. Sotto Mancien régime l’apparato dello stato francese aveva acquisito un carattere fortemente centralizzato, che si era ulteriormente rafforza­ to sotto la Rivoluzione e l’impero napoleonico. Questa centralizzazione

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costituiva la base dell’organizzazione politica del paese, e assegnava a Parigi un ruolo di primo piano rispetto alle province. Ma gli eventi del 1789 rivelarono anche che i parigini avevano il potere di fare e disfare i governi. Essi si mostrarono ben disposti a ricorrere a tale potere, e fini­ rono quindi per ritenersi dei privilegiati, dotati del diritto e del dovere di imporre tutto quanto essi reputavano “progressista” su una Francia ritenuta arretrata, conservatrice e prevalentemente rurale. Il borghese parigino disprezzava la vita provinciale e la sua chiusura, e riteneva i contadini disgustosi e incomprensibili (Zeldin 1973, 1977). Dalla prospettiva opposta, Parigi era vista generalmente come cen­ tro di potere, dominio e opportunità. Era invidiata e odiata al tempo stesso. All’antagonismo generato dall’eccessiva centralizzazione del po­ tere e dell’autorità nella capitale si univa il più generico antagonismo ti­ pico delle piccole città e della campagna nei confronti della grande città, vista come luogo di privilegio, successo materiale, decadenza mo­ rale, vizio, e disordine sociale. La particolarità della Francia era il modo in cui le tensioni derivanti dalla “contraddizione urbano-rurale” si foca­ lizzavano nel rapporto tra Parigi e il resto del paese. Durante il Secondo Impero queste tensioni si aggravarono. Parigi conobbe una forte espansione economica, perché le ferrovie ne fecero il perno di un processo di integrazione spaziale a livello nazionale. Con­ temporaneamente la riduzione dei costi di trasporto e le politiche di li­ bero commercio sancite dai trattati franco-inglesi del 1860 misero la città in rapporto con un’economia globale in via di rapido sviluppo. La quota di Parigi nel commercio francese con l’estero aumentò vistosa­ mente, e la popolazione si accrebbe con altrettanta velocità, soprattutto grazie alla forte immigrazione di lavoratori provenienti dalle campagne (Gaillard 1977). La città diventò il centro delle attività finanziarie, spe­ culative e commerciali, e quindi vi proseguì la concentrazione di ric­ chezza e potere. Il contrasto tra ricchezza e povertà era diventato note­ vole, e si esprimeva sempre di più nella separazione geografica tra i quartieri borghesi a ovest e i quartieri operai a nord, est e sud. Bellevil­ le divenne un territorio straniero, in cui i cittadini borghesi dell’ovest raramente osavano avventurarsi. La popolazione del quartiere, più che raddoppiata tra il 1853 e il 1870, veniva descritta dalla stampa borghese come «la feccia della popolazione», che si trovava «nella povertà e nel­ l’odio più profondi» in cui «fermenti di invidia, pigrizia, e rabbia ribol­ lono senza sosta» (Lepidis e Jacomin 1975). Ovunque c’erano segni di frattura sociale. Quando, dopo il 1860, la crescita economica incomin­ ciò a rallentare e l’autorità dell’impero a venire meno, Parigi si tra­ sformò in un calderone di disordine sociale, pronto a prestare ascolto ad agitatori di ogni sorta.

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E per finire, Haussmann, su pressione dell’imperatore, si era impe­ gnato nell’opera di “abbellire Parigi” con ampi viali, parchi, giardini, architetture monumentali di ogni tipo. L’intento era di fare di Parigi la città veramente imperiale, non solo della Francia, ma di tutta la civiltà occidentale. Haussmann aveva realizzato tutto ciò a costi immensi e con mezzi finanziari piuttosto avventurosi: un aspetto poco gradito alle menti frugali dei provinciali. All’immagine di pubblica opulenza creata da Haussmann corrispondeva il consumo di lusso dei borghesi, molti dei quali erano diventati ricchi con le speculazioni collegate alle sue ri­ strutturazioni (Pinkney 1958). Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che i cattolici della provincia e delle campagne non fossero molto disposti a mettere mano al portafo­ glio per adornare Parigi con un altro monumento, per quanto pia po­ tesse essere l’intenzione. Ma alla proposta di Legentil furono fatte obiezioni ancora più speci­ fiche. I parigini, nella loro solita presunzione, avevano proclamato la re­ pubblica, mentre i sentimenti della provincia e delle campagne erano ancora intrisi di monarchismo. Inoltre, coloro che erano rimasti in città erano particolarmente intransigenti e bellicosi: avrebbero preferito combattere fino a una disfatta finale, mentre l’opinione della provincia era molto favorevole a porre fine alla guerra con la Prussia. Le voci che parlavano di una nuova politica materialista diffusa nella classe operaia, condite con svariate manifestazioni di attivismo rivoluzionario, diedero l’impressione che la città, in assenza della sua cittadinanza borghese più rispettabile, fosse caduta in preda alla filo­ sofia radicale o addirittura socialista. Poiché l’unico mezzo di comuni­ cazione tra la città assediata e il resto del paese erano i piccioni e le mongolfiere, il terreno si prestava ai fraintendimenti, che i nemici ru­ rali della repubblica e quelli urbani della monarchia non mancarono di sfruttare. Legentil dunque ebbe la diplomatica idea di togliere dal suo voto ogni specifico riferimento a Parigi. Verso la fine di febbraio il papa Io approvò, e da quel giorno il movimento iniziò a crescere. Il 19 marzo fu pubblicato un opuscolo che dava ampio spazio alle ragioni del voto (Rohault de Fleury 1903, pagg. 10-13). Lo spirito dell’opera doveva es­ sere nazionale - questa era l’esortazione degli autori - affinché tutto il popolo francese riparasse a crimini che erano di tutta la nazione. Essi confermavano l’intenzione di costruire a Parigi il monumento. All’obie­ zione che non era il caso di abbellire ulteriormente la città, essi rispon­ devano che «se Parigi fosse ridotta in cenere, noi dovremmo ugualmen­ te confessare le nostre colpe nazionali e proclamare la giustizia di Dio sulle sue rovine».

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Le parole dell’opuscolo si dimostrarono tempestive e profetiche. Il 18 marzo, i parigini avevano fatto i primi passi irrevocabili verso l’instau­ razione dell’autogoverno sotto la Comune. I peccati reali o immaginari dei comunardi giunsero subito a sconvolgere e scandalizzare l’opinione borghese. E poiché buona parte di Parigi fu effettivamente ridotta in ce­ nere nel corso di una guerra civile incredibilmente feroce, l’idea di co­ struire una basilica di espiazione sopra queste ceneri apparve sempre più attraente. Come notò con evidente soddisfazione Rohault de Fleury, «nei mesi successivi, l’immagine di Parigi ridotta in cenere colpì diverse voltenei segno» (1903, pagg. 10-13). Raccontiamo questa storia. Le origini della Comune di Parigi risiedono in una serie di eventi accumulatisi in modo molto complesso. Proprio per la sua importanza nel paese, Parigi era stata a lungo priva di ogni forma di amministra­ zione municipale rappresentativa, e la città era stata amministrata di­ rettamente dal governo nazionale. Per buona parte del XIX secolo, la città, prevalentemente repubblicana, era stata governata dai monarchi­ ci, dai “legittimisti” borbonici, dagli “orleanisti” e dai bonapartisti. Il malcontento era profondo. La rivendicazione di una forma democrati­ ca di governo municipale era da tempo diffusa e appoggiata da gran parte della città. Il governo di Difesa nazionale stabilito il 4 settembre 1870 non era né radicale né rivoluzionario (Guiilemin 1956), ma repubblicano. Si ri­ velò anche esitante e inetto. Operò in condizioni difficili, certo, ma que­ ste non giustificano la sua scarsa efficacia. Per esempio, non riuscì a ga­ rantirsi la lealtà dei monarchici, e visse nella continua paura della destra reazionaria. Quando l’Armée de l’Est, guidata dal generale Bazaine, si arrese ai prussiani a Metz il 27 ottobre, il generale, di fede monarchica, diede l’impressione di non essere disposto a combattere per un governo repubblicano. Alcuni degli ufficiali che si opposero alla resa pensarono che Bazaine anteponeva le sue opinioni politiche all’onore della Fran­ cia. Questo problema avrebbe perseguitato la politica francese per an­ ni. Rossell, che più tardi avrebbe comandato per un certo periodo le forze armate della Comune, fu uno degli ufficiali sconvolti dall’evidente mancanza di patriottismo di Bazaine (Thomas 1967). Ma le tensioni tra le diverse fazioni della classe dominante erano po­ ca cosa in confronto all’antagonismo, reale o immaginario, che oppone­ va una borghesia tradizionalista e piuttosto dura e un’emergente e com­ battiva classe operaia. A torto o a ragione, nel corso degli anni sessanta, la borghesia mostrò una certa preoccupazione di fronte alla prolifera­ zione di organizzazioni e circoli politici operai, alle attività della sezione parigina dell’Internazionale dei lavoratori, all’effervescenza culturale della classe operaia, e alla diffusione delle teorie anarchiche e socialiste.

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E la classe operaia, che non era certo bene organizzata o unita come i suoi avversari temevano, mostrava comunque i segni dello sviluppo di una coscienza di classe. Il governo di Difesa nazionale non sarebbe stato in grado di fermare l’onda delle vittorie prussiane né di rompere l’assedio di Parigi senza un vasto appoggio delle classe operaia. E i dirigenti della sinistra erano an­ siosi di concederlo, nonostante la loro iniziale opposizione alla guerra. Blanqui promise al governo un «appoggio energico e completo», e an­ che i dirigenti dell’Internazionale, dopo aver rivolto un doveroso appel­ lo ai lavoratori tedeschi affinché non prendessero parte a un conflitto fratricida, si gettarono nell’organizzazione della difesa di Parigi. Belleville, il centro delle agitazioni operaie, si allineò quindi alla causa nazio­ nale, unito nel nome della repubblica (Lissagaray 1976). La borghesia sospettò una trappola. Come scrisse un commentatore dell’epoca proveniente dalle sue fila, essa si vedeva presa tra i prussiani e “i rossi”. «Non so» proseguiva «quale dei due mali li terrorizzava di più; essi odiavano lo straniero ma avevano molta più paura del popolo di Belleville» (Bruhat, Dautry e Tersen 1971). Non aveva importanza quanto volessero sconfiggere lo straniero: non potevano spingersi a far­ lo con i battaglioni della classe operaia in prima fila. Per quella che non sarebbe stata l’ultima volta nella storia francese, la borghesia scelse di arrendersi ai tedeschi, lasciando alla sinistra il compito di svolgere un ruolo egemone sul fronte patriottico. Nel 1871 la paura del “nemico in­ terno” doveva avere la meglio sull’orgoglio nazionale. L’incapacità dei francesi di rompere l’assedio di Parigi venne dap­ prima interpretata come l’esito della superiorità militare prussiana, e dell’incapacità francese. Ma con il susseguirsi delle sortite che trasfor­ mavano in disastri la vittoria promessa, i sinceri patrioti iniziarono a chiedersi se i poteri costituiti non stessero giocando un gioco che sfiora­ va il tradimento. Nel governo si vedeva sempre di più un «governo di defezione nazionale».1 Dal canto suo il governo era riluttante a rispondere alla rivendica­ zione di democrazia municipale dei parigini. Poiché buona parte della borghesia rispettabile era fuggita, sembrava che le eventuali elezioni avrebbero consegnato il potere nelle mani della sinistra. Dati i sospetti dei monarchici di destra, il governo di Difesa nazionale ritenne di non concedere quanto da tempo veniva rivendicato, procrastinando all’infi­ nito le elezioni.

1 Marx (1974a) usa queste parole, con effetto molto espressivo, nella sua appassiona­ ta difesa della Comune. L’idea era diffusa nella Parigi dell’epoca, vedi Marcel Cerf (1971).

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Già il 31 ottobre, queste diverse dinamiche si unirono per dare luogo a un movimento insurrezionale a Parigi. Poco dopo la vergognosa resa di Bazaine, si sparse la voce che il governo stava negoziando i termini di un armistizio con i prussiani. La popolazione di Parigi invase le strade e con la presenza di massa della temuta Belleville prese prigionieri diversi membri del governo, concedendone il rilascio solo di fronte alle assicu­ razioni verbali che vi sarebbero state le elezioni municipali e che non si sarebbe firmata la resa. Ciò avrebbe sicuramente provocato le ire della destra, e fu la causa immediata di quei «sentimenti d’odio verso Parigi» di fronte a cui Legentil si trovò a dicembre. Il governo sopravvisse per continuare la sua battaglia. Ma per come andarono le cose, era chiaro che avrebbe combattuto con molta più energia contro gli abitanti di Bel­ leville di quanto non avesse mai combattuto contro i prussiani. E così l’assedio di Parigi continuava a trascinarsi. Gli effetti del peg­ gioramento delle condizioni della città si aggiunsero a una situazione so­ cialmente instabile. Il governo si dimostrava inetto, e insensibile ai biso­ gni della popolazione, e quindi versava benzina sul fuoco del malconten­ to diffuso e crescente (Lazare 1872; Becker 1969). Il popolo si nutriva di cani e di gatti, mentre i più privilegiati si contesero i pezzi di Polluce, l’e­ lefante dello zoo: quaranta franchi alla libbra per la proboscide. Il prez­ zo dei topi (il «sapore è una via di mezzo tra il maiale e la pernice») salì da sessanta centesimi a quattro franchi il pezzo. Solo a gennaio il gover­ no prese l’elementare precauzione di razionare il pane, ma era troppo tardi. Le riserve diminuivano, e l’adulterazione del pane con farina d’ossa divenne un problema cronico, reso ancora più sgradevole dal fatto che si trattava di ossa umane provenienti dalle catacombe che erano sta­ te dragate per l’occasione. Così, mentre la gente comune senza saperlo si nutriva dei propri antenati, proseguivano le piacevolezze della vita dei caffè, offerte a prezzi esorbitanti da commercianti accaparratori. I ricchi rimasti in città continuavano a dedicarsi ai loro piaceri, anche se li paga­ vano molto cari. Il governo non faceva niente per reprimere queste spe­ culazioni, o per impedire che i ricchi seguitassero nei loro consumi co­ stosi con assoluto disprezzo dei sentimenti dei meno abbienti. Durante il mese di dicembre, si andò formando un’opposizione ra­ dicale al governo di Difesa nazionale, che portò all’affissione del famo­ so Affiche Rouge del 7 gennaio. Firmato dal comitato centrale dei venti distretti di Parigi, il manifesto accusava il governo di aver portato il paese sull’orlo dell’abisso con la sua indecisione, la sua inerzia e la sua lentezza; suggeriva che il governo non sapeva né come amministrare né come combattere, e affermava che se un tale regime fosse andato avanti, si poteva finire solo con la resa di fronte ai prussiani. Veniva quindi proclamato un programma di requisizione generale e di razionamento

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delle risorse, e si chiamava all’offensiva di massa. Il manifesto si conclu­ deva con il celebre appello «Largo al popolo! Largo alla Comune!» (Bruhat, Dautry e Tcrsen 1971; Edwards 1971). L’appello, affisso per tutta la città, fece il suo effetto. I militari rispo­ sero immediatamente, e organizzarono un’ultima sortita di massa, che fu memorabile per l’incapacità militare e per la carneficina che ne seguì. «Tutti capirono» scrisse Lissagaray «che erano stati mandati fuori per essere sacrificati» (1976, pag. 75). Per chi voleva agire, la prova del tradi­ mento era ormai più che sufficiente. Essa allontanò più di un sincero pa­ triota della borghesia, che metteva l’amore del suo paese sopra gli inte­ ressi di classe, spingendolo ad allearsi con i radicali all’opposizione e la classe operaia. I parigini accettarono l’inevitabile armistizio, che giunse alla fine di gennaio, con cupa passività. L’armistizio disponeva l’elezione di un’as­ semblea costituente che avrebbe negoziato e ratificato un accordo di pa­ ce, specificava che l’esercito francese avrebbe deposto le armi, ma al tempo stesso consentiva che la Guardia nazionale parigina, che non si sarebbe lasciata disarmare facilmente, sarebbe rimasta in armi. Nella città stremata giunsero finalmente i rifornimenti, sotto l’occhio attento delle truppe prussiane. Nelle elezioni di febbraio, Parigi elesse i suoi deputati repubblicani radicali. Ma la Francia rurale e provinciale votò in massa per la pace. Poiché la sinistra si opponeva alla resa, i repubblicani del governo di Difesa nazionale erano seriamente compromessi dalla loro gestione del­ la guerra, e i bonapartisti del tutto screditati, il voto per la pace premiò i monarchici. Parigi repubblicana scoprì con preoccupazione di trovar­ si di fronte, nell’Assemblea nazionale, una maggioranza monarchica. Thiers, allora settantatreenne, fu eletto presidente, in parte per la sua lunga esperienza politica e in parte perché i monarchici non volevano assumersi la responsabilità di firmare un accordo di pace ignobile. Thiers cedette alla Germania l’Alsazia e la Lorena e acconsentì al paga­ mento di un’enorme indennità di guerra. Fu abbastanza patriota da re­ sistere al suggerimento di Bismarck di contrarre il prestito necessario dai banchieri prussiani. Thiers concesse il privilegio ai francesi, e tra­ sformò quell’anno disgraziato in uno dei più fortunati per i profitti dei gentiluomini dell’alta finanza francese (Guillemin 1971; Bruhat, Dautry eTersen 1971; Dreyfus 1928, pag. 266). Questi comunicarono a Thiers che se voleva i soldi, doveva prima occuparsi di «quei furfanti di Pari­ gi». Thiers infatti era la persona adatta. Come ministro degli Interni sotto Luigi Filippo, nel 1834 era stato responsabile della brutale repres­ sione di uno dei primi veri moti.genuinamente operai nella storia fran­ cese. Pieno di disprezzo per «la vile moltitudine», disponeva da tempo

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di un piano per occuparsene, che aveva proposto a Luigi Filippo nel 1848: ora si trovava nelle condizioni di metterlo in pratica. Il piano era semplice: avrebbe usato il conservatorismo della campagna per distrug­ gere il radicalismo della città. La mattina del 18 marzo, il popolo di Parigi si svegliò scoprendo che ciò che restava dell’esercito francese era stato inviato a Parigi per privare la città dei suoi cannoni: si trattava chiaramente del primo passo verso il disarmo di una popolazione che, dopo il 4 settembre, era entrata in mas­ sa nella Guardia nazionale (fig. 12). Il popolo della Parigi operaia mani­ festò spontaneamente per chiedere la restituzione dei cannoni. Sulla col­ lina di Montmartre, gli stanchi soldati francesi facevano la guardia alla potente batteria di cannoni che vi era stata posta, di fronte a una folla sempre più irrequieta e incollerita. Il generale Lecomte ordinò più volte ai suoi soldati di sparare. I soldati non ebbero il coraggio di farlo, alzaro­ no in aria il calcio dèi loro fucili e fraternizzarono gioiosamente con la folla. La massa furibonda prese prigioniero il generale Lecomte. Poi si imbattè nel generale Thomas, ricordato con odio per il suo ruolo nel fe­ roce massacro dei giorni di giugno del 1848. I due generali furono con­ dotti al numero 6 di rue des Rosiers, e nella gran confusione provocata dalle rabbiose discussioni furono fucilati contro il muro del giardino. Questo evento è di cruciale importanza per la nostra storia. I conser­ vatori ora avevano i loro martiri. Thiers poteva presentare la popolazio­ ne insorta di Parigi come una massa di assassini. La sommità della colli­ na di Montmartre era già stata, molti secoli prima, un luogo di martirio di santi cristiani. A questi si potevano ora aggiungere i nomi di Lecomte e di Clement Thomas. Nei mesi e negli anni successivi, mentre era in corso il conflitto sulla costruzione della basilica del Sacro Cuore, si sa­ rebbero spesso alzati appelli alla necessaria commemorazione di quei «martiri di ieri, morti per difendere e salvare la società cristiana».2 Il 17 giugno 1875, quando venne posta la prima pietra, Rohault de Fleury si felicitò del fatto che la basilica sarebbe stata costruita in un luogo che «dopo essere stato un posto così santo era diventato, sembrerebbe, il luogo prescelto da Satana e in cui fu compiuto il primo atto di quell’orribile saturnale che ha causato così tanta disgrazia e che ha dato alla chiesa due martiri così gloriosi». E continuò: «Sì, qui dove sarà innalza­ to il Sacro Cuore, è qui che iniziò la Comune, è qui dove i generali Cle­ ment Thomas e Lecomte sono stati assassinati». Si felicitava della «mas-

2 Queste parole furono effettivamente usate dal comitato dell’Assemblea nazionale incaricato di riferire sulla proposta di legge che avrebbe reso la basilica un’opera di pub­ blica utilità. Vedi Robault de Fleury (1903, pag. 88).

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Pig. 12. La collina di Montmartre alla vigilia del 18 marzo 1871.

sa di buoni cristiani che oggi si sono prostrati a adorare un Dio che sa molto bene come confondere i malvagi, spazzare via i loro piani e mette­ re una culla dove essi pensavano di aver scavato tma tomba». Rohault de Fleury mise in contrasto questa massa di fedeli con «una collina po­ polata da demoni maligni, abitata da una popolazione ostentatamente ostile a ogni idea religiosa e animata, soprattutto, dall’odio per la Chie­ sa» (Rohault de Fleury 1903, pag. 264). Gallia poenitens. In risposta agli avvenimenti del 18 marzo, Thiers diede l’ordine di ritirare completamente il personale militare e governativo da Parigi. Dalla sicura distanza di Versailles, preparò metodicamente l’invasione e la punizione della città. Bismarck si dimostrò non troppo riluttante a consentire la ricostituzione di un esercito francese sufficiente per liqui­ dare i radicali parigini, e a questo scopo rilasciò i prigionieri. Lasciati ai loro piani, e in qualche modo sorpresi dalla svolta presa dagli eventi, i parigini, sotto la guida del comitato centrale della Guar­ dia nazionale, fissarono le elezioni per il 26 marzo. La Comune venne proclamata come realtà politica il 28 marzo. Fu un giorno di festa per il popolo di Parigi, e di costernazione per la borghesia. La politica della Comune non fu molto coerente. Anche se un nu­ mero significativo di lavoratori per la prima volta nella storia francese prese posto come rappresentante del popolo, la Comune era ancora do­

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minata dagli elementi radicali della borghesia. Composta da diverse correnti politiche - dai repubblicani ai giacobini, dai proudhoniani ai socialisti dell’Internazionale, ai rivoluzionari blanquisti - e lacerata dai settarismi, la Comune si smarrì in vuote discussioni circa la strada - ra­ dicale o socialista - da seguire. Buona parte di tutto questo si rivelò pu­ ra chiacchiera, comunque, quando Thiers all’inizio di aprile diede l’or­ dine di attacco e cominciò il secondo assedio della città. La Francia ru­ rale veniva mobilitata per distruggere la Parigi operaia. Quanto seguì fu disastroso per la Comune. Appena le forze di Ver­ sailles sfondarono la difesa esterna di Parigi, che Thiers aveva fatto co­ struire negli anni quaranta, sorpassarono veloci i settori borghesi della parte occidentale della città, e tagliarono lente e spietate per i grandi viali che Haussmann aveva costruito all’interno dei quartieri operai. Ebbe così inizio uno dei più grandi massacri della pur sanguinosa storia della Francia. Le forze di Versailles non diedero tregua. Alle morti in combattimenti di strada che, secondo la maggior parte delle fonti, non furono tantissime, si aggiunse un numero incredibile di esecuzioni arbi­ trarie e senza giudizio. I giardini del Lussemburgo, le caserme di Lo­ bau, il muro famoso e ancora venerato del cimitero Pére Lachaise risuo­ navano senza sosta del rumore degli spari: le esecuzioni procedevano. Tra i venti e i trentamila comunardi morirono così. Gallia poenitens, ma con vendetta (figg. 13 e 14). In questa triste storia c’è un evento da ricordare. La mattina del 28 maggio, uno sfinito Eugène Varlin fu riconosciuto e arrestato. Varlin era un rilegatore di libri, organizzatore sindacale e di cooperative di consumo sotto il Secondo Impero, membro della Guardia nazionale, intelligente, rispettato, onesto, socialista impegnato e soldato valoroso. Fu condotto alla stessa casa in rue des Rosiers dove erano morti Lecomte e Clément Thomas, ma il suo destino fu peggiore. Venne fatto sfilare attorno alla collina di Montmartre, alcuni dicono per dieci minuti, altri per ore, fu insultato, picchiato e umiliato da una folla eccitata, e infine fu messo contro un muro e fucilato. Aveva solo trentadue anni. Furono necessarie due scariche per ucciderlo. Tra le fucilate gridò, impeniten­ te: Vive la Commune! Il suo biografo definì l’episodio «il calvario di Eugène Varlin». Anche la sinistra ha i suoi martiri. Ed è qui che venne costruito il Sacro Cuore (Foulon 1934). La «settimana di sangue», come venne chiamata, provocò anche un’enorme distruzione di proprietà immmobiliare. Parigi bruciava. Agli edifici che prendevano fuoco a causa del bombardamento si aggiunge­ vano quelli deliberatamente incendiati per motivi strategici dai comu­ nardi in ritirata. Di qui nacque il mito degli “incendiari” della Comune che, si disse, si vendicavano bruciando tutto ciò che potevano. I coma-

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Fig. 13. Esecuzioni al muro dei Federati al cimitero di Pére Lachaise, maggio 1871. Acquarello di Alfred Darjon (Museo Carnavelet).

nardi sicuramente non amavano i privilegi della proprietà privata e non si opponevano alla distruzione dei simboli odiati. La colonna Vendo­ me, tanto amata da Napoleone in, fu in effetti abbattuta nel corso di una grande cerimonia che simboleggiava la fine del dominio autoritario (fig. 15). Il pittore Courbet fu in seguito ritenuto responsabile di questo atto, e condannato a pagare di tasca propria la ricostruzione del monu­ mento. I comunardi decretarono anche, ma non eseguirono, la distru­ zione della cappella deU’Espiazione con cui Luigi XVIII aveva cercato di convincere i parigini di essere colpevoli della morte di suo fratello. E una volta che Thiers ebbe mostrato il suo vero colore, i comunardi pro­ varono un certo piacere a smantellare pietra su pietra la sua dimora pa­ rigina, in un gesto simbolico che secondo de Goncourt ebbe «un otti­ mo cattivo effetto» (Becker 1969, pag. 288). Ma l’incendio all’ingrosso di Parigi fu tutt’altra cosa (fig. 16). Quale che fosse la verità in merito, il mito degli incendiari era forte. Nel giro di im anno, il papa in persona descriveva i comunardi come «diavoli saliti dall’inferno, a portarne il fuoco alle strade di Parigi». Le ceneri della città diventarono il simbolo dei crimini della Comune contro la Chiesa e avrebbero dovuto rendere fertile il suolo da cui sareb-

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Fig. 14. Corpi di comunardi fucilati dalle truppe di Versailles, maggio 1871 (Museo Carnavelet).

be dovuta scaturire la forza di costruire il Sacro Cuore. Non desta stupo­ re il fatto che Rohault de Fleury si congratulasse con se stesso per la feli­ ce scelta di quelle parole: «Se Parigi fosse stata ridotta in cenere». L’e­ spressione faceva effetto con forza raddoppiata, «da quando gli incen­ diari della Comune erano giunti a terrorizzare il mondo» (1903, pag. 13). Le conseguenze della Comune furono tutt’altro che piacevoli. Il massacro sconvolse anche i borghesi, al punto che tutti, tranne i più sa­ dici, dovettero gridare “basta!” Il famoso diarista Edmond de Gon­ court cercò di convincersi che quanto accadde era giusto scrivendo: È bene che non vi sia stata conciliazione né trattativa. La soluzione è stata brutale. E stata una questione di pura forza. La soluzione ha impe­ dito vili compromessi [...] il massacro è stato un lavaggio nel sangue; una simile purga, uccidendo la parte combattiva della popolazione, ri­ manda di un’intera generazione la prossima rivoluzione. La vecchia so­ cietà ha davanti a sé vent’anni, e in questo periodo i poteri costituiti possono fare tutto quello che vogliono. (Becker 1969, pag. 312)

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Fig. 15. L’abbattimento della colonna Vendòme durante la Comune (Illustrated London News).

big. 16. Veduta di Parigi in fiamme dal cimitero Pére Lachaise (Museo Carnavelel).

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Erano proprio gli stessi sentimenti di Thiers. Ma quando de Goncourt attraversò Belleville e vide «il silenzio orribile dei volti», non potè fare a meno di pensare che si trattava di «un distretto conquistato, ma non sot­ tomesso». Non c’era altro modo di fermare la minaccia della rivoluzione? L’esperienza del 1870-1871, sommandosi allo scontro tra Napoleo­ ne in e il papa, e al «materialismo festaiolo» decadente del Secondo Im­ pero, ebbe l’effetto di gettare i cattolici in una fase di commozione dif­ fusa. La maggioranza accettò l’idea che la Francia aveva peccato, e die­ de luogo a manifestazioni di espiazione, e a un movimento di pietà mistico e spettacolare al tempo stesso (Dansette 1965, pagg. 340-345). I cattolici intransigenti e ultramontani erano incondizionatamente favo­ revoli a un ritorno alla legge e all’ordine, e a una soluzione politica che si fondasse sul rispetto dell’autorità. E furono i cattolici monarchici, ge­ neralmente anche intransigenti, a mantenere la promessa di legge e or­ dine. I cattohci Eberali trovavano tutto ciò inquietante e di cattivo gu­ sto, ma non erano in grado di mobihtare le loro forze: anche il papa li descrisse come «il vero flagello» della Francia. Non c’era modo di fer­ mare il consolidamento del legarne tra monarchismo e cattolicesimo in­ transigente. E fu questa potente alleanza a rendere possibile la costru­ zione del Sacro Cuore. Il primo problema, per i padri del pio voto, fu queUo di renderlo operativo. Era necessaria un’azione ufficiale. Legentil e Rohault de Fleury cercarono l’appoggio del vescovo di Parigi, di recente nomina. Monsignor Guibert, proveniente da Tours e compatriota di Thiers, aveva avuto bisogno di essere persuaso ad accettare la sua nomina a Pa­ rigi. I tre precedenti arcivescovi erano morti in modo violento: il primo durante l’insurrezione del 1848, il secondo per mano di un assassino nel 1863, il terzo durante la Comune. I comunardi avevano da subito deciso di prendere degli ostaggi in risposta al macello promesso da Versailles. L’arcivescovo fu tenuto come ostaggio di prima classe, con il quale si cercò di scambiare Blanqui. Thiers rifiutò questo accordo, ritenendo probabilmente che un arcivescovo morto e martire, che tra l’altro era un cattolico Eberale, avesse per lui più valore di uno vivo, scambiato con un Blanqui dinamico e aggressivo. Durante la «settimana di sangue» i co­ munardi si presero ogni vendetta possibile. Il 24 maggio l’arcivescovo venne fucilato. In quei giorni furono fucilati settantaquattro ostaggi, ventiquattro dei quah erano preti. Questo terribile anticlericahsmo era diffuso nella Comune come lo era stato nel 1789. Ma il 14 giugno dopo la grande purga, che aveva lasciato oltre ventimila comunardi morti, quasi quarantamila in prigione, e innumerevoE altri in fuga, Thiers pote­ va scrivere rassicurante a monsignor Guibert: «I “rossi”, totalmente vin­ ti, non ricominceranno domani le loro attività; non ci si impegna due

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volte in cinquant’anni in una battaglia colossale come quella che hanno appena perduto» (Guillemin 1971, pagg. 295-296; Rohault de Fleury 1905, pag. 365). Rassicurato, monsignor Guibert giunse a Parigi. Il nuovo arcivescovo fu molto colpito dal movimento messo in atto per costruire il monumento al Sacro Cuore. Il 18 gennaio 1872 accettò formalmente di assumersi la responsabilità dell’impresa. E scrisse a Le­ gentil e Rohault de Fleury: Avete considerato dalla giusta prospettiva i mali del nostro paese [...]. La cospirazione contro Dio e Cristo ha avuto la meglio in innumerevoli cuori e per punizione per l’apostasia quasi universale, la società è stata colpita da tutti gli orrori della guerra, con uno straniero vittorioso e una guerra ancora più orribile tra figli dello stesso paese. Poiché siamo di­ ventati, per le nostre prevaricazioni, ribelli contro il cielo, siamo caduti pieni di sofferenza nell’abisso dell’anarchia. La terra di Francia presenta l’immagine tremenda di un luogo dove non c’è ordine, e il futuro offre nuovi terrori a venire [...]. Questo tempio, eretto come atto pubblico di contrizione e riparazione [...] starà tra noi come protesta contro altri monumenti e opere d’arte erette a gloria del vizio e dell’empietà. (Rohault de Fleury 1903, pag. 27)

Nel luglio 1872, l’ultraconservatore papa Pio IX, che ancora aspettava di essere liberato dalla sua prigionia in Vaticano, appoggiò formalmen­ te il voto. Partì una campagna di propaganda gigantesca, e il movimen­ to esplose. Entro la fine dell’anno, fu offerto oltre un milione di franchi, e rimaneva solo da trasformare il voto nella sua rappresentazione fisica e materiale. Il primo passo riguardava la scelta di un luogo. Legentil voleva usa­ re le fondamenta dell’Opera, ancora da costruire, che egli considerava «un monumento scandaloso alla stravaganza, all’indecenza e al cattivo gusto» (Jonquet s.d., pagg. 85-87). Il progetto iniziale di Rohault de Fleury per questo edificio era stato scartato nel 1860 dal conte Walewski, «che aveva il dubbio merito di essere figlio illegittimo di Napoleone I, e marito della favorita del momento di Napoleone in» (Pinkney 1958, pagg. 85-87). Il progetto che lo sostituì parve a Legentil un «monumen­ to al vizio e all’empietà», e non si poteva fare nulla di meglio che can­ cellare il ricordo dell’impero costruendo in tale luogo la basilica. Proba­ bilmente a Legentil sfuggì che i comunardi avevano abbattuto la colon­ na Vendòme con lo stesso spirito. Alla fine di ottobre, comunque, l’arcivescovo aveva preso in mano la situazione e aveva scelto l’altura di Montmartre, perché solo da qui si poteva essere sicuri di dominare simbolicamente Parigi. Poiché il terre­ no del sito era in parte di proprietà pubblica, se lo si voleva acquisire

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era necessario il consenso o l’appoggio attivo dello stato, che stava pen­ sando di costruire sul luogo una fortezza militare. L’arcivescovo fece notare che una simile costruzione sarebbe stata facilmente molto impo­ polare, mentre una fortificazione del tipo da lui proposto sarebbe stata meno offensiva e più sicura. Thiers e i suoi ministri, convinti che la pro­ tezione ideologica fosse preferibile a quella militare, esortarono l’arci­ vescovo a presentare una richiesta formale. Cosa che mosignor Guibert fece in una lettera datata 5 marzo 1873 (Rohault de Fleury 1903, pag. 75), chiedendo inoltre che il governo approvasse una legge speciale che dichiarava la costruzione della basilica opera di pubblica utilità. Ciò avrebbe consentito di utilizzare le leggi di esproprio al fine di rendere disponibile il sito. Una simile legge si scontrò nell’opinione pubblica con un radicato sentimento a favore della separazione tra Chiesa e Stato. Ma l’entusia­ smo dei cattolici conservatori per il progetto era molto forte. Thiers ri­ mandò, ma la sua indecisione fu presto liquidata. I monarchici avevano deciso che era giunto il loro momento. Il 24 maggio destituirono Thiers e vollero al suo posto il monarchico arciconservatore maresciallo Mac­ Mahon, che solo due anni prima aveva guidato le forze di Versailles nel­ la sanguinosa repressione della Comune. La Francia fu ancora una volta precipitata nel fermento politico: sembrava imminente una restaurazio­ ne monarchica. Il governo MacMahon fece rapidamente approvare la legge, che en­ trò a fare parte del suo programma. Questo aveva come fine il ripristino del dominio dell’ordine morale in cui i ricchi e i privilegiati, che in quanto tali erano attivamente interessati alla conservazione della so­ cietà, avrebbero avuto, sotto la guida del re e dei suoi alleati e con l’au­ torità della Chiesa, sia il diritto che il dovere di proteggere la Francia dai pericoli cui era stata recentemente esposta, e quindi di impedire al paese di cadere nell’abisso dell’anarchia. Nel quadro della campagna volta a ristabilire l’ordine morale, la Chiesa organizzò numerose mani­ festazioni di massa, la più grande delle quali ebbe luogo il 29 giungo 1873 a Paray-le-Monial. Trentamila pellegrini, compresi cinquanta membri dell’Assemblea nazionale, vi si recarono per votarsi pubblica­ mente al Sacro Cuore (Dansette 1965, pagg. 340-345). Fu in questa atmosfera che 1’11 luglio il comitato formato per riferi­ re sulla legge presentò i suoi risultati all’Assemblea nazionale, un quar­ to dei membri della quale aveva aderito al voto. Il comitato riteneva che la proposta di costruire una basilica di espiazione era senza alcun dub­ bio un’opera di pubblica utilità. Erigere un simile monumento sull’altu­ ra di Montmartre era giusto e corretto, perché qui era stato versato il sangue dei martiri, compresi quelli di ieri. Era necessario «cancellare

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con quest’opera di espiazione i crimini che hanno coronato i nostri do­ lori», e la Francia «che ha sofferto così tanto» deve «richiedere la prote­ zione e la grazia di Colui che concede, secondo la Sua volontà, sconfitta o vittoria» (Rohault de Fleury 1903, pag. 88). Il dibattito che seguì, il 22 e il 23 luglio, riguardava in parte questio­ ni tecniche legali, e poi le conseguenze della legge per il rapporto tra Stato e Chiesa. I cattolici intransigenti proposero subito di andare mol­ to oltre. Essi volevano che l’Assemblea stessa si impegnasse formalmen­ te in un’impresa nazionale che «non era solo una protesta contro la ri­ volta armata della Comune, ma un segno di pacificazione e di concor­ dia». Questo emendamento fu respinto. Ma la legge passò con una larghissima maggioranza di 244 voti. Una solitaria voce di dissenso nel dibattito fu quella di un deputato repubblicano radicale di Parigi: Quando pensate di costruire un monumento cattolico sulle alture che dominano Parigi, la fonte del libero pensiero e della rivoluzione, cosa pensate? Di farne il trionfo della Chiesa sulla rivoluzione. Sì, è questo che voi volete cancellare, quella che chiamate la pestilenza della rivolu­ zione. Quello che volete far rivivere è la fede cattolica, perché voi siete in guerra con lo spirito dei tempi moderni [...]. Ecco, io che conosco i sentimenti della popolazione di Parigi, io che sono corrotto come loro dalla pestilenza rivoluzionaria, io vi dico che la popolazione sarà più scandalizzata che edificata dall’ostentazione della vostra fede [...]. Lun­ gi dall’edificarci, voi ci spingete sulla strada del libero pensiero, sulla strada della rivoluzione. Quando la gente vede queste manifestazioni dei partigiani della monarchia, dei nemici della rivoluzione, essi si di­ ranno che il cattolicesimo e la monarchia sono uniti, e respingendo Tu­ na respingeranno anche l’altro. (Rohault de Fleury 1903, pag. 88)

Armato di una legge che concedeva potere di esproprio, il comitato for­ mato per portare a compimento il progetto acquisì il terreno situato sulla cima del colle di Montmartre. I soldi promessi furono incassati e ci si impegnò a chiederne altri, di modo che l’edificio potesse essere gran­ dioso come il pensiero che lo aveva concepito. Fu indetto un concorso per il progetto della basilica, e si giudicarono le proposte. L’edificio do­ veva essere imponente, coerente con la tradizione cristiana, ma ben di­ stinto dai «monumenti al vizio e all’empietà» costruiti nel corso del Se­ condo Impero. Dei settantadue progetti presentati in una mostra pub­ blica, venne scelto quello dell’architetto Abadie. La grandezza delle sue cupole, la purézza del marmo bianco, e la semplicità priva di ornamenti dei particolari colpirono il comitato: dopo tutto, cosa poteva esserci di più diverso dalle forme vistose di quell’orribile Opera?

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2.57

Nella primavera del 1875 tutto era pronto per la posa della prima pietra. Ma la Parigi radicale e repubblicana non era ancora, a quanto sembrava, sufficientemente pentita. L’arcivescovo lamentava che la ba­ silica del Sacro Cuore veniva considerata come un gesto provocatorio, un tentativo di seppellire i principi del 1789. E anche se, diceva, non avrebbe certo pregato per far rivivere questi principi, se mai fossero sta­ ti morti e sepolti, questa visione della cose stava dando vita a una pole­ mica deplorevole cui l’arcivescovo si trovava costretto a partecipare suo malgrado. Pubblicò quindi una circolare in cui esprimeva il proprio stupore di fronte all’ostilità dimostrata nei confronti del progetto da parte dei «nemici della religione». Trovava intollerabile che si osassero interpretare politicamente pensieri che derivavano solo dalla fede e dal­ la pietà. La politica, assicurava i lettori, «è stata molto, molto lontana dalla nostra ispirazione; l’opera è stata ispirata, al contrario, dalla profonda convinzione che la politica non è in grado di intervenire sui mali del nostro paese. Le cause di questi mah sono morali e religiose, e i rimedi devono essere dello stesso ordine». Inoltre, continuava, l’opera non poteva essere costruita in quanto politica, poiché scopo della poli­ tica è dividere, «mentre la nostra opera ha come suo fine l’unione di tutti [...]. La pacificazione sociale è l’obiettivo finale dell’opera che stia­ mo cercando di realizzare» (Rohault de Fleury 1903, pag. 244). Il governo, ora chiaramente sulla difensiva, era molto agitato dalla prospettiva di una grandiosa cerimonia inaugurale che avrebbe potuto fornire l’occasione per uno scontro sgradevole, e consigliò cautela. Il comitato doveva trovare il modo di posare la prima pietra senza che ciò sembrasse una provocazione. Il papa accorse in aiuto e proclamò per tutti i cattolici una giornata dedicata al Sacro Cuore. Dietro questo ri­ paro, si svolse senza incidenti una cerimonia di tono molto minore. Ora la costruzione era in corso. Gallia poenitens stava prendendo forma simbolica e materiale. I quarant’anni trascorsi tra la posa della prima pietra e la definitiva consacrazione della basilica nel 1919 furono spesso pieni di problemi. Vi furono difficoltà tecniche, inevitabili per costruire un edificio di tali dimensioni sulla cima di un colle reso instabile da anni di scavi per l’e­ strazione del gesso. Il costo della struttura aumentò notevolmente e poiché l’entusiasmo per il Sacro Cuore tendeva a diminuire, sorsero dif­ ficoltà finanziarie. E continuava la polemica politica. Il comitato incaricato del progetto aveva definito sin dall’inizio una serie di stratagemmi per incentivare l’afflusso di contributi. Individui e famiglie potevano acquistare una pietra, e il visitatore del Sacro Cuore può vedere i nomi di molti di questi incisi sulle pietre della chiesa. Va­ rie regioni e organizzazioni vennero invitate a sottoscrivere per la co­

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struzione delle cappelle. Membri dell’Assemblea nazionale, dell’eserci­ to, del clero unirono i loro sforzi a questo fine. Ogni cappella particola­ re ha il suo significato. Tra le cappelle della cripta, per esempio, il visitatore troverà quella di “Gesù insegnante”, che ricorda, come dice Rohault de Fleury, «che uno dei più grandi peccati della Francia è stata la folle invenzione di un’educazione senza Dio» (Rohault de Fleury 1903, pag. 269). In questa cappella misero i loro soldi coloro che si trovarono dal lato dei perdenti nella dura battaglia svoltasi dopo il 1.871 per mantenere il potere della Chiesa sull’educazione. Vicino a questa cappella, alla fine della cripta, nei pressi della vecchia rue Rosiers, sorge quella di “Gesù operaio”. Il fatto che gli operai cattolici volessero contribuire alla costruzione della loro cappella fu fonte di grande gioia. Dimostrava, scrisse Legentil, il desiderio dei lavoratori «di protestare contro la spaventosa em­ pietà in cui sta cadendo buona parte della classe operaia» e la loro de­ terminazione nel resistere «all’empia e veramente infernale associazione che, quasi in tutta Europa, ne sta facendo la sua schiava e vittima» (Rohault de Fleury 1903, pag. 165). E riferimento all’Associazione in­ ternazionale dei lavoratori è inconfondibile e molto ben comprensibile, perché era frequente nei circoli borghesi dell’epoca l’attribuzione, del resto sbagliata, della Comune alla nefasta influenza di questa “inferna­ le” associazione. Eppure, per uno strano scherzo del destino, la cappel­ la dedicata a Gesù operaio si trova quasi esattamente nel luogo in cui si svolse il «calvario di Eugène Varlin». E così la basilica, eretta in alto per commemorare il sangue di due nuovi martiri della destra, in basso commemora inconsapevolmente un martire della sinistra. L’interpretazione che Legentil dava di tutto ciò era in effetti sba­ gliata. Verso la fine della Comune, un giovane cattolico di nome Albert de Munn assisteva sgomento allo sterminio dei comunardi. Sconvolto, si trovò a pensare a cosa «una società legalmente costituita avrebbe po­ tuto fare per questa gente» e concluse che le loro sciagure erano dovu­ te in buona misura all’indifferenza delle classi benestanti. Nella prima­ vera del 1872, si recò nel cuore dell’odiata Belleville e diede vita al pri­ mo dei suoi Cercles-Ouvriers (Dansette 1965, pagg. 356-358; Lepidis e Jacomin 1975, pagg. 271-272). Questo segnò l’inizio in Francia di un nuovo tipo di cattolicesimo, che cercava, per mezzo dell’attivismo so­ ciale, di occuparsi delle esigenze materiali dei lavoratori, oltre che di quelle spirituali. Fu per mezzo di organizzazioni del genere, ben diver­ se dal cattolicesimo ultramontano e intransigente che stava al centro del movimento per il Sacro Cuore, che un piccolo rivolo di contributi di lavoratori iniziò ad affluire verso la costruzione di una basilica in ci­ ma a Montmartre.

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Ma le difficoltà politiche aumentarono. La Francia, finalmente dota­ ta di una costituzione repubblicana, dovuta in buona parte all’intransi­ genza dei monarchici, era ora nel pieno di un processo di modernizza­ zione promosso dal miglioramento delle comunicazioni, dall’educazio­ ne di massa e dallo sviluppo industriale. Il paese giunse ad accettare la forma moderata del repubblicanesimo, e perse ogni fiducia nel monar­ chismo reazionario che aveva dominato I’Assemblea nazionale eletta nel 1871. A Parigi gli abitanti «non sottomessi» di Belleville, e i loro vicini di Montmartre e La Villette incominciarono a riprendersi, molto più velocemente di quanto Thiers avesse previsto. In questi quartieri si rafforzò la rivendicazione di un’amnistia per i comunardi esiliati, insie­ me con l’odio per la basilica che stava sorgendo proprio nel loro territo­ rio (fig. 17). Crebbe la protesta contro il progetto. Il 3 agosto 1880 la questione pervenne al consiglio municipale nella forma di una proposta: una «colossale statua della libertà sarà posta sul­ la cima di Montmartre, di fronte alla chiesa del Sacro Cuore, su terreno di proprietà della città di Parigi». I repubblicani dell’epoca avevano adottato gli Stati Uniti come società modello, che funzionava perfetta­ mente senza monarchia e altri carichi feudali. Come parte della campa­ gna per diffondere questo esempio, e per simbolizzare il loro profondo attaccamento ai principi della libertà, del repubblicanesimo e della de­ mocrazia, stavano raccogliendo fondi per donare la Statua della Libertà che oggi domina il porto di New York (fig. 18). Perché, si diceva dun­ que, non cancellare la vista dell’odiato Sacro Cuore con un monumento, altrettanto grande? (Città di Parigi, consiglio municipale, Verbali, 3 agosto, 7 ottobre e 2 dicembre 1880). Per quanto si affermasse il contrario, essi dicevano, la basilica costi­ tuiva il simbolo dell’intolleranza e del fanatismo della destra, era un in­ sulto alla civiltà, il nemico dei principi dei tempi moderni, un’invoca­ zione del passato e una vergogna per l’intera Francia. I parigini, pronti a dimostrare il loro impenitente attaccamento agli ideali del 1789, erano determinati a cancellare quell’espressione del «fanatismo cattolico» co­ struendo proprio il monumento che l’arcivescovo aveva precedentemente definito «una glorificazione del vizio e dell’empietà». Il 7 ottobre il consiglio municipale cambiò tattica. Definendo la ba­ silica «una continua provocazione alla guerra civile», i membri decisero con una maggioranza di sessantuno contro tre di richiedere al governo di «revocare la legge di pubblica utilità del 1873» e di usare il terreno, che sarebbe ritornato di proprietà pubblica, per la costruzione di un monumento dal vero significato nazionale. Trascurando elegantemente il problema del risarcimento di coloro che avevano contribuito alla co­ struzione della basilica, che non si era ancora alzata sopra le fondameli-

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Fig. 17. Il Sacro Cuore come nemico (riproduzione autorizzata dalla Collection d’afflches politiques di Alain Gesgon).

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ta, il consiglio passò la proposta al governo. Nell’estate del 1882, la ri­ chiesta giunse alla Camera dei deputati. Ancora una volta l’arcivescovo Guibert fu costretto a prendere le pubbliche difese dell’opera. Sfidò quelli che ormai erano argomenti fa­ miliari contro la basilica con risposte altrettanto familiari. Sottolineò il fatto che l’opera non era ispirata dalla politica, ma da sentimenti cristia­ ni e patriottici. A coloro che esprimevano obiezioni sul suo carattere espiatorio rispose semplicemente che nessuno poteva permettersi di ri­ tenere infallibile il proprio paese. E per quanto riguardava l’appropriatezza del culto del Sacro Cuore, riteneva che solo i membri della Chiesa avessero il diritto di giudicare in merito. A coloro che dipingevano la basilica come una provocazione alla guerra civile, rispose: «Le guerre civili e le rivolte sono mai prodotto dei nostri tempi cristiani? Coloro che frequentano le nostre chiese sono inclini alle agitazioni e alle rivolte contro la legge? Troviamo questa gente in mezzo ai disordini e alla vio­ lenza che di quando in quando turbano le strade delle nostre città?». L’arcivescovo giunse a sottolineare che mentre Napoleone I aveva cer­ cato di costruire su Montmartre un tempio della pace, «siamo noi che stiamo costruendo, alla fine, il vero tempio della pace» (Rohault de Fleury 1905, pagg. 71-73). Guibert analizzava poi gli effetti negativi che avrebbe avuto la so­ spensione dei lavori. Una simile azione avrebbe profondamente ferito il sentimento cristiano e sarebbe stata fonte di divisioni. Sarebbe sicura­ mente stato un cattivo precedente, diceva (ignorando tranquillamente il precedente stabilito dalla legge stessa del 1873), se iniziative religiose di questo tipo fossero state sottoposte ai capricci del governo di turno. C’era poi il complesso problema del compenso, non solo di chi aveva contribuito, ma anche del lavoro compiuto fino ad allora. Infine, fece appello al fatto che l’opera stava dando lavoro a seicento famiglie, e pri­ vare «questa parte di Parigi di una fonte di occupazione così importan­ te sarebbe veramente disumano». I rappresentanti parigini alla Camera dei deputati, che nel 1882 era dominata dai repubblicani riformisti come Gambetta (di Belleville) e Clemenceau (di Montmartre), non si lasciarono convincere da questi ar­ gomenti. Il dibattito fu acceso e appassionato. Il governo si dichiarò ri­ solutamente contrario alla legge del 1873, ma non aveva intenzione di revocarla, perché ciò avrebbe comportato il pagamento di oltre dodici milioni di franchi di indennità alla Chiesa. Sforzandosi di contenere l’e­ vidente insoddisfazione della sinistra, il ministro giunse ad affermare che con la revoca della legge l’arcivescovo sarebbe stato sgravato dall’obbligo di portare a termine un’impresa che si stava rivelando molto difficile, e si sarebbero forniti alla Chiesa venti milioni di franchi per compiere

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Fig. .? 8. La Statua della Libertà in costruzione a Parigi.

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opera di propaganda che sarebbe potuta essere «infinitamente più effi­ cace di quella contro cui protestano i firmatari della presente mozione». I repubblicani radicali non erano disposti, comunque, a vedere il Sacro Cuore come un elefante bianco. Né volevano pagare i risarcimen­ ti. Volevano farla finita con quell’odiosa manifestazione di pio clericali­ smo, sostituendola con un monumento alla libertà di pensiero. La colpa della guerra civile andava attribuita direttamente ai monarchici e ai loro alleati cattolici intransigenti. Clemenceau si alzò, per esporre il punto di vista radicale. Dichiarò che la legge del 1873 era un insulto, l’atto di Un’Assemblea nazionale che aveva cercato di imporre alla Francia il culto del Sacro Cuore per­ ché «noi abbiamo combattuto e ancora combattiamo per i diritti uma­ ni, perché noi abbiamo fatto la Rivoluzione francese». La legge era fruttto della reazione cattolica, un tentativo di condannare la Francia ri­ voluzionaria, «di condannarci a chiedere perdono alla Chiesa per la no­ stra lotta incessante per sconfiggerla, per potere stabilire i principi di li­ berà, eguaglianza e fraternità». «Dobbiamo» dichiarò «rispondere a un atto politico con un atto politico. Non farlo lascerebbe la Francia in preda all’intollerabile invocazione del Sacro Cuore» (Rohault de Fleury 1905, pag. 71 e segg.). Con una simile capacità oratoria, Clemenceau soffiava sul fuoco del sentimento anticlericale. La Camera votò con una maggioranza di 261 voti contro 199 la revoca della legge del 1873. Sembrava che la basilica, i cui muri avevano appena iniziato ad alzarsi sulle fondamenta, fosse de­ stinata a crollare. La chiesa fu però salvata da un accorgimento tecnico. La legge ven­ ne approvata troppo tardi nella sessione per rispondere a tutti i criteri formali per essere promulgata. Il governo, realmente preoccupato dei costi e delle responsabilità connesse, lavorò silenziosamente per impe­ dire che la mozione fosse ripresentata a una Camera che nella sessione successiva passò alla discussione di questioni di peso e significato molto maggiori. I repubblicani parigini avevano ottenuto una vittoria parla­ mentare, certamente simbolica ma in ultima analisi di Pirro. L’arcive­ scovo, sollevato, ridiede impulso all’opera. La vicenda non era comunque conclusa. Nel febbraio 1897 la mozio­ ne venne ripresentata (Lesourd 1973, pagg. 224-225). L’anticlericalismo repubblicano aveva fatto grandi progressi, così come il movimento ope­ raio, che si era dato la forma di un partito socialista forte e in ascesa. Ma la costruzione in cima alla collina era proseguita. L’interno della basilica era stato inaugurato e aperto al culto nel 1891, e la grande cupola era or­ mai in via di completamento: la croce che la sovrasta fu formalmente be­ nedetta nel 1899. La prospettiva di smantellare un’opera così imponente

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era ormai scoraggiante, per quanto si continuasse a vedere in essa «una provocazione alla guerra civile». E questa volta fu proprio Albert de Munn a difendere la basilica nel nome di un cattolicesimo convinto del­ la necessità di separare il proprio destino da quello di una causa monar­ chica ormai al tramonto. La Chiesa stava incominciando a imparare la lezione, e il culto del Sacro Cuore andò assumendo un nuovo significato, in risposta a una situazione sociale in mutamento. Nel 1899, un papa dalla mentalità più riformista dedicò il culto all’ideale dell’armonia tra le razze, della giustizia sociale, della conciliazione. Ma i deputati socialisti non si lasciarono convincere da quelle che ai loro occhi sembravano manovre di cooptazione. Continuarono ad af­ fermare la necessità di abbattere l’odiato simbolo, per quanto ormai quasi ultimato, anche se una simile azione avrebbe comportato il risar­ cimento di otto milioni di sottoscrittori per un totale di trenta milioni di franchi. Tale prospettiva spaventava però la maggioranza della Camera, e la mozione fu respinta con 322 voti contro 196. Questa fu l’ultima volta in cui la basilica venne minacciata da un’ini­ ziativa pubblica. Con il completamento della cupola nel 1899, l’attenzio­ ne si spostò sulla costruzione del campanile, che fu portata a termine nel 1912. Alla fine della primavera del 1914 tutto era pronto, e l’inaugura­ zione ufficiale era prevista per il 17 ottobre. Ma subentrò la guerra con la Germania. Solo alla fine di quel sanguinoso conflitto la basilica venne finalmente consacrata. Una Francia vittoriosa, guidata dalla fiera orato­ ria di Clemenceau, festeggiò con gioia la consacrazione di un monumen­ to concepito una generazione prima, nel corso di una guerra persa con­ tro la Germania. Gallia poenitens aveva infine dato i suoi risultati. Tuttavia si possono ancora sentire echi sordi di questa storia tortura­ ta. Nel febbraio 1971, per esempio, un gruppo di dimostranti inseguiti dalla polizia trovò rifugio nella basilica. Asserragliati all’interno, chiama­ rono i loro compagni radicali a unirsi a loro per occupare la chiesa «co­ struita sopra i corpi dei comunardi per cancellare la memoria di quella bandiera rossa che aveva sventolato troppo a lungo sopra Parigi». Il mi­ to degli incendiari abbandonò immediatamente i suoi antichi ormeggi, e un parroco in preda al panico chiamò la polizia nella basilica per preve­ nire l’esplosione. I “rossi” furono cacciati dalla chiesa con grande bruta­ lità. Così venne festeggiato il centenario della Comune di Parigi. In seguito, nel 1976, una bomba esplose nella basilica, causando danni piuttosto gravi a una delle cupole. Lo stesso giorno, si disse, il vi­ sitatore del cimitero Pére Lachaise avrebbe potuto vedere una solitaria rosa rossa sulla tomba di Auguste Blanqui. Rohault de Fleury aveva disperatamente voluto «porre una culla do­ ve [altri] avevano creduto di aver scavato una tomba». Ma il visitatore

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che guardi la struttura simile a un mausoleo del Sacro Cuore può ben chiedersi chi mai vi sia sepolto. Lo spirito del 1789? I peccati della Fran­ cia? L’alleanza tra cattolicesimo intransigente e monarchismo reaziona­ rio? Il sangue di martiri come Lecomte e Clément Thomas? O quello di Eugène Varlin e dei ventimila comunardi massacrati senza pietà? L’edificio nasconde i suoi segreti in un silenzio di tomba. Solo chi è vivo conosce i fatti, comprende i principi di coloro che lottarono pro e contro l’abbellimento di questo luogo, può veramente far venire alla lu­ ce i misteri che giacciono sepolti, e quindi salvare una ricca esperienza dal silenzio morale della tomba, trasformandola nei rumorosi vagiti del­ la culla.

8. L’urbanizzazione della coscienza

L’urbanizzazione capitalista avviene all’interno dei confini della comu­ nità del denaro, è definita dalle astrazioni concrete di tempo e spazio, e contiene in sé la forza turbolenta della circolazione del capitale, sotto la sorveglianza ambigua e spesso precaria dello stato. Una città è una concentrazione di forze produttive, costruita da lavoro impiegato in un processo temporale di circolazione del capitale. Essa si nutre del meta­ bolismo della produzione capitalista, finalizzata allo scambio sul mer­ cato mondiale, e appoggiata da un sistema altamente sofisticato di pro­ duzione e distribuzione organizzate nei suoi confini. E popolata da in­ dividui che si riproducono utilizzando entrate monetarie guadagnate dalla circolazione del capitale (salari e profitti) o dai redditi che ne de­ rivano (rendite, tasse, interesse, profitto commerciale, ricompensa di servizi). La città è dominata da una particolare coalizione di forze di classe, è segmentata in comunità distinte di riproduzione sociale, ed è organizzata come mercato del lavoro discontinuo ma spazialmente contiguo, nel quale si possono reperire determinate quantità e qualità di forza-lavoro. La città è un grande successo dell’uomo: essa oggettiva il sapere più sofisticato in un paesaggio fisico di complessità, potenza e splendóre straordinari, e contemporaneamente unisce forze sociali capaci delle più stupefacenti innovazioni sociotecniche e politiche. Ma è anche luo­ go di squallido fallimento esistenziale, parafulmine dello scontento di­ sperato, arena del conflitto sociale e politico. È un luogo misterioso, do­ ve l’inatteso è di casa, pieno di agitazione e fermento, di libertà, oppor­ tunità e alienazione; pieno di passione e repressione; di cosmopolitismo e campanilismo estremi; di violenza, innovazione e reazione. La città ca­ pitalista è l’arena dei massimi disordini sociali e politici, ed è insieme te­ stimonianza monumentale e forza propulsiva nella dialettica dello svi­ luppo ineguale capitalista.

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Come si può penetrare il mistero, sbrogliare la confusione, afferrare le contraddizioni? La domanda è importante per due motivi. Innanzi­ tutto sappiamo che, come dice Lefebvre, il capitalismo è sopravvissuto fino al XX secolo per mezzo della produzione di spazio, e che lo spazio prodotto è stato sempre più urbanizzato. Uno studio del processo ur­ bano, dunque, dice molto del meccanismo della fortunata autoriprodu­ zione del capitalismo. Inoltre, la crescita dell’urbanizzazione ne fa il terreno principale sul quale gli individui maturano esperienze, vivono, reagiscono ai cambiamenti che li circondano. Dissezionare integral­ mente il processo urbano significa mettere a nudo, nella realtà materia­ le della vita quotidiana, le radici della formazione della coscienza. E a partire dalle complessità e dalle ambiguità di questa esperienza che na­ sce la nostra comprensione elementare del significato di spazio e tem­ po; del potere sociale e delle sue forme di legittimazione; delle forme di dominio e di interazione sociale; della relazione, mediata da produzio­ ne e consumo, con la natura; e della natura dell’uomo, della società e della vita politica. Dalle ambiguità di questa esperienza nascono strani modi di pensa­ re, vedere le cose e agire, che non possono essere interpretati facendo appello immediato a strutture di classe polarizzate, o anche complesse. Né possono essere dichiarati falsi. Sosterrò invece che sono feticisti: le rappresentazioni di senso comune dell’esperienza quotidiana nascon­ dono i significati interni delle cose, anche se l’apparenza superficiale da cui derivano è reale. Se il degrado abitativo sembra produrre il crimine, e l’automobile la suburbanizzazione, bisogna riconoscere le correlazio­ ni materiali tra queste cose, anche se le forze sociali che le hanno pro­ dotte rimangono nascoste. Per i fini della vita quotidiana spesso è suffi­ ciente, se non necessario, accettare come base per l’azione le apparenze superficiali. Vivere in un’area suburbana senza automobile è stupido quanto passeggiare nei bassifondi senza considerare la possibilità di in­ cappare in un criminale. La coscienza prodotta dalla lettura feticista della vita quotidiana urbana non è borghese né capitalista. Si situa su un piano diverso. Se non la si demistifica, però, ci si impegnerà in azio­ ni che daranno luogo a conseguenze inattese. Avidi difensori del capita­ lismo indeboliranno ciò che più vogliono difendere, e i socialisti fini­ ranno per appoggiare ciò che condannano. In questa confusione possono sorgere sentimenti, illusioni e distor­ sioni di ogni tipo. Il fermento del malcontento e dell’opposizione, nu­ merosi errori, comprensibili e del tutto ragionevoli, conseguenze inatte­ se: tutto questo è parte della miscela urbana. Vi giace un’energia straor­ dinaria, anche se spesso solo latente, di trasformazione sociale. L’urbanizzazione capitalista dà vita a forze che, una volta messe all’ope-

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ra e in movimento, possono tanto facilmente minacciare il capitalismo quanto consentirne la sopravvivenza. La forza di pensatori come Simmel, Wirth, Sennett è che essi affron­ tano direttamente il problema anziché lasciarlo alla periferia del loro pensiero, come invece fanno, per esempio, Marx, Weber e Durkheim. Il loro difetto è che prendono così sul serio le apparenze superficiali che non riescono a penetrarne i feticismi, o ne producono interpreta­ zioni parziali e astratte. Simmel (1995) nel suo famoso saggio La metro­ poli e la vita intellettuale non andò molto oltre l’individualismo aliena­ to, e i limiti del coordinamento spaziotemporale dell’azione. Wirth (1964), anche se è più complesso, non è riuscito a liberarsi dai presup­ posti ecologici della scuola di Chicago. Rispetto a questo, la visione pe­ riferica di un Marx o di un Weber fornisce almeno un fondamento per interpretare la città all’interno di una concezione generale della società civile e dei suoi modi di produzione e organizzazione. Il problema è in­ serire nella prospettiva marxiana la sofisticazione e il dettaglio di autori quali Simmel o Wirth. L’urbanizzazione della coscienza dev’essere compresa in rapporto con l’urbanizzazione del capitale. La strategia che propongo per affrontare questo problema è sempli­ ce, forse troppo. Incomincio con la definizione dei cinque punti centra­ li in cui si formano il potere e la coscienza. L’individualismo è collegato con l’utilizzo del denaro in liberi mercati. La classe, nel capitalismo, ri­ flette la compravendita di forza-lavoro e i rapporti sociali incorporati nelle circostanze sociotecniche di una produzione finalizzata all’estra­ zione di plusvalore. La comunità, come vedremo, è un concetto molto ambiguo, che tuttavia gioca un ruolo fondamentale ai fini della riprodu­ zione della forza-lavoro, della circolazione dei redditi e della geografia dell’accumulazione del capitale. Lo stato è un centro di autorità, ed è l’apparato con cui il potere politico-economico viene esercitato, con un certo grado di legittimazione popolare, su un territorio. Infine la fami­ glia, cui dovrei aggiungere tutte le altre forme di economia domestica, ha un notevole effetto sui modi di pensare e di agire, semplicemente in virtù della sua funzione di luogo primario di cura sociale e di attività ri­ produttive, come l’allevamento dei figli. Ora, però, intendo modificare questa concezione. In primo luogo: nessuno dei luoghi di formazione di potere e di coscienza considerati in questo schema nominalista può essere analizzato indipendentemente dall’urbanizzazione del capitale, né questa è comprensibile al di fuori di quelli. L’interpretazione storico-materialista del processo urbano ha quindi il compito di esaminare come i modi di vedere, pensare e agire prodotti dalle relazioni tra individualismo, classe, comunità, stato e fa­ miglia determinano i percorsi e le qualità dell’urbanizzazione capitalista,

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che a sua volta ritorna a trasformare i nostri pensieri e le nostre azioni. Solo così possiamo capire la dinamica di urbanizzazione per mezzo della quale il capitalismo, a dispetto di tutte le sue contraddizioni interne, so­ pravvive come modo di produzione e di consumo funzionante. Come si produce una coscienza urbanizzata, e quali sono i suoi effet­ ti politici? Pensiamo per prima cosa al rapporto tra denaro e capitale, le cui comunità, intrecciandosi, definiscono la sostanza del processo di ur­ banizzazione e della coscienza urbana. Il denaro, ho dimostrato nel VI capitolo, funziona come un’astrazione concreta, che costringe ogni aspetto della vita umana in una misurazione esterna e omogenea, la qua­ le riduce una diversità infinita a una sola dimensione di commensurabi­ lità, e che nasconde, sotto scambi oggettivi di mercato, rapporti umani e soggettivi. Lo sviluppo dell’urbanizzazione, come Simmel giustamente osserva, si fonda sul dominio crescente del nesso monetario sulle varie forme di interazione umana, e produce così proprio quel tipo di indivi­ dualismo alienato che Marx ed Engels descrivono nel Manifesto del par­ tito comunista. Il denaro usato come capitale sussume tutti i processi produttivi, e tutti i mercati del lavoro e delle merci, sotto una sola logi­ ca, di classe e imperniata sulla ricerca del profitto. Marx ci mostra che un simile modo di produzione si deve espandere, e che deve simultanea­ mente impegnarsi in continue rivoluzioni delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione, che ottiene grazie alla riorganizzazione della divisione del lavoro. Qui si trova la forza dinamica che produce l’urbanizzazione grande, densa ed eterogenea descritta da Wirth. Il denaro e il capitale ci stanno dunque di fronte come doppie aliena­ zioni, la cui combinazione dovrebbe sicuramente produrre energia rivo­ luzionaria sufficiente per liquidarli rapidamente entrambi. Ma le aliena­ zioni possono produrre confusione e rimescolarsi. I movimenti politici di classe contro il potere del capitale sono in difficoltà o addirittura scompaiono quando attaccano le libertà, reali e care a tutti per quanto necessariamente limitate, derivanti dal possesso di denaro sul mercato. Persino la persona più povera ama la libertà garantita da una pur mini­ ma quantità di denaro, e i lavoratori possono accettare attivamente il proprio sfruttamento nella produzione, pur di ottenere un maggior po­ tere monetario, che dia loro più libertà sul mercato e maggiore capacità di controllo su parte del loro spazio (con la proprietà della casa o del­ l’automobile), e del loro tempo (il cosiddetto “tempo libero”). Il senso di classe derivato dall’esperienza del guadagno di denaro si oppone all’esperienza limitata ma forte di libertà individuale che si pro­ va quando si spende questo denaro. La condizione urbana di solito è ta­ le che questo scontro è ovunque. La libertà e l’ampia possibilità di scel­ ta che derivano dal possesso di denaro nel mercato cittadino forniscono

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un ambito di esperienza, pensiero e azione molto diverso da quello pro­ dotto dall’ammassarsi del proletariato nelle fabbriche di una città capi­ talista. La separazione del luogo di residenza dal luogo di lavoro simbo­ leggia questa rottura: vi corrisponde il mutamento di ruolo da vendito­ re di forza-lavoro a compratore di merci. Dato che vengono fatti grandi sforzi per nascondere dietro la maschera del feticismo la storia delle merci (per esempio, la pubblicità raramente dice qualcosa di vero su come le merci sono prodotte), la separazione tra i due mondi della pro­ duzione e del consumo diventa totale. I capitalisti, alle prese con un conflitto di classe violento e spesso realmente pericoloso, hanno appre­ so l’uso creativo di queste separazioni. Il genio del fordismo e del New Deal, con le sue strategie di gestione statale e il suo appoggio alla co­ scienza sindacale, fu proprio di offrire una maggiore libertà di mercato in cambio di una minore lotta di classe nella sfera della produzione. L’effetto, come abbiamo visto nel I capitolo, è stato un profondo cam­ biamento nell’aspetto dell’urbanizzazione capitalista, e nei rapporti tra individualismo, classe, comunità, famiglia e stato nei contesti urbani. Pensiamo in secondo luogo alla coscienza comunitaria. Le comunità del denaro e del capitale sono tali nel senso più lato e prive di prossi­ mità. Di contro, le comunità particolari che chiamiamo città, paesi o an­ che quartieri sono posti determinati, costruiti da processi socio-econo­ mici e politici ben precisi (vedi per esempio il cap. ix). Dal punto di vista delle “comunità” del denaro e del capitale, questi luoghi non sono altro che spazi relativi da costruire, distruggere o ab­ bandonare, a seconda delle prospettive di profitto. Ma dal punto di vi­ sta della gente che ci vive, essi possono diventare oggetto di un partico­ lare attaccamento. Anche su questa base dunque si possono innestare dinamiche opposte di formazione di coscienza e di azione politica. Gli individui possono interiorizzare entrambe le cose. Un pensionato può desiderare il massimo ritorno possibile dai suoi investimenti nei fondipensione, e anche lottare contro l’abbandono della sua comunità, ri­ chiesto dalla rozza logica della massimizzazione del profitto. Questa tensione si può risolvere in modi vantaggiosi per il capitale. Nel V capitolo ho mostrato come le “macchine per la crescita” locali e le coalizioni di classe dominanti cerchino di attrarre lo sviluppo capita­ lista e di difendere l’economia locale contro la disoccupazione e la sva­ lutazione delle sue risorse. Questo definisce buona parte dei temi della politica locale. La concorrenza interurbana, un processo in cui la lealtà territoriale alla comunità e il localismo sono estremamente importanti, aiuta a strutturare lo sviluppo geografico ineguale del capitalismo su li­ nee tali da aumentare l’accumulazione complessiva. L’efficienza dell’ar­ ticolazione geografica del capitalismo dipende dal fatto che molte co-

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munita adottino strategie corporative di sviluppo capitalista. In questo modo, le città devono farsi pubblicità, proponendosi al mercato come le migliori posizioni disponibili per funzioni produttive, di consumo o di comando. La costruzione di un’immagine urbana, per esempio attra­ verso l’organizzazione di spettacoli come quelli descritti nel IX capitolo, diventa quindi un aspetto rilevante della concorrenza interurbana, e al tempo stesso rappresenta un buon modo di riunire intorno a una causa comune una popolazione potenzialmente alienata. L’immagine di una comunità comprensiva e affettuosa può essere messa sul mercato e venduta. Tale tecnica è spesso utilizzata nella spe­ culazione edilizia. Se ne possono trovare esempi a partire dal XVII seco­ lo, e nel XIX ve ne sono di abbondanti (cfr. la ricerca di Warner, 1962, su Boston, e quella di Dyos, 1961, su Camberwell). Il fenomeno si è ge­ neralizzato dopo il 1945. Lo stile di urbanizzazione keynesiano si basa­ va sull’energica mobilitazione dello spirito della sovranità del consuma­ tore in un’economia in cui il potere d’acquisto era distribuito ampia­ mente, anche se in maniera ineguale, tra le diverse famiglie. La sovranità era feticista, ma non illusoria. Grazie alle differenziazioni nel consumo, essa dava modo agli individui di mobilitare ogni segno di di­ stinzione, in risposta all’universalismo mediocre del denaro (cfr. Sim­ mel 1984, e supra, cap. Vi). Nuovi tipi di comunità potevano essere co­ struiti, confezionati e venduti, in una società dove l’identità sembrava dipendere sempre più da come si spendevano i soldi, e non da come li si guadagnava. Si poteva far sì che gli spazi di vita rappresentassero lo status, la posizione e il prestigio sociali, in modi che realizzavano il con­ cetto weberiano di classe di consumo. Lo sforzo di produrre e controllare il capitale simbolico (vedi cap. IX) è diventato una caratteristica ancora più rilevante dell’organizzazio­ ne della vita urbana negli ultimi anni, quando si sono affermati movi­ menti come la residenzializzazione, il postmoderno e il rinascimento ur­ bano. Inoltre, il rapporto con una natura degradata nella produzione è stato soppiantato da un rapporto con la natura confezionato come un prodotto di consumo. La suburbanizzazione promette natura e comu­ nità, entrambe confezionate come merci (Walker 1981). Nessuna di queste trasformazioni è necessariamente in contrasto con le forme tradizionali di organizzazione della vita familiare e dell’e­ conomia domestica. Il desiderio di aumentare o di conservare il valore della proprietà personale e l’accesso alle opportunità di vita suggerisce a individui e famiglie forme economicamente razionali di partecipazio­ ne alla vita comunitaria (Olson 1983). Ma il risultato è un particolare ti­ po di comunità, totalmente sottomesso all’individualismo monetario e ai rapporti di proprietà familiari. Simili comunità possono servire anche

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a produrre diversi tipi di forza-lavoro, e quindi fungere da sedi dei pro­ cessi fondamentali di riproduzione di classe (vedi cap. tv). La comunità, insomma, può essere costruita secondo sistemi molto compatibili con l’accumulazione del capitale. L’urbanizzazione basata sulla domanda comporta anche una trasformazione delle reti relazionali. Si accentua la divisione spaziale del consumo rispetto a quella del lavo­ ro, in modo da dare l’impressione superficiale della comparsa di classi di consumo e di raggruppamenti di status, identificati dallo stile di vita o dalla posizione nello spazio sociale, contrapposti alle classi tipiche della produzione. Gli spazi sociali di svago e divertimento diventano impor­ tanti come quelli di lavoro e di vita per la cultura urbana. La concorren­ za sociale nello stile di vita e nel controllo dello spazio, da sempre im­ portante per gli strati borghesi superiori, diventa sempre più rilevante nella cultura urbana di massa, giungendo a volte persino a nascondere il ruolo della comunità nei processi di riproduzione di classe. Ne conse­ guono anche nuovi rapporti con lo stato, l’individuo, e la famiglia in una società in cui l’energia dei consumatori è mobilitata per assicurare che il consumo per il consumo corrisponda all’incessante spinta capitalista alla produzione per la produzione e all’accumulazione per l’accumulazione. Le qualità dell’esperienza urbana e le condizioni di formazione della co­ scienza conoscono uno spostamento parallelo, come anche tutta la dina­ mica dell’urbanizzazione capitalista. Ma è all’interno di questi stessi spazi che può aver luogo un proces­ so di costruzione comunitaria antagonista all’individualismo del dena­ ro, alla logica del profitto e di classe della circolazione del capitale, e anche a determinate concezioni della famiglia e dello stato. Sono stati numerosi i movimenti urbani, anarchici, femministi, socialisti, ecologi­ sti, e numerosi sono stati i tentativi religiosi di definire un diverso senso della comunità. Le insurrezioni urbane come la Comune di Parigi, i moti di Watts e di Detroit degli anni sessanta, e i movimenti sociali di protesta urbani in generale (Castells 1983): tutti esprimono il bisogno potente di sfuggire il dominio del potere del denaro, del capitale, e di uno stato repressivo. Del resto, simili movimenti non si limitano alle classi meno privilegiate: anche gli strati superiori della borghesia pos­ sono vedersi costretti, in quanto consumatori, a cercare di proteggersi collettivamente dalle devastazioni di qualche avido imprenditore im­ mobiliare. Perfino nelle aree più ricche, come Santa Monica o Santa Cruz, possono nascere particolari forme di socialismo dei consumatori, che utilizzano il potere dell’amministrazione locale per contrastare la politica delle macchine della crescita, e la distruzione dell’ambiente che questa determina. La sovranità del consumatore, se presa sul serio, pre­ suppone in effetti che il popolo abbia un certo potere: in particolare,

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che sia in grado di produrre direttamente la qualità della propria vita, e di andare oltre le patologie dell’anonimato urbano, dell’individualismo monetizzato, di un rapporto degradato con la natura, defla massimizza­ zione del profitto. Ma ciò richiede anche la creazione, o l’imposizione, di una cultura di vincoli comunitari e di solidarietà che si spinga ben oltre il puro individualismo e la pura logica di accumulazione del capi­ tale. In questo caso, vengono sparsi per il paesaggio sociale semi di conflitto. Le comunità alternative trovano difficile, quando non impossibile, sopravvivere come entità autonome. Non possono isolarsi dal resto del mondo, anche se c’è chi si sposta verso regioni remote. E difficile tene­ re sotto controllo gli “effetti dissolventi” della monetizzazione. Il domi­ nio di una comunità su un luogo determinato porta spesso con sé l’im­ posizione di una rigida repressione nelle relazioni sociali e dei codici morali. In una simile comunità ci sono molti elementi repressivi (Sen­ nett 1970). Le città del New England saranno forse state dei modelli, ma erano anche luoghi di estrema intolleranza, di fronte ai quali il dena­ ro e l’anonimato della vita urbana possono sembrare un sollievo; e l’in­ sensatezza del capitalismo imprenditoriale, positiva e stimolante. La costruzione di comunità nell’urbanizzazione capitalista contiene una tensione. I movimenti contro il potere delle astrazioni concrete co­ me denaro, capitale, tempo e spazio possono impegnarsi in lotte accani­ te per crearne un tipo alternativo (vedi cap. Vi). Ma vi sono processi di costruzione di comunità e di aumento del potere comunitario che con lo spazio che producono si integrano fin troppo bene nelle dinamiche di accumulazione del capitale. Non si può prevedere come si risolva la tensione tra queste due dimensioni: il corso della storia mostra che si in­ trecciano di frequente. La vendita capitalista di comunità come possibi­ li spazi di autorealizzazione può dare luogo a movimenti alternativi, e questi possono a loro volta essere cooptati e usati per vendere comunità e prossimità alla natura come beni di consumo. Chiaramente, è possibi­ le ogni tipo di combinazione alternativa. Una comunità può essere or­ ganizzata come una sofisticata macchina da guerra che combatte contro gli aspetti peggiori del dominio di classe e dell’individualismo alienato, ma con questo essa può semplicemente rendere più accettabile il domi­ nio del denaro e del capitale. I capitalisti, che cercano di promuovere comunità proprio per questo motivo, possono anche contribuire a crea­ re dei nuclei di guerriglia contro i propri interessi. La comunità, dun­ que, deve sempre essere vista come la soluzione specifica di questa ten­ sione sottostante, soluzione cui si giunge nel quadro dei rapporti con la famiglia, l’individuo, la classe e lo stato, in circostanze di urbanizzazio­ ne specifiche.

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La famiglia, o economia domestica, è un luogo molto particolare di formazione di potere e di coscienza. L’intimità e l’affettività dei rappor­ ti sociali, l’importanza del genere e dell’allevamento dei figli fanno sì che al suo interno si viva un’esperienza molto distinta e a sé stante nel quadro della vita quotidiana. Il problema sta nel chiarire il suo rappor­ to con gli altri luoghi di formazione di coscienza. Engels (1968), per esempio, sosteneva che la famiglia come unità riproduttiva, e la sua struttura interna, potevano essere comprese solo mettendole in rappor­ to con un modo di produzione dominante e con il potere dello stato. Marx (1974) arrivò a profetizzare la nascita di forme di famiglia meno patriarcali e più egualitarie, frutto dell’industrializzazione e della cre­ scente partecipazione delle donne alla popolazione attiva. Simmel mos­ se obiezioni molto specifiche alla tesi del Manifesto del partito comuni­ sta secondo cui la famiglia sarebbe stata destinata a disintegrarsi con la monetizzazione della vita, e sarebbe stata interamente sottomessa all’in­ dividualismo degli interessi borghesi. Ma questi dibattiti sono contro­ versi e a tutt’oggi irrisolti. La nascita della famiglia come unità economica indipendente dalla comunità precede, a quanto sembra, quella del capitalismo, ma non quella del denaro né della proprietà privata. Lo sviluppo della famiglia accrebbe l’importanza della sfera privata e l’isolamento degli individui, soprattutto dei bambini, dalle influenze esterne: perdeva così ulteriore terreno l’inclinazione a contare sui poteri protettivi della comunità. Con l’industrializzazione e l’urbanizzazione capitaliste ebbe luogo il passaggio dalle «economie a produzione familiare» alle «economie a salario familiare», passaggio che non distrusse i rapporti tradizionali, come invece avevano creduto Marx ed Engels (Tilly e Scott 1981). In effetti la famiglia, con qualche aggiustamento interno, riuscì a conser­ varsi come istituzione, e a svolgere un ruolo decisivo nell’adattamento degli individui a condizioni di vita urbane caratterizzate da lavoro sala­ riato e calcolo monetario (Tilly e Scott 1981; Hareven 1982; Sennett 1970; Handlin 1958). Essa è stata però sottoposta a forti pressioni esterne. Anche se è in grado di proteggere gli individui dall’alienazione del denaro, è sempre minacciata dall’individualismo promosso dal de­ naro: le discussioni su questioni di soldi rimangono una delle principa­ li cause di crisi familiare. Essa diventa oggetto di sorveglianza borghese e statale (Donzelot 1977) proprio perché il suo isolamento può render­ la fertile terreno per la coltivazione di rapporti sociali antagonisti al de­ naro e al capitale. Paradossalmente, però, con la sua protezione la fami­ glia contribuisce ad ammorbidire questi stessi antagonismi, dimostran­ do così un’interessante sovrapposizione alle funzioni della comunità. Ma quanto più si afferma la forma capitalista di comunità, adeguata al­

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l’accumulazione e all’individualismo monetizzato, tanto più la famiglia può diventare importante in quanto ambito protettivo, fuori dal freddo calcolo del profitto e dall’alienazione di classe del lavoro salariato. Può anche sostituirsi alla comunità come agente principale della riprodu­ zione di una forza-lavoro differenziata, e quindi dei rapporti di classe fondamentali. Le sue strutture gerarchiche possono anche essere im­ portate e riprodotte nell’organizzazione del processo lavorativo, tra­ sformando quindi i rapporti familiari in uno strumento del dominio di classe. Ma, anche in questo caso, la famiglia non è necessariamente un agente passivo. L’ambizione familiare aiuta a definire lo spazio sociale, e può essere anche un agente di trasformazione delle strutture di classe e occupazionali. Anche se la famiglia può sopravvivere come istituzione vitale, i suoi significati e le sue funzioni sono trasformati dalle dinamiche di muta­ mento dell’urbanizzazione del capitale. Tilly e Scott (1981) rilevano per esempio un’ulteriore trasformazione, generalizzatasi soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, nel senso di un’«economia a consumo fa­ miliare»: la famiglia si specializza nella riproduzione e nel consumo. Pahl (1984), d’altra parte, mostra che le famiglie hanno usato in misura crescente il loro potere di consumo non solo per proteggere e controlla­ re lo spazio, con la proprietà della casa e dell’automobile, ma anche per creare nuove forme di produzione domestica, utilizzando strumenti e materie prime acquistati dal mercato ma combinati in modo personale, autodeterminando divisione del lavoro e ritmo di produzione. Lo stesso fenomeno di rinascita dei sistemi di produzione domestici può essere osserviate all’estremo più basso della scala sociale, dove esso ha però un significato del tutto diverso: le famiglie prive di potere di mercato sono costrette alla produzione familiare come pura strategia di sopravvivenza (Redclift e Mingione 1985). La famiglia esiste dunque come isola di autonomia relativa in un mare di prigionia oggettiva, e grazie ai suoi rapporti con individuali­ smo, comunità, classe e stato è in grado di adattarsi alle continue tra­ sformazioni dell’urbanizzazione capitalista. Essa fornisce un rifugio in cui gli individui possono ripararsi dalle difficoltà e dai pericoli della vi­ ta urbana, e in cui possono trovare e scegliere piaceri e opportunità. Ma è un rifugio sempre minacciato da forze esterne: la perdita di potere monetario determinata dalla disoccupazione, i litigi sull’allocazione del denaro, l’attrattiva esercitata dall’individualismo monetizzato confron­ tato con la repressione familiare, la necessità di orientare l’allevamento dei bambini alle esigenze del mercato del lavoro sono forti cause di di­ sgregazione della vita familiare. La coscienza creata dietro porte chiuse e sprangate tende naturalmente a guardare solo all’interno, e spesso è

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indifferente al mondo che c’è fuori. Può incoraggiare a ritirarsi dalle lotte di classe o comunitarie per il controllo di denaro, tempo e spazio come fonti di potere sociale. Da questo punto di vista la famiglia non minaccia in alcun modo il capitalismo. Ma la coscienza plasmata dai rapporti familiari e dall’affetto di cui questi sono carichi può essere pe­ ricolosa, se esce all’esterno e formula un giudizio morale sulla società civile. Per l’ideologia borghese, tenere insieme valori e virtù della vita familiare con la forza rovinosa del denaro e del capitale è sempre stato un paradosso non da poco. Negli ultimi anni su entrambe le sponde dell’Atlantico vi sono stati seri problemi per riuscire a conciliare politi­ che pubbliche che incentivano individualismo e imprenditorialità con la difesa delle virtù familiari. Consideriamo ora lo stato come base di potere e luogo di formazio­ ne di coscienza. Nel contesto delle comunità del denaro e del capitale, la legittimità dello stato si deve fondare sulla sua capacità di definire un interesse pubblico al di sopra di quelli privati, individuali o familiari, al di sopra della lotta di classe e dei conflitti tra gli interessi comunitari. Deve fornire un quadro di riferimento di fondo, fatto di istituzioni do­ tate di autorità sufficiente a risolvere conflitti, diffondere opinioni col­ lettive, perseguire strategie d’azione comune, difendere la società civile nel suo complesso dagli assalti esterni e dalla disgregazione interna. I vantaggi del suo intervento sono tangibili: vanno da questioni prosai­ che come la regolazione del traffico o delle acque di scarico, fino a mi­ sure più generali per ovviare ai fallimenti del mercato, per articolare gli interessi collettivi di classe, per proteggere da abusi come l’intolleranza comunitaria, l’eccesso di sfruttamento o di autoritarismo familiare; per mediare tra frazioni in guerra. Questi e altri vantaggi costituiscono la base materiale dell’orgoglio e della lealtà provati verso Io stato, nazio­ nale o locale, i suoi simboli e i suoi rappresentanti. Esso perde invece legittimità quando diventa, o sembra essere diventato, funzione di qualche particolare interesse individuale, comunitario, o di classe, o co­ sì poco efficiente da non consentire ad alcuno di ottenere reali vantag­ gi. Dico “sembra essere diventato” perché lo stato dispone di molti strumenti per la promozione e la difesa della propria legittimità, tra cui il controllo dei flussi d’informazione o la propaganda diretta; attività la cui importanza nella formazione di coscienza è evidente. Inoltre, all’in­ terno dell’apparato statale si formano interessi determinati. I portatori del sapere scientifico, tecnico e gestionale su cui lo stato si basa posso­ no usarne l’apparato per esprimere il proprio potere e per proiettare, in nome dell’interesse pubblico, una coscienza burocratico-gestionale e tecnocratica su tutta la società civile. Le tecniche, ideologie e pratiche dell’arca managerialism sono fondamentali, come molti giustamente

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sostengono, per capire il processo urbano contemporaneo (Pahl 1984; Saunders 1986). Lo stato, dunque, non è solo un luogo di lealtà territo­ riale, ma anche un apparato che diffonde modi specifici di pensiero e di azione. Ma lo stato non dev’essere visto troppo staticamente, come sede permanente e immutabile di autorità, indipendente da fenomeni come il nazionalismo, la classe, la famiglia e la comunità. Le attività e le politi­ che statali si devono adattare alle trasformazioni dei rapporti tra queste altre dimensioni. Devono anche rispondere alle dinamiche dello svilup­ po capitalista e dell’urbanizzazione. Per esempio, le alleanze di classe che si formano attorno alle questioni di amministrazione urbana, sono strutturate in modo fluido e il loro campo d’azione non è assolutamente limitato ai canali formali. In effetti, questi spesso non sono altro che l’i­ stituzionalizzazione di attività tradizionali di gestione delle decisioni collettive da parte di una qualche coalizione di classe dominante (vedi cap. V). La storia dei movimenti per la riforma dell’amministrazione lo­ cale, delle annessioni e dei coordinamenti tra diverse amministrazioni indica chiaramente come alla dinamica urbana capitalista corrisponda­ no mutamenti nelle attività politiche e amministrative. Anche lo svilup­ po delle professioni politiche e amministrative, e di modi di pensare tecnocratici e aziendalisti può essere visto insieme come risposta e spin­ ta decisiva alla ricerca di un coordinamento più razionale dell’uso di denaro, tempo, spazio e capitale, nelle condizioni sempre più caotiche dell’urbanizzazione capitalista. Quando la circolazione del capitale è dominata dal puro individualismo del denaro, e la solidarietà tradizio­ nale delle comunità è quasi del tutto dissolta, allora un forte apparato statale diventa essenziale per una buona gestione dell’urbanizzazione capitalista. Di contro, possono darsi circostanze in cui una coalizione di classe dominante, di fronte a pesanti spese pubbliche, cerchi di far ri­ tornare alcune forme di servizio sociale all’interno delle famiglie e della comunità, come è recentemente accaduto, per esempio, nel caso dell’as­ sistenza ai malati di mente. Ma anche in questi casi i processi politici di formazione di alleanze di classe nella regione urbana vengono prima delle forme di potere statale determinate con cui l’alleanza può esercita­ re la propria influenza. Quando una regione urbana funziona come un’unità in concorrenza nello sviluppo geografico ineguale del capitali­ smo, essa necessariamente mette in opera una combinazione di mecca­ nismi informali, coordinati da gruppi come la camera di commercio lo­ cale o comitati di uomini d’affari, e interventi del potere statale locale, come agevolazioni fiscali o investimenti nelle infrastrutture. La tanto lo­ data alleanza tra pubblico e privato, piuttosto che il puro dirigismo ur­ bano, è una forza-guida fondamentale del processo urbano.

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Ma l’azione statale può anche essere antagonista all’individualismo, alla famiglia, alla comunità e al capitale. La razionalità che tipicamente si incarna nell’apparato statale è in conflitto con i modi di comportamento e di azione provenienti dalle altre dimensioni. Dopo tutto, fu in nome dell’interesse pubblico che Haussmann ristrutturò lo spazio del centro di Parigi, suscitando un vespaio di critiche in difesa di interessi privati. Fu in nome della medesima razionalità che negli anni sessanta Robert Moses portò la «scure di carne» a Brooklyn, destando forti opposizioni alla costruzione di autostrade nel mezzo di comunità tradizionali. La stessa sorte spetta a buona parte dei pianificatori: la pianificazione urba­ na razionale, anche nella sua versione socialista, contiene spesso un forte autoritarismo. Un’alleanza troppo stretta tra il razionalismo tecnocratico di un’élite manageriale e l’autoritarismo del potere statale può mettere in crisi la legittimità di entrambi. Del resto, che lo stato possa o meno con­ tinuare a imporre la propria volontà, è cosa che dipende dalla forza del­ l’alleanza di classe che lo sorregge e dal potere relativo delle forze all’op­ posizione. Lo stato ha il monopolio della violenza istituzionalizzata, ma è vulnerabile di fronte al potere del denaro e del capitale, e anche di fron­ te ai movimenti di reazione e di rivolta fondati sulla famiglia, sulla comu­ nità e sulle classi inferiori. I conflitti per il controllo dell’apparato statale sono dunque affiancati da quelli sul tipo di azione razionale che lo stato dovrebbe intraprendere, e sul tipo di politiche che esso dovrebbe rap­ presentare e articolare. Lo stato è insieme speranza e disperazione non solo dei movimenti rivoluzionari, che lo vedono o come la vetta del pote­ re da scalare o come la fonte di tutti i mali da distruggere, ma di ogni segmento della società, di qualsiasi convinzione politica esso sia. Propongo dunque di considerare l’individualismo del denaro, i rap­ porti di classe del capitale, le ambiguità della comunità, i conflitti politici e di legittimità dello stato, e il terreno parzialmente protetto della fami­ glia come le principali basi di potere materiale della vita sociale capitali­ sta. Nel nostro quotidiano viverle, generiamo una matrice di concezioni, comprensioni e predisposizioni all’azione che a loro volta costruiscono le condizioni determinate di ciascuno degli ambiti. Se questa matrice tende ad appoggiare l’ordine esistente, diventa uno strumento potente che fa sì che i passaggi storici vengano regolati dal peso della storia stessa, e non dall’azione collettiva e consapevole di individui che cercano di creare nuove forme sociali. Paradossalmente, questa determinazione storica non fa assolutamente venire meno l’importanza della libertà e della scelta individuali. In effetti, come dice Bourdieu (1977, pag. 79), «è perché i soggetti non sanno, strettamente parlando, che cosa stanno facendo, che quello che fanno ha un significato maggiore di quello che credono». Tanto per co­

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minciare, nell’ambito dell’azione quotidiana e del “senso comune” le cinque basi materiali possono costruirsi c combinarsi così variamente che la gamma delle esperienze possibili è quasi infinita. Per esempio, un individuo, sconvolto da una lite familiare, può chiamare la polizia, spendere i risparmi in una notte di baldoria e alcol, lavorare il doppio del normale, o compensare la frustrazione ricorrendo alla comunità. Il giorno dopo la stessa persona, nei guai con la polizia, può ricorrere a privilegi di classe, o chiamare la famiglia e la comunità a difendere la sua causa. Con l’infinita varietà di queste azioni gli individui si inseri­ scono e contribuiscono a processi storici più vasti, di riproduzione e trasformazione sociale, di cui non sono consapevoli. Tutti contribuia­ mo, con le nostre azioni, a costruire una città e il suo modo di vita, sen­ za necessariamente sapere che cos’è la città tutta intera, o cosa dovreb­ be essere. Questo fa pensare che esista una “mano invisibile” della sto­ ria attorno alla quale necessariamente convergono le innumerevoli attività liberamente intraprese e le diverse forme di senso comune. Il carattere instabile delle contraddizioni interne a ciascuna delle ba­ si, e la varietà e imprevedibilità delle potenziali combinazioni delle fon­ ti di potere rendono possibili, a partire da obiettivi molto simili, esiti differenti. Gli individui e i gruppi, inoltre, possono costruire in molti modi diversi le varie basi di potere (vedi cap. IX), e usarlo per scopi molto particolari. Le donne, per esempio, possono cercare di costruire una comunità di tipo speciale, e usarla per fini collettivi differenti da quelli normalmente perseguiti dagli uomini, le minoranze, invece, pos­ sono combinare le diverse possibilità loro date in modi che riflettono i loro desideri e bisogni, le loro volontà utopiche o anche nichiliste. L’a­ zione sociale produce, a partire da un ambito di possibilità piuttosto li­ mitato, svariati stili di vita, forme culturali, pratiche politiche, circo­ stanze socio-economiche. Tutto ciò rende imprevedibili i percorsi del cambiamento sociale. Questo stile analitico ha il vantaggio di aiutarci a capire la confusio­ ne dei movimenti urbani e politici del capitalismo senza dover rinuncia­ re alla ricerca di leggi. Esso inoltre contribuisce a spiegare le particolari combinazioni di vittorie e sconfitte, di ideologie frammentarie e stati di coscienza; le strane dinamiche trasversali dei movimenti operai, delle lotte comunitarie, dei conflitti sull’apparato statale o sulla famiglia; e l’apparente ritiro di individui e famiglie da questioni di grande impor­ tanza sociale. Aiuta a mettere in prospettiva i momenti attivi di parteci­ pazione e di fervore rivoluzionario, e la scomparsa improvvisa e il crollo di movimenti politici che sembravano disporre di una base ampia e soli­ da. Aiuta anche a capire, infine, la dissonanza, a volte sbalorditiva, tra le opinioni espresse e le azioni intraprese.

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La Comune di Parigi (vedi cap. VII e Consciousness and the Urban Experience, cap. ni) testimonia questa confusione. L’individualismo egualitario della piccola borghesia, con il suo interesse per il denaro, vi giocava un ruolo rilevante, ma lo stesso vale per la ricerca di comunità al di fuori del dominio del denaro e del capitale. Un’ala influente del movi­ mento operaio vedeva la libera associazione di produttori e consumatori in cooperative mutualistiche e federazioni autogestite come la strada del progresso sociale, e molte donne parteciparono alla lotta perché voleva­ no una completa trasformazione dell’economia familiare. Un altro tipo di coscienza di classe, internazionalista e desiderosa di combattere il ca­ pitale con un movimento di classe di impostazione universalista, era quella del nuovo gruppo dirigente della sezione parigina dell’Associazione internazionale dei lavoratori. I rivoluzionari repubblicani, di tradizio­ ne giacobina, ritenevano che uno stato forte e centralizzato sarebbe stato la leva centrale della libertà politica e sociale, mentre i blanquisti vedeva­ no Parigi come il cuore sovversivo da cui si sarebbe diffusa la più pura delle rivoluzioni, che avrebbe liberato la Francia dalle catene del capita­ lismo e della borghesia. I repubblicani moderati, al contrario, volevano semplicemente un autogoverno per la città, cioè il diritto di controllare un’amministrazione statale locale che aveva così tanto controllo su di lo­ ro. Molte donne e alcuni uomini videro nella Comune l’occasione di co­ struire nuove relazioni familiari, basate sulla libera unione e su forme cooperative di produzione domestica e di scambio. E poi furono le tra­ dizionali lealtà familiari a portare uomini e donne insieme sulle stesse barricate. Questa coalizione di forze comprendeva praticamente tutte le posi­ zioni politiche possibili: individualismo del denaro; autogoverno; auto­ nomia domestica con eguaglianza tra i sessi; autogestione della produ­ zione e del consumo in base ai bisogni e non al profitto; versioni centra­ lizzate e decentrate di socialismo rivoluzionario, e il più puro statalismo possibile. In simili circostanze, la confusione politica della Comune è ben comprensibile. La Comune avrebbe dovuto rispettare gli spazi della proprietà privata, nella produzione e nel consumo, e il potere monetario della Banca di Francia, in quanto contrappesi all’assolutismo del potere statale? Avrebbe dovuto usare un potere arbitrario di polizia per garan­ tire la disciplina e controllare la sovversione? Avrebbe dovuto accentra­ re o decentrare l’autorità? In che modo? Resta il fatto che tutti sono morti sulla medesima barricata. Questo può essere spiegato solo dalle dinamiche per cui diverse identità e stati di coscienza si fusero, in un preciso momento storico, in un movimento politico che aveva l’obiettivo di difendere uno spazio determinato contro coloro che rappresentavano il puro potere del denaro e del capitale. Eppure, nell’iconografia della

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Comune si dimentica troppo spesso che si trattò di un evento essenzial­ mente urbano. La sua multidimensionalità può essere compresa solo considerando la coscienza urbanizzata che vi si è espressa. Tra gli accademici, anche se poco inclini alle barricate, c’è una con­ fusione simile. Gli economisti neoclassici privilegiano la sovranità del­ l’imprenditore e del consumo, basata sull’individualismo del denaro; i marxisti, le forze produttive e i rapporti di classe necessari all’estrazio­ ne del plusvalore; i weberiani, i rapporti di classe costituiti dai compor­ tamenti di mercato, dalla gestione della città e dall’organizzazione dello stato sul territorio locale; le femministe, il patriarcato, la famiglia e il la­ voro femminile; i rappresentanti della scuola di Chicago, l’ecologia spa­ ziale delle comunità, e così via. Ogni singola prospettiva esprime la sua verità particolare. Eppure si toccano appena tra loro, e si uniscono su qualche barricata intellettuale con la stessa frequenza delle insurrezioni urbane come la Comune. La frammentazione intellettuale dell’accade­ mia sembra un tragico riflesso della confusione della coscienza urbaniz­ zata: essa riflette le apparenze superficiali, fa poco per chiarire i signifi­ cati e i collegamenti interni, e fa molto per ribadire le confusioni ripe­ tendole in forma intellettualistica. Ciò vuol dire che dobbiamo abbandonare Marx per una combina­ zione eclettica di teorie diverse? Non credo. Usando in modo appropria­ to la meta-teoria marxiana possiamo cogliere i legami tra le varie pro­ spettive, e fare i conti con la mano invisibile della storia, sotto la confu­ sione del mutamento sociale. Vi sono tre passi da fare per realizzare questo obiettivo. Il primo, già accennato, definisce alcuni semplici prin­ cipi generativi che sottendono alla varietà. Le cinque basi materiali del potere, e le loro contraddizioni, individuano le fonti del mutamento so­ ciale. Il secondo passo considera come la circolazione del capitale co­ struisca le diverse basi di potere, le strutture in cui sono collegate e la specifica coscienza che ne deriva. Con il terzo passo ampliamo la teoria marxiana fino a comprendere la produzione di spazio e l’urbanizzazio­ ne, e mostriamo come questi processi a loro volta determinino la circola­ zione del capitale e il potere che spetta a individualismo, classe, comu­ nità, famiglia e stato. In generale, il punto è che i modi di pensare e di agire tendono a disporre attitudini e motivazioni in modo tale da limita­ re la gamma, ma non la diversità, dell’azione sociale possibile. Questi li­ miti, superati solo nei momenti di rottura e di rivoluzione, diminuiscono le possibilità di trasformare la storia secondo un progetto consapevole: la coscienza può esprimere solo quanto insegna l’esperienza pratica. Per cominciare, consideriamo come la circolazione del capitale toc­ ca le diverse basi di potere. Possiamo descrivere la circolazione come una serie di passaggi di questo tipo: si usa denaro per comprare merci,

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forza-lavoro e mezzi di produzione, e questi vengono combinati nella produzione per creare una nuova merce che è venduta sul mercato per il denaro originario più un profitto. Schematicamente, possiamo rap­ presentare così la circolazione del capitale: D -v- M | . . . P . . . M' — D + Ad — ecc. [ MP

La maggior parte dei beni di cui si compone il nostro consumo quotidia­ no viene prodotta in questo modo. Un’economia capitalista è l’aggregato di innumerevoli processi di circolazione di questo tipo che si intersecano tra loro. Da Marx, sappiamo che il sistema capitalista deve crescere, se tutti i capitalisti devono ricavare un profitto; che esso si fonda necessaria­ mente sullo sfruttamento della forza-lavoro, che tecnicamente si esprime come differenza tra quanto il lavoro crea e quanto riceve; e che esso com­ porta sempre un qualche tipo di lotta di classe. Sappiamo anche che il si­ stema è tecnologicamente dinamico, che provoca continue rivoluzioni nei processi lavorativi, nei sistemi di distribuzione e consumo, nelle rela­ zioni spaziali e così via. E anche instabile, e va facilmente in crisi (vedi Harvey 1982; 1985). Dobbiamo anche tener presente che ogni passaggio di questo processo di circolazione è spazialmente delimitato: la compravendita delle merci implica un movimento nello spazio, e quindi costi, e la compravendita della forza-lavoro su scala quotidiana ha luogo in un mercato del lavoro geograficamente definito, all’interno di ambiti di pen­ dolarità. La produzione e il consumo avvengono in spazi determinati, e la loro organizzazione e il legame che li unisce implicano un qualche tipo di organizzazione geografica. Se si vogliono minimizzare gli attriti spazia­ li, sono necessarie infrastrutture fisiche e spaziali. Pensiamo a come le diverse basi materiali del potere sono coinvolte nel processo di circolazione del capitale. Tanto per cominciare, l’indivi­ dualismo del denaro interviene in tutte le fasi di scambio. Poiché il dena­ ro è usato prevalentemente per comprare merci e viene guadagnato o vendendo forza-lavoro o organizzando la circolazione del capitale per un profitto, allora il potere aggregato dell’individualismo sul mercato è fissato dalla circolazione del capitale, modificata, ovviamente, nella mi­ sura in cui il potere del denaro è usato per appoggiare le altre basi mate­ riali del potere: lo stato, la famiglia e così via. L’alienazione e la libertà collegate con questo momento della circolazione sono importanti. Pen­ siamo per esempio ai lavoratori: essi devono lavorare per vivere, anche se possono scegliere con chi vogliono lavorare, e cosa comprare sul mer­ cato, ma solo tra le merci prodotte dai capitalisti. Si tratta di fenomeni reali, che meritano di essere analizzati per quello che sono, che si tratti di

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lavoratori che spendono il loro salario o imprenditori che decidono sugli investimenti. Questo è il momento in cui hanno più peso la libertà e la possibilità di scelta individuali. Non dobbiamo però, nell'analizzare que­ sti passaggi, commettere l’errore di Simmel, astraendo il momento dello scambio monetario dalle leggi di circolazione del capitale. Nei limiti po­ sti da questa, è possibile sostenere concezioni forti della libertà indivi­ duale, del costituzionalismo borghese, e anche trasformare l’imprendito­ rialità e l’individualismo in un mito ideologico di riferimento. L’enfatizzazione di questa fase della circolazione del capitale caratterizza una determinata famiglia di prospettive teoriche, come quella di Adam Smith o della microeconomia neoclassica. Ma la circolazione del capitale si fonda essenzialmente su rapporti di classe. Semplificando al massimo, ciò significa che c’è un rapporto tra compratori e venditori di forza-lavoro, e che tale rapporto implica un continuo conflitto su livelli salariali e condizioni di lavoro. Nei det­ tagli, ovviamente, si tratta di un rapporto complesso e le linee di conflit­ to sono spezzate, poiché la domanda di lavoro si presenta in molte for­ me e aspetti, le qualità e le competenze del lavoro sono estremamente differenziate e l’incapacità di organizzarsi collettivamente o l’esistenza di surplus di lavoro (l’esercito industriale di riserva marxiano, in parte creato dalle decisioni tecnologiche e organizzative dei capitalisti) inde­ boliscono i lavoratori nel negoziato. Nei mercati del lavoro è sempre forte il conflitto tra individualismo ed espressione degli interessi di clas­ se, e non esiste alcuna formula per determinare quale dei due finirà per prevalere. I requisiti aggregati necessari per, diciamo, bilanciare consu­ mo e produzione tendono comunque a spingere affinché si formi un qualche tasso salariale d’equilibrio, attorno a cui tendono a raggruppar­ si i vari tassi salariali specifici che dipendono dalle competenze, dalle scarsità relative, dalle esigenze tecniche e dalle diverse forme di orga­ nizzazione degli interessi di classe e interni alle classi. Il rapporto e la lotta di classe vengono qui in primo piano come caratteristiche centrali, se non decisive, della dinamica capitalista: essi determinano la massa di denaro disponibile per essere speso come salario individuale, beni col­ lettivi e altro. Dal punto di vista dell’accumulazione del capitale, si ha uno stato di equilibrio del conflitto di classe quando l’intensità e la pro­ duttività del lavoro e il monte-salari complessivo riescono a controbi­ lanciare il prodotto aggregato con la domanda effettiva. Il consumo e la riproduzione sociale della forza-lavoro hanno luogo essenzialmente all’interno della famiglia o della comunità, con l’appog­ gio, almeno negli ultimi tempi, dell’intervento strategico dello stato. La circolazione dei redditi (salari, interessi, rendite) è essenziale per la cir­ colazione del capitale, perché i beni qui prodotti devono essere consu­

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mati da qualcuno che li possa pagare. Essa rende possibile la creazione di varie strutture distributive, e possono nascere forme di sfruttamento secondario, come quello dei negozianti o dei proprietari nei confronti dei consumatori. La ricerca di strumenti espressivi (come nel caso della moda) per contraddistinguere la propria individualità, forse per com­ pensare l’alienazione dell’individualismo monetizzato, e il desiderio di crearsi un capitale simbolico nell’ambito del consumo, possono con­ durre alla formazione di classi e di particolari comunità di consumo. Dal punto di vista della circolazione del capitale, la varietà delle comu­ nità di consumo e degli stili di vita individuali o familiari deve in qual­ che modo formare dei gruppi, per determinare una domanda aggregata di prodotto che sia in grado di corrispondere a una capacità produttiva in costante aumento. Dato che le innovazioni nella produzione richie­ dono analoghe innovazioni nel consumo, la concorrenza negli stili di vi­ ta, il capitale simbolico e l’ordine espressivo in generale sono essenziali per la dinamica del capitalismo. La riproduzione della forza-lavoro all’interno di mercati del lavoro spazialmente strutturati dipende dall’azione delle unità domestiche e delle famiglie, e dalle infrastrutture sociali della comunità, entrambe appoggiate dalla circolazione del capitale e dei redditi. Quantità e qua­ lità della forza-lavoro dipendono fondamentalmente dalla natura delle economie familiari e domestiche e dalle strutture comunitarie. Risorse generate nella circolazione del capitale vengono a sostenere queste basi materiali di potere, e vengono usate in modo tale da sostenere a loro volta la circolazione del capitale. Anche qui la possibilità di scelta, indi­ viduale o collettiva, è notevole. Ma alla fine la forza-lavoro dev’essere riprodotta, in modo da offrire quanto richiesto dal processo di circola­ zione del capitale, che genera le risorse necessarie per assicurare la ri­ produzione di famiglie e comunità. L'opposizione tra queste due sfere è una fonte costante di conflitto, agitazione e dissonanza, ma la loro rot­ tura indica una condizione di crisi o rivoluzionaria, che dev’essere in un modo o nell’altro superata: è una questione di sopravvivenza. Lo stato, infine, dev’essere presente in ogni aspetto di questo proces­ so di circolazione: non dev’essere esterno a esso, come sembrano invece sostenere molte teorie dello stato. Infatti deve garantire, grazie al mono­ polio della violenza legale e istituzionale, i sistemi di obbligazione legale e contrattuale, i diritti di proprietà costituzionalmente previsti e la reci­ procità non violenta dello scambio di mercato. Lo stato usa il proprio potere fiscale per mantenersi, attingendo alla circolazione del capitale. Esso è sempre disciplinato dal denaro, dal credito e dalle esigenze della finanza, e non può formare una sfera autonoma di potere e di autorità. Poiché, però, il denaro è insieme politico ed economico, la sua regola­

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zione statale e le sue politiche monetarie lo mettono comunque al centro della vita politico-economica. Contemporaneamente lo stato deve adot­ tare, tramite politiche attive o automaticamente, una qualche strategia di accumulazione per intervenire sui fallimenti del mercato, per assicurare gli investimenti pubblici a lungo termine, e per regolare l’offerta di mo­ neta. Esso interviene anche nella lotta di classe, nella famiglia e nella co­ munità, e regola le libertà individuali in modo tale da assicurare l’ade­ guata riproduzione della forza-lavoro e la stabilità delle istituzioni che detengono il potere nella società civile. In quanto entità territoriale, lo stato diventa un agente fondamentale nello sviluppo geografico ineguale elei capitalismo, e rafforza il suo potere ricorrendo ad alleanze di classe a base territoriale (vedi cap. V) che inseriscono la produzione di spazi lo­ cale in quella generale di un’economia capitalista sempre più globale. Dato che il capitalismo sopravvive grazie alla produzione di spazi, il comportamento corporativo, a volte mercantilista, delle varie alleanze di classe a base territoriale, comprese quindi quelle che sorgono nelle re­ gioni urbane, è una delle chiavi per capire come il capitalismo si manten­ ga in vita. La concorrenza territoriale tra stati, regioni urbane e località diventa a sua volta una dimensione espressiva fondamentale nella forma­ zione di coscienza, dando luogo a nazionalismi, regionalismi e localismi in un quadro universale e globale. Su queste dinamiche si concentrano gli studi dei teorici della politica e della geopolitica. Tutti gli elementi descritti - individuo, classe, comunità, famiglia e stato - possono essere esplicitamente interpretati in rapporto alle dina­ miche dell’accumulazione di capitale per mezzo di un ampliamento ade­ guato della meta-teoria marxiana. Inoltre, è possibile vedere come e per­ ché i diversi centri di potere possono unirsi o raggrupparsi attorno alle esigenze vincolanti del processo di accumulazione del capitale senza per questo perdere libertà di manovra e di azione. Tanto i problemi teorici che le attività sociali diventano più comprensibili. L’accumulazione di capitale resta comunque la forza trainante: è qui che agisce la mano invi­ sibile della storia. In una società capitalista tutti gli altri centri di potere si appoggiano, e sono in definitiva riconducibili, a processi di accumula­ zione del capitale, salvo in condizioni di crollo o rivoluzione. Dato che l’accumulazione è, come dice Marx, «la missione storica della borghe­ sia», dobbiamo far ricorso a una meta-teoria dei rapporti di classe, seb­ bene i rapporti di classe reali, quotidiani e specifici esistano come uno dei centri di potere nella matrice occupata anche da individui, comunità, famiglie e apparati dello stato. Da qui segue che la mano invisibile non può essere individuata semplicemente in questo o quell’interesse di clas­ se egemone costituito in un contesto spaziotemporale determinato. Ri­ petendo la frase di Bourdieu, anche in questo caso è perché i capitalisti

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come soggetti non «sanno, strettamente parlando, cosa stanno facendo, che quello che fanno ha più significato di quanto credono». Il secondo passo nella nostra argomentazione colloca dunque le mosse dei diversi centri di potere nel quadro di una teoria generale del modo di produzione capitalista. L’argomentazione è stata schematica, ma comunque utile per individuare il tipo di rapporti interni che dob­ biamo studiare per ricostruire le dinamiche storiche e geografiche di un sistema socio-economico quale il capitalismo. Ma ora voglio compiere un terzo passo e considerare con maggiore attenzione il contesto urba­ no, poiché è qui che si possono trovare le connessioni più stringenti tra le leggi di accumulazione del capitale e il fermento delle forme sociali, politiche e culturali. In questo modo dimostro che il contesto urbano è il frutto di un processo, e che tale processo è un particolare tipo di ac­ cumulazione di capitale nello spazio e nel tempo reali. Nel V capitolo ho cercato di spiegare come la storia del processo ur­ bano possa essere analizzata seguendo i rapporti tra denaro, tempo e spazio in un quadro di scambio di merci e di accumulazione del capitale. Gli imperativi di quest’ultima determinano le trasformazioni della no­ stra esperienza di spazio e tempo. Se l’esperienza urbana alla fine non è che una particolare esperienza di spazio e tempo, allora anch’essa è sog­ getta a potenti forze di trasformazione, con inevitabili conseguenze per la vita culturale, sociale e politica. Berman (1985) sostiene per esempio che la cultura della modernità deriva da «una determinata esperienza spaziotemporale», mentre Bradbury e McFarlane (1976) descrivono le origini del modernismo come forza culturale profondamente caratteriz­ zata dalle sue origini urbane. Jameson (1984) ha più recentemente soste­ nuto che la crescita del postmoderno (vedi cap. IX) è associata a una cri­ si della nostra esperienza dello spazio, e che anche questa si riferisce al contesto urbano. Le origini urbane di fermenti culturali come quelli del postmoderno sono sostenute anche da Chambers (1987): 11 postmoderno, qualsiasi forma possa prendere la sua intellettualizza­ zione, è stato preceduto dalle culture metropolitane degli ultimi vent’anni: nei significanti elettronici del cinema, della televisione e del video, negli studi di registrazione e nei giradischi, nella moda e nello sti­ le giovanile, in tutti questi suoni, immagini e storie diversi che ogni gior­ no sono mescolati, riciclati e montati insieme su questo schermo gigante che è la città comtemporanea.

E stato uno dei più importanti contributi di Simmel vedere come l’or­ ganizzazione dello spazio e del tempo, e le relazioni sociali oggettive promosse dall’urbanizzazione, trasformino in profondità le condizioni della vita mentale e culturale.

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C’è quindi, si direbbe, un consenso diffuso, anche se abbastanza sot­ terraneo, sul significato generale dell’organizzazione del tempo (tempo di lavoro e di svago, tempo di rotazione eccetera) e dello spazio nel dare forma ai mondi espressivi della vita culturale e politica. Approfondendo il tema, proporrò non solo di collegare accumulazione del capitale e pro­ duzione di spazio, ma anche di considerare l’esistenza di quella che chia­ merò una “gerarchia di spazialità” all’interno della forma-città. Lo spazio del corpo e di tutto ciò che questo coinvolge è lo spazio dell’individuo, i cui movimenti e gesti costituiscono per noi un elemen­ to irriducibile dell’azione sociale spaziotemporale. Molti autori, per esempio Foucault, si sono concentrati sul corpo come fonte definitiva di potere. Le motivazioni e le aspirazioni degli individui possono essere esplorate con gli strumenti della psicologia e della psicoanalisi, dell’et­ nografia e della linguistica. I movimenti spaziotemporali individuali, che possono essere seguiti e mappati come quelli di qualsiasi altro cor­ po, danno significato agli spazi e ai luoghi urbani. Ogni volta che cam­ mino per la città, la costruisco e ricostruisco per me. Le attività indivi­ duali, inoltre, stanno sempre dove produzione e riproduzione si con­ giungono. D’altra parte, lo spazio individuale nella società moderna è sempre vulnerabile al potere sociale del denaro, e ne viene spesso inva­ so. Il denaro, in quanto fonte universale di potere sociale appropriabile dalle persone, diventa lo strumento principale sia per fini pratici che per fini espressivi. Contemporaneamente, noi portiamo in tasca il no­ stro rapporto con il mondo della produzione globale. Qui sta il legame tra la spazialità personale e le altre spazialità significative dell’azione so­ ciale. Anche lo spazio della famiglia possiede attributi particolari. Esso è di solito suddiviso secondo i ruoli individuali di sesso e di età, e se­ condo il potere monetario e il suo grado di penetrazione nel contesto delle relazioni familiari; e queste suddivisioni hanno conseguenze rile­ vanti: sensi di sicurezza o insicurezza, rapporti edipici e paure dell’al­ tro. Analogamente, i rapporti dei membri della famiglia con l’esterno comportano poteri spaziali di accesso, influenzati dal potere del dena­ ro. L’unione di numerose famiglie per la riproduzione della forza-lavo­ ro crea un livello di differenziazione spaziale ancora diverso, quello del vicinato, della comunità o del quartiere, nel quadro urbano. Anche qui il denaro è la risorsa fondamentale per procurarsi una posizione e le possibilità di vita che vi si associano (vedi cap. iv). La costruzione degli spazi di vicinato, comunità o quartiere assume diversi aspetti, a seconda di chi si impegna a costruirli e perché (vedi cap. IX infra). Gli spazi di lavoro sono organizzati come elementi micro - uffici, reparti di fabbri­ ca, postazioni - all’interno di complessi macro - fabbriche, blocchi di uffici, concentrazioni urbane. Tutti portano i segni di rapporti di classe

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di dominio, di forza-lavoro, di occupazioni e di competenze manageria­ li ordinati in gerarchie ben precise. Il denaro connesso con le attività svolte in questi spazi può poi essere riportato nelle comunità, come al­ trettanti ambiti espressivi differenziati di status sociale e di prestigio. L’ordinamento gerarchico dello spazio amministrativo e politico, che comprende rioni, distretti, città, regioni, nazioni e zone di influenza informali, completa il sistema di ordinamento spaziale dei cinque centri di potere che abbiamo individuato come fondamentali per la vita socia­ le nel capitalismo. Tutti sono collegati tra loro da una complessa rete di trasporti e comunicazioni. Gli spazi della città sono organizzati, inter­ connessi e strutturati secondo una logica sociale ben definita. Il ruolo e il funzionamento dei diversi centri di potere non possono essere separati dagli spazi che occupano. La costruzione di sistemi di spazialità diventa uno strumento decisivo per articolare i sistemi di po­ tere. Le attività e le esperienze che hanno luogo in questi spazi fornisco­ no la materia prima da cui si crea la coscienza. Gli spazi proibiti, temu­ ti, sconosciuti o inutili contengono la materia prima della nostra igno­ ranza, così come quelli condivisi, sicuri, contesi o necessari sono il terreno decisivo per definire chi o cosa siamo. Gli spazi della città sono costruiti dalla mobilitazione delle fonti di potere secondo configurazioni determinate. Una volta costruita, l’orga­ nizzazione spaziale della città assume le caratteristiche di un testo che dobbiamo imparare a leggere e a interpretare correttamente, e non solo secondo le nostre esigenze, volontà o desideri. Le qualità labirintiche degli spazi della città, il loro ordinamento gerarchico e i loro significati spesso nascosti formano un mondo simbolico imponente e impondera­ bile. Possiamo quindi feticizzare il testo e i suoi spazi e trattare il mon­ do simbolico urbano come una cosa in sé cui dobbiamo per forza ri­ spondere. A volte basta entrare nello spazio di una fabbrica, di uno sta­ to o di una particolare comunità per adeguarsi alle sue esigenze in modi che sono contemporaneamente prevedibili e inconsapevoli. Così l’ordi­ ne simbolico degli spazi di una città ci impone modi di pensare e di agi­ re che rinforzano i modelli di vita sociale dati. Lo studio della gerarchia delle spazialità in una forma urbana aiuta a capire come sono collegati individualismo, rapporti di classe, obblighi comunitari e familiari e azione statale. L’urbanizzazione del capitale, in virtù del suo potere di creare spazio, produce in questo modo, silenziosamente, la coscienza urbanizzata. Vi sono molte forze distruttive che possono intervenire contro un si­ mile sistema repressivo finalizzato alla riproduzione dello status quo. Tanto per cominciare, l'accumulazione di capitale implica la continua ristrutturazione degli spazi urbani, per venire incontro alle esigenze

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della crescita della produzione e del consumo, dell’espansione e della trasformazione dei mercati del lavoro e delle merci, della creazione di nuove infrastrutture fisiche e sociali, per tacere dell’imposizione di nuo­ ve forme tecnologiche. L’estensione della proprietà della casa alla classe operaia, per esempio, muta l’organizzazione spaziale della città e i suoi significati simbolici, e contemporaneamente modifica i meccanismi di consumo. Trasformazioni spaziali come la concentrazione, la suburba­ nizzazione, il rinnovamento urbano, il risanamento e la residenzializzazione devono essere interpretati a partire dall’impulso espansivo del­ l'accumulazione del capitale. Simili trasformazioni sono operate dalla “distruzione creativa” dei paesaggi precedenti. Le tensioni e le contrad­ dizioni implicate neEa continua spinta alla riorganizzazione degli spazi della città dà luogo a interazioni complesse e imprevedibili. Tutto ciò diventa ancora più evidente quando si impongono letture feticistiche degli spazi urbani: allora il luogo della comunità, dello scambio di mer­ ci, del simbolismo statale e di qualsiasi altra cosa possono diventare ostacoli alla trasformazione spaziale. Il capitalismo ha la curiosa caratte­ ristica di creare condizioni in cui gli spazi della città vengono quasi sempre trasformati in feticci, mentre contemporaneamente mette in moto processi di distruzione creativa che mostrano fin troppo bene di cosa sia fatta la mano invisibile della storia. Quando comunità operaie costituitesi nel corso di decenni sono spazzate via dai programmi im­ mobiliari, dalla residenzializzazione e interventi simili, è molto difficile non sentirsi vittime dell’accumulazione piuttosto che suoi padroni. Ci sono, comunque, altri modi in cui gli ordinati sistemi della ripro­ duzione si dissolvono in una dinamica di indefinizione. Un testo com­ plesso, labirintico e sempre in trasformazione come quello composto dagli spazi cittadini non può essere letto senza ambiguità. Esso si presta a tutte le interpretazioni e a tutti i fraintendimenti proprio perché le re­ gole con cui è scritto non possono essere imparate a priori, ma devono essere apprese dall’esperienza. Se si eccettua il tassista esperto, che pro­ babilmente in merito è il più colto di tutti, per gli altri apprendere il lin­ guaggio degli spazi di una città è un’esperienza parziale, vincolata ai de­ sideri e alle passioni del momento. La sicurezza simbolica del testo ur­ bano è continuamente preda della distruzione portata dall’instabile semiotica del desiderio. Questa è la forza fondamentale che Lefebvre indica spesso, nel suo tentativo di capire come gli spazi di una città pos­ sano essere liberati, per superare i limiti e le restrizioni dello stato e del capitale, ma anche della comunità, della famiglia e dell’individualismo monetizzato. I risultati della disposizione di individui, famiglie, comunità, classi e apparati dello stato in una gerarchia spazializzata che può essere feticiz-

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zata o fraintesa non sono automaticamente compatibili con l’accumula­ zione del capitale. Nel processo urbano fanno irruzione conflitti e bru­ sche discontinuità. Tensioni di questo genere sono alla base di determi­ nate configurazioni di coscienza personale e politica che cancellano tan­ to quanto rivelano della dinamica sottostante. E molto giusto sottolineare, come sono soliti fare i marxisti e anche i borghesi sensibili, che il sistema dev’essere compreso come un tutto. Ma la maggior parte degli agenti economici non ne ha l’opportunità, e non può permettersi di penetrare i feticismi della vita quotidiana, neanche quando ha la pre­ disposizione, l’esperienza e l’istruzione per farlo. E se lo fa, le sue rifles­ sioni, come scoprono molti pensatori radicali, sono difficili da trasfor­ mare in azioni che non si limitino a intervenire rispetto a bisogni imme­ diati, e che in questo modo quindi più che eliminare il feticismo lo appoggiano. Detto ciò, in che posizione vengono a trovarsi coloro che, come noi, per ragioni diverse, vogliono trasformare il capitalismo in un modo di produzione e consumo più sano e meno nemico dell’uomo? Sappiamo che esso è sopravvissuto fino al XX secolo grazie anche alla produzione di uno spazio sempre più urbanizzato. Il risultato è stato una particolare esperienza urbana, qualitativamente e quantitativamente diversa da tut­ to quanto l’ha preceduta nella storia. Con la creazione di ambienti co­ struiti e di forme e flussi spaziali, il capitalismo ha prodotto una “secon­ da natura”. Ha anche prodotto un nuovo tipo di natura umana, creando spazi sociali e collegando i diversi luoghi in cui si forma la coscienza. Ma queste seconde nature, anche se prodotte dal modo capitalista di produ­ zione e circolazione, non sono necessariamente compatibili con l’accu­ mulazione del capitale e i rapporti di classe che la dominano. In effetti, col tempo possono trasformarsi in ostacoli. Il processo urbano dunque si presenta sia come essenziale alla continuazione del capitalismo, sia co­ me la principale espressione delle sue contraddizioni interne. Il capitali­ smo deve, in ogni momento della sua storia, fare i conti con le conse­ guenze delle sue strutture urbane. Le seconde nature artificiali diventa­ no le materie prime da cui devono essere prodotte nuove configurazioni di attività capitalista, nuove forze produttive e nuovi rapporti sociali. La ricerca di alternative deve affrontare proprio questa situazione: essa deve non solo trasformare questa grande seconda natura composta da un ambiente costruito in modo da assecondare l’assetto capitalista e le divisioni spaziali di produzione e di consumo, ma essere anche in gra­ do di cambiare la coscienza urbanizzata. Credo che molte delle diffi­ coltà incontrate dai tentativi socialisti di trasformazione del capitalismo siano derivate dal non aver affrontato questo problema. Il socialismo deve dimostrare che la distruzione creativa della rivoluzione è a lungo

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andare più creativa e meno distruttiva di quella del capitalismo. Deve trovare la strada che conduce a un’esperienza urbana diversa, che af­ fronti le molte fonti di alienazione e infelicità senza intaccare le libertà e le garanzie esistenti. L’analisi dell’urbanizzazione del capitale e della coscienza aiuta a individuare alcune delle trappole in cui i progetti di trasformazione sociale possono troppo facilmente cadere. Può anche aiutare a evitare i vari strati di feticismo che si associano all’esperienza quotidiana della vita urbana, e suggerire un modo politico di affrontare la mano invisibile della storia. E possibile creare un attacco coordinato contro il potere del capita­ le? E possibile farlo, unendo l’individualismo del denaro, le concezioni più radicali della comunità, gli elementi progressivi delle nuove struttu­ re familiari e delle relazioni di genere, e la legittimità contestata ma po­ tenzialmente utile del potere statale, in un’alleanza con l’ira di classe derivante dalle condizioni del lavoro e dalla compravendita della forzalavoro? L’analisi delle condizioni che definiscono l’urbanizzazione del­ la coscienza suggerisce che per sfidare realmente il potere del capitale servirebbe quanto meno la forza di un’alleanza di questa portata. Essa però non possiede alcuna base naturale, e molte cose dividono i possi­ bili partecipanti. Pensiamo, per esempio, alla distinzione tra denaro e denaro usato come capitale. Non aver compiuto questa distinzione ha portato molti marxisti a vedere l’abolizione della definizione dei prezzi operata dal mercato e dalla funzione di segnali dei prezzi come precondizione per l’abolizione dei rapporti di classe nella produzione. È stata necessaria l’esperienza della pianificazione totalmente centralizzata, con le sue modalità estremamente razionalizzate, disciplinate e repressive di coor­ dinamento della produzione e del consumo in un contesto di spazio e tempo universalizzati, per capire che forse l’equazione di denaro e capi­ tale era un errore e che un totale controllo dell’utilizzo del denaro signi­ fica l’abolizione di quel po’ di libertà individuale, certo limitata, con­ quistata dalla società borghese. Lo spazio del corpo non può essere as­ sorbito in quello dello stato senza divenirne schiavo. La borghesia ha tracciato il sentiero verso una maggiore libertà individuale. Il problema è liberarla dalla sua base strettamente capitalista. II sistema dei prezzi è il più decentrato di tutti i meccanismi decisionali per coordinare la divi­ sione sociale e geografica del lavoro, e presenta un grado di libertà non realizzabile con la pianificazione centralizzata o il controllo collettivo comunitario. Gli individui semplicemente vogliono le limitate libertà concesse daU’uso del denaro, e il coordinamento decisionale ottenuto dal sistema dei prezzi determina una società urbana più aperta di quella che si potrebbe avere diversamente.

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Il problema, quindi, è andare oltre la base puramente monetaria dell’individualismo borghese, e di reprimere l’uso del potere del denaro per procurarsi privilegi nelle possibilità di vita, senza cadere nella re­ pressione della comunità o di uno stato autoritario. La tesi secondo cui la proprietà privata offre una delle poche protezioni contro l’arbitrio dello stato e l’intolleranza repressiva della comunità si è rivelata non priva di ragioni. Ma la socialdemocrazia, che è stata storicamente sensi­ bile ad almeno una parte di questi temi, non è mai stata in grado di con­ tenere le forme di dominio che sorgono quando la proprietà privata e il potere del denaro si uniscono a formare il capitale. Né ha mai affronta­ to l’individualismo prodotto dal coordinamento decisionale puramente monetario, se non attraverso lo statalismo del welfare. La strada che porta al socialismo deve passare sotto le forche caudine di queste com­ plicate opposizioni, e trasformare a fondo la gerarchia di spazialità che domina la vita urbana contemporanea. Non è neanche possibile abbandonare la divisione spaziale del lavo­ ro e del consumo esistente senza distruggere le basi materiali della vita contemporanea. L’organizzazione spaziale della produzione può, co­ munque, essere separata dal volubile calcolo del profitto. Si deve trova­ re un equilibrio tra il rispetto della storia, della tradizione, delle capa­ cità accumulate dalle comunità operaie e la ricerca innovativa di nuove tecniche e di configurazioni spaziali più efficienti. La ricerca di condi­ zioni sociotecniche e rapporti sociali di produzione meno oppressivi è, dopo tutto, l’oggetto della lotta di classe sul luogo di lavoro. Ma è diffi­ cile definire il significato preciso di un progetto simile in un mondo di interdipendenza così complessa che il potere monetario non può fare altro che rinforzare il suo dominio, come astrazione concreta che è pa­ drona delle nostre vite. Un primo passo è il controllo della concorrenza interurbana e l’incentivazione della cooperazione tra le città. Inoltre c’è il problema di determinare un equilibrio accettabile e dinamico tra ac­ centramento e decentramento dei processi decisionali dell’economia. Il potere del capitale finanziario e dello stato sulla produzione dev’essere ridefinito e controllato in modo da produrre sviluppo cooperativo al posto della concorrenza. Superficialmente, la divisione spaziale del consumo sembrerebbe es­ sere una questione più facile da affrontare. E indispensabile una riorga­ nizzazione del paesaggio urbano, per redistribuire l’accesso al potere so­ ciale e alle opportunità di vita. Le forme di concorrenza interurbana da cui derivano politiche fiscali che sovvenzionano il consumo dei ricchi a spese del salario sociale dei poveri meritano pure di essere immediata­ mente attaccate. Ma questa è, credo, una sfera più pericolosa di quanto non sia disposta ad ammettere buona parte dei socialisti. L’esperienza

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dell’urbanizzazione basata sulla domanda (vedi cap. l) ha inciso profon­ damente nella coscienza politica. Ha giocato sul confine mobile tra la vendita di comunità confezionate e il desiderio di una comunità autenti­ ca, e di autentiche libertà culturali e personali da esercitare collettiva­ mente. La fusione, avvenuta a livello di massa, di narcisismo consumista e di desiderio di autorealizzazione è stato un momento importante del­ l’urbanizzazione della coscienza. E una combinazione volatile, pericolo­ sa da provocare e difficile da affrontare. Ma si presenta sempre più come uno dei problemi e delle opportunità principali per la mobilitazione po­ litica. Qui c’è una base di massa per l’agitazione, un focolaio di guerri­ glia che potrebbe trasformarsi in una guerra più vasta, ma c’è anche il pericolo della degenerazione in blande forme localizzate di socialismo dei consumatori, che alimentano il dissenso anziché guarirlo. Il proble­ ma sta nel recidere lo stretto legame tra autorealizzazione e puro consu­ mismo. Ma questa battaglia deve essere combattuta, se il socialismo vuo­ le avere qualche possibilità nel mondo del capitalismo avanzato. Se non vinceremo battaglie di questo tipo resteremo in balia di un processo urbano che ha interiorizzato i principi capitalisti di produzio­ ne per la produzione, accumulazione per l’accumulazione, consumo per il consumo e innovazione per l’innovazione. E di un probabile futu­ ro di distruzione creativa sempre più rapida, e di abbandono di un nu­ mero sempre maggiore di persone e luoghi. Emile Zola conclude La bestia umana con un’immagine terribile. L’ingegnere e il fuochista, stretti in un combattimento mortale a causa delle loro gelosie meschine, cadono dal treno e vengono dilaniati dalle sue ruote spietate. Il treno, senza più guida e sempre più veloce, corre verso Parigi, mentre i soldati che lo affollano, intossicati e ubriachi dal­ l’eccitazione al pensiero della grande guerra con la Prussia che li atten­ de, cantano a squarciagola la canzone più forte e oscena. Chiaramente, Zola cercava di rappresentare il Secondo Impero che corre verso la guerra con la Prussia e la tragedia della Comune. Ma l’immagine può avere un significato più ampio. L’urbanizzazione globale del capitale dà luogo all’urbanizzazione totale ma anche violentemente instabile della società civile. L’urbanizzazione della coscienza che ne deriva ci intossi­ ca e stordisce col feticismo, privandoci della possibilità di capire questa traiettoria, per non dire di cambiarla. L’urbanizzazione del capitale e della coscienza minacciano un passaggio alla barbarie, proprio nel mez­ zo della retorica dell’autorealizzazione. Se l’urbanizzazione del capitale e della coscienza sono così impor­ tanti per la sopravvivenza e la percezione del capitalismo, e se è attra­ verso questi canali che oggi si esprimono le sue contraddizioni, allora non abbiamo altra scelta che mettere l’urbanizzazione della rivoluzione

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L’esperienza urbana

al centro delle nostre strategie politiche. Ci sono molte indicazioni in questo senso. Un movimento politico che non si radichi nel cuore del processo urbano, nella società capitalista avanzata è condannato al falli­ mento. Un movimento politico che non consolidi il proprio potere al­ l’interno del processo urbano non può sopravvivere a lungo. Un movi­ mento politico che non possa mostrare vie d’uscita dalle molte aliena­ zioni della vita urbana contemporanea non può raccogliere l’appoggio di massa necessario per la trasformazione rivoluzionaria del capitali­ smo. Vale la pena di lottare per un’esperienza urbana realmente uma­ nizzante, tanto sognata e tanto ricercata. Il socialismo deve quindi af­ frontare il doppio problema della trasformazione del capitalismo e del­ la sua peculiare forma di urbanizzazione. Questa idea è ambigua, naturalmente. Ma preferisco lasciarla tale. Districare i suoi significati è compito della vita politica ed economica contemporanea.

9. Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione: riflessioni sul “postmoderno” nella città americana La rivoluzione proletaria è la critica alla geografia uma­ na, per mezzo della quale individui e comunità devono creare luoghi ed eventi con cui si possano riappropria­ re non solo del loro lavoro, ma di tutta la loro storia. (Guy Debord, La società dello spettacolo)

“Sono tempi duri, ma (post)moderni.”

1. Introduzione Christopher Jencks (1984, pag. 9) data la fine simbolica dell’architettu­ ra moderna e il passaggio al postmoderno alle 15.32 del 15 agosto 1972, quando le case popolari del complesso Pruitt-Igoe, una versione della «macchina per la vita moderna» di Le Corbusier, vennero fatte saltare in aria perché invivibili per gli abitanti. Poco dopo, il presidente Nixon dichiarava ufficialmente conclusa la crisi urbana. Il 1972 è un anno-simbolo per altri mutamenti avvenuti nell’econo­ mia politica del capitalismo avanzato. È a partire da quell’anno, infatti, che il mondo capitalista, risvegliatosi dal torpore soffocante della stag­ flazione in cui si era stancamente concluso il lungo boom del dopo­ guerra, ha iniziato a sviluppare un regime di accumulazione del capita­ le apparentemente nuovo e senz’altro diverso. Avviato nel corso della forte recessione del 1973-1975, e stabilizzato nell’altrettanto severa de­ flazione del 1981-1982 (la “recessione di Reagan”), il nuovo regime è contrassegnato dalla flessibilità: nei processi lavorativi, nei mercati del lavoro e dei prodotti, nei modelli di consumo (vedi Armstrong et al. 1984; Aglietta 1974; Piore e Sabel 1987; Scott e Storper 1986; Harvey 1988). Negli stessi anni ha determinato rapide trasformazioni nella strutturazione dello sviluppo ineguale - a livello sia di settori produtti­ vi che di regioni geografiche - consentite dal veloce sviluppo di stru­ menti e mercati finanziari completamente nuovi. L’aumento della fles­ sibilità e della mobilità ha reso possibile l’imposizione di un nuovo re­ gime a una popolazione attiva già fiaccata da due durissimi periodi di deflazione, in cui la disoccupazione in tutti i paesi capitalisti avanzati, con l’eccezione forse del Giappone, è salita a livelli senza precedenti nel dopoguerra. Una classe operaia già indebolita è stata totalmente sconfitta: hanno contribuito a questo risultato i rapidi spostamenti del­

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le attività dai paesi capitalisti avanzati a quelli di nuova industrializza­ zione, il passaggio della domanda di lavoro dalle mansioni industriali qualificate alle occupazioni poco qualificate nei servizi, e anche la sua stessa incapacità di fare fronte ad alti livelli di disoccupazione, alla ra­ pida trasformazione delle competenze richieste, e a incrementi molto modesti dei salari reali (se mai ce n’erano stati). Le circostanze politi­ co-economiche hanno impedito allo stato di proteggere il salario socia­ le, anche nei paesi i cui governi erano seriamente impegnati nella dife­ sa del welfare state. Infine, politiche monetarie di austerità e politiche fiscali restrittive, a volte accompagnate dalla rinascita di un neoconser­ vatorismo radicale, si sono diffuse in tutto il mondo capitalista. Anche la vita culturale e intellettuale si è radicalmente trasformata, dopo il 1972. Pensiamo, per esempio, alle idee e alle attività degli esponenti dello stile modernista internazionale di quegli anni. Il mo­ dernismo aveva perso qualsiasi aspetto di critica sociale. Il suo pro­ gramma prepolitico e utopico, imperniato sulla trasformazione dell’in­ tera vita sociale per mezzo di quella dello spazio, era fallito (Jameson 1984), e lo stile moderno era finito per trovarsi strettamente collegato con l’accumulazione del capitale, in un progetto di modernizzazione fordista connotato da razionalità, funzionalità ed efficienza. Nel 1972 l’architettura modernista era soffocata e bloccata, proprio come il po­ tere delle grandi aziende multinazionali che rappresentava. La stagfla­ zione in architettura procedeva parallelamente a quella del capitali­ smo: non è stato un caso che Venturi, Scott-Brown e Izenour abbiano pubblicato Learningfrom Las Vegas proprio nel 1972. In realtà, i criti­ ci del moderno erano in circolazione da anni (basti pensare a Life and Death of Great American Cities di Jane Jacobs, pubblicato nel 1961) e in un certo senso il movimento rivoluzionario e culturale degli anni sessanta aveva rappresentato una critica alla razionalità, alla funziona­ lità e all’efficienza. Ma fu necessario che la crisi del 1973 sconvolgesse il rapporto tra arte e società, perché il postmoderno venisse accettato e istituzionalizzato. “Postmoderno” è comunque un termine controverso. Quasi tutti sono d’accordo che si tratti di una qualche reazione al “moderno”. Ma poiché il significato del termine non è chiaro, non lo sono nemmeno le reazioni che suscita. Sembra esserci comunque un certo consenso sul fatto che «la tipica opera postmoderna è giocosa, pluralista, autoironica e anche schizoide; e reagisce all’autonomia austera del moderno ab­ bracciando senza vergogna alcuna il linguaggio del commercio e della merce». Inoltre «il suo atteggiamento verso la tradizione culturale è quello del pastiche irriverente, e la sua studiata mancanza di profondità mette in discussione ogni solennità culturale, spesso con un’estetica

Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione

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provocatoria, del brutto e dello shock». (Eagleton 1987). Ma anche in architettura, dove l’“opera” è ben visibile e autori come Jencks (1984) hanno cercato di definire con precisione il programma postmoderno, il significato e la definizione del termine rimangono controversi. In altri campi, dove il postmoderno si è mescolato con il poststrutturalismo, il decostruzionismo e altre correnti ancora, la confusione è stata ben più grande (vedi Huyssen 1984). Dal punto di vista del contesto urbano, quindi, definirò il postmoderno semplicemente come rottura con l’idea che la pianificazione e lo sviluppo urbanistici debbano consistere nella progettazione su larga scala, tecnologicamente razionale, austera e fun­ zionalmente efficiente; e poi come volontà di usare le tradizioni verna­ colati e la storia locale per progetti spazialmente specializzati, le cui funzioni possono andare dall’intimità allo stile grandioso: il tutto con un grande eclettismo stilistico. Inteso in questo modo, il postmoderno, mi sembra, cerca di inserir­ si nel quadro del regime di accumulazione più flessibile nato dopo il 1973. Esso ha svolto un ruolo creativo e partecipe nella promozione di nuovi atteggiamenti e attività culturali compatibili con l’accumulazio­ ne flessibile. È vero, d’altra parte, che alcuni suoi sostenitori, come Frampton (1985) ritengono che esso contenga un potenziale di resi­ stenza, e non solo di consenso, agli imperativi capitalisti. In ogni caso, l’istituzionalizzazione e l’egemonia del postmoderno si fondano sulla nascita di una «logica culturale» specifica del tardo capitalismo (Jame­ son 1984a). Ma si deve inserire nel quadro un altro elemento. Non sono stati solo il capitalismo, la sua cultura e la sua ideologia a trasformarsi com­ pletamente: anche i nostri “discorsi”, per usare una parola di moda, sono andati nella stessa direzione. La decostruzione dei paradigmi strutturalisti, la rinuncia alla teoria compiuta dalle scienze sociali a vantaggio dell’empirismo, il generale abbandono del marxismo, sia per ragioni politiche che intellettuali, il senso di futilità nella rappre­ sentazione del reale espresso da nozioni come l’impenetrabilità dell’“altro” e dalla riduzione di ogni significato a “testo”: tutto ciò rende difficile scorgere una continuità nella nostra interpretazione della trasformazione avvenuta attorno al 1972. Prima, parlavamo del mondo in modo e con un linguaggio diversi. Anche in questo caso, mi sembra si possa sostenere che il mutamento politico-economico cui si è giunti attraverso le crisi economiche e le sconfitte della classe ope­ raia abbia influito sui discorsi e sulle attività culturali e ideologiche (vedi Harvey e Scott 1989). Sembra una vecchia tesi marxista. Lo è. Ma non posso fare a meno di pensare che, mentre guardavamo la pol­ vere alzarsi verso l’alto e i muri di Pruitt-Igoe crollare al suolo, stava

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L'esperienza urbana

crollando anche tutto un mondo di pensiero e cultura, economia e isti­ tuzioni, politica e relazioni.

2. Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione Ho sostenuto altrove (Harvey 1985a; 1985b) che 1’analisi dell’urbaniz­ zazione è un momento fondamentale dello studio della geografia storica del capitalismo. Anche i nuovi sistemi di accumulazione flessibile, infat­ ti, sono stati introdotti con tanto successo grazie, tra l’altro, a una serie di trasformazioni del processo urbano. Inoltre, come hanno sottolinea­ to diversi storici dello sviluppo del modernismo, c’è uno stretto rappor­ to tra i movimenti estetici e culturali e le trasformazioni dell’esperienza urbana (Berman 1985; Bradbury e McFarlane 1976; Clark 1985; Frisby 1992). Sembra quindi opportuno interpretare le trasformazioni del pro­ cesso urbano come un punto chiave di integrazione tra la spinta politi­ co-economica verso l’accumulazione flessibile e la tendenza estetico­ culturale al postmoderno. Dopo il 1972 negli Stati Uniti anche l’urbanizzazione ha cambiato completamente i suoi spazi. La deflazione globale del 1973-1975 ha messo in crisi la base occupazionale di molte regioni urbane. La crisi era determinata da una combinazione di fattori diversi: contrazione dei mercati, disoccupazione, rapide trasformazioni dei vincoli spaziali e della divisione globale del lavoro, fuga di capitali, chiusura di fabbri­ che, ristrutturazione tecnologica e finanziaria. La dispersione geografi­ ca non andava solo verso altre regioni e nazioni. Essa consisteva anche in una nuova fase di decentramento urbano, di popolazione e produ­ zione, oltre le zone suburbane, verso l’America rurale e paesana, in un modo che sembrava quasi realizzare la predizione di Marx sull’«urbanizzazione della campagna». Gli investimenti in capitale fisso e le in­ frastrutture fisiche già esistenti vennero dunque sottoposti a forti sva­ lutazioni, indebolendo la base di tassazione rappresentata dalla pro­ prietà immobiliare e quindi la capacità fiscale di molte amministrazioni urbane, proprio mentre aumentavano i bisogni sociali cui dare rispo­ sta. Poiché era diventato più difficile ottenere fondi dalla redistribu­ zione federale (qui sta l’importanza della dichiarazione di Nixon del 1973), ne seguì una riduzione del consumo sociale, e sempre più le am­ ministrazioni locali si trovarono costrette a una politica economica re­ strittiva, che comprendeva spesso azioni disciplinari contro gli impie­ gati e contro il salario reale. Fu proprio in questo contesto che nel 1975 New York andò tecnicamente in bancarotta, inaugurando un’on­ data di crisi fiscali e di ristrutturazioni nella maggior parte delle città

Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione

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degli Stati Uniti (Szelenyi 1984; Clavel et al. 1980; Fainstain et al. 1986; Tabb 1982). Le coalizioni di classe dominanti delle varie regioni urbane furono costrette, volenti o nolenti, qualsiasi fosse la loro composizione, ad adot­ tare un atteggiamento molto più concorrenziale. Il “managerialismo” ti­ pico dell’amministrazione urbana degli anni sessanta venne sostituito dall’“imprenditorialismo”, che divenne l’ispirazione centrale dell’attività degli amministratori (Hanson 1983; Bouinot 1987). Lo sviluppo della “città imprenditoriale” accrebbe la concorrenza interurbana. Ho soste­ nuto prima (vedi cap. l) che la concorrenza può essere suddivisa in quat­ tro forme: a) concorrenza per la posizione nella divisione internazionale del lavoro; b) concorrenza per la posizione nella divisione spaziale del consumo; c) concorrenza per le funzioni di controllo e di comando, in particolare per il potere finanziario e amministrativo; d) concorrenza per le redistribuzioni statali. Tra l’altro queste ultime negli Stati Uniti, come ha mostrato Markusen (1986), si sono concentrate recentemente sulle spese militari. Queste quattro possibilità non si escludono tra loro, e le diverse fortune delle regioni urbane sono state determinate dalla combi­ nazione delle strategie seguite e dalla loro tempestività rispetto alle tra­ sformazioni globali. E stato anche a causa di questo aumento della concorrenza interurba­ na che l’accumulazione flessibile si è affermata. Come risultato si sono avute repentine oscillazioni nella fortuna delle città, e nella strutturazio­ ne dello sviluppo geografico ineguale (vedi Smith 1984). Houston e Den­ ver, città-miracolo a metà degli anni settanta, sono state improvvisamen­ te rovinate dal crollo dei prezzi del petrolio dopo il 1981; Silicon Valley, negli anni settanta terra promessa dei nuovi prodotti high tech e dei nuo­ vi lavori, ha da un momento all’altro perso il suo vantaggio competitivo, mentre New York e le economie del New England, date per spacciate, si sono riprese vigorosamente negli anni ottanta grazie all’espansione delle funzioni di comando e di controllo e persino a una nuova crescita mani­ fatturiera. Ne sono venuti altri due effetti più generali. In primo luogo, la concorrenza interurbana ha aperto spazi entro i quali potevano meglio essere disposti i nuovi processi lavorativi, più flessibili, e ha reso possibili flussi di mobilità geografica molto più ela­ stici di quanto non fosse prima del 1973. L’interesse a creare un buon “clima per gli affari”, per esempio, ha spinto le amministrazioni urbane ad adottare una serie di misure — dal controllo dei salari a investimenti pubblici - per attirare lo sviluppo economico, e in questo modo ha di­ minuito i costi di spostamento per le imprese. Buona parte delle tanto pubblicizzate “alleanze pubblico-privato” di questi ultimi tempi non sono altro che sovvenzioni erogate ai consumatori ricchi, alle imprese e

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L’esperienza urbana

alle funzioni di comando al fine di incentivarne la permanenza in città, a spese del consumo collettivo locale della classe operaia e dei ceti me­ no abbienti. In secondo luogo, le amministrazioni urbane sono state co­ strette a innovare e a investire per rendere le loro città più attraenti co­ me centri di consumo e di cultura. Le opere prodotte - centri congres­ si, stadi, parchi giochi a tema, centri commerciali di lusso - sono state rapidamente imitate altrove. La concorrenza interurbana ha quindi da­ to luogo a una serie di innovazioni urbane a catena, tutte imperniate sul consumo di nuovi prodotti: innovazioni negli stili di vita, nelle forme culturali, nei prodotti, persino nella politica: tutte hanno promosso atti­ vamente il passaggio all’accumulazione flessibile. In questo consiste, come dirò tra breve, parte del segreto del passaggio al postmoderno della cultura urbana. Il legame si mostra nella profonda ristrutturazione degli spazi inter­ ni della città americana contemporanea a cui spinge la concorrenza in­ terurbana. Premetto a questa descrizione, però, alcune note generali sul contenuto di classe delle attività spaziali in contesti urbani.

3. Il contenuto di classe delle attività spaziali in contesti urbani Le attività spaziali di ogni società sono sottili e complesse. Inoltre, dato che sono anch’esse responsabili dell’accumulazione del capitale e della riproduzione dei rapporti di classe capitalisti, rappresentano un’arena permanente di conflitto e di lotte sociali. Coloro che hanno il potere di controllare e di produrre lo spazio sono in possesso della strumentazio­ ne necessaria per riprodurre e aumentare il loro potere. Ogni progetto di trasformazione sociale, quindi, deve cogliere la struttura della tra­ sformazione delle attività spaziali in tutta la sua complessità. Cercherò di analizzare tale complessità costruendo una “griglia” di attività spaziali (tavola 1). In riga vi figurano le tre dimensioni indivi­ duate da Lefebvre in La Production de l’espacc.

1. Le attività spaziali materiali, cioè i flussi fisici e materiali, i trasferi­ menti e le interazioni che hanno luogo nello spazio e attraverso lo spazio, e che garantiscono la produzione e la riproduzione sociali, 2. Le rappresentazioni dello spazio, che comprendono tutti i segni e i si­ gnificati, i codici e i saperi, che consentono di parlare di queste atti-: vità e di capirle, sia con le parole del linguaggio quotidiano sia con il vocabolario a volte arcano delle discipline accademiche che si occu­ pano delle attività spaziali (ingegneria, architettura, geografia, piani­ ficazione, ecologia sociale e così via).

Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione

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3. Gli spazi di rappresentazione, invenzioni sociali che cercano di pro­ durre nuovi significati e possibilità per le attività spaziali: codici, se­ gni, e anche costruzioni materiali come spazi simbolici, particolari ambienti costruiti, dipinti, musei e così via.

Lefebvre ha chiamato queste tre dimensioni Yesperito, il percepito e Yimmaginato e considera i loro rapporti dialettici come il nucleo della drammatica tensione che fornisce la chiave di lettura della storia delle attività spaziali. I rapporti sono comunque problematici. Una posizione marxista “volgare” presumibilmente sosterrebbe che le attività spaziali materiali determinano direttamente sia le rappresentazioni dello spazio che gli spazi di rappresentazione. Marx (1974; 1978) non la pensava così. Nei Grundrisse presenta il sapere come una forza produttiva materiale (vol. Il, pagg. 389-395), e in un passaggio giustamente famoso del Capitale (libro I, pag. 274) scrive che «ciò che, fin dapprincipio, distingue il peggiore architetto dalla migliore ape è il fatto di aver costruito la cella nella propria testa prima di costruirla con la cera». Gli spazi di rappresentazione quindi non solo determinano la rappresentazione dello spazio, ma sono anche in grado di fungere direttamente da forze produttive materiali nel qua­ dro delle attività spaziali. È anche vero, d’altra parte, che l’affermazione secondo cui i rappor­ ti tra l’esperito, il percepito e l’immaginato sono determinati dialetticamente e non causalmente lascia le cose un po’ troppo nel vago. Bour­ dieu (1977) fornisce un’utile spiegazione quando afferma che «una ma­ trice di percezioni, valutazioni e azioni» completamente flessibile può essere messa all’opera, in uno stesso momento, per «compiti infinita­ mente diversificati», e che tale matrice è, secondo la famosa espressione di Engels «in ultima istanza» generata dall’esperienza materiale delle «strutture oggettive» e quindi «dalla base economica della formazione sociale in questione». Bourdieu accetta il «fondato primato dei rappor­ ti oggettivi», senza però compiere la falsa inferenza che dota le strutture oggettive della capacità di svilupparsi autonomamente, senza l’interven­ to dell’uomo. La mediazione è fornita dal concetto di “habitus”: un «principio sta­ bilmente installato, generatore di improvvisazioni regolate» che «produ­ ce attività pratiche» le quali, a loro volta, tendono a riprodurre le condi­ zioni oggettive che hanno creato in prima istanza il principio generatore dell’habitus. Si tratta di un nesso di causazione circolare, forse anche cu­ mulativa. La conclusione di Bourdieu è in ogni caso una descrizione molto convincente del potere dell’immaginato sull’esperito:

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L’esperienza urbana

ATTIVITÀ MATERIALI NELLO SPAZIO (ESPERIENZA)

Accessibilità

Appropriazione

Dominio e controllo

e distanza

e uso dello spazio

dello spazio

Flussi di beni,

Ambienti costruiti

Proprietà privata

denaro, persone,

urbani, spazi sociali

della terra,

torza-lavoro ecc.;

della città

divisioni statali

sistemi di trasporto

e altre definizioni

e amministrative

e di comunicazione;

del territorio;

dello spazio;

gerarchie di

reti sociali

comunità e quartieri

mercato e urbane;

di comunicazione

chiusi; segregazione

concentrazione

e di aiuto reciproco

degli spazi e altre

forme di controllo sociale (polizia e sorveglianza)

RAPPRESENTAZIONI DELLO SPAZIO (PERCEZIONE)

Misurazioni delle

Spazio personale;

distanze sociali,

mappe mentali

“imperativi

psicologiche e fisiche;

dello spazio

territoriali";

Spazi proibiti;

cartografia;

occupato;

comunità;

teorie dell'attrito

gerarchie spaziali;

cultura regionale;

della distanza1'

rappresentazioni

nazionalismo;

(principio del minimo

simboliche

geopolitica;

sforzo, fisica sociale,

degli spazi

gerarchie

“Il media

Spettacoli popolari:

Spettacoli

è il messaggio'1,

manifestazioni

organizzati;

nuovi modi

e scontri; luoghi

monumenti e spazi

di transazione

di spettacolo

rituali costruiti;

spaziale (radio, TV,

popolare (strade,

barriere simboliche

cinema, fotografia,

piazze, mercati);

o segni di capitale

pittura ecc.);

iconografia

simbolico

diffusione del "gusto"

e graffiti

gamma di un bene,

centralità e altre forme di teoria

della posizione)

SPAZI DI RAPPRESENTAZIONE (IMMAGINAZIONE)

.

Tavola 1. Griglia di attività spaziali.

Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione

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Poiché l'habitus è una capacità senza fine di generare prodotti - pen­ sieri, percezioni, espressioni, azioni - i cui limiti sono posti dalle condi­ zioni storicamente e socialmente determinate della sua produzione, la libertà condizionante e condizionale che esso garantisce è lontana tan­ to dalla produzione di novità imprevedibili, quanto dalla semplice ri­ produzione meccanica del condizionamento iniziale. (Bourdieu 1977, pag. 95)

Condivido questa teoria e più avanti ne farò ampio uso. Sulle colonne della griglia (vedi tavola 1) ho disposto altre tre moda­ lità di attività spaziale, più vicine al senso comune: 1. Accessibilità e distanza, che indicano il ruolo dell’“attrito della di­ stanza” nelle attività umane. La distanza è una barriera contro l’in­ terazione umana, ma anche una difesa. Essa impone costi di transa­ zione a ogni sistema di produzione e riproduzione, soprattutto a quelli fondati su un’articolata divisione sociale del lavoro, sullo scambio e sulla differenziazione sociale delle funzioni riproduttive. La distanza (cfr. Giddens 1990) non è altro che la misura del grado in cui l’attrito dello spazio è stato superato, rendendo possibile l’in­ terazione sociale. 2. L’appropriazione di spazio, che considera come lo spazio è utilizza­ to, e come è occupato da individui, classi e altri raggruppamenti so­ ciali. L’appropriazione sistematica e istituzionalizzata può compor­ tare la produzione di forme territorialmente limitate di solidarietà sociale. 3. Il dominio di spazio, che riflette come gli individui o i gruppi di po­ tere dominano l’organizzazione e la produzione di spazio così da poter esercitare un controllo maggiore o sull’attrito della distanza o sul modo in cui lo spazio è appropriato da sé o da altri. Queste tre dimensioni di attività spaziale non sono indipendenti. L’attri­ to della distanza è implicito in ogni interpretazione del dominio e del­ l’appropriazione di spazio, mentre l’appropriazione permanente da par­ te di un gruppo determinato significa una dominazione di fatto dello spazio: pensiamo alle gang che stanno agli angoli delle strade. Inoltre, il tentativo di dominare spazio, poiché richiede una riduzione dell’attrito della distanza, altera la distanza stessa: è ciò che per esempio accade con la “distruzione dello spazio con il tempo” tipica del capitalismo. Questa griglia di attività spaziali di per sé non dice nulla di straor­ dinario. Esse assumono la loro efficacia nella vita sociale solo grazie ai rapporti sociali strutturati con cui si incontrano. Nei rapporti sociali

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del capitalismo, le attività spaziali sono intrise di significati di classe. Ma ciò non significa sostenere che le attività spaziali derivano dal capi­ talismo. Esse assumono significati precisi: questi entrano in azione, in­ dirizzando l’uso degli spazi a fini specifici, solo con l’intervento della classe, del genere o di altre dimensioni di attività sociale.1 Una volta collocata nel contesto dei rapporti sociali capitalisti e dei relativi impe­ rativi, come l’accumulazione del capitale, la griglia può essere d’aiuto a sbrogliare parte della complessità propria delle attività spaziali con­ temporanee. Il mio scopo, nel costruire la griglia, non era comunque impegnar­ mi in un’esplorazione sistematica della classificazione che essa defini­ sce. Un esame di questo tipo sarebbe peraltro molto interessante, e ho classificato nella griglia, per fornire degli esempi, alcuni fenomeni controversi. Il mio vero obiettivo è trovare il modo di analizzare le profonde trasformazioni nel contenuto di classe e nella natura stessa delle attività urbane cui abbiamo assistito negli ultimi due decenni. Nell’accumulazione flessibile è stata notevole, per esempio, la spinta alla ristrutturazione dello spazio interno alla città. E stata rilanciata la vitalità dei centri storici; si è diffuso il tema della qualità della vita ur­ bana, con la residenzializzazione, i centri commerciali e gli svaghi sem­ pre più raffinati; è aumentato il controllo sociale sugli spazi sia pubbli­ ci che privati. Il processo urbano ha dovuto fare i conti anche con la crescita della povertà e della disoccupazione, in circostanze tali da rendere impossibile l’aumento del salario sociale. Anche in questo ca­ so le attività spaziali si sono trasformate: in parte nel senso di un au­ mento del controllo col ritorno della ghettizzazione, fenomeno che co­ munque non era mai stato veramente affrontato, per non dire elimina­ to, e in parte con lo sviluppo di nuovi spazi in cui si aggirano i senza-casa, gli schizofrenici e i malati di mente rimasti privi di assi­ stenza, e in cui i nuovi poveri praticano vecchie e nuove strategie di sopravvivenza. Come possiamo rendere conto di questa polarizzazio­ ne spaziale delle classi, di come essa si trasforma e determina possibili conflitti? È possibile dare potere sullo spazio alla popolazione segre­ gata, oppressa e impoverita che sempre più frequentemente popola le aree urbane?

1 II contenuto di genere, razziale, etnico o religioso delle attività spaziali dev’essere preso in considerazione se si vuole fornire una descrizione completa della formazione delle comunità e della produzione di spazi sociali in contesti urbani. Un primo passo per quanto riguarda il genere è stato compiuto con i lavori di Stimpson (1981); Rose (1984); Shlay e Di Gregorio (1985); Smith (1987).

4. Attività di classe e costruzione di comunità2 Le diverse classi elaborano il loro senso del territorio e della comunità in modi molto differenziati. Questo fatto elementare è spesso trascurato da quei teorici che astrattamente immaginano che esista una qualche tendenza idealtipica e universale, propria di tutti gli esseri umani, alla costruzione di comunità umane più o meno simili, quali che siano le condizioni politiche o economiche. Di contro, lo studio dell’azione di classe in quanto costruzione di comunità, nel quadro dell’urbanizzazio­ ne contemporanea, dimostra come attività spaziali fondamentalmente simili possano avere contenuti di classe totalmente diversi. Guardiamo da vicino, per esempio, alle attività di classe da cui ven­ gono solitamente costituite le comunità di cui si compongono gli inse­ diamenti urbani. Troviamo tutta la flessibilità e l’adattabilità di perce­ zioni, valutazioni e azioni su cui insiste Bourdieu. Ma il contrasto tra il modo in cui uno strato sociale non abbiente e privo di potere costruisce la propria comunità, e quello in cui la costruisce uno strato ricco e po­ tente è davvero stupefacente. La popolazione a basso reddito, priva di solito dei mezzi necessari per superare e quindi controllare lo spazio, si trova intrappolata nello spazio stesso. Poiché la proprietà dei mezzi di riproduzione di base è li­ mitata, il modo principale di dominare lo spazio è una continua appro­ priazione. I valori di scambio sono scarsi, e così al centro dell’azione so­ ciale c’è la ricerca di valori d’uso per la sopravvivenza quotidiana. Que­ sto determina transazioni interpersonali molto frequenti, e la formazione di comunità molto ristrette. All’interno dello spazio comu­ nitario, i valori d’uso vengono condivisi per mezzo di una combinazione di aiuto e di furto reciproci, che crea legami interpersonali stretti ma spesso altamente conflittuali sia negli spazi pubblici che in quelli privati. Il risultato è un attaccamento spesso intenso alla “zolla”, al territorio lo­ cale, e un preciso senso dei confini, perché è solo per mezzo dell’appro­ priazione attiva che ci si assicura il controllo dello spazio. Un controllo riuscito presuppone la possibilità di escludere elemen­ ti indesiderati. Nella costruzione di comunità di questo tipo vengono quindi chiamate frequentemente in causa sottili discriminazioni di na­ tura etnica, religiosa, razziale e di status. Inoltre l’organizzazione politi­ ca assume una forma particolare, che di solito esprime una cultura di resistenza e di ostilità ai normali canali di partecipazione. Lo stato è vis­ suto come un’agenzia di controllo repressivo, che si manifesta per

2 Su qusto punto sono in debito con il lavoro di ricerca di Phillip Schmandt.

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esempio nella polizia o nell’istruzione, e non viene visto come qualcosa che potrebbe essere controllato dalla comunità e fornirle vantaggi (Wil­ lis 1977). Le organizzazioni politiche di tipo partecipativo sono poco sviluppate, come osserva Crenson (1983), e la politica borghese viene ritenuta priva di importanza e inutile al fine di procurarsi i valori d’uso necessari alla sopravvivenza quotidiana. Lo stato comunque interviene in queste comunità: esse sono le fondamentali fonti dell’esercito di ri­ serva dei disoccupati, e poi si tratta di aree così povere che possono ospitare qualsiasi tipo di piaga sociale e malattia contagiosa, dalla pro­ stituzione alla tubercolosi; infine, esse sembrano pericolose in quanto esterne ai normali processi di partecipazione sociale. Confrontiamo questa situazione con l’attività dei gruppi ricchi, che possono controllare lo spazio grazie alla mobilità spaziale e alla pro­ prietà degli strumenti fondamentali di riproduzione (case, automobili eccetera). Già dotati di abbondanti valori di scambio con cui mantener­ si in vita, essi non dipendono, per la sopravvivenza, dai valori d’uso for­ niti dalla comunità. La costruzione comunitaria è quindi finalizzata, nella sua struttura e nei mezzi di cui si dota, alla conservazione e all’au­ mento dei valori di scambio. I valori d’uso hanno a che fare con que­ stioni di accessibilità, gusto, tono, apprezzamento estetico, e con il capi­ tale simbolico e culturale che si accompagna al possesso di un ambiente costruito “di valore”. Non sono necessarie relazioni interpersonali a li­ vello di strada, e il controllo sullo spazio non deve essere garantito da continue appropriazioni. Il denaro consente l’accesso alla comunità, rendendola quindi meno esclusiva rispetto ad altre dimensioni. La se­ gregazione residenziale a base etnica e anche razziale tende a diminuire con l’aumentare del reddito. I confini sono diffusi e flessibili, e dipen­ dono soprattutto dal campo spaziale degli effetti di esternalità che pos­ sono influire sui valori della proprietà individuale. Le organizzazioni comunitarie si formano per occuparsi di tali effetti e per conservare il “tono” dello spazio comunitario. Lo stato è visto come fonte di possibi­ li vantaggi e come qualcosa di controllabile: garantisce la sicurezza e aiuta a tenere fuori gli indesiderabili, tranne in circostanze particolari (la posizione di servizi “nocivi”, la costruzione di autostrade eccetera) Diverse circostanze materiali danno dunque luogo ad attività spaziali e a processi di costruzione comunitaria differenziati, cui si accompagna­ no attività culturali e predisposizioni ideologiche altrettanto differenzia­ te. Condizioni di oppressione economica e di dominio socio-politico ge­ nerano tipi di attività spaziale e stili di formazione comunitaria molto di­ versi da quelli che si possono trovare in altre circostanze di classe.

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5. Informatizzazione, produzione di capitale simbolico e mobilitazione dello spettacolo

L’accumulazione flessibile ha toccato in profondità le strutture di classe e le possibilità politico-economiche, in modo tale da modificare i pro­ cessi di produzione di comunità, e ha ribadito l’importanza del conte­ nuto di classe delle attività spaziali. Considererò brevemente tre aspetti di questa trasformazione. IMPOVERIMENTO E1NFORMALIZZAZIONE

A partire dal 1972 negli Stati Uniti è notevolmente aumentato il nume­ ro dei poveri nelle città. Anche la composizione di questa popolazione povera è cambiata. Gli operai disoccupati e gli immigrati, provenienti dalle economie rurali e regionali depresse o dai paesi del Terzo Mondo, sono stati tutti ammucchiati in quello che Marx chiamava l’«ospizio» della classe operaia e abbandonati a se stessi. In alcuni casi, determinate comunità urbane legate a una fonte di occupazione locale predominan­ te sono state interamente ridotte in condizioni di miseria dalla chiusura di una sola fabbrica. In altri, gruppi particolarmente vulnerabili, come le famiglie guidate da donne, hanno visto aggravarsi la loro condizione economica, con la conseguente creazione di zone in cui sono diventati dominanti fenomeni come la femminizzazione della povertà. Le restri­ zioni fiscali che il neoconservatorismo ha trasformato da necessità eco­ nomiche in virtù politiche hanno contemporaneamente tagliato il flusso di servizi pubblici, che rappresentavano uno strumento di sussistenza fondamentale per le masse dei disoccupati e dei poveri. In città, imparare a sopravvivere e a cavarsela senza quasi avere en­ trate è un’arte che richiede un po’ di tempo per essere appresa. Nella popolazione a basso reddito si è quindi trasformato l’equilibrio tra concorrenza, rapina e aiuto reciproco. Paradossalmente la crescita del­ la povertà ha indebolito l’efficacia di alcuni dei meccanismi più poten­ ti per combatterla. Ma c’è stata un’altra risposta drammatica: lo svilup­ po di quello che nelle città americane è noto come il “settore informa­ le”, incentrato sulle attività illegali come il traffico di droga, la prostituzione, ma anche sulla produzione e sul commercio di servizi. La maggior parte degli osservatori (vedi Castells e Portes 1986) è d’ac­ cordo: dopo il 1972 queste attività si sono accresciute, per portata e forma. Inoltre, gli stessi fenomeni sono stati osservati nelle città euro­ pee, portando quindi il processo urbano di tutti i paesi a capitalismo avanzato su strade molto più vicine all’esperienza del Terzo Mondo (Redclift e Mingione 1985).

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La natura e la forma dell’informalizzazione sono molto variabili, a seconda di diversi fattori: la possibilità di trovare mercati locali di beni e servizi; la qualità dell’esercito di forza-lavoro di riserva, cioè delle sue competenze e dei suoi atteggiamenti; le relazioni tra i sessi, dato che le donne hanno un ruolo decisivo nell’organizzazione delle economie informali; la presenza di competenze imprenditoriali adeguate; la vo­ lontà delle autorità, sia di regolazione che di controllo, come i sindacati, di tollerare attività spesso illegali. Le comunità a basso reddito presentano innanzitutto una vasta ri­ serva di forza-lavoro spinta, di questi tempi, a trovare di che vivere, di qualsiasi cosa si tratti. In condizioni di disinteresse statale e di debolezza sindacale, posso­ no nascere nuove attività produttive di beni e di servizi, a volte organiz­ zate dall’esterno della comunità, a volte organizzate da imprenditori in­ terni alla comunità stessa. Il lavoro domestico è diventato molto più dif­ fuso, consentendo alle donne di unire nel medesimo spazio l’allevamento dei figli e un’attività produttiva, mentre l’imprenditore può risparmiare sui costi generali. I laboratori semiclandestini ad alto sfruttamento del lavoro, i cosiddetti sweatshops, e la fornitura informale di servizi hanno iniziato a diffondersi come aspetti vitali nell’economia di New York e Los Angeles dopo il 1970, e sono poi diventati caratteristici di tutto il sistema urbano degli Stati Uniti. A essi si è accompagnata la mercifica­ zione crescente dei tradizionali sistemi di aiuto reciproco propri delle comunità a basso reddito. Il babysitting, la lavanderia, le pulizie dome­ stiche e altre attività di questo tipo, che venivano in passato scambiate come favori, vengono oggi comprate e vendute, spesso su base impren­ ditoriale. I rapporti sociali interni alle diverse comunità sono quindi diventa­ ti molto più imprenditoriali, con tutte le conseguenze del caso, in par­ ticolare lo sfruttamento eccessivo e spesso incredibile, soprattutto del­ le donne, nel processo lavorativo. In queste comunità è aumentato il flusso di denaro in entrata, ma a spese dei sistemi tradizionali di aiuto reciproco e con la conseguenza dell’imposizione di più rigide gerarchie sociali. Anche il flusso di valore in uscita dalle comunità è aumentato significativamente. Ciò ha condotto molti osservatori a guardare con stupore alle dinamiche locali di sviluppo urbano, e a sostenere che si debba tollerare, accettare e anche incentivare l’informalizzazione. Si è così rafforzata la credibilità della tesi dei neoconservatori secondo cui l’attività imprenditoriale privata porta sempre alla crescita e al succes­ so economici: come se in questo modo si potessero risovere i problemi di tutti i poveri e non solo di alcuni. Comunque la crescita dell’infor­ malizzazione, e l’emergere di spazi urbani non regolati, all’mterno dei

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quali sono tollerate simili attività, è un fenomeno perfettamente com­ patibile con il nuovo regime di accumulazione flessibile. LA PRODUZIONE DI CAPITALE SIMBOLICO

Nell’accumulazione flessibile la corsa frenetica al consumo ha portato ad attribuire un’importanza maggiore alla differenziazione di prodot­ to. I produttori hanno quindi cominciato a esplorare i territori dei gu­ sti e delle diverse preferenze estetiche, esplorazione che non era affatto necessaria in un regime fordista di accumulazione per mezzo di produ­ zione di massa standardizzata. In questo modo, essi hanno dato nuovo rilievo a una dimensione importante dell’accumulazione del capitale la produzione e il consumo di quello che Bourdieu (1977, pagg. 171198; 1983) chiama «capitale simbolico» - con rilevanti conseguenze per la produzione e la trasformazione degli spazi urbani in cui vivono i gruppi ad alto reddito. Il “capitale simbolico” è definito da Bourdieu come «collezione di beni di lusso che testimoniano del gusto e della distinzione del proprie­ tario». Questo capitale è, naturalmente, una trasformazione del capitale monetario, ma «produce il suo peculiare effetto nella misura in cui, e solo in questo caso, cancella il fatto che esso trae origine da forme “ma­ teriali” di capitale che sono comunque, in ultima analisi, all’origine dei suoi effetti». E chiaro che si tratta di feticismo, ma questo è utilizzato deliberatamente per cancellare, nel regno della cultura e del gusto, le basi reali delle distinzioni economiche. Dato che «gli effetti ideologici più efficaci sono quelli che non hanno parole, e che non richiedono al­ tro che un silenzio complice», la produzione di capitale simbolico ha funzioni ideologiche, poiché i meccanismi grazie ai quali esso contribui­ sce «alla riproduzione dell’ordine costituito e del dominio rimangono nascosti» (Bourdieu 1977, pag. 188). Può essere utile applicare la teoria di Bourdieu alla produzione del­ le comunità abitate dalle classi superiori e dei relativi ambienti costruiti. Essa può dirci molto sui processi materiali di residenzializzazione, di recupero della “storia” (reale, immaginaria o semplicemente riprodotta come pastiche) e della “comunità” (anche qui reale, immaginaria o sem­ plicemente confezionata per la vendita dai produttori), e poi anche sul­ l’esigenza di decorazioni ornamentali che hanno funzione di codici e simboli di distinzione sociale (cfr. Simmel 1984; Firey 1945; Jager 1986). Non intendo sostenere che questi fenomeni sono nuovi: essi hanno rappresentato una caratteristica vitale del capitalismo sin dalle sue origini, e naturalmente sono qualcosa di più che un’eco proveniente da ordinamenti sociali più antichi. Ma dopo il 1972 sono diventati mol-

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to più importanti, anche perché si sono estesi a strati di popolazione cui in precedenza erano negati. L’accumulazione flessibile consente di dare una risposta che produ­ ce profitto al malcontento culturale degli anni sessanta, il quale respin­ geva l’accumulazione standardizzata e una cultura di massa che offriva troppo poche opportunità di acquisire capitale simbolico. Poiché la cri­ si politico-economica incitava all’esplorazione della differenziazione di prodotto, il desiderio represso del mercato di acquisire capitale simbo­ lico poteva essere soddisfatto grazie alla produzione di ambienti co­ struiti (Smith e Lefaivre 1984). Ed è stato proprio questo l’impegno dell’architettura postmoderna. «Per l’individuo appartenente alla classe media e residente in una zona suburbana» osservano Venturi et al. (1972), «che vive non in uno dei palazzi di prima della guerra, ma in una sua versione più piccola e sperduta nello spazio, l’identità deve ve­ nire dal trattamento simbolico della forma della casa, o fornito dal co­ struttore, per esempio con uno stile coloniale, o fornito da una serie di ornamenti simbolici applicati dall’abitante stesso». Il capitale simbolico è comunque passibile di svalutazione o aumento a causa delle trasformazioni del gusto. Se esso contiene un potere nasco­ sto di dominio, allora gli stessi rapporti di potere sono vulnerabili alle trasformazioni del gusto. Dato che la concorrenza tra i produttori e le elaborazioni dei consumatori rendono il gusto incerto e mutevole, i con­ flitti sulla moda acquisiscono un significato particolare all’interno della scena urbana (vedi per esempio la ricerca di Zukin, 1982, sulla vita nei loft). Il potere di dominare il simbolico e la capacità di convertirlo in ca­ pitale monetario si radicano nella politica culturale del processo urbano. Ma ciò significa anche che in un regime di accumulazione flessibile il do­ minio dello spazio nel processo urbano ha una dimensione culturale an­ cora più importante. Poiché il dominio, di qualsiasi tipo, contiene il po­ tenziale per una risposta violenta da parte dei dominati, ecco che anche qui un ambito di conflitto latente si è aperto a un’articolazione esplicita. LA MOBILITAZIONE DELLO SPETTACOLO

Panem et circenses era la formula degli antichi romani per la pacifica­ zione sociale della plebe scontenta. La formula è arrivata alla cultura capitalista attraverso società come quella della Parigi del Secondo Im­ pero, in cui le feste e gli spettacoli urbani erano diventati potenti stru­ menti di controllo di una società lacerata dal conflitto di classe (Clark 1985): A partire dal 1972 Io spettacolo urbano è stato trasformato. Sono finiti gli eventi controculturali, le dimostrazioni contro la guerra, le ri­

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volte di strada e le rivoluzioni urbane degli anni sessanta. Mentre au­ mentavano la disoccupazione, la povertà e la polarizzazione di classe, lo spettacolo è stato messo sotto controllo dalla borghesia. Nel quadro di questo processo, l’inclinazione modernista per il monumentale, che voleva comunicare la stabilità, l’autorità e il potere dell’ordine costi­ tuito capitalista, è stata sfidata da uno stile postmoderno “ufficiale”, che esplora l’architettura della festa e dello spettacolo, con la sua incli­ nazione per l’effimero e per un piacere transitorio ma coinvolgente. L’esposizione delle merci è diventata parte centrale dello spettacolo: le folle affluiscono per guardarle e per guardarsi gli uni gli altri in spa­ zi intimi e sicuri come l'Harbor Place di Baltimora, la Feneuil Hall di Boston e tutti i vari centri commerciali chiusi sorti in tutta l’America. Interi ambienti costruiti sono così diventati centro di spettacolo e ostentazione. Il fenomeno meriterebbe naturalmente un’analisi molto più detta­ gliata. Esso si inserisce perfettamente nelle strategie delle città per cat­ turare il denaro dei consumatori, nel tentativo di compensare le perdite della deindustrializzazione. Il suo indubitabile successo commerciale si fonda tra l’altro sul fatto che l’azione dell’acquisto si collega al piacere dello spettacolo, purché tutto avvenga in un luogo sicuro e lontano dal­ la violenza e dall’agitazione politica. L’Harbor Place di Baltimora di­ spone di tutte le virtù borghesi che Benjamin (1973) attribuiva ai passa­ ges della Parigi del XIX secolo, e le unisce al senso di festa che un tempo si esprimeva nelle esposizioni universali, «luoghi di pellegrinaggio al fe­ ticcio Merce». Debord (1997) andrebbe oltre: «Lo spettacolo è il com­ plemento moderno sviluppato del denaro, in cui la totalità del mondo della merce si mostra tutta insieme, come equivalente generale di tutto quello che la società può essere e può fare». Dato che lo spettacolo di­ venta «il terreno comune dell’inganno e della falsa coscienza», esso può anche presentarsi come «uno strumento di unificazione» (Debord 1997). II sindaco Schaefer e l’alleanza di classe urbana di Baltimora che lo appoggiava hanno consapevolmente utilizzato lo spettacolo dell’Harbor Place proprio in questo senso, come simbolo della pretesa unità di una città percorsa da divisioni di classe e segregazione razziale. Lo sport professionistico e avvenimenti come i giochi olimpici di Los Angeles hanno una funzione simile, in una società che per il resto è totalmente frammentata. La vita urbana in un regime di accumulazione flessibile arriva sem­ pre più a presentarsi come «immensa accumulazione di spettacoli». I centri storici americani non comunicano più solo il senso monumenta­ le del potere, dell’autorità e dell’egemonia della grande impresa. Essi esprimono anche gioco e spettacolo. È sul terreno dello spettacolo che

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nella cultura urbana postmoderna si è prodotta la rottura che ha ac­ compagnato l’accumulazione flessibile, ed è nel contesto di queste im­ magini di mediazione che si deve formare l’opposizione di classe, come coscienza e come iniziativa pratica.3 Ma come osserva Debord (1997), lo spettacolo «non è mai messo in opera definitivamente e senza pro­ blemi; si tratta sempre di una narrazione del mondo in conflitto con al­ tre, e che si scontra con la resistenza a volte tenace di altre forme di at­ tività sociale».

6. La tensione urbana nell’accumulazione flessibile

L’accumulazione flessibile ha avuto un effetto notevole su tutte le eco­ nomie urbane. La crescita delle iniziative imprenditoriali da parte di molte amministrazioni urbane, soprattutto di quelle all’insegna dell’“alleanza tra pubblico e privato” le ha dato ulteriore impulso, e ha incenti­ vato le tendenze neoconservatrici e postmoderne che essa porta con sé. L’utilizzo di risorse sempre più scarse per attirare lo sviluppo ha fatto sì che venisse trascurato il consumo sociale dei poveri, per fornire ai ric­ chi e ai potenti vantaggi tali da indurli a non abbandonare la città. Que­ sto è stato il mutamento per ottenere il quale Nixon volle dichiarare conclusa la crisi nel 1973, intendendo con ciò che le tensioni urbane avevano cambiato forma. Anche gli adattamenti interni alle città hanno fatto la loro parte per agevolare e incentivare l’accumulazione flessibile. I poveri hanno dovu­ to sviluppare la loro imprenditorialità, per esempio adottando strumen­ ti economici “informali” per sopravvivere. L’aumento della concorren­ za per la sopravvivenza, in condizioni di povertà crescente, ha causato una grave erosione dei meccanismi tradizionali di aiuto reciproco, in comunità urbane che non avevano grandi capacità di controllo spaziale e che spesso non esercitavano alcun potere sui normali processi di inte­ grazione politica. La capacità di controllare spazio grazie alla solidarietà comunitaria e a strutture di appropriazione di mutuo appoggio venne

3 A questo proposito non posso fare a meno di segnalare come Barthes (1975) ab­ bia dato rispettabilità filosofica al concetto di jmàssance, proprio nel momento in cui l’esplorazione della città come teatro e spettacolo, ricco di luoghi di gioco, era diventata egemonica sia nella teoria che nella pratica della progettazione urbana. Ho anche l’im­ pressione che la considerazione del corpo della città come un “testo” da leggere e inter­ pretare con piacere abbia a che fare con i vantaggi fiscali venuti all’industria immobilia­ re dai provvedimenti con cui si sono dichiarati interi pezzi di città «distretti di conserva­ zione storica».

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indebolita, proprio nel momento in cui molti spazi venivano a trovarsi più esposti all’invasione e all’occupazione altrui. Si sviluppò dunque una tensione tra l’aumento della disoccupazione tra i lavoratori dei set­ tori tradizionali e la crescita dell’occupazione collegata con la rinascita dei centri storici, basata sui servizi finanziari e sull’organizzazione dello spettacolo. Una generazione nuova e relativamente ricca di professioni­ sti e dirigènti, nutriti del malcontento antimoderno degli anni sessanta, giunse a dominare intere zone dello spazio dei centri storici, cercando di differenziarsi sul piano del consumo. Ambiente costruito, qualità della vita, controllo di capitale simbolico erano gli strumenti. Il recupe­ ro della “storia” e della “comunità” rappresentarono formidabili mezzi pubblicitari per i produttori di ambienti costruiti. Fu così che si istitu­ zionalizzò lo stile postmoderno. Questa situazione comporta forti tensioni sociali e spaziali. Tanto per cominciare, è di per sé pericoloso l’aumento della polarizzazione di classe, evidente nell’incredibile mare della povertà urbana che circonda isole di ricchezza sorprendente e lussuosa. Dati i processi di costruzio­ ne comunitaria rimasti disponibili per i poveri, la polarizzazione prepa­ ra il terreno per tensioni crescenti, di tipo razziale, etnico, religioso, o semplicemente per la “zolla” di territorio. Si vengono a scontrare mec­ canismi di classe totalmente differenti che definiscono la spazialità delle comunità: si diffonde una sorta di guerriglia generalizzata per l’appro­ priazione e il controllo dei vari spazi cittadini. La minaccia della violen­ za, anche se non di quella di massa degli anni sessanta, aleggia sulla città. Altrettanto pericoloso è il crollo dei meccanismi con cui i poveri possono costruire un qualche tipo di comunità di aiuto reciproco, per­ ché fa crescere l’anomia e l’alienazione individuali, e tutti gli antagoni­ smi che ne derivano. I pochi che “ce la fanno” grazie al settore informa­ le non possono fare da contrappeso alla massa che “non ce la fa”. All’al­ tro estremo della scala sociale, la ricerca di capitale simbolico introduce una dimensione culturale nelle tensioni politico-economiche. Queste alimentano le ostilità tra le classi, e stimolano l’intervento dello stato, che indispone ulteriormente la popolazione a basso reddito. Mi riferi­ sco, per esempio, a come i giovani di strada sono molestati dalla polizia nei quartieri in via di residenzializzazione. La mobilitazione dello spet­ tacolo crea forse una qualche unità, ma è uno strumento fragile e incer­ to, e dato che spinge il consumatore a diventare “consumatore di illu­ sioni” produce a sua volta la sua forma di alienazione specifica. Gli spettacoli e le feste prodotti istituzionalmente sono belli, ma anche le ri­ volte e le rivoluzioni possono diventare le “feste del popolo”. Però c’è un’altra contraddizione. L’aumento della concorrenza inte­ rurbana produce investimenti socialmente dannosi, che aggravano, an-

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ziché mitigare, il problema di sovraccumulazione che in prima istanza ha determinato il passaggio all’accumulazione flessibile (vedi Harvey 1988). Detto altrimenti: quanti centri congressi, stadi, parchi di diverti­ mento e centri commerciali ci possono essere? Il successo è spesso di breve durata, o viene meno per la nascita o la concorrenza di alternative create altrove. Il s’ovrainvestimento in questo genere di servizi rende fa­ cilmente esposti alla svalutazione i valori contenuti nello spazio urbano. La rinascita dei centri storici è costruita sulla crescita dell’occupazione nei servizi finanziari e immobiliari, i cui impiegati si occupano di presti­ ti e mutui immobiliari erogati ad altri impiegati dei servizi finanziari e immobiliari. Tutto dipende da un’espansione colossale del debito per­ sonale, aziendale e statale. Se le cose andassero male, gli effetti potreb­ bero essere molto più devastanti di quanto non sia stata l’esplosione di Pruitt-Igoe. La serie di fallimenti bancari a catena in Texas, Colorado e persino in California, molti dei quali sono attribuibili alla svalutazione della proprietà immobiliare, segnala che nel nuovo sviluppo urbano c’è stato un forte sovrainvestimento. In breve: l’accumulazione flessibile è associata a una strutturazione estremamente fragile dell’investimento urbano e all’aumento della pola­ rizzazione sociale e spaziale degli antagonismi di classe. 7. Risposte politiche Bourdieu (1977, pag. 164) scrive che «ogni ordine costituito tende a produrre la naturalizzazione della sua arbitrarietà». Il meccanismo «più importante e meglio nascosto» a questo fine è «la dialettica tra possibi­ lità oggettive e aspirazioni dell’attore, da cui nasce il senso dei limiti, comunemente chiamato senso della realtà» che è «la base più forte del­ l’adesione all’ordine costituito». Il sapere, percepito o immaginato, in questo modo «diventa una parte integrante del potere della società di riprodursi». Il «potere simbolico di imporre i principi di costruzione della realtà, in particolare della realtà sociale, è una dimensione fonda­ mentale del potere politico». Si tratta di un’argomentazione importante, che aiuta a capire come mai anche il teorico più critico possa facilmente riprodurre «l’adesione all’ordine costituito». Essa spiega la tesi di Tafuri (1973), fondata sulla storia dell’avanguardia e della modernità in architettura, sull’impossibi­ lità di qualsiasi trasformazione radicale della cultura e quindi di qualsiasi attività architettonica radicale e innovativa in assenza di una profonda trasformazione dei rapporti sociali. Questa tesi consiglia un certo scetti­ cismo nei confronti di coloro che hanno recentemente salutato il post­

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moderno, o l’individualismo radicale o qualche altro aspetto della realtà culturale contemporanea, come una rottura totale e liberatoria con il passato. In realtà, ci sono motivi per ritenere che il postmoderno non sia altro che la coperta ideologica dell’accumulazione flessibile. La “distru­ zione creativa”, da sempre al centro della modernità capitalista, è centra­ le anche nella vita quotidiana. Il problema, allora, sta nel trovare una ri­ sposta politica alle verità invariabili e immutabili del capitalismo in gene­ rale, e nel rispondere, nello stesso tempo, alle particolari forme fenomeniche proprie del capitalismo contemporaneo e dell’accumula­ zione flessibile. In questa prospettiva, quindi, presenterò alcune modeste proposte. In primo luogo, pensiamo all’esplorazione degli interstizi che i pro­ cessi contemporanei rendono disponibili alla resistenza e all’accresci­ mento del potere di chi non ne ha. Il decentramento e l’interesse cultu­ rale per le qualità del territorio e dello spazio creano un clima politico in cui possono inserirsi nuove iniziative, comunitarie, territoriali e re­ gionali, e questo proprio nel momento in cui l’accumulazione flessibile mette seriamente a rischio la continuità culturale di qualsiasi territorio. Proprio in considerazione di questo tipo di tensione Frampton (1985) pensa a un’architettura regionale, che resista alle forze omogeneizzanti del capitalismo globale, e Rossi (1984) propone un’architettura che esprima la continuità delle tradizioni locali e della memoria collettiva.4 E dunque chiaro che è possibile usare le tesi postmoderne a fini radica­ li, per aumentare il potere dei poveri e degli svantaggiati. Ma questo è poca cosa in confronto alla “distruzione creativa” con cui l’accumula­ zione flessibile ferisce il corpo della città. L’accumulazione flessibile apre nuovi percorsi di cambiamento socia­ le. La dispersione spaziale significa una maggiore eguaglianza di oppor­ tunità geografica: si può dare vita a nuove attività anche nei paesi più pic­ coli delle regioni più remote. La posizione nella gerarchia urbana perde di importanza, e le grandi città non hanno più automaticamente il potere politico-economico di controllare il territorio. Cittadine che sono riuscite ad attirare nuove attività hanno spesso migliorato in modo significativo la loro posizione. Ma i venti freddi della concorrenza hanno fatto sentire

4 E interessante notare che Rossi (1984) fonda la sna teoria dell’attività architettonica sulle idee di diversi geografi, in particolare di Vidal de la Blache, sull’importanza dei vici­ nati come contesti in cui si detennina la continuità dei gemes de vie e come sedi della me­ moria collettiva. Dal mio punto di vista, Rossi ha scelto il geografo sbagliato, perché Vidal è stato notoriamente riluttante, almeno fino quasi al termine della sua vita e al suo fonda­ mentale ma poco considerato Geographie de l’Est, a esplorare le trasformazioni e le dina­ miche cui i paesaggi sociali e fisici vanno incontro sotto i rapporti sociali capitalisti.

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anche qui il loro soffio. E difficile mantenere le attività, anche quando sono appena avviate. Le città che perdono sono tante quante quelle che vincono. Il fermento dei mercati del lavoro ha indebolito i tradizionali poteri del sindacato, e ha fornito migliori opportunità di immigrazione, occupazione e auto-occupazione a strati di popolazione cui un tempo sa­ rebbero state negate, anche se in condizioni di concorrenza molto più forte, che provoca un peggioramento delle condizioni di lavoro per le donne, gli ultimi immigrati e le minoranze ghettizzate. La produzione flessibile offre anche la possibilità di creare forme cooperative di organiz­ zazione del lavoro che prevedono un certo controllo da parte dei lavora­ tori. Piore e Sabel (1987) sottolineano questo fenomeno, e lo vedono co­ me un momento decisivo nella storia del capitalismo, in cui si apre la possibilità di dare vita a forme del tutto nuove e molto più democratiche di organizzazione industriale. A un simile stile organizzativo si può giun­ gere anche con il consolidamento sociale delle attività del “settore infor­ male”, trasformandole in iniziative collettive controllate dai lavoratori. Le condizioni dell’accumulazione flessibile, in breve, danno l’im­ pressione che il controllo da parte dei lavoratori e delle comunità sia un’alternativa praticabile al capitalismo. L’enfasi dell’ideologia politica della sinistra si è quindi spostata nel senso di un socialismo decentrato “praticabile”, che si ispira molto di più alla socialdemocrazia e all’anar­ chia che al marxismo tradizionale. Questo corrisponde alle forti critiche e agli attacchi portati dall’esterno e dall’interno ai meccanismi di pianifi­ cazione centralizzata dei paesi socialisti (per esempio Nove 1986). I partiti politici di sinistra hanno conosciuto un’analoga evoluzione. Il socialismo municipale in Gran Bretagna, la democrazia economica e il controllo comunitario negli Stati Uniti, la mobilitazione comunitaria atti­ vata dai verdi in Germania sono esempi di questa tendenza. E chiaro che c’è ancora molto da fare, sia a livello locale che regionale, per difendere e rafforzare gli interessi locali. Le organizzazioni comunitarie e religiose sostengono attivamente l’acquisto delle fabbriche da parte dei dipenden­ ti, combattono la chiusura delle aziende, e appoggiano in vari modi i meccanismi di aiuto reciproco tipici della tradizionale solidarietà comu­ nitaria dei ceti a basso reddito. Anche le istituzioni possono essere spinte ad appoggiare la volontà di acquisire potere della popolazione che le cir­ conda. Un apparato statale simpatetico può trovare il modo di sostenere le cooperative di servizio, quelle edilizie e quelle di produzione, e forse può cercare nuove strade per incentivare la formazione di competenze individuando e seguendo le qualità dei giovani. E possibile spingere le istituzioni finanziarie ad appoggiare il reinvestimento nelle comunità o le imprese cooperative per favorire lo sviluppo immobiliare locale, oppure organizzare spettacoli con fini politici. I pianificatori possono far sì che le

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trasformazioni dei quartieri e dei vicinati conservino la memoria colletti­ va anziché distruggerla. E molto meglio che una fabbrica abbandonata venga trasformata in un centro sociale comunitario dove si conserva la memoria collettiva di coloro che vi hanno vissuto e lavorato, piuttosto che venga trasformata in negozi o appartamenti di lusso. Ma vi sono anche gravi pericoli. Sia la teoria che le attività di cui si sta trattando hanno l’effetto di aumentare la frammentazione e la reifica­ zione. È terribile vedere i territori, le comunità, le città, le regioni o per­ sino le nazioni come “cose in sé” in un’epoca in cui la flessibilità globale del capitalismo è più grande che mai. Seguire questa linea di pensiero si­ gnifica essere nel complesso sempre più vulnerabili allo straordinario potere centralizzato dell’accumulazione flessibile. Chi ignora le caratte­ ristiche dei processi globali dimostra una mancanza di idee geografiche e un’ingenuità pari a quelle di chi ignora le qualità peculiari del territorio e della comunità. Le iniziative che si basano solo su questi ultimi ele­ menti definiscono una linea politica di adattamento e sottomissione, e non certo di resistenza attiva e di trasformazione socialista. Eppure una strategia globale di resistenza e trasformazione deve in­ cominciare dalla realtà del luogo e della comunità. Il problema consiste quindi nell’individuare una politica centralizzata che sia all’altezza del potere sempre più centralizzato dell’accumulazione flessibile, rimanen­ do comunque fedele alle situazioni di base di resistenza locale. A quan­ to pare, i verdi in Germania e la Rainbow Coalition negli Stati Uniti stanno affrontando questi probemi. È difficile, però, inserire tali nuove ideologie nella tradizionale linea politica dell’opposizione, definita in ri­ sposta a un regime di accumulazione passato, senza per questo, chiara­ mente, abbracciare l’individualismo radicale, il neoconservatorismo o il postmoderno come segni di liberazione. C’è lo spazio, e non è poco, perché le forze progressiste a livello locale, regionale e nazionale riesca­ no nel duro lavoro, pratico e teorico, di creare una forza d’opposizione più unita, muovendosi nella tempesta di cambiamento sociale scatenata dall’accumulazione flessibile. Questo per parlare, comunque, di una politica di resistenza. Ma che dire di una politica di trasformazione radicale? Il capitalismo è sempre in uno stato di pre-socialismo, ma sono pochi coloro che di questi tem­ pi sono disposti a pensare all’ambizioso passaggio al socialismo. Bour­ dieu (1977, pag. 168) ci spiega il perché: La critica che mette in discussione l’indiscusso, che formula il non for­ mulato, ha come condizione della sua possibilità le crisi oggettive, che rompendo il nesso immediato tra strutture soggettive e strutture ogget­ tive, distruggono praticamente l’autoevidenza.

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Solo in condizioni di crisi abbiamo la possibilità di pensare in modo ra­ dicalmente nuovo, perché solo in quel caso diventa impossibile ripro­ durre «la naturalizzazione del nostro arbitrio». Tutte le grandi rivoluzio­ ni sociali sono avvenute mentre crollava la capacità di governo borghese. Nel fragile edificio del capitalismo moderno vi sono molte crepe, non poche delle quali sono prodotte dalle tensioni interne all’accumu­ lazione flessibile. II sistema finanziario mondiale, che nell’attuale regi­ me di accumulazione è il potere centrale, si trova in difficoltà ed è schiacciato da un debito eccessivo, che avanza pretese così forti sul la­ voro futuro da far dubitare che possa uscirne se non per mezzo di mas­ sicce insolvenze, di un’inflazione scatenata o di una deflazione repressi­ va. L’insicurezza e il potere di distruzione creativa scatenati dall’accu­ mulazione flessibile fanno la loro parte, spesso su diversi segmenti della stessa popolazione, generando in questo modo forti rivalità geopoliti­ che. Queste potrebbero finire fuori controllo, come negli anni trenta, e distruggere l’Occidente come unità politico-economica coerente: le “guerre” protezioniste e finanziarie sono ormai da tempo entrate a far parte della nostra realtà. Tuttavia, anche se ne è incline, il sistema capi­ talista non è in crisi, e pochi di noi si mettono a pensare a cosa sarebbe la vita se lo fosse. In effetti, il sistema è così precario che anche solo par­ lare della sua precarietà potrebbe scuoterlo in modo inimmaginabile. Con questo vengo al secondo punto. Una crisi oggettiva potrebbe essere una condizione necessaria per grandi trasformazioni sociali, ma non sarà mai sufficiente. Un mutamento dipende dalla nascita di una forza politica capace di inserirsi nel vuoto di potere e di fare qualcosa di veramente creativo. La natura di questa forza politica è quello che fa la vera differenza tra il passaggio alla barbarie e quello al socialismo, per usare l’opposizione di Marx. Se coloro che oggi sono privi di potere de­ vono avere voce in capitolo, allora essi devono prima possedere «gli strumenti materiali e simbolici per respingere la definizione del reale che viene loro imposta» (Bourdieu 1977, pag. 169). Come mostra Wil­ lis, comunque, chi non ha potere sviluppa dei propri strumenti di rap­ presentazione simbolica, che per molti aspetti rappresentano il loro mondo sociale meglio di quelli che gli educatori vorrebbero insegnare loro. Gli emarginati, i dropouts e le subculture urbane d’opposizione, con i loro linguaggi particolari, sono diffusi e vivaci come non mai. Ma il loro linguaggio, se non altro perché è quello di chi è intrappolato nel­ lo spazio, è fonte di adattamento piuttosto che di trasformazione rispet­ to ai processi globali che negano potere alla massa della popolazione. In questo, la teoria critica ha un ruolo. Ma solo se è anche autocriti­ ca. Per cominciare, ogni teoria critica emerge come attività di un grup­ po di «intellettuali organici», per usare l’espressione di Gramsci, e le

Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione

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sue qualità dipendono quindi dalla classe e dal territorio in cui si trova­ no coloro che la elaborano. E così anche per professionisti e accademi­ ci. La nostra teoria critica ha dunque determinate qualità che la rendo­ no diversa da quella espressa dalle attività politiche e culturali della classe operaia. Il potere per chi non ha potere deve essere ottenuto dal basso, con la lotta, e non può essere magnanimamente concesso dall’al­ to. I modi con cui la classe e la sottoclasse si oppongono all’accumula­ zione flessibile devono quindi essere presi molto sul serio. II problema, per tutti, sta nel trovare attività che definiscano il linguaggio di alleanze di classe e territoriali dalle quali possano svilupparsi strategie più globa­ li di opposizione all’accumulazione flessibile. Anche questo tipo di teoria critica non può dare le risposte. Ma può almeno porre le domande, e così rivelare qualcosa delle realtà materiali con cui deve misurarsi ogni transizione. Certo, è un piccolo contributo. Ma le trasformazioni significative devono nascere mettendo insieme tanti piccoli contributi. Un’analisi critica del regime di accumulazione flessibile contemporaneo, delle attività culturali del postmoderno, e della ridefinizione dello spazio fisico e sociale operata dall’urbanizza­ zione, insieme con la riflessione critica sulle ideologie con cui compren­ diamo questi processi, rappresentano un piccolo ma necessario passo per preparare la ricostruzione di un movimento di opposizione globale a un’egemonia capitalista chiaramente sfinita.

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Indice analitico

accumulazione, 17, 24, 26, 29, 34-35, 37-43, 45-46, 48-50, 55, 57, 60, 63-64, 69, 74, 76, 78-81, 86, 8895, 102-105, 107, 109-111, 115119, 122-125, 129, 138-140, 143, 147-149, 151-154, 157, 161, 165-' 167, 172, 174, 177-179, 182, 185186, 188-189, 192-194, 197, 203, 206, 218, 223-224, 226, 228, 234, 268, 270, 272-273, 275, 283, 285290, 293, 295-297, 300, 304, 309311,317-318 -flessibile, 26-27,295-319 - primitiva, 38-39,50, 115,203 alleanze di classe, coalizioni di classe, 19,25,39-41,45-50,57,63-64,66, 68, 73, 75-76, 128, 132, 152-153, 177-183, 185-186, 188-191, 193, 270, 277-278, 283, 299, 311, 319 alloggio, 34, 36-37, 47, 54, 70, 85, 8990, 107-108, 123, 125-126, 169, 230,304 Alacoque, Marguerite-Marie, 236, 238-239 ambiente costruito, 15, 17, 25, 39, 4243, 49, 61, 84-85, 88, 90-99, 101104, 108-110, 125, 143, 147, 149, 173-174, 176, 178, 208, 225-226, 234, 290, 301, 306, 309-311, 313

ammontare complessivo dei salari, 283 appoggio spaziale, 30, 224 aree suburbane, 20, 54, 57-58, 60, 108,147-148,156, 190,267 - e centro cittadino, 34, 38, 60, 190 astrazione concreta, 24, 194, 198, 201,210,219, 269,292 Balzac, H. de, 28, 122,198, 214 Baudelaire, Ch., 214-215, 227 Benjamin, W., 215, 219, 311 Berman, M., 71, 227,286,298 bisogni, 21, 57, 66, 90, 127, 139, 228, 233,245,279-280,290, 298 Blanqui, A., 244, 253, 264 Bonaparte, L. (Napoleone III), 239240,250,253-254 borghesia, 36, 47-49, 53, 57, 68, 71, 76, 78, 89, 92, 99, 105, 107-110, 115, 122-124, 126, 128-129, 137, 160, 180, 215, 221, 229, 243-245, 248-249, 272 , 280, 285 , 291, 311 Bourdieu, P„ 20, 278, 285, 301, 303, 305,309,314,317-318 Braudel, F, 38-39, 44, 76, 239

capitale, 31-78, 80-81, 83-86, 88-95, 98-99, 101-107, 109-110, 112-

336

L’esperienza urbana

132, 136-143, 147-150, 152, 154, 157, 161, 165-166, 168-170, 173183, 185-189, 191, 193-197, 200201, 203, 221, 223, 227, 229-231, 233-234, 266, 268-278, 280-295, 300,304,306,309-310 - circolazione del, 19, 22-26, 3233, 35-39, 41-45, 54, 57-58, 72, 85-86, 109-110, 113-116, 120-127, 132, 169, 175-177, 185, 194, 201, 225-227, 229, 266,272,277,281-285 - commerciale, 38, 88 - fisso, 34, 36, 42, 70, 81, 83-86, 88, 90-91, 94-95, 102-103, 113, 132, 165-166, 173, 179, 181, 186,225,298 - fittizio, 53-56, 61, 85, 94, 101, 118-120, 124, 126, 132, 210, 226,233 - monetario, 83, 85, 88, 120, 181, 231, 233,309-310 - simbolico, 271, 284, 306-307, 309-310,313 capitalismo, 26, 31-32, 35-40, 42-50, 55-59, 62-67, 69-80, 89, 91-94, 101, 103-104, 106, 109, 112-115, 118-121, 124, 127-131, 135-143, 146, 148-149, 152-153, 166, 171172, 177-178, 185, 188-193, 195196, 202-205 , 212 , 217, 223-227, 229, 231, 234, 267-274, 276-277, 279-280, 284-286, 288-291, 293298,303-304,308,310,315-318 - industriale, 44, 47-49, 56, 101, 129,203-204,207 centralizzazione, 52-53, 70, 118, 240241 Chamberlain, J., 46, 50,109 classe capitalista, 59, 79-81, 86, 8990, 105, 110, 117, 139, 164, 185 classe media, 141, 146,310

classe operaia, 28, 46-47, 49, 53, 64, 80, 86, 89,102,104-106, 110-111, 121, 124-125, 145, 159, 178, 180, 184, 215, 229, 242-244, 246, 258, 289,295,299-300,307,319 Clemenceau, G., 261, 263-264 coerenza strutturata, 25, 48, 75, 152, 168-178,181, 183,186,188 commercio, 35, 40-42, 44, 46, 50, 55, 59, 61, 124, 170, 181, 189, 208209,214,241,296,307 Comte, A., 217 Comune di Parigi, 28, 108, 153, 183, 216, 221, 235, 243, 244, 246-253, 255-256, 258, 264, 272, 280-281, 293 comunicazioni, 34, 42, 48, 51, 66, 191, 208, 210, 212, 230, 232, 259, 288 comunità, 40, 48-49, 56-58, 65, 109, 143-146, 149, 176-177, 179, 182, 184, 188, 192-194, 199, 201-202, 208, 210-211, 213-214, 216-219, 223-224, 227-228, 230, 232, 266, 268-282, 284-285, 287-293, 305309,312-313,316-317 concentrazione, 25, 35, 36, 38-39, 45, 67, 93, 107-108, 129, 143, 158, 207-208,241,266,289 concorrenza, 29, 34, 37, 41-42, 45-46, 48-51, 57-58, 61-71, 73-74, 79, 88, 109, 117, 120, 125, 132, 152, 161, 163-169, 172, 174, 180, 185, 187, 189, 190-192, 220, 223, 226, 229, 270-272, 277, 284-285, 292, 299, 300, 307, 310, 312, 314, 316 - spaziale, 34, 66, 170, 185, 220 configurazioni spaziali, 17,19, 36, 75, 103, 124-126, 132, 153, 165-166, 173,180,292 conflitto sociale, 107-108, 139, 145, 176, 189,266

Indice analitico

Conrad, J., 215,223 consumo, 24, 29, 35-37, 39, 42-46, 48-50, 52-62, 65-75, 81, 83-86, 90-92, 94, 105, 107, 114, 119, 123-125, 138-139, 142-146, 148149, 152-153, 159, 163, 168-171, 173-174, 176-178, 185, 188-189, 194, 206, 228, 267, 269-273, 275, 280-284, 289-293, 295, 298-300, 309,312-313 - classi di, 139, 146, 272 - divisione spaziale del, 35-36, 56, 58, 65-68, 73,272,292, 299 - fondo di, 42, 83-86, 90-92, 94, 107,173 - modi di, 146, 185 contadini, 113,128-131,241 contraddizioni, 19, 21, 24, 43, 50, 66, 72, 74, 79, 83, 86, 89, 94, 104, 111, 118, 120-121, 143, 149, 173, 183, 192, 223-224, 229-230, 269, 279, 289-290 controllo sociale, 112, 216, 304 coscienza, 15, 29-30, 70, 72-73, 76, 140-141, 143, 149, 162, 200, 222, 227, 233-234, 267-270, 272, 275276, 280-281, 288, 290-291, 293 - di classe, 76, 106, 108, 140-141, 143, 145, 149, 159, 175, 244, 280 - di comunità, 145, 148-149 costruttori, speculatori, 57, 65-66, 73, 125-126,147,164,187,209 cicli di costruzione, 52 Courbet, G., 250 credito, 17, 33, 36-37, 44-45, 52-54, 67, 85, 101, 119-120, 123-124, 180, 190, 201,223,226, 284 crescita della popolazione, 34, 157158 crisi, 17,24-25, 32,41, 43, 45, 49,5255, 59-61, 63, 67, 69-70, 74-75,

337

81, 83, 89-94, 98-99, 101, 104, 111, 118, 120,139,147,166, 172173, 177, 181-182, 192-194, 196, 221, 224, 278, 282, 284, 286, 295298,310,312,317-318 cultura, 15, 65, 92, 141, 163, 177, 186, 197, 201, 222, 227, 214, 219, 239, 272-273, 286, 297-298, 300, 305,309-311,314 debito, 36, 52-55, 58-59, 61, 68, 85, 101-102, 109, 118, 120, 132, 173174, 178, 181, 224, 229, 314, 318 Debord, G., 295, 311-312 decentramento, 18, 51, 292, 298, 315 deindustrializzazione, 25, 29, 69, 226, 311 denaro, 22-23, 26, 32-33, 36-40, 42, 45, 50, 52-53, 55, 61, 65, 67, 71, 76,85, 91,101,118-119,122-123, 127-128, 131-132, 173, 181, 189, 196-202, 204, 206-226, 228-234, 266, 268-278, 280-284, 286-288, 291-292,306,308,311 dequalificazione, 49, 69, 158, 161 dialettica, 16, 92, 135, 197, 266, 314 Dickens, Ch., 28, 106, 122, 198, 204, 209,211 differenziazione residenziale, 25, 134135,143-150 disoccupazione, 49, 59, 64-65, 69, 141,157,161, 225, 270,275, 295296,298,304,311,313 distribuzione, 39-40, 50, 53-54, 5758, 60, 78, 88, 90, 131-132, 138140, 142, 156, 160, 169-170, 172, 206,266,282 distruzione creativa, 28, 48, 57-58, 71, 166-167, 176, 193, 225-226, 230,289-290, 293,315,318 distruzione dello spazio a opera del tempo, 37,103,224,228, 303

338

L’esperienza urbana

divisione del lavoro, 16,34-36, 45,52, 56, 67, 70, 81, 93, 105, 138-139, 142, 144-145, 148,1889,198-199, 207,225, 269, 275 - geografica del lavoro, 25, 34, 50, 170-171 - internazionale del lavoro, 62, 69,178,189, 193,299 domanda effettiva, 59, 139, 148, 170, 283 donne, 47, 64, 70, 156-157, 161, 172, 180, 198, 216, 219, 222, 274, 279280,307-308,316 Dreiser, Th., 28,198, 209 Durkheim, E., 15, 17,211,268 Eagleton, T., 297 economia informale, 307-308, 313, 316 economie di scala, 51, 93, 158-159, 165,167, 169,171 Engels, F., 28, 59, 125, 162, 182, 203, 206, 269, 274, 301 esercito industriale di riserva, 64, 81, 105, 157,161,172,175,283 esternalità, 94, 164, 306 famiglia, 47, 70, 121, 144, 148, 154, 158, 172, 180, 188, 205-206, 217218, 220-222, 232, 238-240, 268, 270, 272-279, 281-283, 285, 287, 289 fertilità, 112, 116-117, 119 feudalesimo, 101, 128 finanza, 17, 37, 52, 60, 66, 90, 95, 190, 246, 284 Fleury, R. de, 242-243, 247-248, 251, 253-258,261,263-264 fordismo, 29-30, 50, 54,270 forza-lavoro, 19, 22-25, 32-34, 36, 38, 40 , 42 , 44-46, 48-50, 54 , 61, 6364, 71, 73, 78-79, 81, 83, 85-86,

92-93, 105-107, 125, 136, 142, 144, 152, 154, 156-163, 167, 169, 172-173, 175-177, 181, 186, 189, 192, 204, 223, 226, 228, 266, 268, 270, 272, 276, 282-285, 287-288, 291,308 - riproduzione della, 33, 49, 85, 92, 105-106, 268, 284-285, 287 forze produttive, 22, 32, 49, 53, 63, 75, 81,85,116-117,129,172,176, 185, 187, 226, 231, 266, 269, 281, 290, 301 - rivoluzionamento delle, 85, 117 funzioni di comando, 60, 66-70, 7374, 299-300 Gambetta, L., 261 geografia, 25, 33, 62, 148, 151, 162, 172, 195,224,268,302 geografia storica, 15, 17, 19-20, 2427, 74-75, 104, 114, 195, 224, 298 geopolitica, 42, 45, 60, 185, 189-193, 220, 285 gerarchia, 87,158,162, 174,190,216, 221,226,287-289,292,315 ghetto, 124, 126,146 Giddens, A., 17, 19, 136, 138-139, 141-142,144,303 giornata lavorativa, 33, 81, 154, 161163,203 Gissing, G., 28, 211, 217,228 Goncourt, E. de, 250-251,253 grandi imprese, 51, 55, 59, 63-64, 113, 187 Guibert, arcivescovo, 240, 253-255, 261 Hardy, Th„ 205, 207, 217 Haussmann, G., 28, 46, 216, 227, 242, 249, 278

Indice analitico ideologia, 50, 66, 93, 140-141, 145, 148, 175, 175, 217, 222, 276, 297, 316 immagine urbana, 271 imperialismo, 18,50, 74 - culturale, 65, 70 individualismo, 58, 73, 76, 79, 105, 146, 148, 159-160, 171, 188, 199-201, 217, 231-232, 268-278, 280-284, 288-289, 291-292, 314, 317 inflazione, 55, 61, 225, 228, 318 informazione, 33, 48, 50, 67, 135, 228, 276 infrastrutture, 46-47, 52-53, 55, 6364, 66, 173, 175, 179, 181, 183, 185,225,277 - fisiche, 25, 39, 43, 50-51, 54, 59,61,63,75,93-94,116-117, 119, 152-153, 163, 173, 176178, 184, 186, 189, 192, 226, 282, 289, 298 - sociali, 25, 39, 50-51,54,59, 61, 63-64, 75, 93, 152, 163, 173178, 184, 186, 189, 192, 284, 289 innovazione, 17, 24, 37, 40-42, 45-50, 52, 57, 63-64, 66, 103, 138-139, 153, 165-167, 171-172, 184, 187191,193-194,266,293 interesse di classe, 37, 73, 80, 137, 159,161, 179-180,283,285, Internazionale, 243-244, 249 investimento, 32-34, 36-37, 39, 46-47, 50-56, 58-61, 63-67, 70, 81, 8386, 88-91, 93-95, 98-99,101, 105, 107-108, 110, 117, 119-121, 126, 130, 132, 152, 154, 157-158, 161, 165, 170-171, 173-174, 176, 178180, 184, 186, 191, 224-226, 230, 233, 270, 277, 283, 285,298,300, 313-314

339

istituzioni finanziarie, 85, 94, 138, 147,174,178,181,206,316 istituzioni statali, 85, 94, 137, 141, 174 istruzione, 28, 61, 63, 68, 70, 85, 8991, 106, 140, 144-145, 148, 159, 163, 175-176, 188, 221, 290, 306

Jacobs,}., 19, 187, 196 James, H., 76,200, 227 Jameson, F., 286, 296-297 Jencks, C., 295, 297 keynesismo, 29,54, 68 lavoro, 22, 32-39, 41-52, 55-56, 6264, 66, 69-72, 74, 78-81, 83-84, 86, 88-93, 98-99, 102, 104-107, 110-112, 114-115, 118-120, 126131, 136-146, 148, 153, 154-181, 183, 189, 191, 193, 195, 198-200, 203-205, 207, 212-213, 215, 222225, 228-229, 231-233, 266, 269270, 272, 274-275, 281-284, 287, 289, 291, 296, 298-299, 303, 308, 316-318 Lefebvre, H., 71, 76, 143, 210-211, 216, 220, 224, 231, 267, 289, 300-301 Legentil, A, 240, 242, 253-254, 258 libertà, 79, 141, 153, 159, 188, 199200, 213, 215-216, 232, 238, 259, 266, 269-270, 278, 280, 282-283, 291,293,303 lotta di classe, conflitto di classe, 17, 24, 26, 32-34, 41, 45, 47-49, 63, 73, 76, 78-80, 86, 104-110, 121, 127, 136-137, 139, 143, 151-153, 162-163, 167, 169-172, 176, 178179, 182, 185, 187-189, 192, 194, 197, 203, 221, 224, 270,276, 282283,285,292,310

340

L’esperienza urbana

“managerialismo” urbano, 299 Marshall, A., 17, 212 Marx, K„ 15-24, 27, 31-32, 67, 78-79, 81, 83, 88-89, 92, 95, 103, 105, 112-120, 122-129, 133, 135-137, 139-140, 151, 154, 157-158, 182, 187, 198-204, 206, 208, 212-214, 218-219, 223-224, 228, 244, 268269, 274, 281-282, 285, 298, 301, 307,318 materie prime, 18, 22, 32, 83, 128, 163,275,290 mercati, 18, 23, 33, 36-37, 53, 55, 120, 156, 162, 168, 170-171, 179, 192,230, 295,308 -esterni, 139 -fondiari, 119-120, 126-127, 210211 - immobiliari, 28, 61, 99, 126, 147 - interni, 105, 170 mercato dei capitali, 50, 52, 84, 88, 101, 118 mercato del lavoro, 23, 25, 33-34, 37, 41-42, 44-45, 47, 51, 56, 64, 152, 154, 156-164, 166-169, 173, 175, 193 , 223 , 228-229, 233, 266, 269, 275,282-284,289,295,316 mercato mondiale, 36, 45-46, 48, 50, 52, 62, 199, 206, 209, 213, 222, 224, 229, 266 merci, 19, 21-23, 31-40, 44-45, 50-51, 53, 55-56, 71, 78-79, 81, 83-84, 93-94, 103, 107, 110, 114, 122, 127-129, 136, 154, 156-157, 170, 175-176, 181, 183, 186, 193, 195196, 198-199, 201, 208-210, 220, 222-223, 226, 228, 269-271, 281282, 286, 289,296,311 mobilità del capitale, 48 mobilità del lavoro, 48, 64 modernismo, moderno, 200, 286, 296, 298

modo di produzione, 31-32, 41-43, 71,73,75,83,127,131, 136,138, 143,153,177,186, 223,228,234, 269, 274, 290 - capitalista, 24, 31, 42-43, 72, 78, 80, 89-90, 92-93, 101, 112, 114, 118, 121-122, 125126, 128, 132, 136, 148, 280 - passaggio di, transizione, 31, 43,75,114, 127-128 Molotch, H., 184, 186-187 monopolio, 29, 51, 53, 67, 114-115, 123, 126, 164, 166-167, 172-173, 179-180, 187, 193, 200, 220, 222, 233,278,284 - spaziale, 172,220 movimenti sociali urbani, 58, 76, 151,188,197,234 mutamento tecnologico, 29, 45, 4849, 81, 152-153, 157, 166, 182, 224-225 natura, 16, 66, 71, 75, 80, 85, 103, 115,117,120,128,149,156,158, 169-170, 194, 198, 201-203, 208209, 221-222, 234, 267, 271, 273, 284, 290,304-305,308,318 offerta di lavoro, 18, 24, 34, 46, 48, 51, 154, 157-159, 163-165, 167, 179 - competenze, 25, 34, 64, 105 - qualità e quantità dell’, 34, 47, 64, 107,159,179

paesaggio, 37, 43, 45, 60, 72, 75, 84, 102-104, 142, 165-167, 177, 192193, 204, 226-227, 233, 266, 273, 292 pianificazione, 14, 35, 46, 88, 216, 230-233, 278, 290, 296, 300, 316 plusvalore, 22-23, 37, 53-54, 59, 67,

Indice analitico

69-70, 78-79, 81, 88-90, 92, 106, 112, 114-115, 117, 120-125, 129131,176,189,268,281 - assoluto, 63-64, 81, 128 - relativo, 63, 81, 103, 116 politica, 15, 25, 27-30, 40, 42, 46, 48-49, 53-54, 56-58, 60, 62-64, 67-69, 73, 75-76, 93, 108, 110, 112, .140-141, 143, 145, 151-153, 157, 160, 166-167, 175, 180, 182-184, 187-191, 193-197, 209, 211, 231, 233-234, 239, 241-243, 246, 248, 253, 257, 261, 267, 270, 272, 278, 280, 285-287, 290, 293-295, 298, 300, 305-306, 310312,315-318 - delle macchine della crescita, 57, 272 positivismo, 20-21,27, 217 postmoderno, 25-26, 271, 286, 293, 296-298, 300, 311, 313-315, 317, 319 potere (autorità), 18-21, 36, 39-41, 43, 45, 47, 49, 51-53, 55-56, 58, 65-68, 70-71, 73, 75-76, 79, 86, 89, 104-105, 120, 123-126, 129, 132, 136-137, 140-141, 144, 147149, 160, 164, 166-167, 169, 175, 177, 179-182, 184-185, 189-193, 195-199, 203, 206, 208-211, 218223, 226, 228-234, 239, 241, 244, 253, 255-256, 258, 267-269, 271277, 280-282, 284-288, 291-292, 294, 296, 299-301, 303-305, 301312,314-318 Poulantzas, 136, 140 prezzi, 17, 51, 83, 88, 124, 128-129, 170, 199, 208-209, 222, 245, 291, 299 processo lavorativo, 34, 41, 44, 51, 78-79, 81, 93, 103-104, 156, 158, 162, 164, 168, 176, 188, 199,

341

215,224-225,228-230,275,295, 299, 308 produttività, 61, 69, 81, 88, 91, 102103,106, HO, 117-118,138,160161,176, 283 produzione capitalista, 59, 78-80, 83, 137, 140, 148, 165-166, 168, 266 professioni, 46, 201, 206, 211, 230, 277 profitto, 22, 32, 38-39, 43, 48, 74, 76, 78, 81, 83, 88-89, 116-117, 120121,164-165,174, 179, 187,207, 223, 225, 227, 266, 272, 275, 310 - supplementare, 116-117, 119120,164-167,187 - tasso di, 81, 83, 88, 95,116-117 proprietà della casa, 55, 106, 107108, 269, 275, 289 proprietà fondiaria, 38, 107, 112, 114-115, 119-121, 124, 129-130, 132,138,226 proprietà privata, 44, 107, 112, 114115,118,123,126,130,132,199, 210, 216, 232-233, 250, 274, 280, 292 proprietari fondiari, 65, 112-115, 117-121, 124-125, 129-131, 209210,220

rapporti di classe, 150, 152, 179, 183, 193, 201, 203, 211, 234, 275, 280-281, 283, 285, 287-288, 290291,300 rapporti sociali, 89,127-128,131,138, 140, 143, 148-150, 163, 166, 168, 171-172, 182, 184, 220, 268-269, 274, 292, 303-304, 308, 314-315 rapporto urbano-rurale, 92-93, 241 razionalità, 48, 120, 153, 164, 189, 196, 215, 217-218, 230-234, 278, 296 razza, 70,159, 161,211

342

L’esperienza urbana

redditi (circolazione dei), 58, 65, 113, 121-123, 125-126, 132, 268, 283 regioni urbane, 51, 54, 62-65, 68, 70, 74, 76, 152, 154, 156, 159, 163, 168-193,277, 285,298-299 - come centri di comando, 66-67 - come centri di innovazione, 63 - come laboratori di produzione, 62-63 - come mercati del lavoro, 62-63 - come unità di consumo, 65-66 - definizione di regione urbana, 154 religione, 159, 163, 175,202,217,257 rendita, 17, 43, 110, 113-115, 117132,220 - assoluta, 115 -differenziale, 115-117, 125, 131 -monopolio della, 115, 126 residenzializzazione, 226, 271, 289, 302,309,313 Ricardo, D., 115-116 rinnovamento urbano, 226, 230, 289 riproduzione sociale, 36, 47, 125, 179, 220-222, 226, 266,283 risorse, 34, 38-40, 42, 44, 50-51, 53, 55, 61, 63-64, 73, 75, 80, 84, 90, 92, 102, 114, 121, 144, 167, 173176, 178, 180, 184, 186, 189-190, 206,246,270, 284,312 rivolta, insurrezione, 28, 57, 193,197, 202, 213, 215, 218, 222, 227, 229, 253,256, 278 Rotschild, J., 52, 221 salario, 24, 34, 48, 61, 63-64, 74, 78, 105, 107, 121, 125, 159,168, 170, 274,283,292,296, 298,304 - sociale, 61, 63-64, 66, 68 Saunders, Pi, 18-19,151, 182, 277 scienza, 15, 23, 28, 63, 85-86, 89-91, 129,135,202,213,222

scioperi, 48, 108, 165, 181, 204, 221 Sennett, R., 268,273-274 separazione di lavoro e vita, 205 servizi, 60-61, 65-67, 69, 78, 104, 106, 110, 119-122, 163-164, 168170, 173-174, 180, 188-190, 230, 232, 266, 277, 296,306-308,313314,316 Simmel, G., 15, 197-198, 200-202, 205, 208-210, 214-217, 228, 268269, 271,274,283,286,309 sistema di fabbrica, 45, 93, 106 Smith, A., 73, 281,297,304, 310 socialismo, 18, 29, 48-49, 57, 72, 75-77, 137, 143, 183, 189, 231, 272, 280, 290, 292, 293-294, 316-318 sottoconsumo, 50, 54-55, 59, 61-62, 69, 75, 139 sovraccumulazione, 32, 38, 43, 45, 48-50, 52-55, 58, 61, 83-86, 90, 93-95, 99, 101, 107, 172, 176177, 182, 192, 224,313 sovranità del consumatore, 56-58, 60, 134, 145, 271-272 spazio, 17-20, 26, 32-33, 35-37, 40, 43-45, 47-49, 51-58, 60, 66-67, 72-73 , 76, 91, 93, 102-103, 113, 118-120, 124-126, 144, 151-154, 156, 158, 162-163, 171, 174, 178-179,182, 185-187, 189,191, 193-197, 199, 202, 204-205, 207-214, 216-234, 266-267, 269, 272-273, 275-278, 280-282, 286288, 290-291, 296, 300, 301, 303-306, 308, 310, 312-315, 317-319 - appropriazione dello, 230 - assoluto, 216 - controllo dello, 17, 54, 56-58, 220, 228, 232, 272, 305 - dominio dello, 18,233, 310

Indice analitico

- immobilità nello, 84, 94-95 -produzione dello, 18, 57, 60, 76, 226, 267, 283, 287, 303 - sociale, 56, 60, 65, 211, 220, 272 speculazione, 53, 55, 101, 118-120, 149,164,186,214,218,271 spesa sociale, 61, 85-86, 90, 92 spese militari, 299 spettacolo, 307, 310-313 stagflazione, 62, 69, 295-296 stato, 29, 39, 43-44,49,53-54,57, 60, 64, 76, 85-86, 88, 90, 94-95, 99, 115, 140-141, 151, 157, 162, 182183, 187, 190, 203, 209-210, 220, 222, 229-231, 240, 255, 266, 268, 272-274, 276-278, 281-285, 289, 291,-292,305-306,313 - nazionale, 19, 44, 46, 49, 53, 74, 76,162 statua della libertà, 259 status, status sociale, 56, 58, 60, 65, 121, 147, 168, 171-172, 271-272, 288, 305 stile di vita, 56-58, 60, 65, 107, 139, 146-147, 272 struttura di classe, 40, 57, 76, 132, 135-137,162,177 suburbanizzazione, 25, 55-56, 107108, 146, 148, 181, 226, 267, 271, 289 surplus, 38-41, 43-45, 50, 54, 56, 6162, 65, 67, 71-74, 88, 105, 120121,123,173, 176, 224 - di capitale, 25, 32, 38-40, 4243, 49, 83-84, 99, 101, 186, 191 - di forza-lavoro, 25, 32, 38, 4043, 49, 83-84, 99, 105, 154, 156-159,161,169,283 - economico, 38 svalutazione, 32, 43, 49, 55, 58, 63,

343

75, 90-91, 95, 99, 101-104, 118, 166-167, 172, 174, 176-178, 192, 225,270,310,314 sviluppo geografico ineguale, 25, 4546, 73-75, 152, 189, 191-192, 270, 277, 285, 299 tasse, 121, 128, 170, 266 tecnologia, 63-64, 71, 85-86, 89-91, 103, 116, 118, 129, 152, 157, 163-169,171,187,222 tempo, 17-18, 20, 26, 32-33, 36-37, 39,45,52,70, 72-73,91,95,103, 122, 165, 177, 196-197, 199, 202-210, 212-215, 217-234, 266267, 269, 273, 276-277, 286-287, 291, 303 tempo di lavoro, 199, 202, 204, 212213,222,287 tenore di vita, 36, 53-54, 64, 105, 168,170,178-179,191 terra, 38, 55-56, 88, 112-121, 123129, 131-133,176,186, 203,207210,218-219, 226,230,233 - uso della, 120, 125, 127, 129, 131,230 -valore della, 112 Thiers, A., 233, 246-250, 253, 255, 259 Thompson, E.P., 21, 203-204, 207 trasporti, 34, 42, 45, 47-48, 51, 54, 59-60, 68, 85, 103, 108, 119, 125, 171, 191, 208, 210, 212, 230, 288

valore, 22-25, 33, 36, 38, 46, 53, 7980, 83-84, 91, 94-95, 104, 112114, 116, 120-122, 125, 145, 156, 162, 167, 174, 178, 198, 201-202, 206-207, 209-210, 214, 217, 220, 223, 225, 228, 230, 253,271,306,308

344

L'esperienza urbana

-d’uso, 23, 31, 93, 95, 99, 102Weber, M„ 15, 17,136,268 Wirth, L„ 268-269 104, 114, 123, 129, 132, 156 - di scambio, 23, 32, 38, 94, 102Zola, E„ 28, 197-198, 208, 218-219, 104, 154, 199 - produzione e realizzo di, 80 226-227,293