L'eroina al femminile [1 ed.] 9788856841947


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Italian Pages 384 [398] Year 2011

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Table of contents :
Sul genere e sulla droga: una premessa
1. Fuori dall'ombra. I fondamenti teorici e metodologici dell'indagine
2. L'approccio correlazionale e il ciclo della droga
3. Il posto del genere
3.1 Femminile e maschile: tra vecchi stereotipi...
3.2 ... e nuove realt?
4. Un'indagine "corale": materiali e metodi
2. Esplorazioni. La socializzazione alle droghe
2. Le prime sperimentazioni
2.2 Motivazioni e traiettorie di consumo
3. L'iniziazione all'eroina
3.1 Un incontro "soft"
3.2 Il consumo "hard"
3.3 Il buco "evitato"
3. Incanto e disincanto
2. Scoprirsi tossicodipendenti
4. Vivere la dipendenza
1. Le strategie di "hustling"
1.2 La vendita di droga
1.3 La vendita del proprio corpo
2. Quotidianit? e reti sociali
2.2 Le relazioni intime: amore e contingenze
5. Identit? sociale, stigma e maternit?
2. Stigma e doppio stigma
3. Maternit? e tossicodipendenza: un ossimoro
3.1 L'attesa di un figlio
3.2 Essere madre
3.2.1 "Un legame che c'?"
3.12 "Un legame che non c'?"
4. Maternit?, stigma e il difficile rapporto con i servizi
6. La carriera terapeutica
2. Le motivazioni al trattamento
3. Le esperienze di trattamento
3.2 La comunit? terapeutica
4. Once ajunkie, always ajunkie. Il senso delle recidive
5. Le resistenze oggettive e soggettive al cambiamento
Conclusioni
Il percorso metodologico: approfondimenti
La situazione di intervista
Analisi e trattamento del testo parlato
Validit? e attendibilit?
Alcune riflessioni sulla relazione biografica?
Dal caso alla teoria: ulteriori riflessioni etiche
Narrazioni. Gli attori dell'indagine
I key informant
I professionisti socio-sanitari?
Integrazioni. Gli strumenti quantitativi
L'analisi sull'utenza in trattamento presso il Sert di Trento
Riferimenti bibliografici
Accostarsi allo studio di un fenomeno come questo, il consumo di droghe e la tossicodipendenza'
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L'eroina al femminile [1 ed.]
 9788856841947

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Direttore Scientifico: Costantino Cipolla Laboratorio Sociologico approfondisce e discute criticamente tematiche epistemologiche, questioni metodologiche e fenomeni sociali attraverso le lenti della sociologia. Particolare attenzione è posta agli strumenti di analisi, che vengono utilizzati secondo i canoni della scientificità delle scienze sociali. Partendo dall'assunto della tolleranza epistemologica di ogni posizione scientifica argomentata, Laboratorio Sociologico si fonda su alcuni principi interconnessi. Tra questi vanno menzionati: la combinazione creativa, ma rigorosa, di induzione, deduzione e adduzione; la referenzialità storico-geografica; l'integrazione dei vari contesti osservativi; l'attenzione alle diverse forme di conoscenze, con particolare attenzione ai prodotti delle nuove tecnologie di rete; la valorizzazione dei nessi e dei fili che legano fra loro le persone, senza che queste ne vengano assorbite e - ultimo ma primo - la capacità di cogliere l'alterità a partire dalle sue categorie "altre". Coerentemente con tale impostazione, Laboratorio Sociologico articola la sua pubblicistica in cinque sezioni: Teoria, Epistemologia, Metodo; Ricerca empirica ed Intervento sociale; Manualistica, Didattica, Divulgazione; Sociologia e Storia; Diritto, Sicurezza e Processi di vittimizzazione. Comitato Scientifico: Natale Ammaturo (Salerno); Ugo Ascoli (Ancona); Claudio Baraldi (Modena e Reggio Emilia); Leonardo Benvenuti, Ezio Sciarra (Chieti); Danila Bertasio (Parma); Giovanni Bertin (Venezia); Rita Biancheri (Pisa); Annamaria Campanini (Milano Bicocca); Gianpaolo Catelli (Catania); Bernardo Cattarinussi (Udine); Roberto Cipriani (Roma III); Ivo Colozzi, Stefano Martelli (Bologna); Celestino Colucci (Pavia); Raffele De Giorgi (Lecce); Paola Di Nicola (Verona); Roberto De Vita (Siena); Maurizio Esposito (Cassino); Antonio Fadda (Sassari); Pietro Fantozzi (Cosenza); Maria Caterina Federici (Perugia); Franco Garelli (Torino); Guido Giarelli (Catanzaro); Guido Gili (Campobasso); Antonio La Spina (Palermo); Clemente Lanzetti (Cattolica, Milano); Giuseppe Mastroeni (Messina); Rosanna Memoli (La Sapienza, Roma); Everardo Minardi (Teramo); Giuseppe Moro (Bari); Giacomo Mulè (Enna); Giorgio Osti (Trieste); Mauro Palumbo (Genova); Jacinta Paroni Rumi (Brescia); Antonio Scaglia (Trento); Silvio Scanagatta (Padova); Francesco Sidoti (L'Aquila); Bernardo Valli (Urbino); Francesco Vespasiano (Benevento); Angela Zanotti (Ferrara). Corrispondenti internazionali: Coordinatore: Antonio Maturo (Università di Bologna) Roland J.Campiche (Università di Losanna, Svizzera); Jorge Gonzales (Università di Colima, Messico); Douglas A.Harper (Duquesne University, Pittsburgh, USA); Juergen Kaube (Accademia Brandeburghese delle Scienze, Berlino, Germania); Andrè Kieserling (Università di Bielefeld, Germania); Michael King (University of Reading, Regno Unito); Donald N.Levine (Università di Chicago, USA); Christine Castelain Meunier (Casa delle Scienze Umane, Parigi, Francia);

Maria Cecilia de Souza Minayo (Escola Nacional de Saúde Pública, Rio de Janeiro, Brasile); Everardo Duarte Nunes (Universidade Estadual de Campinas, Sào Paulo, Brasile); Furio Radin (Università di Zagabria, Croazia); Joseph Wu (Università di Taiwan, Taipei, Taiwan). Coordinamento Editoriale delle Sezioni: Veronica Agnoletti Ogni sezione della Collana nel suo complesso prevede per ciascun testo la valutazione anticipata di due referee anonimi, esperti nel campo tematico affrontato dal volume. Sezione Teoria, Epistemologia, Metodo (attiva dal 1992). Responsabile Editoriale: Alberto Ardissone. Comitato editoriale: Agnese Accorsi; Gianmarco Cifaldi; Francesca Cremonini; Davide Galesi; Ivo Germano; Maura Gobbi; Francesca Guarino; Silvia Lollijr.; Alessia Manca; Emmanuele Morandi; Alessandra Rota; Anna Desimio (FrancoAngeli). Sezione Ricerca empirica ed Intervento sociale (attiva dal 1992). Responsabile Editoriale: Alice Ricchini. Comitato Editoriale: Flavio Amadori; Sara Capizzi; Teresa Carbone; David Donfrancesco; Laura Farneti; Carlo Antonio Gobbato; Ilaria Iseppato; Lorella Molteni; Paolo Polettini; Elisa Porcu; Francesca Rossetti; Alessandra Sannella; Francesca Graziina (FrancoAngeli). Sezione Manualistica, Didattica, Divulgazione (attiva dal 1995). Responsabile Editoriale: Linda Lombi. Comitato Editoriale: Alessia Bertolazzi; Barbara Calderone; Paola Canestrini; Raffaella Cavallo; Laura Gemini; Silvia Lolli sr.; Ilaria Milandri; Annamaria Perino; Fabio Piccoli; Anna Buccinotti (FrancoAngeli). Sezione Sociologia e Storia (attiva dal 2008). Coordinatore Scientifico: Carlo Prandi (Fondazione Kessler - Istituto Trentino di Cultura) Consiglio Scientifico: Nico Bortoletto (Università di Teramo); Alessandro Bosi (Parma); Camillo Brezzi (Arezzo); Luciano Cavalli, Pietro De Marco, Paolo Vanni (Firenze); Sergio Onger, Alessandro Porro (Brescia); Adriano Prosperi (Scuola Normale Superiore di Pisa); Renata Salvarani (Cattolica, Milano); Paul-André Turcotte (Institut Catholique de Paris). Responsabile Editoriale: Alessandro Fabbri. Comitato Editoriale: Barbara Arcari; Barbara Baccarini; Roberta Benedusi; Elena Bittasi; Pia Dusi; Nicoletta lannino; Vittorio Nichilo; Ronald Salzer; Anna Scansani; Stefano Siliberti; Paola Sposetti; Claudia Camerini (FrancoAngeli). Sezione Diritto, Sicurezza e processi di vittimizzazione (attiva dal 2011). Coordinamento Scientifico: Carlo Permisi (Catania); Franco Prina (Torino); Annamaria Rufino (Napoli); Francesco Sidoti (L'Aquila). Consiglio Scientifico: Bruno Bertelli (Trento); Teresa Consoli (Catania); Maurizio Esposito (Cassino); Armando Saponaro (Bari); Chiara Scivoletto (Parma). Responsabili Editoriali: Andrea Antonilli e Susanna Vezzadini. Comitato Editoriale: Flavio Amadori; Christian Arnoldi; Rose Marie Callà; Gian Marco Cifaldi; Maria Teresa Gammone;

Giulia Stagi; Barbara Ciotola (FrancoAngeli). Lorella Molteni

Sul genere e sulla droga: una premessa 1. Fuori dall'ombra. I fondamenti teorici e metodologici dell'indagine 1. Introduzione 2. L'approccio correlazionale e il ciclo della droga 3. Il posto del genere 3.1 Femminile e maschile: tra vecchi stereotipi... 3.2 ... e nuove realtà 4. Un'indagine "corale": materiali e metodi 2. Esplorazioni. La socializzazione alle droghe 1. Le premesse 2. Le prime sperimentazioni 2.1 Affinità e affiliazione al gruppo 2.2 Motivazioni e traiettorie di consumo 3. L'iniziazione all'eroina 3.1 Un incontro "soft" 3.2 Il consumo "hard" 3.3 Il buco "evitato" 3. Incanto e disincanto 1. La luna di miele 2. Scoprirsi tossicodipendenti 4. Vivere la dipendenza 1. Le strategie di "hustling" 1.1 Patchwork

1.2 La vendita di droga 1.3 La vendita del proprio corpo 2. Quotidianità e reti sociali 2.1 Le relazioni sociali: tra rischio e routine 2.2 Le relazioni intime: amore e contingenze 5. Identità sociale, stigma e maternità 1. Dipendenza e sé specchio 2. Stigma e doppio stigma 3. Maternità e tossicodipendenza: un ossimoro 3.1 L'attesa di un figlio 3.2 Essere madre 3.2.1 "Un legame che c'è" 3.12 "Un legame che non c'è" 4. Maternità, stigma e il difficile rapporto con i servizi 6. La carriera terapeutica 1. Affrontare il cambiamento 2. Le motivazioni al trattamento 3. Le esperienze di trattamento 3.1 Il Sert e le ambivalenze del farmaco 3.2 La comunità terapeutica 4. Once ajunkie, always ajunkie. Il senso delle recidive 5. Le resistenze oggettive e soggettive al cambiamento Conclusioni Materiali e metodi

Il percorso metodologico: approfondimenti 1La pianificazione delle interviste alle tossicodipendenti La situazione di intervista Analisi e trattamento del testo parlato Validità e attendibilità Alcune riflessioni sulla relazione biografica» Dal caso alla teoria: ulteriori riflessioni etiche Narrazioni. Gli attori dell'indagine Un breve profilo biografico delle intervistate I key informant I professionisti socio-sanitari» Integrazioni. Gli strumenti quantitativi La revisione degli studi di genere L'analisi sull'utenza in trattamento presso il Sert di Trento Riferimenti bibliografici

Accostarsi allo studio di un fenomeno come questo, il consumo di droghe e la tossicodipendenza' nella popolazione femminile, non è certamente un compito facile. Storicamente, infatti, tutte le discipline scientifiche - medicina, psicologia, sociologia, antropologia - hanno affrontato tale tematica in una prospettiva gender blind, sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista della ricerca empirica, con le conseguenti ripercussioni nell'ambito del trattamento socio-sanitario di tale target di popolazione. Come già negli anni Ottanta aveva modo di osservare Menapace, «le donne o le ragazze che si trovano coinvolte in faccende di droga per solito sfumano sullo sfondo, appaiono come immagini un po' sfocate, fanno parte di un fenomeno generale. Anche per la tossicodipendenza, il fatto che non si abbia cura di dipanare le appartenenze di sesso, impedisce di individuare degli specifici e di fatto opprime le donne, nel senso che le loro storie vengono appiattite, copiate, sommate a quelle dei ragazzi» [Aa. Vv. 1985: 196]. Tuttora, la ricerca e il trattamento delle dipendenze, soprattutto nel contesto nazionale, si caratterizza secondo un normotipo maschile che omologa uomini e donne senza analizzare i nessi che intercorrono tra identità di genere e tossicomania, senza considerare l'impatto che le costruzioni socioculturali della femminilità e della mascolinità e dei ruoli di genere possono avere sulla genesi e sull'evoluzione dei comportamenti drogastici nei percorsi di vita delle persone, con l'assunzione implicita che la conoscenza di come il fenomeno si estrinseca e si evolve nell'uomo possa essere generalizzata all'universo femminile senza necessità di distinzioni. L'inferiorità numerica delle donne che consumano droghe e si rivolgono ai servizi di cura può essere considerato uno dei motivi per cui la riflessione teorica e l'intervento clinico si sono limitati a studiare l'universo maschile: sebbene il divario di genere si stia progressivamente quanto lentamente - restringendo, la componente maschile continua tutt'oggi a godere di una netta supremazia numerica rispetto alla componente femminile, un gap che si verifica indistintamente in ogni parte del 2mondo. Come spesso accade, dunque, la maggioranza numerica (maschile) ha definito la rilevanza scientifica e l'approccio nel trattamento, caratterizzando le donne come soggetti tacitati, per parafrasare una considerazione espressa altrove da Ardener [2006], subordinate, o al più ricomprese, entro un modello interpretativo strutturato da e sull'uomo: il consumo di droga, interpretato ora come disagio, ora come devianza, ora come malattia propriamente maschile ha inciso sulla formulazione delle teorie che, elaborate sull'uno, sono state attribuite per estensione ad entrambi i sessi [Keane 2000; Ettorre 1994a]. Un'ulteriore motivazione della scarsità di riflessione in merito al consumo di sostanze in rosa,

direttamente correlata con il punto appena discusso, è rinvenuta da altri autori nella difficoltà a costruire campioni rappresentativi di numerosità sufficiente a poter effettuare generalizzazioni circa il consumo di droghe all'intera popolazione femminile [Llopis et al. 2002; Allen 2002]. Motivazione che, se può essere considerata valida e pertinente negli approcci che utilizzano metodologie di indagine di tipo quantitativo, volte all'individuazione di tendenze e alla generalizzazione empirica, si rileva al contempo assai debole se ci si riferisce ad indagini di tipo qualitativo, che approfondiscono i percorsi di consumo, le motivazioni all'uso e i significati personali senza pretese di generalizzabilità e con l'unico obiettivo di raggiungere una comprensione più adeguata del fenomeno, finalizzata a riorientare i servizi verso trattamenti progettati sui bisogni delle donne. Anche in questo ambito di indagine, però, la riflessione è assai scarsa. Taylor [1993: 1] suggerisce che, nella realtà, esiste un pregiudizio nell'approccio al problema che definisce le ragioni dell'assenza della tematizzazione del rapporto tra genere e uso di droghe: l'esperienza con le droghe delle donne è fondamentalmente la stessa degli uomini e dunque non ha senso studiarle come gruppi separati. Un simile pre-concetto affonda in parte le sue radici nella diffusione che hanno avuto gli approcci al consumo di droghe e alla tossicodipendenza centrati sull'individuo, di stampo medico psichiatrico. La lettura prevalente del fenomeno, che poi ha avuto una conseguenza diretta nello strutturare le risposte istituzionali al problema [Adrian 2003: 1386-1388], ha infatti privilegiato le spiegazioni centrate sui fattori genetici, fisiologici, neurochimici c/o psicopatologici sottostanti ad una predisposizione soggettiva che viene a palesarsi in condizioni di esposizione alla droga. In questo approccio, in cui la tossicodipendenza viene ad essere interpretata come una malattia (disease) con cause direttamente rinvenibili nella struttura psichica o nella struttura bio-fisio-neurologica, le differenze di genere non vengono assunte a - priori come fattori potenzialmente condizionanti le carriere tossicomaniche, ma al più possono essere riscontrare a - posteriori e sussunte all'interno della normale variabilità inter-individuale che si osserva per tutte le malattie3. Nella sua evoluzione bio-psico-sociale4, un modello di questo tipo arriva al limite a riconoscere il genere come fattore di rischio o di protezione nel favorire o sfavorire l'accesso alle droghe illegali, le modalità di consumo, gli stili ad essi connessi e l'evoluzione in forme di abuso e dipendenza, mentre una volta che la dipendenza si è instaurata riproduce le stesse dinamiche in uomini e donne5. Se ci si sposta entro i confini disciplinari della sociologia non si può che osservare un medesimo pregiudizio di fondo. Ad un livello generale, l'interpretazione del consumo di droghe e della dipendenza nelle teorie sociologiche si centra sul rapporto tra individuo e società, sul peso che i fattori sociali e culturali hanno sulle condotte individuali e, in particolare, sulla tematizzazione del consumo di droghe come atto deviante, almeno in alcuni indirizzi della sociologia classica. Nel complesso, come avviene per le altre discipline scientifiche, lo studio del fenomeno appare alquanto segmentato, opacizzato e frantumato «in mille piccole pietre

euristiche di assai difficile composizione» [Cipolla 2007a: 11] influenzate sia dai paradigmi teorici dominanti sia dalle necessità contingenti di dare spiegazione a specifici dati empirici [Shaw 2002: vii]. Dunque, le teorie elaborate in seno alla sociologia classica si sono interessate prevalentemente ad un livello di spiegazione del fenomeno macro e meso, guidate da una epistemologia di stampo olistico: la prospettiva dell'anomia, del conflitto, funzionalistica, del controllo sociale, della disorganizzazione sociale e della subcultura considerano il consumo di droghe come un comportamento individuale e deviante influenzato da, e influenzante, struttura sociale, contesto o gruppo. Più limitate sono state le teorie micro-sociologiche di stampo individualistico (si citano, ad esempio, la prospettiva delle carriere, della reazione sociale, della scelta razionale e dell'apprendimento sociale), maggiormente interessate alle dinamiche del consumo di droghe all'interno delle interazioni, delle reti sociali e dei contesti della vita quotidiana. A qualsiasi livello di analisi si collochino, in queste pietre euristiche il riferimento al sesso femminile è quasi assente, o laddove è presente viene mal interpretato, riproducendo sul versante scientifico il pensiero stereotipico presente nella società nel suo complesso. Come sottolinea Anderson [2008], la letteratura sul consumo di droghe è dominata da due immagini di donne che poco corrispondono alla realtà: da un lato le vittime, donne in condizioni di povertà e sfruttamento che non possono che vivere in contesti a rischio che ne determinano i comportamenti; dall'altro lato le viziose, donne disadattate socialmente che vengono dipinte come dei mostri che hanno superato i confini tra normalità e patologia6. Esiste in ambito scientifico un pregiudizio di natura epistemologica per cui gli studiosi sono portati a credere che il genere non possa costituire una categoria di analisi attraverso cui comprendere i fenomeni devianti, e un pregiudizio di natura socioculturale che associa alla donna che utilizza sostanze psicoattive le immagini della prostituta, della cattiva madre, dell'egoista incapace di prendersi cura di, poiché un comportamento di questo tipo le allontana dall'ideale di femminilità trasmesso culturalmente e dai ruoli di riproduzione sociale e di 7cura. Si esprime in questi termini Perry: «le tossicodipendenti sono viste tipicamente come patetiche, passive, psicologicamente e socialmente inade guate, isolate e incapaci di farsi carico delle responsabilità. Queste immagini derivano da una visione del ruolo principale della donna di responsabile centrale della sfera privata della vita - nei lavori domestici, nell'assistenza ai figli, nel supporto emotivo e nei servizi alla famiglia. La tossicodipendente da droghe illegali viene vista come colei che dapprima rifiuta di adempiere efficacemente a queste funzioni e successivamente ne è resa incapace, a causa di uno stile di vita che inizialmente è intenzionalmente perverso e in seguito irrimediabilmente patetico. La dipendenza femminile è una realtà - la dipendenza femminile dalle droghe è un effetto collaterale che deve essere reindirizzato verso forme più convenienti e controllate di dipendenza» [1979: 1, trad. mia]'. Per riprendere il filo del discorso sull'assenza della riflessione in materia, in virtù di tutte

queste considerazioni sembra essere più opportuno parlare di una mancanza di interesse di carattere epistemologico ed ontologico su come trattare il genere nell'ambito dello studio dei comportamenti drogartici e di una più generale tendenza ad ignorare problematiche che interessano da vicino il mondo femminile: tant'è che se consideriamo la dipendenza da farmaci psicoattivi9 o i disturbi del comportamento alimentare, ambiti in cui il rapporto di genere si inverte e vi è una netta superiorità numerica delle donne, la carenza della ricerca e della teorizzazione sociologica rimangono confermate. Una mancanza che si è riflessa irrimediabilmente nell'assenza di una base empirica a sostegno della riflessione teorica, sviluppatasi solo di recente con l'avvento della critica femminista, sebbene gli esempi in tale direzione si ritrovino esclusivamente nella letteratura e nella pratica di ricerca a livello internazionale. Dunque, come è avvenuto nell'ambito degli studi di genere riguardanti altre tematiche, come la sociologia del lavoro, delle organizzazioni o della famiglia, l'impulso alla riflessione sul consumo di sostanze al femminile e l'esigenza di sviluppare una prospettiva di studio gendersensitive sono nate all'interno del dibattito femminista negli anni Ottanta, nell'ambito della critica radicale ad un sistema sociale di tipo patriarcale e a modalità di pensiero e di ricerca genderblind, disegnate su domande, ipotesi e disegni di ricerca orientati dal pensiero maschile e su risultati falsati influenzati da una sorta di mascolinizzazione del profilo di tossicodipendente [Llopis, Rebollida 2002a]. Negli anni Ottanta si fanno strada i primi studi e le prime indagini sociologiche che collocano la teorizzazione del genere e la questione femminile al centro dell'attenzione: gli studi etnografici della Rosenbaum [1981] e, a seguire, di Taylor [1993] sulle consumatrici di eroina, di Inciardi et al. [1993] e di Sterk [1999] sulle consumatrici di crack, possono essere considerati i primi esempi di ricerche sociologiche totalmente centrate sull'analisi delle carriere di donne consumatrici di droghe illegali nel contesto statunitense e londinese, all'interno di una prospettiva che colloca il fenomeno entro la cornice delle costruzioni culturali e sociali della mascolinità e della femminilità. Si avrà modo nello sviluppo di questo lavoro di conoscere più da vicino le riflessioni provenienti da questi e altri lavori. Vale la pena, però, mettere in evidenza come in Italia (e in generale in molte parti dell'Europa) manchi totalmente una riflessione teorica orientata in questo senso, in qualsiasi disciplina la si voglia collocare: se si esclude l'eccezione della partecipazione italiana allo studio europeo svolto da Irefrea [Stocco et. al. 2000, 2002] su un campione di oltre 300 donne provenienti dai servizi per le dipendenze di 5 Stati europei, la tossicodipendenza e il consumo di droghe al femminile compaiono nelle riflessioni di autori italiani quasi esclusivamente all'interno della diade donna/maternità, come se la donna non esistesse in quanto persona con precisi bisogni ma esistesse in funzione del suo essere, realmente o potenzialmente, una madre, e come se il consumo di droga non fosse di per sé un elemento problematico o

sintomatico nella storia di vita di una donna, ma lo diventasse solo nel suo essere in-relazione con il figlio e in virtù della sua funzione riproduttivalo Ancora, l'altro aspetto del fenomeno che viene preso in debita considerazione riguarda le ripercussioni del comportamento tossicodipendente sugli altri [Henderson 1999]. Nella nostra cultura mediterranea i ruoli che vengono riconosciuti alla donna in modo ancora molto forte sono quelli che riguardano la relazione: la donna, sia in ambito professionale che familiare, viene assimilata al suo ruolo di cura degli altri (come allevatrice, come educatrice, come insegnante, come madre e moglie), dunque vi è una maggiore tendenza a patologizzare i comportamenti nonconformi, come quelli connessi al consumo di droghe, che mettono in discussione le capacità di gestione di queste relazioni. Nonostante già nel 1999 l'approfondimento di tale area di studio venisse proposto nella Relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze, nell'ultimo decennio la situazione sul piano scientifico è rimasta pressoché inalterata. Si legge in essa: «dal punto di vista clinico, la specificità della tossicodipendenza femminile rappresenta un tema ancora poco approfondito dal contesto della comunità scientifica italiana. Oltre a ciò, la tossicodipendenza femminile risulta poco studiata anche per quanto attiene l'aspetto più squisitamente sociale del fenomeno: le informazioni disponibili sono pressoché limitate alla conoscenza del rapporto numerico tra maschi e femmine utenti dei servizi che si occupano di questa popolazione. In relazione alla tossicodipendenza femminile, i rari studi recenti parlano dell'esistenza di particolari contesti e meccanismi psicologici connessi alla prima assunzione, offrono indicazioni sul grado di consapevolezza della donna circa la scelta compiuta, nonché sul tipo di risorse economiche utilizzate per acquistare la droga. A quanto pare, l'insieme di questi elementi concorre a caratterizzare significativamente il mondo della tossicodipendenza femminile» [Presidenza del Consiglio dei Ministri 1999: 141]. A queste considerazioni, che enfatizzano la necessità di aprire una riflessione a tutto tondo sull'universo femminile e sul suo legame con i comportamenti drogastici, si aggiungono ulteriori motivi che ne definiscono l'importanza, che possono essere sintetizzati nell'aumento numerico di donne che accedono al mondo delle droghe (e ai servizi di cura) e nel cambiamento generale degli stili di consumo che tocca indistintamente i due sessi, soprattutto nelle nuove generazioni. Infatti, nell'ultimo decennio si è verificato un aumento nel numero di donne che consumano sostanze psicoattive, di qualsiasi natura esse siano (legali e illegali); se ci si sposta poi ai contesti del loisir, la proporzione di donne che accede alle parties drugs, spesso in combinazione con altre sostanze psicoattive (come l'alcol) è ancora più consistente. Nulla che possa far presagire, almeno nel breve periodo, ad un allineamento dei consumi femminili a quelli maschili, ma che certo ci informa che qualcosa sta cambiando, sotto la spinta dei mutamenti più generali del mercato della droga, degli stili di consumo e dei significati ad esso associati" e dei ruoli di genere.

L'economia di questa introduzione non consente di approfondire oltre queste considerazioni, il cui valore implicito è stato quello di mostrare quanto ancora la riflessione sociologica debba lavorare nella direzione di approfondire il fenomeno del consumo di sostanze psicoattive in tutte le sue sfumature macro, meso e micro sociologiche, e soprattutto quanto ancora il fenomeno del consumo in rosa costituisca un ambito completamente inesplorato, ancorché ignorato o al più mal rappresentato. Il lavoro di ricerca che viene proposto in questa sede, e che sulla base di quanto detto finora risulta pioneristico per la sociologia italiana quanto per la riflessione scientifica di tutte le altre discipline interessate al fenomeno, si pone l'obiettivo principale di gettare le prime basi di questo percorso di conoscenza della tossicodipendenza e del consumo di droghe nel genere femminile, e l'obiettivo collaterale di stimolare una riflessione nuova e eri tica che possa essere spendibile per il ri-orientamento delle politiche e dei servizi per le dipendenze entro i confini nazionali. Quel poco che ci è dato di conoscere finora, infatti, proviene dagli studi che alcune donne hanno condotto in contesti profondamente differenti dal nostro a livello politico, socioassistenziale e culturale: pensiamo all'America, all'Inghilterra, alla Finlandia e all'Australia. Il valore di questi studi è indiscutibile, e costituirà tra l'altro la base di partenza di questo lavoro di ricerca; ma appare chiaro che all'assunzione a-critica di risultati ottenuti in tempi e luoghi diversi si debba sostituire un atteggiamento di curiosità scientifica che porti a mettere alla prova la loro generalizzabilità, verificandone l'applicabilità e le ricadute sull'organizzazione della rete assistenziale e sull'offerta di servizi. Spesso, infatti, le analisi che vengono presentate nella (scarsa) letteratura italiana disponibile si riferiscono ad "evidenze scientifiche" di carattere prevalentemente quantitativo e provenienti dalla letteratura internazionale, che non reggono alla prova con i dati disponibili a livello nazionale, riducendone in tal modo la portata euristica. La prospettiva adottata, fungendo da intersezione tra il filone degli studi di genere e il filone degli studi sul consumo di droghe, parte dal presupposto che il genere costituisce «una dimensione cruciale della vita personale, delle relazioni sociali e della cultura» [Connell 2006: 25] e come tale deve essere assunto criticamente nella riflessione sociologica come categoria di analisi, o meglio come concetto chiave (key concept). Come sostiene Lorber, il genere «costituisce il fondamento abituale dell'esperienza quotidiana, al punto che metterne in discussione assunti e presupposti è come chiedersi se anche domani sorgerà il sole. Il genere è così radicato nella nostra società che lo consideriamo impresso nel nostro codice genetico. Per molti è difficile credere che il genere sia frutto di una costruzione sociale costantemente creata attraverso l'interazione tra gli individui, e che addirittura costituisca il tessuto e l'ordine della stessa vita sociale. Eppure, come la cultura, il genere è una produzione umana che dipende dalla creazione continua che ogni individuo ne fa» [1995: 35]. Il genere non costituisce, dunque, un destino biologico o un'identità ascritta posseduta dagli individui, ma rappresenta una costruzione sociale, un atto performativo [Zimmerman 1987]

definito nel tempo e nello spazio e continuamente realizzato e rinegoziato nell'interazione, nelle pratiche e nei discorsi della vita quotidiana: essere uomo o donna è il risultato del fare il genere (doing gender) nel suo essere e divenire che è sempre una costruzione, sebbene costretta entro un ordine di genere [Connell 2006; Lorber 1995] con cui la società modella il comportamento degli individui. Ma il punto fondamentale, ai nostri fini, è per il momento più di carattere metodologico che epistemologico. L'ovvietà e la pervasività del genere nella vita quotidiana fanno si che esso venga naturalizzato, dato per scontato; dunque l'analisi dei meccanismi che sottendono la costruzione sociale di genere richiede necessariamente la sua de-naturalizzazione e decostruzione, «l'eliminazione delle nostre aspettative sul comportamento delle donne e degli uomini» [Lorber 1995: 35]. De-costruire, disfare il genere [Butler 2006] nell'ambito dei comportamenti di consumo di droghe, nelle sue derive verso forme di dipendenza, significa interrogarsi sulle modalità con cui i cambiamenti che hanno attraversato le società moderne, nel ruolo e nella posizione della donna nella società come negli stili di consumo delle droghe, hanno agito nel rimodellare la pratica discorsiva della mascolinità e femminilità, ma soprattutto significa svelare i meccanismi che agiscono in modo latente e invisibile nel differenziare tra loro i corsi di vita di uomini e donne coinvolti con le droghe [Ettorre 2004]. È in quest'ultimo filone di riflessione che si colloca il cuore del lavoro che qui si presenta. Constatata la mancanza di riflessione nell'ambito specifico dei comportamenti consumistici e tossicomanici dell'universo femminile, e assumendo i mutamenti macro-sociali nella condizione del secondo sesso [de Beauvoir 2008] e nella globalizzazione dei consumi di droga, si ripercorreranno le biografie individuali di 54 donne in trattamento per dipendenza da eroina presso il Sert della Provincia Autonoma di Trento, per riportare alla luce le modalità con cui le singole esperienze riflettono gli ideali di femminilità, per verificare come questi ideali vengono ri-costruiti e ri-definiti nelle interazioni sociali e per recuperare il senso che l'esperienza drogastica ha nella vita di queste donne; parafrasando Ferrarotti, il tentativo è quello di leggere la donna attraverso la sua esperienza poiché «se ogni individuo rappresenta la riappropriazione singolare dell'universale sociale e storico che lo circonda, possiamo conoscere il sociale partendo dalla specificità irriducibile di una prassi individuale» [1981: 43]. La centralità assegnata in questa sede all'analisi delle storie di vita, nel suo obiettivo comprendente, è indiscutibile. Tuttavia, in coerenza con i recenti sviluppi della riflessione sociologica - in generale e nell'ambito particolare della sociologia della salute - che cercano di risolvere l'originaria contrapposizione paradigmatica intra-disciplinare tra teorie micro centrate sull'azione e teorie macro centrate sulla struttura e tra i diversi - ismi che la percorrono tuttora (soggettivismo vs. oggettivismo, individualismo vs. olismo, costruttivismo vs. realismo), in questa sede si farà esplicito riferimento ad un approccio correlazionale, «una sorta di metaapproccio in grado di muoversi con più gambe e teste a seconda dei contesti e delle contingenze

e senza scordarsi mai che tutto si tiene e che la connessione è la vita, al di là di ogni specifico frame o di ogni "modello latente" o di ogni "struttura che connette"» [Cipolla 2002b: 19]. Tali presupposti, ontologici ed epistemologici, hanno suggerito l'adozione di un atteggiamento scientifico plurale sul piano metodologico, costruito su diversi «apporti metodologici, che cerca continuamente di ricomporre, di combinare, di integrare fra di loro, per parti e per prove ed er rori, al fine di una verità più piena ed attendibile» [Cipolla 1997: 575]: la ricostruzione delle storie di vita viene, dunque, sapientemente integrata con diversi strumenti di indagine, intrusivi e non intrusivi, quantitativi e qualitativi, che nel loro ruolo solo in apparenza ancillare contribuiscono a delineare in modo più completo la fisionomia del fenomeno.

1. Introduzione «Il vissuto della tossicodipendenza al femminile è riferibile a giovani donne che si avvicinano alla droga in età pre-adolescenziale, coinvolte da partner già tossicodipendenti, prive di una piena coscienza (anche in considerazione della giovane età) del potere psicologico (oltre che fisico) della sostanza. La prima assunzione, consumata proprio in compagnia del partner e, prevalentemente, nell'intimità di un'automobile, ha probabilmente un preciso valore rituale ed è funzionale allo stare insieme in un "viaggio a due". Queste ragazze appaiono chiaramente indifese, oltre che per la giovane età, anche per la frequente presenza di un disagio familiare: lontano (intenzionalmente o meno) dall'affettuoso controllo di una famiglia-guida, sembrano ingenuamente trovare un sostegno psicologico ed un punto di riferimento importante nella figura del partner. Una volta inserite "nel giro", la loro esperienza di tossicodipendenza evolve in modo diverso secondo i mezzi economici a disposizione. Chi può contare su risorse economiche personali riesce a vivere nella legalità; chi ne è priva sperimenta molto spesso la drammatica esperienza della prostituzione, vivendo quindi la propria storia di tossicodipendenza in modo ancora più pericoloso e traumatico. Soffermandosi a considerare il ruolo giocato dal soggetto nella determinazione dei propri comportamenti, si nota il verificarsi di una forma di tossicodipendenza spesso vissuta con ingenuità ed inconsapevolezza, più da "spettatrici di se stesse" che da "protagoniste", più per una sfortunata serie di circostanze (cattive compagnie commiste ad una situazione familiare difficile) che per una precisa volontà personale. La figura femminile si propone come "ombra" di quella maschile. Ad un vissuto di tossicodipendenza particolarmente drammatico da un punto di vista psicologico si accompagna un'idea di donna come soggetto "doppiamente emarginato": perché donna e perché tossicodipendente. Infine, poiché la primaria modalità di reperimento della sostanza è rappresentata dalla prostituzione, si è indotti a pensare alla tossicodipendenza femminile come ad una condizione non troppo esposta alla punibilità (e quindi più "tranquilla" rispetto a quella maschile), talvolta senza riflettere in modo sufficiente sulle drammatiche situazioni di sfruttamento a ciò connesse». Il ritratto della donna tossicodipendente che viene tratteggiato in questa (tendenziosa) ricostruzione, presentata nella relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze del 1999 [Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipar timento per gli Affari sociali: 141], di un saggio di Laura Vanni' è molto forte: ragazze indifese, incoscienti e senza volontà che, senza sapere quello che fanno e a cosa vanno incontro, si lasciano trasportare dal partner in un'esperienza che progressivamente le vede sempre meno attrici della propria vita e sempre più spettatrici, addirittura delle ombre della figura maschile. Ma è proprio così? Come si avrà modo di vedere nel proseguo, la letteratura internazionale è concorde nell'affermare che tra le donne con problemi di dipendenza da sostanze illegali le forme di

disagio sembrano essere più pesanti, anche in virtù della loro correlazione con una storia di violenze fisiche, psicologiche e sessuali e per la compresenza di altri disturbi di carattere psicopatologico (precedenti e concomitanti la dipendenza), spesso unite all'assenza di reti sociali e familiari di sostegno. Ed è proprio questo carattere di maggiore problematicità, nel suo legame o meno con la questione della maternità e del ruolo di cura, che ha portato il mondo scientifico ad affermare l'autonomia e la specificità del tema della dipendenza femminile e a proclamare la necessità di una ricerca e di una rete di servizi gender oriented, entrambi attenti ai bisogni particolari che questo target di popolazione manifesta. altrettanto chiaro, però, che l'equiparazione di questo vissuto particolarmente difficile e problematico all'ipotetica mancanza di intenzionalità della tossicodipendente è un'operazione alquanto impropria, che sembra riflettere più un giudizio aprioristico di chi legge e interpreta il fenomeno dall'esterno che un'analisi attenta del senso che l'esperienza drogastica ha avuto nei percorsi di vita di queste donne. Come si è anticipato, queste immagini stereotipiche sono fortemente radicate in una cultura popolare che identifica l'essere donna con il ruolo materno e la cura della famiglia e dei figli; ma questa radice è comune, secondo la critica femminista, anche alla cultura accademico-scientifica, che ha dipinto queste donne - appunto - come persone senza volontà, ora vittime ora "carnefici" [Anderson 2008], ora angeli ora demoni [Ferraro 2006], promiscue e prostitute, incapaci di provvedere a se stesse e agli altri, cattive madri ed egoiste [Perry 1979]. Se, da un punto di vista macro-sociale, le ipotesi che possono essere avanzate circa l'inferiorità numerica delle donne nell'ambito del consumo di droghe illegali possono ricondursi alla funzione protettiva delle norme e delle aspettative legate all'ideale sociale di femminilità, una tale constatazione non può certo avere come logica conseguenza che quel campione ridotto di donne che esperisce il consumo di droghe c/o che assume condotte devianti contravvenendo agli stereotipi culturali della femminilità rappresenti necessariamente un difetto o una disfunzione, in modelli che si rifanno più o meno esplicitamente a spiegazioni deterministiche e che escludono ogni tipo di intenzionalità e di razionalità dell'agire sociale. L'invito a rivalutare criticamente tali «narrazioni patologiche e impotenti» [Anderson 2008], che si coglie in questa sede, non può che assumere un paradigma teorico che contempli la comprensione dell'esperienza personale delle donne che hanno vissuto la tossicodipendenza, dal loro punto di vista e nel loro sistema di relazioni, al fine di cogliere il senso delle loro scelte e le «province di significato» [Shutz 1979] che costruiscono la loro realtà sociale. Un tale approccio, nell'analisi delle interazioni quotidiane e dei mondi della vita degli attori coinvolti, esamina proprio le relazioni che favoriscono l'instaurarsi di comportamenti d'uso da parte degli individui e guarda alla situazione dal punto di vista degli individui che la compiono e delle loro azioni. La questione che qui si pone, dunque, non è tanto l'individuazione delle forze sociali che esortano l'individuo a commettere atti devianti rispetto ad atti non devianti, bensì l'analisi dei processi tramite cui gli individui arrivano a compiere queste azioni che riconoscono come devianti: dal pensiero per cause ed effetti al pensiero per contingenze che si producono per combinazione di

eventi [Becker 2007: 48]. In coerenza con queste considerazioni, dunque, il cuore dell'indagine che qui si presenta è la ricostruzione delle storie di vita di 54 donne eroinomani in trattamento presso il Sert della Provincia Autonoma di Trento, del percorso motivazionale che le ha portate ad assumere droghe fino ad arrivare all'eroina, del percorso di conferma della propria condizione e della nuova identità di tossicodipendente e dei percorsi di affrancamento dalla sostanza: è proprio partendo dal punto di vista delle donne per le quali l'uso di droga ha rappresentato una rottura dell'ordinario diventata poi quotidiana con l'instaurarsi della dipendenza che si può giungere alla costruzione di immagini scientifiche più realistiche (ovvero più aderenti al «mondo della vita» [Husserl 1961] delle attrici coinvolte), alla de-costruzione di narrazioni stereotipate del tipo più sopra descritto e al recupero della dimensione processuale della tossicodipendenza. Tuttavia, il radicalismo delle impostazioni micro-sociologiche di matrice costruttivista viene ridimensionato entro l'epistemologia «ricompositiva» [Baraldi 1998: 154] e «tollerante» [Cipolla 1997] offerta dall'approccio correlazionale, nelle diverse declinazioni teoriche e metodologiche che si descrivono di seguito. 2. L'approccio correlazionale e il ciclo della droga Nelle breve ricostruzione introduttiva circa le pietre euristiche sociologiche nell'ambito della tossicodipendenza e della devianza, si è avuto modo di evidenziare come esse possano essere ricondotte a livello paradigmatico ai due grandi approcci conoscitivi che hanno percorso la disciplina fin dalle sue origini, sottendendo dunque una visione olistica ovvero individualistica dei fenomeni sociali. Le opposizioni tra l'individualismo metodologico e l'illuminismo sociosistemico, spiega Ardigò, hanno «divaricato a tal punto tra loro le tematiche dell'azione sociale intenzionale dei singoli e dei processi collettivi macro-sistemici, da produrre una non congruenza, una netta dicotomia, tra individuo e società, almeno nei contesti sociali più avanzati» [1988: 29]. Solo recentemente la riflessione sociologica ha tentato di superare l'antinomia gnoseologica di queste due polarità antitetiche in approcci ed epistemologie in cui struttura e azione si influenzano reciprocamente, in cui l'individuo viene concepito al tempo stesso come costituente la struttura e costituito dalla struttura, e in cui le strutture esistono nella misura in cui gli individui le internalizzano e le rendono vive. Il paradigma correlazionale, qui assunto come riferimento teorico, trae ispirazione da questi suggerimenti, elaborati da Ardigò [1997] nell'ambito della sociologia della salute, rivisti e ampliati da Cipolla [1997, 1998, 2000, 2002b, 2004a, 2004b, 2005], di scomporre e ricomporre elementi speculativi dei precedenti paradigmi «per trarne poi risultanze innovative, meno unilaterali e maggiormente "co-analitiche"» [Bertolazzi 2004: 85], integrando sapientemente comprensione e spiegazione, micro e macro, qualitativo e quantitativo in una «terza via», di mediazione «tra il collettivismo autoritario e il solipsismo autoritario» [Cipolla 2007b: 204]. Si tratta, in definitiva, di una prospettiva di carattere multidimensionale, interdisciplinare e

pluralista che considera e abbraccia diversi livelli analitici, coordinandoli e facendoli interagire tra loro, nel tentativo di «abbattere confini, astrazioni, ontologie, unilateralità monoparadigmatiche» [Cipolla 1997: 574] e nel riconoscimento «del molteplice, della variabilità, del mutamento, della multidimensionalità nel proprio universo di rilevanza» [ibidem: 36]. Senza entrare nel dettaglio dei fondamenti gnoseologici di tale paradigma, per il quale si rimanda agli appositi testi, si sottolinea in questa sede che l'approccio correlazionale, originariamente elaborato in seno alla sociologia della salute, di recente è stato esteso all'analisi dei fenomeni drogastici [Cipolla 2007a, 2007b, 2008a] ed ha come fondamento epistemologico il riconoscimento dell'interazione dinamica tra sociale ed individuale e della bi-univocità delle interazioni tra i diversi livelli di analisi presupposti, che «rende logicamente autonomo il sociale dall'individuale e questo da quello, anche se sempre e comunque in modo relativo, sottoposto a molteplici condizioni» rigettando pertanto «ogni ipotesi di espulsioni di auto da inter o del sistema dal soggetto, allo stesso modo secondo cui rifiuta ogni completa riducibilità dell'uno all'altro dei concetti e delle realtà in gioco» [Cipolla 2007b: 204]. Si veda, a tal proposito, lo schema rappresentato in fig. I. Fig. 1 - Un approccio co-relazionale per la ricerca sul consumo di sostanze psicoattive

Fonte: Cipolla [2007b: 205] La relazione tra il soggetto e la sostanza psicoattiva rappresenta il cuore dell'analisi, in un legame bi-univoco e circolare nel quale il consumatore attribuisce senso e significato al suo rapporto con la sostanza e ai suoi comportamenti di consumo e la sostanza psicoattiva agisce

sulla sfera psicofisica del soggetto sulla base dei suoi effetti farmacologici - pur sempre mediati dalla percezione che l'individuo ne ha; la droga, infatti, rappresenta una forma di «mediazione simbolica col mondo, che attualizza una relazione estremamente complessa tra il soggetto e il suo mondo vitale» [Donati 1990: 119] e che si costituisce delle relazioni ed interazioni sociali che ego intrattiene con i vari alter nei diversi contesti della vita quotidiana. Lo studio del mondo della vita e delle interazioni sociali entro cui si costruisce la realtà risulta, dunque, fondamentale per comprendere l'origine dei significati sociali, nella misura in cui il soggetto esperisce il reale sulla base della propria coscienza individuale e al tempo stesso acquisisce le proprie categorie interpretative nel mondo della vita: quest'ultimo «è dato dalla nostra esperienza e dalla nostra interpretazione. Ogni interpretazione di tale mondo è basata su un insieme di previe esperienze di esso, sulle nostre esperienze, e su quelle che abbiamo ereditato dai nostri genitori e dai nostri insegnanti, le quali nella forma di "conoscenza a disposizione" funzionano come "schema di riferimento"» [Schutz 1979: 182]. Riprendendo Blumer [2006], gli uomini agiscono nei confronti delle cose in base ai significati che queste cose hanno per essi (processo di donazione di significato), che a loro volta nascono dai modi in cui le altre persone agiscono verso la persona riguardo alla cosa (processo sociale) e che vengono utilizzati dall'attore attraverso un processo di interpretazione. Ogni individuo, dunque, interpreta tutti i fattori che sono nella situazione, gli conferisce dei significati e sceglie un corso di azione riguardo ad essi. In tale ottica relativistica, che valorizza il cosiddetto teorema di Thomas secondo cui se gli uomini definiscono reali le situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze3, i comportamenti criminali o devianti costituiscono una delle tante realtà sociali che possono essere costruite in questi processi di definizione e di interazione, e la loro comprensione può e deve partire dallo studio dell'universo di senso comune che sottende la vita quotidiana per mostrare come le situazioni sociali siano vissute dai soggetti e chiarire come si evolvano i processi di naturalizzazione della realtà, che mettono tra parentesi il dubbio che le cose possano stare altrimenti da come appaiono e che de-problematizzano l'esperienza nelle pratiche di routinizzazione [Jedlowsky, n.d.]. Ancora, il mondo della vita influisce su ed è influenzato da il contesto sociale e strutturale inteso in senso più ampio, che fornisce in un certo senso ulteriori definizioni della situazione, orientamenti di valore, norme e istituzioni che vanno ad interagire dinamicamente con gli altri livelli sovra e inter-individuali4. Non ci si può esimere, infatti, dal considerare che «è la società, quella società in quel tempo e in quel luogo, che decide cosa è droga» [Cipolla 2007a: 13, corsivo dell'autore]; la definizione politica e normativa delle sostanze che possono o meno essere assunte nella legalità, infatti, non dà origine solamente a sanzioni per i comportamenti che deviano dalle norme ma anche ad immagini simboliche che si associano all'una o all'altra sostanza [Lombi 2008: 147].

La società definisce, inoltre, come deve essere intesa la dipendenza da sostanze e come debbano essere considerati il consumatore e il tossicodipendente, definizioni anche queste che si collocano nell'ambito societario e che vengono comunque interiorizzate a livello individuale. La rappresentazione sociale del tossicodipendente si è notevolmente modificata nel corso dei secoli, ma a grandi linee è possibile identificare due modelli conviventi nel tempo che hanno costituito una radice comune alle rappresentazioni che si sono storicamente susseguite e hanno contribuito a delineare i contorni del sistema di prevenzione, controllo e riabilitazione, ovvero il modello del vizio e quello della malattia. Rimandando a Turchi e Fenini [2002] per approfondimenti, è sufficiente in questa sede ricordare che mentre il primo modello accentua l'immoralità del comportamento drogastico e interpreta il trasgressore di tale norma come un vizioso e come un soggetto moralmente corrotto che antepone il piacere personale alla conformità sociale, il modello della malattia - oggi dominante - identifica, al contrario, la tossicodipendenza come una patologia e il tossicodipendente come un malato che necessita di cure'. Ma cosa significa, concretamente, fare ricerca sulle droghe assumendo come elemento centrale dell'analisi il rapporto tra sostanza e soggetto nelle sue interrelazioni con il mondo della vita e il contesto sociale globalizzato? Il suggerimento di Cipolla è rappresentato nello schema in fig. 2, che propone un ipotetico percorso (o ciclo) del consumatore nel suo rapporto con le sue droghe: droga della ciclo Il - 2 Fig.

Fonte: Cipolla [2007b: 205] In questo schema si possono agevolmente rinvenire gli spunti di riflessione offerti dalla prospettiva delle carriere, delineata in origine da Becker nel suo studio sui consumatori di marijuana [1987] e successivamente applicata all'analisi del consumo di altre droghe (per l'eroina, si vedano Stephens [1991], Faupel [1991], Rosenbaum [1981] e Taylor [1993]). Il tentativo esplicito di tale prospettiva è di recuperare la dimensione dinamica della relazione che

il soggetto instaura con la droga (o le droghe), mettendo in evidenza gli elementi evolutivi e processuali del suo percorso di consumo. La prospettiva delle carriere, rifacendosi alle acquisizioni teoriche di Sutherland sulla criminalità dei colletti bianchi [1987], sostiene che i comportamenti devianti vengono appresi con meccanismi simili a quelli sottesi ad altri comportamenti e in processi di comunicazione con altre persone, soprattutto di gruppi ristretti nei quali i membri intrattengono relazioni personali significative; la formazione al comportamento deviante comprende l'insegnamento delle tecniche di attuazione dell'infrazione, l'orientamento delle motivazioni, delle tendenze impulsive, delle modalità di pensiero e degli atteggiamenti, queste ultime funzione dell'interpretazione favorevole o sfavorevole nei confronti delle disposizioni legali che circondano l'individuo. Riprendendo la concettualizzazione di Faupel [1991], la carriera tossicomanica, al pari di quella occupazionale, viene ad essere interpretata a livello sociologico come una serie complessa di attività e ruoli investiti di significato attorno ai quali il soggetto organizza alcuni aspetti della propria vitati: attività e ruoli che vengono svolti nel tempo, investiti di una intenzionalità soggettiva che li rende parte integrante della propria vita e che strutturano l'esperienza e l'identità soggettiva attorno ad essi. Nel ciclo della droga la dimensione temporale acquista una valenza fondamentale: la carriera del consumatore, infatti, segue un percorso evolutivo lungo un determinato arco temporale, che può essere più o meno lungo e che consiste in diversi step, sebbene si possa interrompere prima o dopo per varie ragioni e possa consistere in alternanze di progressioni e regressioni. Il percorso tipico del tossicodipendente, nel suo principale riferimento all'eroina', viene così sintetizzato: una fase iniziale di sperimentazione dello stile di vita connesso all'assunzione di droghe, prima, e all'eroina, poi; uno stadio nel quale il contatto con lo stile di vita connesso all'uso di eroina diventa più regolare ed è motivato dal piacere derivato dagli effetti della sostanza; una fase in cui si stabilisce una dipendenza psichica, prima, e fisica, poi; una fase di uso recidivo, nel quale il soggetto cerca di uscire dalla condizione di dipendenza senza riuscirvi completamente per i ricordi degli effetti piacevoli che la sostanza concedeva nel primo periodo. Vi è da sottolineare che se questo è il percorso tipico di coloro che arrivano alla dipendenza dalla sostanza, non tutti coloro che sperimentano l'uso di droghe pervengono all'eroina, e non tutti coloro che provano eroina ne diventano dipendenti8: il ciclo della droga può, infatti, arrestarsi al primo accesso del soggetto, oppure proseguire con modalità diverse di fruizione che vengono poi abbandonate senza portare ad una condizione di dipendenza: l'ipotesi di una "naturalità" intrinseca a tale carriera non ha, dunque, alcun fondamento scientifico. Un modello sequenziale di questo tipo rifiuta quella sincronia presente in diversi approcci al fenomeno del consumo che interpretano «i vari fattori ritenuti causali agire contemporaneamente e far "precipitare" improvvisamente il comportamento non conforme» [Berzano, Prina 1995: 124]; l'analisi si sposta sui processi di acquisizione progressiva di una identità deviante, di

assimilazione delle motivazioni del gruppo con cui il soggetto si identifica, di apprendimento dei comportamenti ma anche delle ragioni che rendono giustificabile tale comportamento. Resta inteso che in ognuno di questi step l'individuo non interagisce soltanto con le sostanze, come si è avuto modo di evidenziare più sopra, ma riflette le influenze del contesto sociale e le relazioni nel proprio mondo della vita, per cui la ricostruzione biografica delle carriere implica l'analisi dei rituali, delle routine, delle relazioni stabilite nel gruppo dei pari e delle reazioni sociali dei nonconsumatori a questi comportamenti, così come la loro contestualizzazione entro tempi e spazi sociali dettati dalle caratteristiche politiche, giuridiche, economiche e socio-culturali dominanti. Inoltre, la dimensione evolutiva implicata nei diversi passaggi da uno step al successivo (o al precedente) non interessa solamente l'assunzione di determinati comportamenti devianti, più o meno correlati a quelli di consumo, ma coinvolge l'identità sociale stessa del consumatore o del dipendente, influendo sia sul concetto di sé (a livello intrapsichico), sia sulla rappresentazione di sé e dei ruoli assunti (a livello interpersonale), sia sulle relazioni sociali. Queste le premesse teoriche. È chiaro che nel nostro caso specifico la circoscrizione dell'analisi alle carriere delle eroinomani in trattamento presso Sert e comunità terapeutiche delinea già a monte un modello di analisi che prevede almeno l'arrivo al gradino dell'abuso o dipendenza da tale sostanza, più o meno convivente con l'assunzione, occasionale e non, e l'abuso di altre droghe: per alcune, l'astinenza è definitiva, segnando l'emancipazione da tale sostanza che non necessariamente implica l'abbandono delle droghe in sé; per altre, l'astinenza si alterna dinamicamente a fasi di ricaduta nell'uso; per altre ancora, l'eroina non è mai stata abbandonata definitivamente ma convive con l'assunzione della terapia metadonica in regime più o meno controllato. In ogni caso, nella lettura dei singoli percorsi biografici si presterà una particolare attenzione alle modalità con cui la carriera tossicomanica si interseca con le varie fasi della vita segnate dall'età, dall'adolescenza alla maturità, e con la carriera sociale definita dell'essere donna e scandita dalla maternità, dalla crescita dei figli, dal ruolo domestico e di cura insieme a quello lavorativo. E nella lettura trasversale dei percorsi di vita di donne di età variabile tra i 18 e i 55 anni, si cercherà di far emergere persistenze e mutamenti intergenerazionali nelle carriere drogastiche, ove il genere e la condizione della donna, assumono il valore esplicito di categoria euristica intepretativa. 3. Il posto del genere Assumere il genere come categoria euristica intepretativa non implica banalmente l'aggiunta di un ulteriore elemento di complessità all'analisi di un fenomeno già di per sé complesso qual è il consumo di droghe, né, tantomeno, significa circoscrivere l'indagine e gli interrogativi di ricerca ad un gruppo di persone accomunate dall'essere donna o dall'essere uomo, dall'avere lo stesso "sesso"; impone, al contrario, l'adozione di una chiave di lettura diversa per interpretare la realtà e i fenomeni sociali, di uno strumento conoscitivo capace di rendere conto delle differenze tra uomini e donne trascendendo al tempo stesso la stessa dicotomia maschio/femmina.

La categoria genere ha un significato che va oltre la semplice distinzione biologica tra i sessi9 (pur partendo da essa) e sottende qualcosa di più dei termini maschio e femmina in quanto identifica la costruzione sociale dei sessi nelle pratiche che definiscono maschilità e femminilità nelle loro relazioni e il carattere sessuato «delle identità, dei ruoli e delle relazioni socialmente costruiti, quindi non biologici ma culturali, incluse le credenze, le percezioni, le preferenze, gli atteggiamenti, i comportamenti e le attività svolte in generale» [Donati 1997: 25]. «Le identità sociali di genere appaiono [...] come un complesso mosaico di differenze modulate nelle più disparate occasioni della vita ordinaria, sostenute dal basso, nei piccoli rituali quotidiani con l'attiva partecipazione dei soggetti che le incarnano, oltre che imposte dall'alto della struttura sociale [...]. La nostra appartenenza ad una categoria sessuale, e le connotazioni di genere ad essa associate, non sono una maschera che possiamo indossare e abbandonare a piacimento, non sono un ruolo dal quale possiamo facilmente distanziarci, ma un'identità "incorporata" che continuamente realizziamo. Si tratta [...] di un "fare il genere" che fa sì che (un certo tipo di) maschilità o femminilità diventino per noi la nostra unica, irrinunciabile pelle» [Sassatelli 2006: 11]. Da un lato, dunque, il genere viene ridefinito e negoziato nelle pratiche quotidiane di interazione tra gli individui in un processo incessante di costruzione sociale, materiale e simbolico, tale per cui essere uomo o donna è il risultato di un fare il genere [Butler 2006; Zimmerman 1987]10; dall'altro lato, questa performatività del genere si colloca entro un ordine con cui la società cerca di modellare il comportamento degli individui". In linea con quanto sostiene Connell, dunque, il genere è al tempo stesso ri-costruito e ri-definito nella vita quotidiana ma entro i condizionamenti e i limiti definiti dalla struttura sociale poiché «non siamo liberi di mettere in pratica il genere in qualsiasi modo: nella realtà, la pratica di genere è fortemente vincolata [...]. Una struttura di relazioni non determina meccanicamente il modo in cui le persone o i gruppi si comporteranno» ma ne «condiziona la pratica. Questo non significa che ne sia la causa, né che possa esistere indipendentemente da quella. La struttura delle relazioni di genere non esiste al di fuori delle pratiche attraverso le quali gli individui e le collettività gestiscono quelle stesse relazioni. Le strutture non possono continuare a esistere, né tantomeno essere durature, se non vengono ricostruite in ogni istante nella prassi sociale [...]. Il genere è qualcosa che si fa nella vita sociale; non è qualcosa che esiste prima della vita sociale stessa, o al di fuori di essa» [2006: 107-108]. Assumere il genere come categoria di analisi dei fenomeni drogastici, dunque, significa riportare alla luce i modi spesso nascosti e imprevisti in cui il genere, nella sua dimensione processuale ed istituzionale, permea gli ambiti di vita dei consumatori di droghe, per raggiungere una conoscenza più approfondita delle dinamiche ad esso sottese [Ettorre 2007a: 21]. Come sostiene la Lorber, «le differenze tra donne e uomini appaiono talmente ovvie da farci pensare che il ruolo svolto dalla società in questo senso sia insignificante» [1995: 41], poichè «esso costituisce il fondamento abituale dell'esperienza quotidiana al punto che metterne in discussione

assunti e presupposti è come chiedersi se anche domani sorgerà il sole» [ivi: 35]. Come in qualsiasi attività della vita quotidiana, anche nell'ambito delle culture drogastiche il genere si esplicita in modo ambiguo in norme, aspettative, regole e relazioni che spesso non vengono riconosciute, nell'esperienza comune come nella ricerca, proprio per la loro datità, la loro ovvietà. I diversi contesti, occasioni e attività sociali, che includono o meno il consumo di droghe forniscono le risorse per costruire e ri-definire il genere: dunque, «il genere non influenza solo i modi con cui le persone fanno le droghe ma l'uso stesso di droghe può essere visto come un modo per fare il genere: le persone costruiscono la loro identità di genere, la loro mascolinità e femminilità, in modalità sia tradizionali che non-tradizionali, attraverso le loro sperimentazioni e le loro esperienze delle droghe e del contesto socioculturale in cui vengono consumate, e le attitudini e i comportamenti relativi ai consumi di donne e uomini all'interno di queste culture della droga» [Measham 2002, trad. mia]. Come evidenziano Haines et al. [2009], introdurre il genere come categoria analitica nello studio del consumo di droghe significa riconoscere l'impatto che le costruzioni sociali e culturali della mascolinità e della femminilità possono avere sui comportamenti di consumo di individui e gruppi. Dunque, in coerenza con l'impianto paradigmatico di ascensione connessionista delineato precedentemente e nella logica abduttiva che ne costituisce uno degli ideali regolativi, si precisano di seguito alcune dimensioni che orientano l'impostazione della ricerca sul campo, sotto forma di concetti sensibilizzanti [Blumer 2006]12 che, nel caso specifico, riguardano la condizione della donna e i mutamenti nel concetto di femminilità data la scelta iniziale di concentrarsi su una popolazione esclusivamente femminile13, pur nella loro relazionalità con la condizione maschile e la mascolinità. 3.1 Femminile e maschile: tra vecchi stereotipi... Le definizioni e gli ideali di come uomini, donne e bambini dovrebbero comportarsi sono figure organizzative basilari in ogni società; come nota Ruspini, «il genere è una potente variabile che permette [...] la costruzione sociale di un mondo ordinato nelle sfere della riproduzione e produzione sociale e che, dunque, è alla base della stessa capacità della società di sopravvivere» [2003: 52]. In particolare, nelle società occidentali di tipo patriarcale è dominante la filosofia che vuole la donna esercitare il ruolo di madre, di partner e in generale di cura della casa, dei figli e della famiglia, interpretate come attitudini naturali e continuamente ri-create nella costruzione della realtà quotidiana, nelle relazioni tra i sessi, attraverso i media, le politiche sociali, le risposte legislative e, soprattutto, le sanzioni sociali verso le donne che rifiutano attivamente i ruoli femminili [Wincup 1999 2000]. Nelle nostre società vige un presupposto dicotomico rispetto al sesso: si presume cioè che le persone siano - e debbano essere - o maschi o femmine sin dall'inizio e per tutto il tempo della loro vita, sulla base di criteri così detti "biologici" che definiscono l'ascrizione a due categorie sessuali distinte su cui convergono differenti rappresentazioni stereotipiche circa i

comportamenti che devono essere tenuti, le caratteristiche di personalità e le attitudini che si dovrebbero manifestare. Taurino afferma che tali stereotipi non costituiscono semplicemente delle semplici schematizzazioni cognitive della realtà sessuale, bensì prodotti di una precisa modalità di organizzazione dei rapporti e delle relazioni sociali tra uomini e donne [2005: 51]. Nella sua revisione delle rappresentazioni stereotipiche del maschile e del femminile, egli afferma che «le caratteristiche discriminanti i sessi vengono definite secondo una schematizzazione che nella definizione del maschile individua le caratteristiche di attività, assertività, ambizione, competenza, autodirezione, orientamento allo scopo, indipendenza, autonomia, decisione e, nella definizione del femminile, caratteristiche legate all'ambito interpersonale quali emotività, gentilezza, cordialità, sensibilità alle relazioni, bisogno di filiazione e nel contempo passività, remissività, dipendenza» [ibidem: 55]. Secondo l'autore, una simile polarizzazione sembra sottendere «due macrocategorie, tra loro antitetiche, di positività e negatività: in questa direzione, tutte le tipizzazioni positive risultano connesse al maschile, mentre il negativo è strettamente associato al femminile» [ivi] nella direzione della dominanza/potere dello stereotipo maschile vs. della subordinazione/sottomissione per quello femminile. Di fatto, fino ad almeno gli anni Settanta, nel contesto italiano la condizione della donna riproduceva e rinsaldava questa rappresentazione tradizionale della femminilità, nelle forme di strutturazione familiare come nell'esclusività del lavoro domestico e di cura: il matrimonio costituiva la naturale carriera delle donne, in un percorso quasi obbligato e a senso unico, l'educazione e la crescita dei figli come la cura della famiglia e del marito costituiva la professione elettiva mentre permaneva una decisa invisibilità sul versante pubblico. Doppi standard, doppia devianza, doppio stigma Gli stereotipi dominanti sull'espressione della femminilità, come l'assimilazione della donna al suo ruolo materno e di cura, hanno portato ad una costruzione sociale del consumo di sostanze psicoattive diversa per i sessi: considerando le norme che convergono sui comportamenti ritenuti socialmente appropriati in relazione alla femminilità e alla maschilità, le donne che le contravvengono sono viste come "doppiamente devianti" [Broom, Stevens 1991; Broom 1994; Malloch 2000; Boyd 1999, 2001, 2006; Hutter e Williams 1981] in quanto trasgrediscono non solo la legge e le convenzioni sociali che stabiliscono che il consumo di sostanze è illegale o moralmente sanzionabile, ma anche le aspettative sociali dell'essere donna. Non solo: «il consumo di droghe apre al sospetto della loro promiscuità sessuale o della prostituzione e della incompetenza come moglie e madre. La dipendenza da sostanze al maschile, al contrario, è più o meno accettata come un "fatto sociale", un eccesso legato alla maschilità [Malloch 2000]. Nelle donne, problemi di questo tipo sono visti come minacce profonde all'ordine sociale» [Broom, Stevens 1991: 26, trad. mia] e alla stabilità familiare [Ettorre, Klaukka, Riska 1994]. Una diversa considerazione opera, al contrario, nei confronti delle donne che assumono

psicofarmaci, per le quali il ricorso alle sostanze è accettato e quasi incoraggiato, data la finalità terapeutica di tale comportamento; in quanto atto controllato dalla medicina ufficiale, il consumo di psicofarmaci non viene percepito socialmente con lo stesso allarme ma viene considerato necessario al mantenimento dell'ordine familiare [Cooperstock 1971; Ettorre, Klaukka, Riska 1994; Ettorre e Riska 1995, 2001; Malloch 2000], anche in virtù del fatto che ribadisce l'immagine sociale della donna come soggetto passivo e dipendente [Ettorre, Klaukka, Riska 1994; Ettorre e Riska 1995, 2001]. In sostanza, nell'immaginario sociale non viene posta tanto l'attenzione ai rischi per la salute della donna derivanti dal consumo di qualsiasi sostanza psicoattiva, quanto i potenziali pericoli per alter (figli, famiglia, società civile) connessi a questi comportamenti; come evidenziano Broom e Stevens [1991], questo pre-giudizio popolare riposa sulla credenza che l'uso di qualsiasi sostanza da parte della donna si configura come un abuso (differentemente dagli uomini) e quindi viene immediatamente costruito come un problema sociale. Nelle analisi storiche della Campbell [2000], la questione dell'ordine sociale viene ulteriormente tematizzata intorno all'espressione governing mentalities: se, come sostiene Yuval Davies [1997], le donne riproducono la nazione biologicamente, culturalmente e simbolicamente, e ne preservano la moralità attraverso la trasmissione dei valori morali e spirituali alla base dell'ordine sociale [Ridlon 1988], l'uso di droga costituisce una minaccia alla preservazione della nazione poiché rappresenta una violazione della principale funzione sociale loro assegnata. Le reazioni sociali, e soprattutto politiche, sono andate dunque nella direzione di limitare la sfera della libertà della tossicodipendente 14, di colpire i suoi comportamenti rappresentandoli come un fallimento da esporre alla riprovazione morale pubblica e di etichettare la tossicodipendente come ostile e violenta, mettendola in tal modo in una posizione di particolare vulnerabilità sociale; nelle politiche e nelle rappresentazioni della tossicodipendenza maschile, al contrario, non compare alcun riferimento alle responsabilità familiari e al ruolo di padre. La Mountian [2005] propone un'analisi molto interessante dell'immaginario sociale costruito su - e che contestualmente costruisce - la donna, nel suo accostamento con il consumo di droghe. Nel riferirsi ad alcune dicotomie elaborate per la relazione adulto/bambino, ovvero innocenza vs. esperienza, dipendenza vs. autonomia, spontaneità vs. riflessione, la Mountian ritiene che esse sono traslabili nell'immaginario sociale delle aspettative verso le donne, in quanto dalle donne ci si aspetta che siano dipendenti, spontanee ed innocenti. Similmente, i discorsi sui consumatori di droghe evocano dal canto loro immagini di dipendenza, immaturità, debolezza morale e incapacità di controllare gli impulsi del piacere. Nel momento in cui la dipendenza incontra il genere, sostiene la Mountain, essa diventa problematica in quanto le donne sono socializzate alla dipendenza [Pohl, Boyd 1992]; dunque, queste immagini della femminilità nella realtà na scondono una ambiguità e delle contraddizioni di fondo in quanto se da un lato sono delle qualità che vengono attribuite all'essere femminile, dall'altro si scontrano con un'altra aspettativa sociale che converge sulle donne, che come madri e preservatrici della moralità devono essere in grado di mantenere il controllo, di sé e delle situazioni [Ettorre 1989]. A ciò si uniscono le immagini

della pazzia e della vulnerabilità, che tradizionalmente hanno rappresentato delle categorie "naturali" fortemente connesse ai regni sessuali e attribuite alla biologia femminile; la medicina ufficiale, infatti, nel suo riferirsi alla donna come guidata dall'istinto sessuale e dall'istinto materno, la riconduce nella sua essenza e nella sua naturalità alle categorie dell'insanità mentale, che per l'uomo al contrario viene al limite a costituire una conseguenza della devianza dai ruoli sociali precostituiti. Emotività, irrazionalità ed incapacità di far fronte alle responsabilità sociali, alla base dell'idea di pazzia, nell'immaginario sociale costituiscono al tempo stesso delle qualità naturali delle donne e delle attitudini che vengono trasmesse attraverso la socializzazione alla femminilità. Questi discorsi sono importanti per comprendere come si costruisce l'immaginario delle donne che usano droghe: la contravvenzione delle aspettative sociali che convergono sulla femminilità, operata dalla tossicodipendente, evoca una serie di associazioni che nella cultura popolare si riferiscono fondamentalmente ad altre forme di devianza femminile, di natura eminentemente sessuale, come la prostituzione e il lesbicismo [Campbell 2000; Valentini, Haller 1996]. La dipendenza da droghe viene considerata, nelle contraddizioni sopra evidenziate, incompatibile con i ruoli sociali della donna, quasi ascritti e naturali; dunque, la tossicodipendente viene considerata da un lato come potenzialmente asessuata in quanto non in grado di adempiere al ruolo naturale di madre e di provvedere ai bisogni del marito, dall'altro come una persona dalla sessualità promiscua, lussuriosa, che tiene comportamenti che non si addicono ad una ragazza perbene e che fallisce nel ruolo di preservatrice morale. Lo sguardo sociale verso le tossicodipendenti - culturalmente maschile - è pertanto eterosessualmente orientato: i confini sociali del lecito, per le donne, sono più chiari e definiti di quelli stabiliti per gli uomini, dunque la trasgressione, tollerata nell'uomo per la sua intrinseca naturalità, le rende più visibili agli occhi di alter. Si affiancano così due ulteriori immagini della donna che usa sostanze, evocate dal luogo entro cui si consuma il comportamento drogastico: da un lato, l'uso solitario e domestico, invisibile allo sguardo sociale, le fa apparire come vittime passive della droga e come dipendenti; dall'altro, la visibilità di tale comportamento consumato all'esterno delle pareti domestiche le fa apparire come impure, infette (il termine inglese usato dalla Ettorre è polluted [1992, 2004, 2007a, 2007b]), oltre che di facili costumi sessuali, come si è ricordato più sopra, e nonfemminili [Perry 1979]. Se è vero che la riprovazione dei comportamenti di consumo di certe droghe si rivolge ad entrambi i sessi, la demarcazione sociale tra la sfera pubblica e privata - con l'uomo tradizionalmente proiettato all'esterno dei confini domestici e la donna all'interno di essi - colloca le donne in una posizione di vulnerabilità sociale maggiore se scelgono di usare droghe, soprattutto se tale scelta viene manifestata in pubblico. Come nota la Keane [2000], dunque, è la disamina delle immagini e delle pratiche sociali delle donne che consumano sostanze in queste due sfere della vita sociale, pubblica e privata, che permette di comprendere in che modo l'abuso di sostanze sfida i tradizionali stereotipi e ruoli

collegati all'identità della "vera donna". Perry [1979] fa notare che la spacciatrice, la prostituta o la "tossica da strada", essendo visibili nella sfera pubblica, rappresentano una sfida e una negazione della femminilità, sono "non-donne" allo sguardo sociale; la prostituta, inoltre, è doppiamente inquinata poiché consuma droghe illegali sul mercato nero e produce un sesso illecito consumato dai clienti. Inoltre, l'uso di determinate droghe, come l'eroina, scatena l'associazione con la prostituzione e la negazione della femminilità indipendentemente dalla visibilità sociale di tale comportamento. Si noti, infine, che la riflessione sulle dinamiche di genere, come viene impostata dalla letteratura femminista, invita anche a considerare le donne come una categoria non-omogenea, attraversata al suo interno da standard di comportamento, da attese sociali e da una conseguente stigmatizzazione che variano in relazione a diverse altre variabili, in modo particolare l'origine etnica e la classe sociale di riferimento [Bisilliat 2001; Berger 2005; Campbell 2000; Ettorre 1992, 2004, 2007a, 2007b; Ferraro, Moe 2003; Malloch 2000]: sono soprattutto le donne di classi sociali disagiate c/o di razza non-bianca a subire maggiormente il pregiudizio e la stigmatizzazione, e a subire forme di regolazione sociale e legale dei loro diritti di madre. Doppio stigma e maternità Se, dunque, i "doppi standard" si riferiscono esplicitamente all'esistenza di aspettative sociali sul comportamento delle donne differenti rispetto agli uomini, in virtù dell'identificazione delle prime con il ruolo domestico e di cura, e se la "doppia devianza" scaturisce dalla rottura di tali aspettative sociali, il processo di stigmatizzazione che ne deriva ha conseguenze più gravi per le donne, sia da un punto di vista sociale che psicologico. Rispetto al primo punto, in letteratura viene evidenziato in modo particolare il pregiudizio sociale nei confronti delle donne in stato di gravidanza e delle madri: «per la maggior parte delle persone, l'immagine di una madre che ferisce di proposito il suo feto indifeso evoca delle reazioni e dei sentimenti estremamente negativi. Nelle società moderne l'uso di droghe illegali durante la gravidanza è comunemente definito come l'antitesi di un comportamento responsabile e di una buona salute. Le due condizioni, di donna gravida e di consumatrice di droghe, semplicemente non possono stare insieme» [Murphy e Rosenbaum 1999: 1, trad. mia]. Da un lato, infatti, il tossicodipendente viene concepito, nelle società occidentali, come egoista ed incapace di cure, irresponsabile, negligente ed aggressivo, incurante delle necessità di un figlio [Klee 1998]; inoltre, nonostante i profondi mutamenti sociali nella condizione della donna e nell'aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, la donna continua ad essere identificata primariamente con le sue responsabilità materne [Murphy e Rosenbaum 1995] e, come rileva Schur [1983], il comportamento delle donne durante la gravidanza continua ad essere soggetto a considerevoli regolazioni normative, in virtù del principio quasi sacro della preservazione della salute del nascituro. Dunque, le aspettative sociali nei confronti di una donna gravida presuppongono che faccia di tutto per preservare e proteggere il feto; la donna che, consumando droghe, mette

deliberatamente il feto in una posizione di pericolo fallisce nel suo ruolo riproduttivo, e viene dipinta quasi come «l'incarnazione di quanto c'è di più pauroso e diabolico nelle società occidentali» [Boyd 1999: 212, trad. mia]. La ricerca femminista, nella sua focalizzazione sul punto di vista e sull'esperienza delle donne, ha mostrato che esiste uno scarto considerevole tra la rappresentazione sociale della maternità comunemente diffusa e il vissuto delle donne che diventano madri". Ganon [1999] e Wright [2002] sottolineano che lo stereotipo diffuso considera la maternità come un evento naturalmente costitutivo la femminilità e la cura dei figli come parte dell'istinto materno (si legga, di qualcosa che è innato), dunque vede una donna "normale" essere felice e realizzata nell'adempimento di tale ruolo "ascritto"; la maternità "vissuta", se da un lato viene interpretata come un nucleo forte della propria femminilità investito di una certa emotività ed intensità, dall'altro lato è fortemente ambivalente, per i riflessi di tale esperienza sulla propria ricostruzione dell'identità personale e sociale. Le indagini realizzate sulle madri tossicodipendenti non presentano contraddizioni tanto dissimili; un primo elemento di diversità giace su quel pregiudizio sopra discusso, ovvero l'incapacità naturale della tossicodipendente ad assolvere il ruolo di madre [Banwell e Bammer 2006; Baker e Carson 1999; Boyd 1999, 2001, 2006; Friedman e Alicea 1995; Klee et al. 2002; Murphy e Rosenbaum 1999; Rosenbaum 1981; Taylor 1993] e sullo stigma da esso derivante, che alimentano nelle donne l'isolamento sociale e, soprattutto, la scarsa stima di sè, in quanto loro stesse si giudicano con quei criteri con cui percepiscono di essere Chiaramente, un discorso di questo tipo, come si avrà modo di evidenziare nel commento ai risultati dell'indagine, non esclude l'esistenza di reali situazioni di incapacità genitoriale, nel loro legame con relazioni di coppia costitutivamente basate sull'abuso di sostanze, con vissuti traumatici che impediscono l'assunzione di un ruolo materno e l'instaurazione di un legame affettivo con il figlio, con un'identità tossicomanica strutturata che rende difficile l'abbandono dell'uso di droghe e con situazioni di gravidanza e maternità indesiderate, aspetti su cui anche la letteratura italiana si è soffermata con particolare attenzione 17; invita, d'altro canto, a prendere in debita considerazione le conseguenze del processo di stigmatizzazione sull'identità di madre della donna e sulle sue possibilità di affrancamento dallo stile di vita precedente. Il piacere e la sua negazione Uno degli argomenti che, secondo Ettorre [1992, 1997, 2004], non ha ricevuto una sufficiente tematizzazione nell'indagine sull'uso di sostanze da parte delle donne è la funzione strettamente edonistica di tale comportamento. Certamente, l'uso di sostanze come strategia adattiva di fronteggiamento dello stress e di ricerca della relazione sociale è più consistente per le donne, ma nella riflessione sul tema costituisce la lettura prevalente, escludendo pertanto a-priori una componente che, nella realtà, è presente [Henderson 1993, 1999].

In generale, la riflessione sul piacere femminile è relativamente recente, in quanto nella visione dei ruoli tradizionale, più o meno influenzata da ideologie di natura religiosa, le donne erano escluse per motivi culturali e sociali dall'accesso al piacere. In merito, ad esempio, al piacere sessuale, nell'immaginario sociale vi era una polarizzazione tra la donna pura e la donna impura: la prima ancorata ai valori della verginità, della castità e della fedeltà, vista come asessuata dunque con una sessualità non-passionale, espressa unicamente con il marito e in virtù dello scopo procreativo; la seconda legata all'immagine della prostituta, dunque sessualmente disinibita, passionale, deviante rispetto allo stereotipo della femminilità: se «la reputazione sociale di una ragazza poggiava sulla sua "abilità" di contenere e selezionare le avance sessuali (la scelta dell-uomo giusto"), quella di un ragazzo sul numero di conquiste effettuate» [Ruspini 2003: 89]. Così, nella letteratura scientifica sul consumo di droghe permane la rappresentazione della donna come soggetto passivo [Ettorre 2004, 2007a, 2007b, 2008], come si è discusso più sopra, e non viene contemplata la possibilità che la donna possa assumere sostanze "anche" per ricercare degli effetti percepiti in qualche modo come piacevoli, dimensione che al contrario viene alla luce in tutti gli studi micro-sociologici presenti in letteratura [Faupel 1991; Henderson 1993, 1999; Rosenbaum 1981; Stephens 1991; Taylor 1993]. Secondo la Ettorre [2004], le ragioni della scarsa tematizzazione della dimensione del piacere riferita al consumo di alcune sostanze psicoattive, come l'eroina, sono diverse. Innanzitutto, l'uso di droga è generalmente percepito come un'attività troppo stigmatizzante per essere dichiarata come piacevole, dunque il riconoscimento di questo aspetto è confusivo e intollerabile. In secondo luogo, spesso il piacere è collegato al desiderio e questo legame evoca la nozione di sessualità ed eroticita: mentre l'esperienza dei consumatori di ecstasy nella cultura popolare tende ad essere sessualizzata, il piacere sessuale per i consumatori di eroina è circondato da nozioni moralistiche che lo sanzionano, se non addirittura lo proibiscono. In terzo luogo, la nozione del piacere è spesso collegata a ciò che un soggetto (consumatore di droghe o meno) esperisce nel tempo libero, ambito non considerato come una priorità nella ricerca sociale [Parker et al. 1998]; se lo fosse, condurrebbe i ricercatori a presupporre una modalità normalizzata di consumo di droghe [Parker 2005], accomodando l'idea che il consumatore di droghe abbia qualcosa in comune con il non consumatore, o che il tempo libero possa influenzare in qualche modo l'uso di droga. Gli studi sulla normalizzazione dell'uso di droga, effettuati in contesti ricreativi, hanno proprio mostrato come il piacere e la ricerca di sensazioni possa costituire una funzione importante del consumo di sostanze psicoattive per entrambi i sessi; resta da approfondire, come propone la Henderson [1999], quali siano i diversi significati che la spinta edonistica può assumere nella fruizione di sostanze in altre culture della droga - e soprattutto nelle sue evoluzioni in forme di dipendenza che contemplano la quotidianità dell'uso -, quale significato

abbia tale esperienza per una donna, in che modi possa costituire un'espressione della femminilità e quali siano i legami tra la componente edonistica e le ulteriori motivazioni al consumo di droghe. Dipendenza e co-dipendenza Si è più sopra accennata l'ambivalenza del termine dipendenza nella sua applicazione alla condizione femminile; come sostiene Perry, «la dipendenza femminile è una realtà - la dipendenza femminile da droghe è un effetto collaterale non desiderato e inappropriato che deve essere ri-diretto entro forme di dipendenza più convenienti e controllabili» [1979: 1, trad mia]. L'idea alla base della critica femminista è che le donne sono socializzate fin da piccole ad essere dipendenti dalla figura maschile; in questo suo volto accettabile riferito alla relazione con l'uomo, la dipendenza costituisce una norma sociale quasi prescrittiva per le donne, oltre ad essere auspicabile per il mantenimento dell'ordine familiare e sociale [Ettorre 1989, 1992, 1994a, 2007a, 2007b, 2008; Ettorre, Klaukka, Riska 1994; Ettorre e Riska 1995, 2001; Perry 1979; Mallock 2000]. La Steinem [1979] ha affermato che tutte le donne sono dipendenti dagli uomini, in quanto manifestano un costante bisogno della presenza, dell'approvazione e della protezione da parte delle figure maschili che a loro volta costituiscono una parte fondamentale della vita delle donne, quasi una loro ragion d'essere [Ettorre 1992, 1994a]. Le evidenze scientifiche internazionali mostrano che le donne vengono spesso "iniziate" all'uso di droghe da partner maschili, anch'essi tossicodipendenti, e che queste relazioni costituiscono spesso un deterrente al ricorso ai servizi e all'affrancamento dalla carriera tossicomanica. La letteratura di settore, in particolar modo psico-terapeutica, ha identificato questa predisposizione femminile ad intrattenere e preservare relazioni "disfunzionali" con partner maschili con il termine co-dipendenza, espressa da Giddens in questi termini: «una persona codipendente è colei che, per mantenere il proprio senso di sicurezza ontologica, richiede che le sue necessità vengano definite da un altro individuo o gruppo di individui. Inoltre, il codipendente non si sente sicuro di sé se non si dedica ai bisogni altrui. Una relazione codipendente è quella in cui un individuo è legato psicologicamente ad un partner le cui attività sono caratterizzate da qualche forma di coattività» [1995: 101]. Il termine codipendenza «è diventato un luogo comune nella letteratura terapeutica per indicare ciò che una volta veniva denominato più in generale ruolo femminile» [Giddens 1995: 99]; infatti, i tratti che la definiscono sono perfettamente congruenti con le aspettative sociali tradizionali convergenti sul ruolo della donna di educatrice e caretaker, che da un lato richiede sacrificio e abnegazione [Hands, Dear 1994], dall'altro impedisce lo sviluppo di una reale autonomia ed indipendenza della donna non solo dall'uomo, ma dallo stesso ruolo di cura assunto [Dowling 1982]. Secondo alcune autrici femministe, la codipendenza non sarebbe altro che una rigida conformità agli stereotipi e agli standard di comportamento femminili, un tentativo di rendere patologiche un insieme di attitudini e comportamenti che sono sempre stati interpretati come salutari, normativi

e funzionali al mantenimento di una certa struttura e ordine sociali [Krestan e Bepko 19911 e che sono sempre stati vissuti come virtù da molte donne. È evidente che, comunque la si voglia interpretare o definire18, questa attitudine femminile costituisce un ostacolo aggiuntivo al trattamento e al percorso di recupero dall'uso di droghe: come sostiene Ettorre [1992, 2007a], infatti, è difficile per queste donne esperire una reale autonomia in quanto esse valutano e validano se stesse nella loro relazione con l'uomo, dunque il processo di recupero dalla dipendenza da droghe è fortemente vincolato ad un più generale processo di empowerment, che nella donna implica la messa in discussione delle basi della propria identità femminile e dell'espressione di sè. 3.2... e nuove realtà Lo schema tradizionale di divisione dei ruoli su base sessuale ha subìto dei profondi mutamenti nel corso degli ultimi decenni; come afferma Ruspini, «i corsi di vita di donne e uomini sono stati investiti dai processi di mutamento sociale. Le rappresentazioni di genere basate sulla superiorità del ruolo maschile e la subordinazione di quello femminile stanno attraversando una crisi profonda. Il movimento delle donne ha giocato un ruolo fondamentale nel riconoscimento che l'asimmetria tra maschile e femminile è un costrutto storico, pertanto modificabile. Le donne studiano di più, lavorano di più, cominciano a svincolare l'identità femminile dall'evento maternità (inteso come destino biologico) e progettano sempre meno relazioni "tradizionali" basate sull'asimmetria di genere. Sono, d'altra parte, colpite anche dalla crescente tensione causata dalla convivenza tra aspettative sociali connesse ai ruoli di genere, desiderose di procreazione e necessità di carriera e di affermazione» [2003: 95]. Come si è avuto modo di vedere, il modello familiare e sociale tradizionale considerava la donna come l'angelo del focolare, confinata nella sfera privata al lavoro domestico e di educazione e cura dei figli e della famiglia, mentre l'uomo era proiettato nel lavoro extrafamiliare con i compiti di sostentamento della famiglia; alla donna, veniva assegnato un ruolo espressivo di sostegno affettivo e all'uomo un ruolo strumentale di sostegno economico. Fino agli anni Settanta - periodo in cui viene approvata la legge sul divorzio (1970), adottato un nuovo codice di famiglia (1975) e approvata la legge sull'interruzione volontaria di gravidanza (1978) la naturale carriera della donna era scandita dal matrimonio, dalla maternità, dall'accudimento del marito, dalla crescita dei figli e dalla cura dei genitori anziani, e questo era il ruolo ascritto dell'espressione identitaria femminile. Lentamente, in seguito alle lotte di rivendicazione femminista, ai processi di urbanizzazione, all'ingresso della donna nel mercato del lavoro, all'aumento della scolarità femminile e ai mutamenti demografici (calo delle nascite, allungamento della vita media), la struttura tipo della famiglia italiana si è radicalmente trasformata, e con essa il ruolo della donna. Si è passati ad un modello più democratico [Giddens 1995] in cui i compiti familiari ed extrafamiliari vengono ridefiniti e negoziati, i corsi di vita femminili non sono più così aspramente condizionati «dalla limitatezza delle dicotomie

produzioneriproduzione, fuori-dentro, pubblico-privato» [Ruspini 2003: 95] ma sono aperti a molteplici percorsi di ricerca dell'identità19. Il matrimonio e la maternità vengono a rappresentare una delle possibilità, accanto alla espressione di sé nel lavoro e nella vita pubblica, sebbene tuttora la differenza di genere continui a giocare un ruolo profondo nel disegnare tali percorsi, aprendo nuove tensioni econflitti nelle biografie individuali. Il divenire, la molteplicità e la fluidità, ma anche la differenziazione e la frammentazione definiscono i tratti della società post-moderna e, con essa, della condizione femminile e maschile nella loro relazionalità: la vita quotidiana post-moderna è caratterizzata dal crollo degli elementi di stabilità, fiducia e significato su cui si reggeva la certezza nelle società tradizionali, e l'identità di genere in questo contesto costituisce uno degli elementi in fase di ridefinizione, con contorni ancora sfumati e poco chiari. Se, infatti, la riflessione teorica abbraccia nuove strade nel tentativo di superare l'antica contrapposizione stereotipica tra maschilità e femminilità, e se realmente le identità individuali sono aperte alla compenetrazione, al dialogo e al conflitto del maschile e del femminile, gli stereotipi e le aspettative di genere continuano a manifestare una certa persistenza e resistenza al cambiamento, dando luogo alle criticità e tensioni di cui si accennava. Se per alcune culture e luoghi delle droghe20, nei quali l'uso di sostanze psicoattive è confinato all'occasionalità ed è reso compatibile con la quotidianità, è ipotizzabile una maggiore omogeneità di comportamento tra uomini e donne, per il consumo di eroina non si può che rilevare una certa staticità delle dinamiche socio-culturali che vi convergono. Da un lato, come sottolinea Rosenbaum [1981], l'effetto psicotropo della sostanza ha un elevato potere di standardizzare alcuni aspetti dell'esperienza tossicomanica; ma, come evidenzia Faupel [1991: 2], l'uso di eroina non può essere compreso solamente in termini di proprietà farmacologiche della sostanza, poiché i consumatori partecipano attivamente ad un "mondo sociale separato" da quello convenzionale, avente un sistema normativo e valoriale e processi di stratificazione e di socializzazione sociale propri, tra l'altro tradizionalmente costruiti da e per l'uomo, che si affiancano e si oppongono a quelli appresi ed esperiti nei contesti della vita ordinaria. Se, dunque, si valorizza la dimensione esperienziale e sociale, gli elementi di diversità tra i due generi non possono essere certo trascurati, poiché i vincoli culturali con cui uomini e donne si confrontano sono profondamente differenti tra loro, nello spazio sociale dei gruppi drogastici, rigidamente governato dagli imperativi della mascolinità, come nello spazio societario in senso esteso, governato da un concetto tradizionale di femminilità incompatibile con l'uso di droghe [Hunt et al. 2002]. Nel corso dell'indagine che qui si presenta si è cercato, pertanto, di valutare persistenze e mutamenti nelle modalità di agire la femminilità nei contesti drogastici sia in riferimento ai cambiamenti di genere, sia in riferimento alle evoluzioni nel mercato della droga e negli stili di consumo. E possibile avanzare l'ipotesi che le trasformazioni nei ruoli sociali delle donne degli ultimi decenni abbiano contribuito ad allentare alcune delle resistenze femminili all'adozione di

comportamenti drogastici storicamente "maschili", come testimonia l'aumento delle consumatrici di sostanze psicoattive osservato negli ultimi anni, ma che a tali trasformazioni non corrispondano mutamenti altrettanto rapidi nei sistemi di credenze, contribuendo ad alimentare anche in questo ambito quei conflitti tra sociale e individuale di cui si accennava più sopra. 4. Un'indagine "corale": materiali e metodi Delineati i presupposti che hanno orientato l'indagine da un punto di vista teorico, si descrivono di seguito i principali strumenti d'indagine utilizzati e le tappe salienti del percorso metodologico; le considerazioni qui espresse, in forma necessariamente sintetica, andranno opportunamente integrate con le riflessioni, più approfondite e dettagliate, e i materiali di lavoro riportati nell'appendice in calce al volume. Vi è da precisare, innanzitutto, che l'interesse conoscitivo per tale linea di ricerca è nato e si è sviluppato in ragione della mia presenza presso il Sert di Trento dal 2006 nel ruolo di sociologa impegnata nella gestione del sistema informativo e nell'elaborazione dei dati in supporto alle attività di ricerca del servizio. L'identità sociale di operatrice del servizio mi ha permesso di ottenere l'accesso al campo con una certa facilità', forse difficilmente raggiungibile da ricercatori esterni per tutte le problematiche connesse alla gestione della confidenzialità e della privacy, e soprattutto di avere una certa libertà di movimento nella pianificazione e realizzazione di tutte le fasi del processo di indagine. Dunque, come si è più volte precisato, l'indagine si è focalizzata principalmente sulla ricostruzione delle carriere tossicomaniche di 54 donne in trattamento presso il Sert e le comunità della Provincia Autonoma di Trento per abuso o dipendenza da eroina attraverso l'analisi qualitativa dei loro percorsi di vita. La selezione delle intervistate è avvenuta tramite un campionamento a scelta ragionata sulla base di 3 criteri di stratificazione, coerenti con gli obiettivi teorici sopra delineati: l'età, la condizione di madre, la motivazione al cambiamento della propria condizione tossicomanica (e il tempo emerso, ovvero il tempo di esposizione al contatto con servizi per le dipendenze). Il procedimento di selezione è avvenuto in itinere ed è prose guito, con adeguamenti progressivi, fino alla saturazione22 di ogni strato che costituisce il campione lungo le principali dimensioni definite dai concetti sensibilizzanti enunciati in precedenza. E importante precisare che la selezione delle partecipanti è stata effettuata a partire da un elenco nominativo che io stessa ho estratto dal sistema informativo, a cui ha fatto seguito un confronto sul caso con gli operatori del servizio che avevano in carico le donne al fine di valutare la loro presenza effettiva nel servizio e i tratti fondamentali delle singole storie; gli operatori stessi si sono resi mediatori nel primo contatto con le donne, proponendo la partecipazione all'indagine e dandone una prima spiegazione delle finalità e del mio ruolo all'interno del servizio, una procedura già utilizzata con successo in precedenti indagini [Corposanto, Lovaste 2009] e che ha permesso di limitare le cadute a 2 soli casi.

Le interviste si sono svolte in prevalenza presso gli uffici delle tre sedi del servizio (Trento, Rovereto o Riva del Garda) ed hanno avuto una durata variabile tra l'ora e le 4 ore, in alcuni casi suddivise in più sessioni di colloquio. Una cura particolare è stata destinata alla strutturazione del momento iniziale dell'intervista, soprattutto per la spiegazione dei confini tra la mia attività professionale e l'attività separata di ricercatrice e del mio dovere di tutelare le loro confidenze anche nei confronti dei professionisti sociosanitari; la tutela della privacy è stata ottenuta, inoltre, con l'attribuzione ad ognuna di esse dei nickname inglesi, ripresi da personaggi famosi di telenovele o del mondo del cinema. La ricostruzione dei percorsi di vita si è articolata in due momenti distinti. La prima fase, di carattere non-direttivo, si è basata sul racconto della storia delle donne dal momento del primo consumo di sostanze psicoattive al momento dell'intervista. In questa fase si è lasciato ampio spazio alle narrazioni delle intervistate, precisando solamente che dovevano porre particolare attenzione all'aspetto cronologico e che dovevano precisarmi i contesti e le relazioni entro cui avvenivano le diverse esperienze e le motivazioni che le avevano portate ad utilizzare le diverse droghe (legali e illegali); il mio intervento è stato, dunque, molto limitato in quanto era fondamentale per me capire quali fossero le dimensioni ritenute rilevanti alla comprensione del fenomeno dalle stesse intervistate, e ricostruire il senso di continuità della narrazione e della carriera tossicomanica. La seconda fase dell'intervista ha avuto l'obiettivo di approfondire i contenuti emersi dal racconto del proprio percorso di vita lungo alcuni assi tematici che ho individuato come centrali, di natura non-vincolante e modificabili secondo le esigenze e le particolarità biografiche delle intervistate: il rapporto con le sostanze; il rapporto con sé; le relazioni con gli altri; la maternità; la prostituzione; eventuali esperienze carcerarie; lavoro e scuola. Accanto a queste aree tematiche, ho individuato altri elementi di riflessione su ulteriori tematiche che, per la loro delicatezza, ho deciso di affrontare solo ed esclusivamente nel caso in cui nella prima fase di intervista le donne avessero deciso di parlarne, ovvero eventuali violenze fisiche, psicologiche o sessuali, aborti e interruzioni volontarie di gravidanza, contrazione di malattie infettive drogacorrelate. Una attenzione particolare, infine, è stata rivolta alla fase conclusiva dell'intervista nella considerazione che la rievocazione di fatti e comportamenti tenuti in passato spesso non rielaborati razionalmente e carichi di emotività potessero costituire una dura prova per la propria autostima e per la fragile ri-costruzione identitaria tentata nel processo terapeutico: nella maggior parte dei casi, dunque, ho utilizzato la tecnica dei progetti futuri proposta da Rosenbaum [1988] e Tompkins et al. [2008] nella quale il passato carico di forti valenze emotive viene sostituito con una dimensione progettuale propositiva circa il recupero di una vita "normale"; in altri casi, ho ripreso gli argomenti iniziali dell'intervista - neutri e privi contenuti emotivi o minacciosi [Bowling 2002; Rubin & Rubin 1995].

Le registrazioni delle interviste effettuate sono state trascritte integralmente subito dopo il colloquio, contestualmente ad una prima analisi di ogni storia in coerenza con l'apertura e la flessibilità del piano dell'indagine e in coerenza con il suo impianto abduttivo, nel quale teoria ed empirla retroagiscono l'un l'altra lungo tutto il percorso di ricerca; al termine di tutte le interviste sono state effettuate ulteriori fasi di analisi e revisione dei testi, analizzate sia in senso verticale (storia per storia) che orizzontale (tra tutte le storie), nell'integrazione con altre fonti informative sulle singole storie, pervenendo così ad una rappresentazione complessiva del fenomeno. Contestualmente alla conduzione delle interviste biografiche, ed in coerenza con gli ideali regolativi dell'approccio correlazionale, l'indagine ha previsto l'utilizzo di ulteriori «forme di integrazione complementare e simmetriche con altre strategie euristiche» [Cipolla 1990: 111], quantitative e qualitative, intrusive e non intrusive, a garanzia dell'oggettività e dell'intersoggettività del processo di ricerca. L'integrazione teorica e metodologica è stata raggiunta con l'ausilio delle seguenti tecniche di triangolazione: 1.confronto preliminare sui singoli casi campionati con i professionisti socio-sanitari del Sert: oltre a costituire la base del primo contatto con le intervistate, il confronto sui casi ha avuto l'obiettivo di fornire una prima ricostruzione del percorso di vita delle donne (chiaramente, letta dal punto di vista dell'operatore/i) e procedere con una revisione/integrazione della traccia di intervista in modo da ridurre le zone bianche e predisporre domande mirate alle singole storie. Se, concreta mente, sarebbe stato possibile rileggere le informazioni sulle storie contenute nella cartella clinica informatizzata, nel valutare l'eticità di un tale comportamento ho preferito subordinarlo all'esplicita autorizzazione delle intervistate, che si è verificata solo in una decina di casi. 2.Interviste in profondità a 15 operatori del Sert e 4 professionisti del privato sociale (Associazione Famiglie Tossicodipendenti, Associazione Provinciale Dipendenze Patologiche, Lila): i colloqui, trascritti e analizzati integralmente, hanno avuto l'obiettivo di chiarire le specificità delle esperienze di vita delle donne tossicodipendenti dal punto di vista dei soggetti impegnati nella riabilitazione e cura dei tossicodipendenti. Gli operatori sono stati selezionati in base al tipo di formazione acquisita e alla professione svolta - medica, psicologica, psicoterapeutica, sociale - in modo da garantire l'eterogeneità degli approcci e dei punti di vista sul fenomeno. 3.Osservazione diretta e back talk: la mia presenza quotidiana presso il servizio mi ha permesso di integrare le considerazioni emerse nel corso delle interviste con l'osservazione diretta delle interazioni e delle conversazioni degli utenti, avvenuta sia in modo non intrusivo, sia in modo intrusivo, soprattutto con quei gruppi di utenti storici che conosco da molto tempo e che a loro volta sono a conoscenza del mio ruolo presso il servizio. Questo mi ha permesso nella fase esplorativa di raccogliere diverse informazioni che mi sono state utili per predisporre strumenti di ricerca più realistici (i giri di orizzonte, come li definisce Bertaux [1999: 65]), e

di poter costantemente riflettere, nel tempo, sui risultati raggiunti nelle interviste biografiche trovandone un riscontro nelle conversazioni (back talk) e nelle interazioni con gli utenti. Al contatti e alle conversazioni informali, vi è da aggiungere un'ulteriore intervista in profondità ad un tossicodipendente "storico", considerato dagli operatori e dagli utenti un esperto nel settore. 4.Peer debriefing: confronto costante con una sociologa presente nel Sert con competenze analoghe alle mie, inerente principalmente la discussione e interpretazione dei risultati, e con un sociologo esterno, inerente essenzialmente i presupposti teorici e le procedure metodologiche adottate. 5.Analisi delle fonti statistiche disponibili circa le differenze di genere nel consumo ed uso problematico di sostanze psicoattive, nel ricorso al trattamento e nelle conseguenze sanitarie e sociali. 6.Revisione degli studi quantitativi sulle differenze di genere nella popolazione tossicodipendente in trattamento, limitata alle indagini successive al 1990, condotte su campioni sufficientemente numerosi c/o rappresentativi o di una certa rilevanza per il metodo di indagine utilizzato; l'analisi è stata integrata con altre importanti revisioni della letteratura già presenti, che discutono i risultati degli studi sulle differenze di genere nelle carriere tossicomaniche e negli outcome dei trattamenti. 7.Indagine ad hoc condotta sugli utenti in trattamento presso i servizi per le dipendenze del Trentino nel quinquennio 2005-2009, per verificare l'esistenza di differenze di genere nelle principali caratteristiche sociodemografiche nella carriera tossicomanica e di trattamento, in comparazione con quanto emerge sulla scena internazionale. Nei prossimi capitoli si presenteranno i risultati dell'analisi delle ricostruzioni biografiche delle eroinomani coinvolte nell'indagine, opportunamente integrate con questi strumenti complementari, al fine di evidenziare sia le specificità femminili del percorso drogastico e tossicomanico, sia le differenze generazionali. Innanzitutto, si analizzerà il primo step della carriera tossicomanica che prevede un percorso di progressivo avvicinamento e socializzazione alle droghe, il successivo passaggio alle sperimentazioni di eroina e la prosecuzione dell'uso di tale sostanza fino al cosiddetto stadio della luna di miele, caratterizzato da una fusione quasi totale con la sostanza. Ci si focalizzerà, poi, sull'esperienza della dipendenza e sulla conseguente ristrutturazione della quotidianità e della socialità intorno all'eroina, concentrandosi in modo particolare sulle strategie utilizzate dalle intervistate per procurare il denaro necessario all'acquisto di eroina e sulla costruzione dei propri network di relazioni sociali, con un focus sulle relazioni sentimentali con partner tossicodipendenti. L'approfondimento dell'esperienza tossicomanica prosegue con l'analisi delle conseguenze della dipendenza sull'identità sociale nel suo legame con le esperienze di discriminazione e stigmatizzazione, con un riferimento

particolare all'esperienza della maternità. In ultima battuta, si analizzeranno le carriere di trattamento, ovvero i percorsi motivazionali che portano alla richiesta di aiuto ai servizi specializzati nella cura e riabilitazione della dipendenza, l'esperienza delle recidive e le criticità evidenziate dalle donne nel processo di reinserimento nella società. Le conclusioni, infine, proporranno una lettura trasversale e ragionata dei risultati emersi dall'indagine empirica lungo i due interrogativi di fondo che l'hanno animata, ovvero le specificità della tossicodipendenza femminile rispetto a quella maschile, e le persistenze e i mutamenti nei modi di vivere la propria femminilità nel mondo di vita dell'eroina, in considerazione della forte valenza simbolica di questa droga, che poco si presta a normalizzazioni o tolleranze, che nell'immaginario sociale viene considerata "la droga del tossico" e che, per questo, non può che portare con sé stigmi e separazioni. Infine, si evidenzia che nell'appendice metodologica riportata in calce al volume verranno presentati alcuni materiali di lavoro che integrano e sostengono le considerazioni avanzate nel testo ed i risultati ottenuti. Dunque, accanto all'approfondimento della logica che sottende l'impianto metodologico appena descritto e delle difficoltà incontrate nel percorso di indagine, verranno presentati i profili biografici degli attori coinvolti nell'indagine qualitativa e le integrazioni complementari fornite dagli studi quantitativi svolti sulla scena internazionale e dall'analisi statistica condotta sull'utenza in trattamento presso il Sert di Trento nel periodo 20052009 per l'identificazione delle differenze di genere nella carriera tossicomanica, nel rapporto con le droghe, nell'esperienza di trattamento e nelle conseguenze socio-sanitarie dell'uso di sostanze psicoattive.

1. Le premesse Prima di entrare nel vivo dei processi che hanno portato le intervistate ad accostarsi alla sperimentazione di sostanze psicoattive illegali fino a giungere all'iniziazione all'eroina, si riflette in questa sede sulla situazione antecedente che, sebbene risulti abbastanza variegata, può essere efficacemente descritta dai due brani che si presentano di seguito e che identificano alcune importanti regolarità che ricorrono nei racconti delle intervistate: "C. io ho iniziato con le canne [sigarette a base di marijuana o hashish, n.d.r.] praticamente, a farmi le canne che avevo 23-24 anni, prima non fumavo neanche le sigarette e invece adesso fumo pure quelle [...] L. hai iniziato tardi rispetto alla media C. si, per quello che ti dico... infatti anche le sigarette non le fumavo, ho iniziato a fumare le canne prima delle sigarette, non bevevo neanche, niente, proprio niente, ho sempre avuto anche in famiglia un rapporto un po'... no, bellissimo eh! Però erano molto severi, anche a 18 anni se uscivo mi obbligavano a rientrare a mezzanotte, e allora compagnie non ne avevo, non ho mai avuto una compagnia classica che uscivamo, perché ero sempre ridotta con gli orari. Dopo dai, quando ho fatto la patente ero anche un po' più autonoma però sempre con i miei orari, dovevo lasciare le mie amiche all'1 dalla discoteca e tornare indietro. E allora questo mi ha fatto un po'.... E figurati che a 34 anni ho dovuto litigare per andare a convivere con il mio ragazzo... proprio: "scegli o lui o noi", capito? Si sono molto.. .mio papà è meridionale e mia mamma del nord, e quindi la loro mentalità era quella che "finché sei nella mia casa devi seguire le mie regole", infatti abbiamo con la psicologa discusso tanto questo problema di questo papà un po'... neanche padre padrone perché quello che volevo me l'ha sempre preso alla fine, però avere non so... forse anche per il fatto che ero la prima figlia, teneva tanto a me, capito? Allora io volevo farmi vedere che ero la classica figlia perfetta, non potevo mai sbagliare, capito? E allora anche li, poi ho cominciato a lavorare con lui dopo che mi sono diplomata a 18 anni, lui aveva aperto una attività anche per dare lavoro alle figlie che aveva; quindi a 19 anni mi son trovata al lavoro con lui che era molto... se sbagliavo qualcosa... L. tua mamma era casalinga? C. si, tranquillona proprio, ma anche lui, e però aveva questo... mi vedeva come la sua figlia perfetta, che non potevo mai sbagliare, e mi sentivo troppo soffocata. Forse anche il fatto che ero la prima figlia, e che ero femmina perché sai, magari aveva paura ma non della droga, delle esperienze con i ragazzi..." (Celeste, 36-39 anni). "C. guarda, ho cominciato giovanissima col fumare e col bere, poi è seguito tutto a catena L. fumare canne? C. si. dopo che è morto mio padre io non ho avuto più un freno, nessuno riusciva a tenermi, quindi son stata per conto mio, son venuta su in balia di me stessa. Avevo 13 anni quando è morto. Poi sai... i motivi li capisci dopo, non te ne rendi conto subito, magari o perché sei

timida, o perché in compagnia tutti fumano, tutti fanno. E poi ero un po' ribelle, un po' per aria, capricciosa, era un po' l'età della stupidella L. ma come tutti gli adolescenti... C. e... forse anche un po' di più! Ero ben tosta per quello. Ecco e... L. tu comunque avevi un giro di amicizie C. tutta la compagnia, si, ero la più piccola... c'era già chi si faceva [si iniettava droga nelle vene con la siringa, n.d.r.], chi si ubriacava tutti i giorni, chi fumava, erano tutti cosi insomma... era.... una cosa naturale, si, per un po' si, poi sono andata un po' crisi, non mi dimenticherò mai, volevo parlare con mia mamma e son stata a casa una domenica pomeriggio - perché io non stavo mai a casa - e quella domenica pomeriggio sono stata a casa e ho cominciato con il dirle "ma se io ti dicessi che fumo??". `Basta... mi togli anni di vita!", e lì ho detto "ok", sono andata e non ho più cercato di parlarne, ho detto basta... Sai le mamme, quelle di una volta, dicevano sempre "ah no! le mie figlie no" e intanto eran lì a criticare quelle degli altri, "meno male che le mie figlie son state tutte brave" e quindi... poi non mi lasciava parlare, mi diceva che le rubavo 15 anni di vita, quindi... io ci avevo provato L. quindi preferiva non sapere piuttosto che rendersi conto di una cosa del genere C. si, c'erano i campanelli di allarme, però... adesso è anche più sveglia mia mamma, ai tempi no, bisognava proprio tacere...." (Connie, 40-45 anni). Questi due brani contrappongono due diverse immagini di figlia e di donna, ovvero la "perfetta" e la "ribelle", immagini che vengono spesso utilizzate dalle intervistate per descrivere due modi opposti di essere nella propria infanzia c/o adolescenza, prima di iniziare con le prime sperimentazioni di droghe. La maggioranza delle donne (nel complesso 29) si auto-colloca nella categoria delle brave ragazze, con una buona educazione, forse un po' rigida come sostiene Celeste ma comunque lontana da ogni sospetto circa un possibile coinvolgimento nella droga. Nonostante molte di esse affermino di aver provato fin da piccole una certa insofferenza al contesto familiare e alle regole, alcune per problemi oggettivi di rapporto con i genitori (separati, violenti, assenti), tale insofferenza rimaneva in questa prima fase piuttosto contenuta, senza compromettere l'andamento scolastico o dare segni evidenti di comportamenti problematici, esprimendosi al più nella depressione, nei disturbi dell'umore c/o nei disturbi del comportamento alimentare, ovvero in forme di disagio internalizzate ed auto-orientate2. 1 percorsi biogra fici di questo gruppo di donne seguono poi evoluzioni distinte: alcune hanno mantenuto questo stato di apparente conformità alle aspettative genitoriali e alle norme sociali fino al raggiungimento della maggiore età, iniziando più tardi rispetto alla media ad avere i primi contatti con gruppi di persone nei quali si faceva uso di droghe e comunque riuscendo a mantenere una "doppia vita" che permetteva loro di salvaguardare l'identità sociale acquisita; altre donne, in seguito ad eventi traumatici, hanno successivamente cercato un'identità diversa per la necessità di dare sfogo ad

una parte di sé che rimaneva nascosta dietro le apparenze; altre ancora, in seguito all'innamoramento per un uomo o ad incontri casuali con persone legate al mondo della droga, ne hanno subìto il fascino e si sono trovate a fare esperienze che le hanno poi coinvolte a livello emotivo. All'opposto si ritrova un altro gruppo sostanzioso di donne (25 nel complesso) che descrive la sua infanzia e prima adolescenza come permeata da un moto di ribellione che trovava espressione, ancora prima delle sperimentazioni con le sostanze psicoattive, con espliciti comportamenti di rifiuto delle aspettative di genere [Friedman e Alicea 1995], dunque antisociali e di opposizione, come le fughe da casa, i litigi anche molto violenti in famiglia, il mancato rispetto delle regole familiari, lo scarso rendimento scolastico, fino alla sperimentazione della vita "da strada". Si noti che la categoria delle bad girls3 raccoglie tutte le ragazze che al momento dell'intervista avevano meno di 21 anni, e progressivamente con l'aumentare dell'età diventa sempre più rara. In questo caso, l'affiliazione successiva a gruppi di persone che conducevano una vita "alternativa" rispondeva pienamente, nelle loro ricostruzioni, a questi tratti caratteriali e alla necessità di dare libero sfogo alla propria personalità inquieta, provando più esperienze possibili di rottura con l'ordinario e la normalità. Un aspetto che ricorre nelle ricostruzioni biografiche delle donne di entrambe queste tipologie inerisce la descrizione del contesto familiare; molte di esse, infatti, fanno riferimento ad una eccessiva responsabilizzazione ricevuta fin dalla tenera età da parte dei genitori e, soprattutto, ad aspettative genitoriali percepite come non-congruenti alle proprie capacità e al proprio modo di essere [Friedman e Alicea 1995]. A questi elementi si unisce spesso un'alta conflittualità con la madre e una figura paterna percepita come assente, non solo fisicamente ma soprattutto a livello affettivo e comunicativo4. Questi elementi ricorrono spesso come una sorta di implicita "accusa" nei confronti di genitori che non hanno saputo comprendere i loro reali bisogni affettivi, per mentalità (nelle più adulte) o per indifferenza ed incapacità (nelle più giovani). Come osserva Donati [1990], se è difficile tentare una qualsiasi operazione di tipizzazione dei modelli familiari che possono condurre alla droga, tuttavia dai diversi racconti delle intervistate è possibile scorgere, in un modo o nell'altro, il realizzarsi in esse di una qualche forma di noncomunicazione c/o di mancanza di riflessività, spesso visibile anche nei momenti successivi all'emersione del problema della tossicodipendenza della figlia. «Il più delle volte si tratta di famiglie apparentemente normali, in cui la caratteristica che accomuna i membri è l'estrema rigidità nei comportamenti, nelle modalità di interazione, [...] che non riescono in alcun modo a riflettere su se stesse, a prendere coscienza di ciò che accade nel loro sistema relazionale, e quindi ad adottare cambiamenti e strategie adeguate» [ibidem: 122]; un tratto, questo, trasversale ad intervistate provenienti da nuclei familiari di estrazione, classe sociale e status socioeconomici differenti. Vi è da dire che circa la metà delle intervistate hanno riferito di un contesto familiare oggettivamente problematico, caratterizzato da genitori venuti a mancare in età precoce, da

un'istituzionalizzazione c/o affidamenti etero-familiari durante l'infanzia, da violenze fisiche e verbali subite fin da piccola (tra cui un caso di incesto), da genitori con problemi psichici, legali, di alcolismo c/o tossicodipendenza; fattori che la letteratura considera come eziologicamente più frequenti nel genere femminile'. È, d'altro canto, importante segnalare che non sempre nelle ricostruzioni delle intervistate è possibile evidenziare un legame di causa ed effetto tra queste problematiche e il successivo ricorso alle droghe; più frequentemente questi eventi traumatici vengono addotti come spiegazione circa la maturazione di tratti specifici di personalità (la propria irrequietezza, la scarsa autostima, l'introversione o la difficoltà a costruire una solida identità, uniti al desiderio di evadere dalla quotidianità e all'attrazione verso uomini e gruppi di persone ai margini o devianti) più che la predisposizione a mettere in atto comportamenti devianti6. 2. Le prime sperimentazioni 2.1 Affinità e affiliazione al gruppo "Non è che avessi in mente cosa fare, non so, un ipotetico percorso di uso, ma non è neanche che uno si sveglia un giorno e comincia a tirare eroina... cioè ci deve essere un percorso di avvicinamento, se sei attratto da sostanze che ti alterano un po' la percezione allora primi inizi ad assaggiare quello che c'è sul mercato - perché ovviamente io non conoscevo le differenze, anche in termini di effetti, tra eroina cocaina e via dicendo. Quindi ero nella fase di sperimentazione in quei tempi, stavo provando quello che c'era, quel giorno c'era quello e l'avevo provato ma senza pensare di continuare. Dopo averle provate tutte, la mia preferenza è stata quella diciamo..." (Grace, 36-39 anni). Queste parole di Grace, contestualizzate all'interno della ricostruzione dei passaggi che l'hanno portata a sperimentare l'uso di eroina, sintetizzano con molta efficacia un concetto importante, ovvero che l'accesso a questa sostanza avviene all'interno di un percorso di progressivo avvicinamento al mondo delle droghe; percorso che, come qualsiasi altra "carriera", inizia con un processo di acquisizione del know how, cioè del tipo di droghe offerte dal mercato, degli effetti delle sostanze, delle tecniche e modalità di assunzione, dei network sociali ove recuperarle. Questo percorso si verifica frequentemente all'interno di gruppi sociali nei quali l'uso di determinate sostanze è ricercato, praticato e legittimato; Matza introduce, a tal proposito, i concetti di "affiliazione" e "disposizione", indicando con essi il processo attraverso cui il neofita viene iniziato a un dato comportamento, perviene alla raffigurazione di sé come persona che potrebbe compiere una certa azione e ad attribuirvi determinati significati, in poche parole il «processo con cui il soggetto è convertito ad una condotta che è nuova per lui ma già consolidata per altri» [1976: 161]. L'affiliazione identifica, pertanto, l'instaurarsi di una stretta relazione tra persone che erano prima tra loro indipendenti, mentre con il concetto di disposizione si vuole indicare la volontà e l'intenzionalità nel compimento di tale azione.

Le ricostruzioni biografiche effettuate in questa sede hanno permesso di accertare che l'affiliazione a gruppi di consumatori di droghe costituisce la condizione basilare dell'avvicinamento alle sostanze anche per il sesso femminile, anche in virtù dell'età in cui questo avvicinamento si verifica più frequentemente, ossia quella adolescenziale nella quale il bisogno di costruirsi reti di relazioni esterne al contesto familiare ed una propria identità è più forte. La particolarità da evidenziare risiede, semmai, nella composizione di tali network sociali: essi, infatti, sono generalmente di dimensioni ridotte (al massimo una decina di persone) e si costituiscono prevalentemente di uomini, con una età maggiore e con una esperienza pregressa di sperimentazione di sostanze. La componente femminile è ridotta a 2 o 3 membri, spesso legati tra loro da una salda amicizia (molte utilizzano l'espressione "la mia migliore amica"). Il brano che segue mette in evidenza una particolarità nel modo di costruire queste relazioni sociali esterne al nucleo familiare: "M. alla fine io mi rendo conto che io sono sempre stata un maschio, giravo con maschi e mi comportavo da maschio, capelli corti e un cappuccio per non farmi riconoscere. Però io credo anche parlando con tante ragazze che ho conosciuto, parlando anche tra di noi con altre tossiche, alla fine ho visto che le ragazze che arrivano a certe cose come l'eroina è perché son sempre state in compagnie di uomini alla fine; e infatti tra di noi facciamo fatica a legare, a creare un rapporto tra noi donne, e se riusciamo lo facciamo a gruppi di 2, 3 al massimo, con gli uomini stiamo meglio, stiamo meglio tutte in compagnia degli uomini... Alla fine io mi accorgo di non averla mai cercata, l'affinità con una donna non mi è mai interessata, mi son sempre messa come una maschera con le altre mentre con i ragazzi non ce l'avevo..." (Margareth, 22-25 anni). Questa tendenza femminile a ricercare figure di riferimento maschili e, al limite, a privilegiare rapporti significativi e profondi con poche donne è un elemento emerso in quasi tutte le interviste effettuate; il gruppo, in questo caso, non assume un valore in sé e per sé ma acquista significato nella misura in cui fornisce la possibilità di instaurare relazioni significative con pochi altri membri (il migliore o la migliore amica e il possibile compagno). Tale considerazione è sostenuta dagli studi di psicologia sociale di Baumeister [2007] che, discutendo delle differenze di genere nella socialità, nota come uomini e donne la esprimano in modi differenti, ovvero le prime privilegiano e si "specializzano" in relazioni intime e "chiuse", mentre gli uomini costruiscono reti sociali in gruppi più grandi caratterizzati da relazioni tendenzialmente più superficiali. A fronte di tali osservazioni, come sottolineano Haines et al. [2009], l'uso di sostanze costituisce per le ragazze un medium per accedere, in senso più ampio, alla socialità maschile, una strategia per entrare in sintonia con esperienze che sono ritenute eccitanti dai membri di sesso maschile e ricevere la loro attenzione; e questo è un aspetto che interessa trasversalmente sia coloro che si sono inserite in modo casuale in questi gruppi di persone, sia coloro che volutamente ne sono diventate parte con l'esplicito obiettivo di condividerne le esperienze drogastiche. Vi è da evidenziare, in questa linea, un ulteriore aspetto interessante che emerge dai

racconti di queste donne: molte hanno raccontato che svolgevano all'interno del gruppo un ruolo di mascotte, nel senso che essendo ragazze e avendo un'età più giovane rispetto agli altri componenti, questi avevano un grande senso di protezione nei loro confronti e le mettevano al centro dell'attenzione. Non solo: spesso venivano coinvolte direttamente nel trasporto di droghe da un luogo all'altro (nel linguaggio gergale "facevano il cavallo") proprio per il loro aspetto infantile, insospettabile alle forze dell'ordine, con la ricompensa finale di un po' di fumo (hashish o marijuana), contribuendo in tal modo a rinsaldare il loro legame con il gruppo e -1 1 loro senso di appartenenza. I casi nei quali le prime esperienze di contatto con le droghe sono avvenute con altre donne (soprattutto, la sorella maggiore) sono 8 nel complesso, ed anche in questi casi si può comunque evidenziare che l'apprendimento del know how è avvenuto attraverso la relazione con altri amici di sesso maschile e che le occasioni di consumo sono rimaste limitate a poche situazioni. Dunque, in questa fase l'influenza del partner, inteso come colui con il quale si intrattiene una relazione sentimentale, è pressoché inesistente, potendosi individuare in una sola donna (Loren) nelle sue prime sperimentazioni di cocaina avvenute alla maggiore età, mentre più in generale si può parlare di una forma di condizionamento implicita nelle relazioni con amici di sesso maschile, comunque sempre intenzionale e non passiva'. Un'ultima considerazione: dalle biografie analizzate si possono distinguere 3 tipologie di donne sulla base della motivazione all'affiliazione al gruppo: per alcune di esse, l'accesso al gruppo è avvenuto precedentemente alla scoperta del consumo di droghe da parte dei suoi membri, dunque "l'affinità" con queste persone, come la definisce Matza [1976], gravita intorno ad interessi che esulano dal comportamento deviante e le prime situazioni di contatto con cannabinoidi o altre sostanze psicoattive si sono verificate in modo casuale. Per altre donne, l'affinità con il gruppo risulta più ricercata, con due significati differenti: da un lato, per una sorta di attrazione verso uomini del gruppo aventi una personalità trasgressiva, in grado di mostrare concretamente attraverso il comportamento drogastico la propria capacità di distanziarsi dalle norme sociali esprimendo forza e incuranza delle regole; dall'altro lato, per l'attrazione verso il consumo di droghe, caso nel quale il gruppo viene ricercato appositamente per le esperienze e il know how acquisibili (per poche, intenzionalmente in vista dell'acquisizione di una precisa identità di tossicodipendente). Se si ricollega questa tipizzazione a quella precedentemente effettuata sulle descrizioni delle intervistate delle proprie componenti caratteriali, in queste ultime due tipologie si ritrovano tutte le donne che si sono definite ribelli fin dall'infanzia e, in coerenza con quanto si è esposto più sopra circa la ricerca di una chiave per entrare nell'universo della socialità maschile, alcune delle donne che si sono descritte delle figlie modello e delle brave ragazze fino a quel momento; come si è già accennato, infatti, in questo sostanzioso gruppo si ritrovano donne che hanno deciso intenzionalmente di cambiare la propria identità di "donna perfetta" in seguito ad eventi

traumatici della propria vita, cercando intenzionalmente persone che permettessero loro di fare esperienze di vita diverse. Tra di esse, la maggioranza ha comunque continuato per molto tempo (anche in seguito all'accesso all'eroina) a gestire una "doppia vita" e una doppia identità sociale, soprattutto agli occhi dei familiari. E evidente che spesso i confini tra queste categorie risultano molto sfumati anche per la difficoltà a ri-proiettarsi nel passato (soprattutto per le donne più adulte) e per la complessità delle motivazioni sottostanti: "M. ...su cosa pensavo in adolescenza... forse mi attiravano di più le persone un po' particolari, diciamo, di quelle più sane, ecco. Se mi chiedi prima dell'adolescenza, da piccola, chiaramente non ti so rispondere, credo che mai più avrei pensato... ci penso spesso e dico "mai più a 15 anni pensavo che avrei passato la vita a prendere metadone e a pensare di non farcela senza". E invece... insomma prima dei vent'anni forse avevo già propensione a queste cose, mi piacevano le persone vestite strane, piuttosto che alterate, secondo me un po' ci nasci con questa inclinazione, sei più propenso a prendere quella strada rispetto ad altri. Un po' perché magari sei di carattere più cocciuto, se ti dicono che non devi sbattere la testa contro il muro tu ce la vuoi sbattere... chiaramente più ti dicono di smetterla e più lo fai, sei più propenso alla curiosità, allo sperimentare, a provare le sostanze. Quando andavo alle medie io mi vestivo già strana rispetto agli altri, comunque ero già strana, tipo jeans stracciati, colorati, un po' eccentrica, ecco. Secondo me è tutto collegato perché io vedo tutte le persone che mi ricordo che allora erano un po' strane son finite - chi più chi meno, chi si riesce a gestire chi meno - però un po' tutti son finiti nella roba [nell'eroina, n.d.r.] [...]. Poi, chiaramente, se io assiduamente frequento delle persone che comunque so che usano e loro continuano a stuzzicarmi e a invogliare ovviamente uno prima o poi dice... "prima o poi provo". Se stai insieme a un tossico che si fa, lo sai che rischi e che prima o poi puoi caderci, secondo me un po' te la cerchi [...], i tossici sono molto isolate come persone, cioè escono di casa per andare a comprarsi la roba ed è difficile che li vedi al bar alla sera, alle feste di paese o tutto quello che vuoi, cioè devi proprio entrarci nel loro mondo per... Anche quelle ragazze che si innamorano e pensano di poter tirar fuori dalla droga il ragazzo perché il loro amore vince su tutto... a me sembra proprio assurdo, forse è perché proprio non sanno cosa vuol dire essere tossici che la pensano così, perché non puoi capire come vive un tossico se non entri nel suo mondo e se non fai quello che fa lui... noi siamo un po' fatte così, c'è questo spirito della crocerossina che ti porta a fare queste cose, però per me non esiste proprio andare poi a dire che è stata colpa del tipo con cui ti sei messa, secondo me anche tu volevi arrivare a quel punto perché non penso che esistano ragazzi che ti prendono e ti intossicano... nella testa vuol dire che il pensiero ce l'hai penso, non è che ti svegli al mattino e dici "mi metto con un tossico, gli cambio la vita"... vuol dire che qualcosa che ti attira c'è, che c'è una qualche attinenza, dicono che non ci si piglia se non ci si somiglia, ed è vero... se uno non vuole arrivare a fare quella vita non si mette con una persona che ha sii problemi" (Morgana, 26-30 anni). 2.2 Motivazioni e traiettorie di consumo Le motivazioni che vengono riportate in merito alla decisione di partecipare alle prime esperienze di consumo di droghe non distano molto da quanto emerge in altre indagini sociali, dunque si possono ritenere comuni ad entrambi i sessi e trasversali alle diverse fasce d'età',

nonostante la classificazione che si è operata poc'anzi conferisca ad esse delle sfumature differenti. Vi è da dire che nelle ricostruzioni di tutte le intervistate, di qualsiasi età, i primi approcci con sostanze diverse dall'eroina non vengono per nulla problematizzati; dal loro punto di vista, infatti, fumarsi uno spinello, bersi una birra, assumere psicofarmaci o droghe sintetiche in particolari contesti ricreativi non ha costituito una condizione necessaria all'arrivo all'eroina, detto in altri termini il consumo di altre sostanze non viene considerato una causa della successiva sperimentazione di eroina. Spesso le intervistate puntualizzano, infatti, che se è vero che il desiderio di trasgredire, di condividere un'esperienza con gli amici e di provare esperienze di alterazione le ha portate a sperimentare altre droghe prima dell'eroina, la diversità delle situazioni, delle motivazioni e del senso attribuito a queste sostanze caratterizzano esperienze che non possono essere equiparate e soprattutto collegate in un rapporto di causa ed effetto9. Ciò precisato, se si escludono alcol e tabacco - pressoché presenti in tutte le ricostruzioni - per ben 48 delle donne intervistate la droga illegale di accesso è stata la cannabis. Rispetto alle motivazioni, come rileva Taylor [1993], forse per una sorta di razionalizzazione e autogiustificazione della propria condotta deviante, spesso le donne sostengono che "tutti lo facevano" o che vedevano che per gli altri "era normale", dunque non vi era ragione da parte loro per non parteciparvi, anche perché nonostante l'uso l'immagine dei loro amici sotto l'effetto di cannabinoidi rimaneva positiva. A volte, a questa giustificazione si affianca la curiosità di provare su di sè quegli effetti che si vedono esperire dai propri amici (per le donne del 2° e 3° tipo) e il desiderio di condividere con essi anche questa esperienza; quest'ultima, in particolare, è frequente nelle donne classificate nella prima tipologia, in quanto il legame di amicizia e fiducia instaurato nel tempo con i propri amici costituisce in sé e per sé una valida ragione per provare tale esperienza. Le donne più adulte, inoltre, si spingono in interpretazioni più introspettive dei primi contatti con le droghe, sostenendo che il proprio comportamento è stato dettato ora dalla solitudine, ora dalla necessità di sentirsi alla pari con gli altri componenti del gruppo e, per alcune, di non mostrarsi "piccola" e non "sembrare una femminuccia" agli occhi degli amici. Tra le ragazze più giovani è più frequente il riferimento alla trasgressione, alla voglia di fare esperienze fuori dall'ordinario e alla necessità di superare in qualche modo la "noia" provata nella vita quotidiana. Tutte le ragazze di età inferiore ai 25 anni e 5 casi di ragazze di età compresa tra i 26 e 35 anni hanno poi proseguito la loro sperimentazione con droghe ricreative (Lsd, anfetamine e metanfetamine, allucinogeni o smart drugs), attraverso il loro contatto con compagnie di amici che avevano caratteristiche simili a quelle più sopra descritte. Questo è un elemento importante su cui si misurano le differenze generazionali: mentre nelle fasce di età più adulte, anche per una questione oggettiva di mercato e di disponibilità di droghe, l'eroina rappresentava una delle prime droghe sperimentate, preceduta da brevi periodi di consumo di cannabinoidi, di alcolici e di psicofarmaci regolarmente prescritti da un medico, nelle fasce di età più giovane l'eroina rappresenta l'ultimo gradino di una ricerca continua di sperimentazione di sostanze che possono

portare ad un'alterazione dei sensi. Per esse diventa particolarmente evidente la consistenza del modello di consumo che Cipolla denomina «da supermarket», ovvero di uno stile «un po' confuso ed occasionale, dove sembra mancare una vera e propria logica dell'assunzione, dove la cultura della droga pare un contenitore dentro il quale ci si può mettere di tutto, pur che alteri la percezione o il normale funzionamento del cervello» [2007a: 34]: l'alcol e i cannabinoidi rimangono, dunque, il leit motiv delle prime sperimentazioni, e ad esse si aggiungono psicofarmaci (senza prescrizione medica), allucinogeni e amfetamine, spesso consumati in specifici contesti ricreativi (come discoteche e rave parties) nei quali il divertimento viene ritenuto impossibile senza una qualche minima alterazione dei sensi. Inoltre, il mutamento generazionale si può facilmente constatare anche nelle quantità di droghe che vengono consumate nelle prime fasi di sperimentazione dell'uso: se le generazioni più anziane si mostravano più caute e moderate, anche per il desiderio di mantenere un certo controllo di sé e della situazione10, le ragazze più giovani mostrano fin dalle prime sperimentazioni una tendenza all'eccesso, spesso motivata dalla spasmodica ricerca di raggiungere stati sempre più elevati di sballo e di alterazione: "J.Io penso di aver provato quasi tutte le droghe esistenti, almeno esistenti in Italia, mi manca solo una cosa che però non mi ricordo cos'è L. ti motivava sempre il fatto di vedere l'effetto che ti faceva, o per essere diversa dallo stato di normalità? J. sì, dallo star fuori, la curiosità c'è all'inizio... cioè quando sono andata al mio primo rave ero curiosa di sapere anche che effetti ti davano... poi le ho prese quasi tutte quel giorno, ero fuori come una mina, son stata stra-bene... perché poi stai proprio bene, ti sembra di essere innamorato, di essere felice e che tutto va bene. Chi è quel cretino che ci sputa sopra a una sensazione così?! Perché un conto è quando non le hai provate, ma quando le hai provate, il benessere che ti danno... L. c'è però anche il rovescio della medaglia, perché spesso si sente di persone che entrano in coma, o addirittura muoiono... e quindi cos'è che ti porta comunque a fare una cosa che potrebbe avere effetti di quel tipo? J. no, non ci pensi e basta. Tra di noi parliamo spesso "ti porta alla morte", o "vai in galera"; noi sappiamo il lato brutto della medaglia, e ci parliamo tanto sopra... è che ci parliamo meglio se ci facciamo qualche droga sopra... è questo il problema..." (Jodie, under 21 anni). Rispetto alle traiettorie che i comportamenti di consumo di queste prime droghe hanno avuto prima della decisione di sperimentare eroina, è molto difficile tentare una tipizzazione che renda ragione delle differenziazioni riscontrate, anche per i diversi significati di cui le sostanze sono state investite con il moltiplicarsi delle occasioni di assunzione. Il consumo di cannabinoidi è rimasto quasi per tutte confinato a contesti e situazioni di gruppo (anche nelle sue evoluzioni "di coppia"), rimanendo pertanto occasionale sia nella frequenza che nelle quantità; poche donne sostengono di aver proseguito in un consumo quotidiano, massiccio e individuale della sostanza, fino ad arrivare ad esporsi ad acquistarla loro stesse, e fondamentalmente si tratta di coloro che

hanno intenzionalmente scelto questa strada per l'attrazione verso il comportamento drogastico. In tutti i casi, comunque, con le prime sperimentazioni di eroina questa sostanza viene abbandonata del tutto. Rispetto alle droghe sintetiche il discorso è molto diverso, in quanto nessuna di coloro che le ha sperimentate è arrivata poi ad individualizzare tale comportamento, rimasto confinato a determinati contesti e situazioni con il preciso scopo di amplificare i propri stati emotivi e il divertimento e, soprattutto, mai abbandonato del tutto anche all'arrivo dell'eroina. Molte donne affermano che l'uso reiterato di tali droghe ricreative le ha portate ad un coinvolgimento emotivo notevole, tanto che non erano più in grado di frequentare una festa senza assumerle e che le quantità erano spesso consistenti; ma tale coinvolgimento non viene giustificato con l'effetto psicoattivo della sostanza, quanto con l'atmosfera che creava in quei particolari contesti e in quelle particolari situazioni in cui venivano assunte. Il significato che viene attribuito a queste sostanze, pertanto, ha una localizzazione spaziotemporale ben definita; al contempo, mantenere un tale stato di alterazione nel tempo e diventarne dipendenti viene considerato indesiderabile e impraticabile. Questo aspetto di occasionalità dell'uso non esclude che i livelli di coinvolgimento con tali sostanze possano essere tali da determinare una certa dipendenza psicologica: "M.Facevo proprio di tutto per essere accettata dagli altri, ho fatto anche un periodo dove andavo ai rave, a ste feste, il venerdì sabato e domenica ero sempre a Bologna con la testa li... anche li mi calavo di tutto, pastiglie... e poi ho smesso, però, quando mi sono accorta di non riuscire più a fare i calcoli a mente anche 2 + 2, e ho detto "no, è meglio smettere" [...]. Ma sì... secondo me anche con le pastiglie puoi essere tossicodipendente... per me, cioè non era proprio una cosa continua perché avevo staccato anche per periodi, però anche quelle son tutte droghe che in qualche modo una dipendenza te la danno [...]. All'inizio mi ricordo i primi acidi che prendevo, sai che amplificano gli stati d'animo, e che mi prendevano malissimo davvero, e piangevo piangevo piangevo... poi ho cominciato insomma a parlare con gli altri, e invece prima se vedevo una persona sana scappavo perché avevo paura di farmi vedere, poi appunto invece pian piano riuscivo ad andare tranquillamente anche a fare la spesa, finiva la festa e tutti quanti il giorno dopo si andava a fare la spesa, era proprio diventata una cosa normale, era quasi più normale essere in acido che stare senza... più che altro l'acido ti altera, ti fa vivere delle emozioni amplificate e quindi lo preferisci ma non è che stai male se non lo prendi, quindi può comunque coinvolgerti tanto a livello di testa, come con la cocaina alla fine" (Margareth, 21-25 anni). Proprio la cocaina, sperimentata da 28 delle intervistate, introduce alcuni elementi di differenziazione nei diversi percorsi. Rosenbaum [1979, 1981] e Taylor [1993] rilevano che nell'accesso alle droghe cosiddette "pesanti", rappresentate nel nostro caso proprio dalla cocaina prima ancora dell'eroina, l'influenza del partner gioca un ruolo più consistente rispetto alle altre sostanze, soprattutto per le donne più adulte; nel nostro caso, questo aspetto trova una conferma parziale considerando che sono 11 le intervistate che hanno esordito in questa sperimentazione attraverso il proprio partner e che anche tra coloro che l'hanno sperimentata le prime volte con amiche o in compagnia la ripresa dell'uso (fino alla condizione di dipendenza per alcune) è stata

proprio influenzata dalla relazione sentimentale instaurata. Alle motivazioni sopra elencate riferite alle prestazioni raggiungibili con l'assunzione di cocaina (soprattutto nelle serate in discoteca o a parties) e alla voglia di sperimentare qualcosa di diverso dal solito, si aggiunge così il desiderio di condivisione di un'esperienza con il proprio partner: "L. la prima volta, non mi ricordo, erano le prime sere che uscivamo, forse era addirittura la prima, ed eravamo in una casa privata che c'era una festa, e lui mi fa "adesso ti tiro su io un po' di morale"... ora non mi ricordo le parole precise... e mi ha portato in una stanza con un suo amico che invece... cioè loro facevano già uso e quindi lui era tutto emozionato, e io bo... la prima volta io gli ho detto "no, non voglio, non mi interessa", poi però ho visto tutti presi e tutti convinti, cioè era una cosa normale. E allora la volta dopo ho detto "dai lo faccio anche io" e di li in poi io frequentavo casa sua, che viveva con un'altra persona e andavano sempre a procurarsela, ce n'era quasi tutte le sere comunque, almeno qualche rigali se la facevano e allora ho iniziato anche io a usare così con loro [....] I. quindi hai cominciato con la cocaina perché era una cosa normale per loro? L. [...] mi ero proprio innamorata, credo fosse per l'innamoramento penso, e cioè lui faceva quello, io mi sono anche fidata un po' di lui, cioè da dire se lui lo faceva voleva dire che non era una cosa proprio così pericolosa... lui poi ha proprio voluto coinvolgermi... anche un paio di volte mi ha fatto provare anche la ketamina, cioè a volte l'avevano a casa, io non sapevo neanche cos'era, e loro mi spiegavano, c'era lui e il suo inquilino e anche un'altra ragazza che c'era spesso, veniva da Padova, una tipa un po' strana che andava anche in techno, era un po'... cioè si vedeva che era rovinata tra l'altro... io ero un po' un pesce fuor d'acqua alla fine però mi sono fatta coinvolgere" (Loren, 22-25 anni). Vi è da evidenziare, infine, un ulteriore motivazione che caratterizza questo attaccamento allo stile di vita legato alle droghe (in particolare, droghe sintetiche e cocaina) e che permette la prosecuzione dei comportamenti di consumo, un aspetto che caratterizza in modo particolare l'universo femminile, ovvero la perdita di peso. Una decina di intervistate sostiene, infatti, di aver sempre avuto un cattivo rapporto con la propria immagine proprio per la percezione di un peso eccessivo e di aver avuto disturbi del comportamento alimentare precedenti alle prime sperimentazioni di droghe: la constatazione che il consumo di sostanze aveva questo effetto collaterale positivo, di dimagrimento, ha contribuito ad aumentare il loro coinvolgimento, per l'acquisizione di una immagine del proprio corpo più coerente con i propri desideri e, insieme, di un miglioramento dei rapporti interpersonali, prima inficiati da questa scarsa autostima: "H. ho comunque realizzato che io, se mi drogavo, era comunque per dimagrire [...], la mettevo davanti come una mia fissazione, che dicevo "son grassa, devo dimagrire, allora mi drogo" [...] Io la cocaina non sapevo neanche cos'era perché avevo 16 anni quando ho tirato la prima volta, ero una bambina; però poi l'ho saputo, poi senti la sorella più grande che aveva già più esperienza... però all'inizio io lo facevo perché lo facevano gli altri, non é che mi piaceva... e poi invece lo facevo perché mi sentivo più forte, caricata, e vedevo che comunque dimagrivo, ai primi tempi si andava in discoteca e si prendevano pastiglie, e uscivi dalla

discoteca con due kili in meno, nel senso che eri magrissima [...]. La droga l'ho sempre comunque legata col fatto del peso, poi a 15 anni ero proprio malmessa, bassa e cicciotta... e con la droga mi son tirata proprio fuori, certe persone mi dicevano "ma sei davvero Harper?", perciò li... io capisco che non era una cosa sana perché mi drogavo per la ragione sbagliata, anche perché stare a sentire quello che dicevano gli altri che comunque le battute le facevano lo stesso... L. facevano battute sul tuo peso? H. sì sì, e però dopo alla faccia della ragazzina brutta... il brutto rospo con la coca era diventato un bel cigno, nel senso..." (Harper, 26-30 anni). 3. L'iniziazione all'eroina Le analisi dei dati sull'utenza in trattamento mostrano che nel campione complessivo l'età media e mediana di iniziazione all'uso di eroina sono rispettivamente di 20,7 anni e 20 anni, con valori più bassi di circa un anno per le donne (media 19,9 e mediana 19 anni). Inoltre, nelle nuove generazioni l'età di iniziazione all'eroina si è decisamente abbassata: infatti, le generazioni più adulte (delle nate prima del 1964) sono pervenute all'eroina mediamente a 22 anni e le giovanissime (delle nate dopo il 1985) a 17,5 anni. Ma l'aspetto più interessante da osservare è la lunghezza del periodo che intercorre tra le prime sperimentazioni di droghe illegali e la prima occasione di consumo dell'eroina': un periodo che va dai 2 ai 6 anni, con un valore medio di circa 3 anni e mezzo, lievemente più breve tra le più giovani rispetto alle donne adulte ma in misura non significativa. Si tratta di un periodo piuttosto lungo nel quale, con il moltiplicarsi delle occasioni d'uso e delle frequentazioni di gruppi di consumatori, queste donne hanno avuto modo di razionalizzare e giustificare a se stesse il comportamento drogastico, rendendolo parte della propria identità sociale e arrivando a percepirlo come normale. Da queste parole di Grace si evince chiaramente che è proprio questo arco temporale diluito a rendere difficile l'affrancamento dalla droga, già in questa lunga fase di preparazione alla sperimentazione di eroina: "Il problema è la mente, la parte più difficile sono le abitudini quotidiane fatte di anni e anni, di... cioè è tutta una trappola psicologica, come con le sigarette... non è solo la nicotina, perché allora basterebbe mettersi il cerotto e si smetterebbe subito; ma è anche il gesto, l'abitudine, le persone, le conoscenze che hai acquisito, le esperienze... sono tante cose messe insieme... te le costruisci talmente lentamente che poi fai tantissima fatica a distruggerle... anzi, secondo me non te le toglierai mai, soprattutto quando riesci a vincere le tue paure e arrivi all'eroina... Quello che dicevo l'altra volta... un tossico resterà sempre un tossico, non cambierà mai anche se non usa!" (Grace, 36-39 anni). In questo lungo lasso di tempo, coloro che hanno ricercato appositamente gruppi di persone in grado di fornire loro il know how necessario a consu mare sostanze psicoattive hanno avuto modo di comprendere che quella era realmente la strada che desideravano e che le sostanze rispondevano pienamente al loro bisogno di essere "diverse", di provare piacere e di vivere

pienamente le loro esperienze di vita; per esse, già in questa fase, si è verificato un processo di progressivo abbandono dei commitments convenzionali [Becker 1987], ovvero dei principi, dei valori e delle regole degli stili di vita conformisti, e delle relazioni interpersonali con gruppi di persone estranee a questo mondo, poiché l'interesse principale si è proprio orientato alla ricerca di una espressione identitaria alternativa: "C. ma a me piaceva il piacere, mi piaceva far uso di sostanze, mi piaceva fare anche un po' la tossica quando ero più piccola, cioè quando avevo visto gli effetti, e così, avevo detto "ok questo è quello che voglio" L. in che senso? C. che mi prendeva bene, stavo bene, mi divertivo, mi sentivo in sintonia con tutti, allora dicevo "mi piace questo tipo di stile", mi rendeva più sicura, più forte [...] Cioè, non so come spiegarti ma alla fine io facevo fatica a cambiare, a pensarmi diversa da così e quindi... alla fine erano quelle persone che cercavo, uscivo soprattutto con persone che facevano uso... poi andavo sempre negli stessi posti, la mia vita era basata solo su quello, andare a cercare qualcosa, andare a devastarmi o bere, e quindi lo facevo con le persone che volevano anche loro fare queste cose" (Carolyn, under 21 anni). Coloro che si definivano delle ragazze modello hanno avuto percorsi differenti, accettando da un lato questa trasgressione come forma di socializzazione e di condivisione delle esperienze con gli altri o come medium nei rapporti sociali - a volte compromessi dal loro carattere introverso e dalla scarsa autostima - oppure decidendo di dare libero sfogo a quella parte di sé che veniva nascosta dietro l'apparenza e che era stata scoperta con le prime sperimentazioni di droghe, spesso comunque cercando di preservare l'immagine sociale originaria. In questi casi, se da un lato non si osserva una reale frattura con lo stile di vita convenzionale, con la loro identità originaria e le relazioni sociali con persone estranee alla droga (almeno in questo fase), dall'altro lato queste donne iniziano lentamente ad acquisire familiarità con tali comportamenti, a percepirli come normali e sottovalutarne i rischi, ad apprendere motivazioni, giudizi ed interessi che vengono lentamente fatti propri: "S. io ho sempre usato droghe con le amiche quando uscivo... ad esempio cocaina, LSD, pastiglie, prima fumavo... questo dalla fine delle medie praticamente... ho iniziato a fumare e dopo mano a mano ho cominciato a usare anche le altre... Adesso magari a te sembra strano, ma se vedi le ragazzine di adesso usano eroina già dalle medie! Soprattutto perché adesso usano subito l'eroina invece che fumarsi le canne... infatti fino a quando ho iniziato io c'erano i tossici vecchi vecchi, mentre adesso ci sono le ragazzine piccole, vai in giro e le vedi che si fanno di tutto già dalle medie... Io da una parte sono stata anche fortunata perché alla fine sono riuscita a finire le scuole, avevo già iniziato l'università che poi sono anche riuscita a finire, non è che mi sono buttata sulla strada e ho mollato tutto, ho sempre cercato di tenermi la mia vita [...] L. per te che valore aveva il fatto di usare droghe? S. ma non... cioè io ero anche una che l'andava a prendere, nel senso che non son mai stata una che scroccava dagli altri... magari l'andavo a prendere io e la usavo con gli altri, cioè... o

la prendevamo insieme con le mie amiche... secondo me proprio è la compagnia con cui giri e anche la testa, perché a me la droga è sempre piaciuta alla fine... se andavo a ballare mi piaceva andare a prendermi qualcosa insomma L. quindi in tutte queste situazioni, comunque c'era sempre la droga? S. questo dipendeva, in discoteca magari ci andavo anche senza, ma se andavo a un rave certo no.. .dipende dalla compagnia perché se c'è l'occasione, se dopo uno ce l'ha magari mi viene voglia... da quando ho usato l'eroina poi non ho più usato nient'altro, tranne un po' la coca ogni tanto insieme a qualcuno. Quindi secondo me dipende da con chi giri, nel senso che non è perché tutti lo facevano e allora... un po' sì perché siamo entrate nel giro e dopo lo facevamo anche noi [...]. Però dopo ho fatto tantissime serate senza niente, non è che non mi son divertita, anzi... anche adesso non è che non mi diverto, sto bene lo stesso..." (Shirley, 26-30 anni). È singolare osservare che le differenze generazionali vengono quasi annullate rispetto alla lunghezza dell'arco temporale necessario a decidere di sperimentare l'eroina, e questo aspetto può trovare una spiegazione nella rappresentazione che buona parte delle intervistate avevano di questa sostanza (e, soprattutto, dell'idea che avevano di chi la consumava) sia nel periodo in cui non avevano ancora sperimentato altre droghe, sia nel periodo in cui le droghe erano entrate nel loro orizzonte di possibilità. Se si escludono, infatti, le ricostruzioni delle donne con un'età superiore ai 45 anni, che affermano che l'informazione all'epoca non era sufficiente per formarsi un'idea precisa in merito, i giudizi che le intervistate avevano prima di sperimentare eroina circa tale sostanza e la tossicodipendenza erano di questo tenore: "T. eh, da piccola mi facevano paura, i miei genitori, i miei familiari mi dicevano sempre di stare attenta a quelle persone là... anche perché nella mia via dove abito tutt'ora ce ne sono tanti. Uno era un amico di mio padre, ora fa un po' impressione, è distrutto, e quando ero piccola mi faceva paura, poi man mano che diventato un po' più grande mi spaventava e mi chiedevo "perché usano sta roba, perché?". E poi invece..." (Taylor, 22-25 anni). "5... .1'idea che comunque ti viene data, vuoi o non vuoi... che ti inculca la società... io sapevo che era una cosa che non dovevo toccare, l'eroina in particolar modo la tenevo sempre lontana, sai l'immagine che ho sempre avuto del tossico, quello della piazza con la siringa nel braccio non la vedevo proprio addosso a me.... Ti ripeto, io non avrei mai pensato di iniziare a usare una roba come l'eroina" (Sharon, 26-30 anni). "5. ...io li odiavo i tossicodipendenti, dicevo "che schifo", vedevo una siringa e stavo male, andavo a fare le analisi del sangue e svenivo e mia mamma mi diceva "guarda, l'ultima persona che pensavo che si andava a drogare sei proprio tu" perché proprio non ce la facevo... eppure poi..." (Sibilla, 40-45 anni). Nell'immaginario comune l'eroina veniva assimilata alla modalità d'uso endovenosa e il tossicodipendente era colui che la consumava in tal modo, nella sua totale estraniazione dal mondo e, soprattutto, dal gruppo; nessun'altra droga aveva un potere evocativo simile, tant'è che molte donne raccontano che il loro gruppo di amici spesso attivava forme di esclusione dei componenti che iniziavano ad avere contatti con tale sostanza 13:

"E. poi i rave non sono neanche visti... nel senso che l'eroina è considerata una cosa a parte perché se tu ti fai di eroina sei peggiore proprio; cioè se uno va a sballare tutti i sabati bruciandosi il cervello con le amfetamine va bene, l'eroinomane invece è visto come il peggiore, quindi penso che anche se fai uso di sostanze chimiche non vai tanto sull'illegale, aldilà dello spaccio, usarle è illegale ma chi lo fa non ci pensa perché è più accettato, e poi ti porta anche a far meno furti perché non è che ne hai proprio bisogno, l'eroina ti dà bisogno fisico dopo un po'. Per questo penso che c'è più criminalità intorno all'eroina, e vedo che è più accettato il fatto di usare le droghe sintetiche, però alla fine anche lui è un tossico" (Eveleen, 21-25 anni). Se, da un lato, le motivazioni addotte a posteriori - al momento dell'intervista - circa la prima sperimentazione di eroina sono spesso simili a quelle richiamate per le altre sostanze, in realtà se ne differenziano per un punto essenziale: mentre i contatti con le altre droghe hanno più un carattere di agito, ovvero sono determinate più dalla situazione e dall'occasione di consumo - che spesso è casuale - che da una riflessione personale precedente, la sperimentazione di eroina segue sempre un percorso in cui è l'attività cognitiva ad essere prevalente e in cui tale comportamento, prima di essere messo in atto, viene lentamente assimilato, giustificato e naturalizzato in forma di pensiero. Anche le motivazioni all'uso, che in alcuni casi richiamano quelle anzidette per le altre sperimentazioni, sono da interpretare -In quest'ottica. Si osserva, dunque, una vera e propria separazione, simbolica e concreta, tra il consumo delle droghe cosiddette "leggere" o "ricreative", ricondotte alla loro funzione aggregativa e di condivisione con il gruppo, e il consumo dell'eroina, che al contrario costituiva per le intervistate "la" droga, da evitare per il rischio di divenire tossicodipendenti e per le sgradevoli sensazioni che il buco14 poteva fornire. Vi è, tra l'altro, da rilevare che una simile rappresentazione della sostanza e della tossicodipendenza è trasversale alle diverse fasce d'età come alle diverse tipologie di donne che si sono più sopra esposte, con poche eccezioni; infatti, anche coloro che hanno esplicitamente ricercato lo stile di vita che gravita intorno alle droghe ne erano attratte per l'eccitazione, la ricerca del piacere, del divertimento e dell'alterazione, effetti opposti a quelli conseguibili con l'eroina che nel loro linguaggio im pacca, ovvero rilassa, ottunde i sensi. La comprensione del passaggio tra queste convinzioni radicate e la decisione di provare l'eroina è quindi di fondamentale importanza, in quanto proprio in questo momento l'immagine di sé e la propria identità sociale iniziano a subire dei cambiamenti reali; non è un caso che molte intervistate aprono il loro racconto di vita parlando subito dell'eroina nonostante, come si è visto, quasi tutte abbiano iniziato la loro carriera con altre sostanze illegali [Taylor 1993]. Tali cambiamenti identitari risultano ancora più consistenti per coloro che arrivano all'uso iniettivo della sostanza: la siringa, infatti, possiede un elevato potere simbolico [Rosenbaum 1979, 1981] perché separa idealmente l'uso di droghe leggere da quelle pesanti e il consumatore dal tossicodipendente. Se coloro che non sono mai pervenute all'uso iniettavo hanno acquisito la consapevolezza della loro dipendenza in tempi più lunghi rispetto alle injector, queste ultime considerano il buco come un punto di non ritorno, soprattutto nel modo di percepire se stesse in

relazione agli altri e al proprio corpo. Il discorso, a questo punto, non può che essere articolato in relazione alle modalità di assunzione della sostanza alla prima sperimentazione in quanto, in coerenza con quanto si è sopra esposto, gli elementi che costituiscono inizialmente un ostacolo al consumo di eroina sono costituiti dalla paura di diventare tossicodipendenti e dalla paura per la siringa. Nel campione in analisi, le donne che fin dalla prima sperimentazione hanno consumato la sostanza per via parenterale sono nel complesso 8, mentre 32 donne hanno sperimentato altre modalità d'uso (fumata, sniffata o inalata') prima di pervenire all'uso endovenoso e ulteriori 14 non sono mai pervenute al buco. 3.1 Un incontro "soft" Si consideri, in primo luogo, questi ultimi due gruppi nei quali l'arrivo all'eroina è avvenuto con una modalità alternativa alla via parenterale: quali sono le ragioni che hanno permesso a queste donne di superare i loro pregiudizi nei confronti della sostanza e di chi la consuma? Certamente è risultato molto difficile addentrarsi in questo aspetto della carriera tossicomanica per il carattere spesso irrazionale che ha contraddistinto tale comportamento: nel tentativo di darvi una spiegazione alcune di esse hanno, infatti, affermato che spesso nel corso della loro carriera di tossicodipendente si sono fermate a rifletterci senza riuscire a trovare una risposta ragionevole che permettesse loro di comprendere, tra l'altro, come evitare le recidive successive: "S. allora i tempi erano quelli dove le persone si dividevano tra chi fumava e chi non fumava... e non so, è stata un po' la curiosità, la presunzione forse di dire "tanto... provo", sai trovo difficilissimo spiegarti questa cosa anche perché lo motivi dopo tanto tempo, io non riesco adesso a ricordarmi cosa pensavo in quel momento, ero sicuramente affascinata da quel mondo e da tutto quello che ci stavo intorno... però, quando riesci a dargli una motivazione vera è già troppo tardi, quando tipo riesci a iniziare a pensare quanta ne devo fare per stare bene o se starai male è perché ormai ti ha coinvolto troppo. Vedi che adesso posso usare questa terminologia, allora io non sapevo neanche che mi avrebbe portato ad essere dipendente facendolo più spesso" (Sophie, 40-45 anni). Riflettendo sulle diverse ricostruzioni biografiche relative a questo passaggio, emergono però alcuni gruppi di ragioni riportate più frequentemente dalle intervistate. Il primo di essi riprende alcuni concetti evidenziati in apertura in merito all'accesso ai gruppi e allo stile di vita legato alle droghe, che pongono l'enfasi sull'affinità e sull'influenza esercitata dal gruppo di amici. Come si è accennato più sopra, le intervistate hanno spesso fatto riferimento al loro gruppo come composto prevalentemente da ragazzi e, soprattutto, di età più grande. Questi gruppi non erano stabili nella loro composizione ma si modificavano continuamente per l'accesso di nuovi membri e la defezione di altri; pur non essendoci spesso un'esposizione diretta ai comportamenti d'uso di eroina di questi nuovi membri, il fatto di vedere che nonostante la sostanza queste persone apparivano "normali" ha insinuato in loro la curiosità di sperimentare anche questa droga, anche

perché si trattava quasi sempre di soggetti ai primi stadi del consumo di eroina, dunque non ancora coinvolti in modo tale da mostrare la condizione di dipendenza in tutti i suoi effetti spiacevoli. Dunque, in questo caso il termine "curiosità" assume un'accezione differente rispetto alla fase iniziale di sperimentazione delle altre droghe ed è indotta dalla dissonanza tra le proprie rappresentazioni del consumatore di eroina e la constatazione empirica della loro infondatezza. Il primo pregiudizio che viene abbattuto dalla frequentazione di consumatori di eroina è l'accostamento della sostanza alla modalità d'uso endovenosa, dunque queste donne comprendono che l'eroina può essere fumata o sniffata, evitando in tal modo i segni visibili che il buco comporta. In secondo luogo, il fatto di verificare che queste persone continuavano ad avere una vita normale e a ragionare in modo lucido nonostante l'uso di eroina, e che avevano in aggiunta la possibilità di provarne gli effetti piacevoli, metteva in discussione anche il pregiudizio che l'uso di eroina porta ad uno stato di totale soggezione alla sostanza. La prevalenza della dimensione esperienziale su quella cognitiva è, dunque, particolarmente evidente in questo passaggio all'eroina, nelle giovanissime come nelle adulte, nonostante le enormi diversità che possono essere presenti tra le diverse generazioni in merito all'informazione e all'educazione ricevuta sulle droghe, e soprattutto al contesto socio-culturale e agli stili di consumo, ben evidenziati, a suon di metafora, da un professionista del Sert: "ti ricordi quella formula che aveva usato Celentano? Questo è rock e questo è lento. Ecco, per la mia generazione ciò che distingueva ciò che è rock da ciò che è lento era la sostanza, per cui la cannabis e certe esperienze con allucinogeni potevano entrare entro un uso di tipo fisiologico, e non erano necessariamente correlate ad una forma di psicopatologia o emarginazione, lo erano però tutte le sostanze diverse: la cocaina era la droga dei ricchi e vabbè [...], l'eroina era una droga da sfigati. Oggi cosa sta cambiando? E questo è l'aspetto interessate dal punto di vista sociologico: cioè la barriera tra ciò che è lento e ciò che è rock non è più la sostanza, ma la via di assunzione, per cui adesso non è lento usare eroina, continua a essere lento farsi le pere magari, difatti l'eroinomane che si fa le pere è un animale in via d'estinzione, fra un po' lo metteremo al museo di scienze naturali, no? [...] Oggi il problema drammatico è proprio questo: è rock sniffare e fumare eroina, non a caso questo fa sì che aumenta la percentuale di donne [.. .]; nell'immaginario collettivo inizia a farsi strada un uso di sostanze che è ritenuto piacevole, ricreativo, rock per dirla alla Celentano, e che quindi accosta anche le donne perché sono considerati comportamenti meno maschili, non so come dire... è meno legato a questa cronicità del passato. Questa è la sfida che oggi noi abbiamo" (Domenico Marcolini). Si noti che questi procedimenti cognitivi presenti nel periodo che precede l'iniziazione all'eroina accomunano sia donne che raccontano della loro prima esperienza tramite amiche o amici, sia donne che hanno le prime esperienze con il proprio partner; la curiosità si lega, in entrambi i casi, al desiderio di sperimentare su di sé questi diversi stati di alterazione e condividere anche questa esperienza con gli altri, per alcune come ultimo step di un percorso di sperimentazione ricercato:

"L. mi racconti poi come sei passata da tutte queste droghe all'eroina? M. c'era questo mio amico che usava una volta ogni tanto e... bè io per curiosità penso, per... sì, credo che sarà stato per quello, come per le altre cose; allora ho detto "proviamo", vedevo che comunque lui stava bene, sai io poi in quel periodo stavo molto male perché ero fuori casa e tutto quanto... e ho continuato per un paio di giorni, ho visto che comunque mi faceva star bene, e vabbè, dopo due o tre settimane che usavo ho incontrato quest'altro ragazzo, sono andata a vivere subito da lui, e lui spacciava e ne aveva sempre, quindi..." (Mollie, under 21 anni). "K.Dopo, bè dopo... mi sono un po' staccata da quella compagnia perché iniziavano i primi ad andare a naja, ad esempio 2 che hanno iniziato a farsi del mio gruppo hanno iniziato sotto naja [...], venivan giù dal militare sii miei compagni, avevano portato sta roba, e mi ricordo come fosse ieri il primo giorno che ho tirato, e avevo 17 anni, e so che per me era stato bellissimo, stavo proprio benissimo, benissimo... spiritualmente, non so come dire, proprio una sensazione di pace, di tranquillità, ti senti in pace con il mondo all'inizio. All'inizio... infatti già il giorno dopo mi son detta devo riprovare, e avevo tirato comunque, che è già un'altra cosa secondo me insomma... avevo sniffato [...]. Cosa posso dirti? Che forse è perché poi ti stufi, cioè poi cerchi sempre qualcosa di più di quello che hai già provato, almeno questo valeva per me... poi arrivi a un punto in cui diventa normale fumare, e cerchi qualcosa di più, secondo me, e allora ti sposti sempre più avanti insomma... finché non conosci altro va bene, ma c'erano sii miei amici con cui poi avevo un legame particolare e se loro facevano cose..." (Kimberlee, 36-39 anni). "M. ho cominciato ancora da ragazzina, avevo 16-17 anni nei primissimi contatti con la cannabis... Dopo... girando in compagnie ci si trovava al parco o si conosceva gente nuova, e all'interno di questa gente nuova ho conosciuto anche persone che si facevano, mi son messa insieme a qualche ragazzo che usava e dopo un po' mi è venuta la curiosità di provare anche io insomma L. per te è stata più la curiosità oppure il tipo di rapporto che ti legava a questi uomini? M. mah... un po' tutti e due... curiosità, un po' anche però entrare più in sintonia... non so per entrare proprio in questo mondo [...], più che altro era il fatto che erano ragazzi più grandi, probabilmente vedevo che andavano in giro alle ore che volevano, non avevano regole... e allora mi sembrava una cosa buona visto che io avevo tutta la giornata controllata, avevo il rientro alle 10 e mezza la sera" (Merilyn, 31-39 anni). La frequentazione di contesti e gruppi legati alle droghe può portare ad una sperimentazione opportunistica di eroina, nella misura in cui vi è indisponibilità di altre droghe o la necessità di investire meno denaro per "farsi la serata"; in questi casi, l'incapacità di affrontare una festa o un ritrovo tra amici senza usare sostanze è un motivo più che sufficiente per superare le proprie rappresentazioni negative dell'eroina, confidando anche nel fatto che quella situazione resterà isolata e non verrà ripetuta. "L. mi racconti come sei arrivata a provare l'eroina? J. sì, cioè... alla festa di Mesiano un tipo doveva portarci dei cartoni, sai cosa sono i cartoni? Lsd, però ci aveva tirato un pacco e non si era presentato, e quindi non avevamo niente, e

abbiam detto "cazzo, cioè, a una festa non abbiamo niente" e allora c'era sta nostra amica che fumava già da un po' di tempo, noi siamo sempre stati contro però, ma abbiamo provato lo stesso... io sono stata di merda quel giorno anche perché avevo bevuto tantissimo, continuavo a vomitare, e a un certo punto me ne sono anche andata da sola da Mesiano a Villazzano a piedi, e vabbè... e poi però dopo neanche una settimana ero con sta qua a casa sua e lei voleva fumare e allora "dai che proviamo di nuovo, tanto non ci rimango sotto16, non ci casco"... L. quindi è stato casuale che tu hai cominciato con l'eroina? J. esatto, non c'era nient'altro, non è che avevo pensato "adesso provo l'eroina", c'era, era l'unica cosa, e bon..." (Jacquelin, under 21 anni). "J. [...] e quella sera non c'era altro, capito? Ormai siccome per divertirti avevi bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, quella sera si vede che non c'era altro, è capitato che c'era quello, son arrivati degli amici, io ero a casa da sola, e c'erano la mia migliore amica e il mio ragazzo che eran li dal pomeriggio, arrivano sii altri amici del mio ragazzo con questa, con l'eroina, e non c'era altro; io pensavo portavano altro, invece non c'era altro... vedi, pur di fare qualcosa" (Judith, 22-25 anni). "S. bè, da ragazzina mi piaceva molto organizzare tornei e frequentavo questo locale che non era poi il massimo, poi son venuta a sapere che era frequentato da gruppi di gente di vario tipo, discutibili, e li c'era questo ragazzo che lui certamente non era un tossico, usava solo qualche volta, e io non avevo più soldi per comprare la cocaina, ero proprio a secco... e quindi ho provato con lui l'eroina che costava meno, poi il giorno dopo l'ho riprovata... All'inizio e per anni l'ho solo sniffata, poi ho conosciuto un altro ragazzo e di li ho cominciato con altro" (Sherylin, 31-35 anni). Non è infrequente, inoltre, che la prima sperimentazione di eroina sia intenzionalmente ricercata per placare gli effetti eccitanti indotti da altre sostanze psicoattive, come la cocaina o alcune droghe sintetiche. Questa motivazione viene spesso affiancata al primo gruppo di ragioni che si sono viste più sopra, ovvero alla curiosità e all'esigenza di condividere questa ulteriore esperienza con gli amici; inoltre, viene addotta più frequentemente da tutte coloro che hanno avuto un periodo di consumo massiccio di droghe eccitanti nelle loro frequentazioni di rave, discoteche e parties, sostenendo che la prima occasione di consumo di eroina, come le reiterazioni successive, sono derivate proprio dall'esigenza di contrastare l'eccessiva euforia derivata dalle abbuffate di droghe nel corso delle serate. "A. ah, io ho iniziato prestissimo con la droga, a 17 anni... ma con la cocaina, a parte che è sempre droga anche la cocaina, ma io ero nella convinzione che la cocaina non era droga e l'eroina invece sì. Fino a 40 anni ho usato cocaina, dal giorno alla notte ho iniziato eroina a 40 anni... dal giorno alla notte, per una cazzata: una sera stavo male, avevo fatto uso di cocaina, mi sentivo male, ero in un locale, volevo chiamare l'ambulanza e il proprietario "ma no, non chiamare l'ambulanza se no succedono dei casini, vieni da basso che ti faccio fumare e ti passa tutto". E li è finita la storia... ho lasciato perdere la cocaina e ho iniziato con l'eroina [...] non ho assolutamente fatto fatica a smettere con la coca perché ho subito tamponato con l'eroina, che era la droga che io cercavo [...]. Conoscendo l'eroina mi ha dato una pace... finta, perché giustamente è una pace finta, però in quel momento mi ha dato una tranquillità che

nessun'altra droga... infatti dicono tutti che lo sballo dell'eroina è il più bello in assoluto di tutti perché ti fa andare in una dimensione di tranquillità, sei proprio..." (Agnes, over 45 anni). Se, nella maggior parte dei casi, non è possibile rinvenire nelle ricostruzioni a posteriori dei primi contatti con l'eroina una elaborazione riferibile a eventuali disagi psicologici o problemi relazionali [Faccioli, Quargnolo 1987], vi è un piccolo gruppo di donne (16, per la precisione) che fa riferi mento all'esplicita finalità auto-distruttiva o auto-terapica di tale comportamento; la ricerca dell'eroina è avvenuta, per loro, per la conoscenza dei suoi effetti calmanti e, in qualche caso, per la ricerca di una sorta di autodistruzione personale a fronte di uno stato di malessere e depressione causato da eventi personali particolarmente traumatici (rottura di relazioni importanti, violenze o abusi, cattivo rapporto con i genitori, ecc.). In questo caso si ritrova una certa assonanza e sintonia con le rappresentazioni precedenti della sostanza e dell'eroinomane e la decisione di ricorrervi: si può affermare che gran parte di queste donne erano perfettamente consapevoli sia degli effetti positivi dell'eroina sia del suo elevato potere additivo e del rischio connesso all'instaurazione di una dipendenza, dunque alcune hanno privilegiato i primi per l'incapacità di affrontare in altro modo il proprio dolore, altre l'hanno ricercata proprio per il desiderio di potersi annientare, qualunque fossero le conseguenze a lungo termine: "K. [...] erano successi episodi di violenza con mio padre [...]. Ecco io dapprima non me ne ero accorta, perché lui mi diceva "guarda, io ti insegno come si fa", e quindi pensavo che fosse normale; dopo invece ho capito che si trattava di abuso, insomma. E niente, quindi di li ho iniziare a bere... avevo 13 anni, vabbè era l'estate quindi compivo i 14 anni, toh... A questo è seguito che io continuavo a lavorare, di qui e di li, e però quando ho capito che non era una cosa che lui poteva fare [.. .]; l'eroina l'ho cercata... tra il resto io ho sniffato per molto, però l'eroina l'ho cercata proprio col senso di farla finita perché sapevo a cosa andavo incontro, sapevo cos'era, tutti i miei amici dicevano "neanche morta un tossicodipendente in parte" per cui sapevo cos'era e sono andata a cercarla per farla finita perché non ne potevo più..." (Kate, 40-45 anni). "C. [...] ho avuto un paio di esperienze amorose brutte, una dai 20 ai 23 anni e l'altra dai 23 ai 26, tutte e due storie di tre anni, in cui da un giorno all'altro loro mi hanno lasciato per un colpo di fulmine, tutti e due, e allora io mi son chiesta "ma scusa, allora io non mi sono proprio mai accorta di niente?" perché io andavo sempre in ferie con i miei e quando tornavo, sia la prima che la seconda volta, "ah, ho conosciuto una tipa in discoteca e quindi ti lascio"... ma anche dopo aver fatto progetti di matrimonio! E allora mi son trovata proprio spiazzata e ho iniziato a usare la cocaina [...], ho iniziato anche a bere, a bere superalcolici, perché mi sentivo... anche se ero una bella ragazza dicevo "ma come mai ho avuto due storie serie, tutti e due innamorati di me e tutt'a un tratto se ne vanno", pensavo di avere qualche problema, poi anche sul lavoro mio papà -ti ho detto - mi opprimeva [...]. 4 anni fa ho anche cominciato con l'eroina, proprio, a 32-33 anni [...]. Forse non mi piaceva più come stavo vivendo, mio papà che mi assillava, mi sentivo rifiutata da tutti, tutte queste situazioni mi hanno fatto cominciare con l'eroina, secondo me" (Celeste, 36-39 anni). In tutti questi casi, dunque, la decisione di sperimentare eroina costituisce un atto intenzionale motivato dalla ricerca di stati di benessere che si crede non sia conseguibili in altro modo; in

alcuni casi questa motivazione è affiancata dalla necessità di cambiare completamente identità, soprattutto per quelle donne che sentivano che l'etichetta di "brava ragazza" o di "figlia modello" non si addiceva loro. In seguito alle prime incursioni nel mondo della droga, alle sperimentazioni delle diverse sostanze, alla comprensione delle modalità di funzionamento e di relazione esistenti e alla crescita delle affinità con queste persone, per queste donne l'eroina costituiva la chiave d'accesso all'acquisizione di una identità completamente opposta a quella vissuta fino a quel momento: "J. bè, allora, a 17 anni ho iniziato con l'eroina... già prima mi fumavo le canne, bevevo, ma non penso che quello sia stato un fattore che ha inciso, cioè ero tranquilla, mi fumavo le mie canne, bevevo l'alcol... poi a un certo punto avevo il mio ragazzo, ma ero proprio una ragazza tranquilla, così, a 15-16 anni fumano tutti le canne, anche a 15 anni e niente avevo il mio ragazzo, andavo a scuola, avevo le mie amiche, stavo bene, ero una ragazza normale. Poi, io abito a *, comunque è un posto piccolo e ultimamente sta diventando proprio un covo di drogati, e anche prima era veramente un brutto posto per vivere, ci sono tanti giovani e quasi tutti strani, c'è tanto spaccio insomma, ci sono tante possibilità a * per drogarsi. E io stavo passando un periodo proprio di merda, sono sempre stata una con un sacco di turbe mentali, che si fa un sacco di domande, un sacco di problemi [.. .]; a un certo punto è andato via il ragazzo che avevo, e io mi sono riavvicinata al mio ex, con il quale avevo cominciato tra l'altro a fumarmi i cannoni e tutto quanto, e avvicinandomi a lui mi sono avvicinata a tutta una serie di altre persone tossicodipendenti, che però lo nascondevano. E Dio vuole che quello stesso anno sono andata a lavorare in una pizzeria d'estate, e c'erano 2 camerieri tossicodipendenti; io sono entrata il venerdi, sabato e domenica ho fatto amicizia con loro, lunedì ero nei cessi della stazione a fumarmi la mia prima stagnola, il 16 o 17, non ricordo... e niente sono andata li e ho fumato con loro [...] L. e in quel momento cos'è che ti ha fatto dire "va bè provo"? J. il fatto che forse volevo iniziare una nuova vita, volevo una nuova vita, sì, e la volevo così, perché comunque era ancora il periodo in cui ancora non c'era tutto sto boom, e adesso li vedi tutti al Seri per esempio, quindi ancora era una piccola nicchia, erano nicchie ristrette di gente in cui comunque dovevi usare per entrare" (Jodie, under 21 anni). Infine, una attenzione particolare merita la discussione del ruolo avuto dal partner nell'iniziazione all'eroina in quanto spesso la letteratura, per sostenere il ruolo passivo della donna in coerenza con lo stereotipo tradizionale della femminilità, ne ha esaltato l'influenza esclusiva', come prova il brano riportato in apertura del capitolo precedente. L'analisi delle storie di vita ha permesso di accertare che in questo primo gruppo di donne, che hanno acceduto all'eroina con una modalità d'uso meno traumatica rispetto alla via parenterale, si ritrovano 14 donne che hanno in qualche modo subito l'influenza di un partner che aveva precedentemente sperimentato tale sostanza. Nella maggior parte dei casi, come si è anticipato più sopra e come emerge nella letteratura sul tema [Rosenbaum 1979, 1981; Rosenbaum, Murphy 1990; Taylor 1993], il partner ha avuto semplicemente la funzione di rendere loro la sostanza socialmente accettabile e oggettivamente disponibile, fungendo anche da medium nell'apprendimento delle

capacità e delle conoscenze necessarie per consumarla e riconoscerne gli effetti, dunque il suo ruolo non si differenzia sostanzialmente da quello giocato in altri casi dal gruppo di amici. I casi nei quali è la particolare forma della relazione amorosa ad influenzare direttamente la decisione di sperimentare eroina si limitano a due, presentati di seguito: "M. ...avevo il mio ragazzo che si bucava, ho fatto lotte infinite per farlo smettere, ci son stata per 4 anni e mezzo con questo ragazzo, e usavamo un po' tutte le sostanze... cocaina e tutte le altre sostanze... e però il rapporto era diventato bruttissimo perché mi picchiava e nonostante tutto io non riuscivo proprio a piantarla li... L. ma tu l'avevi cercato proprio perché sapevi che si drogava o te ne sei innamorata prima? M. mi sono innamorata e l'ho saputo dopo... sai è un mio gran problema non riuscire a gestirmi e controllarmi, se io voglio una cosa mi faccio influenzare, dovrei ecco cercare una via per riuscire a fregarmene degli altri e fare da sola L. questo però dopo quando l'hai provata; prima c'è stata una lotta perché volevi farlo smettere, dicevi? M. sì, sì, volevo farlo smettere, era tutto più facile se cominciavo io [...]. Le altre droghe per me erano un divertimento, con l'eroina poi invece no, avevo iniziato a fumare perché non riuscivo a tirare fuori lui e quindi... mi sembrava più facile in quel momento iniziare io che far smettere lui [...]. I miei genitori sapevano che stavo con quel ragazzo e sapevano cosa faceva, io gli dicevo "no, io lo voglio tirar fuori, io sono innamorata, so che con me sicuramente con un po' di pazienza può uscirne" e così... ma loro appunto sono persone molto all'antica, e io avevo anche cominciato a non andar più a scuola... e allora avevo cominciato poi a raccontargli bugie su bugie, lavoravo per mantenere anche lui [...]" (Margareth, 22-25 anni). "S. bè, io l'eroina l'avevo già conosciuta perché altri ragazzi che giravano con noi la usavano, la fumavano, la tiravano, e io ho sempre detto no, però dopo, quando ho provato, li ero proprio innamorata.... L. e dicevi a loro di non farlo? S. eh sì, perché dopo succede quello che veramente è, cioè che ti rovina, lo sapevo già da prima [..] L. quello che vorrei capire di questo passaggio all'eroina è che cosa è stato di questa relazione con sto ragazzo che ti ha fatto dire "provo" S. eh, a dirti il vero non lo so... cioè io mi sono innamorata tanto, stavamo bene... poi sai, me lo dice sempre mia mamma che ho la sindrome della crocessina! Forse è vero, perché all'inizio... anche quando ha cominciato a farsi, che sapeva io non volevo, certo sono andata avanti perché ho pensato "magari per me smette", e invece chiaramente non è stato così, anzi per lui ho iniziato io insomma L. ecco, ma tu quando ti sei messa con lui sapevi che usava? S. no no, all'inizio non lo sapevo che usava, dopo quasi subito sì, però la tirava, io avevo provato a tirarla, e bon... e lì, cioè... nel senso che se volevo dire di no lo potevo dire, avevo voluto provarla perché lo volevo

L. però per il buco poi mi hai detto che era stato lui a dirti "se non lo fai vado a farlo con un'altra", quindi non avevi molto margine di scelta... S. no, me l'ha detto più volte, infatti avevamo litigato molto, ma anche li avrei potuto dirgli di no, che non lo volevo fare, vai con un'altra... e però ero innamorata, è per quello che non l'ho detto e che alla fine ho provato; se tornassi indietro adesso come adesso ovvio che glielo direi" (Shirley, 26-30 anni). Nonostante le loro resistenze iniziali, Shirley e Margareth hanno ceduto alla sperimentazione dell'eroina dopo una serie di tentativi malriusciti di far desistere il loro partner dall'usare la sostanza, spinte da quello che entrambe definiscono "lo spirito della crocerossina" (denominato in letteratura complesso di Cenerentola [Dowling 1982]), ovvero proseguire in una relazione sentimentale distruttiva per il desiderio di farsi carico - e risolvere - i problemi di un partner coinvolto nella dipendenza da sostanze psicoattive. Al di là delle possibili interpretazioni psicanalitiche, ben esposte in Norwood [1993], questo atteggiamento è perfettamente consonante con la socializzazione al ruolo femminile che investe la donna delle funzioni di cura nelle relazioni; inoltre, si lega anche ad un concetto di amore "romantico" e incondizionato, tra l'altro fortemente radicato nella tradizione cattolica, che porta le donne a sottovalutare i possibili rischi di questo tipo di relazioni nell'idea che il proprio amore e la propria dedizione costituiscano una possibile salvezza per l'altro. Nel corso dell'intervista ad uno dei miei informatori chiave, questo atteggiamento viene considerato come una normalità per il genere femminile: "La donna tende a legarsi a uomini tossicodipendenti per il suo spirito da crocerossina... l'educazione affettiva e la socializzazione ai ruoli impone in qualche modo alle donne di avere questa idea di poter salvare con il proprio amore anche un tossicodipendente. Per cui, si lega a quest'uomo inizialmente per poter sperimentare questa missione salvifica; poi, non riuscendoci, e comunque pensando che l'amore equivalga alla negazione totale di sé e significhi condividere tutto, anche esperienze di questo tipo, provano anch'esse ad usare le sostanze, cadendo rapidamente nel vortice della dipendenza... e anzi, sono forse più dipendenti dai loro uomini che dalla droga" (Joshua, 56 anni). Come sottolineano i professionisti sanitari, però, almeno in riferimento al momento dell'accesso alle droghe, anche questo aspetto deve essere messo in relazione con i cambiamenti generazionali nella condizione della donna e nei modelli di femminilità trasmessi: "Qui però si parla delle donne che adesso possono avere 30-40-50 anni, quindi dipendenti da eroina ma prima di quello dipendenti da relazioni che sono relazioni patologiche, sono donne che soffrono e che restano aggrappate a quel modello culturale trasmesso di amore totale, di stampo cattolico. Vedi la Norwood. Io ho fatto lavori basandomi su questo libro, e le mie donne si riconoscevano in questo, ora sulle nuove leve è un po' difficile da trovare... qui cosa c'è? Dipendenza da tutto? Non so. La codipendenza la ritrovo in queste fasce di età più avanzata, delle over 30 o forse over 40" (Stefania Calmasini). "Considera che... è vero, prima c'era una frequenza minore di tossicodipendenti donne per il giudizio della gente, una minor possibilità di condividere su un piano di parità le esperienze e quindi quelle che avevano il coraggio di stare con i gruppi di tossici erano proprio ancor più

tossiche; oggi viene messo su un piano diverso secondo me... quindi una volta forse le donne che ci arrivavano facevano questo passaggio per il fidanzato bello e maledetto, che volevano in qualche modo redimere con il loro amore e rimanevano poi invischiate, diciamo che quella però era una forma di colpevolizzazione dell'uomo che funzionava come giustificazione... adesso con questa idea ludica dell'uso di sostanze e con la donna emancipata, non c'è più bisogno del maledetto per provare, possono provare anche in altri contesti" (Pietro Gianfranceschi). Questi temi verranno ripresi successivamente poiché sebbene a livello quantitativo giochino un ruolo limitato nell'accesso all'eroina da parte delle intervistate ascoltate in questa sede, di fatto si ripresentano lungo tutto l'arco della carriera tossicomanica sotto altre sembianze. 3.2 Il consumo "hard" Il secondo punto che ci si è proposti di comprendere si riferisce al passaggio all'uso endovenoso, avvenuto per 32 delle donne intervistate in seguito a sperimentazioni precedenti per altre vie18 e per 8 donne come prima e unica modalità di accesso all'eroina; un passaggio che richiede, come si diceva, un ulteriore superamento dei propri pre-giudizi, sia in merito all'equiparazione del "buco" alla condizione di tossicodipendenza sia all'oggettivo timore dell'iniezione e che ha avuto conseguenze piuttosto rilevanti, come si vedrà, nel rapporto successivo delle donne con la sostanza. Nella realtà, l'interpretazione dell'uso iniettivo come «passaggio di status» [Taylor 1993] in questa fase viene a perdersi per ragioni legate alla contingenza delle situazioni, per venire ripresa solo successivamente a dipendenza instaurata. In sostanza, le intervistate ne avevano una tale opinione prima di sperimentare eroina, in un momento in cui non si era ancora verificata una reale esposizione a persone che usavano questa modalità d'uso, grazie alla funzione protettiva del gruppo, ai processi di differenziazione e ai meccanismi di esclusione attivati verso questa "categoria" di persone. Come si è sottolineato precedentemente, con gli stessi meccanismi di "ricambio" della composizione del gruppo descritti più sopra, queste donne raccontano che pian piano hanno cominciato ad apprendere che alcuni co noscenti avevano sperimentato il buco ed alcune avevano assistito per lungo tempo ai loro rituali; sebbene in questa fase non costituisca ancora un comportamento ritenuto potenzialmente esperibile, è evidente che l'esposizione a persone che lo praticano, l'affinità e la stima reciproca costruite nel tempo, come il fatto di vedere gli effetti psicotropi dell'eroina amplificati dall'uso della siringa (il cosiddetto flash19), facilitano un processo di progressivo avvicinamento alla potenziale sperimentazione su di sé20: "M. bè, prima la tiravo sempre in compagnia; ho iniziato solo ultimamente... gli aghi mi facevano impressione onestamente, mi giravo dall'altra parte quando vedevo gente che si bucava L. e come hai fatto a superare questa impressione che ti faceva? M. più che altro continuando a vedere gente... è diventata una cosa talmente normale che

probabilmente... cioè all'inizio, anche quando ero ragazzina, tiravo la mia riga e gli altri andavano in bagno perché sapevano che a me faceva impressione. E dopo ho cominciato a vedere gente che girava per casa così... e a forza di vederlo è diventata una cosa normale insomma..." (Merilyn, 31-35 anni). "L. ti ricordi come eri passata poi dallo sniffo al buco? D. quando sei nel giro non ci vuole molto... vedevo gli altri e un bel giorno ho deciso di provarci perché mi sembrava una cosa diversa, cioè mi sembrava che loro che lo facevano stessero molto meglio... eh sì! Un po' impari anche per imitazione, guardi, poi qualcuno le prime volte ti mostra ad esempio come fare per capire se lascia i fondi... impari un po' sulla tua pelle L. ecco ma... prima di iniziare cosa pensavi delle persone che facevano uso di eroina? D. non ce ne erano tante all'epoca, sai? Era una cosa talmente ristretta che era anche quasi difficile conoscerle... però sì, avevo il terrore, il terrore di quello che si sentiva dire in giro che i tossici muoiono presto e cose simili, e poi non so quale meccanismo mi è scattato a un certo punto, è come se pian piano queste paure venissero sostituite, non sostituite ma... cioè come se inizi poi a pensare giusto giusto ad oggi e a domani perché comunque sai che vivrai poco... è un filo di Arianna che devi per forza tirar su, nel senso che se entri in questo meccanismo magari prima o poi mediti ma quando sei dentro non te ne rendi conto" (Darla, over 45 anni). Dunque, se ci si limita al gruppo di donne che hanno precedentemente sperimentato in altre forme l'eroina, la curiosità, la voglia di condividere anche questa esperienza con l'amico, l'amica o il partner e il desiderio di sperimentare un'ulteriore modalità di consumo oltre a quelle già conosciute rappresentano le motivazioni che ricorrono anche in questo passaggio; ma con una differenza rispetto alle prime occasioni di consumo di eroina, ovvero la riservatezza con cui viene fatta questa esperienza, dunque il superamento del "gruppo" nella sperimentazione endovenosa e della funzione aggregativa della droga [Rosenbaum 1979, 1981]. Non a caso, ben 16 delle intervistate sostengono che le prime esperienze di uso endovenoso sono avvenute con il proprio partner e 14 tramite l'amico/a del cuore (solo 2 donne l'hanno sperimentata da sole), comunque in situazioni di segretezza rispetto agli altri componenti del gruppo probabilmente per una maggiore facilità nel superamento delle proprie riserve iniziali circa il buco, il mantenimento di quella chiara differenziazione appresa nel gruppo tra chi usa eroina e chi se la fa, ma soprattutto la conservazione di una certa immagine di sé, come si evince dalle parole di Sophie: "S. però... io ero diversa perché a me non piaceva farmi in compagnia, cioè io prendevo e andavo da un'altra parte perché non mi andava di farmi con loro tutti insieme, proprio... adesso non lo so, vedevo che comunque spesso gli uomini del gruppo si facevano tutti insieme proprio come fosse un rito, io no, mi sembrava... mi sentivo sporca... cioè ero sporca lo stesso facendomi a casa, ma mi dava un senso diverso" (Sophie, 40-45 anni). A ciò si aggiunge un ulteriore particolare importante: una parte rilevante delle donne pervenute al buco in seguito al consumo di eroina per altre vie era già giunta ad una fase di coinvolgimento notevole con la sostanza; per alcune, tale coinvolgimento è avvenuto molto lentamente (diversi mesi o addirittura anni) aumentando progressivamente nel tempo le quantità

consumate, mentre per altre si è verificato da subito per le grosse quantità assunte quotidianamente. Dunque, questo coinvolgimento ha permesso che venisse a cadere quel timore di diventare dipendenti dalla sostanza che originariamente queste donne manifestavano, e lo scalino dell'iniezione poteva essere affrontato senza riserve proprio per amplificare gli effetti della sostanza esperiti fino a quel momento, per sperimentarne di nuovi o per ricercare gli stessi effetti ormai non più conseguibili con altre modalità d'uso a causa dell'assuefazione dalla sostanza. In aggiunta a queste considerazioni vi sono motivazioni più strumentali e pratiche: questo coinvolgimento massiccio con la sostanza implica un elevato dispendio di denaro, in quanto le modalità d'uso alternative alla via iniettiva implicano maggiori quantità di eroina necessarie ad ottenere effetti più limitati: il ricorso all'uso endovenoso era dunque dettato dalla necessità di consumare quantità inferiori di eroina riducendone così i costi complessivi [Taylor 1993; Small et al. 2009]: "K.Da li tutte le settimane... anche perché io non lavoravo e i costi eran più alti per cui finché era un po' di fumo riuscivo un po' a barcamenarmi, qualcosa mi davano anche i miei, ovviamente loro non sapevano... io ho studiato comunque, ho fatto la scuola * e riuscivo a starci dentro, fino ai 19 anni son riuscita a starci dentro anche con la roba insomma... avevo già iniziato comunque a farmi, ho tirato per circa 6 mesi, dopo ho iniziato a farmi perché appunto loro sempre han detto "dai che proviamo" perché ci voleva sempre più roba e insomma infatti a fartela in vena riuscivi a consumarne la metà" (Kimberlee, 36-39 anni). "M. incominci un po' perché lo fanno tutti, e un po' perché logicamente più passa il tempo meno la senti se la fumi solo, perché i primi tempi se ti fai una stagnola la senti tantissimo, pian piano arrivi a sentirla sempre di meno, poi a farti te ne serve anche di meno e quindi dici "va bene"; ti rimane più in corpo, te ne serve di meno e quindi incominci a farti, è proprio una questione pratica. Poi lo fanno tutti e... quando cominci a usare tanto la roba... sembra anche una cosa normale ecco, si fanno tutti e quindi..." (Morgana, 26-30 anni). La decisione di sperimentare l'uso endovenoso di eroina può trovare fondamento nella relazione sentimentale intrattenuta con un partner tossicodipendente. Anche in questo caso, sono poche le situazioni in cui la relazione in sé e le sue modalità espressive vengono considerate dalle intervistate come causa diretta del proprio comportamento. Riporto due esempi, a tal proposito: il primo è un estratto di un racconto appassionato di Ginette, pervenuta al buco senza sperimentare il consumo di eroina con altre modalità di assunzione, nel quale viene mostrata una sorta di competizione con la sostanza determinata dalla discrasia tra l'elevato coinvolgimento del partner nella sua relazione con l'eroina e un coinvolgimento nella relazione di coppia percepito come limitato, subordinato; la curiosità è derivata dall'esigenza di comprendere il motivo per cui la prima viene privilegiata a scapito della seconda e dal desiderio di partecipare a quel mondo da cui si viene escluseti. "G.Io ho conosciuto il mio compagno di allora con cui son stata parecchi anni e a parte la

sciocchezza di pensare che io l'avrei tirato fuori, di nascosto ho provato, ho comprato una busta da 5 mila lire e ho provato a farmi... prova a immaginarti! Non è semplice farsi un'endovena se non sai come fare... Tu hai un nemico, metti caso, tuo marito ti tradisce con un'altra donna... quindi a un certo momento tu hai un marito che ti tradisce con un'altra donna, sei curiosa, vai a guardare questa donna e quando lo scopri vedi che è bella, è ricca, è giovane perché ha 30 anni meno di te, e allora tu dici "va bene, che cosa mi manca perché lui debba andare con un'altra?"... Perché questo te lo chiedi a un certo momento. E allora quando tu la conosci puoi anche confrontarti [...] sennò è come confrontarti con un fantasma, con una donna morta... e guarda che tirar giù un fantasma è dura, non è metterti a confronto con qualcosa di reale, mettersi a confronto con una morta o mettersi a confronto con l'eroina... "Cos'è che ha sta eroina che lui non mi guarda, tutto è concentrato a reperire i soldi, trovare l'eroina, farsela, preparare cucchiaini, buste..." Allucinante perché aveva il cucchiaino sul comodino! Ti devi confrontare con qualcosa che non c'è, perché noi ce l'abbiamo un po' come i bambini che dobbiamo provare per forza, dobbiamo sbatterci la faccia per capire [...] Era gelosia la mia! Poi io volevo cercare di capire, una cosa la conosci solo se cominci a vedere... sull'eroina negli anni Settanta non c'era nulla di scritto, non è che potevo mettermi a studiare, a leggere, a tirarmi fuori i libri... non c'erano tanti riferimenti, i riferimenti erano gli Stati Uniti e in quel momento c'era la musica, la poesia, la musica di Lou Reed, ti ho detto di quella canzone... hai capito? [...] Allora quando un uomo preferisce una pera [una siringa di eroina, n.d.r.] a un orgasmo ti domandi "cazzo, cos'ho che non funziona?" [...] in quel momento ti chiedi perché preferisce lei a te, perché ti nega come donna, come donna che magari ha bisogno di questo uomo, del sesso [...]. E quando l'ho fatto, ho capito perché lui era così preso [...] L. e poi con lui hai condiviso questa esperienza? G. dopo. Mi ha dato una sberla. Sono andata a dirgli... ho tirato fuori il suo cucchiaio e tutto quanto e gli dico "voglio farmi anch'io con te, dammene due righe" e lui si gira "come? Cosa? Sei matta?" e mi tira uno schiaffo. E io gli dico che l'avevo già fatto, e lui "come? Quando? Tu devi esser pulita!" e io dico che voglio farmi, lui diceva che io non ne avevo bisogno e lui sì" (Ginette, over 45 anni). Il secondo esempio, tratto dall'intervista con Bridget, riprende questa motivazione con sembianze un po' differenti, in quanto il primo episodio di uso endovenoso costituisce una forma di rivalsa nei confronti del partner, con il quale aveva condiviso tutta l'esperienza drogastica precedente ma era stata poi esclusa dalla sperimentazione endovenosa della sostanza: `B. il motivo era stato... almeno, io non voglio giustificarmi con questo, ma era stato il ragazzo con cui stavo... Sai, eravamo insieme da 4 anni e avevamo sempre condiviso tutto... anche la roba, non è che la fumassimo così tanto, giusto il weekend, però era una cosa che facevamo insieme... e allora, una mattina lui si è alzato per andare al lavoro, ma io non avevo sentito la macchina andar via perché io dormivo ancora, non lo sentivo andar via. Mi sono accorta che si era alzato verso le 7 di mattina ma non l'ho sentito andar via alchè ho detto "boh è successo qualcosa"... ma non lo trovavo in casa e c'era la camera con la luce accesa e c'era la porta del solaio aperta... io sono andata su e lui era li con la siringa nel braccio. Il giorno stesso lui è andato al lavoro, e il giorno stesso ho provato anche io... non so perché, mi

era salito un nervoso... I. ma te l'eri presa per che motivo? Perché lui l'aveva fatto da solo senza coinvolgerti? B. probabilmente perché mi sentivo tradita... probabilmente mi sono sentita tradita e... perché facevamo sempre tutto insieme, e non me lo sarei mai aspettata da lui, cioè non... non avrei mai potuto pensare una cosa simile, quando me lo sono visto davanti per me è crollato tutto... perché lui parlava appunto degli altri, e diceva "guarda che roba, non si può arrivare in quello stato"... La voglia di andare a farsi e provare c'era sempre comunque, a tutti viene con lo stesso percorso più o meno... ma ecco, lui diceva così di queste persone, per cui io... boh, era una falsità che lui ha... dicevo, "parli parli parli parli ma poi fai tutto... così, di nascosto" [...]. E lui aveva detto che aveva paura di coinvolgermi in questa cosa [...] ma ti giuro avevo proprio iniziato a bucarmi, da sola, perché era stato talmente forte il tradimento... tradimento per tutti i discorsi che ci eravamo fatti, perché non aveva condiviso con me questa cosa.... e avevo automaticamente pure superato quello schifo per la siringa, così, in un attimo... perché alla fine mi aveva fatto sempre impressione la cosa di infilarsi un ago nel braccio, non è una cosa che fai così a cuor leggero, e di li poi pian piano è diventata una cosa naturale..." (Bridget, 3639 anni). Se ci riferisce al gruppo di donne che hanno iniziato subito a consumare la sostanza per via endovenosa (5 delle quali iniziate dal partner), si rinvengono, come già discusso, 3 ordini di motivazioni: l'attrazione verso uomini trasgressivi e il desiderio di farsi accettare da loro, di essere considerata una donna degna di attenzione e di poter allacciare una relazione sentimentale; la volontà di cambiare identità e diventare una tossicodipendente a tutti gli effetti; la motivazione auto-terapica. Infine, è d'obbligo una precisazione: in tutti i casi analizzati la decisione di sperimentare l'uso endovenoso di eroina è da interpretarsi come un atto intenzionale delle donne, certo con motivazioni molto complesse e in alcuni casi parzialmente congruenti con gli stereotipi tradizionali sulla femminilità, ma sicuramente non riconducibili ad una loro presunta passività [Rosenbaum 1981; Small et al. 2009; Taylor 1993]. Questo può essere suffragato da alcune semplici considerazioni circa la natura delle relazioni che si stabiliscono tra i membri del gruppo e, soprattutto, nei legami di coppia. E noto che, in virtù della complessità delle operazioni implicate nel rituale iniettivo22, l'iniziazione all'uso endovenoso avviene sempre tramite una persona già esperta, indistintamente per uomini e donne; il novizio può, dunque, apprendere al meglio tale sequenza di operazioni solo tramite un'esperienza diretta sul proprio corpo e tramite la sua reiterazione nel tempo23. Generalmente, come osservano Rosenbaum [1981] e Taylor [1993], gli amici o il partner che hanno già fatto esperienza dell'uso endovenoso hanno spesso un atteggiamento protettivo nei confronti di coloro che non l'hanno ancora usata, per evitare loro tutte le conseguenze negative cui porta la dipendenza dall'eroina. Questo senso di protezione è particolarmente accentuato nelle relazioni di coppia, in quanto la condizione di dipendenza dell'uomo richiede che al suo fianco ci sia una persona lucida, in grado di provvedere sia alle normali attività di cura che alla sua sopravvivenza economica e materiale, mentre essere tossicodipendenti in coppia comporta un dispendio di denaro certamente più difficile da

sostenere [Rosenbaum 1979, 1981]. Per tale ragione, spesso nelle ricostruzioni delle intervistate viene sottolineata una reazione assolutamente negativa del partner alla scoperta dei loro contatti con la roba24, come Si è riportato più sopra nel brano di Ginette. 3.3 Il buco "evitato" Le donne che non sono mai pervenute all'uso endovenoso di eroina (o di altre droghe) nella loro carriera tossicomanica sono nel complesso 14; in prevalenza sono ragazze di giovane età, in quanto al momento dell'intervista 6 hanno meno di 21 anni, 3 dai 21 ai 25 anni e 2 dai 26 ai 30 anni, mentre solo 3 hanno un'età superiore ai 35 anni. In virtù della considerazione precedentemente avanzata circa la motivazione strumentale ed economica del ricorso al buco (minori quantità di roba necessarie, dunque minore investimento di denaro), ho provocatoriamente chiesto a questo gruppo di intervistate se consideravano questo passaggio possibile anche per loro, per verificare la tenuta dei significati simbolici iniziali di cui erano investiti il tossicodipendente e la siringa. Si tenga presente che, al momento dell'intervista, tutte avevano preso coscienza della propria dipendenza dalla sostanza e avevano avuto modo di comprendere che questa condizione deriva dalla sostanza, più che dalle modalità d'uso: dunque, la prima rappre sentazione stereotipica che equipara il tossicodipendente a chi si inietta eroina era già stata abbattuta. La seconda rappresentazione, al contrario, riferita alla paura della siringa e dell'iniezione nelle vene, viene addotta come ragione principale al mancato passaggio al consumo per via parenterale: "C. non c'è poi sta differenza, cioè un po' sì ma non tanta, da come la usi l'eroina, se te la fai in vena o la fumi poi i sintomi son sempre quelli, allora io poi avevo sempre soldi e quindi io comunque la fumavo sempre... quando te la inietti ne risparmi comunque un pochino perché a fumarla ne sprechi un po' magari. Poi per arrivare a quel livello di fattanza che sei proprio fatto, a fumarla devi fumarne di più quando invece con la siringa magari ti basta quella che ti arriva subito il flash, mentre a fumarla ti arriva dopo un po' L. tu però hai detto che non hai mai provato a farti in vena... C. no, però lo so perché ne ho parlato insomma, la so la differenza L. e cosa ti ha impedito di farlo? C. io avevo paura degli aghi, anche se mi son fatta intramuscolo, però io son sempre stata contraria a quello perché ho detto... "già sono fatta nera, se poi arrivo a li"... non avevo voglia di far quel salto di qualità diciamo. Adesso me la fumo, piuttosto me ne fumo 7 gr. al giorno però non me la inietto" (Carolyn, under 21 anni). "L. comunque è vero che... all'inizio io conoscevo solo queste due persone grandi che lo facevano, ma poi ho saputo più tardi che tante persone con cui uscivo e la fumavano adesso sono passati alle siringhe, mi è capitato pochi giorni fa di incontrare una ragazza che adesso avrà 19 anni che usciva con noi, e che la vedevo stra-fatta, e poi mi hanno detto che adesso si buca, magari se avessi continuato a girare con loro pian piano sarebbe diventato normale anche per me, questo non lo so, ma io mi sono fermata prima. Poi dicono anche che passano a questo perché non la sentono più fumandola, o anche perché servono meno soldi... Ma non so,

a me farebbe proprio paura, questo ti mette anche in pericolo di vita, vuol dire che non ti interessa neanche più di poter morire, e anche proprio schifo la siringa..." (Loren, 22-25 anni). "K. avevo visto anche il ragazzo di questa mia amica che alla fine era arrivato al punto di bucarsi perché con la siringa ne sprechi di meno, è vero questo, ma non parlarmi di siringhe perché mi fa impressione solo il fatto di andare a fare i prelievi di sangue, quasi non ci vado perché mi fa proprio schifo pensare che mi infilino qualcosa... cioè forse non schifo, non so come spiegare... L. mi hai detto che avevi un'avversione nei confronti delle siringhe anche perché avevi davanti l'immagine di questo tuo parente, secondo te ci saresti potuta arrivare se avessi continuato a fumarla? K. all'inizio sì, pensavo proprio a lui, però appunto poi ho iniziato lo stesso con l'eroina, ma non è per questa immagine, sono proprio le siringhe che mi fanno impressione, non riuscirei proprio, almeno penso, cioè, mi fa impressione e non ci ho neppure mai pensato... neanche di..." (Kimmie, 26-30 anni). A volte a questa motivazione si unisce una sorta di istinto di autoconservazione, in quanto si percepisce il passaggio alla siringa come un ultimo stadio nella carriera di consumo delle droghe, che mette a dura prova anche il fisico esponendolo a segni visibili e ad ulteriori conseguenze negative (come la contrazione di malattie infettive). E interessante evidenziare che se questo passaggio può essere considerato come "evitato" sul piano concreto dell'azione, in alcune delle intervistate si è comunque caratterizzato in forma di pensiero, come un gesto potenzialmente esperibile: "S. [...] perché ho sempre avuto un terrore, ho sempre avuto un terrore degli aghi, del fatto di iniettarmi proprio dentro, poi da piccola ho avuto un'esperienza un po' cosi perché ero con i miei genitori, stavamo tornando a casa e io stavo per pungermi, ero piccola avevo 7 anni, e quindi anche quello forse mi ha un po'... non lo so... e anche li ho cominciato ad avere proprio questo terrore L. ma ti sei trovata in situazioni in cui c'erano persone che lo facevano? S. sì sì, ma non mi ha proprio neanche sfiorato il pensiero L. e se fossi andata avanti ad usare eroina secondo te ci saresti arrivata? S. io adesso ti dico di no, però c'è tanta gente che dice così... e inevitabilmente ci arriva. Se uno continua poi non si accontenta più... tanti mi hanno detto che è inevitabile praticamente, e che se vai avanti sempre fumando ci arrivi... io al massimo la fumavo o la tiravo, so che è una sensazione più bella, e tra l'altro ne usi di meno... però forse perché pensavo che allora, cioè che fosse proprio l'ultimo stadio, non lo so, ho sempre pensato che fosse proprio il punto di arrivo... che oltre quello non c'è nient'altro penso" (Stephanie, under 21 anni). "L. ma con l'eroina non sei mai passata al buco? T. no, la fumavo e la tiravo... a me il buco non faceva paura, però con tanti amici che si bucavano... e ho dovuto anche dare una mano ad iniettarsi ma alla fine son sempre riuscita a dire di no. Anche se alcune sere mi dicevo "io devo farmi, devo provare" perché... non c'è un perché, anche li volevo solo provare... ma alla fine mi tiravo sempre indietro. Si vede che era

perché ne avevo, perché poi quando inizi ad avere il giro e ad andare a prenderla, io ne avevo proprio tanta, per cui non riesco tanto a spiegarmi questa cosa, so solo che ce l'ho fatta a dire di no L. che cosa ti ha frenato secondo te? Alla fine eri libera di farlo e lo volevi T. non so, forse inconsciamente non volevo farmi ancora più male... anche se la curiosità c'era, io vedevo i miei amici che stavano veramente male, comunque stai male, cioè l'astinenza la fai lo stesso anche se la fumi e stai male lo stesso, però forse la loro astinenza era più evidente, si vedevano i segni, non lo so proprio..." (Taylor, 22-25 anni). "L. senti, l'eroina la fumavi o hai provato anche a bucarti? H. la fumavo, però ci stavo arrivando perché ne consumavo tanta, circa 7-8 grammi al giorno; e a venderla... dovevo averne di più per avere più soldi, ci stavo pensando. Per fortuna ho il terrore degli aghi, mi fa impressione... anche a fare un prelievo sono lì bianca... L. ho sentito che tante hanno il terrore H. su quello ci ho pensavo tante volte, anche se ne avevo poca piuttosto stavo in astinenza, sapevo perché vedevo gli altri, vedevo le braccia degli altri come erano messe, non avevano più vene, tutte le vene bruciate, non volevo arrivare a quei livelli L. il fatto di vedere gli altri che lo facevano come si dimostravano all'esterno con tutte quelle vene ti ha bloccato dal dire mi faccio anche io? H. mi ha bloccato quello, perché mi ha fatto pensare "se un domani voglio smettere non ho più vene e mi restano tutte le braccia rovinate... non ne ho voglia", mi ha bloccato quello proprio" (Hilary, 22-25 anni). "L. che cosa invece ti ha impedito di arrivare a bucarti? Forse ti sembra stupida come domanda... A. io mi sono fermata, nel senso che ho sempre avuto paura, ho sempre avuto questa riluttanza diciamo, anche se non nego di averci pensato ancora, ma non ci sono mai arri vata. La cosa che, come dicevi te, sembra stupida ma in realtà non lo è perché come arrivi pian piano al resto... poi è molto più problematico quello per le malattie, e anche quello ti può frenare penso L. e infatti qui abbiamo moltissime persone con l'epatite C, perché nella maggioranza si facevano... e dato che alcune di queste persone mi dicevano che avevano sempre avuto paura, o schifo degli aghi, per me è interessante capire come avviene questo passaggio alla siringa A. l'ho notato anche io negli altri questa cosa... io non so cosa ci può essere dietro, però anche a me... cioè ci ho pensato anche io di farlo, ma poi, forse perché è stata un'imposizione personale, io il motivo... ce ne sono una serie di motivi, ma voglio dire son cose che ti devi imporre tu perché sennò.. oppure deve esserci una convinzione o una riluttanza talmente grande che non la concepisci neanche come cosa possibile da fare, non so, credo che ci sono tante motivazioni... ma ho visto anche io che alcuni erano quasi schifati al fatto di farlo su se stessi, eppure arrivi a un punto che lo fai, non so come mai, forse tanti motivi, e per vari motivi io forse non l'ho mai fatto evitandomi c omunque... evitandomi appunto malattie comunque rischiose a cui puoi andare incontro. Poi la vita può anche farti arrivare a quello da un'altra strada, ma non ci vai proprio essendone consapevole di farti del male... se tu cerchi di

non avere comportamenti a rischio... so che a volte è difficilissimo arrivare a dire "no, non lo faccio", però..." (Angie, 40-45 anni).

1. La luna di miele Non diversamente da quanto accade per le altre sostanze, e nonostante il lungo periodo di tempo necessario a decidere di sperimentare l'eroina, la prima occasione di consumo si caratterizza nella maggior parte dei casi come accidentale e determinata dall'intreccio di diversi fattori situazionali, ovvero l'opportunità dell'uso, la disponibilità della sostanza, il supporto delle reti sociali presenti in quel momento e la volontà di sperimentarla, nelle sfumature che si è avuto modo di vedere. Questi fattori risultano fondamentali non solo nella fase motivazionale iniziale, ma anche nelle fasi successive di reiterazione dell'uso, che si sono riproposte con velocità profondamente differenti da caso a caso: per alcune (soprattutto le giovanissime), l'esperienza è stata ripetuta entro pochi giorni ed è fin da subito diventata regolare; per altre, invece, il consumo è rimasto confinato per diverso tempo a situazione ludiche (come le serate nei week-end) ed ha acquisito dopo mesi, se non anni, un carattere di assiduità. Di fatto, i racconti del primo contatto con l'eroina, indipendentemente dalla modalità d'uso scelta e dalle motivazioni sottostanti, enfatizzano in modo particolare il ricordo della sensazione di benessere provata, nonostante i contestuali effetti collaterali esperiti: "S. la prima volta sono stata anche male però... cioè vomitavo, e però dentro di me dicevo "ecco cosa cercavo", cioè è come se mi ripagasse di tutte le mancanze che ho avuto, mi sentivo più forte, sentivo di riuscire a stare in mezzo alla gente, non so... tante cose... proprio mi appagava di tutto quello che mi mancava, comunque di sicuro non ho mai provato una roba più bella dell'eroina, cioè lo dico tuttora non c'è roba più bella..." (Sibilla, 40-45 anni). "K. e bè, sono stata male, avevo vomitato e solo dopo c'è stato l'effetto perché la prima cosa quando non usi mai è che se hai cenato, come nel mio caso, ti vien su tutta la cena e dopo hai l'effetto che è, insomma, del rimbambimento, quello c'è... il male è proprio quando tiri all'inizio perché se la roba è buona davvero ti fa vomitare, cioè... quindi, appunto, avevo vomitato, che l'avevo presa dopo cena ed ero su in camera stavo da sola e avevo vomitato, perché avevo anche il bagno al piano mio quindi nessuno vedeva niente, e ho vomitato, poi ho fatto un altro microtiretto e cioè... tra uno e l'altro mi hanno fatto andare fuori... mi ricordo che guardavo a manetta solo un film, Rocki 4, non so se l'hai mai visto, ripetevo sempre la stessa scena di quel film con Ivan Drago che fa "ti spiezzo in due" [...]. E poi ho continuato con lo sniffare la sera L. tutte le sere? K. all'inizio è stato 1 sera sì e 2 no, oppure una sola a settimana, all'inizio è stato così, ma dopo pian pianino la cosa mi piaceva e quindi... mi piaceva stare in quella situazione che creava [...]. Avevo tutto all'esterno, facevo sport, avevo amici, ma questo era un momento solo per me in cui stavo proprio bene..." (Kelly, 36-39 anni). Allo stesso modo, la prima esperienza d'uso per via parenterale, sia che segua un'esperienza

precedente di consumo di eroina per altre vie sia che costituisca il primo contatto con essa, solitamente viene descritta come deludente dalle intervistate in quanto i più esperti somministrano inizialmente quantità minime di eroina che non danno alcun tipo di effetto (né positivo, né negativo), al fine di evitare l'overdose e graduare la quantità di sostanza necessaria sulle caratteristiche fisiche del novizio. Dunque, se il consumo di eroina nelle prime fasi dà questi effetti collaterali e se l'uso endovenoso è inizialmente un'esperienza poco entusiasmante, cosa può spingere alla reiterazione del comportamento d'uso? Rispetto al primo interrogativo, le risposte delle intervistate sostengono quanto si rinviene in letteratura [McAuliffe 1975], ovvero: che questi effetti negativi vengono esperiti unicamente nelle prime fasi dell'uso e sono descritti come sopportabili, grazie all'effetto analgesico associato; che le persone che proseguono erano state già precedentemente istruite dagli amici più esperti circa questi possibili effetti collaterali e la loro veloce risoluzione; ma soprattutto, che gli effetti negativi non sono sufficienti a nascondere l'euforia e il senso di benessere che ne consegue. Aggiungerei un ulteriore dato importante: dopo tutto, come si è visto, gran parte delle intervistate sono policonsumatrici e con una esperienza di consumo di alcol e droghe precedente all'incontro con l'eroina, dunque fondamentalmente già abituate ad esperire gli effetti collaterali di ubriacature o di abbuffate di sostanze come ad attendersi determinati effetti positivi. Un discorso simile vale per le prime esperienze - deludenti - d'uso endovenoso: la decisione di sperimentarla viene dopo una esposizione protratta a persone che ne hanno già una certa esperienza, e che quindi mostrano di sentire determinati effetti e discutono dei propri stati d'animo, creando delle aspettative ben definite che, prima o poi, devono trovare un riscontro: "C.Allora, l'unica cosa sicura che la prima l'ho fatta a 17 anni, l'ho fatta perché ero curiosa di sapere cosa fosse perché non mi ricordo con chi ma sentivo parlare continuamente di questa "pera"... proprio "la pera", la prima cosa che ho fatto è stata quella, non l'ho mai sniffata [.. .]; a 17 anni c'è stata la mia prima volta, e sono andata... eravamo in collina, siamo andati in Sardagna su un prato immenso, con un vecchio amico che poi ha fatto tutto lui - perché chiaramente io poi non sapevo cosa fare, come farlo... - e quando me l'ha fatta io aspettavo, aspettavo, non so nemmeno io cosa... perché chiaramente poi chissà cosa ti aspetti! E quindi son stata li seduta, non sentivo niente, mi ricordo che quando mi sono alzata - perché ero seduta sul prato - mi è girata un attimino la testa... niente di più. E allora l'ho dovuto rifare una seconda volta: non poteva essere proprio tutto li, no??!!" (Cher, 40-45 anni). Gli effetti analgesici ed insieme euforici della sostanza, una volta superati questi primi episodi di malessere, costituiscono dunque la motivazione prevalente alla prosecuzione del comportamento di consumo. In letteratura, questo primo periodo nel quale gli oppiacei vengono ricercati esclusivamente per l'effetto positivo che inducono viene identificato con un'espressione estremamente evocativa, ovvero "la luna di miele" con la sostanza: l'assuntore ha l'illusione di aver iniziato un "matrimonio" con una sostanza che dà il massimo del benessere conseguibile e

di essere in grado di gestire tale benessere. Queste credenze sulle proprie capacità di controllo dell'eroina sono derivate dalla mancanza della sintomatologia astinenziale, che interviene in una fase successiva quando l'assunzione protratta della sostanza determina tolleranza e assuefazione, cambiando alla radice il significato della ricerca compulsiva di roba: se nella prima fase la sostanza è ricercata in virtù del suo potere di annullare pensieri e dolori preservando la lucidità mentale e la razionalità pur nell'intossicazione, l'instaurarsi della dipendenza impone l'assunzione di eroina per mantenere questo stato di lucidità. Detto in altri termini: dall'alterazione che corregge la normalità all'alterazione che la preserva. Come sostiene Rosenbaum [1981], la percezione del senso di immunità alla dipendenza paradossalmente conduce proprio alla dipendenza, costituendo a volte un preludio al passaggio alla via parenterale [Stephens 1991] e più spesso un motivo di abbandono delle altre droghe conosciute. Se, dunque, la socializzazione alle droghe, come all'eroina, risponde ad un bisogno relazionale, e le sostanze costituiscono il medium di tale bisogno, la reiterazione dell'uso «rende in grado di godere di tutte le sensazioni piacevoli, sia relative alla realtà circostante (morte della contingenza) sia al proprio corpo» [Faccioli, Quargnolo 1987: 149]; il consumo di eroina perde il significato simbolico originario in quanto la sostanza viene ricercata principalmente per le sue proprietà farmacologiche più che per il suo significato relazionale. Si avrà modo di vedere successivamente che è proprio questo periodo di fusione quasi totale con la sostanza ed i suoi effetti ad essere continuamente ricercato, soprattutto nelle carriere delle donne più adulte, e a costituire "il" motivo fondamentale delle continue recidive, nonostante l'esperienza insegni loro che questo senso di benessere atavico difficilmente può ripresentarsi. Di fatto, per spiegarmi le sensazioni che hanno provato originariamente, molte di esse le paragonano all'innamoramento verso un uomo2 [Friedman e Alicea 1995] come si legge da questo brano di Jodie ricavato da una conversazione estemporanea avvenuta in un momento di forte craving verso la sostanza: "J. eh, c'ho una voglia terribile di roba... terribile. Perché per la prima settimana passa, il male fisico non è niente, perché il male fisico è come un'influenza, ti passa; l'eroina invece è proprio come un male di testa, come quando appunto sei innamorato che continui a pensare a quella persona che la vuoi vicino a te, che ne sei ossessionato, che piangi perché la vuoi... è uguale, sai che è uno stronzo però lo vuoi lo stesso perché sei innamorata... si vede che io sarò perennemente nella fase della luna di miele! L. ricordo che ti è però già capitata una cosa simile col tuo primo ragazzo... e non penso che ora ci pensi ancora a lui... J. no, no L. e allora come hai fatto a lasciarti alle spalle lui? J. perché lui ha una personalità e anche se io dico "voglio voglio voglio" lui dice di no, invece l'eroina ogni volta che la vuoi se hai i soldi ti dice di sì; e i soldi bene o male li trovo sempre... è la mente che ti spacca proprio... perché è proprio la mente che la vuole, la vuole, e la pensi, la pensi... un minuto ti sembra un'ora, sei li così... poi la vuoi, la vuoi e basta... e sei disposta a fare qualsiasi cosa per averla, o quasi insomma..." (Jodie, under 21 anni).

La letteratura sul tema rileva che nel periodo della luna di miele, nonostante questa continua volontà di ricercare tale esperienza, l'assunzione mantiene un carattere di occasionalità e situazionalità - o almeno lo è se la modalità di somministrazione è alternativa alla via parenterale - [Stephens 1991; Rosenbaum 1981] e si protrae senza mostrare particolari problematicità per circa 1 anno. In realtà, sebbene la ricostruzione cronologica non possa certo essere così precisa e puntuale, dai racconti delle intervistate sembrerebbe che questo arco temporale sia più abbreviato per le donne, grazie alla maggiore disponibilità della sostanza che molte riferiscono. In coerenza con quanto si è esposto in apertura, la rarità della presenza femminile nei network sociali legati al "giro" scatena delle modalità relazionali tra uomini e donne impostate sulla protezione e sullo scambio, soprattutto in queste fasi iniziali nelle quali l'uso di eroina non è ancora diventato così consistente e individualistico a causa della dipendenza. Le intervistate, indipendentemente dall'età, parlano di una notevole facilità nel recuperare gratuitamente la droga: in alcuni casi, tale facilità deriva dall'essere la ragazza di uno spacciatore o l'amica di un extra-comunitario, in altri casi dall'avere un ruolo di mascotte all'interno della propria cerchia maschile di amici, in altri casi ancora dalla capacità di sfruttare a proprio vantaggio il proprio aspetto da bambina, che scatena nell'altro sesso atteggiamenti protettivi: "M. io anche se non avevo soldi... sono una bella ragazza, e trovavo di tutto, son pure venuti a portarmi a casa 5 gr di coca per dire... quindi se sto male e son senza una lira per me non è un problema, non ho mai avuto difficoltà, non è che devo andare a prostituirmi o far ste cose, non ci son mai arrivata a questo, l'ho sempre gestita, mi arruffranavo i tipi, poi mi conoscono tutti [...]. Le donne hanno un'arma a loro vantaggio capito? Perché io mi posso inciucciare un tipo, non gli do niente in cambio però lo posso inciucciare e prendermi quello che voglio, gli uomini invece devono sbattersi per procurarsi i soldi" (Miranda, 31-35 anni). Questa maggiore disponibilità di droga può spiegare la considerazione, avanzata in letteratura, di una maturazione più veloce della dipendenza nelle donne rispetto agli uomini [Anglin et al. 1987a; Cox et al. 2008], favorita comunque da una tendenza all'eccesso che alcune delle intervistate considerano propria del genere femminile, come Si legge da queste parole: "K.Le donne secondo me sono... almeno per quelle che ho conosciuto io che usavano... casualità forse, ma non sapevano porsi dei freni con la sostanza, gli uomini a un certo momento dicevano "ok basta" mentre le donne finché ce n'era continuavano a chiederla... anche per me, questa è la mia parte proprio normale, o niente o tutto, non ho una via di mezzo ma questo anche nella vita, o sono all'apice o sono negli inferi, non ho una via di mezzo, fa parte proprio del mio carattere... infatti delle volte sbatto il grugno perché arrivar sempre in alto non è così facile, di conseguenza devi arrenderti all'evidenza che tante volte non puoi arrivare dove vorresti insomma. Mentre, non so, forse perché proprio sono un po' più deboli dei maschi mi verrebbe da dire, cioè da un punto di vista proprio personale, interiore, perché se io sto male e voglio una cosa che mi faccia star bene io la desidero all'infinito perché so che mi fa stare bene, e quindi non ho un freno. I maschi hanno tra virgolette un po' più di autocontrollo e quindi riescono, non so, a dire "adesso dormo, e domani la riprendo" e invece le donne non riescono a controllarsi, se c'è continuano all'infinito, finché finisce o finché

qualcuno gli dice che non ce n'è più, o ipotesi qualcuno ti dà una sberla per farti smettere, perché poi la violenza viene da sé..." (Kelly, 36-39 anni). Al di là delle possibili interpretazioni, l'analisi delle storie di vita permette di sostenere questa tendenza all'eccesso fin da questa fase iniziale di luna di miele con l'eroina, con le stesse differenziazioni intergenerazionali che si sono evidenziate più sopra in riferimento al modo di porsi nei confronti delle altre droghe. Sebbene non ci siano necessità fisiche che spingono all'assunzione continua di eroina per evitare il malessere dell'astinenza, molte delle ragazze con un'età inferiore ai 30 anni raccontano che la disponibilità della roba era tale da portare ad esagerare nelle dosi, senza necessità e solo per la bramosia di mantenere elevato quel livello di benessere appena conosciuto. Oltre a quanto sostenuto finora sulle armi a disposizione del genere femminile per procacciarsi gratuitamente la roba, vi è da segnalare che questa ricerca spasmodica dell'alterazione psichica porta già in questa fase molte delle ragazze più giovani a cercare in modo autonomo il denaro per acquistare la roba con lo svolgimento di attività illegali collaterali (spaccio, mercificazione sessuale, furti, truffe, ecc.) e che alcune di loro ne avevano già un'esperienza pregressa, appresa in funzione dell'acquisto delle altre droghe sperimentate precedentemente. Nelle donne più adulte, al contrario, si evidenzia una maggiore capacità e volontà di mantenere il proprio controllo sull'uso di eroina e, soprattutto, di conciliare la propria vita "convenzionale" con quella deviante, mantenendo "una doppia vita" ed una "doppia identità sociale"4: "G.Nel primo periodo l'idea che avevo di me era "voglio essere la prima ragazza che nonostante le droghe... sono ancora li, ho il controllo della situazione, voglio essere la prima a laurearmi in ** per far vedere appunto che riesco a fare entrambe le cose, che non è vero che questa vita pregiudica il resto". Mi sbagliavo alla grande. Come quando tutti cominciano, io avevo una fortissima... come dire... avevo un forte senso della responsabilità, credevo di essere molto forte. E infatti l'illusione che posso aver avuto all'inizio... quando invece poi la situazione ha iniziato a sfuggirmi sempre più di mano, nonostante questo riuscivo a portare a termine gli esami... sono riuscita per molti anni a portare avanti questa doppia vita. Per cui da un lato, anche agli occhi della mia famiglia, dell'università così, volevo sembrare una persona normale che non dava pensieri, e poi invece..." (Grace, 36-39 anni). La fase della luna di miele per questo gruppo di donne è più lunga: non vi è stata una rottura definitiva con le attività lavorative e scolastiche, i rapporti sociali con persone estranee al giro sono proseguiti nell'apparente normalità e nella maggior parte dei casi i genitori non sono venuti subito a conoscenza della doppia identità della figlia. Questa invisibilità è stata favorita da un comportamento molto prudente nel consumo di eroina e nelle attività che permettono di procacciarsela: molte raccontano di non essersi mai esposte all'acquisto di roba, in questa fase, e di essersi appoggiata al partner e agli amici proprio per mantenersi nell'ombra. Indipendentemente dall'età, riprendendo Rosenbaum [1979, 1981] è possibile affermare che la

fase nella luna miele la reiterazione dell'uso è motivata da una percezione personale di espansione delle opportunità. L'autrice introduce questa espressione in riferimento all'eccitazione provata nei primi periodi della propria carriera da eroinomani e alla sensazione di ampliare le proprie possibilità sociali frequentando i network legati alla sostanza, in particolare in termini economici e di acquisizione di status. Sebbene poche delle donne intervistate in questa sede puntino su questi più materiali della carriera drogastica, il concetto di espansione delle opportunità, che intendo nei termini del rapporto con se stesse e con gli altri significativi, si presta comunque a riassumere in modo evocativo le descrizioni delle intervistate circa questa fase iniziale della carriera che, prima o dopo, si scontra con la realtà della dipendenza e dello stile di vita ad esso associato. 2. Scoprirsi tossicodipendenti Discutendo della socializzazione femminile all'uso di droghe si è avuto già modo di decostruire uno dei falsi stereotipi circolanti nella letteratura e nel senso comune, ovvero la sua passività. Come osserva Wincup [1999], i modelli interpretativi predominanti della devianza, che puntano sull'uso di droga come espressione di una patologia individuale, fanno spesso riferimento alla "natura" dipendente ed emotivamente instabile del genere femminile, negando pertanto 1'intenzionalità dell'azione e svalutando l'influenza dei fattori sociali, culturali ed economici. Se è vero che nelle ricostruzioni biografiche le intervistate fanno spesso riferimento alla loro personalità insicura, alla timidezza e alla scarsa autostima che le hanno condotte a prendere decisioni "emotive", è altrettanto vero che il valore dell'esperienza drogastica nella loro biografia non si limita all'esaltazione della funzione disinibente e auto-medicativa della droga, ma comprende diverse ricadute nella sfera sociale che non possono certo essere ignorate. Lo stile di vita che gravita intorno alla droga, e soprattutto all'eroina, non si costituisce solo del momento dello sballo esperito hic et nunc, ovvero il momento della sua assunzione, ma implica una serie di attività che permettono alle donne di acquisire un certo status nel proprio gruppo, di unirsi in relazioni sentimentali con partner che considerano affascinanti proprio per la trasgressività dei comportamenti, di costruirsi una rete di relazioni sociali in cui i legami appaiono più solidi per la clandestinità e la segretezza delle esperienze di divertimento e, non da ultimo, di avere delle possibilità alternative per trascorrere le proprie giornate: -C. _cioè a me che piaceva e che mi piace ancora forse un po' non è neanche tanto la droga. Mi piacciono proprio tutte le storie che c'erano e ci sono dietro, come andare a comprarla, venderla o stare con la gente che era un po' di più... cioè io non è che ero tanto una che andava per strada o che faceva la puttana anzi schifavo anche un po' i tossici tipo da parco tra virgolette, cioè io ero figa perché la vendevo, ce l'avevo sempre in tasca, c'avevo sempre un sacco di soldi" (Cristine, 26-30 anni). Per questo motivo, precedentemente ci si è riferiti all'esperienza drogastica con l'espressione "espansione delle proprie opportunità": il potere di attrazione di tutti questi aspetti collaterali all'uso di eroina è tale da costituire in sé e per sé un motivo valido per protrarre i propri

comportamenti di consumo fino ad arrivare alla condizione di dipendenza, interpretabile certamente come una dipendenza fisica e psicologica dagli effetti della sostanza ma anche come una forma di attaccamento (dipendenza?) alla routinizzazione di tutti gli aspetti correlati a tale stile di vita. Ora, la scienza medica insegna che il processo di instaurazione della dipendenza fisica dall'eroina è determinato dalla progressiva tolleranza sviluppata verso la sostanza e da un processo di assuefazione ad essa. Nel periodo della luna di miele, le credenze circa le proprie possibilità di controllo dell'uso spingono ad aumento della frequenza di consumo e delle dosi di eroina assunte; con la reiterazione dell'uso, l'effetto euforico della sostanza tende gradualmente a scomparire mentre iniziano a presentarsi i sintomi dell'astinenza 6. Dunque, per poter esperire analoghe sensazioni di euforia, sentirsi "normale" ed evitare la sindrome astinenziale, il soggetto tende ad incrementare le dosi c/o la frequenza di assunzione: il bisogno della sostanza diventa in tal modo imperativo, mentre questo senso di benessere diventa sempre più contenuto nella sua durata ed intensità, il soggetto fatica sempre più a mantenere lo stato di normalità e i sintomi astinenziali si aggravano. L'assunzione di eroina diventa, in questo senso, più funzionale all'evitamento del dolore dell'astinenza che alla ricerca degli effetti della sostanza. In letteratura, la comparsa della sindrome astinenziale viene indicata come un momento cruciale della carriera tossicomanica, in quanto attraverso l'esperienza del malessere fisico il consumatore prende coscienza della propria condizione di dipendenza [Taylor 1993; Rosenbaum 1979, 1981]. Vi è da dire che le indagini etnografiche consultate non entrano nel merito delle interpretazioni soggettive della dipendenza, che invece ho creduto importante ricostruire in questa sede anche per verificare quanto l'essere utente di un servizio per le dipendenze, che interpreta la dipendenza come una brain disease (ovvero una malattia cronica del cervello ad andamento recidivante), possa cambiare la percezione di sé e le rappresentazioni del proprio malessere. Ho cercato, in particolare, di ricostruire le rappresentazioni della dipendenza e del tossicodipendente nel periodo precedente ai primi contatti con le droghe e con l'eroina (discusse nel capitolo precedente), i fattori che hanno permesso alle intervistate di prendere coscienza della propria dipendenza, il momento in cui tale presa di coscienza si è verificata e cosa intendano loro stesse per dipendenza. Rispetto a quest'ultimo punto, l'idea che si può ricavare dalla lettura delle interviste nel loro insieme è che la tossicodipendenza non è considerata come una malattia, tantomeno una malattia del cervello, mentre non vengono negate le conseguenze ed i danni a livello fisico dell'uso protratto di eroina, anche in virtù del fatto che spesso li hanno esperiti su di sé: dunque, le intervistate riconoscono la realtà della sindrome di astinenza, del processo di assuefazione e tolleranza alla sostanza, del craving, delle malattie infettive droga-correlate e dei diversi disturbi sanitari che possono conseguire all'uso protratto di eroina. Solo 3 delle intervistate si riferiscono precisamente ai processi neurobiologici sottostanti all'instaurazione della dipendenza e alle

recidive, mentre tutte le altre intervistate considerano la dipendenza come un vizio, una schiavitù, qualcosa che rovina la vita piuttosto che una brutta abitudine da cui non ci si riesce a distaccare per mancanza di forza di volontà o a cui si è predestinati. Come già evidenziato nell'indagine condotta da Folgheraiter, la rappresentazione cognitiva che hanno i tossicodipendenti della dipendenza è «riferita in maniera sorprendentemente precisa e diretta allo stile di vita e alla qualità del vivere» [2004: 62, corsivo dell'autore], dunque nulla che «faccia presumere una loro adesione ideologica al modello clinico; anzi, decisamente il contrario» [ivi]'. Tra l'altro, se è vero che nei loro racconti le intervistate utilizzano spesso il termine "sana" per definire il loro modo di essere senza l'eroina, questo termine non viene certo equiparato all'assenza di malattia quanto ad una condizione di "normalità", una situazione in cui sono "pulite", ovvero astinenti dalle droghe, dunque esattamente come le altre persone. Si riportano, di seguito, alcune delle definizione date dalle intervistate: "E. l'eroina è una cosa che ti rende schiavo, devi per forza fare qualcosa... Sei schiavo di questa cosa" (Emily, under 21 anni). "L. che idea ti sei fatta della tossicodipendenza? M. ah, è una brutta gatta da pelare. Comunque non sei più libero, sei sempre condizionato... bo, secondo me... io non so, ma non posso dire che è una malattia come dicono, perché la malattia è qualcosa che ti viene di inaspettato, invece questo... cioè sei conscio, te lo sei andato a cercare, non ti ha obbligato nessuno non è che ti è successo. Sì, ti è successo perché hai voluto che ti succedesse. E dopo la dipendenza cioè... non sei capace di vivere se non hai quella cosa li, stai male, stai male di testa, stai male di fisico, stai male e basta, cioè non sei più padrone di te, ecco, perché tu sei nato sano senza dipendenze, ti alzi e fai 10 anni che non puoi vivere senza una pastiglia [il Subuxone, la terapia assunta presso il Sert, n.d.r.] piuttosto che l'eroina che alla fine cambia poco perché sempre la devi prendere e se non ce l'hai non stai bene, è uguale, cambia proprio la sostanza. Chiaramente sei più seguito e tutto quello che vuoi, però è uguale, è una cosa che dici "ecco cavolo, sono nato sano, non mi mancava niente, adesso se mi manca quella cosa li non sto bene", io la vedo un po' così, cioè non è una malattia, è una questione di testa soprattutto" (Morgana, 26-30 anni). `B. un qualcosa che per certe persone è come indispensabile, è come un antidolorifico che fa star bene e non ti fa pensare ai problemi e non vai a cercare niente, non ti preoccupi di niente e invece tante volte mi sono chiesta perché altre persone non hanno questo bisogno. La mia risposta a me stessa che mi son data è che forse è perché nascono e crescono con un'altra... niente prendono un'altra strada e basta" (Betty, 36-39 anni). Le recenti riflessioni della sociologia della salute italiana, e in particolare il modello teorico proposto da Maturo (denominato Modello-P della malattia [2007, 2008]), mostrano come le definizioni scientifiche, sociali e individuali della malattia possano essere talvolta dissonanti. Al nostri fini, è utile la distinzione che l'autore introduce circa la illness esperita e la illness semantica, in rapporto al concetto di disease che identifica l'interpretazione medica della dipendenza: la sensazione di malessere o dolore che il soggetto esperisce (illness esperita) può coincidere con il disease, in quanto effettivamente il soggetto prova il craving, i sintomi

astinenziali e la tendenza ad aumentare le dosi e la frequenza d'uso, che costituiscono gli indicatori dell'assuefazione e della tolleranza alla droga. Tuttavia, il senso che il soggetto attribuisce a questo stato di malessere (illness semantica) può non identificare immediatamente la condizione di tossicodipendenza, anche in considerazione di un'ulteriore variabile del modello, la sickscape, ovvero la rappresentazione sociale della tossicodipendenza, ancora pervasa da interpretazioni che si riconducono più ad un concetto di vizio e abitudine che ad una disease: tant'è che, come si è evidenziato nel capitolo precedente, le rappresentazioni che le intervistate avevano della tossicodipendenza e soprattutto degli eroinomani prima di accedere loro stesse alle prime esperienze di consumo erano connotate in senso negativo e, soprattutto, moralistico. Presento, a titolo d'esempio, il caso di Phoebe, nel quale il riconoscimento della propria dipendenza dall'eroina arriva solo al momento del parto, avvenuto in una fase della sua vita in cui era già completamente assoggettata alla sostanza ormai da più di un anno, con un consumo endovenoso molto intenso ed una giornata strutturata esclusivamente sulle attività di ricerca e auto-somministrazione delle dosi, che avvenivano anche 5-6 volte al giorno: "P. io continuavo tranquillamente comunque a fare uso nonostante fossi incinta... e continuavo a dire "assolutamente ce la faccio da sola, non ho bisogno di nessuno", nonostante sapessi che c'era l'assistente sociale di mezzo, che se nasceva in astinenza me l'avrebbero tolto: "ma sicuramente non nasce in astinenza!"[...] Non accettavo il mio stato di tossicodipendenza, non riuscivo a dirmi "sono una tossica, ho bisogno di aiuto" L. e quindi, pur essendo incinta, non hai comunque voluto prendere la terapia? P. non ho mai voluto prenderla io, mai voluto... poi quando è stato il momento di partorire gliel'avevo detto all'anestesista, gli ho detto "guarda che ho usato eroina"... quando è arrivato il momento appunto io gli ho detto "vi prego salvate mio figlio, sappiate che se sta male è per quello". Ecco, ho confessato quel giorno li che ero tossicodipendente solo ed esclusivamente per mio figlio. Al Sert sarò venuta 4 volte, ma proprio... addirittura volevano che venissi qui a fare l'esame delle urine e io gli dicevo "sì sì vengo" e poi non venivo... cioè, ma da parte del Sert ci sarebbe stata voglia di aiutarmi, però io non ne volevo proprio sapere, per me non ero una tossicodipendente e basta [...]. Cioè io faccio fatica a vedermi perché è stato un cambiamento estremo, cioè un cambiamento... un capovolgimento della situazione. Io avevo il mio lavoro, la mia casa, la mia macchina, ero indipendente, e tutt'a un tratto mi son ritrovata senza un lavoro, senza un compagno, per me era veramente un rifiuto, un rifiuto del discorso tossicodipendenza e soprattutto di esserlo io L. e quando è nato il bambino? P. quando è nato il bambino io ho confessato, credo sia stata la prima volta che lo dicevo agli altri e anche a me stessa, quindi ho detto "guardate ho fatto uso fino a ieri"; è nato, l'han messo in incubatrice perché era sotto peso, con i sintomi di astinenza... e io ho cominciato a dire "che detersivo usate per pulire i pavimenti'?!", cioè, ce l'avevo a morte con l'infermiere perché pulivano sto pavimento e usavano un disinfettante che non andava bene a mio figlio! L. quindi, dici, anche in quel momento... P. non riuscivo ad accettarlo; "figurati se è nato in astinenza"... dal momento che poi me l'han

detto... mi han proposto, insomma mi han detto "intanto * andrà affidato ai servizi, e per averlo devi fare un percorso in comunità" (Phoebe, 36-39 anni). Ma per riprendere il filo del discorso: sostenere, come effettivamente sostengo in questa sede, che la sindrome astinenziale rimane centrale nelle biografie qui analizzate nella scoperta della propria dipendenza assume, in coerenza con quanto si è discusso finora, un significato differente da quello scientificamente inteso, riferendosi più in generale alla percezione di un cambiamento, più o meno radicale, del proprio rapporto personale con la sostanza verso una condizione di soggezione e subordinazione ad essa. Come osserva Lindesmith [1968], i sintomi dolorosi dell'astinenza non sono sufficienti a determinare la presa di coscienza del proprio stato di dipendenza ma occorre che essi vengano interpretati dal soggetto come determinati dalla mancanza della droga; in tale processo di ri-significazione il valore dei sintomi dell'astinenza viene collegato, nelle nostre ricostruzioni biografiche, agli altri fattori anzidetti che definiscono questa condizione di soggezione alla sostanza, ovvero l'aumento delle dosi c/o della frequenza d'uso, fino a divenire quotidiana e a compromettere le precedenti attività di vita, e l'aggravamento del craving, utilizzato nel linguaggio medico per indicare il forte desiderio e bisogno psicologico della roba. Questi elementi trovano poi diverse modalità di composizione e pesi differenti nelle singole ricostruzioni, in riferimento soprattutto al fattore età e, di nuovo, alla via principale di assunzione della sostanza. Alcune intervistate, soprattutto le più adulte, sottolineano come l'astinenza e il suo collegamento con la condizione di dipendenza si siano caratterizzati come un lento processo di apprendimento: "L. qual è stato il momento in cui hai realizzato di non poterne fare a meno? B. sai li per lì... all'inizio non mi facevo problemi perché riuscivo a stare senza, anche perché l'astinenza non è che ti viene fuori subito, sono passati 2 anni prima che la sentissi e che neanche poi... cioè ero talmente... come sì può definire? Neanche mi rendevo conto che era astinenza lo star male che avevo e dopo 2 anni che usavo era stato questo ragazzo che mi ha detto "guarda che sei in astinenza per me", mi han portato all'ospedale e vedevo che a farmi mi passava sto star male no? e dicevo "ma come mai mi faccio e sto bene?!"... Pensa te, cioè non ero neanche capace di rendermi conto che era la sostanza, e da li ormai... è come dire andare alla cieca e cadere in un buco, che ormai sei già caduto giù nel buco, no? Questo, più o meno" (Betty, 36-39 anni). "L. ecco, mi dicevi che dopo 5-6 anni inizi a non controllare più l'uso, è così? A. esatto, cioè naturalmente non di colpo insomma, è stata una cosa in progressione perché poi più questa cosa ti prende, ti piace, più generalmente la consumi e più sei costretto ad usarla poi perché è una cosa che ti dà dipendenza. All'inizio non ci credi neanche perché dici "la tengo sotto controllo", però un po' per volta la cosa sfugge dal controllo e quindi ti trovi ad avere accavallato vari problemi insomma, no? L. ma è più una dipendenza fisica o psicologica secondo te? Questo desiderio che avevi di continuare ad assumere la sostanza era più un desiderio dovuto al dolore fisico dell'astinenza?

A. col tempo sì, è diventato così, all'inizio era un piacere, come ti dicevo, quindi si usava in determinati periodi oppure in determinate occasioni, il fine settimana per dire, perché era un piacere, poi usi un po' più spesso proprio per l'occasione, comunque ci sono tante cose messe insieme che ti portano a questo. Magari poteva darsi che se ci fossero state situazioni determinate avrei potuto perdere il controllo anche prima, secondo me per quello che mi riguarda è stata una cosa in progressione, cioè sommandosi alcune cose ne sono sorte altre, il fatto di essere un piacere e usarla qualche volta non ha determinato subito una dipendenza né psicologica né fisica. Poi però se ti piace fare uso è ovvio che lo fai più spesso e quindi arrivi ad avere una dipendenza fisica e psicologica, perché se poi la sostanza ti manca e ne consumi un po' è logico che ti manca anche fisicamente sennò L. e quando c'è stato questo passaggio ad un uso più frequente, la motivazione di base era ancora la ricerca del benessere e del piacere? A. eh no, lì ti rendi conto che se non ce l'hai fai fatica ad alzarti la mattina, o a lavorare come facevi prima, cioè attribuisci alla sostanza tutte le funzioni che hai, cioè purtroppo perché se fosse così semplice..." (Angie, 40-45 anni). Diverse intervistate mettono in risalto che se la presa di coscienza della perdita del controllo sulla sostanza è certamente favorita dalla comparsa di un malessere fisico, questo malessere sarebbe gestibile - almeno nelle fasi iniziali - se non si accompagnasse ad un forte desiderio o bisogno psicologico, come si legge di seguito dalle parole di Sophie. Il significato che le intervistate attribuiscono all'astinenza deriva dunque, prima di tutto, da un dolore "mentale", la cui intensità è tale da condizionare la stessa percezione del dolore fisico8 come si evince, nei brani successivi, dalle parole di Emily e Judith: "S.Sai, d'estate andavo al mare con i bambini, con le colonie, con la scusa che il mare gli faceva bene tanti genitori mandavano i figli in colonia e stavo male, cioè era ancora una cosa sopportabile però c'era la voglia, non so come spiegare... nel senso che magari venivano i genitori dei bimbi al mare e io la prima cosa che facevo era quella di andare a cercarla L. ma questa voglia era fisica o mentale? S. bè ma all'inizio inizi a star male proprio fisicamente, te ne accorgi perché hai sintomi fisici, e però secondo me comunque parte dal cervello, nel senso che comunque parlo meglio, mi sento meglio se con il cervello sto bene e non ho il pensiero della roba, sei in un'ottica diversa insomma se riesci... anche perché il mio livello di sopportazione del dolore è molto alto, ho avuto una storia molto travagliata e grave sai..." (Sophie, 40-45 anni). "L. ma questa schiavitù è una schiavitù fisica oppure... E. sia fisica che mentale. Perché anche... magari a volte non stai così male però la tua testa... tu la vuoi e quindi ti convinci di stare più male di quello che stai, in realtà però non è così; altre volte fisicamente stai veramente male però quando cominci a riprenderti e stai meglio la testa ti va comunque li... c'erano volte che mi ero appena fatta magari e pensavo "ne voglio ancora", e mi sembrava di sentire i brividi dell'astinenza, proprio è una schiavitù completa, è una cosa mentale" (Emily, under 21 anni). "J. perché poi stai male fisicamente, c'è l'astinenza, e lì devi per forza farti [...] e quella volta

che stai male ti devi fare perché proprio stai male, e magari non perché avevi voglia... L. riesci a spiegarmi a cosa è paragonabile come dolore? J. un'influenza fortissima, cioè, un'influenza fortissima ma poi è tanto anche un problema di testa... dopo qualche giorno il dolore fisico ti passa, ma di testa non ti passa mai... dipende da come ti metti te, magari tanti non stanno male veramente, ma se ti metti in testa che hai voglia ti vengono lo stesso quei sintomi e dopo inizi a star male veramente" (Judith, 22-25 anni). Questi brani sono importanti per introdurre un ulteriore elemento di differenziazione che emerge dalle ricostruzioni biografiche circa le differenze generazionali nelle attribuzioni di significato all'astinenza e alla dipendenza, ancora una volta correlate alla modalità di consumo. Se ci si riferisce alle ragazze più giovani - soprattutto le under 25 anni, in buona parte non ancora pervenute al comportamento iniettivo - si evidenzia che poche sostengono di aver vissuto una vera e propria astinenza nella loro (breve) carriera tossicomanica, mentre di fatto si riferiscono ad essa quando vogliono spiegare i motivi per cui ogni giorno erano "costrette" ad assumere eroina. Per questo gruppo di ragazze, l'esperienza di consumo è comunque preceduta da un livello di conoscenza maggiore circa i rischi connessi all'assunzione protratta di droga e circa i possibili malesseri che accompagnano la dipendenza, appresa a scuola, nel gruppo di amici e attraverso la produzione cinematografica. Dunque, la percezione della propria soggezione alla sostanza viene prima di tutto dalla presa di coscienza che l'assunzione è diventata quotidiana e che deve continuare ad esserlo proprio perché così si può evitare di esperire la tanto temuta "sindrome di astinenza", più immaginata che reale. Si noti che anche in questo caso non vi è sempre una correlazione tra la presa di coscienza della compulsione al consumo e la dipendenza, e questo è favorito proprio dalla modalità d'uso alternativa alla via parenterale: il ragionamento sottostante è che sniffare, tirare o fumare eroina è una cosa diversa rispetto all'iniezione endovenosa, dunque lo devono essere anche le conseguenze fisiche e psicologiche10: "(parla di una breve esperienza in carcere) J.In quelle due settimane... bè all'inizio son stata 23 giorni in isolamento, stavo male per la roba ma non gli ho detto niente della tossicodipendenza L. come mai? J. perché son stata stupida, dovevo dirlo, però mi sembrava peggio se glielo dicevo, e invece era meglio... non lo so come mai, perché forse non volevo dire che fumavo la roba, era una cosa del mio cervello, cioè per me non era possibile la mia tossicodipendenza perché fumavo così non è che stavo male... solo adesso me ne accorgo, è troppo tardi però, prima no... poi li non è che son stata male, avevo il caldo e freddo ma erano più i miei pensieri del carcere, la casa, una serie di cose... L. quindi tu non ti vedevi tossicodipendente? J. no, proprio non mi vedevo tossicodipendente, fumare non mi sembrava tossicodipendenza... più con le spade mi sembrava... [...] e comunque poi ho cominciato a fumare tanto perché, cosa vuoi?, ne avevo tanta, ed era anche gratis, arrivavo a 5, anche 10 gr al giorno, fumavo... era diverso perché all'inizio fumavo una volta ogni tanto mentre ultimamente dalla mattina

alla sera, a volte anche la notte quando mi svegliavo, e avevo la dipendenza bella grossa anche se poi non volevo ammetterlo lo stesso, ma mi alzavo la mattina che non riuscivo neanche a stare in piedi, una cosa impressionante... alzarsi la mattina e dover fumare per stare bene è una palla, perché dici anche la mattina, invece che star lì tranquilla, non puoi perché stai male [...] Cioè, è un dolore che... neanche a pensarlo lo vorrei più" (Jasmin, under 21 anni). "S. sì, io ho più paura del male fisico, io proprio non lo sopporto, e quindi per me... quando arrivi all'astinenza da eroina deve essere una cosa davvero... io non so, non ho mai provato ma onestamente non ci tengo, infatti quando ho deciso di smettere ho detto subito "vado al Seri a prendere la terapia". Ad una mia amica sua mamma l'ha chiusa in casa, ad esempio, l'ha fatta smettere non uscendo di casa con tutta l'astinenza e tutto... io non ce la faccio neanche a pensarci a una roba del genere... Poi è anche vero che passi quei 3-4 giorni e ti pulisci, ma il pensiero non è che ti va via subito... e almeno se hai la terapia sei coperto e il pensiero non ce l'hai, io sto bene adesso, non ci penso neanche [...]. Fa conto che ci son stati dei giorni che non potevo venire qua e stavo senza terapia tutto il giorno; però un conto è quando sei li che la cerchi, un conto è... non so, dipende un po' da te, nel senso che magari se pensavo che dovevo andare a prendere la roba e sapevo che c'era e che i miei amici mi aspettavano allora sentivo l'astinenza, tardavo di un'ora e già stavo male e magari avevo appena fumato... stai male, o ti convinci di star male, ti vengono i brividi, senti caldo e freddo, inizi a sbadigliare.... Invece quando dovevamo andare a cercarla stavo anche tante ore senza e non stavo male; anche quando sono venuta qua non stavo male, e li avrei voluto star male così mi davano la terapia'l, però è tutta una questione di testa, se tu pensi di star male stai male subito, anche se hai la terapia" (Shirley, 26-30 anni). Nei racconti delle donne più adulte la sindrome d'astinenza assume un significato più profondo nella scoperta di essere dipendenti dalla sostanza, sempre nel suo legame con il passaggio all'uso quotidiano, all'aumento delle dosi, al desiderio continuo della sostanza e alla incapacità di ri-trovare l'equilibrio precedente tra l'uso di eroina e la conduzione delle normali attività di vita quotidiane. Anche in virtù di una carriera tossicomanica più lunga, tutte le donne che al momento dell'intervista avevano un'età superiore ai 40 anni hanno sperimentato in prima persona i dolori e i malesseri dell'astinenza, spesso in seguito a periodi di interruzione forzata dell'uso, come l'esperienza carceraria o l'impossibilità di recuperare autonomamente la propria dose giornaliera per la mancanza di denaro 12; in coerenza con quanto sostenuto in letteratura, dunque, l'esperienza di tali sintomi aggiunge un ulteriore motivo alla reiterazione del comportamento d'uso, ovvero l'evitamento di una condizione di dolore non paragonabile a nessun'altra malattia conosciuta e conoscibile: "S. già da subito sentivo che avevo questa forte attrazione... magari il primo periodo non me rendevo conto che ne avevo bisogno, però era una cosa che mi attirava tantissimo, anzi già dal primo tiro ero sicura che avrei continuato, dicevo "sì dai, tanto quando voglio mi tiro fuori", perché è normale quello... non conoscendo gli effetti dici "ma figurati se puoi star così male come dicono"; però non volevo neanche forse venime fuori, perché dopo quando vai in astinenza... ti avevo raccontato della prima astinenza forzata, no? Veramente è un male che

penso che non ci siano mali così brutti, fisici e anche morali... L. ma come intensità, potresti paragonarlo... non so, al parto? S. no partorire no, cioè quello li è un dolore fisico, è chiaro che anche quello è un dolore ma non è paragonabile... peggio, ti prende male alle gambe ti prende... hai mai avuto 40 la febbre? L. certo... con le convulsioni anche... S. ecco, una roba del genere ma ancora peggio perché poi hai anche tutti i nervi che ti tirano, è una roba bruttissima, guarda non so neanche spiegare... poi c'è una roba nella gola, una salivazione bruttissima, una sudorazione puzzolente, ti fai anche i bisogni addosso se sei agli estremi... una delle prime volte mi ricordo che mi è successo di farmi la cacca addosso, di cader per terra, di far pazzie e di non ricordamene... dovevano raccontarmele dopo..." [Sibilla, 40-45 anni]. Si è, inoltre, avuto modo di discutere nel capitolo precedente che l'uso endovenoso di eroina, se non può essere interpretato come "passaggio di status" nelle prime sperimentazioni della sostanza, acquisisce un tale significato proprio in questa fase di scoperta della propria condizione di soggezione alla sostanza. Innanzitutto, vi è da evidenziare che la siringa e l'acquisizione delle abilità necessarie per farsi autonomamente hanno un forte valore simbolico per le intervistate, tant'è che in una delle conversazioni informali cui ho partecipato nel cortile del servizio una ragazza mi ha raccontato che anche quando ha deciso di smettere in modo definitivo con la droga ha tenuto per anni la siringa nella borsetta ("accanto al rossetto e al portafoglio"), ed un'altra ragazza che conversava con noi ha evidenziato che "dopo un po' ci si sente un po' dottori", proprio per sottolineare con una punta di orgoglio le abilità acquisite. I due brani che seguono mettono in evidenza alcuni particolari di questo discorso: "G.Perché poi diventa un'altra dipendenza, oltre alla sostanza... è una cosa che so che può spiazzare, ma quel momento in cui fa effetto tutto di colpo invece che pian piano è insostituibile, il momento in cui spingendo la siringa puoi controllare il tipo di piacere che ne deriva, quindi spingo poco la sento piano, spingo velocemente la sento fortissima... proprio controllare quel gesto fa perdere la testa" (Grace, 31-35 anni). "(da una intervista precedente) S.Io onestamente non ti so spiegare cosa c'è... perché comunque una cosa che ho sentito dire a molti - perché ho fatto anche un mese di comunità e una cosa che ci dicevamo è che ti resta in mente comunque... tutto questo rituale del prepararsi la dose col cucchiaino e l'accendino, di trovarsi la vena, il momento del flash, il sapore che senti in bocca... son cose che... almeno per me il ricordo di tutto questo è sempre stato un richiamo costante (approfondimento attuale) L. questa cosa della siringa mi interessa molto, anche l'altra volta mi avevi colpito perché parlavi di questo rito legato alla siringa; ma è più una questione legata all'effetto che sai che ti dà o a qualcos'altro? Perché per una persona che non l'ha mai fatto è difficile capire cosa ci sia di piacevole, perché forse poi si concentra sui segni che restano alla fine S. eh, lo so, ma penso come anche per tutti i pre-tossici credo, però purtroppo quando ci sei

dentro la cosa cambia, perché è vero è una cosa.... Perché è il rito che poi viene a mancare, il fatto di far entrare l'ago nella vena, e vedere che l'hai trovata... perché dopo un po' che ti fai di vene non ne hai più, non sai più dove farti... e quando riesci a vedere che l'hai presa e che tirando viene su il sangue... non lo so sai, ma è tutta una gestualità che a me dava sicurezza in quel periodo in cui poi avevo solo questo alla fine, perché avevo perso amicizie, una casa, perché in quei giorni ero fuori casa, quindi non hai niente da perdere nel bucarti... era una cosa che a me dava sicurezza il potermi appartare... sia per l'effetto ma anche per questi gesti meccanici che richiamavano l'unico punto fermo che avevi in quel momento, perché non sapevi come sarebbe andato il resto. Probabilmente è un po' come con la sigaretta, che dopo un po' te la fumi meccanicamente magari senza neanche sentime l'effetto, perché il gesto e l'abitudine è automatica. Perché io mi rendo conto che a volte lo facevo anche più del dovuto, cioè più di quanto era necessario per non sentire l'astinenza, se ne avessi fatta una la mattina, una al pomeriggio e una prima di andare a letto sarei stata coperta tutta la giornata, e invece me ne facevo molte di più quando ne avevo le possibilità" (Sherilyn, 31-35 anni). In sostanza, il rituale del buco, e la siringa come medium di tale rituale, diventano un'ulteriore forma di dipendenza, tanto che diverse intervistate hanno affermato che quando non riuscivano a reperire la loro dose di eroina si iniettavano altre sostanze per proseguire in questo rituale13, e tanto che la maggior parte delle donne che sono pervenute all'uso endovenoso di eroina hanno affermato che non sarebbero mai "tornate indietro" a modalità d'uso alternative. Come nota Grund [1993] proprio il rituale di preparazione dell'iniezione, fatto di determinate sequenze e procedure, può determinare in larga parte l'effetto ricercato poiché genera una produzione aggiuntiva di attese, pensiero e attività e l'elaborazione di tali processi è accompagnata da emozioni di piacere che possono diventare un fine in sé14 Taylor [1993] sottolinea che la scoperta della propria dipendenza avviene spesso con la contestuale incapacità a trovare una vena ove iniettarsi la sostanza"; dalle ricostruzioni effettuate in questa sede, al contrario, sembrerebbe che questo momento costituisca più una motivazione per la disas suefazione e la decisione di ricorrere al servizio, in quanto in tutti i casi analizzati la consapevolezza di avere questa forma di attaccamento al rituale, oltre che alla sostanza e ai suoi effetti amplificati dall'endovena, si è sviluppata fin dalle prime esperienze. Si legga, infine, questo brano tratto dall'intervista di Sheila: "L. e quando hai cominciato ad aumentare le dosi, a capire che non avevi più il controllo sull'uso? S. all'inizio non ti senti così, finché non arrivi ad essere... cioè te ne rendi conto quando inizi a star male, e anche in quel momento magari non ne sei ancora pienamente cosciente... Quando inizi a fare determinate cose, a sbatterti come un matto, cioè lì dici... è difficile che uno pensi a sé. Non è che dici "sono un tossico", e lo sai però, dentro di te lo sai però non è che te lo dici, insomma, te ne rendi conto. E tante volte non serve neanche che te lo dici perché te lo fan capire gli altri [...] Poi una delle cose che io ho sempre ferma in testa, una delle cose che mi ha fatto decidere di smettere è proprio il fatto che io ero sull'autobus un giorno, stavo

andando a lavorare, era la mattina tipo le 7.30, vedevo le altre persone normali e dicevo "a queste non gli serve niente!". Io ero arrivata ad un punto che mi facevo per poter lavorare, per vivere. Ed avevo un'invidia così forte che è una delle cose che mi è rimasta dentro molto. Mi ha dato la forza di dire "anch'io voglio tornare ad avere una vita normale, senza dovermi fare per essere normale, perché non è più un divertimento, non è più un gioco, insomma comunque... Poi durante gli anni ho visto soffrire tante persone, amici miei, ci stai male, ma sei talmente preso, sei talmente dentro nella storia che tanto non te ne curi, sei troppo lì così, vivi solo per farti, per trovarti la dose, ti curi anche di meno..." (Sheila, 40-45 anni). Ciò che viene sottolineato in questo brano è la pervasività della condizione tossicomanica nel vivere quotidiano: indipendentemente dal momento in cui si verifica la presa di coscienza di questo cambiamento nel rapporto con la sostanza, più o meno radicale e più o meno graduale, l'immersione nel mondo della droga comporta una ri-strutturazione totale della propria identità personale e sociale nella direzione di una separazione con il mondo di vita ordinario, con i ritmi della "normalità" e con le precedenti reti di relazione significative, accentuata in molti casi dalla decisione di intraprendere attività illegali come fonte di sostentamento del proprio bisogno di eroina16 aspetti su cui si avrà modo di riflettere nel capitolo successivo. Si noti, per inciso, che la storia di Sheila è una delle tante nelle quali non emergono né situazioni familiari problematiche né l'espressione di particolari disagi vissuti nell'infanzia e nell'adolescenza che vengano interpre tati come significativamente connessi alla propria esperienza drogastical', mentre il racconto della propria dipendenza viene sempre ad essere cognitivamente ed emotivamente interpretato come un'evoluzione (o involuzione) patologica di tale esperienza, nel suo significato ancora una volta esperienziale di sofferenza psicologica, emozionale, relazionale e di vita': se si escludono i casi menzionati nel capitolo precedente in cui l'eroina è stata ricercata esplicitamente con scopi auto-terapici o auto-distruttivi, nella maggior parte delle ricostruzioni delle intervistate la relazione causale tra disagio e sofferenza, da un lato, e tossicodipendenza, dall'altro, viene invertita rispetto agli approcci scientifici classici in quanto è la dipendenza che determina disagio e non viceversa19. In tutti i racconti viene precisato, infatti, che questo periodo si caratterizza come un annullamento totale di sé nella sostanza, come un progressivo isolamento nell'uso e un totale disinteresse verso qualsiasi attività c/o relazione che non riguardi direttamente l'eroina; detto in altri termini, con le parole di un operatore del Sert, "l'uso di sostanze può diventare un uso fondante dell'equilibrio psicologico perché le persone affidano alla sostanza il loro filtro emotivo con il mondo, e più lo diventa meno riescono a sviluppare altri meccanismi difensivi perché la sostanza va a tamponare queste modalità adattive e questo impedisce lo sviluppo di altri meccanismi" (Pietro Gianfranceschi). Questo atteggiamento viene considerato dalle intervistate anche la causa dell'adozione di comportamenti lesivi per sé (abbandono della scuola o del lavoro, abbandono delle relazioni significative non legate alla droga, mercificazione sessuale, rapporti sessuali non protetti, tentati suicidi, atti di auto lesionismo, disturbi alimentari, violenze ed abusi subiti passivamente) o per

gli altri 20. E l'eroina viene investita di significati ambivalenti in quanto insieme causa e rimedio di tale sofferenza, un'«automedicazione psichica momentanea, illusoria perché non guarisce, non porta ad uno stato permanente di benessere, ma può essere ripetuta, tampone dopo tampone, anche se il prezzo da pagare è alto in termini di rischi sanitari, giudiziari, sociali e relazionali» [Grosso 2007: 210]. Non si dimentichi, infine, il peso della dimensione culturale sul vissuto di dipendenza. Come evidenzia Donfrancesco «il significato della dipendenza, che si associa perfettamente all'idea che in genere si ha dell'eroina, è costruito a partire dalla reazione sociale verso il consumatore, il quale, con il tempo, definirà la propria situazione coerentemente con le attribuzioni di status e le aspettative di comportamento collegate al suo ruolo di tossicodipendente» [2009: 275] in una sorta di profezia che si auto-adempie.

La dipendenza, come si è avuto modo di notare, cambia radicalmente il significato del comportamento di consumo rispetto alla fase immediatamente precedente della luna di miele: il soggetto, infatti, si sente in qualche modo "costretto" ad assumere eroina per non provare i dolori fisici e psicologici dell'astinenza e per continuare a sentirsi "normale", per usare un'espressione che ricorre spesso nel linguaggio delle intervistate. Agar [1973], a tal proposito, riconduce l'esperienza tossicomanica ad una semplice struttura cognitiva che orienta le routine quotidiane e l'agire individuale, una struttura formata da una serie di eventi codificati in una successione logico-temporale circolare in cui il risultato di un evento diventa il prerequisito per il successivo, ovvero: hustling, che identifica l'insieme delle strategie finalizzate a procurare il denaro necessario all'acquisto di roba; coping, che identifica tutte le attività connesse al procurarsi la sostanza (scelta del luogo, dello spacciatore, l'acquisto, ecc.); get-off, ossia il consumo della sostanza per ottenere l'effetto desiderato. Il soddisfacimento del bisogno individuale di eroina, fisico e psicologico, costituisce insieme il fine dell'agire del tossicodipendente e la premessa per la ripresa di questa sequenza di azioni che preservano, pur con significati differenti rispetto alle fasi precedenti della carriera, un carattere sociale innegabile: la dipendenza, infatti, costringe il soggetto a costruire e mantenere le reti di relazione necessarie a proseguire in questo stile di vita e ad adottare, anche in relazione ad esse, le strategie più idonee a recuperare il denaro sufficiente ad acquistare la dose, nel "pragmatismo" [Taylor 1993] richiesto dalle contingenze. Su questi aspetti si riflette in questa sede in modo approfondito, avendo ben chiaro che ci si muove entro un mondo di vita che, come si è avuto modo di osservare, è costruito da e su logiche di azione, valori e modalità di relazione intrinsecamente aggressive e violente [Sommers et al. 2000], che espone le donne ad una particolare condizione di vulnerabilità, data dalla loro inferiorità dal punto di vista della forza fisica, ed influenza al tempo stesso il loro margine di azione e relazione: "S. ti fai una corazza talmente forte a stare in quell'ambiente... alla base di tutto ti ho detto che secondo me c'è l'ignoranza, ma in quel contesto hai la presunzione di riuscire a sopportare tutto, di essere invincibile L. questa presunzione ti viene dal fatto che ti senti forte quando prendi la sostanza o dal fatto che credi che in qualsiasi momento puoi staccarti dalla sostanza? S. questa è una motivazione, però la presunzione c'è anche dal fatto che quando sei in quell'ambiente e sei donna devi comunque avere gli attributi maschili tra virgolette perché se no sei... L. cioè devi mostrarti aggressiva? S. sì, non puoi permetterti di mostrarti debole, di avere paura... L. quindi è per quello che dici che devi farti la corazza?

S. sì, perché per dirti vai a prendere la roba a Quartoggiaro o alle cartiere a Verona, nei campi che ci sono in periferia... e ti trovi 40 uomini e 3 donne, cioè capito? Il coraggio ti viene dal bisogno, il coraggio ti viene proprio dal bisogno L. e ti sono capitate situazioni pericolose? S. mi sono capitate sì, appunto, trovi spesso quello che ti dà la roba e vuole approfittarsene perché comunque sa di avere la forza di farlo... ed è chiaro che poi fai molta fatica a ritornare indietro quando hai vissuto situazioni del genere, se sei sola come nel mio caso vai avanti lo stesso a livello di sentimenti, ti costruisci una barriera, e in fin dei conti ti crei un'immagine che non riesci poi a distruggere, che poi è quell'immagine che ti impedisce anche di abbassarti a chiedere aiuto" (Sophie, 40-45 anni). "L. prima mi dicevi che avevi accompagnato anche queste amiche a prostituirsi però tu alla fine non l'hai mai fatto J. esatto. Le mie amiche le accompagnavo, insomma, non sai mai chi ti capita, in due è meglio che da sola, capito? Se proprio lo devi fare io ti accompagno, salgo anche in macchina e dopo prendo e me ne vado, mi giro, tu fai quello che devi fare, io esco, vado a farmi una camminata e però siamo in due capito? In due è sempre meglio in queste cose L. è un mondo forse un po' rischioso per una ragazza? J. sì, ma io me la cavavo bene, pare, magari mi portavo a dietro il coltello... perché poi l'eroina ti cosa proprio capito? Ti cambia la mente, diventi veramente un fulminato, non ti rendi conto del bene e del male..." (Jodie, under 21 anni). 1. Le strategie di "hust/ing" 1.1 Patchwork "K.Bè, le prime volte con un grammo ci vai avanti anche due giorni; ad esempio, un grammo ce lo prendevamo un week end e il week end dopo ne avevamo ancora, poi però inizi ad aumentare la dose finché arrivi anche a 3 grammi al giorno, magari anche a testa, perché poi a tirarla ne sprechi tanta L. quindi erano... circa 150 euro, un centinaio di euro al giorno? K. più o meno sì, per quello poi ci siamo cascati in pieno, poi forse quando si è in due è peggio perché uno tira l'altro, una volta proponi tu, una volta lui, e arrivi che neanche ti accorgi di averne... cioè arrivi a fartene 3 grammi che neanche ti rendi conto" (Kimmie, 26-30 anni). "M.Al giorno ne usavo 5 gr. circa prima di smettere... comprandola in blocco bene o male è sui 100 curo" (Mollie, under 21 anni). Questi brani danno una dimensione, per quanto relativa possa essere', del dispendio di denaro necessario a sostenere il consumo di eroina nelle fasi in cui esso ha acquisito una ritualizzazione quotidiana a causa della dipendenza, che in entrambi i casi è stato stimato in circa 3000 curo al mese, ovvero molto più di quanto una persona comune possa guadagnare con lo svolgimento di qualsiasi professione nel mercato del lavoro, cui si devono aggiungere le spese necessarie per il normale sostenimento (vitto, alloggio, vestiario, ecc.). Questa semplice constatazione apre le

porte alla discussione sulle strategie che le donne mettono in atto per provvedere al sostentamento della propria dipendenza, un ulteriore tema su cui la letteratura ha riflettuto in modo limitato e a volte stereotipizzato, relegando la donna ad una posizione di subordine e passività rispetto all'uomo nella misura in cui sostiene che il partner costituisce la fonte principale di sostentamento economico e approvvigionamento di roba (il maschio come breadwinner, colui che guadagna "il pane" per la famiglia) e che, se deve essere riconosciuta una qualche autonomia alla donna, questa gravita essenzialmente intorno alla propria mercificazione sessuale. 2 La prima di queste si scontra, nella pratica, con un ragionamento abbastanza intuitivo: se è possibile, soprattutto nelle prime fasi della dipendenza, che la donna venga sostenuta dal proprio partner, specie se si tratta di uno spacciatore, è al tempo stesso molto difficile che questa situazione si possa protrarre nel tempo in quanto possono verificarsi una serie di eventi (come la rottura della relazione o l'arresto del partner) che metterebbero a rischio la possibilità di proseguire con il consumo di eroina e, soprattutto, potrebbero portare alle sofferenze connesse all'astinenza. È vero che nelle prime fasi di contatto con le droghe il ruolo delle intervistate si mantiene spesso nell'invisibilità, in quanto l'uso è vincolato a opportunità e situazioni che si presentano spesso casualmente e in quanto raramente - se si escludono le giovanissime - vi è una esposizione diretta all'acquisto, al contatto con lo spacciatore, alle transazioni economiche, agli spostamenti in altre regioni per recuperare la sostanza; ma è altrettanto vero che nella condizione di dipendenza non può essere lasciato spazio alla casualità, nè nella costruzione di reti di conoscenze ed informatori che permettono di allacciare relazioni con persone del giro e apprendere modalità meno rischiose di acquisto della roba, nè nel guadagno del denaro necessario ad acquistare la sostanza3. Dunque, se si esclude qualche raro caso (precisamente, Felicia e Phoebe) la condizione di dipendenza e l'assunzione quotidiana della sostanza impongono un'esposizione autonoma all'acquisto di eroina e l'uscita dall'invisibilità che caratterizzavano le fasi iniziali della socializzazione alle droghe4. Rispetto all'argomentazione dell'uso quasi esclusivo della prostituzione come forma di sostentamento, la sua plausibilità, almeno a livello teorico, potrebbe essere sostenuta dalla valutazione che questa attività comporta meno rischi (in quanto non è illegale) e un guadagno più alto rispetto ad altre forme di sostentamento: se è vero, come sostiene Rosenbaum [1981], che la scelta del tipo di "lavoro" da svolgere per poter sostenere la propria dipendenza è basata più su valori estrinseci che intrinseci - ovvero si basa più sul maggior guadagno conseguibile che su una valutazione dei propri interessi e delle attitudini personali - la prostituzione può sicuramente costituire una risorsa aggiuntiva e non trascurabile per il genere femminile, soprattutto per chi non vuole o non può superare il confine della legalità. Acquistare e consumare droga è di per sé un'attività illegale e viene riconosciuta come tale, ma la giustificazione che ne danno consumatori e tossicodipendenti è di un'azione che procura un danno solo a sè, di un crimine senza vittima, mentre compiere altre azioni illegali per potersi sostenere economicamente si

costituisce come un vero e proprio crimine con vittima, nel quale si procura un danno a terzi: vi è, dunque, una separazione simbolica molto forte tra ciò che è considerato moralmente approvabile (usare droga) e ciò che invece è deprecabile (usare il crimine per procurarsela) [Rosenbaum 1981]. Le ricostruzioni biografiche effettuate in questa sede ridimensionano entrambe le ipotesi sopra esposte e le relative argomentazioni. L'adozione di una prospettiva diacronica permette, infatti, di evidenziare da un lato come le strategie messe in atto dalle donne per guadagnare denaro risentano molto della lunghezza del periodo di tossicodipendenza, dall'altro come tali strategie si fondino non solo su mere valutazioni economiche, ma anche su considerazioni valoriali che le pongono spesso in continuità con l'universo dei valori "convenzionalei5. I mezzi di sostentamento che si è avuto modo di rilevare sono i seguenti: a. sul versante della legalità: -occupazione nel mercato del lavoro, più o meno stabile (21 donne); -vendita di oggetti personali di valore (3); -richiesta esplicita di denaro ai familiari (10); -sostentamento della propria dose tramite amici o partner (14); b. situazioni di confine, che possono contrastare con valori morali, più che con norme giuridiche: -ospitalità a spacciatori in cambio del rifornimento quotidiano (3 donne); -furti in ambito familiare (8); -accattonaggio e colletta per la strada (4); -mercificazione sessuale: dallo scambio sessuale per la dose (9) alla prostituzione da strada (12); e. sul versante dell'illegalità: -spaccio (dal piccolo spaccio alla grande distribuzione) (28 donne); -furti e taccheggi (9); -truffe (2). Nel complesso, i dati mostrano che 12 intervistate (22%) si sono sempre mantenute nella

legalità, 14 donne (26%) hanno utilizzato anche strategie che si sono definite "di confine" ed oltre la metà delle intervistate è pervenuta, nel corso della propria carriera tossicomanica, anche al compimento di attività illegali (28 donne). Prima di procedere con una analisi più approfondita sulle due forme di sostentamento principale utilizzate dalle intervistate, ovvero lo spaccio e la prostituzione, vi è da osservare che il superamento del confine del lecito avviene generalmente solo quando gli altri metodi legali sperimentati non possono più essere utilizzati [Taylor 1993] e che le diverse strategie indicate più sopra vengono spesso composte flessibilmente in una sorta di patchwork in riferimento alle situazioni che si presentano nella contingenza. Raramente si nota una "specializzazione" in una sola di queste attività anche perché gran parte di esse, se si escludono, appunto, lo spaccio e la prostituzione, possono essere considerate più degli espedienti che delle fonti di guadagno stabili, soprattutto quando il coinvolgimento con la sostanza è fuori controllo e la decisione di rivolgersi ai servizi non è ancora maturata. Queste considerazioni rimangono confermate anche per il gruppo più esiguo di donne rimaste in tutto l'arco della propria carriera tossicomanica entro i confini della legalità, che nella maggior parte dei casi affiancano ai proventi delle proprie attività lavorative gli aiuti economici della propria famiglia d'origine o del proprio partner. Si noti che, sebbene in questo gruppo rientrino prevalentemente le donne che si sono identificate come brave ragazze nella fase di presocializzazione alla droga, l'esigenza di attingere a fonti alternative di denaro (immorali/illegali) non si è realmente presentata per una più precoce decisione di ricorrere al trattamento - certo anche influenzata dalla non-volontà di proseguire con un tale dispendio di denaro - c/o per una disponibilità economica sostanzialmente superiore a quella di tutte le altre intervistate. Gli unici casi devianti di questo gruppo, che presento per la loro consonanza con gli stereotipi di genere, sono quelli di Loren e Felicia, che hanno utilizzato un'unica fonte di sostentamento, ovvero il rifornimento della propria dose da parte del partner e di amici, la prima, e la ricerca di uomini benestanti estranei al mondo della droga dai quali ricavare il proprio mantenimento, la seconda. "L. all'inizio stavo con sto tizio, non è che mi sono mai interessata a come facevano ma lui stava con quest'altro ragazzo e quando andavo li la trovavo, l'avevo sempre a dispo sizione, non sapevo per dire neanche quanto costasse; dopo lui mi aveva fatto notare, quando ci siamo lasciati, che lui spendeva un sacco di soldi, ma io non me ne rendevo conto [...]. Poi inizi ad attaccarti sempre di più a questa persona comunque perché poi è l'unica persona che te la può trovare, perché se non sai, non conosci il giro devi attaccarti a questa persona... poi non so come spiegare ma ti sembra che questa relazione diventi sempre più intensa, forse per questo motivo..." (Loren, 22-25 anni). "F. mah, io trovavo sempre situazioni con uomini da mangiargli fuori un po' di soldi, da recuperare un po' di qua e un po' di là... cercavo proprio persone che stavano bene economicamente, ci andavo a vivere insieme... un po' mi arrangiavo così e riuscivo a mantenere questo vizio. Era una situazione squallida, non c'era amore né niente, vivevo insieme a ste persone perché sapevo che mi davano dei soldi L. e loro non sospettavano niente?

F. in genere lo sapevano, ma erano persone a cui andava bene, persone deboli, così... sai, quelli che hanno tanti soldi alla fine sono anche abituati a pensare di potersi comprare tutto e tutti, e quindi era anche un gioco, una cosa che stava bene a tutti e due, io avevo i miei soldi e loro avevano qualcuno da mostrare in giro e che gli stava vicino" (Felicia, 40-45 anni). 1.2 La vendita di droga La maggioranza degli studi etnografici condotti sulla scena internazionale, sapientemente sintetizzati da Maher e Hudson [2007] e Rodriguez e Griffin [2005], è concorde nel rilevare il potere limitato delle donne nel mercato della droga, il cui ruolo si definisce secondo i seguenti caratteri: il mercato della droga è gerarchicamente stratificato sulla base del genere; le donne rimangono generalmente confinate a ruoli marginali e di sostegno delle attività di spaccio dell'uomo; sono in grado di sfruttare le loro doti femminili e gli stereotipi di genere per sfuggire al controllo delle forze dell'ordine e per crearsi una rete di relazione con i clienti basata sulla relazione e su valori etici forti (come l'onestà, l'etica e la moralità); nel mercato della droga, come nell'ambito delle responsabilità domestiche, sono in grado di assolvere a molteplici ruoli e funzioni secondo le necessità6. Per quanto, nell'indagine in oggetto, il livello di approfondimento di tale aspetto non consenta di analizzare nello specifico alcuni di questi aspetti, le ricostruzioni biografiche forniscono conferme ad alcune di queste considerazioni. Circoscrivendo l'analisi alle 28 donne che nel corso della propria carriera tossicomanica hanno svolto attività di spaccio (a volte unite a furto e taccheggio) si può evidenziare che nella maggior parte dei casi tale attività era finalizzata al puro sostentamento della propria dose quotidiana [Som mers et al. 2000] - nonostante i guadagni fossero spesso superiori al necessario - e le relazioni interpersonali nel giro di attività si caratterizzavano in senso fortemente sessualizzato. Anche questo discorso merita, però, alcune precisazioni che ci vengono dalla stratificazione del campione per età. Innanzitutto, tra le spacciatrici si nota una presenza molto consistente di giovani ragazze con un'età inferiore ai 25 anni, ben 9 su 16, la cui attività di spaccio è iniziata ben prima della dipendenza da eroina, nonostante avesse un carattere di maggiore occasionalità essendo per lo più limitata a situazioni e contesti ricreativi'. Le loro rappresentazioni sono abbastanza ambivalenti in quanto, sebbene riconoscano razionalmente che lo spaccio è un reato e comporta la possibilità di essere arrestate, nella realtà ne sottovalutano i rischi concreti adducendo diverse forme di giustificazione, soprattutto la facilità di guadagno, il fatto di non poter pesare sui propri genitori per un loro vezzo o che mancando del loro sostegno economico quella è la via più semplice per potersi mantenere; accanto a questo tipo di ragionamento, considerano altre attività altrettanto redditizie, come la prostituzione, una forma di guadagno deprecabile moralmente, nonostante alcune abbiano pensato di intraprenderla. La lunga socializzazione ai contesti della droga precedente alla dipendenza da eroina ha

permesso a questo gruppo di ragazze di essere sufficientemente disinvolte nell'intrattenere relazioni con i fornitori di droga (spesso basate su sentimenti di amicizia c/o amore), nel crearsi un giro di clienti tale da garantire una certa continuità lavorativa e nel preparare autonomamente le dosi da vendere, tagliando le droghe con percentuali elevate di altre sostanze in modo da massimizzare i propri profitti8. Solo in un caso (Jasmin) l'attività di spaccio, unita a furti e taccheggio, è considerata come intrinsecamente separata e indipendente dal consumo di droga, in quanto la difficoltà a trovare un lavoro e l'assenza di sostegno da parte della famiglia d'origine costituiscono per lei motivazioni sufficienti a ricorrere a forme di sostentamento alternative; in tutti gli altri casi, al contrario, il reato è giustificato esclusivamente dalle necessità economiche connesse alla droga. Infine, aldilà di qualche caso nel quale allo spaccio si affiancano episodi di furto e taccheggio e in virtù del breve periodo di dipendenza, questa strategia rappresenta per queste ragazze la fonte prevalente di sostentamento, affiancata dall'eventuale sostegno degli amici (per lo più spacciatori) nella fornitura di roba. Si leggano alcuni brani estratti dalle loro interviste: "L. ma la usavi tante volte al giorno F. eh sì, perché a fumarla ne devi usare tanta, sennò non la senti L. come facevi a comperartela? F. la vendevo. Ma sì, me ne fregavo perché di soldi ne facevi tanti e roba ce l'avevi sempre, non dovevi contare i soldi... io la compravo e la rivendevo, facevo circa 1000 curo ogni 3 giorni, cioè non è che potevo pesare sui miei per sta roba... la compravo, ne tenevo per me e il resto la vendevo. Piuttosto che andare con qualche marocchino o finire sulla strada preferivo far questo, tanto se gli sbirri vogliono prenderti ti prendono lo stesso, sia che ti prostituisci, sia che spacci, sia che rubi L. ecco tu parli degli sbirri, ma non pensavi appunto che ti avrebbero presa e saresti potuta finire in carcere? F. mah, io ho sempre detto che se venivano a prendermi almeno ne uscivo, cioè speravo quasi che mi prendessero perché era l'unico modo per uscire da sto giro, e mi dicevo "continuo a spacciare finché non mi vengono a prendere, poi quando mi vengono a prendere sarà allora che mi tiro fuori" (Francis, under 21 anni). 'T. è brutto adesso che ci penso, è veramente brutto, però son sempre stata li, fissa a quei pensieri, i discorsi con gli altri andavano sempre li, a cosa provare per sballare, cosa andiamo a prendere, quante ne prendiamo, ne dobbiamo vendere perché ci dobbiamo fare su i soldi L. aspetta, allora mi dicevi che a un certo punto hai cominciato a venderla; era il tuo unico modo per recuperare i soldi o ce ne erano altri? T. non sono mai arrivata a prostituirmi, un po' perché ho sempre detto di no anche se avevo la possibilità, piuttosto stavo male... anche in quei momenti in cui proprio stavo male son riuscita a dire di no, forse perché poi riuscivo sempre a trovare qualche persona o un

aggancio, non sono mai arrivata a dire "ok lo faccio". Ho avuto tanti amici extracomunitari, anche il mio ex lo era, e quindi avevo facilità nel recuperare la roba... ho iniziato già a 15 anni, smettevo ogni tanto e poi mi hanno arrestata per spaccio. 6 mesi a indagata 3 anni e 4 mesi" (Taylor, 22-25 anni). "J. all'inizio tenevo un tunisino a casa, solo che si faceva le sue cose ma in un'altra città che ne sapevo io... sapevo che faceva logicamente, ma non che le facesse lì... poi quando hanno arrestato lui, sapevano che abitava da noi e quindi me l'han fatta pagare e sono andata in carcere... L. perché lo ospitavi se sapevi che trafficava? J. per andare avanti... lui mi pagava l'affitto, e io sono stata... l'ho ospitato perché non ce la facevo ad andare avanti per i soldi e quindi me lo son presa in casa, ho sbagliato perché ho sbagliato, ma al momento non era stata una brutta idea, poi che ci son stati problemi è un altro discorso [...]. Poi sono andata da mia sorella a *, lì è stato un incubo, non dovevo mai andarci, lì ho sbagliato ma mia sorella mi diceva di andarci perché mi son trovata senza soldi, senza casa, a dover trovare i soldi per campare, un macello, [...] e come fai ad andare avanti? Spacci! Se no come fai ad andare avanti, rubi? L. per te lo spaccio è meno grave rispetto a rubare? J. è la stessa cosa, ma non è che io mi son fatta problemi nel rubare... anche io ho rubato, non è che non rubavo, rubavo la notte magari nei negozi, sennò come fai ad andare avanti... e mi è sempre andata bene per fortuna, però preferisco dare la pallina [l'eroina, venduta in piccole dosi di forma sferica, n.d.r.] che andare a rubare nel negozio, rubare non l'accetto perché se rubassero a me? Io non è che ci starei tanto bene... se mi vengono a rubare... va bene che i negozi hanno le assicurazioni, non è che ci perdono, però è uguale insomma... io non l'accetto, è una cosa brutta, se succedesse a me non starei tanto bene L. non hai mai pensato di andare per la strada? J. no, no, io per andare a letto con una persona mi ci vuole un'eternità, non sono una ragazza facile, mi fa schifo e non son mai stata quella del ragazzo... sì, ne ho avuti, però non storie di sesso... l'ho fatto solo con *, che è durato 5 anni, sì, ma non sono mai stata la ragazza che puntava su queste cose, se viene bene, altrimenti sto sola, meglio sola che male accompagnata" (Jasmin, under 21 anni). Nelle donne con un'età superiore ai 25 anni le situazioni sono molto diverse tra loro, ma nel complesso aumentano le capacità/necessità di patchwork delle diverse attività, anche in virtù di una carriera tossicomanica più lunga che lo impone. Se ci si limita al gruppo delle 18 donne che ha svolto attività di spaccio, dunque, all'assenza quasi totale di forme di sostentamento legale si affianca la sperimentazione di diversi metodi illegali e "di confine", tra cui spicca per frequenza il ricorso a forme di mercificazione sessuale (prostituzione o scambi di sesso per la dose). La prostituzione da strada si caratterizza nel nostro campione di donne essenzialmente come una forma di ripiego, poiché ben 9 intervistate su 12 l'hanno messa in atto in seguito ad arresti o segnalazioni per spaccio di stupefacenti, che hanno riguardato loro in prima persona o altri che facevano parte del giro ristretto di amici; in analogia a quanto evidenzia Taylor [1993], dunque, il ricorso alla prostituzione avviene più facilmente quando altri metodi, anche illegali, falliscono,

come se il limen etico fosse più difficile da superare di quello legale e i valori morali prevalessero su meri calcoli di costi e benefici. Su questo aspetto si ritornerà tra breve, in quanto è importante segnalare che in questo gruppo di spacciatrici si ritrovano 6 donne la cui attività di spaccio non si è limitata alla piccola distribuzione e al sostentamento della propria dose quotidiana ma si è caratterizzata come una vera e propria attività criminale strutturata9: Brenda e Sibilla, per un breve periodo, ereditano dai rispettivi mariti in carcere un ruolo importante nel giro di spaccio; Charlotte diventa già da ragazzina, e per molti anni, corriere di un traffico di sostanze tra l'Italia e l'estero, inizialmente con il sostegno del compagno e, alla sua morte, in modo del tutto autonomo; Darla, Brooke e Kelly si creano autonomamente una rete di spaccio di cui sono le leader. Vi è da di re che l'autoimprenditorialità che caratterizza queste donne è solo apparentemente distante dagli stereotipi di genere e dal sistema di stratificazione sociale gender-oriented del mercato della droga. Brenda e Sibilla governano le loro reti di spaccio sotto la direzione e protezione dei propri mariti; Darla, del suo ruolo di spacciatrice, enfatizza gli aspetti che riguardano le sue capacità di relazione e di accoglienza quasi materna dei propri clienti e l'onestà con cui prepara le dosi da vendere ("tagliandole" poco e con sostanze neutre); Brooke punta sulle sue capacità di mantenere una doppia immagine sociale, di figlia e lavoratrice modello, da un lato, di spacciatrice ricercata dall'altro; Kelly e Charlotte mettono in luce, oltre all'orgoglio di avere un ruolo importante nel mercato, le loro capacità di sfuggire ai controlli delle forze dell'ordine per il loro aspetto insospettabile derivato dall'essere donne. Di seguito i brani più significativi di alcune di queste interviste: "D. sì ma vedi, piuttosto che andar per strada, andare a letto con chiunque, vedi le donne anche adesso cosa fanno per una busta... ti riduci a una larva, io sono sempre stata lucida, la prendevo per non pensare alla mia vita che era un disastro, al fatto che non avevo il mio bambino... non so quella per me è una roba... cioè piuttosto vado a rubare... va da persona a persona poi, ma ecco nella mia esperienza, io ho sempre voluto averi rapporti onesti con le persone, quando vendevo non è che tagliavo la roba chissà con cosa, io davo la roba buona e magari ci ricavavo di meno però le persone si fidavano di me [...], le persone venivano da me perché sapevano che potevano trovare anche sostegno, ascolto [...]. Io ho sempre cercato di mantenere un'immagine di un certo tipo, anche fuori dal giro, perché... mi dava fastidio che gli altri mi pensassero come tossica, non davo l'evidenza a nessuno [...]. Adesso è tutta un'altra mentalità, una volta era proprio completamente un'altra storia, adesso sarebbero capaci di ammazzarti per la roba... una volta si stava insieme, ci si faceva insieme, era diverso... io ospitavo sempre gente in casa, a volte venivano magari anche i ragazzi che si prendevano la roba e io gli dicevo "va, piuttosto che andare in giro per la strada fermati e fatti qui", restavano da me perché trovavano appoggio, ascolto, cioè [...]. Una volta c'era un senso, anche nel non-senso" (Darla, over 45 anni). "C. _è stato un attimo ritrovarsi impestati di roba e cominciare a vendere, perché per vivere vendevi L. per cui tu stavi sempre con questo ragazzo?

C. sì, sì, io vivevo con questo ragazzo, si facevano i viaggi all'estero e si portava qua la roba, è andata avanti per 15 anni quasi così [...] finché è morto, sì, sì. Lui è morto di Aids, io l'ho presa da lui perché non mi disse niente che era sieropositivo [...]. Tante cose le facevo con lui, tante cose poi le facevo da sola. I viaggi che facevo all'estero li ho sempre fatti da sola per una sicurezza mia L. in che senso? C. perché non mi son mai fidata di nessuno, in prigione non sono mai voluta andare. Non mi sono mai fidata di nessuno, sapevo che se facevo le cose da sola... sapevo che se cadevo e se mi prendevano la colpa era solo mia e non coinvolgevo nessuno [...] vivevo 6 mesi in Italia e 6 mesi all'estero, ho comperato anche una casa là e non mi facevo quando ero li, avevo un giro di amici tutti stranieri che vivevano anche loro in quel posto. Dopo io partivo, tornavo in Italia, portavo qua un bel po' di roba, avevo l'appartamento che tenevo affittato, lo subaffittavo a degli amici quando partivo, quando ritornavo mi ri tornava l'appartamento, vendevo la roba che avevo, mi ritiravo su i soldi per ripartire, poi magari partivo un mese prima e mi facevo magari un viaggetto qua e là per il mondo L. un bel giro di soldi allora? C. sì perché lì la pagavo pochissimo, adesso non porterei in qua neanche un grammo di roba e se penso alle cose che ho fatto mi vien paura perché ti arrivavo in aeroporto con un kg di roba addosso, 20 anni avevo, cose che non farei mai adesso... avrei paura a portarlo da qui e a lì un etto di roba adesso, lì c'erano giri di kili. Poi cominci a conoscere gente più grande, cominci ad avere altre offerte di lavoro, cominci a fare il corriere, cominci ad avere i viaggi pagati, per cui sono tutti soldi in più che vengono. Io bellina, morettina, piccolina, una studentessa tutta "tititi, tititi", chi è che mi fermava? Non mi ha mai fermata nessuno. Mi è sempre andata bene, mi è sempre andata bene..". (Charlotte, 40-45 anni). `B. io avevo un fornitore me ne forniva parecchia, quanta ne volevo, me la dava a credito, io prendevo un etto per esempio, mezz'etto lo vendevo e l'altro mezz'etto rimaneva mio di guadagno, potevo decidere di venderlo oppure di farne uso. All'inizio pensavo di gestirla la cosa, dopo invece in breve tempo il mezzo etto che in teoria doveva essere di guadagno era tutto per festini [...]. Io non tiravo mai da sola, io dovevo stare sempre in compagnia, quindi la regalavo... figurati quanti amici avevo in quel periodo, tutti amici erano! L. ed era gente di un certo status? B. pochi, erano tutti ragazzini rispetto a me, io ne avevo 30 e questi qui erano tutti dai 20 ai 25 anni, la gente che veniva con me a ballare a Brescia e la bene della città dai... e il fatto anche di sentirti un leader, no? ti dava importanza, soldi te ne giravano a iosa e dai... prendi una tangenziale che non torei più indietro... e niente, quindi continuavo a spacciare a vendere a farne uso sempre più massiccio [...]. Soldi, la possibilità di... ero un leader, la Brooke era la Brooke, "vai dalla Brooke, tranquillo!". Io mi potevo permettere tutto, dì lasciar la gente a piedi e il giorno dopo me li trovavo come niente fosse successo che se adesso facessi una cosa del genere... quando io tiravo ero un po' fuori, avevo le mie manie di persecuzione nel senso che mi vedevo sbirri dappertutto e cosa facevo? lasciavo in giro la gente a piedi, perché io sapevo che su di me potevo contare, perché potevo esser fuori fin che volevo però il mio aspetto non cambiava. Imbrogliavo a casa mia, mia mamma, mia sorella, andavo a casa, mangiavo e in realtà quando tiri di coca non mangi. Quindi riuscivo a gestirla molto bene la cosa, eran 2 vite che conducevo, una da tossica e una da commerciante, la brava ragazza che

lavora, che va a casa e mangia, dorme [...]. Ah, e poi tu mi dicevi del leader: a me piace esser un leader, è un mio punto debole e questo me lo vivo spesso perché voglio essere al centro dell'attenzione, voglio prendere la parola, le percepisco ste cose perché io ho scarsa autostima di me stessa e quindi la ricerco negli altri. Io non sono niente, non valgo niente, solo se tu mi dici "che carina che sei" allora mi guardo allo specchio e dico "sì è vero", se no se mi guardo allo specchio mi dico "che schifo che faccio" (Brooke, 40-45 anni). In tutti i casi, lo status di illegalità dello spaccio primo o dopo determina la sospensione di tale attività e la valutazione di forme alternative di sostentamento, come fa notare Jodie: 'J. vendevamo un po' di coca, vendevamo così, tiravamo su i soldi e prendevamo la roba però... tenere in casa la roba... alla fine vendevamo solo manna L. manna che significa? J. la manna è il taglio della coca, la prendi in erboristeria, è una polvere bianca che serve a far cagare [la mannite, un purgante di origine naturale, n.d.r.]... e ci tagli la coca, solo che è dolce, vendevamo capito anche solo quella... dopo un po' finisce la roba, finiscono i soldi, non è che puoi continuare anche perché dopo un po' comunque sei seguito, sei osservato, sanno cosa fai, vedi che ti arrestano le persone intorno, i tuoi soci, cioè devi comunque trovare altri mezzi... io vabbè ho rubato, abbiamo rubato un televisore al centro commerciale, il lettore dvd, cellulari, poi capito... ma sei sicura che queste cose non vanno ai carabinieri?! L. ma scherzi?! J. ok, poi d'estate io avevo questo mio amico e andavamo magari a fare le macchine... sai magari in montagna o così, la gente che va a camminare o raccogliere funghi non è che si tiene la fede o gli ori addosso, o magari il portafoglio che non ti porti dietro e lo lasci in macchina... oppure amfetamine da vendere soprattutto ai parties o rave, poi a me non me ne fregava niente, nel senso..." (Jodie, under 21 anni)10. 1.3 La vendita del proprio corpo Sulla mercificazione sessuale si apre un'ulteriore discussione cruciale nella comprensione dei modi femminili di vivere la dipendenza, intendendo con essa sia la prostituzione da strada, che interessa 12 intervistate, sia lo scambio di prestazioni sessuali per la dose, utilizzato come espediente aggiuntivo ad altre forme di sostentamento da 9 intervistate'. Dalle interviste emerge una separazione simbolica tra queste due forme di vendita del proprio corpo, in quanto coloro che usano il proprio sesso per ottenerne una dose in cambio non la percepiscono come una forma di prostituzione, perché questo tipo di transazioni non ha un corrispettivo in denaro e perché la concessione di sé avviene a persone selezionate, ovvero a spacciatori del proprio giro con i quali si intrattengono relazioni amicali o sentimentali; in tre casi ne viene, inoltre, esaltata più la finalità edonistica, ovvero di provare un piacere dall'atto sessuale, che strumentale, ovvero ottenere l'eroina: "J. a un certo punto ho iniziato a frequentare ovviamente... a vedere come procurarmela, per cui extracomunitari che la maggior parte son quelli che la vendono... per cui iniziavo a

frequentare loro, poi io conosco quasi tutti qua, iniziavo... avevo tante amicizie... non ho mai speso una lira io dei miei soldi anche perché non ho mai lavorato, non avevo soldi per cui, per fortuna... non è che posso dire che non mi sono mai prostituita... alla fine è come se l'avessi fatto perché andare con il marocchino di turno non perché ti piace ma perché c'ha la roba è la stessa cosa, e però non è proprio la stessa cosa, non so come spiegare... E insomma mi mettevo insieme a loro, stavo insieme a loro fino a che li arrestavano [...]" (Judith, 22-25 anni). "K. la prima differenza tra donne e uomini secondo me è nel procacciarsela: le donne hanno l'arma che sono donne, e quindi usano il loro sesso per averla, lo usano sia per averla che per guadagnare i soldi per poterla poi comprare. E questa è una delle differenze sostanziali, e poi... L. a te nello specifico è mai capitato questo? K. mah, che non mi sia capitato di andare con ragazzi extracomunitari... mi è capitato perché mi piaceva, e nel contempo me la davano... cioè nel mio caso scindere le due cose non è possibile, nel senso che quando c'è la droga non vedi il resto, probabilmente non ci sarei stata insieme se non ci fosse stato il discorso della droga L. quindi tu hai avuto storie con uomini che spacciavano? K. sì, sì sì, però questo... cioè c'è anche chi ti chiede di farsi la scopata e ti dà la roba... le donne sono più avvantaggiate secondo me, soprattutto all'inizio" (Kelly, 36-39 anni). Riguardo la prostituzione da strada, il primo dato da evidenziare è strettamente quantitativo, in quanto tale strategia di sostentamento è stata utilizzata da poco più di un quinto delle intervistate. Come evidenzia Taylor [1993], la letteratura è divisa circa l'importanza e il reale utilizzo da parte delle donne di tale forma di sostentamento, anche perché gli studi esistenti non presentano un carattere di sistematicità e sono spesso influenzati dal contesto e dal periodo di rilevazione12. Alcuni studi condotti sulle eroinomani [Blom & van den Berg 1989; Rosenbaum 1981; Rosenbaum e Murphy 1990] notano, ad esempio, che la prostituzione costituisce la fonte principale di sostentamento per la maggior parte delle tossicodipendenti, eventualmente integrata con altre attività illegali, mentre Fagan [1994] e Sommers et al. [1996] sostengono che i mutamenti sociali del ruolo della donna e i relativi mutamenti del mercato della droga abbiano offerto loro un range di alternative maggiore di quanto non lo fosse in passato e che il successo nell'attività di spaccio costituisce un fattore di protezione per il rischio di intraprendere la prostituzione. Quest'ultima considerazione è coerente con i risultati che si espongono in questa sede: le scelte metodologiche operate hanno portato alla selezione di donne di età ed estrazioni sociali differenti, dunque questo fattore può incidere su una più bassa numerosità di prostitute osservata che, tra l'altro, sono in larga parte donne con un'età superiore ai 40 anni13, probabilmente sopravvissute all'epidemia di Aids degli anni Novanta per la loro capacità di mantenere un certo controllo nonostante lo stato di indigenza e bisogno. In letteratura viene, infatti, sostenuto che la prostituzione costituisce per le donne un rischio aggiuntivo nella contrazione delle malattie

infettive a trasmissione sessuale [Anglin et al. 1987a; Chatham et al. 1999; Grella, Joshi 1999; Hser et al. 1987a, 2003; Mitchell, Latimer 2009; Stewart et al. 2003; Wechsberg 1998]; le intervistate sostengono di non aver mai avuto rapporti sessuali non protetti con i propri clienti, ma evidenziano che spesso essi sono disposti a pagare molto di più per prestazioni senza preservativo, e questo può effettivamente costituire una tentazione notevole per una tossicodipendente la cui attività è finalizzata esclusivamente al guadagno, in quanto la resa economica è certamente superiore a fronte di un numero inferiore di marchette [Cusick 2006; Gossop et al. 1995]: "K.Ma io non vado con uno che non conosco senza preservativo.... Per carità, ci sono quelli che ti pagano il triplo se non lo usi, ma no questi son matti... veramente non ti immagini quanti ti dicono "se non usiamo il preservativo ti do il doppio". E ogni tanto vien da dire ok, tanto se te la cerchi, cioè... e tante che venivano con me sulla strada l'hanno fatto alla fine..." (Kimberlee, 35-39 anni)ia "C. le cose ti succedono dopo, finché ci sei dentro non ci pensi. Dopo quando esci da quei giri paghi le conseguenze grosse, anche sessuali, ti porti dietro delle cose che io sto pagando adesso con il sesso, non ho una sessualità... sto con il mio compagno ma non ho stimoli, non ho impulsi sessuali, proprio per quello che è successo prima. E anche li, io ho cercato sempre di usare i preservativi, però l'uomo non lo vuole, e io ho visto altre che si sono rovinate e son diventate sieropositive... perché se tu stai a guardare, io per l'età che ho dovrei essere positiva, è perché ho sempre cercato di usare un attimo il cervello, ma a tante donne può succedere che non hanno soldi, vanno sulla strada per tirar su soldi, e il primo che capita perché stanno male, ma male fisicamente, e quello dice "ti dò il doppio e però lo facciamo senza", e quella ci va, capisci? Non hai la forza di contrattare e dire di no, ti prende in un momento che stai male, io ho visto quelle che stavano in astinenza da tanto e gli vomitavano anche addosso, che dovevano tirar su i soldi... però trovi anche la tossica che mantiene pure il compagno nel vizio, sono rare ma trovi anche quelle, ma magari lui è stato già viziato dalla madre prima... La donna comunque secondo me ci finisce dentro di brutto. E la roba! E la roba! Non so, mettiamola su un piano vizioso, essendo che se la può procurare facilmente... io vedo anche delle ragazzine che fanno così, son venuta a sapere che la danno per avere una pastiglia di ecstasy, fanno cazzate per una pastiglia, per importi assurdi, 5 curo. Ai miei tempi le cifre erano molto più alte, mai a quella cifra lì, non so se hai capito... e sono ragazzine, che si vendono per una canna..." (Cameron, 40-45 anni). Le considerazioni dei professionisti sanitari coinvolti in questa indagine forniscono un riscontro a queste considerazioni, come si evince da questo brano: "D.Ecco, fino allora [a metà anni Novanta, quando la risposta dei servizi per le tossicodipendenze si è diversificata comprendendo programmi con terapie sostitutive adeguati; n.d.r.] la tossicodipendenza femminile si caratterizzava per questo forte degrado che accompagnava l'uso di sostanze, nel senso che nel momento in cui non erano accessibili programmi alternativi, anche di tipo farmacologico (leggi una politica metadonica meno ideologica e molto più pragmatica), il ricordo che ho io delle tossicodipendenti che ho

conosciuto nel decennio anni 80-90, è un ricordo di persone intelligenti, con buone risorse e anche istruzione ma veramente ridotte ad un abbruttimento totale, che era quello legato alla prostituzione. Io credo di aver conosciuto... forse me ne viene in mente solo una o due che non si è prostituita, di quelle che ho conosciuto in quegli anni ovviamente, quindi un numero esiguo. Quindi più che di caratteristiche di tipo nosografico, psicologico o non so che dire, nel pensare a questa differenza mi viene in mente questo [...]. E non parlo di una prostituzione organizzata, ma proprio della prostituzione più dura di strada, senza preservativo, al 5° mese di gravidanza... cioè cose incredibili, un po' se vuoi una scenografia alla Cristian F., questo era... ed è molto diverso vedere queste cose in una donna... molto diverso perché secondo me comunque anche i tossicodipendenti più disperati dal punto di vista dei comportamenti comunque riuscivano a mantenere quantomeno un'identità come persona, quindi magari rubavano, spacciavano, e però dentro un codice dove uno aveva un suo ruolo e una sua dignità [...]. Penso che certi processi di emarginazione sociale... che ci sia anche li una gerarchia dei dannati della terra e che però vede sempre la donna in una posizione peggiore, come se fosse speculare al mondo sopra, quello sfavillante dove tutto funziona e però poi vedi che le donne pagano il prezzo maggiore. E quindi se mi chiedi se dal punto di vista dell'anamnesi psicologica prevaleva qualche tratto particolare, forse troppo era questo aspetto fenomenologico che secondo me copriva tutto il resto. Oggi per fortuna la situazione è nettamente cambiata, la prostituzione legata alla tossicodipendenza esiste ancora ma non è più automatica come era allora. Ci sono un paio di persone che hanno smesso di fare uso di droga e che vedevo allora, e che però continuano a prostituirsi ma sempre per fronteggiare la necessità economica, però è una prostituzione diversa perché loro mi dicono che si scelgono con chi andare" (Domenico Marcolini). In linea con le ipotesi di Fagan [1994] e Sommers et al. [1996] e con quanto si è accennato precedentemente, nella maggior parte dei casi le donne qui comprese sono pervenute alla prostituzione in seguito al fallimento delle proprie sperimentazioni come spacciatrici a causa della detenzione per il reato di spaccio (6 donne) o per l'impossibilità di proseguire nelle proprie attività di spaccio a causa di pedinamenti delle forze dell'ordine o arresti di persone del proprio giro (4) Si noti che il superamento di questo limite morale, comunque sempre interpretato come una scelta autonoma e non soggetta alle influenze del partner (nonostante la sua compiacenza), non è scevro da sofferenze e da serie ripercussioni sull'immagine di sé, molto più di quanto lo è il compimento di reati: mentre lo spaccio è generalmente considerato subordinato e funzionale al mantenimento della propria dipendenza, dunque non è percepito come parte integrante di sé, la prostituzione viene interpretata come un vero e proprio status sociale che si unisce mestricabilmente a quello di tossicodipendente, e la violazione del proprio co dice morale circa la sua deprecabilità alimenta un processo di autostigmatizzazione e auto-colpevolizzazione che contribuisce ad avvicinare sempre di più queste donne all'abuso di droghe in funzione autoterapica, in un circolo vizioso che si auto-alimenta progressivamente [Cusick 1998; Young et al. 2000; Smith, Marshall 2007; Taylor 1993; Karsten 1993]: -C. _stai male, oddio io per andar sulla strada dovevo quantomeno bere, per cui bere lo trovi perché entri in un supermercato e sei a posto, per cui riuscivo ad andar sulla strada a trovare i

soldi per farmi, l'ho sempre fatto che ero quantomeno ubriaca L. quindi bevevi per non essere lucida? C. sì, questo sempre, sempre, perché dovevo farlo per vivere e per tirarmi su i soldi per farmi, ma quando non c'erano i soldi per farmi e non c'erano possibilità..." (Connie, 4045 anni). Questi aspetti vengono evidenziati in modo molto eloquente da questo estratto del racconto di Kate, che arriva alla prostituzione dopo oltre 20 anni di storia di tossicodipendenza in seguito ad un incontro casuale con un uomo che le propone molti soldi solo per spogliarsi: 'K. ...e si arriva alla fine a fare anche questo, tu che appunto magari l'hai sempre rinnegato. E allora capito passi la giornata a fare questo: ti alzi la mattina - oddio, ti alzi la mattina se riesci a dormire poi - ipotesi ti alzi la mattina e bevi grappa, già dalla mattina per non pensare, e dopo cominci a cercare... se hai già i soldi della sera vai tranquillamente, ti prendi, vai ti fai e stai in giro un po', bevi ancora, bevi ancora, bevi ancora finché sei fuori, non senti più niente, sei più aldilà che di qua, e niente poi vai a fare questo per procurarti i soldi per il giorno dopo. E appunto io ho anche avuto la grazia che i ragazzi dell'epoca mica mi dicevano niente... si facevano anche loro, non è che ti mollavano perché tu andavi con altri! Magari non ci andavi a letto con questo, però capito in una relazione normale la cosa dà molto fastidio, a tanti dà fastidio solo se parli con uno ma questo è l'eccesso, però figuriamoci a fare... però il fatto che siete comunque una coppia e usate entrambi eroina, questo passa tutto in secondo piano. Poi a me è successo anche di andare a letto con 2 o 3 persone, vai a letto con qualsiasi persona ma ti diventa proprio come mangiare un panino la mattina, non senti niente tanto perché sei fuori; ti sconvolgi fino ad arrivare al coma etilico proprio pur di non sentire niente, di non provare niente. Questo sempre, tranne il martedì, perché il martedì era la giornata che vedevo mio figlio; allora dalla mattina solo caffè tassativo. Appena lasciato mio figlio, grappa e ricominciavo... e ti rendi conto che vivevi solo per il martedì perché potevi vedere tuo figlio... e non è come l'acido o una droga sintetica che poi vai fuori realmente, però io ti dico che bere ogni giorno nei vari locali bianco con aperol, bianco con la spuma, rosso con l'aranciata, dopo qualche sambuca... dopo alla sera 17 cartoni di bianco in tre ti distruggono [...]. Era... era come un lavaggio interiore che ti facevi, era come per ripulirti dentro dallo sporco, per non sentire il sapore in bocca, per non sentire [. .]; è una cosa che poi continuamente ti macina dentro che ti fa schifo, e per non sentire questo schifo tu bevi, bevi, bevi, ti fai... le faresti tutte! In realtà tu lo sai che ti stai distruggendo e che non è questa la strada, però tu lo continui a fare perché è come un'illusione, e dopo un'altra volta sotto la doccia.... poi, tutti i ricordi, i meccanismi, ecc... perché appunto tu dici "ok era semplice la prima volta": è vero, ma io vorrei non fosse mai successa quella prima volta perché è stata proprio la volta che mi ha dato la molla. Forse, ti dico, non l'avrei mai fatto, perché se fino a 36 anni rubavo, continuavo così piuttosto... anche perché ero talmente demotivata, per me morire o vivere era uguale, quindi buttarmi via... (Kate, 40-45 anni). La storia di Kate presenta molti punti in comune con le storie delle altre donne coinvolte nella prostituzione, che sottolineano spesso questo senso di nausea nell'affrontare gli incontri con i clienti, la necessità di arrivarvi sotto l'effetto di sostanze stupefacenti per placare la ripugnanza della propria azione e il disgusto verso i loro stessi clienti, considerati un po' complici della loro situazione. Kate, inoltre, afferma che a un certo punto la prostituzione "diventa proprio come

mangiare un panino la mattina" per sottolineare, nel suo carattere processuale, il lento processo di normalizzazione di questo comportamento; alcune intervistate, infatti, hanno sostenuto di aver iniziato ad interpretarlo razionalmente come una sorta di "lavoro" per riuscire a prendere le distanze dalla realtà, nonostante le ambivalenze di cui veniva caricato emotivamente [Kenrick 2000]: "L. e quando hai deciso di iniziare a prostituirti? N. augh... eh, li è stato brutto! Però non avevo i soldi, stavo male, cioè poi tutte le ragazze che c'erano in piazza alla fine si prostituivano, per cui mi son trovata a dire "lo faccio anche io"... le prime volte, ma anche quelle dopo, fino alla fine, è stato bruttissimo, proprio brutto, però lo facevi lo stesso pensandolo come un lavoro perché comunque poi sapevi che con i soldi stavi a posto... dovevi sempre esser fatta per farlo, perché sennò non ce la facevi, cioè una che lo fa di professione è una cosa, se uno lo fa perché gli serve per quello deve essere fatta... poi prendi i soldi, andavi a prendere la roba, ti facevi e tornavi a prendere i soldi, cioè era un circolo vizioso... avere rapporti con sconosciuti è davvero una cosa brutta, fai proprio fatica, però comunque te sai che finito di far quello hai la roba, è incredibile ma è così" (Natalie, over 45 anni). Dunque, se si esclude il caso di Agnès, pervenuta alla prostituzione molto prima del suo incontro con l'eroina e motivata anche dal piacere narcisistico di essere ricercata e desiderata dagli uomini oltre che dal guadagno economico16, siamo ben lontani dal pregiudizio mitico che vede nella scelta della prostituzione una forma di espressione di una devianza sessuale o di una patologia [Smith, Marshall 2007]. Se si leggono a ritroso le biografie di queste donne, infatti, uno dei leit motiv che emerge in tutta la sua forza è l'isolamento sociale e relazionale che non permette loro di trovare altre forme di sopravvivenza, oltre che di sostentamento delle dosi quotidiane, in altre parole la mancanza di alternative [Kenrick 2000; Karsten 1993; Rosenbaum 1981; Rosenbaum e Murphy 1990]: in tutti i casi, la prostituzione si inseriva nella loro biografia in momenti nei quali i rapporti con la famiglia d'origine erano seriamente compromessi (o inesistenti), nei quali la visibilità della tossicodipendenza - o l'arresto per spaccio - aveva già determinato processi di stigmatizzazione che non permettevano loro di trovare un lavoro stabile e nei quali le figure di riferimento maschile non erano in grado di supplire in altro modo alle mancanze economiche della coppia, ed anzi, sfruttavano i proventi della prostituzione a loro vantaggio: "J. [...] Io ho spacciato, sono finita in carcere [.. .]; il primo anno sono finita in carcere un mese e mezzo, poi sono stata ripresa, riarrestata dopo un anno e mezzo, mi sono fatta un anno spedito, poi bene o male sono uscita. I miei al primo problema praticamente... sì, ho cominciato a vent'anni ma non ho compiuto i ventuno a casa, mi han proprio buttato fuori da casa, mi han detto "o vai in comunità o fai le valige", allora io ho fatto le valige perché la comunità per me non la vedevo una via indicata, nel senso che ho sempre pensato che se uno vuole tirarsi fuori veramente lo fa al di fuori; dopo la comunità sono convinta è un buon sostegno, per carità [...]. Ed ho iniziato così, ero fuori casa, all'inizio dormivo da un amico, un

giorno qui, una settimana in macchina, alla fine avevo... tutte le amiche che conoscevo facevano marchette in strada e mi dicevano "no, non iniziare", però far la mantenuta non mi è mai piaciuto ed ho iniziato a far marchette anch'io, cioè le prime volte sembra facile [...]. E un doppio taglio quell'arma lì, ti evita il carcere perché hai i tuoi soldi e non devi mai spacciare né rubare però fa sì che hai una facilità di soldi in mano che non ti rendi neanche più conto del valore perché io guadagnavo, insomma, andavo alle due del pomeriggio fino alle 7 e mi ritrovavo giornalmente dalle 700.000 lire a milione. Andavano via così, dormivi in albergo perché comunque se puoi permetterti una villa non vai a dormire in macchina oppure ospitata in qualche casa che poi non sai mai chi è, andavi in albergo e dopodiché... poi a noi donne ci frega il cuore perché poi quando ti innamori di qualcuno automaticamente se sta male dici "io ho qui i soldi gliela offro", gliela rioffri e finisce che difficilmente si trovano persone oneste che hanno un rapporto con una che lavora che sia veramente basato sul sentimento, perché poi diventa una comodità perché intanto la donna va, lavora e intanto loro vanno in giro, aspettano i soldi, si fanno e diventa proprio una comodità per loro. Intanto a te non ti pesa affatto perché tanto i soldi li guadagni facilmente, le prime marchette che ho fatto io, essendo nuova del giro ti pagano di più. Per cui la prima marchetta che ho fatto mi hanno dato 300 mila lire e ci metti 20 min., mezz'ora neanche, però il tempo di arrivare a casa e stavi sotto la doccia un'ora perché è proprio una cosa, una sensazione sporca, perché non è tanto il fatto di aver preso i soldi, è il fatto di andare con qualcuno che non conosci per cui non provi niente, che ti ha comunque messo le mani addosso, per cui è proprio una sensazione che ti mortifica eppure poi non basta, non è bastato a dire di darci un taglio, poi diventa una cosa normale, tu hai il tuo uomo per cui fai i rapporti con lui in un modo, diventa come un lavoro per cui tu vai, timbri il cartellino, fai le tue 3 - 4 - 10 marchette che servono per i soldi, finito quello fai la tua vita normale hai i tuoi soldi, il tuo albergo, le tue cose [...]. Tanti ragazzi dicono: se io fossi donna sarei una puttana tutti i giorni. Tra il dirlo e il provarlo non è così tanto facile, è vero che dopo tanto tempo diventa come un lavoro per chi lo fa, però è anche vero che quando smetti con la tossicodipendenza che non ti servono più quei soldi, puoi vivere senza e vivi senza. Non è bello darsi a persone che ti comprano come per dirti io ti pago" (Joy, over 45 anni). Questi aspetti di marginalità ed isolamento sociale sono presenti anche nelle storie di Sibilla e Daisy, gli unici casi in cui l'inizio della prostituzione è avvenuto in età adolescenziale. Riporto, a titolo d'esempio, la ricostruzione di Daisy, l'unica ragazza molto giovane arrivata a prostituirsi per la roba, poiché in essa il problema della stigmatizzazione è particolarmente evidente: provenendo da una famiglia di alcolisti e tossicodipendenti con diverse esperienze di detenzione a loro carico, Daisy ha sostenuto nel corso dell'intervista che la droga era l'unico modo per potersi costruire delle amicizie, in quanto le persone "normali" la emarginavano mentre le persone del giro la accettavano. La prostituzione, per quanto sofferta, contribuisce da un lato ad alimentare lo stigma sociale, dall'altro a rendere difficile il processo di recupero poiché le sue reti di sostegno amicale provengono esclusivamente da contesti legati alla droga: "D. guarda che dopo 5 mesi che mi facevo con lei [la sorella, n.d.r.] mi ha detto "son stufa di mantenerti" e mi ha portato perfino sulla strada e mi ha detto "ti faccio vedere come si fa e fai anche tu"

L. cioè a prostituirti? D. sì, che io l'ho fatto per poco, l'ho fatto per... L. fino a quel momento 1a recuperavi attraverso tua sorella la roba? D. no, il primo periodo che ho cominciato avevo questo mio amico e poi quando ho cominciato a star male e mi son trovata da sola cercavo di mantenermi insieme a qualche spacciatore e sono andata avanti fino all'anno scorso L. ti mettevi insieme agli spacciatori e poi tua sorella ti ha portato a prostituirti? D. sì, per un periodo me l'ha data lei, capito? Tipo il primo mese, non tanto e poi mi ha detto "sono stufa di mantenerti devi cominciare ad arrangiarti" L. e tu quando hai preso la decisione di andare sulla strada come ti sentivi? D. male, piangevo, non è bello, però non avevo altre scelte, capito, infatti, dopo 4 mesi ne avevo pieno fino a qua, tipo una sera non si fermava nessuno, ero lì tipo da mezzogiorno fino alla sera alle sette, e dopo ho chiamato il mio ragazzo, ero stufa e siamo andati a rubar borsette e sapevo che nella mia città mi prendevano capito? Ero stufa e ho detto "vabbè almeno mi arrestano!" L.Ti hanno arrestato perché hai rubato le borsette? D. sì L.Ma tu avevi già avuto rapporti sessuali prima di iniziare a prostituirti? D. sì, non tanti... è brutto, mi fa schifo, ho pianto proprio tanto L. anche perché ti trovavi persone molto grandi, penso... D. sì, anche 50 anni L. e loro non avevano nessuna pietà di te fra virgolette? D. figurati! No, anzi, sono contenti, guarda che quando si fermavano i clienti tipo dicevano a mia sorella "facci provare lei che è nuova" e mia sorella diceva "sì, sì che me ne frega"... figurati se non gli piacciono le ragazzine! [...] L. ti pesa il fatto di aver dovuto fare questa esperienza? D. sì, però non potevo fare altro... vedi che persone ho intorno, mia sorella... amici normali non ne ho mai avuti perché ho la famiglia un po' così allora le persone per bene non ti vengono vicino, ho sempre amici... sono tutti uguali a me, capito?" (Daisy, under 21 anni). 2. Quotidianità e reti sociali 2.1 Le relazioni sociali. tra rischio e routine

L'interazionismo simbolico ha destinato un'ampia riflessione ai processi di costruzione dell'identità, intendendola come una entità co-costituita e continuamente ridefinita nelle interazioni sociali della vita quotidiana. Al di là delle sfumature che caratterizzano le diverse impostazioni teoriche, l'epistemologia interazionista sostiene che gli esseri umani pensano ed agiscono in base ai significati che gli eventi hanno per loro e che tali significati vengono costruiti attraverso l'interazione sociale e rielaborati attraverso un processo interpretativo, dunque sono comprensibili all'interno dei contesti personali e interpersonali nei quali si formano. L'identità si forma, quindi, nel rapporto io-mondo sociale e il peso di quest'ultimo, dei giudizi e delle definizioni dei soggetti con i quali si entra in relazione si impone con forza e influenza l'assunzione di ruoli, definendo tra l'altro i processi di labelling che si tratteranno più specificamente nel capitolo successivo. «Essere tossicodipendente non significa solamente dipendere da una sostanza, ma anche condividere un mondo comune, fare proprio uno stile di vita dove è predominante l'elemento della differenziazione e l'assunzione di ruoli non solo contingenti [...], ma che contribuiscono a creare e definire un'identità stabile (anche se non definitiva) e riconosciuta dall'esterno» [Faccioli, Quargnolo 1987: 166], anche in virtù della necessità di riorganizzare la propria quotidianità intorno ad una serie di attività e di valori sostantivamente specifici, separati dall'ordinario e definiti sulla base dell'imprevedibilità e del rischio ad essi connessi: "J. perché noi tossici... non sappiamo affrontare la realtà, non siamo in grado di accettare il fatto che la vita è solo una routine, un andare e venire di ore, di momenti uguali agli altri, di lavoro, di arrivare a casa, mangiare, dormire, lavoro, arrivare a casa, mangiare, dormire [...]. Perché, cazzo, alla fine usare eroina è un'avventura continua... cioè, ti svegli la mattina e non sai mai cosa capiterà... facciamo questo, facciamo quello, ripuliamo la macchina, spacciamo di qui e li, poi ti tiri la coca, ti mangi un cartone, sei fuori, ti bevi qualcosina..." (Jodie, under 21 anni). "F. quello che posso dirti è che il mio cervello mi portava a fare delle cose nonostante avessi tutto un altro tipo di vita, però poi quando sei dentro subentrano tanti fattori, può essere anche il fatto che hai trovato una strada, per quanto brutta sia, hai qualcosa da fare, cioè sembra brutto ma... cioè domani vado li, faccio questo, hai la scusa per doverti sbattere, stare in giro tutto il giorno, motivazioni di soldi, ti costruisci una vita che non è quello che vorresti fare però non riuscendo a fare altro... e dopo una volta che sono entrata in questo giro sai, dipendi da tante cose, dalle persone, non stai bene... cioè io non mi prendevo le mie responsabilità ovviamente perché non ce la facevo, però in un certo senso era un mondo che mi girava intorno" (Felicia, 40-45 anni). L'esperienza tossicomanica determina, dunque, un processo di ricostruzione identitaria e relazionale, più o meno accentuato, intorno a questo nuovo stile di vita che, nonostante il suo carattere deviante, viene quotidianizzato e naturalizzato con processi molto simili a quelli descritti da Jedlowski per altre pratiche routinarie, sottendendo così «un processo di deproblematizzazione dell'esperienza e, simultaneamente, di appaesamento nel mondo [...] (che) corrisponde sul piano collettivo all'istituzionalizzazione della vita sociale (l'instaurarsi cioè di

norme e costumi, la delimitazione degli spazi, la costruzione sociale del tempo, l'edificazione di modi comuni di pensare e di interpretare il reale); sul piano individuale corrisponde tanto all'interiorizzazione di tali istituzioni nel corso dei processi di socializzazione, quanto alla ricorrente costruzione di abitudini e routine pratiche e cognitive specifiche» [n.d.: 11 Alcuni ricercatori hanno sottolineato che la routinizzazione delle attività correlate all'uso di eroina costituisce una strategia con cui essi cercano di limitare l'incertezza e il rischio associato al loro coinvolgimento in attività illegali [Eck 1995; Rosenbaum 1981]; la stessa funzione viene assolta, secondo gli autori, dalla formazione di reti sociali esclusive formate da piccoli gruppi di tossicodipendenti. L'instaurazione di legami amicali fiduciari risponde prima di tutto a scopi pragmatici correlati alla necessità di esporsi anche in prima persona alle attività di reperimento della roba e del denaro necessario all'attività di acquisto, alla relazione diretta con lo spacciatore, alle transazioni economiche e alla eventuale conduzione di attività criminali che aumentano la propria visibilità alle forze dell'ordine. Maher, in particolare, sottolinea che queste reti sociali costituiscono, per le donne, un vero e proprio meccanismo di sopravvivenza, soprattutto per coloro che provengono da strati sociali marginali, e sono strutturate «principalmente intorno a scambi costruiti per facilitare le entrate economiche, l'uso di droga, la sicurezza personale, la protezione e la compagnia» [1997: 36, trad. mia]. Nella sua indagine etnografica, Rosenbaum [1981] enfatizza, inoltre, la selettività con cui tali reti sociali vengono costruite: le relazioni con persone non-tossicodipendenti si diradano per la difficoltà a mostrare questa parte di sé che non viene accettata e compresa da coloro che non sono parte di questo mondo e che, dal canto loro, tendono a mantenere le distanze dai tossicodipendenti per il timore di poter ricevere un danno da questa relazione; i gruppi di tossicodipendenti che si formano sono molto ristretti e sono basati non solo su un rapporto di reciproco sostegno, ma anche di differenziazione rispetto a tutti gli altri tossicodipendenti, che vengono giudicati con gli stessi stereotipi di inaffidabilità e di opportunismo definiti dalla società 7. Lindesmith [1968], dal canto suo, sottolinea che il proces so di ri-significazione della propria esperienza e di ridefinizione identitaria sarebbe determinato dalla rielaborazione del sentire comune circa lo status di cui gode il tossicodipendente nel contesto socio-culturale, ed è proprio tale processo a portare il soggetto a confrontarsi principalmente con individui nella sua stessa condizione, rendendo così più tollerabile a se stesso la propria condotta. Questo brano, tratto dall'intervista di Angie, riassume brevemente queste considerazioni, evidenziando il processo di auto ed eteroestraniazione del tossicodipendente dai mondi di vita e dalle relazioni convenzionali determinato dal "bisogno" della sostanza: 'A. oddio, dipende da cosa si intende chiaramente per amicizia perché sicuramente li anche c'è... ci sono delle cose che purtroppo entrano in collisione, diciamo, perché le persone che non fanno uso anche se magari non sanno di preciso che cosa c'è di strano vedono che comunque c'è qualcosa che non va; che so, collegano magari la frequentazione, gli ambienti... e allora logicamente vieni un po' isolato tra virgolette, ma è anche relativa questa cosa perché

sei anche tu prima a preferire altre compagnie, diciamo che sei anche un po' obbligato in un certo modo perché sei preso da altre situazioni, quindi per forza devi tralasciare determinate cose, e allora lì sei più tu che ti allontani dalle persone, se non lo fanno prima loro che vedono appunto che hai un comportamento un po' diciamo strano, sei tu che ti allontani, perché comunque quelle persone non fanno parte di quel mondo di cui hai bisogno. Quindi devi andare a cercare da altre parti la sostanza e sei un po' costretto a lasciare da parte... ti elimini da solo, non è che puoi dividerti in mille pezzi..." (Angie, 40-45 anni). L'analisi delle biografie concorre a definire i confini entro i quali si verifica questo progressivo distanziamento dai network di relazioni estranee al mondo della droga. Le interviste alla ragazze con un'età inferiore ai 25 anni e alle donne di età superiore che hanno scelto di intraprendere la vita da strada - entrate in trattamento ma ancora legate alle relazioni e a questo stile di vita che non è stato abbandonato del tutto - forniscono alcune im portanti delucidazioni circa la natura dei rapporti che si instaurano tra tossicodipendenti. Nel complesso, per la maggioranza di esse il coinvolgimento con l'eroina e con i network di relazioni legate al mondo della droga è molto forte, segnando una frattura più profonda con la normalità e con le reti sociali appartenenti al mondo di vita ordinario. I loro percorsi di studio c/o lavoro risultano molto frammentati, il comportamento drogastico è particolarmente visibile anche per il coinvolgimento in attività di hustling criminali e l'adesione a stili di comportamento sub-culturali18 è accentuata. Un primo aspetto che viene evidenziato è la sensazione di potersi rapportare con le persone del giro in modo fondamentalmente paritario, come si legge di seguito dal brano di Cristine; in coerenza con quanto nota Rosenbaum [1981], i tossicodipendenti tendono a considerarsi sullo stesso piano per il comune bisogno della sostanza, per la tipologia di attività che devono essere intraprese per poterlo soddisfare e per lo stigma inerente la condizione di dipendenza, sebbene esista una stratificazione sociale gerarchica modellata sulla base delle attività economiche svolte che si rivela, tuttavia, fondamentalmente fluttuante in quanto suscettibile di repentini cambiamenti dovuti alla contingenza: "L. i rapporti con le persone del giro com'erano? C. ovviamente c'erano perché c'era la droga, ma almeno con loro potevo essere alla pari, o anche superiore... e con quelli normali... mi metto io in disparte prima che lo facciano gli altri, cioè, forse è quello il discorso: prima che qualcuno ti dica qualcosa ti isoli tu, non ti confronti. Forse è la paura che se ti metti in luce... cioè io so che con la gente come me sto bene, so che tutti mi stimano, non fai fatica perché in questo mondo nessuno dall'altro si aspetta niente; invece penso che se mi metto a confronto con gente di altro tipo mi trattino come una merda L. pensi che ti vedono come una merda per la tua storia o per come sei tu? C. questo non te lo so dire, perché magari anche se sto con quelle poche persone che so che non mi giudicano, mi dà lo stesso fastidio starci insieme anche se so che non mi vedono così" (Cristine, 26-30 anni). Come si è sottolineato in precedenza, i legami tra tossicodipendenti vengono rinsaldati nell'interazione attraverso modalità comunicative e discorsi che gravitano essenzialmente intorno

alle esperienze vissute e che vengono simbolicamente caricate di un valore di unicità e di esclusività, aspetti a cui si riferiscono alcune delle intervistate per sottolineare le difficoltà insite nell'instaurazione di legame con persone estranee al giro: "L. e i rapporti che hai con persone che non fanno uso di sostanze? Quali sono le differenze? J. cosa cambia!? Dai! Intanto il divertimento, perché io ormai non riesco più a divertirmi ad andare a mangiar fuori, andare al cinema, a star normale, io non ci riesco. Poi i discorsi, perché cioè hai capito fra di noi parliamo di determinate cose che mi rendo conto poi quando parlo con gli altri che son cose che non puoi parlarne, cioè son cose allucinanti perché tra di noi parliamo soprattutto di droga, rapine, chi hanno arrestato, chi è in galera, chi in comunità... non sono discorsi che fanno i ragazzi della mia età! Dovremmo parlare di ragazzi e fiorellini, poster nella stanza... invece la mia stanza è piena di scritte di dolore, di cose allucinanti insomma. E insomma con le altre persone non puoi parlare di queste cose, e la mia vita è fatta anche di queste cose purtroppo, e a me sembra naturale dirgli "porca puttana hanno arrestato la Daisy" o cose di sto tipo L. perché dici che non puoi parlarne? J. loro sono fuori da quel mondo! Ti escludono... non sono discorsi socialmente accettati, insomma, sei un delinquente, sei un drogato delinquente, bisogna che ci rendiamo conto di questo! "Ah, che voglia però di coca, eh?!" oppure "Ah, hanno arrestato mister x, e con questo tizio ci ho fatto questo e quest'altro", ti guardano un po' così ovviamente... poi gli amici, quelli vicini, quelli puliti, ti aiutano anche un po' ma quando fa più comodo a loro, poi se ne vanno. Cioè quando vedono che comunque è difficile perché è un continuo cadere e un continuo rialzarsi e un continuo bisogno di qualcuno vicino, loro vanno, capito? Perché hanno la loro vita! L. però tu adesso stai parlando con me e parli molto tranquillamente J. tu comunque lavori al Sert... quindi giustamente ti immagini le storie che ci sono qua. Poi se dovessi star qui a raccontare tutte le robe che ho fatto per la roba non ne usciamo mai più... non ho paura del tuo giudizio, del giudizio degli altri, gli altri lo sanno che mi drogavo, quindi se mi accetti mi accetti per quello che sono, sennò... e comunque sanno che mi drogavo, non che mi drogo ancora L. tu pensi che il rapporto con le persone che vengono qui verrebbe a cadere se non parlassi di droga? J. sì è ovvio che il rapporto cadrebbe, ma di quelle persone non me ne frega neanche niente e può finire anche adesso perché vuol dire che non c'è proprio altro da condividere se non la droga, e non lo voglio [...]" (Jodie, under 21 anni). Come evidenzia Taylor [1993], inoltre, il fatto di aver vissuto determinate esperienze legate alla droga contribuisce ad alimentare l'idea che solo un tossicodipendente possa capire i problemi che un altro tossicodipendente deve affrontare nella quotidianità, mentre con le persone comuni vi è da nascondere questa parte della propria identità e della propria esperienza personale sia per la sensazione di non essere compresi, sia per la mancanza di affinità con i loro modi di vivere la quotidianità, sia per il pericolo di venire esclusi e stigmatizzati:

"J. infatti, cioè io non ho mai visto altro, capito? Cioè fin da piccola sempre quello, non ho avuto un'altra vita... sì, adesso, però non mi sono distaccata del tutto. Cioè io conosco solo quello, conosco quella vita... L. il tuo ragazzo però è estraneo a questo J. ma sì, ma io riesco a rapportarmi benissimo con persone che non fanno niente e fanno una vita normale, riesco a rapportarmi, ci parlo, però dopo mi sento come se c'è una parte di me che comunque non è quella vera, perché son sempre stata li. E non so se sto meglio li e allora... perché tante volte ho pensato di star meglio in quel mondo invece che in questo... L. ma qual è la differenza nei rapporti con persone di questo mondo? J. perché sanno magari i problemi, cioè... anche i discorsi stessi, il parlar, parli dei problemi, di quello che è stato in galera, o che ha fatto quello, o il non star bene se non usi. Cioè quelle cose li... che le ho ancora perché non sto bene. Cioè non uso, perché magari resisto, però poi ci ricado perché fondamentalmente non sto bene, e un'altra persona normale non le capisce, non gliele puoi neanche dire [...] L. ma tu come percepisci questa parte di te, come qualcosa da nascondere agli altri sennò non ti accettano? J. sì, sì, ovviamente a quelli che non sanno niente di questo mondo, che non sanno cosa vuol dire. Perché le persone che non sanno cos'è la prendono come una malattia, come una cosa brutta che ti porta a fare chissà cosa e invece... sì, è vero, però ci son persone e persone. Persone che fanno una vita normalissima, che lavorano e che però purtroppo hanno questo problema; ma son persone che appunto magari non lo diresti neanche... A me se mi incontri domani con il passeggino e con mio figlio non è che vai a pensare "questa qua è una che si fa"! In tanti può essere che lo noti, però tutti pensano che se hai quel problema sei degradato, fai una vita chissà come... o magari se hai avuto problemi solo in passato e ora non fai più niente è lo stesso perché loro non ci credono. E allora stai meglio con quelli che lo fanno e che capiscono e ti prendono come una persona normalissima. Sennò devi nasconderti, non è facile" (Judith, 22-25 anni). "E.Con le persone normali non ho mai avuto contatti e le uniche persone che sono riuscita ad instaurare qualcosa erano quelli che giravano intorno alla droga perché erano più aperti di mente alla fine [...] con quelli proprio normali che non facevano niente di niente era proprio il fatto che non riuscivo ad instaurare un discorso normale con loro, quello che faceva ridere me non faceva ridere loro, era proprio una vita diversa, ma non vado nemmeno a cercarli perché a me piace una persona che mi può capire, anche quando sto male, una persona normale non può capire [...], una persona normale molte volte non ti può capire a meno che non abbia esperienza, o che sia stata a contatto con qualcuno così, ma se non sai niente non puoi capire. E un male morale proprio L. quindi cerchi persone come te perché credi che gli altri non possano capirti? E. riuscire a instaurare un rapporto... ma comunque anche di essere accettati normalmente perché magari ti dirà anche "sono tuo amico" ma sai sempre che gli fa schifo a toccarti perché ha paura di malattie, anche se io ti dico mille volte che non ho niente non mi credi, cioè è brutto, ti trattano come una bestia, non mi interessava proprio esser trattata così" (Emily, under 21 anni).

"S. riesci a stare solo con le persone come te, con le persone normali hai il continuo bisogno di sdoppiarti, no?, di comportati in un certo modo con una persona per far credere che a seconda della situazione in cui sei ti metti una maschera diversa, la tua identità reale la perdi. Non è per niente semplice, sì, è tutta una bugia che racconti a te, che racconti a tutti..." (Sharon, 26-30 anni). Nelle leve di età più avanzata, questi aspetti di identificazione esclusiva nelle relazioni con tossicodipendenti perdono, almeno in parte, la loro funzione esplicativa e il processo di affrancamento e di razionalizzazione della propria esperienza consente alle intervistate di avere un atteggiamento più distaccato rispetto alle esperienze vissute. Le loro biografie sono senz'altro più complesse ed influenzate da diversi eventi che hanno contribuito a modificare la percezione di sé, a ridefinire continuamente la loro identità sociale come a modificare nel tempo le proprie reti di relazioni; eventi che sostanzialmente gravitano intorno ai numerosi tentativi di remissione dell'uso e di recidive alternati a carcerazioni, maternità e separazione dai propri figli, abbandono delle attività lavorative, separazioni dal partner, periodi di riabilitazione in comunità, abbandoni da parte della famiglia d'origine, contrazione di malattie infettive. Accanto all'importanza che la relazione sentimentale con un partner tossicodipendente ha avuto nelle loro biografie, aspetto su cui si rifletterà a breve, alcuni elementi che contribuiscono a differenziare i loro percorsi possono essere rinvenuti nelle diverse attività di hustling e nel tipo di visibilità che ha avuto la condizione di tossicodipendenza, soprattutto nell'ambito delle reti di relazione primaria. Infatti, tra coloro che non sono mai ricorse allo spaccio o alla prostituzione come forma di sostentamento, che hanno affermato di aver mantenuto rapporti familiari saldi nonostante la scoperta della dipendenza c/o che hanno cercato di preservare la propria immagine sociale mantenendo un uso di droga nascosto nell'ambito privato, l'identificazione e il senso di appartenenza ai network sociali del giro è molto meno evidente, nonostante in alcuni casi si siano verificati eventi che le hanno esposte a processi di stigmatizzazione: "S. io ho sempre tenuto un po' separato... non è che ho solo amicizie che usano sostanze... soprattutto quando ho iniziato con l'eroina, io avevo da una parte la gente che non usava, magari quelli che frequentavano dei corsi con me, o amiche e amici di infanzia vecchie che adesso rifrequento, e dopo quando andavo a prendermi la roba andavo dagli altri, magari andavo a farmi una riga perché stavo male ma se ero in giro con loro non ci pensavo minimamente, me la prendevo e poi me la portavo a casa e me la facevo a casa perché stavo male, non è che stavo sempre solo in giro con chi la usa, cioè.... Ho sempre avuto anche amicizie normali, cioè con loro so com'è "stare senza", parli di tante cose hai tanti interessi.... Invece se stai con chi usa la roba parli solo di quello e di tutto quello che ci sta intorno. C'è stato solo un periodo che stavo sempre con gente che usava perché avevo il tipo, il primo periodo dell'eroina, però poi invece piuttosto stavo a casa, o andavo a corsi, da altre mie amiche... mi limitavo ad andare a prenderla e me la facevo a casa. Dopo stavo con Jasmin, ci sono stata tanto però dopo io cercavo comunque anche con lei di fare altre cose, e invece con le altre amiche che avevo prima facevamo solo quello, pensavamo solo a come andare a prenderla, fumavamo, invece con lei cercavamo di fare il decoupage che mi piace, le perline,

tante altre cose, andavamo con i cani, andavamo a farci dei giri, e non è che pensavamo solo a quello [...]. Io sono fortunata che son riuscita a tenermi tutto il resto, nel senso che ho sempre cercato di non buttare via tutto quello che ho costruito. Però perché l'ho voluto io, perché avrei comunque potuto fregarmene, tante volte potevo stare in giro con i marocchini come facevano le altre così mi facevan fumare e invece io piuttosto me ne tornavo a casa... non è che sempre l'ho pagata poco perché andavo a pagarla anche caro, però se stai in giro con loro te la offrono, ti fan pagare di meno, e invece io piuttosto andavo via così nessuno vedeva e nessuno sapeva insomma..." (Shirley, 26-30 anni). "S. anche con l'eroina ho avuto periodi in cui magari non ne facevo uso e altri in cui invece lo cercavo tutti i giorni, anche perché sennò mi venivano crisi d'astinenza pazzesche e quindi avevo solo il pensiero di andarmene a procurare per calmare il dolore. In quei momenti il lavoro proprio passava in secondo piano: quindi, c'erano giornate in cui non andavo al lavoro perché stavo male o perché mi stavo disintossicando oppure perché dovevo andare a cercarmela. Adesso che ne sono fuori usare questi termini mi fa un certo effetto perché non li ho mai sentiti appartenere a me; perché, non so se è presunzione, ma anche nei momenti in cui ero proprio impestata19 non mi sono mai sentita una tossica vera e propria, come i tossici da piazza; forse per raccontarmela mi dicevo "sì non sei una tossica da piazza, ma sei una tossica di lusso!". Ho poi avuto la fortuna di avere un lavoro e una famiglia che non mi hanno fatto mai toccare proprio il fondo, c'era sempre qualcuno o qualcosa che mi ritirava fuori, la cosa è sempre stata sotto controllo; sì, ne facevo uso, ero piuttosto impestata, però non sono mai arrivata a certi estremi; ogni tanto sì, magari rubavo qualche soldo ai miei, oppure mi vendevo degli anelli per avere i soldi o i bracciali, ma non sono mai arrivata a commettere reati o prostituirmi... Poi un'altra cosa per cui sono stata fortunata è che non ho mai preso nessuna malattia, mi è andata bene, anche perché sono stata 8 anni a farmi, e quindi ora ne esco senza particolari rimorsi. Quando mi facevo io conoscevo i possibili rischi, quando ero lucida pensavo molto ai rischi che correvo quando mi facevo, ma quando si è dentro anche se lo puoi pensare è una cosa più forte di te, il pensiero costante è quello di recuperare una dose in qualsiasi maniera, a scapito di chiunque, e poi quando l'hai recuperata non ci pensi lo stesso perché sei su un altro pianeta, e quando passa l'effetto di nuovo il pensiero è quello di ritornare a recuperarla di nuovo. Quando sei dentro in modo così forte, anche se sai i rischi che corri o il male che puoi fare alle persone, non ti interessa [...] Io mi ci trovavo bene quando mi facevo in quel mondo, che invece quando non mi facevo guardavo dall'alto in basso. Però nel periodo in cui mi facevo stavo bene, sono ambivalente, come dire.... se non mi facevo stavo dalla parte dei perbenisti, ero per le persone regolari, magari anche moralista. Invece nel periodo in cui mi facevo ero insofferente alle regole, alle persone che mi guardavano dall'alto in basso come giustamente facevo io prima, e loro pensavano "povera disgraziata..." (Sherilyn, 31-35 anni). Per le donne cui è mancato il sostegno familiare o che sono ricorse ad attività criminali o alla prostituzione a causa delle condizioni di disagio socio-economico in cui si sono trovate ad un certo punto della loro carriera, le difficoltà di affrancamento dai contesti drogastici e, insieme, il cambiamento identitario sono stati (o sono tuttora) molto più lenti e difficili in quanto le condizioni contingenti le hanno portate a sperimentare una frattura più profonda con i network di

relazione estranei al mondo della droga, a perpetuare le proprie frequentazioni amicali all'interno del giro e a proseguire con le attività economiche di sostentamento già conosciute per la mancanza di possibilità concrete di inserimento lavorativo. I processi di stigmatizzazione sono stati, per loro, più evidenti e hanno contribuito a confermare nel tempo la precisa identità sociale di tossicodipendente: 'L. mi hai raccontato di aver avuto diverse ricadute da quando hai iniziato a farti; forse è una domanda un po' difficile, ma ti sei data una spiegazione di questi ritorni? S. se lo sapessi... Io non so sai, è una cosa che non mi so spiegare però quello che c'è è che avevo sempre quel senso di... cioè non ero tranquilla, per i figli, per il tipo di vita che c'era, c'era questa cosa più grande di me che mi spingeva verso... Non so... non è che ho mai avuto punti di riferimento validi, anche mia madre quando ha saputo del mio problema ha fatto di tutto per allontanarmi, e quel tizio con cui stava non mi rivoleva in casa dopo che mio marito se n'era andato e lì cosa dovevo fare? Dove andavo? Conoscevo quella vita, per quanto sbagliata potesse essere... e il non avere un lavoro, e poi uomini sempre così, prima il padre dei miei primi figli... e i miei figli soprattutto, i miei figli... Allora cadevo e mi rialzavo però poi sai, secondo me forse non era il momento, cioè se non sei convinta di volerne uscire... io non mi sono mai detta basta, ho smesso tante volte ma non mi sono mai messa lì a dire... a riflettere, a capire, mi lasciavo trasportare dalle emozioni, da quello che succedeva..." (Sophie, 40-45 anni). "J.Ora sto cercando di venirne fuori, dopo oltre 20 anni è una cosa dura anche perché ti devasta a livello fisico; io avevo perso tutti i denti, questo dopo i parti perché dopo un parto avevo perso tutto il calcio, ero proprio debilitata, le unghie venivan via così, i denti li ho persi uno dopo l'altro. E quando hai un aspetto che fa vedere subito chi eri è difficile trovar lavoro sia come cameriera che come tutto. Io pulizie più di 4 ore non riesco a farne perché comunque non ho un fisico che tiene. Anche li avevo chiesto un aiuto per mettere una protesi e ho dovuto arrangiarmi da sola, per cui anche per la protesi cosa fai? Ho fatto marchette per la protesi. E assurdo, se uno deve staccare stacca, però purtroppo ci sono tante cose collegate alla tossicodipendenza che ancora non funzionano. Importante intanto è già avere un lavoro e tante volte non è tanto la difficoltà di tirarsi fuori dalla roba quanto restarne fuori. Se una volta che ne sei uscito non hai un lavoro, non hai un posto, non hai qualcosa che ti fa passare il tempo in modo da fare qualcosa che ti fa perdere via con il pensiero è ovvio che ritorni nei posti dove conosci gente e l'unica gente che conosci da tossico sono tossici perché diventa un mondo a sé, i discorsi sono sempre quelli, se ascolti i gruppetti senti parlare di roba "questo qua ce l'ha, te senti quello, quello l'hanno arrestato..." (Joy, over 45 anni). Nel complesso, anche le ricostruzioni biografiche di questo gruppo di donne evidenzia, come si legge nel racconto di Joy, le caratteristiche di separatezza dei network sociali e dello stile di vita correlato all'uso di eroina, ma con una diversità. Per le più giovani, la distanza con la relazionalità e la socialità "ordinaria" è ricercata nella misura in cui viene vissuta come estranea alle proprie esigenze di evasione e di differenziazione, tant'è che la decisione di ricorrere ai servizi per le dipendenze è spesso strumentale e non implica una precisa volontà di interruzione di tale stile di vita e delle reti amicali di relazione; nonostante spesso le ragazze affermino che i

rapporti nel giro sono opportunistici ed esistono solo in virtù del comune bisogno della droga, sono comunque vissuti come rapporti significativi poiché solo in essi si può trovare la giusta comprensione per i propri stati emotivi e la necessaria empatia. Se il concetto di sé si struttura sulla base delle risposte degli altri significativi [Taylor 1993], l'identificazione e il senso di appartenenza quasi esclusivo a network di relazioni con tossicodipendenti rende difficile una ricostruzione identitaria funzionale all'affrancamento dalle droghe20. All'aumentare dell'età, le continue ristrutturazioni delle cerchie amicali, le esperienze traumatiche di vita e l'evoluzione solitaria del consumo di eroina permettono una presa di distanza dalle forme di socialità che si sono costruite con altri tossicodipendenti nel periodo di maggior coinvolgimento con l'eroina. Se, a rigor di logica, è possibile pensare che nelle prime fasi della carriera tossicomanica il comune sentire di queste donne fosse molto simile a quanto affermato dalle più giovani (come si avrà modo di vedere rispetto alle relazioni sentimentali) anche in virtù di una maggiore disapprovazione sociale verso i comportamenti drogastici della donna, la lettura diacronica delle biografie mostra come la distanza con le reti sociali appartenenti al mondo di vita convenzionale sia più indotta dal contesto che ricercata: vi è, infatti, un lento abbandono della dimensione affettiva di cui erano investite le relazioni con persone del giro, un maggior realismo nel giudizio sui loro contenuti ed una ricerca costante del confronto con persone non tossicodipendenti, a fronte però di difficoltà oggettive a ri-costruire reti di sostegno estranee alla droga a causa dello stigma sociale subìto e della conseguente riduzione delle opportunità di vita nel mondo ordinario [Rosenbaum 1979, 1981, 1990]. 2.2 Le relazioni intime: amore e contingenze "D. da che mondo è mondo le donne vivono in funzione dell'uomo, della famiglia, del figlio; ho conosciuto donne che fanno di tutto per tirar fuori il marito con figli quasi grandi e non ci riescono però dentro non ci cadono perché hanno un senso della famiglia, della vita molto forte; a me non mi ha tirato dentro nessuno, ho avuto parecchie persone con le quali sono stata anche perché si facevano e a me andava bene perché la roba costava... quindi andavi a vivere assieme anche per quello" (Darla, over 45 anni). Indipendentemente dall'età e dall'estrazione sociale, le ricostruzioni biografiche mostrano che tutte le donne intervistate, in qualche momento della propria carriera tossicomanica, hanno avuto un partner tossicodipen dente con il quale hanno condiviso l'esperienza drogastica21; per 23 di queste donne (42% circa), il partner ha favorito la socializzazione all'eroina, mentre per gran parte di esse l'instaurazione di un legame sentimentale con tossicodipendenti è avvenuto in fasi successive della carriera tossicomanica, in alternanza a periodi di uso solitario di eroina. Le considerazioni che si sono sopra esposte circa la preferenza per network di relazioni formate da tossicodipendenti possono essere estese anche all'ambito delle relazioni sentimentali, in quanto da un lato il coinvolgimento con la droga e con le attività quotidiane necessarie a procacciarla rende difficile la costruzione e il mantenimento nel tempo di un rapporto sentimentale con un

partner estraneo al giro [Sterk 1999] e dall'altro lato con un non-tossicodipendente non ci può essere la stessa empatia e comprensione rispetto agli stati d'animo esperiti, alla visione della vita e delle azioni compiute; quest'ultimo motivo giustifica, inoltre, il fatto che quasi la metà delle intervistate al momento dell'intervista intrattiene una relazione con un ex-tossicodipendente, mentre solo 7 donne sono unite a partner che non hanno mai avuto contatti con il giro, e le restanti donne non hanno relazioni sentimentali stabili. In coerenza con quanto anticipato in merito alla socializzazione alle droghe, un primo aspetto che caratterizza tali relazioni e su cui occorre riflettere si riferisce alle motivazioni che portano le donne a provare un'attrazione particolare per uomini forti, che mostrano la loro virilità con comportamenti aggressivi ed in grado di ottenere il rispetto delle persone, ragioni che fondamentalmente possono ricondursi al senso di protezione ricevuto: "H. con sto ragazzo mi ci metto nel... 2001, più o meno era il 2001. Ecco, è stato subito un amore proprio... un colpo di fulmine, io mi sono innamorata e son partita... l'avevo conosciuto in un bar appunto perché vendeva la cocaina, perché si sapeva che lui spacciava e allora ero insieme a una mia amica e lui stava con un suo amico e abbiamo detto "bene dai", proviamo a chiedere... ma appena siamo entrati nel bar, nel senso... io non lo conoscevo, proprio come persona non sapevo chi era, e comunque è stato molto reciproco... ci continuavamo a guardare, dopodiché siamo usciti, abbiamo parlato e di li è scattato proprio il colpo di fulmine, tanto che il giorno dopo eravamo insieme e da li siam sempre stati insieme ogni giorno e ogni notte... Era proprio un amore.. .un amore... L. e cosa c'era che ti ha fatto innamorare di lui? H. eh... forse perché l'ho visto molto... forse mio papà non ha mai fatto il papà, nel senso che non mi è stato mai vicino, non mi ha mai fatto sentire sicurezza, quindi io vedevo questo ragazzo qua come uno deciso, forte, che nessuno insomma... l'intoccabile, che comunque poteva difendermi... L. e questo senso di protezione ti veniva da che cosa? Dal fatto che era uno spacciatore? H. ma no, dal fatto che era uno che sembrava deciso... io mio papà non l'ho mai visto così deciso perciò lui mi dava il senso di protezione... ai tempi era così... e difatti, però comunque subito è iniziata male perché poi all'inizio tiravamo insieme e ci divertivamo, dopo lui comunque ha un carattere di quelli che... ne ha passate tante anche lui, ha una famiglia multiproblematica, sorelle e fratelli tossicodipendenti perciò... è un ragazzo che è cresciuto già dai 6-7 anni con kili di fumo davanti agli occhi perciò penso che non ha... non è cresciuto con un'educazione come son cresciuta io perché bene o male problemi di droga nella mia famiglia non ci son mai stati... è vero che mia sorella ogni tanto qualcosa faceva, però problemi nel senso familiari no perché avevamo sempre una mamma e un papà, avevamo delle regole, che poi noi scappavamo è un altro conto ma siamo cresciute con una mamma e un papà a casa, e quello per me è stata la mia salvezza perché lui appunto non avendo mai avuto regole, perché anche sua mamma se lui spacciava e doveva dare soldi al marocchino sua madre si metteva in mezzo, andava dal marocchino e gli diceva di lasciare in pace il figlio sennò lo denunciava... capito com'era? Perciò lui tuttora sta provando a tirarsi fuori ma ho i miei dubbi che ce la faccia proprio perché... non l'ha fatto per suo figlio perciò..." (Harper, 26-30 anni).

"S.Niente, comunque io dopo intorno ai 20 anni porto in ferie i miei, mio papà era gravemente malato di cirrosi epatica e non beveva ormai più comunque, lo porto in Calabria, è stato malissimo e ho fatto 15 giorni di inferno, torniamo su e la stessa sera che torniamo trovo un ragazzo napoletano, vado giù a Riva al Tiffany e incontro un ragazzo che diventerà mio marito dopo, il mio ex-marito; lui usava eroina e cocaina, io ancora non conoscevo questo mondo però cioè vedevo sta persona e mi ero accorta che usava queste sostanze, mi sono innamorata... praticamente tomo a casa il giorno dopo, inizio a star male, non riesco più a vivere in famiglia e continuo a frequentare questa persona insomma finché non decido e scappo... nel frattempo avevo anche un moroso da 5 anni che anche lui era all'oscuro di tutto e avevo preso appartamento e mobili ma io scappo, il giorno che dovevo andare a vivere con sto ragazzo scappo con quell'altro. La mia famiglia chiude la porta e non vuole più che entri, che viva con loro L. chiude la porta? S. perché mi ero messa con questo napoletano, si conosceva bene o male che era dentro e fuori dal carcere insomma, e mi han detto "se tu rimani con lui, se continui a frequentarlo non entrare più dalla porta" e dal quel giorno non sono più entrata comunque. Questo ragazzo mi sembrava che mi potesse difendere dal male che comunque mi stava facendo la mia famiglia, perché il male, cioè anche mia mamma... ormai era palese a tutti, erano pure andati ad arrestarla22 ... cerca di evitare di farmi fare quella vita no? E invece pretendeva i soldi, non con botte, non con minacce, però con i sensi di colpa che mi faceva venire [...]. E io lo amavo, non è che non vedessi altre vie perché bene o male mi sono sempre arrangiata nella vita, e però ero... è vero, è come se mi attirasse il male, non so cos'è... adesso no, adesso proprio guai se una persona mi fa... cioè se vedo che una persona mi sta facendo del male blocco tutto. Adesso però, ci sono volute tante bastonate dalla vita per riuscire a capire anche dove è il bene e il male L. perché tu continuavi a ritornare da lui? S. a ritornare, sì sì, non mi interessava niente, lo amavo, oppure anche forse negli ultimi tempi non lo amavo, però forse non so, forse era... non so, però all'inizio mi attirava proprio questo mondo qua, probabilmente mi attirava il mondo dell'eroina, non so proprio [...] e mi attirava proprio tutto il contorno di questo mondo, poi per me lui era... lui lo vedevo come un angelo, era bello per me, alla mai vista, e in quel momento mi poteva difendere da tutto e da tutti" (Sibilla, 40-45 anni). Il fattore età, rispetto alla ricerca di figure maschili protettive, risulta ininfluente, come rileva Eveleen in questo brano della sua intervista: "E. A volte sono... penso che tante ragazze comunque si appoggiano sempre a un ragazzo, vedo tante ragazze come mi son trovata io che si mettono con un ragazzo comunque più grande, e adesso magari vedo in giro la coppia con lui molto grande e lei piccolina che lo segue tutta timida, e lì mi viene un po'... mi fa pena no? Perché è sicuro che anche lei lo vuole, però è tanto trascinata da quella persona [...], anche con l'amico magari... invece vedo parecchie coppiette, un po' mi rivedo io quando stavo col mio ragazzo con cui ho iniziato, e vedo ste ragazzine che in parte probabilmente sei anche attratta dal mondo un po' di strada, almeno per me è così, ero molto attratta da questo mondo, e forse anche loro [...] e secondo

me la ragazza non va da sola così a cercarsela, almeno non ho mai sentito sta cosa, di solito iniziano sempre per il ragazzo, o con la compagnia" (Eveleen, 22-25 anni). Per le generazioni più giovani questo aspetto viene notato anche da alcuni professionisti socio-sanitari ed identificato come un ostacolo serio alla compliance al trattamento e all'affrancamento dai network sociali di tossicodipendenti: "E poi dietro a queste ragazze vediamo spesso queste figure maschili che loro trovano in questi ambienti, che spesso sono spacciatori ma che sembrano rispondere proprio ai loro bisogni, a quello che cercano perché con loro si sentono protette, quindi qualcuno che si prende cura di loro magari anche in modi... non sempre sono trattate bene ma insomma con modi fermi, che è quello che le è mancato prima, quindi sostituiscono la figura del padre assente con un altro più forte, almeno in apparenza, che rappresenta questo... e quindi è ancora più difficile riuscire a trattare in modo adeguato con loro, perché effettivamente la funzione che queste persone hanno risponde perfettamente ai loro bisogni, loro stanno bene, e quindi chi glielo fa fare di ritornare al contesto precedente? Magari poi sono anche maltrattate, ma in loro è più forte il bisogno di poter fare riferimento a questa figura, a uno che ti dice in modo chiaro quello che devi fare. E molto difficile riuscire a staccarle da queste figure, loro si rendono anche conto che non sono figure di riferimento positive, e però ti dicono che così stanno bene: quindi chi sei tu per dirle che non stanno bene? Ti dicono che finalmente sono serene, e quindi è difficile perché entri in una sfera affettiva ed emotiva molto delicata, e quindi il percorso è più lungo... tengono il lavoro, hanno questa figura di riferimento, questa famiglia nuova e quindi riuscire a cambiarle logiche ed emozioni... magari poi vengono al servizio solo per degli appoggi, o per la patente, ma non per uscire da tutto questo. Non so, forse per un uomo è differente perché devono essere protettivi verso la ragazza, devono essere loro a reggere il peso di tutto e quindi dovendo tenere lo stesso ruolo, di forte, sul lavoro, in famiglia, con le ragazze, con le persone, nelle relazioni o anche fra di loro perché c'è sempre questa aspettativa dell'essere uomo duro, ecco... questo è quello che gli fa dire che non può permettersi di cedere e in realtà è quello che lo fa crollare. Le donne possono avere anche momenti di cedimento però l'importante è che trovino la persona "giusta", che sappiano dove andare e però quando la trovano è difficile riuscire a farla crollare, in tanti casi si deve proprio aspettare parecchio e non è neanche scontato che succeda nel breve periodo insomma. In realtà poi possono anche andare avanti moltissimo, magari non usando grosse quantità ma tutti i giorni, in modo costante, e alla fine se non succede qualcosa che scombina i piani e magari qualcosa che per i servizi non è così importante ma per loro sì, allora crollano, sennò è difficile perché la rete di relazioni protettive che ci sta dietro, che va oltre la famiglia, è solida, poi è nell'ombra sempre e quindi non si riesce a risalire a chi e cosa... e quindi qui c'è una grossa doppia vita, insomma, non solo in famiglia ma anche con il resto del mondo, con questa persona e con chi ci gira intorno. E loro magari giustificano ai tuoi occhi il fatto che è spacciatore, che deve spacciare perché non ha scelta, e però con loro è in un altro modo, è difficile entrare in questa cosa e dire che non è così, loro lo sentono molto, nel vero senso della parola: se loro stanno bene, chi glielo fa fare di stare male, o di stare bene ma come gli promettono i servizi, che è uno stare bene per altri? Loro stanno meglio così, stanno meglio perché la loro sensazione è di sicurezza, si sentono di essere qualcuno e di contare qualcosa per qualcuno, di essere accettate proprio perché sono così, magari dai

genitori non lo erano perché erano proprio così come qualcun altro le accetta" (Marilena Zeni). Come si è sostenuto precedentemente, inoltre, questo senso di protezione cui si riferiscono le intervistate non risponde solamente ad un bisogno affettivo e relazionale, ma anche ad alcune necessità oggettive indotte dai contesti frequentati, caratterizzati da una presenza quasi esclusiva di uomini e, dunque, particolarmente rischiosi per una donna; la scelta del partner tossicodipendente ha, dunque, costituito per molte una scelta intenzionale orientata (anche) da esigenze pratiche e contingenti23: "E.... ma probabilmente li cercavo io [n.d.r. i partner tossicodipendenti] L. in che senso li cercavi tu? E. probabilmente avevo ancora voglia di continuare a farmi, cioè quando le vuoi le cose... nel senso se vuoi trovarti un ragazzo che si fa e si vuole far con te lo trovi, mentre se non lo vuoi non lo cerchi neanche, e io me lo son cercato L. ma per condividere questa esperienza con qualcuno? E. sì, cioè anche perché c'è più coraggio in due, non so, ci si trova di più, poi ero piccolina e un po' mi spaventava andare a Verona da sola, dopo no, poi ti passano anche ste paure qua e vai in postacci, però...." (Eveleen, 22-25 anni). "S. diciamo che mi ero presa proprio una sbandata per questo tizio... Non so se mi affascinava lui o quello che faceva, se era per il fatto che usava e me la procurava, non so se mi ci si sarei messa se non avessi fatto uso, non so se mi piaceva realmente, in quel momento magari cercavo proprio quello, quello che mi faceva più comodo, non so..." (Sherilyn, 31-35 anni). In coerenza con quanto viene evidenziato in letteratura [Simmons e Singer 2006; Taylor 1993; Rosenbaum 1981] e con gli aspetti appena trattati, le relazioni sentimentali tendono ad avere un carattere di stabilità nel tempo, a poggiare saldamente su valori tradizionali e conservativi e ad essere considerate realmente significative nelle rappresentazioni delle intervistate24. Il pregiudizio secondo il quale l'uso di droghe si correlerebbe alla promiscuità sessuale, dunque, non appartiene ai profili delle tossicodipendenti intervistate in questa sede, che anche nei periodi di maggior coinvolgimento con la sostanza cercavano nella relazione con l'uomo una stabilità affettiva e materiale ed esprimevano il desiderio di costruirsi una famiglia, pensando che l'esperienza con l'eroina fosse una parentesi che prima o dopo si sarebbe chiusa. Anche nelle ragazze più giovani, le cui storie sentimentali si rivelano certamente più brevi vista l'età, si evidenzia questo notevole investimento sulla relazione di coppia, tanto che in alcuni casi proprio le delusioni sentimentali hanno influenzato il passaggio all'uso di eroina o le ricadute successive ai tentativi di disassuefazione. In tutte le leve di età si può osservare, dunque, una certa adesione agli ideali di femminilità trasmessi socialmente, fondati sulla centralità dell'amore, dell'empatia e del sacrificio [Broom 1995], che le intervistate tendono a tenere distinti dai comportamenti di mercificazione sessuale messi in atto per poter sostenere la propria

dipendenza, considerati null'altro che l'espediente più facilmente accessibile. Sicuramente, l'eroina costituisce insieme un collante ed un ostacolo ad una relazione soddisfacente, in quanto da un lato la sostanza orienta la coppia verso un interesse comune, favorendo la condivisione delle esperienze e la comunicazione, dall'altro lato questa forma di rapporto uni-diretto diventa osmotica e funzionale al mantenimento di tale stile di vita, impedendo il riconoscimento di problemi profondi che vengono coperti dall'effetto anestetizzante e insieme euforizzante dell'eroina: "H. adesso che ci penso bene... stavamo insieme perché c'era la droga, penso che adesso non ci riuscirei più a starci insieme [...]. Io son sempre stata una ragazza con la voglia di fare: andare in giro, lavorare, su tutte le cose... e trovarmi tutto il giorno sul divano a fumare... volevo fare delle cose, tipo mettere a posto il giardino e non ne avevo voglia, dove mettere a posto casa e non ne avevo voglia, volevo andare a fare un giro con le amiche e non ne avevo di sane e non avevo nemmeno la voglia di star là ad accender la macchina... trovarmi morta... non mi riconoscevo più, dove sono andata a finire... e quindi lui non è che mi aiutava... era solo un "andiamo facciamo sbrighiamo torniamo' ; non c'era tanto dialogo, eravamo io e lui sul divano a guadare la tv con la stagnola in mano... ci era passato per la testa "dai smettiamo", però non c'è mai stata... sì, l'unione c'è stata ma solo per far quello, credo non c'è stata mai la volontà, o una mano da qualcuno, un appoggio da una persona più forte... non riuscivo proprio a smettere" (Hilary, 22-25 anni). "C.Se sei intelligente sai che in quel contesto... sai che stai bene con lui perché ti fai, che ti va bene tutto perché sei fatto, e che se un giorno non avete la roba vi mangiate il cuore a vicenda... se poi vuoi raccontarti favolette, che state insieme per amore, e tutte `ste robe fai pure, però... di fatto quello è quello che fate dalla mattina alla sera e non farete mai nient'altro, cioè... per me sono solo relazioni strumentali, perché alla fine non riesci neanche a stare con te stessa figurati con gli altri. Almeno io la penso così, poi per l'amor di dio c'è gente che si sposa, fa dei figli, sta insieme, però..." (Cristine, 26-30 anni). 'P.Ero innamorata ma solo perché c'erano le sostanze, perché senza di quelle non lo so... è che si sta talmente bene, non ci sono problemi e... non so non potrei dirlo adesso se... lì al momento ci volevamo bene, adesso invece... a volte riesce ad essere un po' affettuoso, saremmo una coppia, si siamo una coppia perché c'è il bimbo però non... io gli ho sempre detto che se ci fosse o non ci fosse per me non cambia niente perché di sentimento così non c'è niente, non è che posso dire "sono innamorata" adesso" (Peggie, 31-35 anni). -G. _eravamo io e lui, innamorati, e poi c'era il terzo incomodo che era l'eroina e che però ci univa anche tanto L. vi univa in che termini? G. a parte un primo periodo in cui io non ero ancora pronta e quindi lui lo faceva di nascosto... poi io l'ho saputo, e abbiamo cominciato insieme a tirarla, pian piano, e ad arrivare poi al buco, e sono stata io a chiederglielo... No, sicuramente è stato un grande amore ma contaminato da questa cosa che poi distrugge tutto. Ma non c'era solo quella in comune fra noi. Dico purtroppo, alla fine, essendoci anche questa cosa che ci univa e alla fine ci ha anche distaccati... e poi soprattutto nel periodo finale quando io avevo anche altre ambizioni, tolto

quello mi sembrava che non mi rimanesse nulla [...] erano passati 5 anni, ero a *, volevo altre cose, e poi mi ero anche stufata un po' della sostanza in quel periodo, quindi niente... sembrava che al di fuori di quella sostanza che ci univa tantissimo qualcosa venisse a mancare nel nostro rapporto. All'inizio mi aveva seguito a * e poi abbiamo cominciato a volere cose diverse, io ho smesso per sei mesi perché ovviamente poi non è che è una cosa lineare, di continuo hai ricadute, periodi tranquilli e periodi in cui ti riviene fuori questa cosa... io dico sempre che si "impossessa di me" perché quando viene quella cosa io non posso farci assolutamente niente, è proprio un bisogno [...] e quindi niente, è stata una bella storia d'amore, durata 5 anni, come ti ho detto una storia a tre... piano piano mi sono un po' staccata da lui, c'è stata molta sofferenza in me..." (Grace, 36-39 anni). Non vi è da trascurare, inoltre, il processo di reciproca influenza dei partner nell'uso di eroina, come sottolinea Merilyn in questo brano: "M. io e il mio ragazzo stiamo insieme da 12 anni adesso, e il primo periodo che stavamo insieme non facevamo uso, ci eravamo messi insieme per stare insieme e non per altro. Dopo qualche anno lui aveva ricominciato e io non sapevo niente; è solo negli ultimi anni che poi abbiamo cominciato con la roba... ecco io però all'inizio gli avevo detto "con quelle cose li non voglio aver niente a che fare, perciò se ti trovo qualcosa io prendo e me ne vado". Magari è anche per quello che... probabilmente per non tirarmi dentro anche a me non mi aveva detto niente... è solo negli ultimi anni che facciamo uso insieme, quindi tanti problemi che abbiamo adesso prima non li avevamo; cioè sì litiga più spesso, è facile che se uno sta poco bene è più nervoso, oppure se lo facciamo insieme poi ce ne possiamo stare in pace, capita sennò che uno ha voglia e l'altro no ed escono problemi... L. la sostanza quindi è una parte integrante della vostra relazione adesso, in questo periodo? M. non so, di certo è un problema, quello si" (Merilyn, 31-35 anni). Contrariamente a quanto viene affermato in letteratura e in coerenza con le considerazioni che si sono avanzate più sopra, non sembra possibile ipotizzare per il campione di donne intervistate in questa sede una forma di dipendenza economica che renderebbe difficile il processo di affrancamento dalla relazione e, di conseguenza, dalla sostanza. Lette in una prospettiva diacronica, infatti, le storie di vita delle intervistate mostrano che se per brevi periodi la relazione di coppia può fornire un sostegno anche dal punto di vista materiale, tale sostegno è comunque reciproco e vincolato alle contingenze, come del resto hanno evidenziato Taylor [1993] e Simmons e Singer [2006]; la donna, inoltre, assolve in essa un doppio ruolo proprio come nelle normali convivenze, ovvero nel pubblico e nel privato, nella cura domestica e familiare come nella vita lavorativa (nonostante in tale contesto spesso non equivale a professioni nel mercato del lavoro emerso). Semmai vi è da riflettere su una forma di dipendenza dall'uomo più affettiva e relazionale che economica, presente in gran parte delle storie analizzate, dunque trasversale ad ogni fascia d'età, che può certamente complicare l'esperienza tossicomanica, la decisione di ricorrere al servizio e il percorso di recupero; aspetto che, come si è sottolineato nel capitolo introduttivo, viene identificato dalla letteratura di settore (in ambito terapeutico) con il termine codipendenza. Questo racconto di Carolyn la descrive con queste parole:

"C. perché comunque il rapporto era diventato molto ossessivo, ero dipendente da lui, da questo ragazzo, e con la droga mi ha proprio portato... L. perché dici che eri dipendente da questo ragazzo? C. perché avevo proprio bisogno di lui, sempre, cioè mi sentivo protetta se ero con lui e se non c'era stavo male, anche perché comunque mi ricordo che in quel periodo non andavo a scuola e quindi non mi sentivo a posto con me stessa, erano bugie su bugie, dover sempre pensare a cosa dire ai miei per fare in modo che non venisse fuori e quindi la vivevo male, però allo stesso tempo non riuscivo a... magari dicevo "ok, domani vado a scuola, mi dò una tranquillizzata e cerco di staccarmi un po' da lui", però alla fine era sempre lo stesso andazzo, ho continuato così. E poi mi hanno mandato via di casa, avevo smesso per 5 mesi di far uso di sostanze, e però mi son ributtata sull'alcol, ma tanto proprio [...] dovevo sempre essere fuori per star bene" (Carolyn, under 21 anni). Come si evidenzia in letteratura [Nelson-Zlupko et al. 1995; Taylor 1993], le relazioni di coppia tra tossicodipendenti sono spesso a simmetriche e caratterizzate da un forte controllo sociale - e distacco affettivo - dell'uomo sulla donna e dalla violenza, che spesso viene subita in modo passivo per la mancanza di alternative, per l'assenza di altri punti di riferimento affettivi, per l'effetto alienante dell'eroina unito ad una scarsa autostima ed immagine di sè [Taylor 1993], ma soprattutto per un'idea tradizionale di amore che impone alla donna una dedizione totale ed incondizionata all'uomo. La socializzazione femminile, come si accennava nel capitolo introduttivo, è in sostanza una socializzazione alla dipendenza; e quei tratti caratteriali ricercati fin dalla tenera età in questi uomini trasgressivi, si ripresentano in modalità espressive prevaricanti anche all'interno della stabilità della relazione di coppia e vengono accettati in modo passivo entro questo ideale di amore romantico. Per alcuni versi, alcune delle motivazioni che sottostanno a questa forma di dipendenza dalla figura maschile accomunano donne tossicodipendenti e non, come fa notare un'operatrice del Sert: "Noi abbiamo notato che è più facile che questa caratteristica, questa dipendenza affettiva dall'uomo compaia nelle compagne dei tossicodipendenti, più che nelle tossicodipendenti. Da quello che ho visto, è più facile che lo siano le compagne non-dipendenti di un uomo tossicodipendente, come fosse una loro scelta... ne abbiamo tante, soprattutto di una certa età, che sono proprio dipendenti da questi che gliene fanno di cotte e di crude e non si riescono proprio a staccare da questa cosa. Eh sì! Il libro della Norwood si intona perfettamente con loro. Il modello di donna che ne esce è di quella servizievole, remissiva, che sta accanto al suo uomo in tutto e per tutto, che si comporta come lui vuole che si comporti, che spesso sta li a prenderle25... questo è il ritratto delle compagne dei nostri tossici, che stanno li ma non è che poi ci cadono nella tossicodipendenza, ovviamente non si può mai dire, però credo sia così..." (Barbara Fava). Si noti che, come evidenziano Simmons e Singer [2006], in letteratura molti ritengono che il concetto di codipendenza sia inapplicabile alle relazioni sentimentali tra tossicodipendenti e che, al contrario, e come sostiene l'operatrice, identifichi maggiormente l'atteggiamento di donne

estranee alla droga che cercano di redimere partner dipendenti da sostanze psicoattive. In realtà, da molte delle ricostruzioni biografiche delle intervistate, facendo esclusivo riferimento alle loro interpretazioni ed evitando "diagnosi" esterne improprie (per l'approccio utilizzato e per gli strumenti di indagine a disposizione), la dipendenza affettiva dal partner tossicodipendente e il riferimento ad un'ideale di amore incondizionato emerge in modo netto, come in questi brani di Harper e Sibilla che presento di seguito: "H. eh sì, io ero proprio innamorata, non ero obiettiva perché adesso se ripenso veramente mi mangio le mani e mi dico "madonna come ho fatto a fare tante cose?" perché ne ho fatte davvero tante e sempre dicendo... Adesso se ci penso mi dico come cavolo ho fatto, però ero proprio tanto innamorata, io son sicura che ero innamorata L. e la tua idea di amore era quella che comunque dovevi sempre essere vicino alla persona che amavi nonostante tutto, nonostante tutte le violenze? H. esatto, dimostrare fino all'ultimo che io ero li per lui, comunque io avrei accettato ste botte, sii discorsi, ste litigate furiose e poi il giorno dopo sarebbe passata e sarebbe andata un po' meglio [...]. Quando è arrivata l'eroina, sempre peggio... iniziavamo la serata con la cocaina, dopo quando era troppo tardi fumavamo l'eroina per calmarci, e li era una tragedia... nel senso che dopo li sono cresciuti ancora altri problemi perché poi l'eroina ti rendeva dipendente, stavi male, e comunque io ero stufa perché vedevo... insomma lui non mi faceva vedere la mia famiglia, mi aveva fatto perdere il lavoro perché non voleva che lavoravo, era geloso [...], mi metteva sempre le mani addosso, poi stavo male anche io però proprio non riuscivo a lasciarlo... Lui mi ha anche fatto le coma, e io sempre li... perciò io ne avevo tanti di motivi per dire "cosa fai con sto qua, vai via" [...] ma poi lui dimostrava qualcosa, e alla fine... io ero innamorata, ero proprio accecata da lui" (Harper, 26-30 anni). "S.... ad un certo punto subentra odio, tradimenti e squallore ma tu non riesci in nessun modo a dire basta... e i segni, anche io ero andata ben 2-3 volte per cercare di denunciarlo, mi facevano tutte le carte e dopo non riuscivo, proprio non riuscivo, mi dicevo che dovevo lasciar perdere [...]. Poi ultimamente era proprio una botta dietro l'altra, no... ma infatti ho dovuto proprio secondo me toccare lo squallore, il peggio dello squallore per dire "ma basta, ma ti rendi conto Sibilla di quello che stai facendo?? Ma Vattene!" e però ho dovuto toccare il peggio dello squallore, non penso ci sia stato squallore peggiore, e infatti dopo me ne sono andata e l'ho lasciato e tutto [...]. E però ci è voluto proprio di entrare nel degrado, nel senso che dopo l'incidente, sii soldi che voleva portarmi via, poi si è messo assieme... cioè troviamo una mia amica, che si chiama C., no? Che per me era la mia migliore amica e lei era su in comunità e aveva un bimbo di 10 anni che rischiava di perdere, perché non so se era stata cacciata dalla comunità o se se ne è andata via lei; praticamente incontro questa ragazza in mezzo alla strada e le dico "C. vieni a casa, ho una casa" e viene a casa e dopo 2 giorni la trovo a letto con lui... cioè la prendo per il collo e la tiro su... ed è stato proprio li che iniziavo a prendere gli spunti, a dire "bene", cercavo di... di farmelo odiare il più possibile e infatti dopo ben 10 anni ho detto "bon, con me... puoi viver morire"... Ho fatto una crisi bruttissima eh... però ho detto "basta Sibilla, ma tu ci sei come persona!", cioè fin lì per me io non esistevo, esistevo solo per gli altri; e da lì ho iniziato a capire e dire "adesso basta, tu vali molto di più"... Iniziavo anche a perdere i denti, tutti rovinati... a esser bruttissima,

trascuratissima, proprio bruttissima, invecchiata... sembro più giovane adesso... e ho detto basta, che è stato 2 giorni dopo il Natale o verso capodanno di quell'anno... Non l'ho più voluto vedere, però è dovuto proprio succedere... tradimenti, violenze di tutti i tipi, ho dovuto farmelo odiare ogni giorno di più insomma per prendere questa decisione L. sentendo il tuo racconto mi sembra un po' che avevi con lui lo stesso rapporto di odio e amore che avevi con l'eroina S. ma sì, è vero sai? È vero... ma sì è vero, ma sai quante volte me lo son detta? È la stessa cosa, è una tossicodipendenza anche quella... L. ma in quel momento... cioè se avevi la percezione di essere troppo coinvolta dalla droga oppure se avevi la sensazione di essere troppo coinvolta da lui, non riuscivi poi a comportarti in modo tale da risolvere quella dipendenza? S. no, anche perché probabilmente non avevo neanche tante strade aperte, non è che... avessi avuto la mia famiglia forse anche sì, forse l'avrei anche avuta se mi vedevan decisa... però non so cos'era... lo chiamano in giro il diavolo, cioè proprio una persona così attraente, così... sembrava anche bella da parlarci insieme, cioè un diavolo proprio, proprio un'attrazione potente perché poi così non l'ho mai più provata, mai provata una roba del genere. E prima di arrivare ad odiarlo e pensare a me stessa, ti dico non c'era niente, addirittura pensavo con la sua testa, cioè se lui mi diceva "sei una stronza" pensavo "ma sì è vero hai ragione" L. ti convincevi delle cose che ti diceva? S. sì sì, guarda una roba! Che è vero, adesso no non mi fa più ne caldo ne freddo, ma ci sono stati degli anni che se tu mi parlavi di lui o mi chiedevi "hai visto *" io iniziavo a star male, a tremare, ad aver la pelle d'oca e pensavo "ma come cazzo hai fatto a rimanere insieme ad una persona così squallida, così brutta proprio", non so... adesso con la mia testa dico "non lo farei mai", ma cavoli 10 anni ho fatto, che voglio dire poi ho fatto tantissimi anni di galera grazie a lui non è che... per lasciare fuori lui ho fatto 4 anni se no il giorno dopo ero fuori" (Sibilla, 4045 anni). La ricostruzione di Margareth sottolinea l'effetto che l'uso di eroina aveva sulla rappresentazione del rapporto di coppia e di sé nel rapporto di coppia: "M.Adesso pensandoci bene, anche quando ho trovato questo ragazzo, è li che forse c'era qualche problema perché insomma in questa relazione c'è stato un po' un gioco al massacro, io non è che stavo proprio così bene nel senso che mi sembrava di stare bene perché stavo con lui e mi ero ripromessa di tirarlo fuori dal giro perché credevo di amarlo, ma alla fine appunto stavamo bene solo quando fumavamo eroina che riuscivo a fregarmene in qualche modo di tutte le situazioni, anche che mi menava ad esempio L. e come spieghi questo fatto di stare con una persona che ti dimostra tutt'altro di quello che dovrebbe essere l'amore? Perché metterti le mani addosso è un gesto forte insomma... M. hai ragione, e non è che mi dava solo uno schiaffo tra l'altro... mi picchiava pesantemente, i problemi che adesso ho alla schiena son dovuti a quello che mi faceva, mi dava bastoni sulla schiena, mi buttava giù dalle scale L. e cos'è che continuava a tenerti legata a lui?

M. perché mi convincevo di quello che mi diceva, "noi siamo fatti per stare insieme, è la roba che mi fa fare queste cose perché io non ti farei mai del male perché ti amo, ho bisogno di te e tu hai bisogno di me, tu senza di me non riesci a far niente perché non vali niente", insomma alla fine era come se mi avesse fatto il lavaggio del cervello, mi ero convinta che veramente senza di lui non andavo da nessuna parte, non ero niente, e allora mi adagiavo, e le prendevo..." (Margareth, 22-25 anni). Connie giustifica la dedizione ad un partner violento con le difficoltà imposte dalla vita da strada e mostra come un'esperienza di questo tipo possa incidere sul progressivo ricorso all'uso di droghe e alcol in funzione autoterapica [Sterk 1999]: "C. eh sì, mi ha mandata all'ospedale tante di quelle volte ...e mi ha dato tante di quelle botte... dopo l'ultima volta ho cercato di ammazzarlo ma mi si è rotto il coltello, l'avevo toccato appena appena e la lama si è rotta, aveva su quei giacconi grossi di plasticone che usano per le montagne che non ci passa dentro niente, e allora mi si è rotto, sono andata in soffitta a prendere il cacciavite più grosso che avevo ma è scappato. Guarda, io sarò anche stata fuori di testa, ma in quel momento non ce la facevo più, ho detto basta... era un continuo, ogni giorno, ogni momento, mi menava, mi menava, mi menava, e lì ho detto "basta, vecchio mio, tu non mi metti più le mani addosso". E sono andata fuori col cacciavite ed era lì che correva! Ah, è capace di correre! L. e quanto siete stati insieme? C. una decina di anni L. e tu le hai prese per 10 anni? C. sì L. e cos'è che ti faceva rimanere lì a prenderle? C. che ne so anche di quella storia? Anche lui ha una doppia personalità, ti sembra così carino, gentile e tutto ma dopo vecchio... L. ma tu continuavi a essere innamorata di lui? C. mah, io non credo neanche di essere mai stata innamorata, no, non sono stata innamorata. Ero fulminata, era questo che ti dicevo prima, ero fulminata e me le cercavo, non ragionavo. E dico che se andavo avanti così ancora un po' oltre al fegato mi partiva anche il cervello [...]. Probabilmente mi vedevo proprio senza speranze, e mi dicevo "bè, più che uno così cosa vuoi rimediare"... che poi anche quando facevamo colletta, mi dovevo nascondere i soldi insomma [...] e per la paura di stare da sola, guarda che è brutto, ti accontenti anche della miseria. Alla fine lo conoscevo, non vedevo nessuno degli altri ma anche altri che vedevo erano così... bè, lui non era ridotto così una volta però... c'era qualcuno che mi aspettava, e io non ho mai cercato nessun altro, anche perché stavo in strada, non è facile per una donna, e allora quando mi veniva a cercare io tornavo da lui, e mi ha mandato in ospedale tante volte [...]. E lì ero arrivata al limite, sai? Allora io ero arrivata al punto che dovevo avere due scatoloni a casa con le birre, e me le tiravo fuori una a una, andavo nel letto che avevo una bottiglia di birra aperta senza tappo, un'altra aperta qui vicino pronta per quando finiva questa, e tutto intorno al comodino avevo tutto il giro di bottiglie, e poi avevo la borsa, le scatole... e pian piano che

finivo la birra che avevo in mano, e mi alzavo, prendevo l'altra aperta, ne prendevo una chiusa e la aprivo per averla pronta subito dopo e mi avvicinavo le altre. Questo era, poi facevo colletta, mi facevo, non mangiavo niente, non bevevo neanche più acqua, quindi voglio dire arrivi proprio il limite... e al mattino iniziavo già alle 5 e mezza..." (Connie, 40-45 anni). Questi ideali di amore e dedizione totale al partner possono portare ad una sottovalutazione dei rischi connessi a pratiche sessuali sicure o allo scambio di siringhe. Un operatore della Lila, infatti, fa notare che: "Tra le donne portatrici di HIV che ho conosciuto in tutti questi anni... mi sembra di poter dire che mentre gli uomini è difficile che siano disposti a sesso non protetto con donne sieropositive o comunque ad avere altri comportamenti come scambiarsi siringhe che potrebbero trasmettergli malattie, per le donne ho notato che è vero l'esatto contrario... cioè c'è questa idea in loro che l'amore che le lega al proprio partner superi qualsiasi ostacolo, anche se l'ostacolo è costituito da una malattia così devastante, quindi la paura di contrarre il virus viene messa in secondo piano rispetto a questo amore... fare sesso non protetto costituisce una prova dell'amore che provano, perché il preservativo è una barriera alla fine, un qualcosa che si mette di traverso ed impedisce di esprimere la pro pria dedizione totale attraverso il rapporto sessuale... mi viene da dire che la donna equipara proprio l'amore al senso di sacrificio, quindi mette in atto più dell'uomo dei comportamenti che possono effettivamente portarla ad avere conseguenze pesanti anche dal punto di vista fisico e sanitario"26 (Michele poli)27. La testimonianza di Kimberlee, Hiv positiva, da un lato conferma queste considerazioni, dall'altro evidenzia anche l'atteggiamento di incoscienza e fatalismo nella convinzione che non avrebbe mai contratto malattie che attribuisce, nel resto dell'intervista, all'apatia che la dipendenza dall'eroina le ha indotto: "K. verso i 21 anni mi sembra... e lì ho fatto un paio di anni in comunità, non l'ho finita, sai che c'erano le 3 fasi, accoglienza comunità e rientro, ora non so se sia ancora così... ma praticamente da quando sono arrivata in comunità ho conosciuto un ragazzo, ci siamo fra virgolette innamorati, perché se ci penso poi... vabbè lasciamo stare... siamo quindi andati via, a vivere insieme, lui era sieropositivo, io adesso sono anche sieropositiva L. a causa dei rapporti sessuali non protetti? K. sì sì, facevamo sesso proprio senza niente, io non ho mai usato niente L. ma volutamente? K. io pensavo "tanto non mi ammalo", cioè non chiedermelo perché davvero è complicato, io avevo sentito tantissimi che avevano avuto rapporti e comunque non è così facile prendersela... dopo io ho anche avuto due aborti, cioè se ci penso adesso sarebbe stato davvero un miracolo se non mi ammalavo... cioè facevamo l'amore con le mestruazioni [...]. Ero convinta che non mi ammalavo perché comunque conoscevo tantissima gente che aveva avuto rapporti di anni, e anche aborti o figli, e mi sembrava quasi che... forse me la sono un po' raccontata che la maggior parte non viene contagiata, cioè se è l'epatite B sei sicuro che 3 giorni dopo sei infettivo, però la vedevo così... visto che sono sempre stata molto

sana come persona, cioè io non lo so, non lo so, davvero, non riesco a dare una giustificazione... e non so, i primi tempi ero innamoratissima, però non è che se lui mi avesse detto... non è che volevo diventare sieropositiva, forse all'inizio dentro di me dicevo "io lo amo tantissimo non voglio usare niente" però era proprio che ero convinta che tanto non mi sarei ammalata, cavoli non so come spiegare... dopo è vero che magari era un modo per... insomma il preservativo in una coppia a lungo andare... forse anche quello, che cavoli, io ero convinta che non succedeva niente, e mi sembrava altro che barriera perché ci son stata insieme tanti anni, e però avevo proprio sta idea che non mi sarei ammalata" [...] L. ma tu non hai mai desiderato di avere dei figli? K. no, forse perché non ho mai avuto l'uomo giusto, cioè io vedevo che non andava già dall'inizio con lui, perché comunque son passata sopra a duemila cose di lui che non mi piacevano, e sicuramente non era una persona che ti dà sicurezza, insomma, ero la sua mamma praticamente! Però, però, che cavolo non lo so perché ci stavo insieme, ed era veramente, cioè... non so cosa dire, era proprio un fallimento totale come persona, forse mi trovavo bene nel ruolo di mammina, non lo so, però comunque dopo mi è venuto a pesare molto questo ruolo qui perché quando poi avevo bisogno io, lui non aveva proprio la minima idea di cosa vuol dire sostenere una persona, non lo sapeva proprio... L. e scoprire a tua volta di essere sieropositiva? K. fredda. Forse dentro di me lo sapevo già, guarda è complicatissima sta cosa perché da un lato è vero pensavo che non mi sarei ammalata, dall'altro dopo che hai avuto 2 aborti, che continui a fare rapporti anche completi, non sempre con il coito interrotto, e avanti... cioè so che ho detto "ah, oli'. Forse perché quando io sto male o ho paura di stare male male la mia reazione è proprio quella di chiudermi, non sento proprio più niente" (Kimberlee, 36-39 anni).

1. Dipendenza e sé specchio Nei capitoli precedenti si è avuto modo di mostrare che la carriera tossicomanica di gran parte delle donne intervistate si è caratterizzata come una totale immersione nello stile di vita e nelle reti di relazione che gravitano intorno ai contesti drogastici; se si esclude, infatti, il piccolo gruppo di coloro che hanno mantenuto una doppia identità sociale, rimanendo ancorate ad un lavoro c/o preservando relazioni sociali significative estranee al mondo della droga, per quasi i tre quarti delle intervistate si è verificata una presa di distanza da essi, almeno nelle fasi di maggior coinvolgimento con la sostanza. Come sostengono Sommers et al., «la vita economica di queste ultime diventa progressivamente sempre più intrecciata con il loro mondo sociale. Organizzano le loro vite attorno alle droghe e si immergono in queste attività e nelle persone con le quali si espongono a tali comportamenti economici e sociali. I loro ruoli e le loro identità, come le fonti primarie di status e di reddito, si definiscono esclusivamente all'interno di questi network sociali» [2000: 85, trad. mia], contribuendo a ridurre le proprie opportunità nei contesti socio-economici della vita ordinaria [Rosenbaum 1981]. Tale processo di distanziamento dal mondo di vita convenzionale non ha un carattere di linearità poiché le carriere delle intervistate, se lette in una prospettiva diacronica ed indipendentemente dalla loro durata complessiva, si distinguono per i costanti tentativi di disintossicazione - con fasi di astinenza e di recidive nell'uso che possono durare anni -, che possono essere attivati in modo autonomo o sperimentando le diverse soluzioni di cura e riabilitazione disponibili'. Queste fasi definiscono altrettanti tentativi di separazione dai network sociali costruiti nei contesti drogastici, di riavvicinamento ai precedenti legami significativi e di costruzione di nuovi legami, spesso percepiti come difficoltosi da sostenere per la necessità di nascondere una parte ritenuta costitutiva della propria identità e per la conseguente mancanza di empatia e confidenza nella relazione. Le resistenze al cambiamento, però, non derivano unicamente da percezioni soggettive, ma vengono ricollegate dalle intervistate alle reazioni che i soggetti con cui entrano in relazione mostrano nei loro confronti2: alcuni estratti di interviste riportati nel capitolo precedente hanno proprio sottolineato che le forme di esclusione e discriminazione subite nel corso della loro biografia hanno giocato un ruolo fondamentale nell'acuire questa sensazione di separazione dall'ordinario e di isolamento relazionale, portandole ad identificarsi con l'immagine che gli altri hanno di loro e a riavvicinarsi ai contesti e alle relazioni sociali conosciuti. Il concetto di stigmatizzazione deve la sua formulazione originaria a Goffinan [1983], che lo intende come un processo di attribuzione di una particolare caratteristica (normalmente connotata

negativamente) ad un individuo, a cui consegue una reazione sociale di discredito ed una serie di comportamenti che possono andare dal riconoscimento di una diversità alla derisione, fino ad arrivare all'esclusione e alla condanna; si tratta di una forma di controllo sociale che evidenzia e costruisce una particolare frattura tra l'identità sociale virtuale e l'identità sociale attualizzata, ovvero tra l'immagine precostituita di ciò che l'individuo dovrebbe essere e l'immagine concreta che egli offre agli altri di sé, contribuendo a determinare conseguenze profonde sulla formazione dell'identità. La riflessione sociologica ha poi raffinato l'elaborazione teorica di tale concetto applicandolo ad un vasto range di comportamenti c/o attributi [Link, Phelan 2001] e dandone sfumature molto differenti, ma esaltandone sempre sia il carattere di processo sociale attivato dai gruppi non-marginalizzati per raggiungere l'obiettivo della conformità con l'esclusione dei devianti, sia l'impatto negativo nella vita dei soggetti stigmatizzati, nelle loro percezioni, esperienze ed interazioni quotidiane. Nella sua applicazione al nostro ambito, in virtù del fatto che l'uso di eroina è un comportamento moralmente inaccettabile, colui che lo mette in atto viene considerato un debole e un immorale, un soggetto che reca un danno alla società e come tale deve essere emarginato [Ahern et al. 2007]; questa rappresentazione sociale, interiorizzata sia da chi applica lo stigma sia da chi lo subisce, può condurre quest'ultimo a percepire se stesso secondo questi stereotipi negativi. Non solo. Una delle ipotesi che fondano il presente lavoro di ricerca, mutuata dalle riflessioni femministe, è che la reazione sociale verso i coni portamenti di consumo di droghe illegali colpisce in modo differente i due sessi. Il concetto di doppio stigma presentato in apertura evidenzia, infatti, che le aspettative di comportamento e di ruolo che convergono sull'essere donna influenzano una reazione collettiva più accentuata verso le donne che usano droghe illegali, in quanto con tale condotta si discostano dalle norme sociali implicite all'ideale di femminilità, strettamente connesso alla potenziale condizione di madre e al ruolo di caregiver familiare. La ricerca del piacere e la trasgressione attivate con le condotte drogastiche, dunque, non subiscono la medesima stigmatizzazione sociale nei due sessi: se tale forma di controllo sociale sulla donna può essere interpretata come un fattore di protezione all'uso di droghe da parte delle donne, in quanto lo stigma e la discriminazione agiscono come deterrenti all'assunzione di tale comportamento [Boyd 1999], al contempo contribuisce ad amplificare il senso di colpa e la vergogna esperite da coloro che l'assumono e ad allontanarle in modo più accentuato dalla conformità rispetto al genere maschile, rendendo più difficoltoso il processo di re-integrazione nella società. Il genere costituisce, dunque, una variabile fondamentale nel comprendere il processo e le conseguenze della stigmatizzazione sulla formazione dell'identità sociale ma non è certamente l'unica dimensione interveniente. Link e Phelan [2001], rileggendo le diverse formulazioni del concetto di stigma presenti in letteratura, sottolineano che i processi sottostanti alla stigmatizzazione (1' etichettamento, la stereotipizzazione, la separazione, la perdita di status e la discriminazione) sono vincolati al possesso del potere economico, sociale e politico che presiede

all'identificazione delle differenze, alla costruzioni degli stereotipi, alla separazione delle persone etichettate in categorie sociali distinte e alla piena esecuzione della disapprovazione, del rifiuto e dell'esclusione sociale. Il discorso sul genere deve, dunque, essere articolato e differenziato nell'ambito dell'analisi della stratificazione sociale di classe, di status socio-economico e di razza poiché la distribuzione ineguale delle risorse socio-economiche incide sulla forza dello stigma sociale esperito: in alcune delle storie di vita analizzate in questa sede, la condizione di donna tossicodipendente è percepita in modo meno stigmatizzante rispetto alla provenienza sociale da nuclei familiari caratterizzati da una estrema povertà economica e già a priori discriminati per la presenza di tossicodipendenti, alcolisti o soggetti che hanno subìto esperienze carcerarie: `B. tutti quelli con cui stavo erano persone che avevano le stesse problematiche di famigliari e... anche perché diciamolo chiaramente: in un paese piccolino che tu lo voglia o no, anche i figli vengono guardati in una certa maniera se i genitori o i fratelli hanno fatto una certa vita... se i genitori non facevano danni, si comportavano bene anche i figli andavano bene, ma se qualcuno in famiglia ha dei problemi anche il figlio è visto in un certo modo... non so, forse in città non è così, nel paese c'è questo... ed è una cosa che una persona si porta appresso [...]. E ovviamente poi ti isoli, te ne stai sulle tue, quindi non ho mai neanche provato a cercare altro, anche perché poi le voci girano e la gente ti scansa, non è che sia così facile..." (Bridget, 3639 anni). Le ulteriori sfumature concettuali elaborate da Jones [1984] ci informano su altre dimensioni importanti nel definire l'entità e la forza dello stigma. Ricollegandosi alla definizione goffinaniana che lo interpreta come una relazione tra un tratto (o un comportamento) e uno stereotipo, egli ne identifica 6 dimensioni costitutive, ovvero: il grado con cui il comportamento o i tratti stigmatizzanti possono essere nascosti; i risultati attesi di lungo termine che vengono associati al comportamento; il grado con cui le attività quotidiane sono compiute nonostante tale comportamento; l'apparenza fisica del soggetto che assume il comportamento; il grado di responsabilità personale per il proprio comportamento; il grado di pericolosità per gli altri di tale comportamento. Estendendo questa concettualizzazione all'uso di eroina, sono soprattutto due le componenti che concorrono a definire l'entità dello stigma applicato al tossicodipendente e delle conseguenze sul piano della reintegrazione sociale, data la natura interattiva del processo di etichettamento: la capacità/possibilità di mantenere nell'ombra l'uso e di conciliare la propria dipendenza con le attività quotidiane svolte nei contesti della vita ordinaria. Due intervistate riflettono proprio su questi aspetti, sottolineando come l'adozione di ulteriori comportamenti devianti c/o illegali per sostenere la propria dipendenza può avere serie ripercussioni sulle possibilità personali di ricostruirsi una nuova identità: "L. ti è mai capitati di prostituirti, spacciare o non so che per procurarti la sostanza? A. no, fortunatamente no, per fortuna mi son fermata prima, però non nego di aver pensato anche a qualcosa... cioè molto lontanamente però arrivi secondo me a un punto di dire "chi se ne frega"... poi è importante non arrivarci perché poi hai un motivo in più per... secondo me, è un mio punto di vista, ma è un modo in più per lasciarsi andare o non metterci l'impegno che

serve per venirne fuori, ce ne vuole tanto per riuscire ad avere una vita tra virgolette normale, cioè se si viene coinvolti in cose di questo tipo è anche più dura cercare di riequilibrarsi in qualche modo, quindi son stata fortunata a non superare certi limiti" (Angie, 40-45 anni). "F. io non ho vissuto tanto la discriminazione, isolamento o come vuoi chiamarlo, come invece ho visto tante donne che un po' perché sono incinta, o perché son state in galera, o perché erano prostitute, o chissà cosa avevano combinato e per cui venivano trattate male. Io questa cosa... bè certo che non è che ero vista bene, ma non l'ho vissuta così pesantemente, ma neanche nell'ambito del lavoro perché quando stavo male non lavoravo neanche, o se andavo a lavorare era perché stavo meglio... no, non ho mai vissuto tanto il pregiudizio" (Felicia, 40-45 anni). Nel complesso, si è avuto modo di osservare che la maggioranza delle intervistate percepisce se stessa soprattutto come tossicodipendente e che le diverse strategie di guadagno necessarie al sostentamento della dipendenza, illegali e di confine, sono generalmente compiute e giustificate in virtù della compulsione e del bisogno della sostanza, senza intaccare in modo irreversibile l'immagine di sè: in altre parole, questa si struttura principalmente intorno al rapporto con l'eroina più che al tipo di attività di hustling, ritenuta invece un'azione determinata unicamente dalle contingenze e dalle relazioni sociali intrattenute. Questa considerazione viene, però, a cadere per il gruppo di donne pervenute alla prostituzione in qualche momento della propria carriera tossicomanica: la prostituzione, nella sua pubblicità, ha un forte potere di definizione identitaria anche nel momento in cui viene ad essere considerata dalle intervistate alla stregua di un "lavoro", in quanto restituisce un'ulteriore identità "tipizzata" [Turchi 2002] altamente stigmatizzante che, tra l'altro, agisce come conferma delle rappresentazioni sociali dominanti sul legame tra tossicodipendenza e promiscuità sessuale. Con il concetto di identità tipizzata si intende un'identità culturalmente pre-definita e di natura stereotipica costituita di disposizioni, comportamenti espressivi e di ruolo che vengono attribuiti ed assunti come elementi di identificazione o come tratti auto-descrittivi dai membri di gruppi socialmente organizzati. Tossicodipendenza e prostituzione costituiscono due identità devianti assunte a "tipi", dunque identificate socialmente con una serie di tratti connotati negativamente anche dal punto di vista morale, che esauriscono l'identità del soggetto nel comportamento assunto; lo stigma che affligge il tossicodipendente è esacerbato rispetto allo stigma che affligge altre categorie sociali (come coloro che sono affetti da una malattia mentale) in quanto il comportamento tossicomanico viene socialmente considerato una scelta individuale e le conseguenze di tale condotta sono attribuite unicamente alla volontà e responsabilità personale, nonostante le evoluzioni della scienza medica e dell'interpretazione della tossicodipendenza come una malattia. Dunque, da un lato la società tende a definire e trattare il soggetto che possiede questi tratti negativi unicamente in virtù di essi, escludendo gli aspetti che disconfermano tale identità; dall'altro lato, questi tratti costituiscono per l'individuo un sistema preordinato di orientamento cognitivo per l'autovalutazione, l'azione e la realizzazione dell'immagine e stima di sé.

Queste dimensioni emergono con una certa forza dai racconti delle intervistate, che spesso sostengono la loro difficoltà/incapacità di trovare un'espressione proprio in virtù della condizione di tossicodipendente c/o prostituta c/o madre tossicodipendente, in modo particolare nel riferire abusi o discriminazioni; come evidenzia Boyd [1999], l'uso di eroina, nel momento del suo disvelamento, costituisce in sé e per sé motivo di discredito delle verità di un tossicodipendente. La possibilità di conciliare due vite così diverse non dipende, però, solamente dalle capacità di auto-controllo (dell'uso come delle attività correlate) o dal possesso di risorse materiali che possono evitare il ricorso ad altre forme di sostentamento economico, poiché si possono verificare eventi, spesso casuali o imprevisti, che contribuiscono a portare alla luce la condizione di dipendenza: si pensi, ad esempio, all'arresto e detenzione, un rischio che può riguardare tutte queste donne indipendentemente dalla tipo logia di attività di hustling, che contribuisce al disvelamento della propria condizione e all'etichettamento pubblico come criminale [Rosenbaum 1981], oppure alla gravidanza e alla maternità che costituiscono eventi biografici che concorrono a palesare la condizione di tossicodipendenza (seppur in modo meno evidente) e a ridefinire la propria identità sociale. Nelle pagine seguenti si punterà l'attenzione in modo particolare proprio su questi ultimi momenti biografici che la letteratura e le donne intervistate considerano l'elemento di maggiore differenziazione dell'esperienza tossicomanica femminile rispetto a quella maschile, come viene evidenziato nel paragrafo immediatamente successivo. 2. Stigma e doppio stigma I concetti di doppio stigma e doppia devianza sono emersi in modo evidente anche nel corso delle interviste biografiche ad alcune delle donne intervistate in questa sede che, rileggendo la propria esperienza personale o l'esperienza delle persone con cui sono entrate in relazione, hanno riflettuto sulle discriminazioni legate alla condizione di tossicodipendente e sulle possibili diversità di genere3. Lo stereotipo del tossicodipendente viene descritto brevemente da questo ritratto di Shirley che, come si è avuto modo di argomentare in precedenza, rappresenta l'immagine dominante che ne avevano tutte le intervistate prima di accedere loro stesse alla sperimentazione di droghe: "S.Mi dicevano che tutti nella società non accettano i tossici4, li vedono male, bisogna stare attenti, non bisogna fidarsi, che poi lo vedo benissimo anche io che non ci si può fidare perché è difficile fidarsi... cioè io mi son fidata e l'ho sempre presa nel sedere... che poi il tossico rimane quello che usa le siringhe, forse anche perché le altre droghe non ti danno così dipendenza, è per quello che vedono il peggio in quello che si fa, si immaginano quelli per strada fatti, fatti... non è che si immaginano che ci sono anche gli avvocati che la usano, alla fine c'è tantissima gente che la usa... quello, perché l'immagine fuori è così, cioè se venissero a sapere dell'avvocato è una merda anche lui, anche se fino a 5 minuti li ha tirati fuori dai casini, poi diventa anche lui una merda per la gente... perché è così" (Shirley, 26-30 anni).

Un primo spunto di riflessione sulle diversità di genere ci viene da queste parole di Grace, che evidenzia che l'assunzione di comportamenti come l'uso di droga da parte delle donne derivano dalla ricerca della "parità" con l'uomo, a cui però ancora non corrispondono i giudizi sociali, fortemente influenzati dalla variabile genere e penalizzanti per la donna: "G. forse per una donna è senz'altro sempre più difficile perché per anni la tossicodipendenza, ma come prima lo erano le sigarette e ancora prima forse il voto... era appannaggio dell'uomo. Quindi secondo me le donne... è difficile esprimerlo... però ecco secondo me in tutti questi anni la donna ha cercato di somigliare sempre di più all'uomo, quindi prenderne sia gli aspetti positivi sia in qualche modo quelli negativi. Per cui secondo me il numero di donne con questi problemi sarà sempre in aumento L. e dalla parte della società? I giudizi? G. il giudizio è sicuramente diverso. Una donna deve combattere ancora più pregiudizi rispetto all'uomo. Perché un uomo alcolizzato o drogato è già più accettato, e invece una donna è malvista, è una "strega", senz'altro è più malvista. Ma anche per le canne, ad esempio; se se la fuma il ragazzino di 17 anni non è un problema, ma se se la fuma una ragazza di 30 diventa uno scandalo. Ma già l'educazione che riceviamo da piccoli è diversa, se tu guardi come viene educato un bambino e una bambina già cambia tutto; ad esempio un maschietto è stimolato a giocare con le femminucce, mentre le bambine subiscono un altro trattamento. E questo per dire che a distanza di decenni dalla rivoluzione femminista siamo ben lontani dall'avere gli stessi diritti L. tu credi che se fossi stata un uomo la reazione dei tuoi genitori sarebbe stata diversa? G. i miei non lo so. Perché li reputo intelligenti. Però senz'altro da parte della società è diversissima. Forse per i miei sarebbe stato molto meno un disonore, nel senso che la gente li avrebbe visti con occhi differenti perché è normale che un uomo faccia esperienze diverse e nel farle sbagli; una figlia che fa una roba del genere... Ecco benché io cerchi poi di sentirmi superiore a questa cosa per non farmi venire sensi di colpa, e di pensare che la gente è ferma a 50 anni fa e non sa vivere, alla fine ti condiziona; in un primo momento forse sono arrivata qui con un atteggiamento un po' strafottente, fregandomene di quello che pensavano, però dopo 5 anni che vivo qui mi rendo conto che sono cambiata, ci sto un po' attenta, non sono libera assolutamente di essere me stessa, quando esco di casa ci sto attenta anche per l'episodio che ti accennavo mi era capitato5, soprattutto nei paesini questa mentalità c'è e fa paura e secondo me la causa c'è ed è una sola: l'ignoranza..." (Grace, 36-39 anni). La percezione che ne ha Stephanie, più giovane di età rispetto a Grace, è che il cambiamento sociale legato alla condizione della donna abbia, al contrario, smorzato alcune delle storiche differenze di genere che si legavano all'uso di sostanze psicoattive: "S. e bè, forse anche perché il giudizio che viene dato a una donna che usa droghe è più negativo rispetto a quello che viene dato a un ragazzo... forse fa più impressione, dà una sensazione diversa vedere una donna che si buca o un uomo che si buca... e questa cosa è sempre stata, ma anche vedere una donna ubriaca una volta era peggio che vedere un uomo

ubriaco [...]. Però forse dipende anche... cioè è proprio un'altra generazione secondo me, io la penso un po' come i ragazzi, io ho più amici maschi che femmine per dire, e sono solo amici, persone con cui magari si va a fare la balla [l'ubriacatura, n.d.r.] insieme, oppure si usa sostanze o si fa altro. Probabilmente adesso questa cosa non è così marcata almeno nella mia generazione, adesso mi sembra ci sia una situazione diversa, una volta forse c'era più questa distinzione, questa idea della donna che aveva come ruolo fondamentale quello di stare in casa a fianco al marito e di fare la mamma, e il marito ha altri compiti che deve svolgere mentre la donna deve tenere la casa... ci sono ancora persone che la pensano così... E poi avevo anche studiato che comunque una volta si negava proprio il piacere alle donne, anche il piacere sessuale, che chi provava piacere sessuale veniva legata anche su un marciapiede proprio come... Adesso non so ma mi sembra che non siamo a quel livello" (Stephanie, under 21 anni). La maggiore accettazione sociale e liceità della trasgressione da parte degli uomini viene evidenziata nei discorsi di altre intervistate, le cui riflessioni introducono un accostamento importante con la sfera dei comportamenti sessuali che distingue in modo altrettanto netto le esperienze di uomini e donne: "C. ah, per la gente... quando si pensa a un drogato si pensa a un uomo, non si pensa a una donna, c'è ancora il pregiudizio che le donne non fanno certe cose... non so perché, non ci ho mai pensato [.. .]; quelli che pensano a un drogato pensano a un ragazzo, da che mondo è mondo gli uomini possono permettersi di trasgredire [...]. Secondo me... anche il fatto di andare in un Seri o in comunità... il motivo del ragazzo è diverso, si... per me è stato l'amore ma per un ragazzo è difficile questo, per me l'amore è fondamentale e ormai all'età che ho me lo sento proprio che è lui l'uomo della mia vita alla fine, la motivazione dell'amore è forte, ma un ragazzo non ce l'ha questo, l'amore sembra più una motivazione romantica, da femminucce, se un ragazzo viene e ti dice "voglio smettere per lei" lo vedi anche più debole, e quindi lui non lo ammetterà mai, capito? Cioè anche quello forse, l'uomo è forte, non può avere debolezze, eppure può scoparsi tutte quelle che vuole, o drogarsi anche che lo rende più duro..." (Celeste, 36-39 anni). 'J. un ragazzo ci tiene meno a sta cosa, magari alla famiglia un po' sì, ma la scuola... tanti a 15 anni l'hanno già abbandonata, lavorano... invece le ragazze sono quelle che studiano di più, che vanno bene a scuola, e che comunque ci tengono alla facciata... bè io... adesso mi vedi così, ma quando vado in università mi metto i pantaloni belli, borsettina, chignon... L. ci tieni alla facciata per? J. io lo so che sono una drogata, non è che lo devono sapere tutti... non è una cosa bella! Devi avere un minimo di conformismo... una volta mi piaceva sbanfare il fatto che ero una drogata, perché almeno gli altri mi guardavano un po' così, non mi si avvicinavano... adesso invece mi piace di più tenerlo nascosto, per me, chi sa sa e chi non sa è meglio che non lo sappia insomma... per questioni di decoro mio personale e questione anche che comunque se un carabiniere deve fermare una ragazza con la borsetta o vestita bene, oppure una con maglione largo, piercing e pantaloni così, chi ferma? Un po' di furbizia anche in questo... tacchi e gonnellina sono la salvezza [...]. Per le donne è diverso, a parte che si vede meno, poi è un po'

come la... come quando ti fai... cioè se io mi faccio 5 ragazzi sono una troia, se un uomo si fa 5 ragazze è un figo. Una ragazza che si fa di eroina è volgare, brutta; un ragazzo che si fa di eroina è diverso, è brutto ma comunque meno, è meno pesante agli occhi della gente, colpisce meno; una ragazzina piccola magari come me che si fuma l'eroina fa più effetto... capito? Completamente diverso. Poi le ragazze sono più sentimentali, sicuramente, più attente e quindi comunque cercano di coprirlo di più magari agli occhi della famiglia, agli occhi degli altri amici, mentre un ragazzo che si veste largo così e si fa vedere in un certo modo "pace", lo accettano di più. Una ragazza meno" (Jodie, under 21 anni). Alcune delle intervistate, in coerenza con quanto affermato dalla letteratura femminista, notano che sulla donna che fa uso di sostanze i giudizi sociali sono più aspri per l'accostamento di tale comportamento alla prostituzione e all'incapacità delle donne ad assolvere il ruolo di madre: `B. Ecco... poi il giudizio della gente... vero che te ne freghi, ma sicuramente verso una donna il giudizio... cioè se ti droghi sei una prostituta, questo me l'hanno anche detto, in un periodo andavano in giro anche a dire che lo facevo in albergo... perché in quel periodo avevo conosciuto una tipa che aveva un albergo, allora finivo di lavorare alle 3 e mezza e andavo lì da lei, e la aspettavo in una stanzettina fino a sera che poi andavano in giro insieme... e sentivo `ste voci, e dicevo "cavolo ma perché la gente deve parlare e dire balle" (Bridget, 3639 anni). "S.Il giudizio della gente è peggiore su di una donna, perché ricollegano direttamente la tossicodipendenza o l'alcolismo di una donna al prostituirsi, o comunque a non essere in grado di portare avanti dei bambini..." (Sherilyn, 31-35 anni). "J... .parlando con la gente... —le tossicodipendenti son quasi tutte prostitute" perché è il modo più facile per procurarsi soldi - è gente che non si farà mai una famiglia, appunto, mette al mondo dei figli e te li portano via perché tanto: quella li è una drogata". C'è quel pregiudizio che c'è verso anche gli uomini... però l'uomo è visto forse un po' più come spacciatore, come ladro, non come uno che mette al mondo figli... le donne mettono al mondo bambini, le donne vengono attaccate per quelle cose che possono fare solo le donne, allora se metti al mondo dei figli non sei una buona madre, a prescindere dal fatto che ti conoscono o meno e che ti hanno visto con il figlio, quello è il pensiero, no? [...]. Il mondo cambia ma la visione di maschio e femmina è difficile da cambiare... comunque la femmina è più protetta, certe cose le femmine non le fanno, e se le fanno vengono messe sotto pressione, "perché fumi, perché bevi?", c'è ancora la visione che il maschio può fare la sua balla e farsi le sue esperienze, mentre la ragazza no. Da una parte se è così è anche meglio perché le espone di meno a certe cose. Poi non sempre riesce, ma da una parte sicuramente dà i suoi frutti sul lungo tempo" (Joy, over 45 anni). "H. e poi figurati quando mi vedono entrare qui col passeggino... io ho visto che nella normalità puoi anche non percepire il pregiudizio da parte della gente e dire "no, secondo me è lo stesso che può colpire un uomo" diciamo, però effettivamente poi quando una donna si ritrova ad avere un figlio è giudicata molto più aspramente rispetto ad un uomo... poi non so chi abbia deciso che una ragazza tossica non può dare amore e tutto quello che ha bisogno, capito, che usi o non usi comunque...

L. forse perché c'è il pregiudizio che comunque un tossicodipendente... H. perde la testa, quello sì, che però non è sempre così..." (Hope, 22-25 anni). Nel complesso, nelle generazioni più adulte, soprattutto per coloro che hanno esperito la maternità, il riferimento alla compromissione delle relazioni interpersonali causato dalla tossicodipendenza è costante: l'identità di genere di una donna si fonda storicamente sulla relazione, sulla centralità dell'altro nella propria definizione di sé e sulla dedizione alla cura dei figli e della famiglia, mentre l'identità maschile si definisce sulla base della proiezione all'esterno del nucleo familiare, nella sfera pubblica e professionale. Sherilyn e Sibilla mettono in luce due aspetti di tale polarizzazione stereotipica: da un lato, l'incompatibilità dell'uso di sostanze con la relazione e la cura favorisce un isolamento maggiore per una donna rispetto a quello esperito dall'uomo; dall'altro lato, il conflitto tra la norma di genere che impone alla donna la centralità dell'altro rispetto al sé e l'uso di droga ha conseguenze molto pesanti sull'autostima e il senso di colpa, derivato dall'incapacità ad assolvere i propri compiti sociali in modo adeguato: "S.Io penso che le donne hanno più da perdere degli uomini se si drogano: famiglia, figli... e rischiano più degli uomini di restare sole; perché un uomo tossicodipendente trova sempre una donna che gli stia vicino, mentre per una donna è difficile che trovi un uomo che le sta vicino in momenti come quelli. Un uomo si stufa prima e va a cercare altrove quello che la compagna non le può dare, non è così per una donna. È una tendenza inconscia alle donne; non è che ci pensano razionalmente... è una specie di retaggio culturale o istinto di sopravvivenza. Io ho visto tante donne, tutte distrutte, abbandonate da genitori o partner, a cui erano stati tolti i figli, donne a cui non era rimasto proprio più niente..." (Sherilyn, 31-35 anni). "S.Per un uomo è chiaro... cioè fa figo per un uomo bere, o farsi, poi la gente non so, penso che un tossico è sempre un tossico, però da che mondo e mondo l'uomo è sempre stato anche giustificato nei comportamenti... e come agenti [parla del carcere, n.d.r.] dico, cioè non è che giudicavano "tu sei tossica, tu no", cioè noi stesse ci diamo la colpa, noi donne però... non so, non è che più di tanto, voglio dire... penso che sia anche normale, avendo anche figli... cioè continuando a cadere nello stesso sbaglio, tutte le volte quello, e tutte le volte pentirsi, cioè... è logico che ogni volta che entri in questo giro ti fai sempre più sensi di colpa, è sempre peggio, sono sempre fallimenti della vita insomma [...] sensi di colpa verso... verso tutti! Cioè per me no, per me dicevo - è lo stesso" e però verso tutte le persone che ti circondano, perché è a loro che gli fai del male, che le uccidi ogni volta e perciò sì... bruttissimi proprio... e che adesso, l'ultima volta che mi hanno arrestato che usavo ancora, qualche anno fa, si parlava... cioè parlavano di adottare i bambini perché comunque non uscivo più e mi ritrovo che sono scappata dalla comunità... e avevo iniziato ad usare anche li, mi sono impestata, mi hanno arrestata e in carcere con il metadone non è che stavo male fisicamente e però ho fatto 10 mesi a pensare "chi me lo ha fatto fare perché son tornata" e ogni volta è così insomma, comunque ogni volta che ci ricadi, almeno io, dico "che cavolo mi è saltato in mente" e ancora adesso mi sogno ste robe, di essere in astinenza, di sentirmi in colpa nei confronti dei bambini... perché ho giurato che la prossima volta che tocco l'eroina o faccio qualche cazzata i bambini non li disturbo neanche più, sono stufi a dir la verità; e ogni tanto mi sogno proprio

di esser in astinenza e di ritrovarmi come se fosse realtà e dire "madonna avevo giurato che non toccavo più niente, adesso non voglio più vedere i bambini perché non voglio disturbarli, sei proprio una stronza"; ogni volta è quella insomma e ti torturi in un modo bruttissimo" (Sibilla, 40-45 anni). 3. Maternità e tossicodipendenza: un ossimoro Il legame tra la condizione di dipendenza e gli eventi biografici che riguardano la gravidanza e la maternità ha occupato - ed occupa tuttora - un posto importante nella riflessione scientifica, in modo particolare sotto l'aspetto medico, psico-sociale e giuridico, dunque in relazione ai rischi del consumo di droghe sul feto e le possibili soluzioni terapeutiche, alle problematiche psicologiche emergenti dalla relazione madre-bambino e concementi l'accertamento delle capacità genitoriali, alle soluzioni attivabili dai servizi socio-sanitari per salvaguardare tale relazione fermo restando il diritto primario del bambino a vivere in un contesto familiare adeguato. La riflessione sociologica circa le rappresentazioni e i vissuti della maternità delle donne tossicodipendenti è, al contrario, relativamente scarsa, nonostante esista una certa consapevolezza che diventare madre è un evento trasformativo che può fornire nuovi significati di vita [Sevon 2007] ridefinendo il rapporto della donna con la propria femminilità e con un nuovo status sociale [Boyd 1999], come vi è coscienza che lo stigma associato alla condizione di madre tossicodipendente può influire negativamente sulle possibilità di recupero e sulla stessa relazione genitoriale. «Come se ci fosse resistenza», sostiene Collodi «ad associare condizioni come la maternità e la tossicodipendenza, condizioni agli antipodi per l'immaginario collettivo: la prima fortemente evocativa di vita e di piena realizzazione della donna, la seconda come immagine distruttiva o quanto meno fallimentare e di arresto del processo di sviluppo e quindi comunque tale da suscitare un contrasto stridente con la maternità. Il ruolo fondamentale in senso di protezione e competenza che la società attribuisce all'essere madre è difficilmente applicabile alla tossicodipendente, nell'entourage della quale, così come tra gli addetti ai lavori, vige la certezza che essa, per diventare madre, debba smettere di drogarsi e che nel frattempo qualcuno di più competente e più sano (in genere una nonna) si occupi del bambino. La maternità della tossicodipendente sembra quindi trattata come un legame che non c'è mentre una donna che partorisce il suo bambino è già sua madre» [Aa. Vv. 2001]. In linea generale, si è avuto modo di evidenziare che la riflessione sociologica femminista ha contribuito solo recentemente a mostrare il «lato oscuro della maternità» [Camussi, Rizzi 2008], mettendo in luce che i vissuti delle donne che diventano madri non corrispondono pienamente agli stereotipi socialmente trasmessi, mitizzati ed idealizzati, ma si caratterizzano di sentimenti ambivalenti spesso taciuti proprio per conformità a tali stereotipi. Come evidenziano recenti contributi [Sevon 2007; Klee 2002; Ganon 1999; Wright 2002], le narrazioni sociali dominanti sulla maternità sono incentrate su valutazioni ideali di carattere morale circa i comportamenti che

una buona madre deve assumere in relazione al figlio e alla vita familiare; al contempo, tali valutazioni ideali hanno un carattere coercitivo e di obbligazione morale che modella l'esperienza concreta delle donne nella vita quotidiana e influenza i modi con cui esse interpretano le loro esperienze e la loro identità. La condizione di dipendenza certamente amplifica tali ambivalenze a causa dell'interiorizzazione della norma implicita sul conflitto tra maternità e droga, e conseguentemente del pregiudizio di incapacità genitoriale dominante nella società: da un punto di vista ideale, infatti, la dipendenza da droghe viene interpretata come un comportamento fortemente in contraddizione con queste narrazioni sociali dominanti, in quanto le droghe determinano nel corso della gravidanza un danno al feto e successivamente alla sua nascita possono seriamente compromettere le attività di accudimento dell'infante e il suo benessere psico-fisico. Come hanno mostrato diverse indagini condotte a livello internazionale, e come viene confermato in questa sede, le tossicodipendenti tendono a percepirsi differenti rispetto agli uomini soprattutto in relazione al ruolo di madre, reale o potenziale [Boyd 1999] e le loro narrazioni sulla gravidanza e la maternità sono costruite intorno alle stesse rappresentazioni e aspettative sociali presenti nella cultura dominante circa il comportamento che si addice ad una buona madre [Boyd 1999; Banwell e Bammer 2006; Baker e Carson 1999; Hardesty e Black 1999; Murphy e Rosenbaum 1999; Rosenbaum 1981; Taylor 1993]. Viene, inoltre, evidenziato come questi valori siano costitutivi della stessa cultura dei tossicodipendenti che, se generalmente non attivano forme di marginalizzazione di altri tossicodipendenti sulla base della comune condizione di esclusione dalla società convenzionale e dello stile di vita implicato dall'eroina, stigmatizzano e giudicano negativamente le donne che con i loro comportamenti provocano un danno, anche solo potenziale, al proprio figlio [Murphy e Rosenbaum 1999; Rosenbaum 1981; Taylor 1993]. Si leggano, a titolo d'esempio, queste riflessioni di Eveleen e Morgana: "L. e quando ti facevi ti sentivi una tossica? E. sì perché usavo la sostanza, perché ero in un certo contesto ma non mi riconoscevo con certe persone assolutamente, tanto che non so... come le ragazze giù da basso che c'eran primati... io non mi sento come loro! L'altro giorno era lì che parlava al tizio che gli dava il metadone e gli fa "ah, sai Angelo, mi è quasi scappata la voglia di andare ai rave": "ma cazzo! Hai appena fatto un figlio! Ti credo!!!"... nel senso, "minimo che ti passa la voglia di andare alle feste!". O un'altra ragazza che è in giro per strada, ha il pancione e mi dice "ah ma mi faccio poco adesso", "Madonna ma sei incinta!", cioè, cacchio, stai mettendo al mondo una vita che tra l'altro possono anche portarti via! A volte penso davvero che non si rendono tanto conto di quello che le circonda, non lo so... Bo, io so di essere in questa situazione, so che mettere al mondo un figlio adesso non sarebbe la cosa migliore, non sono in grado di stare dietro a me figurati a un figlio, e loro invece sono contente, cioè è una cosa che non capisco [...]. Ma dai! Anche fargli scalare il metadone a un bimbo appena nato, cioè... non so cosa, cosa... non so da cosa dipende. Poi puoi vederla normale, sicuramente la vedi normale quando

la fai sempre, quindi ti entra nella normalità... vabbè che ci sono persone che non si scandalizzano, ragazze che ho conosciuto che non si scandalizzano per quelle che si prostituiscono, neanche io mi scandalizzo però è una cosa che non ritengo giusta. Eh, non so la mente, la testolina... a volte è strana" (Eveleen, 22-25 anni). "M. se fai un figlio ti disintossichi e ti levi tutto perché sennò quella creatura nasce già tossica... siamo sempre li, i problemi poi ce li hanno tutti e si soffre già per quelli, e perché devo farlo nascere già tossico e farlo star male ancora prima di nascere? Cioè, se un giorno dovessi veramente volere un figlio, prima mi disintossico, e devono passare almeno 10 mesi senza che uso ne la roba ne il Subutex [la terapia sostitutiva, n.d.r.], dopo vedo come sto e dopo ci penso. Ci penso tanto ad avere dei figli, perché comunque l'età ce l'ho... e ci pensi, vedo anche le mie coetanee che si sposano, fanno figli, si costruiscono famiglie. Però non lo farei mai ora; alla fine è la persona a cui vorrai più bene in vita tua e non esiste che gli fai un male del genere, [...] non è che mi metto a fare un figlio così smetto di usare sostanze, perché se poi non ci riesci o stai male... poi dicono già che dai primi attimi del concepimento questo qualcosa sente, e quindi se non ce la fai tu la paga lui; non è il massimo farlo nascere in crisi di astinenza: ma che persona sei, che vita gli dai? Deve ancora nascere e già lo fai stare così? Abortisci piuttosto, se sai che non vuoi smettere, sei egoista sennò [...]. Dai, un figlio... cioè non vado io che sono sua madre, e che comunque deve soffrire perché la vita è una sofferenza, a darti io il male più grande che si può provare... Dico, se l'eroina è la tua vita mi va benissimo, è una tua scelta, però che colpa ne ha un bambino?" (Morgana, 26-30 anni). Nel proseguo, gravidanza e maternità verranno analizzate facendo riferimento esclusivo alle rappresentazioni e all'esperienza delle madri intervistate emergenti dalle loro ricostruzioni, al fine di evidenziare il significato che tali eventi hanno assunto nella loro biografia e nel cambiamento della loro identità sociale, anche in virtù dello stigma subito. Esula dalle finalità di questo lavoro l'espressione di ogni tipo di giudizio di tali esperienze in relazione alla grande tematica delle competenze genitoriali, che evidentemente necessita di strumenti valutativi differenti misurati sul lungo periodo. Le esperienze dei professionisti socio-sanitari intervistati, come d'altro canto l'ampia letteratura di settore disponibile (per la quale si rimanda a CNCA [2005]), mostrano infatti che l'ambivalenza dei vissuti che la maternità porta con sé, spesso influenzati dall'intermittenza nel rapporto con la sostanza, può avere delle ripercussioni negative sulla qualità della relazione costruita con il figlio e con gli stessi organi istituzionali di cura e controllo'. 3.1 L 'attesa di un figlio Taylor [1993] evidenzia che per una tossicodipendente la gravidanza costituisce un modo per affermare il suo ruolo di donna e di sentirsi importante per la sopravvivenza di qualcuno. Nella realtà, le interviste effettuate in questa sede mostrano che nella grande maggioranza dei casi la gravidanza non è certo ricercata per questa ragione, nonostante possa comunque costituire una forte motivazione al cambiamento del proprio stile di vita e alla dismissione dell'uso: poche delle gravidanze di queste donne sono state pianificate con simili propositi, mentre più spesso il

concepimento è avvenuto in modo imprevisto a causa della scarsa attenzione alla contraccezione indotta dall'amenorrea o dismenorrea concomitanti all'uso di eroina, allo stile di vita irregolare ad esso associato c/o ai disturbi alimentari. Se non in rari casi, dunque, la scoperta della gravidanza ha un impatto molto duro sulla tossicodipendente, soprattutto se si verifica nei momenti in cui il coinvolgimento con la sostanza è più accentuato, tant'è che molte decidono di abortire e altre donne, che scoprono di essere incinta successivamente al primo trimestre utile per interrompere la gravidanza, faticano per molto tempo ad accettare di dover diventare madri8 [Boyd 1999; Murphy e Rosenbaum 1999; Rosenbaum 1981; Sterk 1999; Taylor 1993]. Di conseguenza, la scelta di portare a termine o meno la gravidanza comporta una profonda ridefinizione di sé in rapporto all'espressione della propria femminilità e al raggiungimento dei propri obiettivi: la costruzione di una famiglia, che per molte acquisisce il significato di rientro nella "normalità", resta un desiderio comune a tutte le intervistate nonostante la dipendenza e lo stile di vita adottato, per cui decidere di interrompere la gravidanza rimette in discussione tale scopo contribuendo ad alimentare il sentimento di inadeguatezza sociale. La letteratura internazionale, inoltre, evidenzia che l'incidenza di aborti spontanei e di interruzioni volontarie di gravidanza tra le tossicodipendenti è molto più elevata rispetto alla popolazione generale [Nelson et al. 1995]9. Le donne che hanno riferito di tale esperienza nel nostro campione sono 14 (26%), ma è presumibile che vi siano altri casi che non sono emersi in quanto l'intervista era orientata alla ricostruzione di altri aspetti della carriera tossicomanica10, come è altrettanto presumibile che coloro che hanno scelto di parlarne spontaneamente investano questa esperienza di significati particolari. Nella maggioranza dei casi, l'aborto si è verificato in condizioni di tossicodipendenza attiva, mentre in un solo caso (Brenda) ha preceduto l'accesso al mondo delle droghe. Il leit motiv delle ricostruzioni delle intervistate circa l'esperienza dell'aborto è costituito dalla consapevolezza di non poter garantire un futuro al proprio figlio e di non essere in grado di adempiere al proprio ruolo di madre, argomenti che si possono considerare speculari alle rappresentazioni sociali dominanti di ciò che una buona madre dovrebbe assicurare al proprio figlio. Il ruolo di madre implica, innanzitutto, la capacità di garantire al proprio figlio condizioni di vita adeguate da un punto di vista materiale, affettivo ed educativo, dunque da un lato la presenza di un padre e di un nucleo familiare solido, dall'altro lato condizioni economiche e lavorative adeguate. In generale, il concepimento è avvenuto in tutti i casi all'interno di relazioni sentimentali stabili', ma tutte le donne sottolineano l'assenza di un sostegno emotivo e concreto da parte del partner ed alcune anche la mancanza del sostegno da parte della propria famiglia d'origine. Questi elementi contribuiscono a definire una certa ambiguità nelle narrazioni delle intervistate, che se da un lato sostengono la decisione di interrompere la gravidanza con motivazioni razionali che fanno da specchio agli ideali sociali di ciò che una buona madre

dovrebbe fare, dall'altro lato evidenziano il senso di colpa e il rimpianto per non aver potuto vivere l'esperienza della maternità; come rilevano Murphy e Rosenbaum [1999] la perdita prematura di un figlio rappresenta la perdita di una persona amata e di un 'astrazione, costituita dall'immagine ideale di sé di madre competente: `B. Io fortunatamente non ho avuto figli perché non ho mai trovato la persona giusta, adesso mi sentirei un po' in grado di farmi la famiglia; prima di tutto dovrei togliere il metadone perché prima che nasce lo devi togliere sennò sta male. Non vorrei che soffrisse quello che ho sofferto io e basta, cioè come son stata male io, avere un'educazione più... una volta ho abortito, mi dispiace molto però l'ho dovuto fare, avevo 19 anni, era proprio lontano mille miglia da me il pensiero di un figlio, ero troppo presa dal mio mondo. Adesso se dovessi averlo non abortirei perché mi sento più matura, dopo tutte le esperienze che ho fatto... poi in quel momento non avevo l'appoggio di nessuno perché tutti erano concentrati sul lavoro, e anche se avessi voluto... perché ci avevo pensato ma sai, poi subito non mi son resa conto, perché uno mi dice una cosa, l'altro un'altra, ero messa così quindi... però ogni tanto ci penso comunque, come sarebbe stato se l'avessi tenuto" (Bonnie, 40-45 anni). La consapevolezza di essere ancora troppo coinvolta dall'eroina e che tale stile di vita sia inadeguato alla crescita di un bambino viene evidenziata in modo particolare dal racconto di Taylor: "T. una ragazza ha difficoltà tutti i giorni, quello di vivere la giornata; quando stavo in strada e quando mi hanno arrestata pensavo sempre alla vita migliore che potevo fare, la voglia di cambiare; però dall'altra parte quella era la mia vita ormai, cioè io non mi vedevo in una... non so, a studiare o all'università... io mi vedevo per strada, mi vedevo così... Il mio desiderio è quello di sposarmi e di avere figlio, e questo ce l'ho sempre avuto... e quando ne ho avuto la possibilità... L. nel senso che aspettavi un bambino? T. sì, era poco prima che mi arrestassero, a febbraio ho abortito, in agosto avrei dovuto partorire... era successo tutto velocemente... ho abortito perché il padre non c'era, i miei genitori volevano che lo tenessi, ma il padre e i suoi genitori assolutamente no, la loro famiglia proprio non voleva... e mi è successo due volte, anni prima son stata un anno e mezzo a Bologna, quindi sempre a rave, feste... ed eravamo sempre per strada, anche se avevamo l'appartamento ci stavamo ben poco, la droga sempre in mezzo... li avevo preso questa decisione perché sapevo che non avrei mai potuto dare un futuro al figlio, anche se avevo l'appoggio dei miei... devo dire la verità, in quel periodo continuavo ad abusare di eroina, e più mi facevo più stavo bene e più dovevo andarmela a prendere... e continuavo a pensare al figlio, era una lotta continua con i miei e i suoi genitori e anche con lui, eravamo arrivati a metterci le mani addosso perché io comunque lo volevo il figlio anche se sapevo che non potevo dargli buone cose, mentre lui mi ha sempre buttato in faccia la realtà, che io ero tossica e lui pure... quindi alla fine ho preso sta decisione, fino all'ultimo volevo alzarmi dal lettino e dire "no": ero sola, lui mi ha accompagnato e poi è uscito e se n'è andato in giro, ed è tornato indietro dopo un po'... poi ci son dietro tante cose perché quando sono andata ad abortire son andata con sostanze in corpo perché non avevo mai smesso di usare, e senza dire

niente ai medici, per cui mi han dovuto fare 2 anestesie, poi non mi svegliavo più, ho perso un casino di sangue, è stata una tortura, son stata malissimo. Però a distanza di anni continuo a pensarci, e piango ancora tutti i giorni, però devo andare avanti e so di aver preso la scelta giusta; io so che se mi fosse capitato adesso, senza sostanze, io l'avrei tenuto quel figlio, ma con la sostanza sarebbe stata una violenza" (Taylor, 22-25 anni). Il racconto di Kimberlee mette in luce altri aspetti su cui riflettere. Il primo riguarda la possibilità che il concepimento avvenga all'interno di relazioni asimmetriche che si caratterizzano per la presenza di una certa costrizione al rapporto sessuale e l'assenza di sostegno emotivo del partner; in tutta la sua storia, infatti, Kimberlee sottolinea che l'importanza che la relazione con un uomo aveva nella sua vita e l'idea che aveva dei rapporti sentimentali l'hanno portata spesso a trascurare se stessa e a cedere alle volontà dei suoi partner, contraendo tra l'altro l'epatite C e l'HIV. Il secondo aspetto, direttamente collegato alla presenza di tali patologie, si riferisce alle discriminazioni esperite durante gli aborti, che contribuiscono ad alimentare il senso di isolamento relazionale e solitudine: "K. io ho avuto due aborti con il mio ragazzo, in pratica quello sieropositivo, e niente... è stato un caso in pratica che è successo, non usavamo niente, e vabbè io so che la prima volta quando mi sono accorta proprio ero disperata perché non sapevo insomma... la situazione era brutta, non era proprio il caso... io ancora non sapevo di essere sieropositiva, perché il test l'ho fatto dopo tanto tempo, avevo proprio paura a farlo... per cui io esattamente non so neanche l'anno giusto proprio non lo saprei; e perché forse prendevo le cose sempre un po' così, "tanto io non mi ammalo", ho sempre usato il coito interrotto, poi guardavamo più o meno quando avevo le mestruazioni che quelle ce le avevo sempre sballate quando ce le avevo, e vabbè... la prima volta è stato bruttissimo proprio perché... vabbè abbiam deciso subito che abortivo, e mi ricordo che io ero distrutta, distrutta proprio, e fra l'altro invece lui l'ha presa molto così; lui lavorava, quando ne aveva voglia e lo decideva lui si doveva per forza fare... ed ero andata da sola, una cosa bruttissima, li da sola anche per come ti trattano, poi io comunque avevo una epatite C per cui ti trattano malissimo; mi ricordo ad esempio che ti mettono ad esempio un ovulo per dilatare un utero, no? E dopo che hanno visto che avevo l'epatite C - che comunque lo sapevano - mi han fatto aspettare per ultima, però tipo questo ovulo me l'avevano messo parecchio tempo prima, e io so che avevo un male... perché non han rispettato i tempi, io mi sentivo malissimo, e poi ti trattano un po' così insomma L. ti trattano così perché sei tossicodipendente? K. bè sì, certo che lo sapevano perché avevo anche l'epatite, io non mi ricordo se gliel'avevo detto o no, ma insomma... in quei tempi comunque io non facevo uso, erano i primi tempi che eravamo assieme, per cui non prendevo ne metadone ne niente, però forse poi anche perché ero li da sola, non c'era neanche nessuno che mi veniva a prendere... E così, ho cercato un po' di non pensarci troppo perché insomma... però so che son stata proprio male male, ancora adesso ogni tanto mi dico "avrebbe 5 anni, avrebbe 10 anni, avrebbe...", cioè mi faccio ancora un po' di storie... La seconda volta che è successo, uguale, e anche li era con il mio ragazzo quello con cui ero scappata di comunità, e li non ho voluto sentire niente, ho detto "bene vado ad abortire", mi sono chiusa totalmente, non volevo star male, e sono riuscita... almeno per

quel periodo li insomma. So che ero proprio di ghiaccio, ho detto "va bene, è successo ancora, non deve più succedere, basta, deve essere così", sono stata chiaramente meno male, ovvio. E anche li comunque non è che mi son sentita molto appoggiata insomma, addirittura mi ricordo una frase che lui mi aveva detto perché io il giorno dopo non volevo andare a lavorare e sto stronzo mi fa (c'era una nostra amica che aveva avuto la stessa storia) "ah la tipa il giorno dopo era già a lavorare"... io questo tipo qui l'ho rivisto circa 1 mese fa, e lui è venuto li tutto smieloso, io mi son girata male perché avevo ancora la rabbia di tutti gli anni passati e gli ho detto "va, mi hai rovinato la vita" e lui "eh ma ce la siamo rovinata in due" e io "no, non ti voglio più vedere" perché voleva andassimo a bere un caffè, ma io proprio avevo una rabbia, e se lo vedo ancora adesso... dovrei avercela con me perché cavolo non dovevo star li a subire ste cose qua, però..." (Kimberlee, 36-39 anni). In due casi, infine, l'interruzione della gravidanza è avvenuta spontaneamente a causa delle violenze fisiche inflitte dai propri partner, portando a reazioni diverse in quanto Margareth interpreta tale evento come l'evitamento al bambino delle stesse sofferenze da lei subite, mentre Harper lo vive come un ulteriore motivo di colpevolizzazione per non essere stata in grado di affrancarsi da una relazione violenta e di non aver potuto vivere quell'esperienza di maternità che desiderava, pur non avendola cercata: "M. sui 20 anni la prima volta che mi ha menato... quando stavo per fare i 20 mi ricordo appunto che una volta mi ha picchiato, son caduta per le scale e all'ospedale mi son resa conto di aver fatto un aborto spontaneo. Mi son serviti due anni per capire che era quasi meglio che sia successo questo onestamente. Onestamente, un padre tossico che mena le mani e poi magari mette le mani anche sul figlio... non so se l'avrei retta questa cosa, mi sarei sentita in colpa a vita se avessi messo al mondo una creatura per fargli subire quello che subivo io. Ma ai tempi io avevo la mortadella sugli occhi, vedevo solo quello che mi diceva di vedere lui..." (Margareth, 22-25 anni). "H. E poi insomma siamo andati avanti ma io ero stufa, poi ero rimasta incinta, lui mi aveva fatto fare un viaggio tutto il giorno a Milano, in macchina, per prendersi la cocaina e io ero incinta, sono arrivata a casa e perdevo sangue e gli ho detto "vedi sei un bastardo a farmi fare ste cose, adesso mi porti in ospedale" e invece lui "no è colpa tua, sei stata te a prenderti la pastiglia per abortire", tutte cose così capito? [...] Fatto sta che lui non mi ha portato in ospedale e io ho preso la macchina e ci sono andata da sola, mi hanno ricoverata perché il bambino c'era; mi hanno tenuto giù tutto il giorno dopo, lui viene giù, mi hanno fatto l'ecografia e il cuoricino non batteva più, l'avevo perso... E da li gli ho detto "sei un bastardo", abbiamo litigato un'altra volta ma poi ci siamo riappacificati subito [...] L. in quel periodo in cui hai saputo di essere incinta hai continuato a usare droga? H. no, io l'ho saputo che ero di 4 settimane, l'ho saputo quando perdevo sangue che ero incinta, non lo sapevo prima, per cui noi continuavamo a fumare e a drogarci [...] E io ci sono rimasta male, malissimo, perché comunque io l'avrei tenuto, l'ho sempre detto e l'avrei sempre fatto, però vedere la sua reazione così cattiva a dirmi "sei stata tu a prenderti qualcosa perché non lo volevi", io stavo male perché non era assolutamente vero, io lo volevo insomma, se c'era me lo tenevo... e invece non è stato così..." (Harper, 2630 anni).

La decisione di portare avanti la gravidanza presenta conflittualità simili, nella tensione tra la maternità ideale e le condizioni oggettive in cui si verifica. Nel complesso, le intervistate hanno sostenuto in maggioranza una sola gravidanza (10 donne), mentre 7 ne hanno avute 2 ed una sola delle intervistate ne ha avute 4. I percorsi che le intervistate hanno seguito rispetto alla dismissione dell'uso di eroina sono tra loro molto differenziati, anche in relazione al momento del ciclo di vita nel quale è avvenuto il concepimento e alla durata della dipendenza: per alcune ha significato l'interruzione dell'uso (seppure a volte intermittente) con il sostegno farmacologico presso il Sert, per altre la terapia sostitutiva non ha evitato alcune occasionali ricadute nell'uso prima del parto, mentre due di loro hanno proseguito con l'uso di eroina fino al momento del parto. Di quest'ultimo gruppo di donne si è già anticipato l'esempio di Phoebe che solo al momento del parto riconosce a se stessa e ai medici il suo problema con l'eroina per evitare al figlio i problemi di salute derivati dall'astinenza; la storia seguente di Peggie è simile in merito alla manifesta difficoltà di pensarsi già madre prima della nascita [Taylor 1993] e a procrastinare ogni decisione a modificare il proprio stile di vita, data anche una situazione molto complessa che la sottoponeva a fonti di stress che riusciva a placare solo con la sostanza. Un'ulteriore similitudine tra le due storie, paradossale se si vuole, è che in entrambe queste situazioni di apparente indifferenza verso la gravidanza in corso, il momento del parto ha significato l'affrancamento definitivo dall'uso di droghe, anche grazie alle forme di sostegno attivate dai servizi e alla solidità delle relazioni intrattenute con tutti gli operatori coinvolti; al contrario, in tutte le altre storie in cui vi è stata una sospensione o limitazione dell'uso di eroina, nel breve periodo successivo alla nascita si sono sempre presentate delle recidive nell'uso: 'T.... siccome non riuscivo a capire bene il ciclo perché era da anni che non lo avevo, non ho dato peso alla cosa, dopo 3 mesi ho provato a fare il test e [...]. Poi mi sono presentata all'ospedale per prendere l'appuntamento per l'aborto e lì mi hanno detto che ero fuori termine, di 3-4 mesi e mi han detto che loro non l'avrebbero fatto, non lo facevano per questo motivo... Sono rimasta tutta la gravidanza che non ci pensavo al problema che comunque facevo uso, poi vivevo in questa casa dove c'erano i genitori del mio compagno, c'era il papà che continuava a... quando non c'era il figlio ad entrare in camera ed è sempre stato insistente e il mio compagno non lo sapeva neanche, ecco [...]: ero andata avanti tutta la gravidanza così tra padre, uso, mi prostituivo fino a qualche giorno prima... Non lo volevo e quindi non mi importava niente L. e però doveva nascere, no? P. fumavo più di prima, comunque bevevo, facevo uso, e siccome non avevo più vene perché a forza di far uso non ci son più... mi facevo sulla pancia, nel seno, dappertutto proprio non... penso sia stato il periodo più brutto nonostante... Poi è nato X. e durante la preparazione al parto avevo sempre la mia assistente sociale che mi seguiva, che era proprio un'assistente sociale dell'ospedale dove proprio le avevo parlato del bimbo e invece che aiutarmi mi ha demolito psicologicamente perché... è stata proprio cattiva perché continuava a chiedermi cosa volevo fare: "vuoi tenerlo, vuoi lasciarlo qui in ospedale e quindi non possiamo fartelo

vedere, cosa diciamo al padre", insomma tutte queste cose. Per fortuna che poi c'era un'infermiera e una dottoressa che mi hanno sempre sostenuto che durante i mesi cercavano di aiutarmi, nel limite L. loro sapevano che avevi problemi con la droga? P. sì, ne ho parlato mano a mano che si avvicinava il momento del parto, e ho detto che se non ero sicura di volerlo neanche vedere, però loro di norma lo devono sapere prima, soltanto se lo tengo lo vedo altrimenti no. Arrivato il momento non sapevo ancora cosa fare e c'era questa dottoressa che mi ha parlato in un modo un po' umano: "devi vedere te cosa ti senti di fare". Inizialmente ho detto lo lascio qua, non lo voglio e poi durante il parto, mi hanno fatto il parto cesareo, ho detto alla dottoressa: "no, dai, lo tengo, dai, va bene così". E quando è nato... mi è venuto un po' da vomitare insomma, la tensione... Da lì, l'ho tenuto, va beh, però da lì poi gli assistenti sociali, essendo che poi è andato in astinenza, X. è rimasto 1 mese e mezzo in ospedale a scalare morfina, sono subentrati poi assistenti sociali, il tribunale e via dicendo e quindi... adesso le cose vanno un po' meglio e quindi non ho più tutti questi controlli, però esame del capello, tribunale, assistenti sociali miei del mio compagno, di X. e colloqui a casa con il dottore psicologo, tutto un casino. Alla fine mi son trovata un cerchio troppo... ero troppo controllata e son riuscita a stare lontana dalle sostanze ed è da quando è nato che non faccio più uso L. secondo te è stato solo per il controllo che hai avuto? P. avevo paura di perdere il bimbo, poi un bambino l'ho sempre desiderato [...], poi quando l'ho avuto e ho sentito che era mio e che non c'erano più i problemi di una volta non so cos'è che mi ha fatto scattare però in automatico mi son tolta dalle sostanze; poi tutto l'insieme... il fatto di essere controllata, che poi non è un controllo, io non l'ho messa sotto una prospettiva brutta nel senso che mi aiutava nel bene, non da dire "se sbagli te lo togliamo", ho avuto i dottori comunque vicini han cercato di tenermi su di morale e di aiutarmi. Ce n'erano tante di persone che mi hanno aiutato, tutto l'insieme, l'ospedale, il Seri, l'appartamento dove stavamo, perché poi siamo nel frattempo andati via di casa, e ci ha ospitato una associazione famiglie tossicodipendenti, anche loro mi hanno aiutata, la mia famiglia... Tante persone, e ce l'ho fatta, e poi adesso è un anno che ho tolto il metadone anche, il valium lo sto ancora prendendo, ma le altre cose non mi importano più, non mi fanno né caldo né freddo, non è che [...]" (Peggie, 31-35 anni). Nelle storie delle donne che nel decidere di portare a termine la gravidanza hanno cercato di rimanere astinenti, appoggiandosi ai servizi per un sostegno farmacologico che eliminasse il problema delle astinenze, l'aborto è comunque stata una opzione contemplata e non attuata per diverse ragioni: la scoperta tardiva dello stato di gravidanza, la difficoltà di affrontare emotivamente questa radicale esperienza, ma anche l'idea che la maternità ed un figlio potessero costituire l'unica motivazione valida ad interrompere definitivamente con l'uso di eroina e lo stile di vita ad esso connesso, come evidenzia Hope in questo brano: "H. ti dico... io sapevo che per me la maternità era l'unico modo per smettere di usare eroina perché quando hai un figlio cerchi un po' la normalità... in realtà ero già venuta al servizio la prima volta proprio perché avevo bisogno di normalità, ma è stata la scoperta di essere incinta

che mi ha fatto decidere definitivamente. Diciamo che non è che l'ho proprio cercato, non avevo il ciclo da più di 5 mesi, e quando però ho scoperto di essere incinta sono stata felicissima, e anche il mio compagno lo è stato, ci ha dato lo stimolo necessario per mettere la testa a posto" (Hope, 22-25 anni). In realtà, come si avrà modo di vedere, l'astinenza definitiva dall'uso di eroina non è così immediata per una serie di ragioni legate allo stile di vita e al rapporto con l'eroina: la terapia sostitutiva con farmaci agonisti oppiacei è, infatti, efficace nel ridurre i sintomi dell'astinenza fisica, ma non concede certo il senso di benessere che viene ricercato nell'eroina. Quest'ultimo aspetto è spesso fonte di tensioni e ansia nel periodo della gravidanza poiché ogni eventuale ricaduta nell'uso di eroina può compromettere la salute del bambino e viene vissuto come un fallimento di sé come madre, come fonte di biasimo e di disprezzo sociale e come una possibile ragione della perdita di custodia del figlio o di un maggiore controllo da parte delle istituzioni [Banwell e Bammer 2006; Baker e Carson 1999; Klee et al. 2002; Hardesty e Black 1999; Boyd 1999; Murphy e Rosenbaum 1999; Rosenbaum 1981; Taylor 1993]. Nei casi che si presentano di seguito, questi elementi si compongono in modo più o meno evidente. Il primo racconto è di Judith, per la quale la scoperta della gravidanza ha costituito il motivo di ricorso al Sert, che altrimenti non si sarebbe verificato nel breve periodo, e le ha permesso di trovare la forza per astenersi dall'uso di eroina con una adeguata terapia farmacologica; si noti che nella sua ricostruzione Judith afferma, con una punta di orgoglio, di essere stata elogiata dai medici per la sua capacità, raramente osservata in altri casi, di far nascere un bambino sano 12, dunque di essere stata una buona madre: "J.Ecco, l'ho conosciuto, son rimasta incinta, dopo ogni tanto mi son pentita perché io avrei voluto smettere tutto ma è impossibile senza venire qui. Era impossibile, poi avevo paura su cosa poteva succedere se smettevo che ero incinta. Infatti sarebbe stata una cosa sbagliatissima perché anche qui mi hanno detto che quando sei incinta se vuoi prendere metadone e poi scalarlo devi farlo nei mesi in mezzo, non i primi e neanche gli ultimi perché... praticamente nei primi mesi rischi che l'utero, essendo un muscolo, si contrae e si può staccare il feto, e negli ultimi si contrae e fa soffocare il bambino perché c'è poco spazio. Tu ste cose ovviamente non le sai, e avevo paura per quello che poteva succedere. E allora son venuta qua, ne ho parlato, è andato tutto bene, ho scalato il metadone, ho tolto il metadone, è nato il bambino a posto... e i medici mi han anche detto che in tutti questi anni era la prima volta che veniva una ragazza con sii problemi di tossicodipendenza e che riusciva a far nascere il bambino senza crisi, senza niente. Però vengono in automatico gli assistenti sociali e tutto l'ambaradan... son stata bene per i primi 8 mesi che c'era il bambino... dopo non è che ho ricominciato, però ogni tanto, ogni tanto faccio la scappatella... poi lui lavora, io son sempre a casa da sola, quando potevo magari o una lite, qualcosa, facevo la scappatella e andavo. E per quello che è durata, diciamo, il periodo della gravidanza e i primi 8 mesi che son riuscita a stare senza niente... stavo benissimo, stavo davvero bene, cioè ti svegliavi la mattina proprio fresca, con la voglia di fare le cose [...]. Cioè ho avuto una forza quando ero incinta [...] è stata una cosa davvero fortissima... perché, da un giorno all'altro, come anche

diceva lei13, davvero ho visto il test anche io, che l'ho fatto qua con le infermiere, da quel giorno proprio son cambiata tantissimo, perché io fino al giorno prima ero nella cacca com pletamente... era un bel periodo proprio di quelli tosti... per cui non è che dici piano piano sono andata a scalare, ho diminuito... No, da un giorno all'altro basta! E poi anche il metadone... piano piano ho scalato il metadone, non sono stata male, mi hanno ricoverato 3 giorni per niente per controllarmi ma io invece stavo benissimo... non riesco a capire cosa è stato che mi ha dato questa forza, cioè" [...] (Judith, 22-25 anni). Valerle, più adulta, investe la gravidanza e la maternità di ulteriori significati, strettamente legati all'espressione della propria femminilità nell'ultima fase del ciclo biologico di vita in cui questa realizzazione può avvenire: "L. a un certo punto tu hai detto "mi sentivo fallita come donna", ma in che termini? V. dicono che una donna che ha avuto questa esperienza, intorno ai 35 anni se nella tua vita non hai combinato nulla di nuovo poi ti senti fallita, nel senso che dici "ma come?" Quando hai 20 anni giochi con ste cose, un po' forse anche nei 30, ma ai 35 ti vedi avvicinare ai 40 e ti vedi la vita che ti sta scappando, ti rendi molto più conto delle cose. Allora o li decidi di diventare tossico, cioè fai questa scelta, se non l'hai fatta prima, oppure vai in crisi, perché vai in crisi veramente e dici che così non puoi più continuare. E in quel momento non ci pensavo alla maternità, questa è venuta dopo; intorno ai 36 anni ho avuto questo desiderio forte dentro di me di maternità, credo una cosa naturale che tante donne vivono, e che magari hanno l'occasione e la fortuna di concretizzare. Io non avevo quella fortuna perché i rapporti sai come sono, non avevo sicurezza per il futuro e quindi sai, cerchi di stare anche molto attenta a queste cose. Per cui un po' il senso di fallimento, un po' questa crisi mia nonostante proseguissi con questo farmi, intorno ai 37 anni incontro questa persona che era messa peggio di me, non si faceva però beveva... però sei in un momento della tua vita in cui sei confusa, stanca, veramente non capisci nulla, vedi uno che non si fa e dici "senti, ho voglia di compagnia, ho voglia di ridere e andare al bar a far due chiacchere e bere qualcosa purchè non sia tossico". E così è stato. Nella mia esperienza di tossicodipendenza mi è successo 3 volte di non avere più il ciclo, anche per tanto tempo, anche per un anno; in quel periodo era un anno che non avevo le mestruazioni io, la volta prima 8 mesi... per cui gli ho detto "va sereno' ; si vede che mi sono rilassata, non so cos'è successo, fatto sta che dopo un mese e mezzo di frequentazione di questa persona sono rimasta incinta. Il problema è stato che lui non era pronto per questa cosa, poverino, per lui era un passare qualche momento insieme; poi c'era il fatto che lui abitava in un posto di montagna bellissimo, e io lo vedevo un po' come un sogno questo, un riprendere in mano... solo che lui l'arrivo di questa gravidanza l'ha spaventato e ha mollato il gioco; nel senso, ha voluto questo bambino, l'ha voluto riconoscere, porta il suo cognome, ma lui è comunque rimasto a vivere in casa con i suoi. Per me è stata una cosa che fin dal primo momento che ho saputo di essere incinta l'ho accettata subito, e ho pensato che ci doveva essere un motivo per cui era successa. Anche perché prima di incontrare questo tizio io volevo veramente farla finita, non ci stavo più dentro, era troppo grande la sofferenza che mi portavo dentro per tutta una serie di cose; e lui è stato un angelo che è arrivato e mi ha cambiato la vita..." (Valerie, 40-45 anni). Sherilyn, al contrario, nel racconto delle sue 2 gravidanze evidenzia le difficoltà legate non

tanto all'uso di eroina e alla necessità di rimanere astinente, quanto al suo rifiuto della maternità: se, nel corso di tutta l'intervista, questa donna afferma che i suoi figli costituiscono ora la sua ragione di vita e un forte deterrente al ritorno allo stile di vita precedente, dall'altro lato sottolinea questo lento processo che la sta portando a non percepirsi più come un "demone" come la morale comune vorrebbe per le donne che non desiderano la maternità: -L. _per il secondo figlio era stata un po' più dura, non saprei neanche dire il perché... non l'avevo cercato, in realtà neanche il primo ma questo proprio non lo volevo, me ne bastava uno. Già non volevo averne in assoluto, avevo appena ripreso in mano la mia vita, avevo appena ripreso a lavorare e non volevo un altro bimbo che mi avrebbe messo ulteriore ansia... e quindi quando è nato si è visto insomma che avevo fatto uso anche di eroina. Oltretutto era stato un cesareo, io avevo già un bimbo a casa quindi era più difficile per me... dovevo anche stare a casa con lui [...]. Il periodo della gravidanza non è per niente facile, stai proprio male, anche se il figlio l'hai cercato e desiderato e a maggior ragione se invece non lo volevi... io sono stata malissimo, ora ci sto lavorando con lo psicologo e riesco quindi a dirlo anche a te, io proprio non ne volevo sapere dei bambini, è stato quasi più difficile che smettere di farmi; il fatto di parlarne con lui adesso mi serve a non sentirmi un demone, insomma, perché sto capendo che sono sentimenti normali che tante donne provano ma non dicono perché la morale comune condanna una madre che dice queste cose..." (Sherilyn, 31-35 anni). Non da ultimo, la gravidanza può essere investita di un significato di riscatto di sé per un aborto precedente o per una maternità negata dalle istituzioni [Rosenbaum 1981]; questo secondo caso viene evidenziato dalle parole di Kate che, in seguito all'affidamento del primo figlio, ha accettato la seconda gravidanza per avere una possibilità di dimostrare le sue capacità materne (soprattutto ai servizi sociali e giudiziari): "L. invece, nel rapporto con maternità e i tuoi figli: tu li cercati o sono capitati? K. bè il primo sì, il primo l'ho cercato, quando l'ho voluto l'ho fatto perché appunto volevo che fossimo realizzati sia io che il mio compagno, però in realtà quando poi l'ho avuto eran già passati 13 anni di relazione... quindi appunto il primo l'ho voluto, ne avevo una vaga idea; il secondo non l'ho voluto fortemente all'inizio, ma l'ho accettato bene dopo... il primo è nato per amore, diciamo, il secondo per amore di un altro diciamo [...] Poi vedi... Ecco, adesso non sono più così giovane... per il secondo figlio è andata un po' così: appunto io ho * anni, se aspetto ancora un po' a fare un figlio io non posso chiedere... come madre non posso chiedere a mio figlio di occupare i suoi 20-30 anni a star dietro a me che non sto bene, perché è innegabile che la vecchiaia ti porti a non stare bene, e quindi è già un limite questo qua; ma poi era anche un senso di dire "adesso mi riprendo, vi faccio vedere io se non sono una buona madre", cioè ha tutta una serie di componenti questo figlio..." (Kate, 40-45 anni). 3.2 Essere madre Come osserva De Fazio, la gravidanza e la maternità nelle donne tossicodipendenti rappresentano «momenti che da un lato possono favorire processi di riflessione o progetti alternativi (anche se questi sono il più delle volte momentanei), ma dall'altro vengono vissuti

dalla donna come fonte di frustrazione: sia perché spesso nel corso dei ricoveri esse si sentono discriminate, sia perché in questi momenti non percepiscono un adeguato sostegno da parte sia dell'entourage familiare che dei sanitari stessi» [2002: 72]. Nella realtà, molti dei vissuti riferiti dalle madri intervistate in questa sede possono essere considerati comuni all'esperienza della maternità tout cour. Camussi [2009] e Camussi e Rizzi [2008] notano, infatti, che i discorsi di ciò che le donne non dicono su tale esperienza per non contravvenire alle rappresentazioni culturali e agli ideali dominanti, sono centrati sul tema della "fatica", che può essere articolata nelle seguenti componenti: la fatica quotidiana di accudimento, fisica e psicologica; la fatica dovuta all'assenza di condivisione e di supporto sociale; la fatica psicologica di sentirsi inadeguate ed incapaci di adempiere al meglio il proprio ruolo; la fatica delle continue scelte, che devono mettere in primo piano il bene del bambino e per le quali spesso ci si sente impreparate. Le autrici notano che tali vissuti sono da ricondurre alle richieste sociali di adeguarsi a modelli di madri che nella realtà vengono considerati irraggiungibili poiché non prevedono né esitazioni né incapacità, nell'idea mitica che la maternità sia un ruolo ascritto ed innato e che i -comportamenti di cura siano istintivi. L'esperienza tossicomanica introduce, però, un importante elemento di differenziazione dall'esperienza comune ad ogni madre, poiché a livello sociale queste fatiche vengono interpretate più come una conseguenza dell'uso di droga che come intrinsecamente derivate dal conflitto tra la dimensione esperienziale della maternità e la dimensione ideale. Il pregiudizio di incompatibilità della condizione di dipendenza con il ruolo di madre, sotteso alle possibili reazioni dei servizi socio-sanitari deputati al controllo del benessere del bambino, complicano l'esperienza della maternità poiché aggiungono un'ulteriore fonte di conflitto che può implicare ricadute nell'uso analgesico di eroina [Taylor 1993], come è dopotutto accaduto a gran parte delle donne intervistate. Questi conflitti sono ben descritti da queste parole di Sherilyn: -S... .e i figli sono comunque stati un deterrente, perché, porca miseria, dipendono da te... sbagli ne ho fatti ancora anche dopo la loro nascita però sbagli dove sono riuscita a riprendermi subito, insomma... e spesso lo sogno ancora di tornare a farmi [...]. E sono proprio felice che sia solo un sogno, perché sai, dopo anni di astinenza, ora i bimbi capiscono già, non voglio rovinare tutto questo percorso per l'ennesimo errore, capito? [...] Anche se di fatto non c'è rischio, la paura c'è sempre, che per qualsiasi cavolata magari ti levino i bambini... Non è che non li voglio più tra i piedi perché voglio tornare a fare cavolate, ma perché per una madre è ansiogeno vivere con qualcuno che ha il potere di portarteli via in qualsiasi momento, magari anche solo per una segnalazione di qualcuno che ti sente gridare più del dovuto, e poi appurano che non è vero quello che hanno segnalato e però intanto te li portano via. E siccome soprattutto il primo bimbo ha con me un rapporto che per certi versi è morboso, per lui essere portato via anche solo per una notte sarebbe un trauma mostruoso. Anche con mia madre non riesce a stare, quindi quello che soffrirebbe sarebbe enorme; adesso io voglio solo metterli al riparo da questa cosa, che dalla mamma nessuno li porta via, e poi..." (Sherilyn, 31-35 anni).

Il tema della fatica, con tutte le componenti che si sono sopra individuate, viene enfatizzato in modo differente dalle intervistate secondo le conseguenze che il controllo istituzionale ha avuto sulla loro possibilità di esprimersi o meno nel ruolo materno, ovvero la convivenza con il proprio figlio, l'affidamento volontario del proprio figlio ad una famiglia e l'affido/adozione del bambino su disposizione del Tribunale dei Minori. Si precisa che queste categorie non sono da ritenersi mutualmente esclusive, in quanto le donne con più figli possono aver sperimentato percorsi differenti. 3.2.1 "Un legame che c'è" Il primo gruppo riunisce 10 donne che, al momento dell'intervista, vivono con almeno uno dei propri figli, sottoponendosi al monitoraggio dei diversi servizi socio-sanitari per l'accertamento dell'idoneità genitoriale e dell'esistenza di un contesto socio-familiare adeguato allo sviluppo psicofisico del bambino. Nella maggior parte dei casi, si tratta di donne che hanno avuto, soprattutto nei primi anni di vita del bambino, una qualche forma di sostegno da parte del partner c/o della famiglia di origine, almeno dal punto di vista materiale (economico e di aiuto quotidiano); inoltre, riprendendo la classificazione di Jones [1984] riportata più sopra, questo gruppo si costituisce principalmente di donne che hanno mantenuto nell'invisibilità la propria dipendenza fino al momento della gravidanza, conciliando l'uso di sostanze con le attività sociali e di vita ordinarie. Le loro ricostruzioni si concentrano in modo più esplicito sugli effetti delle ricadute nell'uso successive alla nascita del figlio e sul timore delle conseguenze che queste recidive possono avere non tanto sulla relazione con il bambino, che a loro parere non viene compromessa per le loro capacità di adempiere pienamente al ruolo di madre, quanto sui provvedimenti che i servizi sociali possono attivare nei loro confronti. Un primo esempio viene da queste parole di Judith, che pur sentendosi soddisfatta e realizzata nel suo ruolo principale di madre e di compagna, si concede occasionalmente di usare eroina. Nella sua rappresentazione, l'uso sporadico di eroina non interferisce con questo ruolo, anzi lo facilita perché il senso di benessere che consegue si ripercuote positivamente sul figlio; il significato che attribuisce a questi episodi sporadici di ritorno alla sostanza ha una forte valenza relazionale, in quanto da un lato la riportano ad avere rapporti sociali significativi nei quali essere se stessa, dall'altro lato le permettono di colmare il senso di solitudine derivato dall'essere unicamente madre e compagna, per la mancanza di un lavoro e di amicizie con cui trascorrere il tempo libero a disposizione: -J. _anche adesso prendo il metadone però ho periodi che non faccio niente e sto malissimo, vado in depressione e sto male, e periodi in cui uso saltuariamente - perché non lo faccio proprio tutti i giorni - in cui sto meglio [...]. Per me fare uso di eroina non è solo bon, andare a prendere la roba... non mi faccio più, eh, la tiro solamente, non mi son più fatta da quando... però è parlare con qualcuno che mi conosce perché magari la maggior parte delle persone che mi conoscono al di fuori comunque non sei la persona vera, devi sempre nascondere la

maggior parte della tua vita, non è che dici le cose come stanno... per cui ti nascondi sempre, non sei tu realmente... invece le persone che mi conoscono lì mi conoscono per come sono io, e allora faccio difficoltà a crearmi amicizie al di fuori perché devo nascondere come sono, e alla fine ricado sempre li, no? Anche per fare due chiacchere, per passarmi due tre ore tranquilla, contenta, tomo a casa più contenta, ed è questo che continuo così, non riesco a buttarmi tutto alle spalle... perché io principalmente faccio la mamma, faccio la donna di casa, la moglie, sto cercando un lavoro ma principalmente sono quello, e però solo quello. Non ho lavoro, non ho mie amicizie e non ho nient'altro e mi porta a tornare li. Però faccio la mamma bene, mio figlio sta bene, gli sto dietro... non pensavo di riuscire a farcela... e a lui non faccio pesare i miei problemi, ma neanche al mio ragazzo, infatti lui fa finta di niente perché non vede le cose... ogni tanto ho periodi un po' più giù e non mi muovo di casa, cerco di non far uso [...] L. ecco però sai che una cosa di questo tipo ti mette a rischio... J. eh sì, me lo possono tirare via, me lo tirano via! Però, siccome cerco di fare le cose... adesso sì, ho un po' paura, però finora ho cercato di far le cose una volta ogni tanto, sto attenta, non mi lascio andare, non è che lo faccio tutti i giorni perché so che quello potrebbe farmi rischiare di più... allora cerco di farlo con la testa, anche non vado in giro proprio con [...]. Ecco anche farlo poche volte, io dico non è che lo faccio tutti i giorni... è un rischio certo... se andassi peggio forse potrebbero fare qualcosa..." (Judith, 22-25 anni). Nella storia di Harper, al contrario, le relazioni sociali con persone del giro hanno certo influito nel fornire l'occasione per riprendere l'uso di eroina dopo la nascita del figlio, ma la ricaduta viene motivata dall'esigenza di sedare uno stato di malessere derivato dall'essere l'unica responsabile della cura e dell'educazione del bambino, data la rottura della relazione con il padre biologico, entrato in comunità ed assente sul piano affettivo quanto materiale. Tale ricaduta, facilitata dalla perdita di un nuovo lavoro che aveva da poco intrapreso, motiva anche la sua decisione di rivolgersi al Sert per intraprendere un trattamento strutturato che le permetta di non tornare più ad uno stile di vita che non sente appartenere alla propria identità: "L. [...] quindi in quella ricaduta dopo la nascita del bambino tu hai cercato proprio le sensazioni che ti dava la sostanza, non le amicizie, o le relazioni... H. per me li è stato anche girare con persone che usano, e li per forza prima o poi usi anche te, insomma se non hai veramente la decisione di dire "basta" sono sicura che comunque ci ricaschi, è così... io adesso ho veramente la voglia di dire "basta son stufa"; perché devo ogni volta andare a fumare, prendermi la droga, son nata senza droga e riesco a vivere, devo riuscire senza droga", e quello devo fare adesso, però non ho mai affrontato questo discorso, e adesso devo farlo [...]. Ma non ho chiarito cosa è stato veramente a farmi male, io ho passato una adolescenza non facile, da padre e genitori e familiari, anche se normalissima ma il rapporto non c'è stato, poi sta storia con * [il padre del bambino] mi ha sconvolto la vita, ho perso il lavoro, son sempre sola con il bambino, sempre delu sioni.. e quindi insomma non ho mai avuto il coraggio di prendere la situazione in mano e chiarire cosa è stato che mi ha fatto veramente cadere un'altra volta e perché... Io ho detto a X., che è il mio tutore, gli ho detto che io con l'eroina stavo bene, non avevo... io fumavo non per andare in giro a far casino perché io non andavo in giro, primo perché avevo un bambino e non potevo, e secondo

fumavo perché non avevo menate... era proprio che la fumavo per star tranquilla. E comunque lo sapevo che rischiavo [...]. Ci pensavo ma non era... nel senso che non la vedevo così pericolosa come situazione, non mi soffermavo su quello, perché per la testa avevo altro nel senso che ci pensavo però era che non pensavo a quello che mi poteva succedere in quel momento perché ero presa da altri pensieri e da altre... non è che pensavo "ma se mi fermano succede", questo ce l'avevo sempre in testa ma andavo comunque sempre lo stesso [...], facevo comunque sempre quello che mi andava di fare, non mi son mai fatta il problema fino a quando le voci in giro erano che io fumavo [...]" (Harper, 26-30 anni). L'uso di eroina come strategia di fronteggiamento dello stress correlato alle responsabilità di cura e mantenimento dei figli, che emerge in modo più o meno evidente dai racconti ora presentati, viene identificato in letteratura come una delle principali motivazioni che animano le recidive nei primi anni di vita del bambino [Boyd 1999; Hardesty e Black 1999; Klee et al. 2002; Murphy e Rosenbaum 1999]. Hardesty e Black [1999] notano, in particolare, che questa motivazione può costituire una sorta di strategia di sopravvivenza che permette ad una tossicodipendente di mantenere un'immagine di sé di buona madre intatta nonostante lo stigma associato a tale condizione. Nel racconto di Allison, che convive da anni con un partner extossicodipendente ed i suoi figli, questa motivazione viene enfatizzata in modo particolare nel suo collegamento al tema della doppia presenza femminile, nella faticosa conciliazione della vita familiare e domestica con la vita lavorativa. In tutto il suo racconto, Allison tiene a precisare che la presenza di un partner da un lato può limitare le difficoltà legate al puro sostentamento economico della famiglia, ma dall'altro lato costituisce una seria complicazione se, come nel suo caso, i compiti domestici e di educazione dei figli sono affidati esclusivamente alla donna che, oltre a ciò, lavora all'esterno del nucleo familiare. Il suo racconto sottolinea, inoltre, il tentativo costante di responsabilizzare il compagno ad essere più attento ai bisogni familiari e dei figli; questo elemento ricorre, con diversi accenti, anche nei racconti di altre donne che sentono su di sé anche il dovere di facilitare la relazione tra il loro figlio e suo padre che molto spesso è compromessa dal mantenimento del comportamento d'uso e dello stile di vita associato [Boyd 1999; Sterk 1999]. Le ricadute nell'uso di eroina, che Allison ha sempre avuto la capacità di gestire senza diventarne dipendente, sono motivate dall'esigenza di ritagliarsi un momento solo per sé, escludendo tutte queste fonti di tensione che si presentano nella quotidianità: 'A _ora il metadone voglio proprio togliermelo, anche se allo stesso tempo c'ho una paura perché questa pasticca qua non è come quella che prendevo prima e quindi non so come posso reagire... perché comunque io non ho nessuno che mi dà una mano, capito? Cioè, se io ho la febbre e mi prendo l'influenza, non è che c'è mia madre o qualcuno che viene e mi dà una mano con i bambini [.. .]; su un uomo non è che puoi contare per gestire la famiglia perché poverino lui lavora, e poi non importa se tu lavori 6 ore fuori e tutto il resto della giornata lavori con i bambini, per crescerli, educarli, portarli in giro: non sarà un lavoro che ti stanca, no? Chiaro poi che arrivi ad essere esausta, e quando non ce la fai più hai bisogno di staccare, anche con una camomilla, la sostanza diventa qualcosa con cui ti ritagli un momento tuo dove

non ci sono figli, uomini, lavoro, impegni [...]. Anche * [il secondo compagno] fino a prima di avere il bambino, capito, se stavo male lui veniva, mi aiutava, mi stava vicino; dopo che è nato il bambino è cambiato totalmente, è diventato egoista, non so neanche io... è diventato insopportabile quando è nato lui perché lui sapeva fare tutto e io invece niente... O sono iellata io... ma su due obiettivamente [...]. E poi ti senti dire "ma cosa vuoi? Il tuo non sarà mica un lavoro, che vai a pettinare le bambole" L. che lavoro fai? A. faccio mestieri, però falli tu per 4 ore di fila! Io esco già stanca, e poi vieni a casa, metti a posto, vai a prendere il bambino, torni a casa, finisci di mettere a posto, gli fai fare i compiti, lo porti fuori, prepari la cena... non è che hai un attimo che stacchi, eh! E calcola che lui per tanto tempo non lavorava, è rimasto a casa e non faceva niente di niente, e liti mangi il fegato eh... perché invece tu vai a lavorare, torni a casa e ti trovi ancora i piatti della colazione da fare, i letti da rifare, il pavimento da passare, la roba da lavare e stirare, e poi devi anche prendere e gestirti il bambino perché lui non lo fa [...]. E ti dico, poi non è che mi voglio giustificare con questo, però appunto per me diventa poi un modo per staccare da tutto questo... ti ho detto, alcune volte mi capitava di usarla tanto solo perché mi sembrava che fisicamente non reggevo, di non farcela, e fisicamente mi caricava, mi dava energia, mi faceva fare tante cose.... Io, per dire, mi facevo un paio di tiri e la notte non riuscivo a dormire e lucidavo tutta la casa. Allora quando sentivo che il fisico non mi reggeva, tante volte ripartivo ad usare per quello..." (Allison, 36-39 anni). 3.2.2 "Un legame che non c'è" Il secondo gruppo è costituito da 5 donne che, in qualche momento della carriera tossicomanica, si sono volontariamente separate dal proprio figlio per la consapevolezza di non potergli fornire un contesto stabile e una presenza adeguati. In questi casi, il tema più ricorrente nei racconti della maternità è quello del senso del colpa verso il proprio figlio c/o verso di sé, per non essere state presenti per il proprio figlio. Come, d'altro canto, sottolineano Hardesty e Black [1999], la volontarietà con la quale queste donne concedono in affidamento il proprio figlio non intacca in modo così forte la loro identità di madre per la consapevolezza di aver agito solo per il bene del bambino; al contrario, gli stereotipi sociali leggono un tale gesto come la manifestazione del disinteresse della madre e della sua preferenza per la sostanza [Taylor 1993]. Nell'esempio che si riporta, tratto dalla storia di Connie che fin da adolescente trova nella vita da strada la sua identità e non riesce a pensare a se stessa in modo diverso, la decisione di lasciare il figlio alla madre dopo 6 anni di convivenza con lui rappresenta un gesto di amore nei suoi confronti, dovuto alla consapevolezza che il suo stile di vita non poteva garantirgli la stabilità necessaria; allo stesso tempo, però, aggrava il suo ricorso all'alcol e alle droghe con le quali riusciva a non pensare all'abbandono cui era stata costretta e a mettere a tacere il suo senso di colpa: "C. sai, una volta che io ho mollato la casa, mio figlio l'aveva mia mamma, ho avuto un periodo in cui io proprio... non avevo neanche un momento di lucidità, perché tutto mi faceva

troppo male e quindi continuavo a cercare di sopprimere, non volevo sentire, e quindi ero arrivata al punto che mi facevo, andavo a tirar su soldi per farmi e mi rifacevo, ormai la roba non la sentivo neanche più, era un continuo ma solo per non sentire, non potevo permettermi di vivere momenti di lucidità perché avevo lasciato un figlio e [...]. Quando stai male per la roba hai poco da pensare, quando ti rendi conto che stai male è già tardi, cioè non è che prima di star male ti rendi conto e dici "aspetta prima di arrivarci", cioè è una roba che ti sembra di gestire no? [...] Cioè comunque io non volevo sentire quello che sentivo perché comunque io a mio figlio ho sempre voluto bene, ero consapevole del male che gli facevo, a lui e anche a mia mamma, quella povera donna, e consapevole della vita che facevo e quindi è un cerchio, non trovavo la via di uscita e continuavo a devastarmi, sempre più [...] L. e quindi nei primi anni che hai vissuto con tuo figlio hai comunque continuato a bucarti? C. sì, lui andava all'asilo, alla scuola materna, e io mi facevo, andavo in bagno e mi facevo; e mi ricordo che ogni tanto veniva lì perché voleva entrare, ma io gli dicevo "aspetta" perché dovevo un po' riprendermi, ecco vedi! Questa roba qua me l'hai tirata fuori tu, non me la ricordavo... che storie che si fanno... perché ti rendi conto che ferisci, che fai del male, ma ti sembra di non avere vie d'uscita, forse ce ne sono ma non sei in grado di vederle quando sei così L. e non pensavi che magari c'erano dei servizi come il Seri che potevano aiutarti? C. no, no, poi dopo invece quando mio figlio era con mia mamma, lei era disperata, io mi son resa un po' conto, ho avuto un attimo di lucidità e lì ho cominciato con le comunità, però anche lì... cioè dopo un po' devi per forza sentirlo il male che hai dentro, io non mi sentivo in grado di affrontarlo, forse non ero pronta io e forse non avevo neanche trovato le persone in grado di darmi una mano, c'è anche quel lato li" (Connie, 40-45 anni). Differente è la situazione delle donne comprese nel terzo gruppo (5 nel complesso, di età superiore ai 35 anni), alle quali il legame materno è stato negato da un decreto di affidamento c/o adozione del Tribunale e nelle quali la percezione del fallimento del proprio ruolo di madre è più evidente. Rispetto alla classificazione di Jones [1984] riportata in apertura, queste donne sono accomunate dall'estrema visibilità che la tossicodipendenza ha avuto precedentemente al concepimento, a causa della prostituzione e di periodi più o meno lunghi di detenzione; tali eventi hanno contribuito a determinare per loro un profondo isolamento sociale, principalmente per la mancanza di sostegno da parte del partner, a sua volta tossicodipendente, e della famiglia di origine, che ha attivato forme di esclusione della figlia a causa della sua tossicodipendenza. Queste donne descrivono la separazione dai propri figli come l'esperienza di vita peggiore che hanno dovuto sopportare e che ha motivato le diverse ricadute nell'uso di eroina successive a tale evento; data la precarietà delle condizioni di vita, la maternità costituiva per loro anche un modo per compensare l'isolamento sociale derivato dalle esperienze di vita precedenti [Hardesty e Black 1999; Sterk 1999; Taylor 1993], dunque la negazione della possibilità di adempiere al proprio ruolo di madre ha costituito per tutte un motivo di ritorno allo stile di vita precedente. D'altro canto, per questo gruppo di donne il percorso di trattamento, presso il Sert o la comunità terapeutica, ha acquisito nel tempo una valenza inscindibile dalla propria identità di madre,

poiché l'obiettivo dell'astinenza dalla sostanza e della re-integrazione sociale viene motivato soprattutto in relazione alla speranza di poter ricostruire in futuro un rapporto con i propri figli. Hardesty e Black [1999], a tal proposito, sostengono che il ricorso al trattamento costituisce una forma di riabilitazione non solo dalla droga, ma anche dal loro ruolo materno, nonostante le sue forme di espressione non possano che essere differenti per la lunga separazione dai propri figli: "J.Dopo che mi hanno portato via i bambini io mi son messa proprio a farmi, non 1 busta, io andavo a grammi, l'unica cosa che volevo era magari addormentarmi e non svegliarmi più. Dopo anni ho cominciato a pensare "magari li vedo", ho cominciato a tirarmi fuori e parlare con lo psicologo, con gente così, allora mi son data da fare e a pensare "forse se smetto il giorno che li rivedrò e mi trovano pulita riuscirò a recuperare un rapporto". Adesso sono 3 anni che non uso più sostanze, ho mollato anche il fumo, l'hashish, uso metadone [...] e prendo una pastiglia per la depressione, perché tirar fuori questo problema qua con lo psicologo all'inizio è stato abbastanza devastante [..]" (Joy, over 45 anni). "S.Vedi io non pretendo che vengano ad abitare subito da me... non credo che... però a iniziare ad uscire insieme sì, * è già venuto a vedere la casa... quelle cose sì, e magari più avanti anche a vivere, però non li tirerei, non li sradicherei dalla famiglia, quello no, perché comunque me li hanno cresciuti... È solo che mi piacerebbe che potessero anche contare su di me, se un giorno volessero dormire da me, mi piacerebbe poterlo fare... comunque mi auguro di ricostruire proprio tutto, quello sarebbe il mio intento, non di dire che sradico i bambini dalle famiglie, però di dire —c'è la porta aperta per voi", quello sì, cioè se vogliono venire qui devono poterlo fare..." (Sibilla, 40-45 anni). -D. _per mio figlio ho comunque messo via sempre tanti soldi, per dargli una sicurezza, per pagare gli studi... nella mia immaginazione era un modo per stargli vicino anche se non lo potevo essere fisicamente... cioè non è un modo per lavarsi la coscienza... è forse l'unico modo che posso avere perché in tanti anni più volte mi ha rifiutato, non mi ha mai accettato quelle poche volte che sono riuscita a vederlo, ma anche quando era più piccolo, non accettava rimproveri o sgridate da me, non mi riconosceva come figura come invece erano il papà e la nonna... e lui sa che può contare sempre su di me, che adesso sono a posto, mi son tirata fuori, chiaro che gli sbagli si pagano ma spero sempre che un giorno capisca... ovvio che il tempo che è passato è perso, magari però qualcosa si può recuperare" (Darla, over 45 anni). 4. Maternità, stigma e il difficile rapporto con i servizi Come si è visto finora, ad un livello ideale le rappresentazioni che le intervistate hanno della gravidanza e della maternità non si discostano in modo così significativo dalle rappresentazioni sociali dominanti, che con il costrutto di "buona madre" identificano il soddisfacimento dei bisogni affettivi, educativi e materiali del bambino, la presenza materna incondizionata e la protezione dai pericoli [Banwell e Bammer 2006; Baker e Carson 1999]. Anche la scelta di interrompere la gravidanza o di separarsi dal proprio figlio affidandolo ad un'altra famiglia è coerente con queste rappresentazioni nella misura in cui risponde alla consapevolezza di non

poter assolvere in modo adeguato alcuni di questi compiti. D'altro canto, l'interiorizzazione di queste norme di ruolo presuppone anche la coscienza che la cultura dominante giudica l'uso di droghe incompatibile con le attività di cura materne e le reazioni sociali conseguenti a tale giudizio costituiscono per le madri un'ulteriore "fatica psicologica" che si aggiunge alle difficoltà incontrate quotidianamente nel ruolo di madre. Sophie, nell'estratto che si presenta di seguito, sottolinea proprio questo aspetto: "L. hai stretto relazioni importanti in paese? S. sì con qualcuno, ma la gente mi guarda male, mi evita, mi... ma a me non me ne frega niente, cioè... poi non è che per forza si deve essere tutti amici, però se evitassero di essere maligni quando non ce n'è bisogno... considera, per esempio, che all'inizio avevo addirittura difficoltà a dire dove ho conosciuto lui [il suo nuovo compagno], perché io l'ho conosciuto in un bar e pensavo che questi andassero in giro a dire "ecco, non ha soldi ma va in giro per i bar", cioè capito? L.sì... S. io andavo al bar perché di fronte alla fermata della corriera che io prendevo per andare dal bambino di fronte c'è un bar... magari avevo da aspettare, o la proprietaria mi diceva "dai vieni per un caffè" e quindi entravo, e lì ho conosciuto X. che da allora si è offerto... che da un anno a questa parte mi porta lui dal bambino, che alla fine erano ogni mese 70 curo da pagare per muoversi, paga lui la benzina per dire... e però io facevo fatica a dire dove l'avevo conosciuto per non alimentare... L. perché dici che automaticamente diventavi la perdigiomo che rimorchiava al bar? S. esatto! Hai capito la questione... D'altro canto ero una tossica e pure prostituta! O sennò potevo dire che l'avevo conosciuto al bar ma ci dovevo aggiungere tutti i cazzi miei, e scusa non mi andava di rendere a... di andare in giro con i cartelli a dire "vado a trovare mio figlio che sta... perché... cosa farà"... Sono maligni... sai, spesso prendevo il bimbo e lo portavo in giro in macchina, il bambino si addormentava volentieri in macchina, era caldo, io prendevo la macchinina facevo il giro per la zona, giravo e venivo a casa... mi avevano visto spesso, e per loro stavo andando col bambino a Verona a prendermi la roba... L. cioè, perché ti facevi il giro in macchina per far addormentare il bimbo? S. hai capito?! Un giorno una mi dice "ah ti hanno visto a * con il popo che te stevi andando a Verona a prender la roba"... e per lei era così, mentre invece è vero che mi hanno visto a *, perché ci passavo per arrivare a casa, il bambino dormiva nella culla e io lo portavo su [...]; e lì, capito, chiaro che mi avrà visto, ma però hai capito la cattiveria?! [...]. Dove abitavo prima non era così, qui in Trentino c'è di mantenere un'immagine esterna sempre e comunque, tutto è da nascondere, si spettegola sugli altri ma non si dice dei propri..." (Sophie, 40-45 anni). Paradossalmente, però, i pregiudizi e le discriminazioni che incidono in modo più significativo nelle esperienze delle madri non sono da riferire tanto alla comunità o al paese in cui dimorano poiché, come si è visto precedentemente, per gran parte di esse la tossicodipendenza non ha assunto caratteristiche di pubblicità tali da determinare l'isolamento sociale, ma è da ricollegare alle relazioni intrattenute con i servizi sociali e sanitari.

In primo luogo, i racconti di alcune di queste donne riferiscono di esperienze di discriminazione, noncuranza dei propri bisogni e colpevolizzazione da parte dei sanitari delle strutture ospedaliere nel periodo della gravidanza ma soprattutto al momento del parto. In letteratura viene rilevato che la medicalizzazione della gravidanza ha portato le professioni sanitarie ad interpretarla esclusivamente come un atto biologico (e non anche sociale), dunque una madre che non si sottopone a tutti gli esami ed accertamenti necessari al benessere del bambino e che usa droghe compromettendo la sua salute viene giudicata negativamente e trattata di conseguenza [Boyd 1999], nonostante si sia avuto modo di vedere che questo comportamento della donna può derivare dalla scoperta tardiva della gravidanza in atto più che dalla sua indifferenza verso il feto. Se, da un lato, non si possiedono informazioni sufficienti a sostenere ed argomentare questa ipotesi, che richiederebbe indagini mirate sulle rappresentazioni che il personale sanitario ha delle madri tossicodipendenti, dall'altro lato alcune delle intervistate hanno riferito di aver percepito un simile atteggiamento di ostilità, che riconducono direttamente alla loro condizione di eroinomani (tra l'altro, consumatrici per via endovenosa). Nel primo brano che si presenta, Sherilyn riporta di una situazione che ha vissuto in seguito al parto del secondo figlio per evidenziare l'esistenza di un pregiudizio nei confronti delle madri che hanno avuto un trascorso di tossicodipendenza: -S. _in particolare c'era una dottoressa prevenuta - e che io già avevo fatto quell'errore all' 8° mese e però mi ero ripresa -, poi la stanchezza di stare 8 ore lì, di pensare alla casa e all'altro bambino, e tutto, e per lei la mia stanchezza era dovuta al fatto che mi facevo. Quindi mi voleva obbligare a stare lì sotto controllo, ma io non ci potevo stare di più... io ero stanca effettivamente, ero sulla culla del bimbo che dormiva e avevo chiuso gli occhi, e lei credeva che mi ero fatta; volevo dirle, "amenochè ti strafai, non è che con l'eroina ti metti a dormire proprio ovunque..." Vabbè [...]. E, io mi ricorderò sempre un medico dell'ospedale che mi aveva detto una frase tipo: "a voi tossici, a voi madri tossiche non vi salva nulla, neanche un figlio..." (Sherilyn, 31-35 anni). Nella ricostruzione del suo primo parto, Joy enfatizza le conseguenze che la sua condizione di madre tossicodipendente ha avuto sotto il profilo sanitario e psicologico. La scoperta tardiva del suo stato di gravidanza l'aveva portata a non sottoporsi agli accertamenti necessari a garantire la salute del bambino, comportamenti che, nella sua interpretazione, avevano portato i professionisti sanitari a trascurare le sue richieste di aiuto compromettendo le sue condizioni fisiche; Joy sottolinea, inoltre, il senso di solitudine esperito in tutto il lungo periodo di degenza in ospedale per la mancanza dei familiari e del partner, complicato da questa percezione di trascuratezza derivata dalla relazione con il personale ospedaliero: "J.... quindi quando ho partorito io ho fatto un mese di rianimazione perché ho avuto un problema di emorragia, all'ospedale ho trovato una dottoressa che mi ha lasciato perdere subito. Ho fatto un'emorragia e son rimasta un mese in rianimazione perché dovevo morire proprio... per cui mio figlio è rimasto in neonatologia il mese che sono stata in rianimazione, sono uscita e dopo una settimana sono rientrata con un'altra emorragia perché avevano

dimenticato un pezzo di placenta, nell'intubarmi mi hanno bucato un polmone sicché ho dovuto fare anche il drenaggio, diciamo che è stata una gravidanza incubo la mia perché veramente... ho detto "vabbè che sono tossicodipendente però, voglio dire, un po' d'accortezza!" L. ma secondo te è successa questa cosa perché eri tossicodipendente? J. secondo me sì, io ho trovato una dottoressa, non mi ricordo neanche il nome, lasciamo perdere anche se lo ricordassi, che quando sono entrata mi ha detto "lei non ha fatto neanche un'ecografia", le ho spiegato la storia che non avevo avuto nessun sintomo e mi sono accorta che ormai ero al 7° mese, ho prenotato un'ecografia e me l'han data ad agosto, e mio figlio è nato mesi prima... Cosa devo fare? Mi si son rotte le acque, sono arrivata e poi... "ti prego il metadone" le ho detto "non mi sono fatta, però le chiedo solo appena partorito mi dia il metadone" perché comunque all'epoca ero ancora... usavo ancora droga perché comunque mi son trovata... quando sei incinta... L. ma ti sei accorta di essere incinta quando si sono rotte le acque? J. no, lo sapevo però dico sono entrata in ospedale la mattina, si son rotte le acque, sapevo che non avevo un'ecografia, però insomma se loro non ti danno... adesso forse è più veloce ma all'epoca per un'ecografia ci voleva... Se lo sai al primo mese hai il tempo ma se uno si accorge al 7° mese e te la danno dopo 6 mesi, io non la posso fare di mio. Si parla... erano gli anni Novanta, non è che poi fosse stato chissà che anno... E lì era un po' arrabbiata quando ho partorito, non me l'ha neanche fatto vedere, non ha fatto né l'epidurale né niente, ho sofferto un sacco, invece di tagliarmi ha lasciato che il bambino spaccasse da solo ed infatti ho tutta la cicatrice obliqua. Dopo che ho partorito mi ha messo i punti ed è andata via, era l'una di pomeriggio, alle sette è subentrata una di quelle vecchie ostetriche di una volta, anziana, proprio di quelle classiche di una volta, mi ha visto che ero debole e mi ha detto "signora cosa fa qui?" e le ho detto "non sto bene, sono debole" e mi ha detto "ma a che ora ha partorito?", "all'una". Mi ha dato una controllata e ha visto che avevo il ventre gonfio e che l'utero stava salendo invece che scendere. Io le ho detto "guardi mi ha messo una benda, poi non so cosa ha fatto, non mi ha spiegato niente' ; poi io non ho visto più nessuno, ho suonato per dire che stavo male e chiedere se mi davano il metadone, non mi hanno dato niente, m'han lasciato lì. Mi aveva messo una benda come tampone però c'era un'emorragia in atto per cui il sangue coagulandosi spingeva in su l'utero per cui togliendo il bendaggio e schiacciando han cominciato a defluire tutti i coaguli e lì poi alla notte ho fatto due trasfusioni di sangue e plasma e poi ho fatto... il cuore ha ceduto perché fra l'astinenza e.... L. e poi il metadone te l'hanno dato? J. no, io l'avevo chiesto ma non me l'avevano dato, non si è visto niente e nessuno. Adesso è bello perché le sale parto sono al piano del reparto, una volta le sale parto erano sotto, erano staccate dal reparto Maternità, non vedevi mai nessuno, chiudevano la porta, io non avevo la forza di alzarmi, non avevo nessuno che veniva a trovarmi, il mio ragazzo era in giro a farsi o non lo so, è venuto a portarmi il cambio e poi mi ha detto, non lo so, "vengo stasera", sicché mi son trovata lì da sola, ho fatto questo collasso postparto, loro han detto, la dottoressa ho saputo dopo che aveva scritto che avevo usato cocaina che io non l'avevo mai usata proprio neanche quando stavo bene. Dopo la trasfusione han visto che comunque non mi riprendevo, mi han messo in rianimazione intubata e tutto e lì son subentrati i servizi. Perche il bambino...

siccome mi davano per spacciata, chiedevano se volevano prenderlo i miei fratelli, perché mia madre non lo voleva. Uno di loro si era offerto [...] però dovevano aspettare e vedere perché finché ero lì ero ancora viva... quindi non è che si poteva fare il tutto. Invece, a dispetto di quello che dicevano, ho tenuto duro finché sono riuscita a farmi togliere il respiratore che era una cosa impressionante con l'ossigeno, dopo un po' mi son ripresa e dopo tra una cosa e l'altra, c'era l'avanti indietro fra polmone... Sono andata a riprendere mio figlio e lì mi han messo sotto il controllo dei servizi sociali che avevo l'assistente *. Dopo un anno e mezzo circa è nato il secondo..." (Joy, over 45 anni). Un altro esempio viene dalla storia di Peggie che, partendo dal racconto del momento del parto, estende le sue sensazioni circa l'atteggiamento discriminante delle professioni sanitarie ad altre situazioni in cui si era trovata precedentemente, sottolineandone l'influenza negativa sul proprio stato di benessere già compromesso dalla vita che conduceva: -P. _come si va all'ospedale sanno che sei una tossicodipendente, mi è capitato più di una volta di essere trattata male, diciamo che è iniziato con l'assistente sociale dell'ospedale, non dico una parolaccia, che si è veramente comportata male, ma male... Per il fatto che eravamo tossicodipendenti, per il fatto che durante il parto mi dovevano mettere l'ago, e per cosa? Per il fatto che durante il parto se ci son problemi ti devono prelevare il sangue, quello che è, ti lasciano il... la... L. sì, ho capito cosa intendi, quella farfallina con l'ago da lasciare nella vena... P. ecco, ti lasciano quella e siccome non riuscivano a trovare la vena me l'hanno fatta nel collo e da lì ha detto "non sei una persona su cui contare", "non potrai mai essere una madre per via delle vene", anche, tutto un casino... non posso essere affidabile, insomma me ne ha dette di tutti i colori perché ero un po' presa e però invece che aiutarmi mi han tirato più giù... L. ma cosa c'entrano le vene secondo te? P. per il fatto che non mi trovavano le vene non sono una persona affidabile... perché ce l'hanno con le tossicodipendenti... Poi nell'arco di questi anni sono andata spesso in ospedale, un po' per l'overdose, un po' per i farmaci, non stavo bene, così... Una volta sono andata là e ho detto "ho disturbi alimentari che mi hanno portato alla tossicodipendenza" e... non mi ricordo, non stavo bene per qualche farmaco che avevo preso, non mi ricordo... So che mi hanno portato in psichiatria, mi han chiuso dentro, mi han lascito lì nella sedia a rotelle con tutti questi matti. Mi han lasciata lì ferma tutta la mattina e ho detto "ma mi vede qualcuno oppure??"... Invece poi mi han fatta andare L. ma senza visitarti? P. no, senza fare niente, mi han fatta andare e... Sì, ho disturbi alimentari ma non mi metti... Perché avevo anche problemi per l'ulcera, lo stomaco, non stavo bene perché continuavo a vomitare quindi... ero a terra, e invece che chiamarmi uno di una comunità, per ipotesi.... L. o anche inviarti al centro per i disturbi alimentari, o da uno psicologo... P. poi ero andata da sola una volta da uno psicologo per questi disturbi alimentari... quando ha saputo che avevo problemi di tossicodipendenza mi ha buttato lì una dieta e mi ha detto "segui la dieta e poi torna"... "Ma se non riesco a mandar giù neanche una pesca cosa vuoi che...!!!" E non ci sono più andata" (Peggie, 31-35 anni).

Il nodo critico è, tuttavia, rappresentato dal rapporto con i servizi sociali e giudiziari, ovvero con le figure istituzionali deputate al monitoraggio e al controllo del periodo successivo al parto e alla conseguente presa di decisioni circa il collocamento del bambino. Gli operatori del Sert sottolineano che nell'ambito della genitorialità si giocano differenze di genere importanti in grado di influenzare il percorso di vita e insieme terapeutico dell'utenza, in quanto le istituzioni esercitano un controllo spesso ossessivo sulle madri e sulle coppie di tossicodipendenti14, mentre i figli nati da padre tossicodipendente vengono spesso trascurati poiché convivono nella maggior parte dei casi con donne astinenti: "Dei figli nati da madre sana e padre tossicodipendente tu non verrai mai a sapere, perché la madre è sana. Noi abbiamo maschi utenti con figli, che hanno interventi economici dai servizi sociali che però non sanno della loro condizione di dipendenza, ma noi non possiamo dirlo perché abbiamo la tutela della privacy: in tante situazioni noi siamo qua a sperare che il figlio cresca in fretta e parli di quello che vede perché non possiamo dire niente ma vediamo la situazione degradata. Per la donna questo non è possibile perché è ipercontrollata. Verso la madre le aspettative sociali sono molto più alte. E qui la colpa è anche un po' dell'assistente sociale che crede che - culturalmente parlando - è deviata perché la madre deve esprimere la propria sofferenza mentre il padre può fare quello che vuole; oltre che per le procedure, la donna non sfugge perché partorisce. Se la donna del tossicodipendente partorisce, il controllo non c'è e questa donna certo non dice nulla, sempre per quel concetto tradizionalista di amore che glielo impedisce" (Stefania Calmasini). Il timore delle madri intervistate, finora evidenziato, di poter perdere la custodia del proprio figlio o venirne allontanata sia per la ricaduta nell'uso di droghe sia per qualsiasi "errore o dimenticanza" che sarebbe condonata ad una madre senza problemi di dipendenza, non è, dunque, privo di fonda tezza; come rilevano Malagoli Togliatti e Mazzoni, questa prassi sembra «evidenziare la scarsa fiducia (nella madre tossicodipendente) da parte degli operatori socioassistenziali e i magistrati e il loro considerare il bambino a rischio non perché il suo legame con la madre è difficile - cosa che comporterebbe provvedimenti per rinsaldarlo e renderlo più adeguato - ma perché praticamente egli viene ritenuto privo di madre» [1993: xi]». In tutto il percorso post-parto, dunque, il convincimento di essere una buona madre si scontra con la consapevolezza che il proprio passato di tossicodipendenza costituisce in sé e per sé un fattore che le identifica socialmente come cattive madri. Questa identità tipizzata restituita alla madre tossicodipendente può agire come una sorta di profezia che si autoadempie, inducendola dunque in comportamenti che confermano questa immagine stereotipica (come le recidive nell'uso e il ritorno allo stile di vita precedente); ma soprattutto, contribuisce a limitare la capacità di espressione di sé e del proprio vissuto poiché la donna, in virtù del suo status di tossicodipendente, sente di avere una credibilità ridotta nei confronti dei servizi e di non poter dimostrare concretamente le sue capacità genitoriali [Boyd 1999]. Questo processo è particolarmente evidente nei racconti delle donne cui è stato disposto

l'allontanamento del figlio. Un primo contributo viene da questo brano estratto dalla storia di Sophie, la cui scelta di affidare i primi figli all'ex-marito e alla madre e i cui trascorsi di prostituzione e detenzione hanno, a suo parere, condizionato le decisioni dei giudici circa le sorti dei suoi altri due figli. Sophie evidenzia che tutti i suoi sforzi di dimostrare di avere le potenzialità di essere una buona madre sono vanificati dal pregiudizio che quella separazione era motivata dal suo disinteresse, più che dalla volontà di garantire loro stabilità, e che un simile pregiudizio non viene invece applicato alle figure paterne: "S. se mi guardo indietro vedo a cosa mi ha portato la roba, non ho i miei figli, mi angoscia questa cosa, anche quando ho cercato di fare il loro bene me le sono solo sentita... non so loro se si credono che una mamma sia così contenta di non vedere i suoi bambini, davvero poi a me davvero non sembra di essere così cattiva [...]. Se mi chiedi poi perché ci sono ricaduta... eh... mi faceva stare bene, per quel poco non pensavo che mi avevano levato i miei figli, anche se poi mi son fatta il carcere, son finita sulla strada a fare delle cose di uno squallore schifoso, anche se... cioè non so come spiegarti perché tante volte poi ti capita di pensarci "devo smetterla, guarda come sono ridotta" e però non vedi nient'altro davanti a te, non hai prospettive, e l'unica cosa che vuoi fare è non pensare, proprio non pensare [...]. Per me ogni ricaduta che poi ho avuto, cioè non mi voglio giustificare, e però hanno inciso molto quello che mi hanno fatto con i bimbi [.. .]; pago il fatto che ho fatto una scelta mettendo in primo piano loro, e cioè la nonna che è mia mamma e suo papà che è il papà che alla fine ha un lavoro fisso e quindi potevano insieme dare stabilità ai miei figli [...]. La cosa che mi è stata rinfacciata è stata "hai abbandonato i tuoi figli", e questo gran parte della gente, capito? E mia mamma compresa... ma l'alternativa cos'era? Portarmeli in piazza? [...]. Io così ho solo voluto dare istruzione ai miei figli, dare stabilità, qualcuno che poteva mantenerli e dargli affetto, e cacchio... questo è il mio vissuto, ma è possibile che il giudice mi rinfacci questo tutte le volte e mi dica che non sono una buona madre? Solo perché ho fatto una scelta per il loro bene? L. e loro non te li fanno vedere? S. no no... ma neanche il giudice non è mai intervenuto... L. ho capito, allora loro prendono questo fatto che ti sei allontana e li hai lasciati con tua mamma e tuo marito come dimostrazione che tu non sei una buona madre S. sì, scusa, ma io sto facendo questa battaglia... scusami... sto facendo questa battaglia anche con il giudice perché io mi incazzo, cioè veramente io ho fatto una scelta per il loro bene, in quel momento era l'unica soluzione. Ma anche per * [il terzo bimbo]: allora, tempo fa ho richiesto di mettermi alla prova e di verificare le mie capacità genitoriali, che poi le avevo richieste ancora tempo prima e "non lo avevano capito", ed avevano relazionato che erano superiori alla media... io non so neanche chi possa ergersi onestamente a giudice di queste cose, proprio non lo so..." (Sophie, 40-45 anni). Il secondo contributo proviene, ancora una volta, dalla biografia di Joy che prosegue nel racconto delle sue vicissitudini sottolineando una serie di difficoltà di relazione con i servizi sociali che hanno poi decretato l'adozione definitiva dei suoi due figli e che lei riconduce esplicitamente alla sua condizione di madre tossicodipendente, prostituta, con esperienze di detenzione (nonché, malata di epatite C). In altri estratti presentati nei capitoli precedenti, Joy fa

più volte riferimento alle difficoltà oggettive incontrate lungo tutto l'arco di vita che la portavano a ritornare a quello stile di vita per la mancanza concreta di opportunità alternative, senz'altro favorite dall'assenza di un sostegno da parte della sua famiglia d'origine e da relazioni sentimentali con partner tossicodipendenti; queste difficoltà si ripresentano e vengono amplificate con la maternità e l'esigenza di provvedere da sola alla propria famiglia, in seguito ad interventi assistenziali puntiformi la cui inefficacia contribuisce a decretare l'allontanamento definitivo dai figli. Si riportano di seguito gli stralci più significativi del suo racconto, molto lungo e sofferto, per mettere in luce alcuni aspetti che altre madri intervistate hanno evidenziato e che la letteratura internazionale sottolinea come punti critici di un sistema assistenziale gender blind: "J. A un certo punto ho cambiato assistente sociale, i bambini intanto crescevano, mi han dato una casa popolare perché lui [il padre dei bambini] si è portato via tutti i soldi, tutto, sicché mi son trovata con uno sfratto in corso, sono andata dai vari assistenti e mi han detto che prima dovevo finire su una strada, era ottobre e ho risposto "ma con due bambini piccoli su una strada! Vuol dire che me li portate via! Non chiedo una reggia, mi basta solo una stanza con un bagno per poter crescere i miei figli", e non c'era niente. Alla fine sono andata dal sindaco [...], mi han dato una casa a *, al piano terra, umida ma era sempre una casa e stavo bene [...]. Ho chiesto all'assistenza di darmi una mano con i sussidi perché con due bambini... uno iniziava la 1° elementare, l'altro l'asilo, volevo comunque darmi una regolata al tutto, pagavo 300 curo d'affitto, c'era da vivere, mangiare e tutto quanto: "Ah, comunque non puoi farti mantenere dal comune, se tu cerchi un lavoro poi il comune è più facile che ti aiuta". Prima mi hanno offerto 2 lavori che non potevo accettare: allora, uno cominciava alle 6 del mattino e dovevo andare a * * e avevo i due bambini che ancora andavano all'asilo: "no" ho detto "ma dove li lascio io i bambini dalle 6 di mattina??" Un altro era un lavoro che lavoravo tutto il giorno e anche il sabato: "ragazzi", ho detto, "cerco un lavoro part-time da poter andare a prendermeli all'asilo, non è che..." Siccome ho rifiutato mi han detto che non avevo voglia di andare a lavorare e mi han sospeso anche i sussidi. Allora lì ho ricominciato ad andare a lavorare, perché avevo smesso un po' di mesi, son ritornata sulla strada perché ho detto "l'ho fatto per `fare la vita' e lo faccio anche per i miei figli", nel senso che se uno fa marchette per drogarsi ancor di più lo fa per i suoi figli [...]. Ho fatto i primi tre anni sotto controllo dei servizi sociali con un assistente e appena lui se n'è andato mi han detto che ero una madre irreprensibile, bravissima, attenta, qua e là e mi han ridato la patria potestà, quando ho cambiato assistente e ne è arrivata una che non aveva figli e tutto quanto, ha cominciato a contestarmi ogni cosa [...] e io ho cominciato a contestarle tutte le sue varie osservazioni e... mi ha mandato una carta per verificare al tribunale dei minori e ho trovato il giudice che quando mi ha chiesto "come vive?" io gli ho risposto "ma come vuole che viva? Io ho 2 figli da mantenere, a me servono soldi, il comune non mi aiuta, non ho nessuno che mi mantiene, lavorare ho provato a lavorare, però con 2 bambini piccoli non puoi lavorare 8 ore, puoi un part-time e nell'orario che non ci sono perché è inutile che io lavoro per pagare una babysitter! [...] Quando ha saputo che facevo marchette, che facevo ancora uso di stupefacenti, mi ha fatto il decreto di adozione immediata, irrevocabile, inappellabile [...] e lì mi sono proprio incazzata con il mondo [...]. Funziona così perché l'idea di tanti assistenti è che se tu sei

povera devi abituare i tuoi figli ad essere poveri e che se sei tossica non sei in grado di fare la mamma [...]. Purtroppo quando c'è di mezzo un problema di tossicodipendenza dei problemi che per altre persone non ci sarebbero lì vengono tirati in campo perché al 90% sbagli, qualsiasi cosa fai sai già che parti con l'idea sbagliata perché troverai qualcuno che dice "ah, sei drogata, cosa vuoi saperne?" Perché per loro un drogato non è in grado di pensare, di responsabilizzarsi, invece non è così per tutti, perché io sono così adesso ed ero così quando mi facevo. Non c'era una differenza, a parte i segni che avevo, però non è che avevo un comportamento diverso e non avevo dei valori o me ne fregavo e lasciavo lì i miei figli. E vero che ci sono quelli che lo fanno, però è anche vero che quelli che fanno comportamenti così magari i figli li hanno ancora, o perché c'è qualcuno che interviene, o hanno la mamma che li copre o che... Il fatto è avere una famiglia che io ce l'ho numerosa sulla carta però al momento del bisogno sono spariti e m'han detto "prendi la porta" [] Son stata 4 anni proprio che... ho fatto la guerra con tutti nel senso che non mi interessava più niente perché alla fine era l'unica cosa di bello che mi era rimasta, me l'hanno portata via per una cosa che io non vedevo che era così dannosa, nel senso che non è che facevo usare i miei figli, che li vendevo, che [...]. L'anno scorso che ho fatto l'interferone, sono andata in depressione, ho cominciato ad andare dallo psicologo e sono riuscita a cominciare a riuscire a parlarne perché prima come cominciavo a parlarne cominciavo a piangere, mi ricordavo anche la voce dei miei figli dal dolore che provavo, comunque è una cosa pesante da superare..." (Joy, over 45 anni). Gli spunti di riflessione che emergono da questa ricostruzione si ricollegano più o meno direttamente alla tematica della doppia presenza e della difficile conciliazione del ruolo di madre con l'attività lavorativa. Nel caso di Joy, come di altre madri intervistate, le proposte di lavoro ricevute, che andavano certamente nella direzione di fornirle una possibilità di reintegrazione sociale e di sussistenza autonoma, erano incompatibili con le necessità di accudimento dei figli e di lavoro domestico, per orari e distanza della sede di lavoro dalla propria dimora, a fronte di un isolamento sociale e familiare che non le permetteva di affidare a terzi i bambini ancora piccoli e della mancanza di proposte concrete di servizi per l'infanzia. Un'operatrice del Sert afferma: "Le donne subiscono di certo una maggiore discriminazione sul lavoro: loro già partono da una situazione lavorativa di svantaggio, e con la gravidanza e il figlio questo si aggrava. Se partoriscono e hanno un lavoro si presenta la difficoltà di mantenere questo lavoro perché i servizi sociali del territorio non sempre consentono alla donna da sola a fronteggiare insieme il lavoro e il rapporto con il figlio, di conciliare le due cose; questa è una grande sfida comunque. E devo dire che è un obiettivo del servizio sociale quello di riuscire a trovare una mediazione affinché una donna tossicodipendente madre possa trovare sul territorio una risposta tale che le consenta di essere madre e lavoratrice. Per le tossicodipendenti è ancora più difficile rispetto alle donne "normali", e si vede perché qui sono donne che lavorano con progetti particolari come con le cooperative o per pochi mesi, che non sempre accettano che ci sia flessibilità, rientri un po' più tardi... cioè è un lavoro molto lungo, si raggiunge ma è opera di interventi su interventi. Sono donne che tendenzialmente non lavorano nel pubblico, dove c'è già una normativa, ecco... anche qui la maternità è tutelata, ma pesa un po' di più. Sono magari occupazioni in fasce orarie come dalle 17 alle 20, e quindi le donne devono magari arrivare a rinunciare a questo lavoro perché non hanno alternative, sono costrette a rimanere

nelle maglie dell'assistenza perché non riescono a conciliarlo con la vita familiare, mentre l'uomo ha più spazio" (Stefania Calmasini). Da un certo punto di vista, questa problematica può essere ricollegata ad una più generale "condizione femminile" che vede le donne in situazioni di svantaggio dal punto di vista dell'inserimento lavorativo, soprattutto se sono madri. E, tuttavia, evidente che il riverbero di questo problema su fasce di popolazione vulnerabili che subiscono le conseguenze dei vari stigmi - tossicodipendenza, povertà, prostituzione, carcerazione - è maggiore, poiché la mancanza di solide opportunità alternative può implicare facilmente un ritorno a forme di sostentamento già conosciute o la separazione, in qualche modo forzata, dai propri figli. Se la soluzione di Joy, infatti, è stata quella di rientrare nel mondo della prostituzione perché solo così poteva fronteggiare le spese familiari in seguito alla revoca dei sostegni economici, un'altra madre esordisce l'intervista rappresentandosi come "l'esempio di una donna che poi avendo un bambino le aziende non mi davano più lavoro" e che per questo motivo "ho chiesto io all'assistente sociale aiuto perché non ce la facevo più, a metterlo in istituto", tra l'altro precisando il valore che il lavoro aveva avuto per lei nel lungo percorso di ricostruzione identitaria: "io a un certo punto son crollata, l'ultima volta son crollata per la storia del lavoro, del mio fallimento perché a lavorare ero rinata e ho dovuto lasciarlo per mio figlio... io credo che quando son ritornata nella tossicodipendenza sia stato perché mi mancava il lavoro, perché io... lo sanno tutti, io quando lavoravo stavo bene..." (Cameron, 40-45 anni). L'inserimento lavorativo non costituisce, pertanto, solo una fonte di reddito ma anche una riconquista di un ruolo sociale che reintegra la donna nella società, favorisce la ri-socializzazione in nuove aree di socialità e permette di riorganizzare la giornata verso nuovi obiettivi e fonti di realizzazione personale, che dovrebbero essere rese compatibili con la realizzazione di sé nel ruolo materno. La costruzione di interventi integrati ad alta complessità (abitativi, di sostegno al reddito, lavorativi, di riabilitazione psico-sociale e sanitaria), basati su una valutazione multidimensionale dei bisogni delle madri tossicodipendenti, sottintende l'esigenza di una elevata professionalizzazione degli operatori coinvolti e la comunanza di obiettivi tra i diversi attori della rete assistenziale, in vista di un bilanciamento delle funzioni di controllo, finalizzate alla creazione di un contesto psico-sociale adeguato alla crescita del minore, con quelle inerenti la relazione d'aiuto, finalizzate all'empowerment della donna nella sua relazione genitoriale. La frammentazione dei servizi sociali e sanitari coinvolti nella presa in carico di una madre tossicodipendente può costituire una risorsa, nella misura in cui riflette un livello di specializzazione professionale maggiore, ma al tempo stesso può costituire un limite, se le logiche di azione interne ai singoli servizi non sono governate in modo da garantire il reciproco coordinamento e l'interdipendenza - di obiettivi, linguaggi, valori, attività, competenze, ecc... Infine, il racconto di Joy sottolinea le difficoltà legate alla relazione con le assistenti sociali, che attribuisce alla loro mancanza di esperienza, al pregiudizio verso le capacità di cura e il senso di responsabilità dei tossicodipendenti e all'incapacità di pensare alle esigenze di una madre; a

questi elementi, che sono ricollegati anche da altre intervistate alla giovane età degli operatori che vengono incaricati di seguire i singoli casi, si unisce la mancanza di una continuità sufficiente a favorire l'instaurazione di un rapporto di fiducia e una risposta adeguata ai bisogni. Questi temi emergono anche dal racconto di Kate, che attende da anni l'attuazione di un decreto del giudice che impone il ricongiungimento con il proprio figlio. Il sentimento di discriminazione è più contenuto rispetto a quanto emergeva dal racconto precedente di Joy in quanto, pur sentendo di avere un potere limitato su questa situazione a causa del suo passato, di fatto la attribuisce ad una serie di fattori che si ricollegano alla professionalità dimostrata dai servizi sociali del comune e del comprensorio: "K.Io l'ho detto: "non lo faccio più tanto per me, quanto per le madri che verranno"... il Seri è escluso da sto discorso... Sono gli assistenti sociali... prima dicono che non ho un lavoro fisso [...] e allora il Seri me lo trova un lavoro fisso, e mi fa entrare con un progetto: ma adesso sono anni che son dentro a questo progetto... il servizio sociale sta lavorando veramente male, e poi ti danno delle ragazzine a seguirti che anche è difficile mettersi a confronto perché tu donna di 40 anni con una vita del genere alle spalle è difficile mettersi nelle braccia di una ragazzetta che non sa neanche di stare al mondo; però, voglio dire, uno ci prova anche. Però in effetti non cambia nulla [...]. Io mi sono comportata sempre alla lettera: non andavo a fare le stagioni, che mi avrebbero fatto tirar su un po' di soldi, perché non si poteva che il bimbo... cioè, mi son privata la vita! Per cosa? Per ottenere che non tengo più un figlio. Tra il resto con una motivazione incredibile perché... cioè... il giudice è anni che dice "il bambino al più presto si deve ricongiungere con la madre, deve avere come minimo 3 giorni di presenza a settimana ma senza la presenza di nessuno", e non c'è nessuno che fa attuare questo decreto! Nasce l'altro mio figlio sotto metadone, perché mi han detto "non stare a far monate, tienilo, anche basso ma tienilo" e subito il decreto parte, capito? Mentre questo decreto che il giudice fa e che dispone che il bambino deve tornare dalla madre invece no, capito? Perché il servizio sociale non lavora a vantaggio delle persone che segue, come invece fa il Sert; lavora contro. Il Sert fa di tutto per reinserirti nella società; il servizio sociale quando non sa cosa fare ti toglie dalla società, perché ti dice "ma dai, vai in cooperativa, ma dai vai in comunità, ma dai vai dallo psicologo" perché non ne hai abbastanza di uno, no? [...]. Sono i servizi sociali che non stanno facendo il loro lavoro, perché io in realtà ho dimostrato, ho fatto, e per carità io continuerò a fare per mio figlio, forse credendoci sempre di meno ma continuerò a battermi per lui, perché un figlio è un figlio, ma nessuno mi potrà ridare il tempo perduto, non mi sarei mai aspettata di questa cosa, ma appunto è sempre colpa tua alla fine, è sempre una ruota con cui ti pesti i piedi [...] L. ma questa lentezza dei servizi a cosa l'attribuisci? K. tutta questa lentezza io l'attribuisco al fatto del servizio sociale del comune, e del comprensorio perché entrambi sono stati, in realtà, sono poco organizzati, comunicano poco tra loro, scrivono a intuizioni, non leggono e non allegano le relazioni degli altri servizi ai quali chiedono sempre di collaborare, scrivono solo quello che gli salta in mente o che vagamente si ricordano [...] Non so, sono cose allucinanti, ma allucinanti davvero [...] in più, non è che un assistente ti porta avanti tutto l'affidamento di un bambino... no, ne cambi anche 2 all'anno, già non comunicano tra loro per cui devi continuare e ricominciare sempre tutto

daccapo, e devi riprenderti a fidarti, e allora passano i mesi, passano gli anni, il tempo passa... e poi ti dicono "sai è un affidamento lungo questo", "e hai voglia! Ma non per colpa mia perché io ho dimostrato, ho fatto, voglio dire". Addirittura il tribunale mi ha detto "te la puoi riprendere a breve, hai 3 visite a settimana adesso e senza adulti di mezzo" ma non lo fanno neanche attuare! [...] E tutte le scuse son buone, più impossibili e inimmaginabili, delle cose che se uno prendesse in mano il diritto civile delle persone, sarebbe una denuncia ogni momento; e i giudizi che può dare solo lo psicologo e invece i servizi sociali si arrogano il diritto di esprimerli... guarda robe allucinanti... Il servizio sociale secondo me è carente, per carità, a me che mi son messa nelle peste... (Kate, 40-45 anni).

1. Affrontare il cambiamento Similmente a quanto evidenziato per le diverse fasi della carriera dell'eroinomane, anche l'affrancamento dall'uso di eroina e dallo stile di vita che vi gravita intorno può essere interpretato nei termini di un processo, spesso molto lento e non lineare, piuttosto che di un evento situato e dato una volta per tutte. Come nota Stephens [1991], nella subcultura legata all'eroina il tossicodipendente viene ad assumere un vero e proprio "ruolo", poiché adotta comportamenti, instaura relazioni e aderisce a valori che sono associati allo status di dipendente e lo separano in modo più o meno netto dalla cultura convenzionale. L'autore sostiene che la decisione di interrompere l'uso della sostanza è fortemente condizionata dalle percezioni del proprio ruolo da parte del tossicodipendente, dunque la probabilità che si verifichi una reale dismissione dei comportamenti di consumo cresce al crescere delle fratture che si verificano con questo sistema di comportamenti, relazioni e valori. Buona parte della letteratura sociologica, soprattutto nell'ambito dell'interazionismo simbolico, si è focalizzata sulle uscite dal ruolo e sui processi sottostanti alla transizione da un ruolo ad un altro. Un contributo recente viene dalla teoria di Ebaugh, che concettualizza l'uscita dal ruolo come un «processo di disimpegno da un ruolo centrale nell'identità individuale e di costruzione di una identità in un nuovo ruolo che tiene in considerazione l'ex-ruolo» [1988: 1]. Tale cornice teorica può essere adottata per la comprensione del processo di cambiamento nella condizione tossicomanica, dunque del passaggio dall'identità di tossicodipendente a quella extossicodipendente: il presupposto è che tale transizione sia multideterminata - influenzata, cioè, da una serie di fattori normativi, sociali, economici e psicologici - e, soprattutto, che l'identità e il ruolo precedente condizionano la nuova definizione di sé e le aspettative sociali. Ebaugh teorizza l'uscita dal ruolo come un processo a 4 stadi, ovvero: la nascita dei primi dubbi, nel quale emergono le prime frustrazioni ed incertezze circa i comportamenti legati al ruolo in uscita, che viene così messo in discussione; la ricerca di alternative, attraverso valutazioni di costi e benefici associati a ruoli differenti rispetto a quello in uscita; il punto di svolta, spesso forzato da eventi di rottura o da momenti «epifanici» [Anderson e Bondi 1998: 165] che costringono il soggetto ad agire per uscire dal ruolo; la costruzione di una nuova identità e l'abbandono dell'ex-ruolo, stadio nel quale aumenta la distanza emotiva e l'identificazione con il ruolo precedente e aumentano le aspettative sociali sul nuovo ruolo assunto'. Questo percorso di transizione all'assunzione di un nuovo ruolo non è certo lineare e può essere estremamente complicato, anche quando tale cambiamento è socialmente desiderabile, come nel caso di un tossicodipendente che, accedendo al trattamento, cerca di diventare un extossicodipendente per poter rientrare a pieno titolo nella società. Infatti, questo passaggio

implica da un lato la capacità di convincere se stessi del nuovo posizionamento sociale, attraverso l'adozione di nuovi tipi di linguaggi, interessi, routine e legami sociali, dall'altro lato la capacità/possibilità di convincere gli altri del ruolo acquisito. La decisione di divenire un extossicodipendente e modificare il proprio stile di vita e relazione è un atto squisitamente individuale, ma tale decisione viene effettuata entro un determinato contesto ed è, pertanto, influenzata dalle reazioni sociali che, pur premiando un simile passaggio di status, non prescindono dall'identità e dai comportamenti associati al ruolo precedente. Detto in altri termini, nel nuovo ruolo assunto spesso rimane una parte dell'identità precedente, definita dalla Ebaugh [1988] "identità residua" (hanghover identity), che viene lentamente incorporata e resa coerente con la nuova immagine di sé; tale identità residua può ritornare alla luce sia per il ricordo soggettivo della transizione, sia a causa delle reazioni sociali: riprendendo i concetti esposti in precedenza, il ruolo di ex-tossicodipendente è socialmente percepito come una ulteriore identità tipizzata, nella quale perman gono le definizioni dell'identità precedente di tossicodipendente, con le conseguenze relative sul piano della stigmatizzazione sociale. Queste considerazioni rendono ragione della poliedricità del processo di cambiamento e della possibile varietà dei percorsi di de-costruzione e ricostruzione biografica implicati dal divenire ex-tossicodipendente, anche in riferimento al ricorso ai servizi per le tossicodipendenze che può essere investito di significati differenti in relazione alla fase della transizione in cui si colloca e, dunque, può avere esiti difficilmente prevedibili per le diverse interazioni e possibili combinazioni degli elementi coinvolti in tale processo, individuali e sociali; non a caso, nella maggior parte dei casi, il processo di cambiamento entro la relazione instaurata con i servizi specialistici per le tossicodipendenze si viene a configurare come una vera e propria carriera di trattamento [Hser et al. 1997], come si è anticipato precedentemente introducendo la metafora della porta girevole. In linea generale, l'entrata in trattamento può corrispondere all'arrivo ad almeno il primo stadio identificato più sopra, quello dei primi dubbi, dunque entro una condizione di insight determinata da un certo grado di frustrazione o burnout per il proprio ruolo; in tale contesto, il contatto con i servizi può favorire il passaggio a stadi successivi, ma entro le influenze che la definizione di sé e le reazioni sociali possono avere. Spesso, però, il ricorso ai servizi può essere determinato da contingenze esterne che in qualche modo impongono al soggetto di sottoporsi ad un trattamento senza che egli sia determinato ad abbandonare il proprio ruolo, lo stile di vita precedente e il comportamento di consumo. Basti pensare all'arresto e alla carcerazione, che possono imporre un'astinenza forzata e la conseguente richiesta di sostegno farmacologico per placarne i dolori, oppure possono indurre razionalmente il soggetto ad intraprendere percorsi di trattamento alternativi per evitare la detenzione; più in generale, la scoperta della tossicodipendenza da parte dei genitori o di altri significativi può portare il soggetto ad intraprendere un trattamento per fornire una sorta di prova della propria volontà di cambiamento, senza peraltro aver maturato una convinzione personale in tal senso.

Il ricorso al trattamento, qualunque sia la motivazione che lo anima, costituisce di fatto una forma di esposizione sociale del tossicodipendente, certo non scevra di implicazioni sul piano identitario in quanto i servizi per la cura e riabilitazione della tossicodipendenza sono sottoposti ad un giudizio sociale e morale negativo, in modo particolare se si basano sui principi della riduzione del danno erogando metadone. Come ben evidenzia un'operatrice: "Il metadone è di per sé stigmatizzante perché è considerato la droga di stato e i Sert son quelli che ti danno il metadone... la terapia con altri farmaci forse meno perché non è conosciuta3... storicamente il metadone viene subito associato all'eroina..." (Roberta Ferrucci). Anche alcune intervistate notano che il timore di ricevere l'etichetta di tossico può costituire un deterrente all'entrata in trattamento': .. .poi l'avvocatessa mi ha detto di venire al Sert, perché io avevo sempre avuto la menata "non vado perché c'è la gente di merda al Sert", perché si mettono tutti qua e a me non piace stare insieme a chi si fa le pere. Io non... l'avrò usata l'eroina, perché l'ho fumata, anche io sono dipendente, però le siringhe non le tollero... so che è la stessa cosa, c'è chi dice "farsi una pera è molto meglio di fumare" però per me è all'incontrario, anche se adesso so che fumare fa male perché ti crea una dipendenza peggiore che farsi le pere, ma per me è peggiore chi si fa, mi hanno detto e ho visto... e al Sert ci va chi si fa le pere" (Jasmin, under 21 anni). "L. sapevi che esistevano dei Sert che potevano aiutarti? H. sì, però non ho mai voluto... per la paura di passare, far veder a tutti che ero tossica anche se sapevo di esserlo..." (Hilary, 22-25 anni). Questa rappresentazione sociale non influenza solo la prevalenza assoluta di eroinomani nell'utenza dei Sert, limitando l'accesso di consumatori di altre sostanze che non vogliono acquisire questa immagine sociale stigmatizzata, ma anche il tentativo del tossicodipendente in trattamento di normalizzare la propria vita, i cui sforzi sono spesso indirizzati a mantenere segreto il suo status di paziente in cura metadonicas [CAMH 1999]. Si noti che questa connotazione stigmatizzante del trattamento metadonico ha le sue radici nella concezione della tossicodipendenza che ancora persiste nell'immaginario popolare, ovvero di un vizio, di una abitudine che si deve combattere con la forza di volontà e che non può risolversi con l'assunzione di un'altra droga. La somministrazione di metadone, al contrario, si basa sui principi della riduzione del danno6 nella considerazione che la tossicodipendenza sia una malattia cronica soggetta a recidive e che come tale si deve realisticamente porre l'obiettivo minimo di ridurne le conseguenze negative sul piano sociale e sanitario: il metadone, infatti, eliminando il problema dell'astinenza da eroina, crea i presupposti per la normalizzazione dello stile di vita, la riduzione della mortalità e delle malattie droga-correlate e la contestuale riduzione delle attività illegali che vi si ricollegano'. Come nota un'altra operatrice del Sert: "venire in un posto come il nostro è comunque sempre stigmatizzante; perché quello che

scriveva Cancrini (n.d.r. [1973]), che i tossici sono comunque sempre "brutti, sporchi e cattivi" non è cambiato di molto. E non lo è stato nemmeno introducendo il concetto di tossicodipendenza come malattia cronica... anche perché questo lo sanno gli addetti ai lavori, non la società... lo diciamo tra operatori, fuori fanno molto fatica a capirlo, ti seguono nel ragionamento ma comunque il fatto di drogarsi è sempre visto come una scelta data dalla ricerca del piacere, viene visto come svago e divertimento, quindi chi lo fa è visto come uno che eccede e per questo deve essere "punito", in senso lato, con la sofferenza che questo comportamento gli comporta. E tra l'altro, ci sono anche servizi che ancora lavorano con questa filosofia, come le comunità" (Barbara Fava). Senza entrare nel merito di questo dibattito ideologico, prima di addentrarsi nelle ricostruzioni delle intervistate sono importanti due considerazioni. Innanzitutto, se assumiamo il punto di vista del tossicodipendente, comprendiamo che la decisione sofferta di ricorrere ad un Sert risponde proprio al bisogno di avere questo sostegno farmacologico, che gli può permettere di stabilizzare il proprio stile di vita, anche quando la volontà di dismettere definitivamente l'uso di eroina non è ancora maturata. Difficilmente l'obiettivo di un tossicodipendente, nella prima fase della richiesta di trattamento, è l'astinenza definitiva dall'eroina8, mentre lo è la risoluzione di problemi e bisogni immediati, il primo dei quali è l'evitamento della sindrome astinenziale: come si accennava, infatti, anche chi non ha avuto modo di sperimentarla su di sé vive con un certo timore l'astinenza dalla sostanza, che sa essere di un'entità difficilmente sopportabile e che può trovare una soluzione solo nei sostituti farmacologici. Come sostiene un'intervistata: "K. c'è proprio un mondo che è nascosto, o perlomeno che va in altre direzioni per quello che è la richiesta di aiuto; qui al Sert proprio viene chi ci è mandato dalla legge, nel senso "ti ho beccato e vai a farti curare li", viene quello che viene mandato come nel mio caso da una persona cara, comincia un discorso prima con il metadone e poi comincia un discorso più profondo di "parliamone", oppure quello che proprio non ce la fa più e quindi viene a chiedere aiuto da solo per vedere se riesce a venir fuori dalla dipendenza, perché soprattutto con l'eroina è da li che devi partire per iniziare a parlare di altro, perché se continui ad avere la droga in mente... cioè tu ti puoi scordare di parlare con un tossico se ce l'ha ancora in testa" (Kelly, 36-39 anni). Non è un caso che molti tossicodipendenti (ben i tre quarti, nella presente indagine) cerchino, in una prima fase, di disintossicarsi in modo autonomo con i sostituti farmacologici acquistandoli sul mercato nero o grigio [Rosenbaum 1981; Taylor 1993]: "J. neanche un mese prima che ho iniziato a venir qua mi arrangiavo io col metadone, cioè lo procuravo e mi arrangiavo però ne prendevo troppo rispetto a quello che dovevo... ci sono proprio spacciatori che ti vendono solo metadone, o comunque farmaci per queste cose, o anche gente che viene qua e prende l'affido e poi lo vendono per comprarsi la roba... è gente che non ha voglia di smettere e gli piace così come sta, o forse non gli fa effetto abbastanza però non arriva a pensare che più va avanti a fumare più è ovvio che deve prenderne tanto di più il metadone..." (Jacquelyn, under 21 anni). "E. perché poi, vabbè, facevo dei periodi che prendevo la terapia, non venivo qui al Sert ma la

compravo, sempre a Verona, e mi facevo una terapia a casa giusto per riuscire ad andare a lavorare, compravo metadone al posto dell'eroina, e poi son rimasta senza terapia perché han messo dentro i tipi, e quindi ho iniziato a farmi perché sennò non stavo bene, e per un mese sono andata a farmi poi ho detto "ok andiamo al Sert che forse è meglio" (Eveleen, 22-25 anni). I tentativi di auto-disintossicazione possono rispondere, tra l'altro, all'esigenza di non esporsi al contatto con il Sert ricevendo così l'etichetta di tossico; non c'è modo di stimare la proporzione di soggetti che riesce, con questo sistema, a sfuggire dalle maglie istituzionali risolvendo la propria dipendenza, ma di fatto questa soluzione mostra a lungo andare i suoi svantaggi perché contribuisce a tenere i soggetti agganciati ai network di relazioni precedenti e ad esporsi agli stessi rischi che comportava l'uso di eroina, tra l'altro investendo comunque quantità di denaro che possono essere risparmiate ricorrendo ai servizi. Un'ulteriore considerazione si riferisce all'interferenza che lo scontro tra le due filosofie sopra esposte può avere sul trattamento del tossicodipendente: spesso, infatti, gli utenti in trattamento metadonico, influenzati dall'idea di poter raggiungere lo stato di astinenza definitiva riacquisendo il controllo di sé e della propria forza di volontà [Taylor 1993], interrompono il programma terapeutico ricoverandosi in comunità residenziali e iniziando un lungo percorso di entrate ed uscite che contribuisce ad alimentare il senso di fallimento e l'idea di non essere in grado di modificare realmente la propria condizione ed identità. Di fatto, gli orientamenti terapeutici attuali mostrano che non esiste una soluzione più valida di un'altra al problema tossicodipendenza e che ogni persona presenta delle peculiarità psicologiche, sociali, relazionali e soprattutto contestuali alla fase biografica che attraversa che possono rendere preferibile l'una o l'altra soluzione [Fazzi 2001]. Si ricordi il caso di Phoebe, che riconosce il problema solo al momento del parto ed intraprende un percorso comunitario per poter vivere da astinente la propria maternità, riuscendoci senza avere ricadute nell'uso; nel caso di Betty, al contrario, anche l'ultimo dei 15 tentativi di inserimento comunitari, effettuato con il partner e il proprio figlio, non è andato a buon fine per la sua difficoltà a stare in queste rigide regole che non condivideva; non da ultimo, Connie prova una serie di disintossicazioni e diversi inserimenti comunitari in molte fasi della sua biografia ma riesce a concludere con successo solo l'ultimo inserimento comunitario, avvenuto dopo una storia di tossicodipendenza lunga ben 27 anni. Riporto la sua interpretazione di tale transizione, poiché rende l'idea delle complessità implicate dal processo di cambiamento, spesso non intelligibili anche da chi lo esperisce: "C. anche l'ultima volta che ho provato... io non ho detto è la volta buona, e guarda era andato il dott. * dallo psicologo del Seri e gli aveva detto "guarda, questa andrà avanti ancora per un paio di mesi e poi se ne va" [.. .]; non mangiavo, io bevevo, bevevo, mi facevo e basta, qualche cicca e basta... e dopo ha cominciato a venirmi fuori sangue dappertutto, dalle orecchie, dal naso, di sotto... e non credo che proprio ho preso paura, perché non credo, però stavo troppo male; non era paura, era proprio quel male fisico che mi venivan delle crisi allucinanti, fisicamente proprio, mi veniva giù acqua dalla testa, e poi sforzi di vomito che

non avevo neanche niente da vomitare. E allora ho detto "vado, ma starò lì una ventina di giorni perché..." [...]. E io non so se è stato un miracolo guarda... ogni tanto mi dico che è stata mia mamma che mi avrà messo una mano sulla spalla o non so... forse, mia mamma era morta, mio figlio era solo, ma non è stato neanche quello. E questo che dico "forse era destino che mettessi la testa a posto, era ora, per esserci adesso che mio figlio ha bisogno", non so, ogni tanto mi faccio sii pensieri e non riesco a rispondermi, e son cose che non mi tornano e probabilmente non torneran mai, cioè la vita è anche mistero e quindi a tutto non si può rispondere. Ogni tanto mi dico "ma sì, forse sei stata anche brava" ma per la testa che avevo e per come ero ridotta devo essere stata aiutata da qualche forza... anche quest'anno che sto passando con mio figlio, perché io non avrei pensato mai di riuscire a reggere una situazione del genere [...]. Però fino in fondo, esattamente, io credo che il merito non sia sempre solo nostro, è un po' un mistero L. cioè non è stata una tua decisione razionale quella di uscirne definitivamente? C. ma perché questo l'ho fatto tante volte e non ce l'ho mai fatta, cioè mi domando dove posso avere trovato a un certo punto questa forza. Come adesso mi domando dove la sto trovando sta forza di continuare così..." (Connie, 40-45 anni). Proseguendo, in letteratura viene evidenziato che il doppio stigma9 che affligge le donne rende il percorso di trattamento particolarmente lungo e sofferente: se la tossicodipendenza costituisce una condizione inaccettabile per la trasgressione degli ideali di femminilità socialmente trasmessi e l'uscita dall'invisibilità implicata dalla richiesta di aiuto ai servizi contribuisce a palesare questa doppia trasgressione, dalle norme di genere e dal comportamento conforme. I giudizi degli operatori dei servizi vanno proprio in questa direzione: nel primo brano che si riporta, Kabras fa riferimento all'interiorizzazione di norme di genere che limitano la capacità delle donne di riconoscere il problema e ad affidarsi ai servizi: "L'impressione che mi sono fatta, anche basandomi sull'esperienza, è che le donne hanno sicuramente più difficoltà ad aprirsi e a farsi conoscere ai servizi, [...] e perché? Perché credo che la personalità femminile sia proprio diversa da quella maschile, ma questo lo vediamo anche nel quotidiano, quindi una sensibilità diversa, un tipo diverso di reazione di fronte ai problemi, di fronte agli stimoli, di fronte alle situazioni. E questo la mette anche nelle condizioni di essere e di vivere la tossicodipendenza diversamente rispetto a un uomo. L'uomo è abituato ad essere accudito dalla figura femminile, una donna ha il ruolo inverso, la donna è quella che deve accudire e quindi come fa a mettersi in una posizione diversa? Come fa a palesare al mondo intero la sua difficoltà e il suo problema? La donna è cresciuta culturalmente, e forse anche familiarmente, con l'idea di badare a se stessa e agli altri... la difficoltà maggiore è proprio quella di affidarsi perché la posizione della donna è proprio diversa da quella dell'uomo, cioè è più orientata ad aiutare, a votarsi all'altro più che a fermarsi e dire "faccio qualcosa per me". Veramente, io lavoro da 10 anni in questo settore e non ne ho sentita una che è venuta a dirmi che aveva bisogno di aiuto, che aveva problemi con la sostanza... nessuna mi è venuto a dire "aiutami, facciamo qualcosa", assolutamente, mi dicono al limite "faccio qualcosa, me la risolvo da sola, tu non puoi capire, tu non sai cosa vuol dire, non ho bisogno di aiuto". Son tanti i rimandi che loro ti danno, no? [...] La donna si fa il problema del futuro e della prospettiva, forse ha una sensibilità diversa rispetto al

problema e a quello che gli può venire offerto, la donna ha anche tutto il resto, arrivate a una certa età le senti parlare di maternità che probabilmente non capiscono cosa voglia dire ma ce l'hanno dentro, te lo riportano, perché c'è un pensiero altro o un pensiero in più se vogliamo, cosa che all'uomo manca. La donna è abituata a guardarsi intorno, non solo fa una cosa e fa quella ma ne fa altre 100 col pensiero con gli occhi e con le mani, e questo ce lo insegna anche la cultura moderna: abbiamo la donna che contemporaneamente è moglie, mamma e casalinga e lavora, e l'uomo che fa? Lavora, e punto. E una forma mentis proprio, la donna non si vede tossicodipendente solo perché le piace la sostanza e va avanti con quella, ha un pensiero altro: "e dopo la sostanza cosa ho, che senso ho, che senso ha?" Io credo che aldilà del fatto che oggi si respiri questa aria di parità di diritti per cui la donna si sente uguale rispetto all'uomo, la differenza sta nel dichiararsi tossicodipendente anche perché culturalmente il tossico è il maschietto, con orecchini tatuaggi pantaloni larghi ecc... la femminuccia bene, vestita bene, e ce ne sono tante, non la etichetteresti mai come tossicodipendente, e loro si nascondono dietro a questo... Insomma, c'è un sommerso che non riesce a uscir fuori rispetto alla tossicodipendenza femminile perché la società, in fondo, ci impedisce e impedisce loro di vedere le cose come realmente sono" (Katuscia Kabras). Nel secondo brano, Isatto sottolinea che il lavoro terapeutico sulla donna è più complicato per il maggior senso di colpa e la vergogna per la propria condizione10: "L'area più difficile su cui lavorare è quella del senso di colpa, nel senso che le donne provano un grande senso di colpa rispetto, appunto, anche allo stigma e l'immagine di sé, e quindi è un'area di grande vulnerabilità per loro. Diciamo che gli uomini accedono più facilmente al servizio e soprattutto vi accedono con meno sensi di colpa o riserve; per la donna è più difficile scoprirsi, emerge sempre con molta forza il tema della vergogna" (Cecilia Isatto). In linea generale, dunque, gli operatori e la letteratura internazionale sostengono che le resistenze delle donne all'accesso al trattamento sono maggiori. In realtà, l'analisi dei dati sull'utenza in trattamento sembra ridimensionare questa ipotesi, in quanto ci informa che il periodo di latenza è significativamente inferiore per le donne rispetto agli uomini", come viene evidenziato a livello internazionale [Chatham et al. 1999; El-Guebaly 1995; Grella, Joshi 1999; Haseltine 2000; Hser et al. 1987a, 1987b, 2004; Wechsberg 1998]: in altre parole, l'arco temporale compreso tra la prima sperimentazione di eroina e il ricorso al trattamento è, in media, più breve di un anno rispetto agli uomini'. Di fatto, come sostengono alcuni autori [Anglin et al. 1987a; Cox et al. 2008], questo dato può essere motivato da uno sviluppo più precoce della dipendenza nel sesso femminile: come si è anticipato, infatti, la maggiore disponibilità della sostanza può portare più rapidamente le donne a perdere il controllo dell'uso e a maturare più velocemente la consapevolezza di dover modificare il proprio stile di vita. Due operatori del privato sociale ci forniscono, però, un'altra chiave di lettura che si ricollega al discorso precedente di Kabras: "Probabilmente è vero che le ragazze ricorrono prima ai servizi... c'è però una diversa modalità di utilizzo dei servizi: i ragazzi tengono, cioè cercano di non andarci però quando ci

vanno si affidano (a parte che lo stato è tale per cui non potrebbero fare altrimenti perché son messi malissimo), mentre le ragazze è vero che ci vanno prima, ma l'utilizzo del servizio è strumentale non al cambiamento dello stile di vita ma come elemento in più per gestire meglio la vita che stanno conducendo, non so se mi sono spiegato... i ragazzi quando vanno ai servizi poi si affidano, si può definire un percorso terapeutico (ovviamente parliamo di persone con un certo grado di evolutività), mentre per le ragazze è molto più difficile perché invece ci vanno perché chiedono magari farmaci di sostegno o cose così, ma non perché abbiano intenzione di cambiare stile di vita e quindi focalizzarsi sul percorso terapeutico, e questo è il problema serio. È un aiuto in più per continuare quella strada... e anche in questo è diverso il funzionamento, perché hanno la capacità di raccogliere quanti più strumenti possono avere per continuare in quella direzione; i ragazzi intanto non li utilizzano tutti insieme, li utilizzano uno alla volta, o per andare in un verso o in quell'altro; ma è anche un atteggiamento mentale proprio, è molto diverso..." (Andrea Bortot). "Si fidano di meno, usano gli strumenti che ci sono ma sembra che non si fidano; apparentemente parlano, sono carine, ma in realtà... non esprimono una sofferenza di nessun tipo e quindi il lavoro è più lungo e complesso, c'è molta distanza inizialmente, è proprio difficile la prima parte di instaurare una fiducia; poi anche loro ti seguono, ma questa prima fase è dura, mentre un ragazzo lo capisci subito se si fida e sai che se si fida va avanti con te, sennò no. Le ragazze... ti sembra di avercela fatta ma in realtà a un certo punto scopri che non è così. Stiamo seguendo anche casi con il Seri, e quello che ci riporta l'equipe medica è questo: tante ragazze vanno li e chiedono appunto il farmaco per i sintomi ecc... è tutto strumentale, solo per avere qualcosa in più che completa il quadretto di cose che si sono preparate per continuare questo stile di vita" (Marilena Zeni). Un ulteriore dato che richiede un commento è la notevole riduzione del periodo di latenza tra le generazioni: le ragazze più giovani, della coorte delle nate dopo il 1985, sono ricorse al trattamento mediamente entro 2 anni dal primo contatto con l'eroina; questo valore cresce progressivamente fino a raggiungere gli 8 anni nella coorte delle nate prima del 1964. Questo dato può stupire per un motivo, cioè che le ragazze più giovani pervenute al comportamento iniettivo sono in numero limitato; si è visto precedentemente che l'assunzione per via nasale o tramite fumo/inalazione è erroneamente percepita come meno problematica poiché non viene associata all'immagine classica del tossicodipendente inestricabilmente collegata alla siringa. Nella spiegazione di questo dato convergono pertanto diversi elementi: in primo luogo, la riorganizzazione e differenziazione dell'offerta terapeutica avvenuta negli anni Novanta, seguita pian piano da una maggiore attenzione alle politiche preventive, alla diffusione delle informazioni circa l'uso di droghe e le possibilità terapeutiche - in modo particolare, le intervistate segnalano la possibilità di ottenere dosaggi farmacologici adeguati a contenere il craving verso l'eroina. Si è, tuttavia, avuto modo di vedere che nelle generazioni più giovani l'accesso all'eroina segue una lunga fase di socializzazione all'alcol e alle droghe con stili di consumo tendenti all'eccesso: questo dato può far pensare che il periodo pre-eroina si sommi, per problematicità dello stile di vita, al periodo contestuale al consumo di eroina, favorendo una maturazione più veloce - per quanto strumentale - della richiesta di trattamento.

Di seguito, la lettura delle biografie cercherà di ricostruire il processo e le motivazioni che hanno portato le intervistate a rivolgersi ai servizi di cura, il significato attribuito ai servizi ed alla terapia metadonica e le difficoltà incontrate nel percorso di remissione dell'uso di eroina per molte non ancora verificatosi. 2. Le motivazioni al trattamento In coerenza con quanto si è esposto nella sezione precedente, la maggior parte delle intervistate è ricorsa per la prima volta ad un servizio per le tossicodipendenze su scelta volontaria (44 donne), mentre 5 donne hanno intrapreso un percorso comunitario o un programma di recupero al Sert in seguito all'arresto, 2 donne in seguito ad una segnalazione per consumo e possesso di sostanze stupefacenti ai sensi degli art. 75 e 121 del D.P.R 309/90 e 3 donne su invio dei genitori. Dunque, il primo trattamento è avvenuto nella maggior parte dei casi presso un Sert, in un caso presso l'Associazione Famiglie Tossicodipendenti, in 2 casi presso una comunità residenziale e in 4 casi presso un istituto di detenzione. Nella realtà, dai racconti delle intervistate emerge in modo molto chiaro che anche la scelta volontaria può risentire di condizionamenti familiari o amicali, dunque può non corrispondere ad una effettiva presa di coscienza della problematicità dell'uso: un terzo di coloro che sono entrate in trattamento su scelta volontaria ha riferito che tale decisione è stata determinata dalle pressioni/reazioni del partner (7 donne), dei genitori (3 donne) o di altri significativi (4 donne). In riferimento al gruppo di donne che hanno preso autonomamente la decisione di ricorrere ai servizi, la lettura delle diverse ricostruzioni biografiche conferma quanto sostenuto in letteratura, ovvero che la nascita dei primi dubbi e la scelta conseguente di entrare in trattamento non derivano tanto dalla volontà di svincolarsi dall'eroina, quanto dalla necessità di ridimensionare, ridurre o eliminare i rischi connessi allo stile di vita che gravita intorno alla sostanza e contenere le spese economiche [Anderson e Bondi 1998; Rosenbaum 1981; Taylor 1993; Sterk 1999]. L'eroina, infatti, rimane nel tempo una sorta di panacea per tutti i propri mali e un oggetto di anaclisi, mentre le attività routinarie di hustling, coping e get-off [Agar 1973] prima o dopo manifestano la loro insostenibilità, anche in relazione ad eventi contingenti casuali (come l'arresto dei propri amici, i pedinamenti delle forze dell'ordine, o la mancanza di trovare la sostanza sul mercato): "J. quando ho iniziato usavo tutti i giorni, e per prenderci la roba ovviamente dovevamo rubare... comunque tante cose le vendevamo, come i suoi avori, io il mio cellulare... tante piccole storie, cose... E dopo un po' questo è stressante, non c'hai più soldi, cioè è un continuo cercare: cercare i soldi, cercare roba... ospitavamo anche un magrebino, poi stavamo sempre male, i soldi scarseggiano sempre, e dopo un po' dici "ma chi me lo fa fare? Dovrei tirarmi fuori". Però, quando dici mi voglio tirare fuori lo dici sempre quando sei fatta, perché quando stai bene... e allora il tempo passa, ma adesso son qui" (Jodie, under 21 anni). -K. _insomma, alla mattina non ti alzi neanche più se non hai la roba, era da un po' che ci

dicevamo a vicenda che dovevamo almeno provare a calare, anche per una questione di soldi, per riuscire a mettere via qualche soldo ma anche solo per sicurezza, metti che succedeva qualcosa... e allora però non ce la facevamo perché poi appunto io ero anche depressa per il lavoro, avevo intere giornate davanti e quindi era difficile trovare altro da fare, e poi avevo comunque paura di stare male perché mi sembrava di stare male quando ne prendevo di meno... e allora a un certo punto tutti e due ci siamo decisi e abbiamo pensato che forse era meglio farci aiutare da qualcuno, alla fine senza il metadone è difficile farcela, non so come spiegarti..." (Kimmie, 26-30 anni). "I. ecco e poi sei venuta al Seri: per quale motivo poi avevi deciso di venirci? B. perché mi rendevo conto che mi stavo bucando e li è scattato... ho detto: "io mi devo far curare"... perché comunque io ho sempre lavorato, ho sempre avuto casa mia, mi son sempre gestita nonostante tutto bene, la mia... cioè, non son mai finita in strada, non sono mai andata proprio al limite... sono sempre stata, mi son sempre barcamenata, si può dire no? E vedevo che mi stava un po' sfuggendo tutto di mano perché comunque inizi... cioè a veder le situazioni... la spesa non riuscivo più comunque a farla, e a me faceva soffrire molto, non stavo bene anche con me stessa..." (Bridget, 36-39 anni). Mantenendo sullo sfondo questo principio, comune a gran parte delle intervistate, la lettura delle ricostruzioni biografiche mostra che le motivazioni al trattamento assumono sfumature differenti, influenzate in primis dall'età, ovvero dalla lunghezza del periodo in cui le donne sono realmente state in trattamento e il tipo di conseguenze esperite - sul piano fisico, familiare e giudiziario - nel corso della loro biografia. Il primo brano presentato, che proviene dal racconto di Grace circa il suo primo trattamento seguito all'estero con una terapia da assumere per via endovenosa, sottolinea che l'assunzione di farmaci prescritti dalla medicina ufficiale le permetteva finalmente di considerarsi - e di mostrarsi agli occhi degli altri - una persona malata, dunque di sentirsi meno responsabile per azioni che non poteva controllare a causa della sua patologia; si noti che questa ragione non si presenta in nessun'altro dei casi analizzati e che Grace è una delle poche donne che ha spiegato la propria dipendenza riferendosi ai principi della scienza medica: "G.Bè, in un primo momento mi è sembrata una cosa positivissima, perché era la mia più grande conquista quella di poter essere una persona normale non giudicata tossica, non dover stare sulla strada ad aspettare qualcuno ore, poi la qualità non sai com'è... cioè era una grande conquista quella di essere una persona riconosciuta malata e che quindi per fare una vita normale aveva bisogno di farmaci anziché di sostanze stupefacenti... appunto una volta che dalla droga di strada passi a qualcosa di consentito legalmente, questo mi dava più forza nel sostenere "questa sono io, che colpa ne ho?" I. come se in qualche modo ti giustificasse, come dire: io posso avere responsabilità ma purtroppo ho incontrato qualcosa... G. che mi dava l'illusione in un primo momento di poterla controllare, decidendo io quando farlo... con l'eroina, a un certo punto, la cosa ti sfugge di mano e ti ritrovi a non averne più il controllo, ma assolutamente... io mi trovavo delle volte ad andare in automatico a prendermela, non so come dire... senza poter, dire "no", senza poter essere libera di scegliere,

mi ha tolto ogni libertà" (Grace, 36-39 anni). Viceversa, una delle ragioni più diffuse e rinvenute in letteratura [Rosenbaum 1981; Taylor 1993] che riguarda le donne pervenute all'assunzione di eroina per via parenterale, è l'arrivo ad una compromisstone fisica tale da determinare la necessità di interrompere l'uso della sostanza, ovvero l'incapacità di trovare una vena sana per potersi fare13. Vi è da dire che questa condizione assume significati differenti per le intervistate, in quanto alcune si limitano a prendere atto della situazione considerandola un po' come una costrizione esterna, mentre altre la interpretano come un segno della violenza che hanno esercitato sul proprio corpo e che costituisce, tra l'altro, una barriera alle relazioni con gli altri: `B. e cosa vuoi farci? Ormai... arrivi che sei anche costretto a far qualcosa... per dire quando non puoi più farti, non trovi più una vena, quello che puoi fare è andare al Seri, anche perché... le comunità te le raccomando, poi l'astinenza l'ho provata e il metadone è l'unica cosa che non te la fa sentire L. dopo che sei venuta qui hai smesso di usare eroina? B. ma va!! Non è mai cambiato niente alla fine, ho avuto degli intervalli ma... se son ancora qua..." (Betty, 36-39 anni). "S.Mi facevo nei piedi perché era estate e allora non volevo farmi vedere... infatti ancora dopo 4 anni ho la vena dura, anche li ti rovini proprio perché farsi... tanti smettono perché non hanno più le vene, io poi facevo davvero tanta fatica, ero diventata... ho smesso perché proprio non ce la facevo più... non riuscivo a prendermi le vene, magari stavi li un'ora e poi buttavo via tutto e stavo male, mi disfavo le braccia, che poi dici "cacchio ti fai davvero del male" e però dopo lo fai lo stesso perché veramente devi farlo per forza perché sennò stai ancora più male, lo fai lo stesso perché così sai che dopo stai bene... Anche per i segni che ti restano, che poi fanno schifo, ma non ci pensi, non ci pensi... Ho visto delle foto un po' di giorni fa, ero al mare e... ero andata al mare con mia sorella e con il suo ragazzo e una sera [...] avevo tutti i lividi, gli ematomi, e c'è una foto dove si vedono, non so li come facessi... bè, forse li nascondevo, li ho nascosti sempre però nella foto si vedono... Maniche lunghe d'estate come fan tanti... poi a tanti magari non interessa... ma almeno io i segni sulle braccia non li ho, e dalle altre parti ora non si vedono tanto se non ci fai caso... anche sui piedi ne ho... alla fine poi non l'ho fatto per tanti anni, il bello credo sia poco, dopo c'è tutto il brutto..." (Shirley, 2630 anni). Rimanendo nell'ambito delle ragioni sollecitate da problematiche di carattere fisico, due intervistate hanno sostenuto di essere ricorse al trattamento in seguito ad episodi di overdose: Peggie ha vissuto il ricorso al Sert come una costrizione poiché non era realmente intenzionata a smettere con l'uso di eroina, mentre per Valerie, già stanca del suo stile di vita, costituisce il motore del cambiamento: 'P. il primo o secondo mese ho avuto un'overdose ed ero quasi al di là, più che al di qua, e da lì abbiamo chiesto aiuto proprio al Seri e da lì poi ho cominciato... no! Non con il metadone subito, avevano cercato di darmi delle medicine alternative [i farmaci sintomatici, n.d.r.], un po' di... per non darmi direttamente il metadone... all'inizio erano farmaci per l'astinenza poi

comunque continuavo a far uso e comunque non mi hanno aiutato, poi hanno provato con il Subutex, una serie di tentativi, però alla fine, poi andavo avanti a bucarmi quindi... ho provato anche comunità, l'ospedale a * per vedere... ma ero orientata a far uso e quindi non è che mi impegnavo tanto a provare a smettere, poi ho continuato a far uso fino a quando è nato il bimbo" (Peggie, 31-35 anni). 'V. ero stufa, perché comunque c'eran stati dei momenti così, l'overdose c'è stata, mi aveva un po' spaventato e quindi ho deciso di andare là" (Valerie, 40-45 anni). Inoltre, in letteratura viene evidenziato che la "relazione" con altri significativi costituisce per il genere femminile una delle motivazioni che animano più frequentemente la richiesta di aiuto, come ben evidenzia questa operatrice14: "Forse anche perché le donne sono per socializzazione più proiettate nella relazione con gli altri mentre gli uomini verso se stessi. Questo discrimina anche il ricorso al servizio: i secondi vengono al servizio quando si rendono conto che l'uso di sostanze non è più compatibile con la loro professione e l'affermazione all'esterno. Per gli uomini l'aspetto lavorativo è fortissimo, e con questo anche l'aspetto dei debiti: sono pieni di debiti con chiunque e quindi non ce la fanno più a gestire questa cosa e questo crea un forte vortice di ansia da cui vogliono uscire. La donna invece è sempre stata più proiettata nella sfera privata, meno verso l'esterno, più nella relazione con famiglia, partner, figli... quindi forse la motivazione a ricorrere ai servizi viene più da questi aspetti" (Cecilia Isatto). Il proprio amore verso altre persone, in particolare il proprio partner e il proprio figlio, o i sensi di colpa nei confronti dei genitori costituisce anche in questa sede una ragione riscontrata con una certa frequenza. Rispetto alla maternità si è già discusso nel capitolo precedente; nei brani che seguono, Emily e Celeste sostengono di essere entrate in trattamento per poter cominciare una nuova vita con il proprio partner e per creare le condizioni necessarie alla costruzione di una famiglia "normale": "E.L'anno scorso abbiamo cominciato a dire basta, ci siamo impuntati, io ce l'ho fatta e lui non so L. il motivo principale per cui hai detto basta? E.Amore! Io voglio una vita normale, dei figli... una vita così non è vivibile... se non l'hai vissuta non sai cosa vuol dire, star per strada in inverno, patire il freddo, a volte non aver proprio da mangiare [...]. Mi sono innamorata di lui e allora ho visto che forse ho una vita davanti, se non c'era lui non me ne fregava niente [...]. Come ho conosciuto lui è cambiato tutto... prima se mi chiedevano "come vedi il tuo futuro?" "Nero", il futuro lo vedevo nero, non vedevo niente, lo vedevo sempre uguale e... anche a lui se gli parlavi e gli chiedevi "vedi la tua vita senza eroina?" lui ti diceva di no, no! Non avremmo mai pensato alla vita senza eroina... poi abbiamo cominciato, e dai e dai... all'inizio era un po' più dura perché vedevi magari un marocchino che ti chiedeva se la volevi ed era difficile dire di no; se adesso me la mettessero qua sotto il naso, non me ne frega più niente" (Emily, under 21 anni). "C. E però è stato l'amore che mi ha fatto tornare indietro, ti ho detto: se hai un motivo per smettere, un affetto, un amore come il mio, lo fai. Io avevo lui, sapevo che quando lui usciva

dal carcere avremmo potuto iniziare la nostra vita, avere figli, farci una famiglia, sposarci, e quindi che quando usciva dovevo farmi trovare pulita e non ho più toccato niente, proprio, e ormai sono due anni quasi L. e se lui non ci fosse? C. eh, me lo sono chiesta tante volte anche quello, ma non penso... perché anche adesso lui non c'è, chiedi anche alle mie sorelle che a novembre ero distrutta quando l'hanno incarcerato, e nessuno se lo aspettava, neanche lui, e allora io potevo dire "bè non c'è lui vado a Brescia a cercarmi la droga", e lui spesso mi ripeteva "mi raccomando, non andare a cercare la roba, non buttare via la tua vita", "ma non preoccuparti" gli dicevo, e infatti non l'ho mai pensato" (Celeste, 36-39 anni). I brani seguenti, al contrario, mettono in evidenza il peso che il senso di colpa verso i propri genitori o le pressioni sociali subite nel proprio paese possono avere sulla maturazione della decisione di ricorrere in trattamento: 'E....poi a casa la situazione era tirata, io quando mi faccio arrivo a casa e so che ho fatto una cosa sbagliata e quindi son sempre li sulle spine, mio papà che mi dice "hai una faccia strana" e allora sono un po' stufa di `ste cose, dovergli mentire, il fatto di inventarmi sempre balle... L. quindi è quello che pensa tuo padre che ti frena dal continuare? E. sì, sicuramente. Sì, c'è stato un periodo che me ne fregavo, ma sì, mi pesa, anche perché siamo solo io e lui quindi mi pesa, è il legame più forte che ho a livello di parenti, ma anche di amicizie perché dopo quando inizi a usare la roba stai solo con gente che usa la roba, se non la usa ti sembra di esserlo come un pesce fuor d'acqua perché non sai cosa dire, perché tante volte tra tossici si parla di sostanze, si parla di schifezze, di carcere, di sbirri..." (Eveleen, 22-25 anni). "M.... è arrivato un certo punto che andavo, prendevo la sostanza e mi ritiravo e poi stavo male: avevo sensi di colpa verso i miei, pensavo che potesse succedermi qualcosa e buttare via la vita per una cosa così... insomma, rischi di giocartela tutte le volte... E anche verso i miei, un grandissimo senso di colpa, dopo chiaramente più vai avanti più sei messo male, e anche la gente inizia a guardarti in modo strano... e questo è un piccolo paese, non dico che ci si conosce proprio tutti bene ma di vista sì, e cominciavano un po' ad escluderti... per dire c'è stato un amico grandissimo che nel mentre io stavo in giro lui si era sposato, a me era dispiaciuto tanto perché dico "vabbè che ho una vita particolare, però poteva chiamare mia mamma e dire: se senti Morgana dille che mi sposo", era un caro amico e mi ha fatto male... Io ci ho pensato tante volte a questo... per me l'ha fatto perché non voleva che ci fossi per la vita che facevo, avrà avuto paura che... giustamente, eh! Non dico di no, avrà avuto paura che andavo nel bagno a far qualcosa al matrimonio e potessero succedere danni. Per farti capire, ero arrivata a un punto che ti allontani da tutto e da tutti, dopo la gente ha paura e sai mi sentivo veramente una cacchina, nei primi tempi. Ad un certo momento so che parlavo con dei ragazzi qui in paese e mi hanno detto che c'era un tipo che non mi è mai piaciuto e conoscevo anche poco, e sto ragazzo andava in giro a dire che "ah la Morgana non si tira più fuori, non ce la fa più, non si riesce più a mettere a posto" e li mi è scattata una cosa di orgoglio... come a dire "adesso ti faccio vedere io se non riesco a uscire". Però ecco diciamo che gli ultimi tempi che usavo sostanze stavo sempre male... avevo talmente tanti sensi di

colpa che ho detto "chi me lo fa fare!". Ora, se fai una cosa e stai bene, bene, ma se devo stare male no" (Morgana, 26-30 anni). Per coloro che sono pervenute al trattamento in seguito a segnalazioni per uso e possesso di sostanze stupefacenti o in seguito all'arresto, non si può certo parlare di una motivazione volontaria e di una maturazione spontanea della richiesta di aiuto. Vi è, però, da evidenziare un aspetto importante dell'esperienza della detenzione, ovvero che la maggior parte delle donne che l'ha subita, pur evidenziandone la durezza e l'elevata conflittualità che lo caratterizza al suo interno's, vi attribuisce un significato quasi salvifico, come se ci fosse la necessità dell'intervento di fattori esterni che bloccassero in modo coercitivo l'uso di eroina e delle attività correlate per la propria incapacità personale di porvi fine autonomamente; il contesto carcerario ha, dunque, rappresentato per molte una sorta di contenitore protettivo che ha favorito la disassuefazione e il distacco concreto dai network di relazioni del giro, contribuendo a ristrutturare la quotidianità senza eroina. L'astinenza coatta esperita in carcere, a volte con il sostegno di un trattamento psicologico c/o farmacologico del Sert, o il contatto con i servizi in seguito alla segnalazione possono contribuire ad una maturazione spontanea della richiesta di aiuto o della volontà di dismettere l'uso di eroina in momenti successivi: "H. intorno ai 20 anni sono stata 9 mesi in carcere, poi agli arresti in comunità L. e il carcere? Come è stato? H. molto molto duro, chiusa tutto il giorno, poi mi facevo dare farmaci per star tranquilla, ho fatto 2 giorni di astinenze poi mi sono fatta dare il metadone, non c'era l'infermiera perché sono entrata la notte in carcere, ma appunto non l'ho tenuto molto il metadone, una decina di giorni perché appunto mi coprivano con i farmaci e il metadone me lo sono tolta subito così [...] ti dico, volevo smettere però non riuscivo da sola e allora mi chiamo anche fortunata però non... mi è pesato insomma, perché ho sbagliato... L. dici che il carcere è stata la tua salvezza, quindi? H. sì, però non pensavo di sbagliare così grosso" (Hilary, 22-25 anni). "L. e il periodo del carcere? T. mi ha fatto crescere molto. Il carcere non è bello, ma se lo prendi in una certa maniera riesci anche ad apprezzarlo. Io non so, devo molto al carcere e alla comunità. È una cosa strana ma è vero, gli devo molto. In parte mi ha anche salvato, mi ha fatto capire tante cose; certo, stare in carcere per tanto, troppo tempo ti logora ancor di più, ma nel giusto riesci a capire anche determinate cose..." (Taylor, 22-25 anni). "K. io appena ho saputo di essere incinta ho smesso di farmi, però l'acquistavo comunque per il mio compagno e allora mi hanno fermato e quindi sono stata obbligata a venire al Seri, sennò non sarebbe successo niente... però è stato un bene da una parte perché mi son sentita subito familiarmente supportata dagli operatori L. con la segnalazione ti hanno fatto iniziare un programma?

K. no, avevo l'obbligo di fare i test delle urine con certe scadenze... mentre dopo mi sono seguita tutto quello che dovevo fare, ho fatto anche due comunità..." (Kate, 40-45 anni). Nella maggior parte dei casi analizzati, la prima esperienza di contatto con i servizi da parte delle intervistate non si è risolta con il raggiungimento di uno stato drugfree definitivo; ad eccezione delle 6 donne ascoltate nelle comunità terapeutiche, che erano alla loro prima esperienza di trattamento, e del caso di Phoebe sopra ricordato, le altre intervistate hanno avuto una vera e propria carriera di trattamento, molto frammentata e che si complessifica progressivamente all'aumentare dell'età, comprendendo esperienze carcerarie (che hanno interessato 19 donne), esperienze di ricovero residenziale (tentate anche più volte da ben 33 donne) e, per le più adulte, ricoveri in ospedale o in cliniche per forme alternative di disintossicazione. Si noti che l'insuccesso della prima esperienza di trattamento è dovuto principalmente alla mancanza di una reale interruzione dell'uso di eroina: alcune delle ragazze più giovani, come si è visto più sopra, mantengono con il servizio un rapporto quasi strumentale, dunque assumono la terapia per scongiurare il timore delle astinenze e, contestualmente, usano eroina quando ne hanno la possibilita16; la stessa situazione si è verificata con le prime esperienze di trattamento delle più adulte o che al momento dell'intervista erano inserite in un progetto terapeutico di Bassa Evolutività, precedentemente descritto come basato sulla scarsa motivazione al cambiamento dei pazienti. In questi casi, dunque, non si può tanto parlare di recidive nell'uso, su cui si rifletterà a breve, poiché non c'è stata una reale dismissione dell'uso di eroina e dello stile di vita associato. Questo comportamento può avere diverse motivazioni. Come nota Folgheraiter [2004], i tossicodipendenti spesso hanno un atteggiamento di tipo oppositivo verso le pressioni al cambiamento e le manipolazioni esterne, che a loro volta possono avere un effetto contrario all'insight sulla propria condizione o, comunque, innescare una forma di accondiscendenza più o meno passiva alle richieste esterne: "C. i miei pensavano di tenerlo in casa all'inizio questo problema, e invece non ci siamo riusciti e ci siamo affidati all'AFT e però non è servito a niente perché se sono qua... ma non è che proprio non mi è servito perché quando stavo male mi faceva bene andare li, però quando stavo bene poi... bè, c'è stato un periodo che mi è servito veramente perché avevo proprio bisogno di un sostegno, un periodo in cui... bè bevevo comunque ma almeno uso di sostanze non lo facevo. Poi quando ho cominciato con l'eroina ho ricominciato a non andare neanche li, allora io dicevo che andavo e che andava tutto bene, era solo un modo per tener tranquilli i miei genitori, mi sentivo davvero in colpa..." (Carolyn, under 21 anni). L'uso strumentale del servizio può seguire anche la scelta volontaria di entrare in trattamento; questo aspetto viene rilevato come frequente dalla letteratura internazionale [Rosenbaum 1981; Sterk 1999; Taylor 1993] e può essere attribuito, soprattutto per le più giovani, all'incapacità di abbandonare i network di relazioni amicali che si sono costruite intorno all'eroina: si è avuto

modo di affermare più volte che molte delle intervistate, pur riconoscendo la componente opportunistica di tali relazioni, se ne sentono legate per la possibilità di svelare questa parte della propria identità che deve essere nascosta alle persone che non appartengono al giro per evitare lo stigma che ne consegue. Inoltre, come si evidenzia dai brani che seguono, il ricordo degli effetti positivi della sostanza è ancora sufficientemente vivo da non permettere un reale abbandono dell'uso: "L. mi riesci che senso ha continuare a fumare con la terapia? J. con la terapia comunque solitamente io non vado a cercarla, se mi capita ok, la fumata me la faccio ma non me la vado a cercare... però ecco, la terapia è carina però dopo 6 ore comunque va giù, ti cala, e quindi... poi capito, come ti dicevo prima, io l'ho scritto anche sul mio diario: l'eroina è come un uomo o una donna, una gran puttana! Sai quando sei innamorato di una persona, proprio alla follia, che lo vuoi, lo vuoi disperatamente, proprio stai male, sei disperato, ti vien da strapparti i capelli perché lo vuoi proprio, non riesci a immaginarlo con un'altra ragazza, perché stai proprio male! Così è per la roba capito? È un amore che sei stra-mega-innamorato, ti rendi conto che è una persona che ti fa del male perché magari non ti vuole, però vaffanculo lo vuoi lo stesso, e poi quando ce l'hai stai strabene, e poi quando non ce l'hai più, e magari ce l'ha qualche altra persona, allora ti incazzi da morire e sei mega-gelosa" (Jodie, under 21 anni). "L. secondo te ci saresti arrivata (al buco, n.d.r.) se non fossi venuta qua? J. no, anche perché tante volte anche quando fumavo mi dicevo "oddio che cazzo sto facendo", cioè... comunque adesso il fatto che vengo qua è già un passo secondo me, se una volta fumavo ogni giorno adesso magari capita neanche una volta a settimana, quindi è già qualcosa L. e perché ricapita? Voglio dire, venendo a prendere la terapia credo che la crisi di astinenza non la senti, e quindi .a livello fisico stai bene... J. ma mentale no... a me mi ha preso tanto mentalmente la roba L. cos'è che ti prendeva così tanto? J. il desiderio di fumare, proprio, cioè a un certo punto era anche un passatempo, cioè "che cazzo faccio? Ok, fumo"... per noia, fumavo per noia [...]. Adesso oltre che per noia... cioè io adesso c'ho voglia di fumare ad esempio, perché io adesso so che non farò un cazzo tutto il giorno e quindi ho voglia di fumare però non posso continuare a fumare perché sennò non smetto più... soprattutto mi capita magari se litigo di brutto con il mio ragazzo, se mia madre sta male, mio fratello è una testa di cazzo, e tante cose che si mettono insieme e mi fanno dire "bon basta" (Jacquelyn, under 21 anni). Altre donne, più adulte di età, evidenziano le loro capacità, maturate nel tempo, di gestire autonomamente l'uso di eroina in concomitanza all'assunzione della terapia sostitutiva solo ed esclusivamente per gli effetti che la sostanza concede: "L. ma adesso perché mi dici "mi capitano dei periodi in cui vado e mi faccio comunque", non

sei riuscita a staccare definitivamente? C. io penso che la roba te la sposi, una volta che la conosci e che ti impesti per bene e che ci vivi degli anni insieme e che te la metti proprio addosso come una seconda pelle io sono convinta che non te la stacchi più. Per esperienza mia personale e di tante altre persone è una cosa bella che ti fa stare bene, ed ogni tanto ti capita che dici vado e mi faccio una pera. Non necessariamente perché stai passando dei brutti periodi, anzi a volte stai passando dei periodi bellissimi e dici "cazzo, manca solo una pera e sono al top del top". Per cui non necessariamente devi stare male, per dire, e ricominci a farti, uno quando si fa si fa perché gli piace farsi, non perché ha dei problemi, perché li raddoppi facendoti perché son soldi, per un sacco di motivi... Io adesso prendo il metadone, il metadone non ti dà nessun effetto, non è che ti sballa... L. per lo meno non puoi dire con il metadone "adesso sto male, vado a farmi perché sto male", giusto? C. no, vai a farti perché hai voglia di farti, perché ti piace andare a farti non perché stai male. Non c'è nessuno che sta male con il metadone... è una voglia, è proprio come uno ha voglia di mangiarsi un vasetto di nutella, io ho voglia di farmi di eroina. Poi magari impari a gestirtela un attimino, io ho imparato a gestirmela questi ultimi anni, dopo anni di comunità e più che altro so che ci sono dei punti che non posso oltrepassare se voglio mantenermi il mio lavoro, la mia casa, la macchina, e poter andare a sciare, e potermi fare la vacanza d'estate; so che oltre quel limite non devo andare, e riesco a gestirmelo perché c'è il metadone, perché so che se capita che mi impesto ho comunque il metadone e sono a posto. Il metadone in questa cosa qua serve, sennò sei rovinato" (Charlotte, 40-45 anni). In tutti i casi, l'entrata in trattamento costituisce «comunque una importante rottura nei meccanismi di negazione totale [...], una caduta delle difese per garantire la propria immagine di persona normale. E l'ammissione che un qualche problema esiste, che si è tossicodipendenti, e questa è senz'altro una tappa fondamentale per sbloccare il processo di cambiamento» [Folgheraiter 2004: 103]; anche nei casi in cui si verifica una protrazione delle condotte d'uso, la terapia farmacologica permette di ridurre la frequenza d'uso e i rischi ad essa correlati [Rosenbaum 1981], stabilizzando lo stile di vita come premessa - anche se non indispensabile per progetti alternativi e, soprattutto, per la ricostruzione di un'identità e un ruolo sociale alternativi. 3. Le esperienze di trattamento 3.1 Il Sert e le ambivalenze del farmaco Rosenbaum [1981] sostiene che i Sert costituiscono una sorta di ponte che connette i due mondi che costruiscono la realtà delle tossicodipendenti [Friedman e Alicea 1995], ovvero il mondo dell'eroina, con i suoi ritmi e le sue relazioni esclusive, e il mondo della vita convenzionale; allo stesso modo, il farmaco sostitutivo costituisce nel loro immaginario un modo per riprendere il controllo di sé e dell'uso ingovernabile della sostanza [Friedman e Alicea 1995]. Come sottolinea il brano seguente, recarsi al servizio per assumere la terapia diventa una pratica

routinaria [Rosenbaum e Murphy 1990] che si sostituisce, o in certi casi si affianca, alle precedenti routine caotiche che gravitavano intorno alla sostanza: "E. perché penso che tipo qui al Seri si crea una sorta di comodità, no? Tu arrivi qui, ti danno il tuo metadone, se vuoi lo alzi, se vuoi lo scali, ce l'hai sempre, e quindi diventa comodo, ti abitui e lo prendi senza pensare che comunque è una sostanza anche il metadone, non è che sia una cavolata, anzi a volte è più pesante un'astinenza da metadone perché è puro, fatto in laboratorio, è una sostanza chimica mentre la roba che trovi in giro è tagliata e ci sarà un 10% di principio attivo. Quindi a livello di astinenze, così, ti fa quasi peggio il metadone, e però... mi son persa il discorso... ho una testa io... no quindi stando al Seri si crea una certa comodità e non te lo togli mai, non ti viene neanche voglia di scalarlo perché dici "ma sto bene così", mentre quando devi andare a farti gli sbattimenti magari ne recuperi poco e ne usi poco... a volte penso sia meglio così, però sicuramente non risolvi il problema. Io ho provato un paio di volte, ma alla fine son qui lo stesso. E un altro problema, comunque sta comodità ce l'hai sempre, e quindi a volte dici "vabbè vado a farmi anche se ho la mia terapia", quindi inizi a usare la roba e anche la terapia, e liti infogni ancora peggio" (Eveleen, 22-25 anni). Su questi aspetti si è discusso molto nel corso dei colloqui in quanto, come si è anticipato, la richiesta di aiuto al Sert è principalmente farmacologica tanto che, ad eccezione di una sola donna, tutte le intervistate si sono sottoposte a terapie con farmaci sostitutivi in qualche momento della loro carriera tossicomanica e che questo è l'argomento principale delle discussioni quotidiane che si creano tra gli utenti nel giardino del servizio. Le posizioni delle intervistate circa gli effetti positivi e negativi della cura farmacologica sono molto eterogenee e presentano diverse ambivalenze: il punto critico, nella loro rappresentazione, risiede fondamentalmente nel conflitto tra l'idea che sia impossibile smettere di usare eroina senza un aiuto farmacologico, poiché si dovrebbe passare attraverso l'esperienza dell'astinenza, e le conseguenze a lungo termine che il farmaco può avere, ovvero l'instaurazione di una ulteriore dipendenza. Le diverse posizioni sono influenzate, in particolar modo, dall'età e dalla lunghezza della carriera tossicomanica, soprattutto in riferimento alle recidive esperite che hanno il potere di confermare la propria incapacità di rimanere astinenti senza la terapia e le proprie paure legate all'esperienza dell'astinenza. Dunque, le ragazze più giovani, che non hanno ancora avuto modo di esperire astinenze e recidive, puntano più spesso sugli aspetti positivi del farmaco, ovvero la mancanza del dolore fisico per l'astinenza dall'eroina (pur in presenza di un forte impulso psicologico alla sua assunzione) e la possibilità di condurre normalmente le proprie attività quotidiane: "J. per ora non me l'ha abbassata la terapia, io lo volevo ma il medico non vuole, quindi continuerò finché... cioè il dottore non me la dà non per tenermi dentro ma lo fa per me, molti dicono "ah il metadone è peggio perché ti dà dipendenza anche quello" però se lo danno ci sarà un motivo, se no non lo davano... Anche mia sorella continua a dirmi "ah il metadone il metadone", e allora "comprami la roba, compramela tu e io fumo la roba se il metadone non

va bene", e invece non voglio... poi sto bene, va bè all'inizio la prima settimana è stata un po' così, continuavo a fumare poi, perché loro iniziano a dartene poco finché non prendi quella dose che ti tiene tutto il giorno. Poi adesso non c'è più la roba, è diverso rispetto all'inizio, adesso sto bene, posso anche stare fino a domani senza prendermi il metadone, però insomma è iniziata e piano piano si risolve. Il tempo che serve... può essere un mese come un anno" (Jasmin, under 21 anni). Gran parte delle donne più adulte enfatizzano, al contrario, le difficoltà di staccarsi definitivamente dal farmaco per il timore di esperire conseguenze fisiche negative, dunque per le astinenze che vengono descritte come più lievi di quelle derivate dall'eroina ma più protratte nel tempo. Questo atteggiamento nei confronti della terapia viene definito da Rosenbaum e Murphy [1990] come il "momento del disincanto", poiché se da un lato sono facilmente percepibili i successi ottenuti nel controllo dell'uso di eroina, dall'altro lato iniziano a farsi strada le paure legate all'instaurazione della dipendenza dal farmaco. Vi è da evidenziare che tali paure dominano le conversazioni degli utenti del Sert, nelle quali spesso si sentono frasi come queste: "quando entri al Sert non ci esci più" o "il metadone non te lo levi più", o ancora "almeno l'astinenza dall'eroina nel giro di 3-4 giorni si risolve, quella da metadone ti dura tutta la vita", ad indicare le difficoltà che essi incontrano nel risolvere questo loro attaccamento al farmaco'. È ipotizzabile che l'apprendimento e l'interiorizzazione di questi discorsi influenzi, in qualche misura, le aspettative e gli atteggiamenti nei confronti della sostanza (il set, per dirla alla Zinberg [1984]) contribuendo a rendere difficoltoso il processo di affrancamento dalla sostanza: "J.Alla fine non so quale sia meglio, io che ho passato tutte e due varie volte (n.d.r. astinenze da eroina e da metadone) sinceramente ho sofferto meno con l'eroina che non con il metadone ad usarne poco. Quando lo prendi per anni, per anni, per anni penso ti entri nel DNA e toglierlo tutto è abbastanza difficile. E vero che ti dà anche una mano, se uno vuol recuperare, lavorare, tenersi il lavoro intanto che sei in tossicodipendenza, il metadone ti aiuta a tenerti il lavoro [...] ma dovere comunque continuare a venire qui è come avere una catena perché sei legato ad un posto che devi per forza frequentare allora diventa una vita semi libera" (Joy, over 45 anni). "N. adesso devo togliermi il metadone, e quella la vedo brutta... il metadone ti entra nelle ossa18, per cui ora che il tuo corpo sia tutto pulito ce ne passa, se con l'eroina in 34 giorni metti il male ti passa, con il metadone anche se è tutto molto più leggero, non è che stai male ma comunque è come fossi sempre influenzata, stanca, ti manca la voglia di fare, hai sempre sonno ma non dormi di notte e non è il massimo, sai... poi lavorando ancora peggio, perché se uno non lavora dici "vabbé non dormo di notte e dormo quando vien sonno", lavorando non lo puoi fare... non è facile... è quello, perché non è che stai male, è proprio quello strascico che ti lascia di apatia, di stanchezza" (Natalie, over 45 anni). "A. io sono ancora in metadone... però, in affidamento, perché io me lo tengo il metadone perché io sto bene con il metadone: perché dovrei stare male? Io ho già provato a levarmelo e

sono stata male, non male, di più! E siccome hai la possibilità di stare bene senza eccedere... cioè il metadone lo prendi per stare bene, hai un controllo di te stessa, cioè non lo prendi per sballare, io lo prendo per stare bene e per fare tutte le mie cose con lucidità [...]. Piuttosto che levarmi il metadone e che mi venga voglia poi di farmi l'eroina... ma mi tengo il metadone fino alla morte, che sto bene, non spendo niente, vivo bene, non ho nessun effetto collaterale: ma perché me lo devo levare?" (Agnes, over 45 anni). Tra le intervistate più adulte, vi sono molti casi di donne che assumono da diverso tempo dosaggi molto bassi del farmaco, che se da un punto di vista strettamente clinico si rivelano privi di un'efficacia terapeutica specifica dal loro punto di vista sono indispensabili per affrontare le giornate [Friedman e Alicea 1995]. Constatando che questo atteggiamento è frequente nell'utenza del servizio, e che spesso le singole situazioni si evolvono verso l'uso cronico della sostanza sostitutiva, un'operatrice del Sert riflette sul significato simbolico che il farmaco può assumere per un tossicodipendente, sottolineando che nei pazienti "storici" può costituire un medium della relazione con i professionisti socio-sanitari: "Penso che ci sia molto questa componente che definirei di "oggetto transizionale" del Sert; spesso il Seri diventa una seconda famiglia per loro, cioè questa cosa del trasfert istituzionale che si crea... il paziente qua ha una serie di riferimenti: infermieri, medico, psicologo, assistenti sociali, ora gli operatori dell'unità di strada... per certe persone si creano delle relazioni veramente molto significative, soprattutto per coloro che non hanno rapporti altrettanto significativi all'esterno, quindi il farmaco crea la situazione per protrarre questo contatto, costituisce un po' la scusa, il medium... il farmaco come la terapia psicologica. Tante volte è come se però loro non potessero dire che hanno questo bisogno di relazione, e quindi utilizzano questo oggetto concreto per mantenere nel tempo questa relazione. Sarebbe importante che si parlasse di più, anche tra noi operatori, di questi aspetti simbolici del farmaco, fare un lavoro più specifico sui significati che il farmaco veicola" (Roberta Ferrucci). Nei racconti delle intervistate, questa funzione relazionale del farmaco non emerge in modo esplicito mentre vengono enfatizzati gli aspetti che riguardano il proprio rapporto personale con la sostanza. In questo primo brano, Angie motiva il mantenimento di dosaggi minimi del farmaco con la paura di avere conseguenze sul piano fisico, pur rendendosi conto che tale paura è dovuta ad una sua dipendenza psicologica e all'incapacità di affrontare la situazione: "A. comunque... sono a dosaggio bassissimo, che penso che più basso non possa esserci, però... questa è la mia paura, per esempio, di avere una conseguenza fisica più pesante dato il periodo prolungato, no? Di questa terapia insomma, e quindi a me fa paura... la voglia ci sarebbe di dire "mi libero da questa situazione che comunque mi pesa" però dall'altra parte è la paura che mi frena, e dico "dovrei trovarmi in una situazione dove veramente decido e porto fino alla fine la mia idea di smetterla". Tante volte l'ho pensato però appunto... a un certo punto abbiamo cambiato farmaco appunto per alleviare casomai in un futuro il danno fisico e l'avevo fatto con la minima astinenza, insomma, perché per cambiare da un farmaco all'altro ci sono procedure da fare, e quello l'ho fatto, ho cambiato... però appunto la paura di star male dopo è quello che poi ti frena, spero di prenderla prima o poi come decisione ma il

distacco credo che è più psicologico perché il fisico... c'è la paura e ci sono varie situazioni che ti portano a pensare di soffrire, in realtà finché non provi però non lo puoi sapere, è una cosa solo psicologica, il pensiero di stare senza" (Angie, 40-45 anni). In altri casi, il farmaco viene espressamente investito dalle intervistate di un significato di sostegno psicologico. Il primo attribuisce ad una serie di componenti caratteriali il bisogno di assumere sostanze, metadone compreso: "K. eh ma alla fine è così, è il metadone che mi fa andare avanti... lo vedo sai da cosa? Se ho il metadone io riesco anche a stare a casa da sola tranquilla, ma ho visto che quando ho iniziato a scalarlo io non riuscivo a stare neanche a casa quella sera, ero di un nervoso... e non è perché ero in astinenza... io son così, sono irrequieta, anche da piccola passavo dall'apatia totale che i miei mi dicevano di andare fuori, a non essere capace di star proprio mai a casa insomma... divento proprio insofferente, allora vado fuori e cerco sempre qualcosa, ho bisogno di prendermi due birre, come se non fossi proprio capace di starmene in pace con me stessa... non so come dirtelo... se sono imbottita di metadone io sto a casa, tranquilla, faccio le parole crociate, guardo la tv, sennò se non ce l'ho, porco cane, ho dentro sta roba che non so, non so cos'è, mi viene da dire ansia ma secondo me va un po' oltre all'ansia, che devo assolutamente spegnere... anche sul lavoro quando ho i periodi così io sono considerata una schizzata, una sclerata, lo vedono gli altri che non sono giusta, che non sto bene con me, loro ovviamente non sanno di altro ma mi considerano di certo una fuori di testa perché sentono che c'è qualcosa che non quadra. Però bo" (Kimberlee, 36-39 anni). Morgana, con significati molto simili, considera la terapia sostitutiva una sicurezza quotidiana, una sorta di "stampella" che può evitare, tra l'altro, di ricadere nell'uso di eroina: "M. forse è anche la paura di non star bene, poi il male fisico passa non è che stai male a vita fisicamente, però è proprio una cosa che... è una tranquillità che hai, magari pensi che senza quella non ci riesci e non ce la fai, ho quella e so che con quello posso farcela [...]. Per me personalmente è anche un po' paura di non farcela con le mie gambe, sapere di avere un appoggio [...] E proprio la paura di dire "non son capace, non ce la faccio, non sono in grado di..." secondo me è quello... non so se è una paura o una realtà, però ho smesso di farmi, quando ho smesso ho sempre preso qualcosa, non sono mai stata senza prendere niente, per me personalmente ho proprio paura di non essere capace di vivere con le mie capacità e allora ho sempre l'appoggio, una stampella, un qualcosa che mi fa dire "ah sì, ho quella" [...] Tutte le volte che penso di non prenderla alla fine la riprendo lo stesso. Anche perché ho paura di ritornare ad avere voglia di farmi" (Morgana, 26-30 anni). Felicia sottolinea il lungo processo che l'ha portata ad accettare questa ulteriore forma di dipendenza - dal farmaco e dal servizio - e la sua incapacità di porvi fine: "F. a dir la verità io sono adesso a un dosaggio così basso che se decidessi di scalare arriverei proprio alla fine. Ma a un certo punto, non so, è come se prendessi un antidepressivo, cioè oramai... una volta non stavo tranquilla a prendere la terapia, mi vincolava, non so, e la dottoressa mi diceva "ma vediti come un diabetico che deve fare insuline o come uno che deve farsi le dialisi", ma io ho fatto fatica ad accettare questa cosa, che avevo bisogno per una

serie di cose che mi han spiegato... le cellule del cervello che sono abituate, e tutti quei discorsi lì insomma19... evidentemente dopo ho un po' accettato sta cosa L. non lo accettavi perché non volevi essere vincolata a prenderti tutti i giorni un farmaco? F. eh, sì, perché alla fine ero sempre dipendente da qualcosa, non cambiava nulla rispetto a prima. Poi l'ho presa appunto come una cura antidepressiva, cioè come uno che si cura la depressione e si prende gli antidepressivi: io prendo sta roba. Anche se io vengo adesso una volta a settimana, comunque non sono libera, non sono una persona libera perché ho questo impegno, e non riesco a togliermelo, non ci riesco. E non è che ho paura di ricadute perché è da tanto che non la uso, ma più per il fatto che mi sento sempre che ho una parte di me che è malata perché ha bisogno di quella cosa, per non aggravarmi di più... e dico "uno che deve dormire prende la pastiglia di quello, io per guarire mi prendo quell'altra pastiglia", cerco di... insomma non è facile, perché dove vado? Non ho... non riesco a levarmelo proprio dalla testa perché inizio a pensare che magari non riesco a dormire, magari quel poco che riesco a fare le cose con quella dose poi non lo riesco più a fare perché ne risento, può darsi che ancora non ho qualcosa di così forte e allora non è il momento... intanto aspetto e vado avanti... quello mi spaventa: e se non dormo? Se vado in depressione? Cioè c'è tutta sta... sì, forse le paure ci sono a lasciarla..." (Felicia, 40-45 anni). Altre delle intervistate più adulte, infine, fanno riferimento al valore della relazione instauratasi nel tempo con i professionisti socio-sanitari, pur non legandola esplicitamente alla terapia farmacologica. Nella maggior parte dei casi, come ha evidenziato più sopra Ferrucci, si tratta di donne con un passato di forte isolamento relazionale e stigmatizzazione che hanno trovato nel Sert un punto di riferimento solido (e quotidiano). Nei brani che seguono, vengono enfatizzati aspetti diversi dell'importanza della relazione con i professionisti sanitari: nel primo brano, Kate assimila gli operatori del servizio ad una "famiglia" a cui si può rivolgere nei momenti di sconforto e che costituisce un deterrente alla ricaduta nell'uso; nel secondo, Sibilla sottolinea che il Sert rappresenta una forma di controllo esterno sulle possibili recidive, data l'attrazione che ancora prova per la sostanza; Kelly, nell'ultimo brano, evidenzia il suo bisogno di poter trovare negli operatori il conforto emotivo necessario ad evitare un ritorno all'eroina: "K. io ho puntato su questo, sulla sfida e sulla relazione, sì. Perché prima ero molto più "ah mi arrangio, faccio tutto io", io mi son sempre arrangiata, anche se dopo vai giù di testa... però capito, ora il fatto di avere queste persone qui a cui posso chiedere consigli, per me è importante, il fatto di sapere che ci sono, che rispondono al telefono, per me è tanto importante. È tra virgolette la famiglia che non ho mai avuto. Questo mi ha fatto... per non deludere tra virgolette la mia famiglia, se non trovo la forza per me cerco di averla per la mia famiglia. O comunque mi rivolgo alla famiglia in caso di... in caso io mi senta particolarmente giù, o che son particolarmente su, cioè sento che faccio parte di qualcosa, non che sono un essere isolato. Il senso di appartenenza è tanto L. prima non provavi questo senso di appartenenza? K. certo, ce l'avevo nella piazza, io appartenevo alla piazza, quello era il mio mondo, però

uscendo da quel mondo ti trovi spiazzato, non è così facile..." (Kate, 40-45 anni). "S. A me mi aiuta tanto il Seri, non prendo nessuna terapia ne niente ma so che è una base sicura, che se faccio una cazzata tanto viene fuori dall'esame del capello, no? A parte che lo direi, non mi darei tanti spazi adesso come adesso però insomma... anche perché non è così facile, cioè non è da dire che ne esci e bon; tu sei a posto e ok, ma ti dico che comunque non c'è roba più bella dell'eroina [...]. Se frequento ancora il Seri è perché so che non ne fuori ancora del tutto completamente..." (Sibilla, 40-45 anni). "K. non so, forse era anche un discorso proprio di testa, io mi sono accorta molte volte che non era il fisico che chiedeva il metadone così, ma era la mia testa... magari il metadone mi faceva stare come con l'eroina e quindi l'aiuto che chiedevo io era "fatemi star bene, perché se non mi fate star bene voi mi trovo la sostanza", cioè, come fanno tutti i tossici alla fine... quindi in quel momento era così, io all'inizio cercavo di venire sempre a colloquio con *, dove io comunque venivo abbastanza tranquilla perché sapevo che venivo in un posto dove potevo dire tutto, ok? Cioè potevo dire "mi sto drogando" e quello che avevo davanti poteva solo prendere atto della situazione e cercare di lavorare con me, di aiutarmi, di farmi compagnia, di dirmi due parole per farmi uscire fuori magari qualcosa che non mi facesse andare subito a riprendermi la sostanza, insomma... perché ovviamente... cioè ne è passata di acqua sotto i ponti insomma" (Kelly, 36-39 anni). 3.2 La comunità terapeutica Ben 6 intervistate su 10 hanno provato almeno un inserimento comunitario nel corso della loro carriera tossicomanica; nella maggior parte dei casi, si tratta di percorsi molto brevi (anche di pochi giorni), intrapresi spesso per volontà dei genitori o come forma di detenzione alternativa al carcere. Come si è anticipato, spesso il ricovero comunitario viene considerato dai tossicodipendenti (e dai familiari) come l'unica possibilità di slegarsi dai network di relazioni che gravitano intorno all'eroina e dalla sostanza, e questa rappresentazione rimane piuttosto stabile nel tempo, tanto che diverse intervistate hanno ripetuto più volte l'esperienza comunitaria nel corso della propria carriera; in quest'ultimo caso, le destinazioni scelte sono sempre diverse in quanto il fallimento precedente viene spesso attribuito alle modalità organizzative o all'approccio terapeutico della struttura, oltre che ad una fase del ciclo di vita nella quale non si sentivano ancora pronte al cambiamento [Sterk 1999]. Anche in questo caso, le ricostruzioni del periodo comunitario risentono molto dell'età e delle rielaborazioni successive di tale esperienza; nel ricordo, infatti, gli aspetti più duri che hanno caratterizzato questo periodo perdono la loro risonanza emotiva e vengono ridimensionati anche alla luce dello stato attuale di normalità raggiunta. Una prima criticità viene evidenziata da Emily, entrata in comunità ancora minorenne per volontà della madre, che non la autorizzava ad iniziare una terapia metadonica e vedeva questa soluzione come l'unico modo per levare la figlia dalla vita di strada, interrompere la sua relazione sentimentale con un ragazzo tossicodipendente e, a detta dell'intervistata, non essere costretta a riprendere la dura convivenza con la figlia; la criticità si riferisce alla rigidità delle regole comunitarie, resa più complicata dalla difficile

convivenza con tossicodipendenti molto più grandi di età: "E. a parte il fatto che erano tutti adulti e avevo 17 anni e mi trattavano come... "ah, è arrivata la bambina... ma quanto ti fai?!" e tante volte litigavo e dicevo "fate schifo, voi siete da buttare nel cesso, io almeno a 17 anni ho capito e voi a 40 anni siete ancora così", lasciamo perdere... li, per una o per uno che ha 40 anni, come quelli che stavano dentro, loro si trovavano bene. Ti fanno lavorare tutto il giorno ma non era tanto il lavorare, ero contenta di lavorare così non pensavo, non c'è nessuno che ti assista, nemmeno un psicologo non c'è nessuno, parli con qualcuno... dici qualsiasi cosa sbagliata e ti tolgono le sigarette... poi ero anche vegetariana e ancora di più erano pesanti con me e avevo bisogno di una doppia terapia perché ero sia anoressica che tossicodipendente, erano ancora più severi con me... L. più severi perché avevi più problemi? E. sì, avevo un doppio trattamento, e allora erano ancora più severi; il problema quale era, è che se anche mi fai lavorare 10 ore al giorno ma mi proibisci di parlare con le persone al lavoro... ti fanno lavorare 10 ore e io non posso parlare con il vicino, guai, se tu parli via una sigaretta... e una volta stavo cantando una canzone mi hanno tolto le sigarette tutto il giorno e mi hanno proibito di mangiare e mi han detto "se vuoi mangiare oggi mangi la carne". Ma scusa "se io non voglio mangiare la carne perché sono vegetariana e non mangio la carne?", "ma questa è una testa da tossicodipendente" e sì, ok, va bene e dopo 2 mesi non ce l'ho più fatta... L. ma cosa vuol dire "hai la testa da tossicodipendente"? E. ah non so, me lo dicevano loro "hai un testa da tossicodipendente"... In più eravamo in 15, su 15 persone non mi trovavo bene con nessuno e non perché ero chiusa io ma perché chiusi loro, io ero più piccola e invece di aiutare me che ero più piccola..." (Emily, under 21 anni). L'insofferenza alle regole comunitarie, che costituisce un leit motiv di gran parte delle ricostruzioni delle intervistate, viene enfatizzata nei brani seguenti da Cristine e da Felicia. In entrambi i brani, queste donne affermano che la difficoltà principale era di sottostare a norme di comportamento di cui non riuscivano a comprendere il significato e la coerenza con gli obiettivi della riabilitazione dalla droga [Sterk 1999]: in generale, infatti, se le intervistate riconoscono e condividono la necessità di una loro risocializzazione, ovvero l'importanza di reimpostare se stesse, le proprie relazioni e la propria quotidianità su valori e regole di vita diverse, dall'altro lato ritengono che spesso le regole imposte non siano funzionali al raggiungimento di tale obiettivo ma costituiscano, invece, una sorta di punizione per il proprio passato. Nel brano di Cristine, ad esempio, viene fatto esplicito riferimento alla non condivisione del divieto di intrattenersi con i ragazzi, pur nella comprensione che tale divieto risponde alla necessità di evitare l'instaurarsi di relazioni sentimentali che possono interferire con il percorso di recupero; altre intervistate raccontano, invece, di piccoli divieti quotidiani che non possono avere alcuna ripercussione sull'esito del trattamento, come il divieto di cedere il proprio cibo o le sigarette a disposizione ad un compagno. Felicia, inoltre, precisa che la situazione di temporaneo isolamento restituisce solo l'illusione del proprio affrancamento dall'eroina, fatto di contesti e relazioni che si ripresentano al rientro nella società:

"C. per me è incompatibile per il mio carattere, perché io non accetto le regole, soprattutto se sono cose in cui io non credo e in cui non riesco a vedere un senso, in certe situazioni mi si sconnette proprio il cervello... e lì devi stare con altre 20 persone quindi non è che ti puoi permettere di far la matta... alla fine mi hanno mandato via sempre per cazzate, cioè cose che per me non erano cazzate perché io proprio non riesco a... devi stare per forza con gente con cui proprio non va, cioè ad esempio devo dormire con una che magari mi ha tradito20 o che il giorno dopo mi tradisce, non che mi ficca il coltello ma anche una stronzata io me la vivo come una roba, cioè capito come? Più o meno è così la comunità, un po' perché me la cerco io, ma è così; cioè io arrivo, me ne sto un po' per i cazzi miei finché non mi rompono i coglioni, che mi obbligano a star con gli altri per forza, e quando mi obbligano a star con gli altri per forza sto sempre con quei tre che bene o male hanno la mentalità come la mia, finché succede qualcosa o facciamo qualcosa che non va e... non so, in comunità le dinamiche sono un po' strane, la gente diventa... e non è per come è impostata tanto la comunità perché io ho sempre lavorato, mi è sempre piaciuto fare attività, poi se non avevi voglia di parlare con gli strizzacervelli non è che ti facevano parlare per forza... però dopo magari arrivava la sera e non so, per dirti una cazzata, io stavo sempre con poca gente e parlavo sempre solo con ragazzi (ecco perché mi piace molto di più stare con uomini che con ragazze) e in comunità una cosa che non vogliono... e c'han ragione perché magari loro hanno paura che si creano coppie, robe così... però se io parlo con un ragazzo che dentro di me so che non ci andrei mai, e loro mi dicono che non ci devo stare non lo accetto capito? Dopo avran ragione loro per le loro regole, ma se io dentro di me mi sento che non sto facendo niente di male e che non è così, per me ho ragione io [...]. Perché alla fine non sono neanche... però ci sono cose che mi fanno perdere la brocca, e in comunità ce ne sono tante, perché si creano spesso situazioni così" (Cristine, 26-30 anni). "F. ma sì, perché poi avevo cominciato a frequentare il Seri che ti apre altre cose perché ti ricoveri in ospedale, ai tempi si facevano i ricoveri in ospedale, quindi, e li forse anche i miei hanno cominciato a capire la mia situazione, e questo mi ha permesso di avvicinarmi un po' di più e di far capire che cosa stavo vivendo, ma era tardi, se se ne accorgevano prima... poi dopo son subentrate le comunità, la voglia di tirarsi fuori c'era però non mi son servite a niente, cioè non che non mi son servite ma anche lì ero insofferente, non mi andava bene quello che mi facevano fare, il mio carattere ribelle anche lì faceva fatica ad adattarsi. Non ti facevano fare delle cose, le regole erano rigide, e per me pensavo che non mi sarebbe mai servito un percorso così, non trovavo il senso di... non so, "non puoi mangiare cioccolata", non trovavo il senso di tante cose, optavo di più per un sistema di crescita dove io sarei subito stata messa alla prova per imparare a gestirmi, in quel modo invece questa costrizione mi stringeva troppo e su di me sapevo che non avrebbe funzionato e dovevo trovare altro, anche perché è un mondo artificiale che ti isola dall'esterno, ma è all'esterno che poi devi vivere, quando torni fuori becchi sempre la gente di prima non è che loro scompaiono" (Felicia, 4045 anni). Il brano successivo proviene dalla storia di Brooke, entrata in una comunità basata sulla psicoterapia di gruppo per estinguere alcuni mesi di una pena scontata parzialmente in carcere. La letteratura internazionale sostiene che questa tipologia di trattamento si rivela spesso un'esperienza troppo dura ed inefficace per il genere femminile [Sterk 1999] poiché acuisce i

sensi di colpa e la vergogna, maggiori rispetto a quelli provati dagli uomini per il doppio stigma sulla tossicodipendenza femminile. Nel caso di Brooke, l'ingresso in questa comunità ha significato una spoliazione molto traumatica della propria identità in quanto ogni aspetto di sé fisico, psicologico e relazionale - e della propria storia veniva messo in costante discussione, fino a condurla ad un tentato suicidio. In altri brani dell'intervista, Brooke racconta che oltre alla psicoterapia di gruppo il metodo comunitario le aveva imposto una serie di norme di comportamento che l'avevano trasformata anche sul piano della sua immagine sociale, come l'impossibilità di truccare il viso, di acconciare i capelli, di vestirsi come era abituata a fare e di mostrare con questi gesti la propria femminilità; ogni aspetto della sua infanzia, anche i ricordi più sereni del rapporto vissuto con i genitori, è stato sostituito con il sospetto che questi ricordi fossero falsi e che sono state proprio queste relazioni a portarla alla droga e alla tossicodipendenza. Si noti che, al contrario, Brooke non può proprio essere definita tossicodipendente, poiché la sua storia è fatta principalmente di abuso di cocaina, reiterato per pochi mesi e comunque limitato a determinati contesti aggregativi, e di una breve parentesi di uso di eroina subito cessata; tra l'altro, l'uso di droghe era funzionale ad uno stile di vita ricercato solo ed esclusivamente per le ricadute positive nell'ambito delle relazioni sociali, ovvero il fatto che essendo una spacciatrice di una certa fama, poteva in questo modo sentirsi una leader ed essere sempre circondata da persone che contavano su di lei. Il percorso comunitario si è, poi, concluso con la completa sostituzione di questa verità con quest'altra verità imposta dall'esterno, che rinveniva la causa ultima del ricorso alle droghe nelle relazioni familiari e nell'infanzia: `B. quando sono arrivata in comunità, li sono arrivati i casini, è come se mi avessero tolto da sto limbo in cui ero; quando sono arrivata ho detto "io non ho problemi di nessun tipo" e sono andata al colloquio con la direttrice subito solo per evitarmi il carcere perché gli avvocati mi avevano detto di far così, e lei mi fa "ma tu hai problemi con la tua famiglia?", "Io?" le ho detto "io non ne ho problemi" perché in realtà non avevo problemi, mi sono stati vicino, non vedono l'ora che vado a casa... cioè dove sono i problemi? E per 2 mesi mi hanno lasciato stare; andavo ai gruppi, facevano i gruppi dove massacravano le persone, facevano i dinamici dove tutte le persone ti si scagliavano addosso "e tu sei un drogata, tu hai fatto questo, tu hai fatto quello"; e a me non diceva niente nessuno, io stavo in silenzio perché non avevo da dire niente a nessuno, mi facevano un po' schifo tutti, ero un po' messa sul piedistallo, stavo lì e guardavo perché dicevo "che ci faccio qui?". Mi pareva sai di esser in vacanza, mi facevano assistere a delle cose che facevano pietà, e drammi... cioè loro lo fanno apposta, ti fanno assistere a delle cose che ti fanno abbassare le tue difese e poi hanno cominciato anche con me a fare... mi hanno demolita, cioè io ero una macchina da corsa e mi hanno tolto le gomme, cofano, i sedili... io non sapevo più chi ero... ho tentato di buttarmi giù dalle scale della comunità, sono andata all'ospedale e ho detto "o io ero pazza prima e non me lo hanno detto o sono pazza adesso". Ero andata nel pallone, cioè mi hanno messo 3 mila dubbi: chi ero, cosa ho fatto, ma veramente allora sono una tossica anche io... Non avevo più un'identità, ero disperata e infatti mi sono buttata giù dalle scale. E li volevano cambiar di comunità perché dicevano che era una comunità troppo forte, perché era una comunità terapeutica, non di lavoro [...]. La prima volta che sono uscita dalla comunità con mia sorella, che cominciavo a

fare i rientri, quindi le prime uscite, sono uscita con mia sorella e la tenevo talmente stretta al braccio che mi ha detto "ma molame te me fai venir il braz blu". Con il terrore che mi fermasse qualcuno o che mi chiedesse... L. chi eri, cosa facevi? B. eh sì! E li mi sono accorta che mi ero distrutta la vita e lì in comunità son stata male, mi hanno proprio massacrata, con sta storia dei gruppi... Adesso, con il senno di poi, la rifarei la comunità, premetto questo, ma la rifarei da libera perché ho capito - ma sempre con il senno di poi le capisco le cose - che lì hai un'occasione di riflettere sulla tua vita... è che quando stai li non hai possibilità di riflettere sulle cose nel vero senso, perché ero obbligata e la vivevo in modo... Adesso se ritornassi, mi prenderei qualche anno di pausa dove rifletto un po'... hai la possibilità sai di riflettere, non hai il senso del tempo, hai la possibilità di stare in un mondo ovattato, chiusa dal mondo esterno e dove puoi metterti lì a pensare a te stessa, a riflettere sulle tue cose ma nessuno la comunità se la vive così: o lo fai perché sei obbligato o perché ti devi disintossicare, però è difficile coglierla nel suo senso e adesso la rifarei così" (Brooke, 40-45 anni). Per alcune delle intervistate, la scelta di intraprendere il percorso comunitario è dettata dal bisogno di ricreare il senso della famiglia e della relazione con gli altri: "K. mah, la prima che son venuta al Seri io volevo andare in comunità, ma io volevo andare perché volevo trovare una famiglia dove sentire che c'era qualcuno che mi stesse vicino, perché io avevo questa immagine della comunità, non sapevo ancora cosa fossero veramente e mi immaginavo... tipo le comuni, no? Me le immaginavo così, dove potevi andare a vivere, avevi altre persone... questa era la mia idea. Quindi cercavo la famiglia, perché non ero ancora diventata tossica incallita, per cui ero ancora su queste idee... e l'assistente sociale mi diceva "ma guarda che tu non hai bisogno di comunità" perché lavoravo, mi gestivo, però mi facevo anche... e invece sto cavolo che non ne avevo bisogno, perché dopo è sempre andato peggiorando, no? Però appunto è sempre stata un'esperienza negativa la comunità perché entravo 3 mesi, poi uscivo, mi ricaricavo un po'... forse l'intenzione c'era anche ma non era forte, oppure davanti alle difficoltà poi scappavo. Non ero capace di farmi capire, cioè quello che vivevo, magari perché ero timida o perché mi mancava la capacità di parlare e farmi capire, magari gli operatori ci hanno anche provato ma proprio non era [...], io ero convinta che doveva esserci qualcos'altro per me, perché quel sistema lì non andava proprio" (Kelly, 36-39 anni). Se, generalmente, le ricostruzioni dei periodi comunitari sottolineano questi aspetti che finora si sono trattati, in due casi il periodo trascorso in comunità viene ripercorso in modo positivo, nonostante le ricadute successive nell'uso di eroina. Agnes sottolinea, in particolare, la possibilità avuta di affrontare il percorso di recupero con il suo compagno in una struttura che, a differenza di altre strutture comunitarie, è organizzata in modo da favorire lo scambio con il contesto sociale piuttosto che l'isolamento; Valerie, pur mettendo in luce le pressioni che la convivenza comunitaria comporta, rilegge positivamente le possibilità che tale percorso le ha fornito nel comprendere se stessa e le ragioni della propria dipendenza: "A. noi ci siamo conosciuti in comunità, lui era già li io sono arrivata dopo; a parte l'amore

che quello... noi eravamo li per quel motivo, per disintossicarci, però conoscendo lui... che poi ci hanno fatto dannare un pochino perché volevano separarci e allora non... non viaggi più sullo stesso binario e io ho sempre detto "ma possibile che io... io devo stare insieme a lui, il percorso lo faccio più tranquilla, più rilassata, più bello" e infatti è stato così; appena ci hanno separato io sono stata malissimo, stessa cosa anche lui, non mi interessava più del percorso e appena avuta l'occasione del percorso di coppia l'abbiam fatto tranquillamente... siamo andati insieme in una comunità di coppia che ci siamo cercati noi, ed è stato bellissimo: avevamo una nostra camera matrimoniale, il telefonino, era più una comunità di... le comunità di norma vogliono staccarti dalla vita che ti circonda e invece quella comunità ti vuole inserire nelle vita normale capito? Avevamo tantissimi hobby, abbiamo fatto le notti in comunità, stage, ci avevano dato fiducia e però ce la siamo anche guadagnata..." (Agnes, 40-45 anni). "V.Là son stata 3 anni e mezzo, un percorso lungo, avevo ritrovato il paradiso in quel posto... infatti l'avevo scelta di proposito quella comunità anche perché mi permetteva di tenere un rapporto stretto con i familiari, quindi tu sei dentro ma un giorno a settimana puoi vedere tizio, caio, sempronio. Avendo questa situazione io, se non c'erano stati fino a quel momento non ci sarebbero stati neanche dopo, per cui avevo deciso io di andare in quel posto li e sentirsi magari col tempo ogni tanto. Ci ho messo un anno a capire dov'ero, perché per me era un campeggio insomma... è enorme come posto ma sei comunque sempre sotto pressione in un certo modo, anche perché sei li per curarti il cervello non un mal di pancia, per cui puoi immaginarti cosa può essere vivere li dentro a contatto con queste persone 24 ore su 24. E pesante, è molto pesante come situazione, ci sono gli operatori comunque che alleviano questo stato di cose, però... sono uscite delle cose, le abbiamo prese in mano, però essendo una cosa diciamo più aperta a tutti quanti una persona se vuole proprio capire se stessa e risolversi i problemi ha proprio bisogno di una cosa sua personale. Comunque mi ha lasciato delle buone cose sicuramente, mi ha permesso di stare fuori dalla strada, di capire delle cose di me, mi ha permesso tante cose buone, ho tanti ricordi insomma fatti anche di sofferenza ma che vedendoli anche dopo anni è come se quella sofferenza la lasci con una parte di te per andare avanti, e li comunque sei protetta" (Valerie, 40-45 anni). 4. Once ajunkie, aiways ajunkie. Il senso delle recidive "E. è la testa... cioè a parte che ti scombina parecchio la testa nel senso che "bon", passi l'astinenza fisica ma dopo hai 2 mesi di depressione, cioè sei giù con la testa, non hai voglia di far niente, non hai stimoli, e lo so che bisogna trovare qualcosa che te la riempie sta testa però... che poi è assurdo perché dopo un po' diventa... cioè la sostanza non è che ti dà lo sballo, ti fa quasi star normale, poi non è l'eroina degli anni 80, è super schifosa adesso... e non so cosa ci sia di così tanto... c'è gente che manda in malora famiglie, anche dopo 10 anni che non si fa va a farsi, non so è strano come cosa. Perché anche lo sballo cos'è quando ti fai? 30 secondi... anche perché sei cosciente delle conseguenze, non è che non le conosci, ma non ti frenano lo stesso" (Eveleen, 22-25 anni). Le interviste biografiche effettuate in questa sede hanno destinato un ampio spazio all'analisi delle ragioni e delle conseguenze delle ricadute nell'uso di eroina, anche in virtù della considerazione che le recidive sono ormai considerate parte integrante della carriera

tossicomanica: le evidenze scientifiche mostrano, infatti, che il raggiungimento di una condizione drug free che possa dirsi definitiva avviene spesso dopo una serie anche lunga di tentativi di disassuefazione e altrettante recidive. Stando ai resoconti delle intervistate, se si escludono coloro che non hanno mai interrotto il comportamento d'uso (seppur limitandolo all'occasionalità), la maggior parte di esse ha avuto ricadute nell'uso anche in seguito a periodi molto lunghi di astinenza totale (fino ai 10 anni). In linea con il modello elaborato dalla Ebaugh [1988], il processo di cambiamento verso una condizione drugfree e verso l'acquisizione del ruolo di ex-tossicodipendente implica il permanere di una identità residuale che può riemergere, a causa dell'incapacità di conciliare tale identità con quella che lentamente si sta costruendo - o si è costruita - c/o delle difficoltà di convincere gli altri della nuova identità acquisita, determinate dalle reazioni sociali e dai processi di stigmatizzazione [Rosenbaum e Murphy 1990]. L'espressione "once ajunkie, always ajunkie" ("un tossico rimarrà sempre un tossico"), coniata nei ghetti americani e ripresa dalla letteratura di settore, sottolinea proprio il permanere di una certa identificazione nel ruolo precedente di tossicodipendente anche quando esso viene abbandonato. In molti casi le intervistate hanno manifestato delle difficoltà nella spiegazione delle ragioni delle ricadute, sostenendo che se avessero compreso il problema avrebbero anche potuto lavorare sul problema ed evitare il loro verificarsi: "S. secondo me a queste domande è un po' difficile rispondere, del perché lo facevo... perché anche per l'eroina ad esempio perché l'ho fatto non lo so, e soprattutto perché lo ri-fatto io non lo so proprio, soprattutto dopo essermi tirata fuori che so che si sta male, che so che quando la usi è tutto una merda perché non vedi l'ora di smettere perché sei dipendente sempre da qualcosa, e non puoi far niente perché se non c'è quella non puoi andare neanche a farti un giro..." (Shirley, 26-30 anni). La prima criticità viene evidenziata dalle ragazze più giovani: frequentare il Sert permette di incontrare persone che, non avendo abbandonato lo stile di vita precedente, cercano di coinvolgere altri utenti nelle attività di acquisto e consumo di eroina 21. Questa forma di condizionamento, o di tentazione come l'hanno definita alcune, agisce in sé e per sé proprio nelle fasce di età più giovane, che come si è visto sono ancora legate a questo tipo di relazioni e attività, dunque sono alla ricerca di un equilibrio tra le due immagini sociali, di tossicodipendente e non: "L.Comunque anche qua al Seri le persone non sono buone, ti cercano di coinvolgere, quando vedono che sei sana e stai un po' meglio cercano di prenderti e riportarti nel giro... io non so, ma vedendo che sono anche incinta dovrebbero anche pensare ad aiutarmi, o almeno per rispetto di me non chiedermelo neanche, perché penso che anche loro possono comprendere che non è facilissimo" (Loren, 22-25 anni). "S. il problema è che è difficile smettere anche perché vieni qua... l'altro giorno mi hanno chiesto di andare a fumare con loro, io gli ho detto di no, ma soprattutto all'inizio è molto

difficile dire di no. Io son contenta di essere capace di farlo, però..." (Shirley, 26-30 anni). Le recidive costituiscono sempre una forma di autocura. Come si è sostenuto precedentemente, infatti, l'instaurazione della dipendenza dall'eroina crea una situazione di profondo disagio interiore determinato dal senso di fallimento per non essere stata in grado di controllare l'uso della sostanza fino ad esserne soggiogata, che tuttavia entra in conflitto con la consapevolezza che proprio quella sostanza può permettere di raggiungere un senso di benessere difficilmente conseguibile altrimenti. Le recidive, dunque, costituiscono una ricerca di quelle sensazioni, e spesso non sono determinate tanto da eventi esterni di difficile gestione, quanto da uno stato di costante disagio, insofferenza e apatia che proviene soprattutto dall'incapacità di trovare routine quotidiane altrettanto soddisfacenti: "D.Alla fine mi dico che io me lo son vissuto come lo volevo io, nessuno mi ha imposto qualcosa su come dovevo vivere la mia vita e di questo sono contenta... però sai, poi quando ti capitano cose continuamente come sto problema di salute, e la casa, e una cosa e l'altra... poi hai proprio sempre paura di non farcela... ti guardi indietro e dici "ma che cazzo me ne frega mi rifaccio di nuovo" perché alla fine ti sembra di non aver niente da perdere, proprio niente, fai fatica ad andare avanti e poi ti scontri con queste resistenze" (Darla, over 45 anni). "L. mi raccontavi di aver avuto un periodo senza la roba, e queste ricadute? B. eh sì, perché... non è una giustificazione però... sono tanti i pensieri e tanti i problemi che ho... situazioni un po' difficili... è che probabilmente non mi fa pensare, perché se mi fermo a pensare... è meglio che giro l'angolo, non mi va di pensarci neanche a tante cose" (Betty, 3639 anni). "S. poi è difficile anche smettere perché vai in depressione... ci sarà il metadone, ci saranno gli psicofarmaci, ma poi è difficile tirarseli via... Anche gli psicofarmaci io non li ho voluti prendere perché alla fine prendevo già il metadone... però appunto sei triste, non hai voglia di fare le cose..." (Shirley, 26-30 anni). Alcune donne assegnano alle recidive un esplicito valore di fuga da un contesto di vita vissuto come opprimente. Si noti, in modo particolare, che ben 5 intervistate hanno sostenuto di aver vissuto per interi periodi dell'anno all'estero o in altre città italiane senza che il pensiero dell'eroina le sfiorasse, mentre il ritorno in Trentino segnava per loro la ripresa di un uso massiccio della sostanza, sempre solitario. La sostanza, in questi casi, assolve ad una funzione di adattamento a precisi contesti e situazioni che rievocano determinati stati d'animo passati e viene svuotata delle sue capacità assolute di concedere benessere: "C. io non ero così attaccata alla roba però è anche vero che quando arrivavo a fine stagione che era ora di rientrare il primo pensiero era quello arrivando qui, eh! [...] Io un po' di colpa tra virgolette alla città gliela dò, nel senso che arrivare qui in tutti questi anni mi ha sempre fatto questo effetto. Allora io sono stata a Roma poco tempo fa, son stata via 10 giorni, e son stata benissimo... io ora prendo il metadone e stando fuori ne prendevo pochissimo e non pensavo assolutamente né alla droga, né ad andare a cercare, né niente di tutto questo. Come sono arrivata qui è scattata la molla, è scattata la molla, la città mi fa un effetto così

L. e cos'ha che non va? C. secondo me è collegata alla mia vita, ai miei vissuti, al mio vissuto di ciò che ero, e si, ai problemi che ci girano intorno... alla mia vita qui... allora la mia vita qui non mi piace - e questa te la butto li come un'idea - la mia vita qui non mi piace e allora stacco, perché è un tentativo di fuga, no? Che poi è un'illusione, perché non è altro, però..." (Cher, 40-45 anni). Infine, le relazioni con altri significativi. Si è già avuto modo di osservare che la separazione dai propri figli, soprattutto se coatta, ha determinato per alcune donne diverse ricadute nell'uso nel corso della propria carriera tossicomanica; altre donne rinvengono i fattori scatenanti le recidive nelle relazioni sentimentali o in rapporti problematici con la famiglia d'origine: "S.Le ricadute erano sempre legate a periodi meno felici con il mio compagno, erano un modo per non sentire i miei problemi..." (Sherylin, 31-35 anni). "K.Purtroppo vedo che per me un uomo è una pera! Cioè è vero, perché quando sono con un uomo non mi viene neanche in mente la roba... la prima volta che vedo un attimo che le cose van così, mi butto subito nella roba... Cioè mi sembra quasi di sostituire il benessere che ti può dare un uomo... o uno o l'altro... è pazzesco, è la tragedia della mia vita! [...] Cioè, è impressionante... è proprio l'affettività del... non so come dire... ma io collego molto il discorso della roba su di me con l'affettività, lo collego tantissimo, è proprio evidente... è proprio mancanza di un uomo perché anche quella volta, cavolo, era da tanto che non mi facevo, 4 anni di terapia... cioè, e subito appena ci siamo mollati la prima roba che mi è venuta in mente... stavo di un male che so che con la roba mi passava... non so come spiegarti!" (Kimberlee, 36-39 anni). "C. l'ultimo anno mi sono innamorata di un uomo che viveva qui, al quale chiaramente non ho detto la verità. E lui dopo un po' di tempo mi ha detto "adesso scegli: o me o la droga". E io ho scelto lui molto facilmente, non ho sofferto poi molto perché ero stanca, ero stufa di questa cosa della droga ed ero innamorata pazza! Quando ti mettono davanti o questo o quello... quando tu speri nell'amore, insomma se credi nell'amore è chiaro che è stato facile il passo, no? Ecco, io con quest'uomo ci sono stata per 13 anni, e quindi per adesso - non ricordo precisamente ma più o meno per 6 anni - non ho più fatto niente. Poi le cose di pari passo al fatto che le cose andassero male con lui, lui aveva un locale, e in questo locale c'era anche una mia vecchia amica che adesso non c'è più perché è morta di Aids, e quindi li è scattata la molla "chissà dopo tanto tempo cosa può essere, cosa provo" e quindi ho ri-iniziato. Questa cosa la collego senza ombra di dubbio al fatto che la mia vita con quello che era il mio uomo non andasse, quindi problemi e trovi la soluzione per scappare. Quindi ricomincio, e dacché ho ricominciato fino ad oggi è stato un susseguirsi di prendi e smetti, smetti e riprendi" (Cher, 40-45 anni). Accanto a queste ragioni che si riferiscono al proprio rapporto con la sostanza, pur mediato da eventi e relazioni, altre intervistate hanno motivato le loro ricadute con le difficoltà incontrate nel processo di reinserimento sociale che si legano, in modo particolare, alle esperienze di discriminazione. Si tratta di donne che non avevano certo mantenuto nell'invisibilità la propria condizione di tossicodipendente e che ne hanno esperito le conseguenze, dal punto di vista relazionale come sul piano delle concrete opportunità - lavorative, abitative, economiche:

'P. quando sono uscita dal carcere ero appoggiata all'APAS che è un'associazione qua che aiutano le persone che escono dal carcere che mi avevano dato un appartamento a me e al mio ex-ragazzo però c'era l'obbligo di dargli 50 euro al mese, cioè c'erano 50 euro al mese da dargli e l'obbligo di non far uso. Abbiamo resistito per un po' poi abbiamo ripreso a far uso, non gli davamo i soldi, perché comunque non avevamo niente, non avevamo più... le mie cose me le aveva buttate via lo Stato, le mie collane d'oro il diploma e tutto l'altro. Non avevo niente e quindi, andare a lavorare ok va a lavorare, ma come fai in quelle condizioni lì? Avevo i farmaci, tutti i giorni venir a prendere la cura, adesso gli orari son cambiati, una volta dovevi per forza venire alla mattina, oppure se andavi a lavorare alle otto e cominciavi alle 8 voleva dire andare minimo alle 6 in ospedale perché sennò ti lasciano ore lì ad aspettare. Avevo trovato questo lavoro da un avvocato, mi aveva assunto, dopo tre giorni mi ha chiamato e mi ha detto: "vara, mi andavi benone, però ho appunto saputo che sei stata arrestata e non posso..." Ho detto: "alla faccia della privacy", lavora al tribunale doveva un po' venire a saperlo. Dice "mi spiace non posso tenerti qua perché agli occhi dell'altra gente..." (Peggie, 31-35 anni). Soprattutto per coloro che avevano mantenuto per diversi anni l'astinenza dall'eroina ed erano riuscite con l'aiuto dei servizi a riacquisire il controllo sul proprio stile di vita, relegando alla residualita l'identità tossicomanica, le recidive hanno contribuito alla svalorizzazione di sè e alla crescita dei sensi colpa, verso gli altri e verso se stesse: "V.Facendoti di nuovo, con tutta la coscienza che avevi maturato in quegli anni, è molto peggio di prima. E molto più dolorosa la questione. E oltre al fatto di aver ripreso a farmi sentivo il peso dei giudizi della famiglia, cioè ti rifai di nuovo dopo 4 anni, a cosa ti è servito?" (Valerie, 40-45 anni). `B. poi dopo avendo fatto la comunità per 4 anni, mi dicevo "vado fuori e spacco il mondo", perché stavo proprio bene, avevo preso un equilibrio buono; e quando esci comunque e fai un lavoro buono così quando ci ricadi è più difficile rialzarsi" (Bonnie, 4045 anni). E soprattutto, hanno avuto un forte potere di riconferma della propria incapacità di essere normale e rimanere a lungo astinenti e di essere fondamentalmente sempre una tossica [Rosenbaum 1981; Sterk 1999]: "C. ma io non posso dire che mi sento di non usare più, perché quello ormai non lo dico più; cioè io ti posso dire che oggi non ho usato ma non posso dirti che domani che non userò sicuramente, anzi... sono un po' stufa forse, sono un po'... stufa di tutto perché poi la vita non è come la vedevo quando avevo 14 anni insomma, non è bello, qualsiasi persona dopo un po'..." (Cristine, 26-30 anni). -M. l'eroina è come un tumore, magari in un momento non lo senti ma poi ti torna fuori, infatti una volta avevo la certezza invece adesso proprio non ci metto più la mano sul fuoco" (Miranda, 31-35 anni). "C. guarda, io ho imparato che non dirò mai "io non lo farò più", adesso ce la sto facendo, ce la sto mettendo tutta e vado avanti così, pian piano, con pochi progetti, ma non mi illudo, io dico che qualcuno di sopra me l'ha mandata sto giro... ho anche paura di dirlo in modo

definitivo" (Connie, 40-45 anni). In modo particolare, si legga la seguente interpretazione di Grace che si ricollega alle spiegazioni che la scienza medica dà della dipendenza per mostrare come un tossicodipendente non può che rimanere tossicodipendente per tutta la vita. Se, come si è letto precedentemente, la possibilità di acquisire lo status di malata, ricevendo dal sistema sanitario le cure necessarie a fronteggiare questa patologia, l'aveva inizialmente rasserenata e riconsegnato quella dignità personale che si deve ad ogni malato, le spiegazioni scientifiche delle recidive hanno determinato in lei un atteggiamento fatalistico e remissivo verso una condizione che non può essere combattuta perché il desiderio della sostanza è impresso in modo indelebile nei propri neuroni. Tutt'oggi, a distanza di una decina d'anni dall'entrata in trattamento, Grace vive alla giornata sperando che "accada qualcosa", ovvero che si verifichino eventi esterni che le permettano di mettere a tacere quei fantasmi che si "impossessano di lei" e su cui non ha controllo e di concedersi qualche giornata di un benessere che, tuttavia, non può essere per nulla equiparabile al benessere concesso dall'eroina: "G. guarda, io ho avuto un paio di ricadute in questi 5 anni, però per la maggior parte del tempo è andata bene.... E ogni volta che ne uscivo e ci ricadevo mi sentivo sempre meno forte, man mano che succedeva la mia forza di volontà ne subiva i colpi. Fino ad arrivare ad un certo punto, poco prima dei 30 anni, dove per la prima volta ho accettato la mia condizione di non essere interessata a smettere, di dire "io non ho più forza di volontà, questa cosa è più forte di me, da sola non ce ne posso venire fuori, chissà se ne verrò mai fuori veramente... All'inizio tu cominci e pensi tu di avere il controllo, quindi decidi come, quanta, dove prenderla, poi pian piano ti accorgi che non è così, cioè sei continuamente sotto gli effetti della sostanza quindi man mano che si va avanti il livello nel sangue si abbassa e quindi inizi con la dipendenza che diventa anche proprio fisica. Poi, perché in certi momenti rispetto ad altri magari dal niente rinasce questa cosa non lo so [...], cioè io vorrei, vorrei non provare il desiderio della droga. In generale in un meccanismo di dipendenza, ho capito che la differenza tra una persona che usa e una che non usa non è il fatto di usare o meno, ma il fatto che quella che non usa non ne ha assolutamente desiderio perché non l'ha conosciuta [...]. Dico, non è possibile passare tutta la vita ad avere in testa qualcosa e non poterla fare. Quindi è come se dicessi che il desiderio di farlo non è mai andato via dalla mia testa, anche se non uso il desiderio è costante. Ma c'è una spiegazione anche scientifica: ho visto un documentario di come funzionano le droghe a livello di neurotrasmettitori. Ti faccio l'esempio delle amfetamine che son sostanze che ho usato e che dicono per tanti aspetti sono anche peggiori dell'eroina in quanto a dipendenza. Praticamente quando si assume la sostanza i neurotrasmettitori rilasciano 4 volte tanto il livello di dopamina di un orgasmo, che è il massimo di piacere che un uomo può provare. Quindi ne rilasciano 4 volte tanto, è un piacere che non ci è concesso naturalmente, è un livello che non puoi raggiungere con niente, quindi una volta che l'hai provato avrai sempre il ricordo dell'esperienza più piacevole che puoi aver vissuto. Il tuo ricordo di quel piacere è di qualcosa di irraggiungibile in altro modo, e in confronto a quello qualsiasi altra esperienza, come farmi due passi al sole, a volte perdono proprio di piacere" (Grace, 36-39 anni).

5. Le resistenze oggettive e soggettive al cambiamento "P.Io ne ho parlato con la psicologa, alla fine io ho avuto un'esperienza non breve però neanche lunga, un'esperienza (dio bon) di 5 anni è stata... cacchio, dico, porca vacca, come cacchio fanno certe persone che son dentro magari da anni? Cioè secondo me non vengono proprio più fuori, metti un passo fuori e dici "dove cacchio sono?": ti viene in automatico di tornare dove sei. Sai poi questi 5 anni non sono stati 5 anni che poi ho troncato, sono stati 5 anni tra 1 anno di comunità i 4 mesi di carcere che ero appunto lucida ma mi sentivo persa, cioè vedevi proprio... sentivi la lucidità, senti gli odori, senti tante cose, una canzone la senti e ti fa venire da piangere, e piuttosto torni dentro... io infatti l'ho detto: "magari io mi son presa un po' per tempo e ce l'ho fatta", però per chi comincia presto che sono giovani, che non sono maturi..." (Peggie, 31-35 anni). Nell'ambito della prospettiva delle carriere il concetto di espansione e riduzione delle opportunità descrive in modo eloquente il processo che porta un individuo a proseguire con l'uso di eroina e a decidere di abbandonare lo stile di vita ad esso connesso. Un soggetto intraprende la carriera deviante perché percepisce un'espansione delle sue opportunità di vita, che abbiamo visto riguardare le relazioni e la possibilità di sentirsi più adeguate ai contesti più che il raggiungimento di uno status economico; inizialmente, il coinvolgimento con la sostanza e i contesti che la circondano non precludono le possibilità di vita nel mondo convenzionale, che iniziano a ridursi realmente con l'instaurarsi della dipendenza, quando si impone la necessità di routinizzare l'uso di eroina per evitare le astinenze, di rendere sistematiche le attività di hustling e di strutturare le proprie relazioni sociali intorno a network di persone ad esse legate. Il ricorso al trattamento è principalmente motivato dalla necessità di ridimensionare questo stile di vita, bisogno che incontra difficoltà di varia natura a causa della riduzione delle opportunità che si presenta al rientro nella società convenzionale: difficoltà che possono riportare il soggetto allo stile di vita precedente, favorendo la progressiva alienazione dal mondo di vita convenzionale e riducendo ulteriormente le opportunità in tale contesto. È evidente, come ha ben sottolineato Peggie nel brano sopra riportato, che la lunghezza della carriera tossicomanica costituisce il fattore decisivo in questo processo di riduzione delle possibilità di vita nella società ordinaria: più breve è il periodo di tempo investito in tale carriera, maggiori sono le possibilità di investire le proprie energie in obiettivi alternativi. Parallelamente, all'aumentare dell'investimento di tempo in tale carriera aumentano le barriere al rientro nella società convenzionale: un processo che, come si è già notato, non è certo lineare, e risente di circostanze e contingenze che possono influenzarlo in vari modi (es. gravidanze, carcerazioni, tipo di attività illegali intraprese, ecc.). Riprendendo Rosenbaum [1981], in coerenza con le considerazioni di Ebaugh [1988] circa le transizioni di ruolo, è possibile identificare due ordini di difficoltà incontrate dalle donne che cercano di divenire extossicodipendenti e di rientrare a pieno titolo nella società, ovvero dei fattori oggettivi, dovuti principalmente allo stigma e alle conseguenti difficoltà di vita materiali,

e dei fattori soggettivi, relativi a proprie difficoltà personali e relazionali. Nel corso delle ricostruzioni biografiche, questo aspetto è stato approfondito con una certa attenzione, riflettendo sulle possibili resistenze all'abbandono dell'eroina e dei suoi corollari di vita e, in modo speculare, sulle possibili resistenze al rientro nella società. Discutendo delle relazioni sociali, si è già avuto modo di osservare in precedenza che questi aspetti sono inesorabilmente legati al tipo di attività di hustling, alla qualità delle relazioni vissute nei network del giro, e soprattutto all'età. Fermo restando che il riferimento agli effetti psicoattivi dell'eroina è inter-generazionale, le più giovani manifestano le difficoltà maggiori nel ristrutturare la propria quotidianità e, soprattutto, le proprie cerchie di amicizie22 [Taylor 1993]: per alcune, la resistenza maggiore è costituita dal legame profondo instaurato con queste persone: "L. cosa c'è di così difficile da lasciare di questo tipo di vita? È più l'effetto della sostanza o tutto quello che ci sta intorno? S. sì, sicuramente un po' tutto alla fine, vabbè l'effetto che fa la sostanza perché ti fa stare bene, però dopo diventa proprio un... prima è "lo faccio perché mi fa stare bene" e poi lo fai perché devi farlo [...]. Poi a livello di tutto, dover magari lasciare delle persone con le quali magari... o che conoscevi da tanto e che sono finite come te in questa situazione, o magari persone che anche hai conosciuto nella stessa situazione e che magari sono state importanti per te, e quindi lasciare tutto il tuo gruppo, queste persone alle quali comunque vuoi bene, perché qui stiamo parlando di amicizie vere, non basate soltanto su quello, che secondo me poi magari non sono neanche tanto amicizie; però amicizie di lunga data che per una circostanza o l'altra son finite nello stesso [...]. Poi qui è difficile perché comunque... cioè vivendo qui, alla fine vai sempre a finire là perché ogni cosa ti rimanda a quello, in ogni posto della città sei stata, e basta fare un giro in città perché ti ritorci in mente qualsiasi cosa: vedere i posti dove hai fumato, la gente dalla quale andavi..." (Stephanie, under 21 anni). "I. che cos'è che c'è di più difficoltoso da lasciare di questa vita? L. la sostanza ovvio, ma anche il contesto in cui ti trovi, quelle ore che stai con i tuoi amici, magari è anche una sensazione ma... cioè non so come spiegare, ma anche il fatto di stare li proprio con quelle persone, i riti che ci stanno dietro, le attività che fai... però poi ti ritrovi che appunto loro sanno che tu vuoi mollare, che sei abbastanza determinata, e tutti spariscono, cioè io ci son rimasta male e faccio fatica anche per questo... io pensavo che alcuni fossero amici veri, e invece fuori dalla serata non rimane nulla [...]. È difficile riorganizzare la propria vita senza la sostanza, è comunque una cosa di testa, ma bisogna riorganizzare la propria vita che non gira più intorno a quelle compagnie, a quei riti che facevi, che si avevano, e quello che ci sta tutto dietro a uscire con determinate persone, la musica, cosa fai il sabato sera. Adesso io mi sento un po' spaesata e nel weekend preferisco stare in casa; magari non trovi neanche più stimoli nell'andare al cinema, per dire, nelle cose normali che una volta facevi e in cui una volta ci provavi piacere" (Loren, 22-25 anni). Per altre ragazze, al contrario, le relazioni con persone del giro continuano ad essere ricercate anche per la mancanza di opportunità di relazione e di vita nel mondo convenzionale; il senso di isolamento e solitudine, che spesso deriva dalla propria incapacità di instaurare relazioni

significative estranee al giro per la sensazione di non essere comprese o per la necessità di nascondere una parte rilevante della propria identità passata, porta queste donne a ritornare alle vecchie relazioni ed abitudini: "L. una delle cose che volevo capire era cosa ti continua a portare verso questo mondo J. eh, secondo me è mancanza... non riesco neanche a capire di cosa per il fatto che secondo me appunto ho fatto sempre e solo quello, per cui conosco bene questo mondo e allora vado a finire li, mi manca, non so... o perché non ho neanche dall'altra parte non ho amicizie e non ho cose con cui svagarmi... magari in una giornata pesante se uno ha qualcosa, un'amica, si svaga, fa altro; siccome io in quei periodi in cui non faccio niente per la maggior parte sono chiusa in casa, dopo un po' scoppio... non ho un lavoro, non ho niente, e allora scoppio e dopo vado a parare li [...]. Io non lo so, secondo me l'unica cosa che mi potrebbe aiutare è farmi una vita un po' più completa. Che adesso non ho una vita completa, mi manca il lavoro, una serie di cose, io ho intere giornate vuote. Anche adesso il bimbo è all'asilo, per cui ho proprio il vuoto. Per cui cosa fai? Un giorno resisti, due giorni anche, sto a casa cerco di non uscire o vado a fare solo quelle 3 cose che mi servono, però il pensiero c'è. E cerchi di tirarlo via, ma continua ad esserci; e quella giornata che magari mi gira un po' peggio, magari una discussione con il mio ragazzo, faccio poi anche tipo per ripicca... però alla fine l'ho cercato [...]. Io ci provo, ma dentro di me non lo so se lo voglio veramente, perché alla fine io mi sento bene li, no?" (Judith, 22-25 anni). Le resistenze al cambiamento, in tutti questi casi, sono fondamentalmente soggettive e sono determinate dalla propria incapacità a ricostruire un'identità sociale alternativa. Nel brano che segue Sharon evidenzia come questo percorso possa essere reso difficoltoso dalle conseguenze che l'assunzione di eroina ha sulle proprie capacità di fronteggiare le situazioni; questa sostanza ha il potere di nascondere dietro il suo effetto ogni stato emotivo [Taylor 1993] e di creare una sorta di barriera di fronte alle situazioni, in un processo di cambiamento identitario tanto lento quanto difficilmente reversibile: "L. tu mi dicevi prima "io non ricordo com'è una vita vissuta in maniera sana" S. non è che non mi... perché adesso sto vivendo una vita, e non so com'è, non mi ricordo com'ero io, so come sto diventando adesso, però non so non riesco a capire fino a che punto gli anni di eroina mi abbiano trasformata, cambiata, cosa è cambiato in me, si è trasformato e cosa ho recuperato di quello che ero prima. Questo è che non riesco a capire... mi ricordo che ero una persona anche molto sensibile, cosa che adesso non sono più assolutamente. Da quando vengo qui non ho mai pianto, se ho pianto ho pianto per nervosismo... perché mi manca talmente tanto che dall'agitazione ho dovuto sfogare, mandare fuori lacrime. Mai pianto, ad esempio, per il male che mi sono fatta... mi ha portato a crearmi uno scudo emotivo che mi impedisce di provare emozioni forti, anche cose brutte che... tendo ad avere la tendenza a sdrammatizzarle, mi sembra di portare avanti la modalità che avevo prima... non capisco se è giusto... è una cosa che ho quasi paura di levare. Non so se voglio tornare ad essere una persona sensibile, esser una persona sensibile porta dei benefici però anche... L. però se ti poni il problema... S. no, nel senso che ogni tanto penso "sono veramente io questa persona o è il risultato..." Poi

alla fine la risposta che mi do, anche per spirito di sopravvivenza, è che levarmi di botto la corazza potrebbe essere deleterio" (Sharon, 26-30 anni). Proseguendo, se si considera il gruppo di donne che non è mai pervenuta ad attività criminali o alla prostituzione come forma di sostentamento della propria dipendenza e che hanno conciliato l'identità di tossicodipendente con l'immagine sociale ordinaria, il riferimento alle relazioni amicali e alle difficoltà di ristrutturare la propria quotidianità perde la sua valenza esplicativa. In questi casi, le difficoltà incontrate sono ancora una volta soggettive ma si legano quasi esclusivamente alla sostanza e al ricordo del benessere che concede: "S.Non so perché ci sono ricaduta, non mi so dare una reale motivazione.... perché poi l'effetto dell'eroina è bello, ti resta poi quella voglia di riprovare quelle sensazioni, quello stato di benessere, momentanea comunque, quella calma... io, e poi ho sentito anche altri ragazzi, resta in mente il rituale di prepararsi la dose con l'accendino, di trovare la vena, il momento del flash che sale, il sapore che senti in bocca... il ricordo di tutto questo è sempre stato un richiamo per me... certo perché mi era piaciuto e poi perché all'interno il mio vissuto era sempre molto travagliato, e alla fine vinceva sempre lei. Questo: se mi chiedi cosa è stato, o cos'è difficile lasciare, la risposta è l'eroina" (Sherilyn, 31-35 anni). "G. tutto è difficile, l'eroina ti cambia in modo così lento che neanche te ne accorgi... Il ricordo era di tutto: i posti dove avevo fatto uso... ad esempio, ad un certo punto per me Trento voleva dire eroina, cioè non riuscivo a passare da Trento senza che mi sommergesse questa massa di ricordi, "qui l'ho presa, qui me la sono fatta, qua è successo questo...". Tutti ricordi dell'uso che ne avevo fatto, quindi tutti positivi anche se in realtà il ricordo non è che possa essere solo positivo, può essere anche [...]. E l'eroina, i riti, le sensazioni, perché nella tua testa ricerchi sempre gli effetti che hai provato la prima volta, e che forse non proverai mai più" (Grace, 36-39 anni). Nelle leve di età più adulte, le difficoltà maggiori sono innanzitutto legate alle relazioni con persone estranee al giro che spesso non riescono a prescindere dal passato di tossicodipendenza, dunque all'incapacità di riacquisire credibilità e ricostruirsi una nuova vita dopo che la dipendenza ha corroso le possibilità concrete: "P. è stato più difficile il fatto di dover affrontare alcune persone che già mi conoscevano, che già sapevano di me e farmi vedere che adesso son cambiata insomma... Persone che lavoravano con me e avevan visto la Phoebe cambiare per un periodo, che non era più lei, non era quella di prima insomma L. ti sentivi di dover dimostrare loro qualcosa? P. no, non avevo bisogno di dimostrare niente a nessuno, e neanche adesso ce l'ho. Io ammetto tutto quello che è successo, però adesso son diversa, e tu non puoi continuare a dirmi "tu però hai fatto" perché adesso son diversa. Infatti incontravo tutte ste persone con la paura che magari mi chiedessero qualcosa, però non avevo neanche la vergogna di ammettere quello che mi era successo [...], quella era la difficoltà, la difficoltà era riguadagnare anche la fiducia se vuoi metterla sotto questi termini, guadagnare la fiducia di chi mi ha conosciuto in un modo, poi mi han visto in un altro..." (Phoebe, 36-39 anni).

`B. La parte difficile è ricominciare, sai? Il carcere e la comunità sono duri, e però la parte più difficile è quando torei fuori, esci e non sei più nessuno. A 30 anni poi, cioè non ne hai venti che sei anche giustificata dalla società perché "ah ma sì, sei una bambina", a 30 non te dis "te sei una putelota" ma "te le hai fatte e sei una delinquente". Se le hai fatte a 30 anni... io ho perso tutto quello che avevo... L. dal punto di vista materiale, e dal punto di vista relazionale? B. sì, pian piano le ho ricreate le relazioni... è cambiata facendo anche i gruppi al Seri, me la vivevo in un certo modo, parlavo... sì, con mia sorella soprattutto ma con mia mamma ho imparato a gestirla [...]. Mio papà me lo diceva, sai? "Se te fusi un om saria diverso", perché per una donna sbagliare in questo modo è proprio clamoroso" (Brooke, 40-45 anni). Le difficoltà legate alla ricostruzione delle relazioni interpersonali non viene solo attribuita alle resistenze esterne. Felicia, ad esempio, non sa se attribuire il suo isolamento relazionale a se stessa o alle persone con cui cerca di costruire un rapporto; in particolare, evidenzia questa condizione di esclusione da entrambi i contesti relazionali, sia quelli ordinari delle persone perbene, sia quelli formati da tossicodipendenti, con i quali non riesce ad instaurare un rapporto che le permetta di confrontarsi e condividere le proprie esperienze: "F. ora sto lavorando, ho un contratto di 3 mesi ma potrebbe essere anche rinnovabile, e sto meglio adesso che lavoro, ho un compagno da un po', socialmente ho delle belle persone vicino però non sono qui, vivono lontano, qui faccio proprio fatica a trovare rapporti significativi... Ho persone che conosco perché ho cercato di allargare un po' la mia cerchia di amicizie anche frequentando corsi, però ho veramente difficoltà a... non so... ad integrarmi, a stare in sintonia; tipo, "ci troviamo? Andiamo a fare delle cose insieme?", è molto difficile riuscire a fare questo, non so perché... le persone sono sempre distanti, non vogliono rapporti profondi, si fermano alla superficie, non so come spiegare... tanto che io ho detto "sarà che ho fatto sta vita, probabilmente la gente me lo legge in faccia", ma non credo che sia così, bo... ma come fanno a sapere? [...] qui ancora mi sento sola come un cane, perché ho un compagno però non è che la mia vita può funzionare intorno a lui, ho bisogno anche di altro. E mi rompe un po' sta cosa, perché alla fine è questa la difficoltà che ho, e probabilmente è anche questo che mi rende vulnerabile alle sostanze, anche al metadone" (Felicia, 40-45 anni). Similmente, Grace sottolinea l'importanza del contesto di vita, che attualmente è il suo paese d'origine, dove si sente oppressa per gli atteggiamenti discriminanti delle persone e per l'impossibilità oggettiva di costruirsi la vita che desidererebbe: "G. perché la mia vita era là, io volevo vivere li perché mi sentivo a casa, qui mi sento sempre fuori luogo, poi insomma qui è un paesino di provincia dove la gente sparla, mentre là mi sentivo libera di fare quello che volevo e di essere come volevo, perché alla fine il paese ti condiziona molto, è inutile, io cerco di fregarmene ma poi ti condiziona il posto in cui vivi, io non lo sento per niente un posto adatto ad un giovane, perché non ci sono stimoli, non c'è niente... i turisti che vengono sono tutti vecchi, non c'è nulla per i giovani e non mi meraviglia che * abbia un'altissima percentuale di tossicodipendenti. Certo che cercano di mantenersi nascosti per non far parlare di sé e non essere giudicati, tutto è tenuto nascosto per proteggere l'immagine del posto. Benché io sono una persona che quando fa uso mi chiudo in casa, non è

che sono una che va fuori e qualcuno mi ha visto in circostanze particolari... però la gente parla lo stesso... per cui... ora, non penso di avercelo scritto in faccia di essere tossicodipendente, quindi basta veramente niente, e quindi sì, per una persona così in generale, e poi per i ragazzi giovani che abbiano un attimo di aspirazioni al di là di continuare a lavorare, famiglia, e basta, tutto finto, è un luogo mortale" (Grace, 36-39 anni). Le resistenze oggettive al cambiamento iniziano a presentarsi nelle leve di età più adulte, soprattutto in riferimento alle difficoltà legate alla stabilizzazione lavorativa; come si è avuto modo di vedere, la ricerca di un lavoro che potrebbe permettere il rientro nella società è resa difficile da numerosi fattori che possono ricollegarsi sia ad una più generale condizione femminile, che costituisce già a priori uno svantaggio, sia al passato di tossicodipen dente, allo stigma ad esso associato e spesso a condizioni di salute precarie23 [Rosenbaum 1981; Taylor 19931. Il primo contributo viene dalla storia di Miranda che si trova, sulla trentina, ad aver maturato la convinzione di voler abbandonare lo stile di vita precedente, tornando dai genitori che le hanno regalato una casa indipendente e terminando con il programma di disintossicazione, ma ad avere difficoltà oggettive di inserimento lavorativo che la portano ad essere costantemente depressa e a desiderare di tornare alla vita precedente, come realmente si è verificato qualche giorno dopo l'intervista. Miranda attribuisce a diversi fattori la sua situazione, lasciando la tossicodipendenza un po' sullo sfondo poiché avendo vissuto lontano non è sicura che la gente sappia del suo passato: "M. so che son fortunata perché abito in una bella casa, mi han regalato l'appartamento là, cioè rispetto agli altri tossici che dicono "non ho niente intorno"... però mi manca il lavoro, mi sento un'handicappata perché... mah, son sempre convinta che si vede che sono un ex-tossica, sai? Perché mi dicon sempre "le faremo sapere" e poi non mi rispondono neanche al telefono, mi fanno andare dall'altra parte del mondo per fare un colloquio e poi non mi chiamano neanche per dirmi "sì" o "no", e allora vado in depressione, in sto periodo qui guarda... L. secondo te quali sono le cause? M. perché son donna, perché ho superato i 30 anni, cioè sopra i 30 anni non ti possono più fare il contratto di formazione, poi è un periodo di crisi ma vedo tutti che entrano nelle paranoie... Io di volontà ne ho cavolo, però se non mi danno [...]. Adesso per dirti mi piacerebbe trovare il lavoro, avere un bambino, fare una vita tranquilla, però se non c'è nessuno che mi aiuta in quel senso lì... ci son dei momenti che dico a mia mamma che mi sento depressa, non lo so, vedo la vita che mi sfugge, poi penso magari... già loro fanno fatica con la pensione e io cosa devo fare scusa? [...] Però è dura se non ti aiuta qualcuno... io capisco che gli altri tossici, cioè li conosco quasi tutti, e ne trovi uno su mille che ce la fa, capito? Però per me può essere diverso... ti dicevo io penso che sia un miscuglio di cose, ci son tante cause: donna, tossica, troppo grande, un miscuglio di cose. Mia mamma dice di no, però secondo me tanti sanno, perché la città è piccola e quindi qui ci conosciamo tutti, capito? Io avevo 'sii dred lunghi, e tutti "Miranda Miranda Miranda", mi conoscevano sia le persone normali che i balordi, quindi anche se son cambiata la fisionomia è quella, e secondo me in

certe situazioni c'entra sta cosa..." (Miranda, 31-35 anni). Gli effetti del processo di stigmatizzazione sono maggiormente evidenti per coloro che, nel corso della carriera tossicomanica, hanno subìto carcerazioni o hanno unito, alla loro identità di tossicodipendente, l'identità di prostituta: le difficoltà relative a questi status vengono identificate nei due brani che seguono come condizioni invalidanti nel processo di reinserimento sociale. Si ricorda, inoltre, che il leit motiv delle ricostruzioni di buona parte delle donne più adulte che hanno avuto tali esperienze di vita è la carenza di un sostegno sociale effettivo, da parte della famiglia d'origine come delle reti amicali, spesso costituite esclusivamente da tossicodipendenti: "J. sul fatto del lavoro ad esempio qui a Trento è come stare in un paese, cioè c'è la privacy ma di fatto non c'è. Qualsiasi lavoro vuoi trovare da un privato loro vengono a sapere che hai avuto dei problemi e ti mandano via. Ho lavorato in mensa e lavoravo benissimo perché comunque io quando lavoro lavoro, ero regolare, e una persona che sapeva quello che facevo l'ha detto al capo e lui mi ha detto "non servi più", riduzione del personale... comunque sei sempre discriminato, loro si rimettono sempre alla visione del tossico L. di cosa ha paura la gente secondo te? J. ha paura non so esattamente di cosa, ha paura che lo freghi, che gli procuri guai, ha paura... mah, son delle paure che magari sono fondate perché c'è chi lo fa, chi ruba soldi... ci sono dei lavori in cui proprio non ti assumono, ad esempio in ospedale se sanno che una ha problemi di tossicodipendenza penso che... cioè questa qua tende a nasconderlo più che a farlo vedere perché sarebbe mandata via. Sicuramente, discriminazioni ci sono sul lavoro, nell'affittare appartamenti perché quasi tutta la gente ha comunque contatti con questura o carabinieri e se sanno che hai avuto problemi di droga non te l'affittano l'appartamento, proprio per paura che gli fai traffici in casa o che gli rovini tutto o che non arrivi a pagarli. Perché comunque quasi sempre il tossico i soldi che ha se li mangia fuori [...]. E che fa ancora paura a tanti la droga, perché nonostante se ne parli del tossico è sempre data una visione negativa, nei film, nei discorsi il tossico è visto sempre come una persona di cui non fidarsi, che se può ti ruba qualsiasi cosa, che se non gliene dai ti distrugge la casa. Un tossico non è in grado di stare con il figlio perché si fa, magari si impacca e lascia i figli da soli, anche se dopo nella realtà non è così... (Joy, over 45 anni). "L. adesso cosa stai facendo? B. niente. Io vorrei lavorare ma non mi sta bene di dover andare a far lavori... poi in realtà a me non mi hanno offerto un cazzo... cioè se è inverno è freddo e non c'è lavoro, d'estate per il caldo non c'è lavoro... ma in questo periodo chissà come mai tutte lavorano quelle che conosco. Ah sì, ma se mi facessi 2 anni di comunità avrei lavoro, appar tamento... ma a me i leccamenti di culo non mi sono mai interessati, cioè devo andare in comunità per avere un lavoro? L. secondo te questa situazione è creata perché sanno che sei tossicodipendente? B. facile perché alla fine la privacy non esiste, se ti chiamano per un lavoro e ti dicono "va bè richiamiamo noi" e poi non si fa sentire nessuno... come mai? Va bene una volta, due, non sempre... o magari ti prendono a lavorare una settimana... la privacy sì, magari non vengono a dirti a parole "guarda che quella li..." però lo dicono lo stesso con dei gesti, dei segni, come

ho visto fare anche qua. Io non ti dico niente... la privacy dovrebbe esistere, ha un senso, ma non per nascondere perché comunque una persona può avere tutte le intenzioni di questo mondo ma è ovvio che non tutti capiscono una storia così, un passato così, non tutti si fidano di una persona che ha fatto 20 anni di vita così, a prenderti in un negozio o in una ditta... neanche io mi fiderei perché ti devi fidare di una persona che ha passato metà della sua vita a fare di tutto e di più per farsi le pere. E come fai a fidarti di dargli in mano una cassa con dentro i soldi ad una persona così? Io magari dico se mi prendessero a lavorare io non gli toccherei niente, però non lo so, quello del negozio non lo so... e non sta li a sfidare la sorte, "chi se ne frega" dice, prendo una che non ha problemi. E normale, è anche capibile da un lato" (Betty, 36-39 anni). Infine, non bisogna dimenticare che la malattia, e più in generale le cattive condizioni di salute che derivano da un passato molto lungo di tossicodipendenza, rappresentano fattori che complicano, oggettivamente e soggettivamente, il percorso di affrancamento definitivo dall'eroina, di reinserimento sociale e anche di costruzione di nuove relazioni con persone estranee al giro. In questo primo brano, Kimberlee sottolinea innanzitutto le difficoltà ad avere una relazione sentimentale a causa della propria sieropositività, aspetto di sé che può svelare solo a persone con un passato simile al suo e che viene nascosto all'esterno, nei contesti di vita ordinaria: "K. sì, sai cosa? Penso molto ovviamente a un rapporto con un uomo, cioè penso sempre che se mi trovo un uomo deve essere uno che già conosce la situazione perché io non riuscirei a dirlo insomma, o che è sieropositivo o che comunque conosce la mia situazione e l'accetta per come è insomma. Come l'ultimo tipo di cui ti parlavo, che però ovviamente li vai sempre su tossici o ex-tossici perché comunque per come loro vivono anche la sieropositività sembra una cosa più normale, nel nostro ambiente è così, ma se ne parli a uno fuori ti dà l'acqua santa! L. anche perché c'era stato un periodo in cui mi ricordo che proprio ci si era accaniti tantissimo sull'Aids, anche perché non si conosceva molto... K. sì, ma c'era proprio un terrorismo pazzesco... e invece poi adesso che si sa, non è neanche così facile prenderlo, è molto debole come virus, però... Io spero sempre che trovino qualcosa insomma... è che figurati, non lo faranno mai perché non gli conviene, gli conviene tenere malati a vita piuttosto che curarli, però magari una buonanima... L. ci sono state persone che ti hanno messa in disparte per sta cosa? K. no, anche perché quelli che sapevano e sanno sono solo tossici, gente che mi conosceva da prima, e veramente tra i tossici non c'è nessun tipo di discriminazione, perché siam tutti mezzi... cioè... non so perché ma è così. Dove lavoro e in tutti gli altri posti non sa niente nessuno, anche perché non è che c'è pericolo e che io vado li a... L. certo è chiaro, io intendevo che magari avendo rapporti di confidenza con qualcuno poteva essere che ne avevi parlato K. no no no no, troppo pericoloso... L. e invece quando vai in ospedale?

K. bè ovvio, in ospedale lo sanno, è logico... fortunatamente è da tanto che non vado in ospedale perché io ho pensato ancora che se dovessi essere ricoverata io farei una cosa così, me ne andrei lontano così nessuno può venirmi a trovare e chiedere di me... è troppo rischioso perché purtroppo la gente ancora non ha capito cos'è sto HIV per cui io mi devo tutelare" (Kimberlee, 36-39 anni). Altre donne, con l'esperienza, hanno maturato un atteggiamento simile sul luogo di lavoro e nelle relazioni interpersonali ed avendo sperimentato su di sé gli effetti che le confidenze sul proprio passato possono determinare nelle relazioni con le persone estranee a questo mondo, hanno deciso di ricostruirsi una nuova identità nascondendo parte di sé agli altri: "S. al lavoro nessuno sa niente di me, no no. Io non... non sanno che ho due figli... no, sennò non mi terrebbero neanche... perché quando tu entri, ti fanno un colloquio, ti chiedono se hai avuto precedenti... e io ho detto di no, e nessuno sa la mia storia, spero che non... anche per le persone che mi conoscono bene o male, io ho il terrore che possano venire a sapere qualcosa... c'è gente che ha avuto problemi con la giustizia, 2-3 persone, però, che bene o male mi dicono "mi sembra di averti visto, mi sembra di conoscerti", e dico "a me proprio non sembra"... e poi in un ambiente di lavoro come questo... che tu parli bene o male sei sempre giudicata. Cioè han sempre qualcosa da dire, e allora quando parlo parlo del tempo, non sa niente nessuno, e quando mi fan domande dico "scusa preferisco non parlare, parliamo del tempo se vuoi", mi dispiace ma [...]. Sono una ragazza che ho * anni e basta. Non voglio dire proprio niente, e basta" (Sibilla, 4045 anni). "C. i pregiudizi purtroppo ci sono ancora oggi perché quando vai a cercare lavoro che per sbaglio viene fuori questa cosa... del carcere, ma anche il solo fatto di aver fatto uso di sostanza, la gente normalmente si spaventa, ne trovi pochi che ti danno fiducia, son proprio pochi che te lo fanno tranquillamente. E quindi sì, è un problema, nel senso che quello è un marchio che non ti togli più di dosso. E poi è anche vero che io non ho mai detto basta, no? Forse se avessi detto basta le cose sarebbero... non lo so guarda a questo non so dare una risposta. Certo che con i miei precedenti non è così semplice [...]. E sai, quando uno scopre una verità, anche non del tutto, o in modo casuale, poi io la dico tutta la verità, e non si fa sempre bene a dire tutta la verità, perché non sempre la persona che hai di fronte è capace di capire. Quindi mi sono più volte rovinata le relazioni; ora ho smesso proprio di parlare con chicchessia, perché... insomma, di dire "guarda ho fatto questo e quello, il carcere..." Che poi non si vede, no? Perché se tu mi guardi non è che pensi che sia tossica, dici questa sta benissimo. Poi sono appunto una persona che ride, mi mostro sempre più su che giù, e quindi uno mai va a pensare che ho problemi... Mi han sempre detto "non sei brutta, non sei storpia, non sei grassa, non sei stupida..." (Cher, 40-45 anni).

Il percorso di indagine presentato finora necessita di alcune brevi considerazioni di sintesi che favoriscano l'intelligibilità dei risultati e ne rendano più chiara la coerenza interna, ripartendo dagli interrogativi iniziali circa le specificità (socio-culturali) della tossicodipendenza femminile. Il lettore attento si sarà già reso conto della fallacia epistemologica ed ontologica di quel ritratto della donna tossicodipendente riportato nel primo capitolo, che trovava la sua massima espressione nella definizione della figura femminile come "ombra" di quella maschile, di una tossicodipendenza vissuta con ingenuità ed inconsapevolezza, più da "spettatrici di se stesse" che da "protagoniste", più per una sfortunata serie di circostanze che per una precisa volontà personale. Risulta evidente dalla lettura dell'analisi qualitativa delle storie di vita che una tale negazione dell'intenzionalità e razionalità dell'azione deriva più da un'adesione acritica al vecchio stereotipo della femminilità (nella sua sinonimia con la passività) che da una analisi attenta delle esperienze drogastiche e dei loro significati nelle biografie delle donne. All'immagine della vittima, ovvero di questa donna trascinata o forzata da un uomo ad usare droga e poi rimasta intrappolata in essa senza potervi opporre resistenza, si contrappone in letteratura come nel senso comune popolare quella della viziosa, ovvero di una donna che sceglie l'esperienza drogastica per un puro edonismo che si esprime, tra l'altro, nella liberazione di una sessualità promiscua [Anderson 2008; Ferraro 2006]. L'analisi presentata ha contribuito a decostruire queste false dicotomie ri-consegnando un'immagine molto più sfumata e complessa dell'esperienza drogastica femminile, e soprattutto ri-attribuendo alla donna il ruolo di protagonista non solo della propria biografia, ma paradossalmente anche della propria dipendenza. La scelta di accedere all'esperienza drogastica è sempre autonoma, (più o meno) consapevole e dettata dal desiderio di provare su di sé quegli effetti psicoattivi appresi come piacevoli e, in qualche caso, da una esplicita ricerca dell'auto-annullamento in funzione terapica; se l'influenza della figura maschile in tutto il processo che porta all'avvicinamento alle sostanze non può venire completamente negata, anche per la sua onnipresenza nella biografia delle intervistate, non si può certo assegnargli un valore di costrizione, tanto che le sperimentazioni di eroina avvengono spesso contro la volontà del partner. Il concetto di espansione delle opportunità esprime compiutamente le ragioni che motivano la prosecuzione nell'uso della sostanza: il senso di appagamento sperimentato nei primi periodi della propria carriera da eroinomani e la sensazione di poter ampliare le proprie possibilità sociali, frequentando questi network legati all'eroina e gestendo al contempo il proprio ruolo nella società convenzionale, contribuiscono ad alimentare le motivazioni all'uso e l'arrivo ad un grado di coinvolgimento con la sostanza non più governabile.

L'instaurazione della dipendenza riduce ma non annulla completamente l'intenzionalità dell'agire, che rimane spesso ancorata ai valori presenti nella società convenzionale. Le donne sono autonome nelle attività di hustling e coping e nella costruzione di reti sociali che permettano loro di sostenere tale stile di vita. Se è vero che in alcuni momenti della propria carriera tossicomanica possono appoggiarsi al partner per l'acquisto della roba e il guadagno del denaro necessario, la protrazione nel tempo del comportamento d'uso impone loro una riorganizzazione autonoma delle forme di sostentamento, per sé e spesso per il proprio partner. Queste sono pianificate in modo pragmatico: l'arrivo alle attività criminali (furto, spaccio, truffa, ecc.) segue la vendita dei propri beni, e l'arrivo alla mercificazione sessuale, soprattutto nella forma più visibile della prostituzione, segue nella maggior parte dei casi il fallimento di altre attività di hustling. La costruzione di reti sociali esclusive formate da pochi "altri significativi" risponde, in modo altrettanto evidente, alle esigenze pragmatiche di ridurre i rischi connessi alle attività di hustling e coping e di stabilire rapporti di mutuo sostegno. Non da ultimo, prima o dopo la dismissione dell'uso e la richiesta di aiuto ai servizi sanitari, per quanto travagliata e non lineare, risponde all'esigenza concreta di riprendere il controllo della propria vita e di ritornare alla normalità, ridimensionando uno stile di vita che con la dipendenza ha ridotto le proprie opportunità di vita, contemporaneamente nel mondo di vita drogastico e in quello convenzionale. Se, dunque, il principio della passività femminile costituisce un falsoideologico con pochi riferimenti reali concreti, e se la donna può essere considerata parte attiva nella costruzione della propria biografia tossicomanica, l'esperienza drogastica non può certo essere assimilata a quella maschile, soprattutto in riferimento all'eroina. Se si riprendono gli elementi fondanti dell'approccio co-relazionale alla ricerca sulle sostanze psicoattive elaborato da Cipolla [2007b: 205] e assunto in questa sede come riferimento teorico, si può individuare nella relazione instaurata con la sostanza un elemento di continuità tra i due i sessi. L'eroina, a differenza di altre droghe, ha una grande capacità di costruire intorno a sé stili di vita e relazioni, in un mondo di vita che si estranea non solo da quello convenzionale, ma anche da quello che gravita intorno alle altre droghe; tanto che, altrove, viene definita «la regina delle droghe» o «la droga delle droghe» e le viene attribuito un potere «seduttivo e schiavizzante» [Cipolla 2007a: 16], difficilmente omologabile a qualsiasi altra sostanza psicoattiva esistente. Non a caso, per entrambi i sessi, mentre la decisione di sperimentare le altre droghe ha più un carattere di agito, ovvero è più situazionale e meno mediata dalla ragione, l'arrivo all'eroina segue un percorso più lungo di esposizione, riflessione e decisione di agire; inoltre, i gruppi di ragazzi dove si consumano droghe emarginano chi vi si avvicina poiché nell'immaginario comune l'eroina è il buco, il buco «è Aids, sangue, infezione» [Cipolla 2007a: 16-17], e il tossicodipendente è l'eroinomane. Si esprime in questo modo Duncan: «se siamo dipendenti dall'eroina, stiamo vivendo in un mondo a parte, un mondo che coinvolge le sole attività connesse al farsi. Abbiamo tagliato fuori tutto e tutti e pensiamo solo

ad ottenere la roba. Alcuni consumatori di eroina diventano dipendenti più da questo stile di vita che dalla droga in sé. Siamo trascinati da tutti i rituali implicati, dall'eccitazione e dal pericolo [...]. Ad alcuni di noi piace vivere ai margini, vagando per la strada. Ci nutriamo della sfida di fare shopping per una dose e del piacere di trovare la roba più buona. E la siringa - alcuni di noi iniziano ad amarla. Alcuni di noi diventano orgogliosi di aver usato una droga che terrorizza altri [...]. Usare eroina ci conduce spesso ad uno stile di vita pericoloso. Trasgrediamo la legge anche solo usando, e alcuni di noi pervengono al furto, alla prostituzione e ad altri crimini per sostenere la loro abitudine. Quasi tutti coloro che hanno usato hanno visto i loro amici morire per la droga e per questo stile di vita. L'eroina è così potente ed i suoi effetti sulla mente sono così travolgenti che è difficile accorgersi di dove ci sta portando la nostra dipendenza. E spesso diveniamo separati non solo dal mondo convenzionale ma anche del resto del mondo della droga. Impariamo a non fidarci di nessuno e di niente, tranne della nostra droga. L'eroina diventa la nostra vita» [1997: 2-3, trad. mia]. Il potere additivo dell'eroina è fuori discussione, ma a differenza del significato che viene attribuito di norma a tale termine, la dipendenza che si instaura non comprende solamente modificazioni biologiche c/o neuronali più o meno irreversibili, ma anche aspetti psico-sociali a cui spesso si assegna un ruolo residuale: l'eroina è «biologia dopo la psicologia e la sociologia e, dopo, questo dopo può diventare un prima e prevalere su tutto il resto» [Cipolla 2007a: 45]. La coazione a ripetere, spesso percepita al di sopra della propria volontà, determina e al contempo è determinata dalla separatezza di questo mondo di vita, caratterizzato dalla routinizzazione della quotidianità intorno alla sostanza, dal coinvolgimento in relazioni tanto stabili quanto esclusive per contenerne i rischi (fisici e legali che siano), dall'auto-esclusione più o meno evidente del tossicodipendente da altri mondi vitali e dall'etero-esclusione indotta da stigmi sociali ed etichette. Proprio in questi aspetti si innestano le diversità esperienziali di uomini e donne, che ridimensionano la constatazione che il rapporto con l'eroina e con la dipendenza da essa indotta omologa i due sessi e ne de-potenziano la valenza euristica, rendendola più formale che sostanziale. Se la dipendenza è anche psico, socio e cultura, l'esperienza soggettiva della dipendenza non può che essere mediata dal genere, intrinsecamente costituente la vita sociale nella sua processualità come nella sua istituzionalità. Questo concetto risuona nelle parole di uno dei miei key informant, che afferma che "la donna nasconde il suo uso di droghe come nasconde la perdita della sua verginità, mentre l'uomo lo millanta così come millanta la perdita della sua verginità" (Joshua, 56 anni), con le quali ha voluto affermare che le diversità di genere nell'ambito drogastico sono un riflesso delle diversità osservate in tutti gli altri ambiti di vita, essendo dunque indotte dalle rappresentazioni culturali e dagli stereotipi convergenti sui due sessi, nelle loro derivazioni psicologiche e sociali. Il mondo della vita costruito intorno all'eroina è storicamente maschile e non solo per la presenza quasi esclusiva di uomini, ma anche per i valori e le logiche su cui è costruito: la forza fisica, la fermezza di carattere, la durezza, l'azione, la tensione verso il conseguimento del

benessere materiale, la leadership; non c'è spazio per i sentimenti, per le titubanze, per le espressioni emotive, per la debolezza, per la paura, in generale per i comportamenti espressivi delle femminucce [Lalander 2003]. Ricordiamo le parole di Measham: «il genere non influenza solo i modi con cui le persone fanno le droghe ma l'uso stesso di droghe può essere visto come un modo per fare il genere: le persone costruiscono la loro identità di genere, le loro mascolinità e femminilità, in modalità sia tradizionali che non-tradizionali, attraverso le loro sperimentazioni e le loro esperienze delle droghe e del contesto socioculturale in cui vengono consumate, e le attitudini e i comportamenti relativi ai consumi di donne e uomini all'interno di queste culture della droga» [2002, trad. mia]. Se è vero che il maschile e il femminile spesso si confondono nelle esperienze soggettive di questo mondo di vita, ripercorrendo l'analisi delle storie di vita possiamo sostenere che questa sua costruzione in senso patriarcale, dunque in modo sessualizzato, ha un peso rilevante nel decidere i destini delle donne che vi accedono. Nella fase di socializzazione, indipendentemente dal carattere casuale e contingente delle sperimentazioni, l'uso di droghe risponde ad una precisa volontà di accesso alle forme della socialità maschile. L'attrazione per uomini trasgressivi e forti, la predilezione per le compagnie maschili e il bisogno di trovare figure rassicuranti e sentirsi protette precedono spesso l'attrazione per le sostanze, le quali assumono un significato più generale di medium nella relazione con l'uomo, oltre che di ricerca degli effetti psicoattivi; l'età avanzata di queste figure maschili di riferimento giustifica un esordio più precoce della carriera drogastica nelle donne e un lasso di tempo più breve tra le prime esperienze con le droghe illegali e la decisione di sperimentare l'eroina. La ricerca del piacere, dell'alter-azione e dello sballo non può certo essere messa tra parentesi ed, anzi, rappresenta una parte integrante dell'esperienza femminile, ma non acquisisce tanto il significato di puro edonismo personale quanto di condivisione del proprio piacere nella relazione con l'altro. Le forme della relazione con gli uomini definiscono le principali diversità di genere nell'esperienza soggettiva di tale mondo di vita in ogni fase della carriera tossicomanica. Si è notato, ad esempio, che l'essere donna facilita l'approvvigionamento della roba e non solo per le possibilità connesse all'uso della propria sessualità come forma di scambio, ma anche per le concessioni gratuite di droga ispirate nel genere maschile dall'aspetto indifeso delle donne; la maggiore disponibilità di eroina può contribuire a giustificare un'instaurazione più veloce della dipendenza nelle donne e, di conseguenza, il ricorso più precoce (ancorché strumentale) ai servizi di cura. L'instaurazione della dipendenza, inoltre, non fa che rendere le relazioni con gli uomini ancora più centrali poiché le necessità quotidiane legate al farsi impongono la creazione di legami sociali solidi e duraturi e di reciproco sostegno; la promiscuità sessuale è presente e si giustifica solo ed esclusivamente in virtù delle necessità legate alla sostanza, e il rapporto di coppia si costruisce su valori ed obiettivi di vita che ricalcano quelli presenti nella società

convenzionale, sebbene rimanga una relazione "a tre" sempre alterata e compromessa da questo terzo incomodo. L'adesione agli ideali di femminilità trasmessi socialmente, fondati sulla centralità dell'amore e sulla dedizione incondizionata al proprio partner, possono portare le donne a focalizzare la propria esperienza di vita sul partner, ad accettare relazioni asimmetriche impostate sulla violenza fisica e sull'indifferenza del partner per i propri bisogni e ad adottare comportamenti a rischio, come il rifiuto dell'uso del preservativo, interpretato come un ostacolo all'espressione del proprio amore, o lo scambio di siringhe, interpretato simbolicamente come un gesto di condivisione con l'altro. Dunque, le donne possono sviluppare forme di dipendenza dall'uomo, oltre che dall'eroina, non tanto sotto il profilo economico come viene rilevato in letteratura, quanto sotto il profilo emotivo ed affettivo. Entro questo ideale di amore, le donne spesso assolvono nella coppia un doppio ruolo, ovvero di sostegno e cura dell'uomo e della relazione nel privato e di sostegno economico e approvvigionamento di roba nella sfera pubblica. La loro identificazione nelle attività criminali è, nella maggior parte dei casi, molto limitata in quanto vengono condotte solo ed esclusivamente per i propri fabbisogni di roba e non per l'acquisizione di uno status sociale ed economico in tale mondo di vita. La necessità di esporsi in prima persona all'acquisto di roba e alle attività di hustling indotte dalla dipendenza rende ragione della maggiore probabilità per le donne di essere intercettate dalle forze dell'ordine ed essere segnalate per uso e possesso di eroina rispetto ad altre sostanze psicoattive, nonostante il genere femminile resti pur sempre numericamente sottorappresentato rispetto a quello maschile, anche nell'esperienza carceraria; non sono da trascurare, a tal proposito, le capacità di mimesi che hanno mostrato le intervistate, ovvero le potenzialità connesse all'uso della propria femminilità e del proprio aspetto indifeso per nascondere le proprie attività illegali dietro un'immagine pulita sfuggendo al controllo delle forze dell'ordine e la possibilità di ricorrere, in extremis, a varie forme di mercificazione sessuale non punibili penalmente. L'esperienza della prostituzione di strada, inoltre, spesso intrapresa con la compiacenza del partner, non fa che aggravare il percorso tossicomanico e il ricorso all'eroina, nel suo mix con alcol e altre sostanze, in funzione autoterapica. Non da ultimo, la relazione costituisce insieme ostacolo e risorsa alla richiesta di aiuto: la proiezione verso l'altro, in particolare verso il proprio figlio e verso altri significativi estranei a questo mondo di vita, costituisce una forte motivazione alla dismissione dei comportamenti d'uso. Al contempo, la profondità dei legami sociali instaurati intorno all'eroina, per quanto opportunistici possano apparire ai loro stessi occhi, e le difficoltà connesse alla costruzione di relazioni con persone estranee al giro, ove necessariamente manca l'empatia e la comprensione per questa parte di sé che deve essere nascosta per evitare la stigmatizzazione, costituiscono dei seri deterrenti all'affrancamento dall'eroina e dallo stile di vita ad esso connesso. Queste rappresentano le specificità femminili più rilevanti, che hanno portato le autrici femministe a sostenere la necessità dell'empowerment delle donne come pre-condizione per il

trattamento della dipendenza dall'eroina [Ettorre 1992, 1994a, 2004]: mentre gli uomini hanno più spesso partner astinenti dall'eroina che offrono il loro supporto incondizionato e reti di sostegno familiare protettive e accudenti, le donne manifestano un costante bisogno della presenza, dell'approvazione e della protezione da parte dell'uomo e ricercano relazioni empatiche in cui possono esprimere la loro identità, dunque costruiscono più frequentemente degli uomini reti sociali formate da tossicodipendenti che possano comprendere i loro bisogni e che non hanno certo una funzione accudente rispetto all'uso di eroina. Le differenze di genere si definiscono non solo in riferimento alle esperienze vissute in tale contesto, ma anche ai legami e alle relazioni con la società convenzionale. Secondo alcune autrici femministe, per una donna usare eroina ed entrare a far parte di questo mondo di vita è una forma di resistenza alle aspettative di genere, una sfida agli stereotipi tradizionali che vorrebbero la donna pura, innocente, preservatrice della moralità [Anderson e Bondi 1998; Ettorre 1992] e con il pieno controllo di sé per poter assicurare la stabilità familiare. La funzione protettiva di tali aspettative sociali nell'uso di droghe nel genere femminile è indubbio: sebbene nelle nuove generazioni si stia riducendo la distanza tra uomini e donne nelle sperimentazioni di tutte le sostanze psicoattive, la superiorità numerica dei primi resta inalterata mentre le donne ricorrono più spesso agli psicofarmaci, considerati una forma legittima di sedazione dei propri stati emotivi, in quanto me diata dalla medicina ufficiale, e socialmente accettata, poiché il controllo dell'emotività è funzionale al mantenimento dell'ordine sociale e familiare. Di converso, l'accesso alle droghe illegali da parte delle donne, in modo particolare all'eroina, considerata ancora veicolo di infezione e impurità, definisce uno stigma sociale "doppio" e reazioni sociali più dure, complicando l'esperienza soggettiva in relazione all'immagine di sé e alla propria identità sociale. Tale ipotesi ha trovato un ampio riscontro nelle biografie delle intervistate. Già prima dell'accesso alle droghe illegali le nostre intervistate percepivano le aspettative familiari di perfezione e controllo di sè come poco coerenti con il loro modo di essere e l'esperienza drogastica costituiva proprio una forma alternativa di espressione di questo lato trasgressivo, per alcune socialmente palesato fin dall'esordio, per altre conciliato con un'immagine sociale pulita e pre-confezionata fino a fasi inoltrate della carriera tossicomanica. La dipendenza dall'eroina segna, prima o dopo, la presa di coscienza dell'incapacità di gestire la trasgressione o di conciliare queste due immagini sociali, traducendosi così in un profondo senso di colpa e vergogna per la propria condizione, anche a fronte delle forme di esclusione sociale attivate nei loro confronti, fattori che le spingono a proseguire nell'uso della sostanza come forma di automedicazione. L'entità della stigmatizzazione e delle sue conseguenze sulle biografie individuali dipende chiaramente da una serie di fattori spesso legati alle contingenze: infatti, la condizione di tossicodipendenza non scatena necessariamente processi di esclusione sociale se non riceve una qualche forma di pubblicizzazione, ovvero non si unisce all'esposizione ad attività criminali, alla prostituzione, all'arresto e alla detenzione, alla gravidanza e alla maternità, alla

contrazione di malattie infettive e, non da ultimo, al ricorso ai servizi. La diversa composizione di queste forme di esposizione nelle biografie individuali definisce una maggiore o minore gravità dell'esclusione sociale e, parallelamente, maggiori e minori resistenze soggettive e oggettive al cambiamento. Di fatto, le storie di vita analizzate hanno confermato che i giudizi sociali nei confronti di una tossicodipendente sono più pesanti per due ordini di motivi: da un lato, per l'accostamento della tossicodipendente alla prostituta e all'assunzione di condotte sessuali promiscue; dall'altro lato, per la conseguente forzatura stereotipica dell'incapacità naturale di una tossicodipendente ad assolvere al proprio ruolo di madre. Questi pre-giudizi sociali, rinvenibili non solo nel senso comune ma anche nelle istituzioni socio-sanitarie e giudiziarie, possono costituire una seria barriera alla richiesta di aiuto, soprattutto in presenza di figli: la possibilità che le istituzioni possano disporre l'allontanamento del figlio dalla propria madre costituisce un valido motivo per mantenere la tossicodipendenza nell'ombra e, per coloro che hanno deciso di esporsi e rivolgersi ai servizi, è fonte di un timore costante che può avere un certo peso nelle recidive nell'uso di eroina. Tale situazione è, inoltre, favorita dalle carenze di servizi e di politiche integrate gender oriented che limitino le resistenze soggettive e oggettive al cambiamento e incontrino i bisogni specifici delle madri tossicodipendenti, nella conciliazione delle attività di cura con le attività lavorative e nel sostentamento economico del nucleo familiare. Più in generale, l'esperienza della stigmatizzazione contribuisce a limitare le possibilità oggettive di reinserimento sociale, soprattutto sul piano lavorativo: le donne partono già, in ragione del proprio sesso, da una condizione di svantaggio nel mercato del lavoro, e l'esposizione pubblica della propria tossicodipendenza non fa che complicare le possibilità di rientrare nella società convenzionale, spesso determinando un costante ritorno allo stile di vita legato all'eroina per la mancanza di opportunità alternative concrete. Non sono da sottovalutare, inoltre, le implicazioni che alcune esperienze traumatiche soggettive possono avere sull'attaccamento alle sostanze psicoattive in funzione automedicativa, sulla auto-colpevolizzazione e sulla scarsa stima di sè, come l'esperienza dell'aborto, dell'interruzione volontaria di gravidanza e delle violenze fisiche e sessuali subite (nel contesto familiare e non), che spesso vanno a sommarsi ad altre forme di internalizzazione del disagio, come i disturbi del comportamento alimentare (precedenti, concomitanti o successivi all'eroina), gli atti di auto-lesionismo spinti a volte fino al tentato suicidio e lo sviluppo di serie patologie psichiatriche. La mancanza di un sistema informativo gender oriented impedisce di quantificare esattamente la diffusione di questo tipo di esperienze e di disagi, ma da un punto di vista qualitativo alcuni estratti delle interviste effettuate, che si ritrovano diluiti in tutta la ricostruzione della carriera tossicomanica, mostrano come questi fattori possano aggravare l'esperienza tossicomanica e complicare il percorso di recupero che, al contrario, potrebbe essere facilitato dalla costruzione di servizi socio-sanitari che considerino in modo olistico le specificità e i

bisogni dell'esperienza femminile. Ogni discorso sulla tossicodipendenza femminile non può prescindere, infine, da una valutazione delle persistenze e dei mutamenti osservabili nei modi di vivere la propria condizione nelle diverse generazioni. La cornice sociale entro cui si colloca l'esperienza drogastica, ovvero il contesto sociale globalizzato, costituisce un fattore importante nello schema correlazionale di Cipolla [2007b: 205], e contribuisce a definire alcune differenze intergenerazionali non trascurabili che rimangono, però, confinate all'atteggiamento generale verso il comportamento drogastico, perdendosi poi con l'instaurazione della dipendenza dall'eroina. Le generazioni più giovani accedono molto prima all'uso di droghe illegali (e all'eroina) rispetto alle adulte. Questo dato è motivato da una serie di cambiamenti macro - e meso-sociali che non possono che condizionare i mondi di vita individuali: gli stili educativi familiari più permissivi; la maggiore disponibilità di droghe; la maggiore accettazione sociale dei comportamenti di consumo (soprattutto di cannabinoidi, sulla via della normalizzazione); la compatibilizzazione delle condotte drogastiche con la vita quotidiana; ad un livello culturale più generale, la frammentazione etica e la relativizzazione dei valori entro ambiti esperienziali e relazionali circoscritti, la maggiore accettabilità del rischio, la proiezione nel presente, la reversibilità delle scelte e l'evitamento dell'assunzione di responsabilità, elementi che rendono il terreno fertile all'innestarsi delle esperienze drogastiche. Dunque, nelle giovanissime la ricerca del piacere, dello sballo e dell'alterazione è una dimensione identitaria centrale e i modelli di consumo sono molto simili a quelli dei coetanei maschi, soprattutto in merito alla tendenza all'eccesso, alla perdita del controllo e alla esasperazione dei comportamenti di sperimentazione. Questa prematura conoscenza degli effetti piacevoli delle droghe, su di sé e sulla propria socialità, permette di demolire presto i pregiudizi che convergono sull'eroina, soprattutto nelle nuove mode di consumo, più "soft", che escludono la siringa e l'iniezione. Per molte ragazze più giovani l'accesso al crimine precede l'instaurazione della dipendenza dall'eroina, dunque la problematicità dei comportamenti drogastici e soprattutto l'identificazione soggettiva con i network di relazione e con la criminalità si presenta consistente già nella fase adolescenziale. Inoltre, spesso l'uso di droghe si colloca per loro entro un più generale atteggiamento nichilista, di mancanza di punti di riferimento solidi e di obiettivi di vita. Questo atteggiamento favorisce, con l'arrivo all'eroina, una maturazione molto rapida della dipendenza poiché vi è una incapacità di fondo, o meglio una non-volontà di controllare il piacere derivato dalla sostanza che, invece, viene ricercato in modo quasi ossessivo; il ricorso ai servizi, dunque, è più precoce per la più precoce immersione in questo stile di vita che diviene problematico molto prima di quanto avvenisse nelle donne più adulte, che mantenevano più a lungo il controllo dell'uso e lo collocavano entro contesti e situazioni delimitati. L'arrivo all'eroina e l'instaurazione della dipendenza appiattisce le differenze generazionali e

riconsegna un profilo molto più omogeneo di quanto si potrebbe ipotizzare date le premesse; infatti, le ulteriori diversità che si sono riscontrate sembrano essere più un effetto della fase del ciclo di vita che le donne stanno attraversando al momento dell'intervista e della lunghezza della loro carriera tossicomanica (che segna anche le diversità nelle forme di pubblicizzazione della propria tossicodipendenza e dello stigma ad esso associato) che un effetto della globalizzazione socio-culturale, dunque di un mutamento dei modelli di femminilità e dell'atteggiamento drogastico. Come sottolineano Llopis e Rebollida, infatti, «è vero che ci sono stati processi di emancipazione che hanno spinto verso un'uguaglianza delle donne, ma è innegabile che a questo non è corrisposto parallelamente un cambiamento culturale dei processi di educazione e di trasmissione dei valori an cora impostati in senso tradizionale e interiorizzati dalle donne. Tradizionalmente il ruolo sociale assegnato ha determinato una certa struttura di personalità e il modo di relazionarsi con altri cruciali nel suo processo di socializzazione» [2002b: 142, trad. mia]. Innanzitutto, il riferimento alla figura maschile, l'indispensabilità della sua presenza e la continua ricerca dell'amore di un uomo non hanno età e trovano le stesse modalità di espressione in tutte le generazioni di donne, a volte spinte in forme di dipendenza relazionale che complicano l'affrancamento da tale stile di vita. Le più adulte, grazie alla consapevolezza maturata con l'esperienza e l'esclusione sociale che la condizione di dipendenza ha determinato, riescono a prescindere dalla necessità di avere un compagno o, più in generale, relazioni sociali a cui mostrare questa parte della propria identità e da cui ricevere comprensione ed empatia, dunque hanno riadattato il loro stile di vita in modo da mantenere nella residualità l'identità tossicomanica e da conformarsi più rigidamente alle aspettative sociali. Le loro ricostruzioni biografiche delle prime fasi della dipendenza, però, risultano molto simili a quelle delle ragazze più giovani che, in virtù del profondo legame instaurato con i network sociali di tossicodipendenti con cui hanno condiviso una quotidianità limite, si auto-escludono dalle relazioni con persone estranee al giro che percepiscono come distanti dal proprio modo di essere: l'esigenza di nascondere questa parte importante della propria identità per evitare lo stigma sociale le separa ulteriormente dal mondo di vita convenzionale e le tiene ancorate, emotivamente e concretamente, allo stile di vita appreso precedentemente. Considerazioni simili possono essere avanzate nella lettura delle differenze circa altri aspetti dell'esperienza tossicomanica. La decisione sull'attività di hustling da intraprendere per il sostentamento della propria dose, ad esempio: fermo restando che alcune delle giovanissime hanno intrapreso attività criminali già prima della dipendenza dall'eroina, nel complesso queste scelte seguono dei criteri di progressione che dipendono più dalle contingenze e dalla fase del ciclo di vita che da reali diversità generazionali. Infatti, si è sottolineato che l'arrivo alla prostituzione segue spesso il fallimento di altre attività di hustling, in primis lo spaccio, e si caratterizza come un lungo processo di avvicinamento determinato, soprattutto, dall'isolamento sociale concomitante alla tossicodipendenza, dunque sostenta tutti i fabbisogni quotidiani, non

solo di roba; le altre forme di mercificazione sessuale più invisibili, ovvero lo scambio sessuale per la dose, non presentano differenze generazionali rilevanti. In secondo luogo, la maternità; tale evento, nonostante le ambivalenze con cui viene vissuto, costituisce per tutte le generazioni un'espressione forte della propria femminilità e del proprio desiderio di ritorno alla normalità. Fermo restando che lo stigma sociale esperito dalle madri complica il percorso di queste donne ad ogni età, nelle generazioni più giovani le diffi coltà maggiori sono dovute alle necessità dell'astensione totale dall'eroina richieste dal monitoraggio dei servizi sociali a fronte della permanenza della propria identificazione nei network e negli stili di vita connessi all'eroina; nelle generazioni più adulte gli esiti di questa incapacità di distanziamento dalla sostanza e dalla socialità ad essa connessa hanno spesso determinato l'allontanamento dei figli, con conseguenze più pesanti sull'immagine di sé in relazione al proprio ruolo di madre e, dunque, recidive nell'uso più protratte nel tempo in funzione copiativa. Infine, il raggiungimento dell'astinenza definitiva dall'eroina e il rientro nella società convenzionale. Anche in questo caso, le differenze osservate sono da attribuire alla lunghezza della carriera tossicomanica e alle esperienze di stigmatizzazione subite, più che a fattori legati a cambiamenti socio-culturali. Per le ragazze più giovani le difficoltà maggiori sono soggettive, ovvero sono da attribuire ad un mancato distanziamento emotivo dal proprio ruolo di tossicodipendente e all'ancoramento alle reti sociali di tossicodipendenti, dunque ad una propria auto-esclusione da una società con ritmi di vita e routine in cui non ci si identifica e riconosce; di converso, i processi di stigmatizzazione sociale non hanno ancora determinato un'esclusione sociale tale da compromettere seriamente opportunità di vita alternative. Al crescere dell'età e dello stigma sociale esperito, soprattutto in seguito a carcerazioni, prostituzione, contrazione di malattie infettive ed allontanamento dei figli, le difficoltà maggiori nel processo di recupero divengono oggettive, dunque sono maggiormente determinate da una struttura sociale che penalizza fortemente le tossicodipendenti. Questi, in sintesi, i risultati principali di un'indagine che ha voluto affermare la crucialità dei fattori psico-sociali nella carriera tossicomanica, l'importanza dell'adozione di un approccio socio-culturale ai fenomeni drogastici e, soprattutto, dell'introduzione di una prospettiva genderoriented nella ricerca sul consumo di sostanze psicoattive: come sostenevano Larkin et al., «1'addiction può esistere soltanto nella relazione fra persone (corpo e mente), azioni (attività e sostanze) e cultura» [2006: 213], e i corpi, la mente, le azioni e la cultura sono intrinsecamente e quasi naturalmente plasmati dal genere. L'indagine realizzata presenta come limite principale la sua focalizzazione su donne in trattamento che hanno in qualche modo rielaborato e razionalizzato la propria biografia nel contatto con i servizi, e questo può senz'altro introdurre alcuni elementi di deformazione dell'esperienza tossicomanica. Tuttavia, gli spunti di riflessione che sono emersi dalle voci delle intervistate, nel loro dialogo con i dati quantitativi, le esperienze dei professionisti socio-sanitari,

i consigli dei key informant e le conferme dell'osservazione sul campo, contribuiscono a gettare le prime basi teoriche ed empiriche per ulteriori approfondimenti circa l'influenza del genere sulle modalità con cui le persone fanno le droghe, per la risoluzione delle criticità che i sistemi di cura e riabilitazione delle dipendenze manifestano nel trattamento della tossicodipendenza femminile e per la predisposizione di politiche preventive adeguate, anche in virtù della crescente diffusione dei comportamenti drogastici, della progressiva compatibilizzazione di tali comportamenti con la normalità quotidiana e dell'accresciuta contiguità alle sostanze psicoattive da parte delle nuove generazioni.

Si ripercorrono di seguito le fasi salienti dell'indagine realizzata sul campo, appena accennate in apertura. Nell'ambito specifico dello studio del consumo di droghe, la ricerca sul campo risente di numerose difficoltà aggiuntive legate alla connotazione di disapprovazione sociale del comportamento drogastico e, soprattutto, al contesto di illegalità nel quale si verifica. Come ammonisce Cipolla «studiare chi si droga, chi non vuol far sapere agli altri che lo fa, chi assume sostanze psicoattive nell'ombra della notte o della sua casa, chi vive una tragica dipendenza non è cosa né facile, né scontata. Al contrario, richiede astuzia, immaginazione sociologica, vocazione mimetica, disponibilità all'empatia ed alla condivisione [...]» [2007b: 201]; d'altro canto, prosegue affermando che al di là di qualche eccezione non si è approfondita a fondo la tematica della carriera del consumatore nel proprio contesto, secondo il suo punto di vista, nelle sue relazioni sociali e di gruppo, forse perché la strada è «onerosa, forse perché reputata inutile, forse per l'indisponibilità del tossico, forse per l'arrivo massiccio della cultura medica (che valorizza solo le verifiche a doppio cieco), forse per la non credibilità dell'analizzato» [ivi]. Dunque, l'argomentazione delle scelte operate nel corso dell'indagine risponde ad alcune precise finalità. In primo luogo, e ad un livello più pragmatico per i nostri fini, consente di contestualizzare i risultati ottenuti su un fenomeno che di per sé è generale - l'uso di droghe illegali da parte della popolazione femminile - precisandone le fattispecie e delimitandone i confini. In secondo luogo, rappresenta un'occasione concreta per "riflettere" sul metodo calandolo nella pratica del fare ricerca in un ambito complesso come il consumo di droghe: come sostengono Wright et al. [1998], se è vero che nessun addestramento può preparare il ricercatore ad ogni eventualità che può presentarsi nel corso di un'indagine sul campo, è importante altresì che i ricercatori possano beneficiare dell'accesso a un corpo di conoscenze ricavate dalle esperienze dei loro colleghi, soprattutto in merito alle strategie e tecniche da loro elaborate nella risoluzione dei problemi che si sono presentati. Nondimeno, se si richiamano i principi cardine della ricerca scientifica, la ricostruzione esaustiva - e riflessiva - del procedimento metodologico impiegato risponde alla necessità di rendere intersoggettivo tale processo, permettendo alla comunità scientifica di controllare l'adeguatezza delle procedure e dei risultati ottenuti e di ripercorrere cognitivamente l'itinerario di ricerca. La pianificazione delle interviste alle tossicodipendenti Innanzitutto vi è da premettere che la scelta di circoscrivere l'indagine qualitativa a "donne" "dipendenti" "da eroina" è da ricollegare ad alcune considerazioni pratiche e teoriche. In primo luogo, l'utenza in trattamento presso i Sert del Trentino si caratterizza per una presenza molto più consistente di eroinomani rispetto ad altre realtà italiane, presenza che, tra l'altro, è più consistente per le donne rispetto agli uomini. Nel tempo certamente la percentuale di soggetti in

trattamento per abuso o dipendenza da eroina è notevolmente diminuita per la progressiva ascesa della cocaina, in primis, e dei cannabinoidi, in secondo luogo; ma interessa ancora, nel 2009, circa 7 utenti su 10 a livello nazionale e 9 utenti su 10 a livello provinciale'. Il disegno originario dell'indagine prevedeva la costruzione di due distinti campioni di donne da intervistare, ovvero utenti del Sert e delle comunità terapeutiche e consumatrici sconosciute al servizio; l'interesse per tale stratificazione campionaria risiedeva nella possibilità di operare un confronto tra le diverse narrazioni del proprio percorso di vita, e soprattutto evidenziare quali fossero le barriere espresse nel ricorso ai servizi. Questa idea presupponeva, chiaramente, la creazione di due gruppi con caratteristiche simili, in merito almeno alla sostanza d'abuso, ossia l'eroina. Sebbene tale ipotesi non sia stata abbandonata fino al termine dell'indagine, ha presentato fin da subito diversi problemi di accesso al campo per ciò che riguarda il sommerso, nonostante la varietà di soluzioni che potevano essere messe in atto a livello teorico. Una di queste strade, forse la più semplice, consisteva nella richiesta di collaborazione al Commissariato del Governo (già sperimentata in una precedente indagine [Corposanto, Lovaste 2009]), dove giungono soggetti segnalati dalle Forze dell'Ordine per detenzione o spaccio di sostanze stupefacenti ai sensi degli artt. 75 e 121 del DPR 309/90, quindi persone che non necessariamente manifestano problemi di dipendenza c/o sono in contatto con i servizi di cura. In realtà, già nel 2008, la quantità di segnalazioni rivolte a donne che contemplavano l'eroina come sostanza di segnalazione e che si riferivano a persone sconosciute al servizio era irrisoria e non avrebbe dato la possibilità di raggiungere un campione di numerosità significativa2. La scelta è stata quindi quella di subordinare (senza abbandonare) questa strada a quella della ricerca di intervistate in relazione con utenti del Sert tramite un campionamento a valanga, adottando due strategie in questa direzione: da un lato, al termine di ogni intervista con le utenti selezionate a partire dal database del Sert, ho chiesto esplicitamente loro di pensare se nel proprio network di amicizie o conoscenze ci fosse qualche donna che consumava eroina e non aveva mai avuto esperienze di trattamento, con la precisazione che questo non doveva in nessun modo costituire per loro un pericolo di ricaduta nell'uso; la stessa richiesta è stata rivolta ad altri utenti del servizio, con i quali ho avuto modo di intrecciare rapporti significativi e di una certa confidenza grazie alla mia presenza quotidiana presso il servizio. In entrambi i casi, le risposte sono state negative, e d'altro canto esistono esempi in letteratura che confermano che strategie di questo tipo si rivelano spesso fallimentari [Wright et al. 1998; Goode 2000]3; vi è da dire che, tutto sommato, le informazioni che ho potuto ricavare da questo lavoro sono già di per sé sufficientemente esplicative. Delle utenti intervistate, solo 7 avevano dato la disponibilità a farsi da mediatrici nel primo contatto con donne che facevano uso di eroina e mai entrate in trattamento, poiché tutte le altre avevano interrotto i legami con i gruppi amicali che frequentavano prima di entrare in contatto con il servizio, oppure intrattenevano relazioni con gruppi di uomini. Attraverso queste donne, ero arrivata ad identificare 9 potenziali

intervistate, che però successivamente hanno rifiutato l'intervista perché in stato di gravidanza (per 3 di esse), con figli piccoli (per altre 2) e in posizioni professionali di un certo rilievo sociale (per 2 di esse); in due casi di minorenni, l'intervista non si è realizzata a causa di contingenze. Per i primi due gruppi di donne, le mediatrici hanno riferito che il loro rifiuto era dovuto principalmente al timore che qualcuno potesse venire a conoscenza del passato (o presente) consumo di droga in concomitanza con lo stato di gravidanza o con la condizione di madre, dunque per la paura di vedersi levare i figli dai servizi sociali (evidenziato anche in Taylor e Kearney [2005], Goode [2000], Tompkins et al. [2008]); una di queste, al 3° mese di gravidanza, stava tentando di disintossicarsi autonomamente assumendo metadone acquistato sul mercato nero, in modo tale di arrivare al termine pulita per non farsi scoprire al momento del parto in ospedale; per un'altra di queste donne, già madre di un bambino di 9 mesi, il tentativo autonomo di disintossicazione era andato a buon fine fino a pochi giorni prima, momento della ricaduta nel consumo di eroina dovuto alla rottura della relazione con il partner. Il terzo gruppo di rifiuti è rappresentato da donne in professioni di status sociale elevato, che avevano timore di essere etichettate come "drogate" o in qualche modo di non essere sufficientemente tutelate a livello di privacy. In tutti questi casi, dunque, che comunque non si sono concretizzati in contatti diretti, la mancanza di fattibilità delle interviste in profondità ha avuto una ragione contraria a quella che l'ha permessa per le interviste alle utenti: ovvero, la mia doppia identità di ricercatrice e di operatrice del Sert, che metteva in discussione a monte la possibilità di ricevere una adeguata tutela della propria privacy. L'intervista era stata programmata, al contrario, con le due minorenni, mai pervenute al servizio a causa dell'impossibilità di intraprendere una terapia metadonica senza l'autorizzazione dei genitori che, al momento dell'intervista con la mediatrice, erano ancora all'oscuro del problema delle figlie; una serie di contingenze dovute a segnalazioni delle forze dell'ordine per possesso di sostanze hanno portato all'emersione del problema con la conseguente carcerazione per una di esse e l'entrata in comunità terapeutica per l'altra ragazza. Rispetto ai contatti allacciati presso il servizio con altri utenti - questa volta di sesso maschile - le risposte non sono state molto diverse. Si tratta di ragazzi che quotidianamente frequentano il servizio per assumere la terapia metadonica, di estrazione e status sociali tra loro molto diversificati, una differenziazione che mi avrebbe permesso potenzialmente di raggiungere donne appartenenti ad ambienti molto diversi tra loro - dalla strada all'elite dei benestanti - arrivando a garantire una certa differenziazione nel campione. Questa linea strategica ha portato a risultati simili a quelli ottenuti con le donne intervistate: la prima considerazione che questi ragazzi hanno espresso si riferisce al fatto che i loro gruppi di riferimento sono costituiti prevalentemente da uomini, e che tra le poche donne che potevano raggiungere sicuramente non ci sarebbe stata nessuna disponibile a sottoporsi ad una situazione di intervista se non a fronte di una degna retribuzione per il disturbo. In ambito internazionale la strategia della remunerazione economica, non scevra di problemi di carattere etico4, viene spesso utilizzata per arruolare intervistati in indagini sociali riguardanti il consumo di droga (si veda, tra le nostre, la Rosenbaum [1981]), ma

nel caso specifico era una via impraticabile a causa della scarsità di risorse a disposizione. Il secondo problema sollevato dai ragazzi si riferisce all'età. Il Sert si caratterizza, come si è visto in apertura, per un'utenza di età media abbastanza elevata, dovuta alla presenza di tossicodipendenti di lunga data; questi ragazzi contattati avevano un'età superiore ai 30 anni, dunque sostenevano che le donne che erano nel giro con loro, coetanee, erano già ricorse a qualche servizio per le tossicodipendenze, oppure non erano più contattabili a causa della rottura definita dei legami di amicizia, che erano precedentemente strutturati esclusivamente sulla sostanza. Il consiglio era dunque quello di spostarsi su leve di età più giovane, sulla ventina, che però rappresenta solo uno spaccato particolare del fenomeno, e tra l'altro facevano cadere le possibilità di comparazioni reali con il campione delle utenti, di età diversificata, scostandosi dagli obiettivi dell'indagine; anche la strategia di recarsi presso discoteche e rave parties, caratterizzati prevalentemente da frequentatori di giovane età, oppure di unirsi alle unità di strada presenti sul territorio nei loro tour nei luoghi del divertimento notturno, è stata fin da subito abbandonata. In questo caso, il target di riferimento è costituito prevalentemente da consumatori occasionali di droghe sintetiche; ammesso e non concesso che l'eroina viene spesso consumata al termine delle abbuffate di ecstasy e altre droghe sintetiche per sedare gli effetti dell'eccitazione, sarebbe comunque stato problematico sia ottenere l'ammissione del consumo di questa sostanza, sia portare a termine un colloquio in profondità di durata così lunga. Come gli stessi operatori dell'unità di strada hanno affermato, anche loro faticano ad entrare in un rapporto di confidenzialità tale per cui un ragazzo, e tantomeno una ragazza, si espone a parlare dell'eroina, che nell'immaginario sociale ha ancora una connotazione stigmatizzante. Il terzo problema sollevato nei giri d'orizzonte effettuati con i ragazzi si ricollega alla questione della visibilità: esplicitamente, i ragazzi hanno sostenuto che il motivo principale che sta dietro al rifiuto di entrare in trattamento è proprio la nonvolontà di esporsi a situazioni che li renderebbero visibili agli occhi della gente. Queste considerazioni mi hanno dunque portato a delimitare in modo realistico la ricerca, circoscrivendo l'analisi alle utenti del Sert e delle comunità terapeutiche. Anche l'ipotesi, maturata durante le interviste, di raggiungere le tossicodipendenti trattate in regime carcerario è sfumata ben presto a causa delle rigide procedure nell'accesso che richiedevano tempi di realizzazione molto lunghi. Il valore aggiunto di queste interviste, peraltro, sarebbe stato marginale, in quanto la mia curiosità non era tanto legata alla ricostruzione in sé della carriera drogastica (che presumibilmente si discosta ben poco da altri racconti di vita), ma era tesa a verificare se i racconti dell'esperienza carceraria vissuti hic et nunc avessero lo stesso registro emotivo e gli stessi contenuti delle rievocazioni a posteriori che già avevo ascoltato: ovvero, di un ambiente protettivo, rassicurante, spesso vissuto per il suo ruolo salvifico di interruzione coatta dell'uso di eroina. In definitiva, se ci si circoscrive ai 9 casi in cui c'è stata una qualche forma di contatto, per

quanto mediato e non concretizzato in un'intervista, se ne può derivare una considerazione importante che costituisce al contempo uno dei leit motiv dei risultati emersi dall'indagine, oltre che una delle sue premesse ampiamente discusse. Per le donne in stato di gravidanza o con figli la condizione di vulnerabilità sociale si lega direttamente al ruolo (reale o potenziale) di madre; dunque, indipendentemente dall'estrazione sociale, dalla posizione professionale o dallo status sociale acquisito, le ragioni per non svelarsi e mantenersi nascoste sono comuni e generalizzate in quanto è la condizione stessa di madre tossicodipendente ad essere stigmatizzante e stigmatizzata. Il caso dei rifiuti a partecipare all'indagine delle donne in posizioni professionali di status elevato mostra uno spaccato di realtà differente, in quanto queste sono donne che non si espongono, e il cui uso di droga viene mantenuto nel totale segreto a causa delle conseguenze che questo potrebbe avere sulla loro identità sociale, non definita certo in riferimento alla tossicodipendenza quanto principalmente alla posizione sociale ottenuta. Non è un caso che anche nelle interviste ad utenti del Sert, le difficoltà più evidenti nell'ottenere il consenso all'intervista le ho sperimentate proprio con donne che svolgono professioni socialmente stimate, casi nei quali l'arruolamento ha richiesto diversi contatti e incontri preliminari che chiarissero nei minimi particolari le modalità successive di trattamento delle informazioni e nei quali ho dovuto concordare nello specifico il tipo di informazione che potevo o meno fornire per evitare ogni possibilità di una loro identificazione: per queste donne, il consumo di droga è sempre stato celato in famiglia come nel contesto professionale e amicale, in modo da evitare sia le conseguenze dello stigma sia l'esposizione, appunto, a condizioni di vulnerabilità'. Rispetto alla selezione delle 54 intervistate vi è da precisare che, in coerenza con l'impianto qualitativo dell'indagine, il campionamento dei soggetti da intervistare non si basa su criteri di rappresentatività statistica ma di rappresentatività sociale, o significatività sociale come viene definitiva da altri per evitare rimandi a presupposti, procedimenti e logiche estranei alla natura stessa delle indagini non standard [Tusini 2006: 81]. Il principio della significatività sociale rimanda alla necessità di modulare in itinere la scelta delle unità da comprendere nell'analisi «in relazione alla teoria emergente e al bagaglio di conoscenze empiriche, sin li accumulate, riguardanti il mondo sociale o la categoria di situazione che si sta indagando» [Bichi 2002: 79], fermi restando gli obiettivi che si vogliono raggiungere e le specificità del contesto di indagine. In virtù delle specificità dell'oggetto - donne tossicodipendenti in cura presso un servizio per le dipendenze - e degli obiettivi di indagine - ricostruire i significati, i comportamenti, gli atteggiamenti di queste donne nei confronti delle droghe illegali in riferimento ai loro percorsi di vita -, la prima variabile di stratificazione con un forte potere discriminante sui percorsi di vita è stata l'età. Dunque, in una prima fase di carattere esplorativo si è proceduto con una selezione tipologica di 12 donne sulla base della fascia d'età e la conseguente conduzione delle interviste biografiche, con una attenzione particolare a cogliere dai loro racconti ulteriori criteri di stratificazione attraverso i quali specificare la fisionomia del fenomeno.

La selezione successiva delle intervistate è avvenuta in itinere in modo seriale [Tusini 2006: 85-86] e sulla base di due ulteriori criteri di stratificazione, oltre all'età: la motivazione al cambiamento della propria condizione tossicomanica (nella sua connessione con il tempo di contatto con i servizi per le tossicodipendenze) e l'essere o meno madre. Il procedimento è proseguito, con adeguamenti progressivi, fino alla saturazione di ogni strato lungo le principali dimensioni definite dai concetti sensibilizzanti enunciati in apertura. È importante precisare che la selezione delle partecipanti è stata effettuata a partire da un elenco nominativo che io stessa ho estratto dal sistema informativo, a cui ha fatto seguito un confronto sul caso con gli operatori del servizio che avevano in carico le donne al fine di valutare, tra le altre cose, la loro presenza presso il servizio6. Tale precisazione è importante poiché in alcune indagini (si cita Folghereiter [2004]), si è esplicitamente scelto di selezionare persone disposte ad esporsi e a tollerare lo stress, che hanno razionalizzato, riflettuto, maturato una motivazione e quindi che hanno una certa capacità di introspezione e verbalizzazione. Giudizi di questo tipo non hanno costituito, invece, un elemento discriminante nella scelta delle donne da comprendere nella mia indagine; certamente questo ha creato maggiori difficoltà nella relazione e nella gestione dell'intervista da parte mia, ma la loro esclusione avrebbe comportato senz'altro maggiori problemi di validità anche dal punto di vista epistemologico, prima che metodologico, vale a dire sulla natura della conoscenza del fenomeno raggiungibile - e raggiunta. Di seguito si argomentano le scelte dei criteri di stratificazione campionaria adottati. Sul criterio dell'età. Uno degli obiettivi dell'indagine ha riguardato esplicitamente l'analisi dei cambiamenti generazionali nelle modalità del doing drugs, nella constatazione che nell'arco degli ultimi decenni il mercato della droga e i modelli di consumo si sono completamente trasformati, contribuendo a delineare un contesto macro-sociale profondamente differente rispetto a quello degli anni '70. Come afferma Guidicini, «parlare di droga oggi non è più la stessa cosa che averne parlato ieri [...]. La droga muta il suo volto; e con esso anche il tipo di impatto e di colloquio che con essa i soggetti sono portati ad intessere ed a sviluppare. All'antico senso di fuoriuscita dal sociale, di negazione quasi permanente di un rapporto con il sistema, che il tossicodipendente classico era venuto lentamente e talora coerentemente costruendo, ora si sostituiscono vaghi percorsi di disordine. E riesce sempre più difficile dare una motivazione ad una fuga, che non è più tale perché è sempre parte di un labirinto senza risposte» [Guidicini, Pieretti 1990: 11]. Nell'arco di mezzo secolo non sono solo mutate le sostanze d'abuso e le modalità di consumarle, ma è cambiato il mercato (che dall'elite si è spostato in modo capillare in tutti i luoghi di vita e di aggregazione, adattando alle esigenze dei consumatori le sue modalità di distribuzione e di marketing), la percezione sociale del fenomeno (verso la maggiore tolleranza rispetto al consumo localizzato di droga) e il senso che viene attribuito alle droghe dai consumatori. La nuova fisionomia assunta dal consumo e dal consumatore di sostanze ha portato

alcuni teorici a sostenere che i paradigmi culturali attuali entro cui leggere il fenomeno sono costituiti dalla normalizzazione dell'uso di droga, da un lato, e dalla poliassunzione di sostanze, dall'altro: sia che ci si collochi nei contesti del loisir notturno e del fine settimana, sia che ci si collochi nel contesto della quotidianità scandita dai ritmi di lavoro e delle attività produttive, ciò che sembra mutato all'interno del clima culturale attuale è la possibilità di ricorrere a questa o quella sostanza per modificare le proprie prestazioni, per essere all'altezza delle situazioni, per amplificare gli stati emotivi e modulare il proprio essere in funzione delle situazioni. Dunque, con queste premesse, in seguito alle prime interviste della fase esplorativa si sono individuate 4 ampie fasce di età che hanno stratificato il campione di donne da intervistare: la prima di queste è costituita dalle ragazze al di sotto dei 21 anni', la seconda fascia comprende le donne dai 22 ai 30 anni, la terza dai 31 ai 40 anni e la quarta dalle ultraquarantenni8. Si tratta chiaramente di una periodizzazione di massima che considera in modo particolare il periodo in cui sarebbe avvenuto l'accesso alle droghe: se è vero che l'incontro con le sostanze e la sperimentazione avviene prevalentemente nel periodo adolescenziale, queste macro-categorie collimano a grandi linee con i periodi storici discussi precedentemente. Il campione finale si compone di 9 ragazze di età compresa tra i 18 e i 21 anni, da 13 ragazze di età compresa tra i 22 e 30 anni e ulteriori 13 tra i 31 e 39 anni, mentre il gruppo più numeroso si costituisce di donne con un'età uguale o superiore ai 40 anni (17 casi). Sulla motivazione al cambiamento e il tempo "emerso". La scelta di rivolgersi ad un servizio per le tossicodipendenze non è di per sé indicativa della volontà di abbandonare l'uso di sostanze, nello specifico di eroina. A volte la motivazione per cui si ricorre al servizio è semplicemente strumentale, nella misura in cui l'assunzione della terapia agonista (a base di metadone o suboxone) permette di eliminare la crisi di astinenza (o arginare la paura di subirla) e di evitare di sostenere i costi dell'acquisto di roba sul mercato illegale. Tant'è che, soprattutto nelle fasi iniziali di contatto con il servizio, non è infrequente che i tossicodipendenti accostino il consumo di metadone al tradizionale uso (anche sporadico) di eroina. A ben vedere, le politiche della riduzione del danno basate sulla somministrazione controllata di farmaci sostitutivi, si fondano sul criterio discriminante della motivazione al cambiamento nella misura in cui riconoscono che l'interruzione del comportamento drogastico è il risultato di una scelta i cui tempi e modi sono responsabilità esclusiva del soggetto e che il trattamento si pone come obiettivo principale la limitazione dei rischi correlati all'uso di droga, ossia le morti per overdose, il diffondersi di malattie virali, i problemi legali, economici e legali conseguenti. Come evidenzia Fazzi, «se attraverso la terapia basata sull'astinenza si riescono a riabilitare alcune specifiche tipologie di soggetti, i dati empirici dimostrano infatti che esistono tutta una serie di altre tipologie di soggetti, con biografie, caratteristiche e problematiche diverse, rispetto alle quali questo tipo di trattamento non solo non ha effetto, ma fa scattare nel soggetto reazioni comportamentali ed emotive tali da rendere praticamente impossibile lo stesso avvio di una

riflessione circa l'opportunità di iniziare un cammino di riabilitazione» [2001: 113]. Ispirandosi proprio a queste considerazioni, e affrontando la tossicodipendenza con una prospettiva bio-psico-sociale, il Sert ha predisposto un sistema di valutazione multidisciplinare sulla motivazione al cambiamento della condizione tossicomanica e dei bisogni espressi dal paziente. Per tutti gli utenti che portano una richiesta di trattamento, nuovi o già conosciuti in contatti pregressi con il servizio, viene aperto un programma terapeutico definito di "Accoglienza, aggancio e valutazione"; all'interno di questa tipologia di programma terapeutico trovano attuazione una serie di interventi finalizzati ad un primo inquadramento del paziente e del problema portato che comprendono l'esecuzione dei test tossicologici, la visita medica e i colloqui con l'assistente sociale e con lo psicologo. Una volta completata questa prima fase conoscitiva, a seconda delle risorse psichiche, relazionali, sociali, fisiche che si sono evidenziate nel paziente e del livello di motivazione che questi ha espresso, viene attivato un progetto orientato al cambiamento, oppure trovano attuazione ipotesi trattamentali di natura prevalentemente supportiva: l'Alta Evolutività si riferisce ai pazienti per i quali, nel periodo di osservazione, appare ipotizzabile un percorso di cambiamento volontario della condizione di tossicodipendenza; la Bassa Evolutività si riferisce ai pazienti per i quali si ipotizza che un cambia mento volontario della condizione di tossicodipendenza non sia nell'immediato perseguibile a causa del non riconoscimento del problema o della mancanza di volontà nell'affrontarlo, c/o a causa di problematiche di carattere psichiatrico, gravi disturbi di personalità e/o pesanti condizioni di degrado sociale. Tale suddivisione è stata considerata valida per discriminare la scelta delle donne da intervistare nell'ipotesi, nata in fase esplorativa, del potere discriminante della motivazione al cambiamento nella strutturazione del racconto di vita. A ciò si aggiunge un'altra variabile importante, che si correla sia alla motivazione al cambiamento sia all'età, anche se in maniera non necessariamente lineare, ovvero il tempo emerso, definito come il periodo temporale che intercorre tra l'età attuale (al momento dell'intervista) e l'età di prima presa in carico al servizio: per certi aspetti inerenti gli atteggiamenti e le opinioni circa le problematiche connesse all'uso di droga, infatti, il contatto con il servizio e la relazione con gli operatori possono indurre ad una sorta di razionalizzazione e rielaborazione che modifica le rappresentazioni del fenomeno e della propria esperienza [Folgheraiter 2004]. Un simile processo può giocare un ruolo importante sulla costruzione dell'identità di tossicodipendente e sui processi di routinizzazione dei comportamenti legati all'uso di droga. Dunque, lungo questi due criteri di stratificazione, sono state nel complesso 13 donne con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio e Valutazione, 7 donne con un programma Bassa evolutività e 34 in diversi stadi dell'Alta evolutività; 12 donne sono in contatto con servizi per le tossicodipendenze da meno di un anno, 11 da un periodo compreso tra 1 e 5 anni, 31 donne per un periodo che va dai 6 -ai 29 anni.

Sulla maternità e la genitorialità. Nel corso della fase esplorativa, sulle dodici interviste effettuate due si sono riferite a donne tossicodipendenti con figli ed una ad una ragazza al 2° mese di gravidanza. L'accentuazione, in queste poche interviste, dell'attenzione che loro hanno posto sul significato della maternità, in modo particolare in riferimento al sentimento di discriminazione e di stigma sociale, ha determinato la scelta di un approfondimento particolare di questo gruppo di donne. La gravidanza e la maternità costituiscono, di per sé, delle fasi di transizione cruciali nei percorsi di vita di una donna, spesso caricate di significati ambivalenti in particolare per i conflitti tra i vissuti reali delle donne che divengono madri e la rappresentazione sociale della maternità [Camussi, Rizzi 2008; Camussi 2009]. Nelle donne con problematiche di tossicodipendenza la scoperta della gravidanza e il fatto di diventare madre ha spesso un effetto ancora più dirompente, aggravando i sensi di colpa, la scarsa autostima, le sensazioni di incapacità di accudimento del figlio a causa della situazione di dipendenza. Nei racconti di queste tre donne intervistate la maternità ha assunto ora una funzione propositiva, nella misura in cui ha costituito l'elemento decisivo per l'affrancamento dal comportamento d'uso, ora un fattore di ricaduta nell'uso; per tutte, però, il leit motiv di questo momento di transizione è stato il senso di pesante discriminazione percepito nel rapporto con alcuni servizi e con il contesto sociale che, nelle loro rappresentazioni, le riteneva delle "cattive madri" in virtù del loro passato di tossicodipendenza. La necessità di approfondire l'impatto della maternità sullo stigma percepito dalle donne, ha portato ad intervistare nel complesso 19 donne (35% del campione) con queste caratteristiche: in prevalenza si tratta di donne appartenenti all'ultima delle fasce di età sopra indicate (10), mentre 5 sono le trentenni e 4 le ventenni. La situazione di intervista Come anticipato, alla selezione delle potenziali donne da coinvolgere nell'indagine ha fatto seguito un momento di confronto con gli operatori del servizio in merito alle caratteristiche fondamentali delle singole storie; gli operatori stessi si sono resi mediatori nel primo contatto con le donne, proponendo la partecipazione all'indagine e dando una prima spiegazione delle finalità e del mio ruolo all'interno del servizio. Tale procedura, già sperimentata con successo in precedenti indagini [Corposanto, Lovaste 2009], si è rivelata molto proficua anche in questo caso, sia in virtù del rapporto fiduciario che lega i professionisti agli utenti, sia per le questioni riguardanti la gestione della riservatezza che possono spesso costituire un deterrente alla partecipazione ad attività di ricerca, soprattutto per un simile target di soggetti. In seguito all'accordo della paziente, il secondo contatto avveniva direttamente con me (telefonicamente o di persona) per fissare un appuntamento per il colloquio. La maggior parte delle interviste si è svolta presso una delle tre sedi del servizio (Trento,

Rovereto o Riva del Garda) - un contesto a loro già familiare - prima o dopo altri appuntamenti con i professionisti sanitari, per limitare al massimo il dispendio di tempo e la possibilità di cadute, e avere una maggiore flessibilità di orario. Vi è da evidenziare che in molti casi vi è stata una richiesta esplicita da parte di alcune di loro di effettuare l'intervista prima dell'assunzione della terapia metadonica, a causa degli effetti del farmaco sulla capacità di concentrazione e sulla reattività; un dato positivo, questo, in quanto già la letteratura sul tema evidenzia i possibili problemi di attendibilità di interviste effettuate sotto l'effetto di sostanze stupefacenti [Fry e Hall 2005; Goode 2000; Power 1995]. Infine, 6 interviste si sono svolte in comunità terapeutiche ove risiedevano le intervistate e in soli 4 casi presso il loro domicilio. In 2 di essi, la scelta di un luogo alternativo al Sert era motivata dall'esigenza di rispettare i tempi delle intervistate, che si erano già sottoposte ad un colloquio precedente presso la sede del servizio; negli altri due casi, rispondeva all'esplicita richiesta delle intervistate di ridurre al massimo il contatto con il servizio per evitare di incontrare persone che in passato erano nel giro con loro. Una cura particolare è stata rivolta alla strutturazione del momento iniziale dell'intervista, soprattutto per la spiegazione del ruolo che avevo all'interno del servizio in quella specifica attività di ricerca: l'essere contemporaneamente ricercatrice ed operatrice del servizio avrebbe potuto creare dei fraintendimenti, infatti, sul ruolo da me assunto durante l'intervista e sulla funzione stessa del colloquio - che non aveva certo un carattere terapeutico. Dunque, in questa fase ho inizialmente descritto gli scopi della mia indagine, precisando che si trattava di una tesi di dottorato e puntando molto sul fatto che era un ambito di ricerca ancora inesplorato nel contesto italiano e poco trattato anche a livello internazionale. Le intervistate hanno generalmente mostrato un interesse particolare verso questa tematica fin da queste prime battute, in quanto non si erano mai poste il problema delle diversità di genere nella tossicodipendenza, e si sono mostrate quasi lusingate di essere state coinvolte in un'attività di ricerca di questo tipo; tant'è che spesso, conclusa la fase di preambolo, molte di esse mi hanno comunicato che erano felici se potevano aiutarmi in qualche modo. In secondo luogo, ho precisato il tipo di lavoro da me svolto presso il servizio, spiegando da un lato che si tratta di un impiego svincolato da obiettivo terapeutici e, dall'altro, che già in virtù di questo lavoro ero tenuta all'osservanza di determinate norme relative al segreto professionale, questione che spesso, già al primo contatto con le intervistate, si era rivelata prioritaria. Per ridurre la possibilità che le intervistate si sentissero, nonostante queste premesse, non tutelate nelle questioni relative alla privacy e alla confidenzialità, ho pensato di sostituire i nomi reali delle intervistate con dei nickname inglesi9. Questa strategia ha avuto ricadute positive, in quanto oltre a garantire una maggiore sicurezza sul modo di procedere, ha permesso anche di acquisire un livello maggiore di confidenza: in molti casi, le intervistate si sono identificate in questo nickname, altre hanno voluto sostituirlo con un altro nome che abbiamo pensato insieme durante l'intervista in una sorta di "gioco", mentre in altri casi questo è stato già un ottimo punto di partenza per iniziare ad affrontare alcuni contenuti dell'intervista, almeno per tutte quelle

donne che erano state coinvolte con la prostituzione da strada dove vi è l'usanza di celare la propria identità proprio con l'ausilio di simili nickname. Ho prestato, infine, un'attenzione particolare a spiegare i confini tra il lavoro di indagine che stavo effettuando e la relazione con gli altri operatori; dopo aver accennato del confronto preliminare che avevo avuto con i professionisti sociosanitari sulla loro storia, era importante preservare il segreto professionale non solo all'esterno del servizio, ma anche al suo interno, in quanto potevano esserci dei momenti della propria biografia che le intervistate - tra l'altro, nella maggioranza dei casi in trattamento esclusivamente farmacologico - non avevano condiviso con i propri operatori di riferimento. Nella fase forale di questa presentazione, che nel complesso ha avuto una durata variabile tra i 15 e i 25 minuti (in relazione a quanto avevo già potuto accennare nel primo contatto), ho chiesto l'esplicita autorizzazione alla registrazione dell'intervista, spiegando che io stessa avrei provveduto alla sua trascrizione, e che se anche fossero emersi dei nomi - di persone, o di luoghi di lavoro - li avrei fin da subito sostituiti per evitare ogni possibilità, anche indiretta, di identificazione. Una attenzione particolare, infine, è stata rivolta alla fase conclusiva dell'intervista. Diversi autori evidenziano l'importanza del momento finale di congedo, come si legge dalle parole di Bertaux: «raccomando vivamente, prima di chiudere il colloquio, di tornare sui momenti positivi della vita del soggetto, di domandare per esempio qual è stato il momento più felice o di ritornare su quello che il soggetto considera il suo successo più grande. Pensatelo come un controregalo per il dono del suo racconto. Pensate anche al ricordo che conserverà dell'incontro (e di voi) e a quello che ne dirà con gli altri. Aspettate il ritorno del sorriso nei suoi occhi» [Bertaux 1999: 79]. Nell'ambito della ricostruzione di percorsi di vita di tossicodipendenti, questo suggerimento acquista un'importanza particolare proprio in virtù dei contenuti affrontati nel corso dell'intervista, costruita sulla rievocazione di fatti e comportamenti tenuti in passato spesso non rielaborati razionalmente, che possono costituire una dura prova per la propria autostima e per la fragile ri-costruzione identitaria tentata attraverso il processo terapeutico. Alcuni sostengono che la chiusura di un'intervista rappresenta uno dei momenti più difficili da strutturare e spesso sottovalutata nella relazione biografica [Toinpkins et al. 2008]. Le strategie che vengono proposte in letteratura sono diverse: seguendo Tompkins et al. [2006; 2008], ho cercato di adattare in modo flessibile le modalità di chiusura delle interviste ai casi concreti, alla narrazione ascoltata e alle reazioni avute nel corso del colloquio da parte delle intervistate. Nella maggior parte dei casi ho utilizzato la tecnica denominata dei progetti futuri delle partecipanti [Rosenbaum 1981; Tompkins et al. 2008] nella quale il passato carico di forti valenze emotive viene sostituito con una dimensione progettuale propositiva circa il recupero di una vita nonnale; in altri casi, ho ripreso gli argomenti iniziali dell'intervista - neutri e privi contenuti emotivi o minacciosi [Bowling 2002; Rubin & Rubin 1995].

A livello di tematiche affrontate, la ricostruzione dei percorsi di vita si è articolata in due momenti distinti: la prima fase, di carattere non-direttivo, si è basata sul racconto della storia delle donne dal momento del primo consumo di sostanze psicoattive al momento dell'intervista; la seconda fase ha avuto l'obiettivo di approfondire i contenuti emersi dal racconto del proprio percorso di vita lungo alcuni assi tematici che ho individuato come centrali, di natura nonvincolante e modificabili secondo le esigenze e le particolarità biografiche delle intervistate. Si riporta di seguito il dettaglio dei contenuti affrontati: 1. Il rapporto con le diverse sostanze nelle diverse fasi del ciclo della droga a. Accesso: tipologia ed effetti delle sostanze in relazione alla situazione (quando, come, offerte da chi, assunte con chi) e alle motivazioni (all'inizio); significato dell'uso in relazione a sé, al gruppo di riferimento c/o al partner; modalità di reperimento delle sostanze (e del denaro per acquistarle); compatibilità e intersezioni con la vita quotidiana, lavorativa c/o scolastica. b. Rinforzo a proseguire: situazioni, relazioni, effetti delle sostanze e motivazioni, in confronto con il primo accesso (per ogni sostanza); significati che assumono nella storia personale, in confronto con il primo accesso; percorso (cognitivo, affettivo) che le ha portate a continuare con l'uso di ogni sostanza; modalità di reperimento delle sostanze (e del denaro per acquistarle); (per le sostanze illegali) vissuto della illegalità, in confronto con la prima esperienza; compatibilità e intersezioni con la vita quotidiana, lavorativa c/o scolastica. e. Normalità d'uso/dipendenza: tempo intercorso dal primo accesso all'uso regolare, alla sensazione di perdita di controllo dell'uso e alla comprensione di non poter fare a meno della sostanza; situazioni, relazioni, effetti delle sostanze e motivazioni (per ogni sostanza); nuovi significati assunti; modalità di reperimento delle sostanze (e del denaro per acquistarle); compatibilità e intersezioni con la vita quotidiana, lavorativa c/o scolastica. d. Remissione: come è nato il desiderio di smettere con l'uso di droghe; tentativi autonomi di disintossicazione e descrizione dell'astinenza; decisione di ricorrere al servizio: situazioni e motivazioni; eventuali ricadute successive; evidenziare eventuali barriere nel ricorso al trattamento; senso e significato del Sert nella propria biografia. Per ognuno di questi momenti della carriera drogastica, evidenziare: 2. Il rapporto con se stessa e la propria femminilità: definizione e percezione di sé (in particolare, meccanismi di auto-accettazione della propria identità); percezione di essere tossicodipendenti e senso attribuito alla dipendenza; vissuto della illegalità in relazione a sé; percezione di sé in relazione agli altri significativi; percezione delle differenze della propria esperienza rispetto a quella degli amici di sesso maschile; percezione dello stigma (esperienze subite di discriminazione: in famiglia, a scuola, al lavoro, tra amici, in generale); giudizio sulle droghe, sui consumatori e sui tossicodipendenti in tutte le fasi della carriera tossicomanica (in particolare,

dal non-uso al momento finale della dipendenza); conoscenza dei rischi connessi al consumo di droghe e ragioni della loro sottovalutazione. 3. Relazioni con altri consumatori/dipendenti e con non-consumatori: modalità di aggregazione, legami privilegiati, definizione di sé in rapporto al gruppo; presenza o meno di un partner (in generale delle figure maschili) nel percorso tossicomanico e il suo ruolo nell'uso di sostanze (evidenziare il tipo di relazione intrattenuta); vissuto della illegalità in relazione ad altri significativi (in particolare, non consumatori); confronto tra le relazioni instaurate entro gruppi di consumatori vs. con persone che non consumano; atteggiamento e reazione della famiglia verso l'uso di droga e il tipo di relazioni intrattenute con i suoi membri; giudizio su come si sono evolute nel tempo le diverse relazioni, con non-consumatori e consumatori. Ulteriori approfondimenti: 4. Maternità e figli: reazioni scatenate dalla scoperta di essere incinta; significati attribuiti al figlio; relazione con il partner e tipo di sostegno ricevuto (grado di condivisione dell'esperienza); esperienze e vissuti di discriminazione; ridefinizione di sé nel periodo pre-natale e successivo, anche in relazione all'identità tossicomanica; evoluzione nel tempo del rapporto con il figlio. 5. Lavoro, scuola: tempo di vita e tempo del lavoro; continuità e discontinuità scolastica c/o lavorativa; qualità delle esperienze e relazioni con compagni/colleghi; progettualità passata e presente; compatibilità ed interferenze delle droghe nelle diverse fasi della carriera. 6. Esperienze carcerarie: esperienza vissuta e significato attribuito; come si correla con l'evoluzione della carriera tossicomanica e con il normale percorso di vita; definizione e percezione di sé, concomitante e successiva (anche in relazione ad altri significativi). 7. Prostituzione: esperienza vissuta e significato attribuito; come si correla con l'evoluzione della carriera tossicomanica e con il normale percorso di vita; definizione e percezione di sé, concomitante e successiva (anche in relazione ad altri significativi); eventuale stigmatizzazione. Aree di approfondimento opzionali a. Violenze sessuali, fisiche o psicologiche (durante l'infanzia o attuali): esperienza vissuta e significato attribuito; come si correla con l'evoluzione della carriera tos sicomanica e con il normale percorso di vita; definizione e percezione di sé, concomitante e successiva alle violenze (anche in relazione ad altri significativi); b. Aborti/interruzione gravidanza: esperienza vissuta e significato attribuito; come si correla con l'evoluzione della carriera tossicomanica e con il normale percorso di vita; definizione e percezione di sé, concomitante e successiva (anche in relazione ad altri significativi); eventuale stigmatizzazione.

e. Malattie infettive droga-correlate: esperienza vissuta e significato attribuito; come si correla con l'evoluzione della carriera tossicomanica e con il normale percorso di vita; definizione e percezione di sé (anche in relazione ad altri significativi); eventuale stigmatizzazione. Analisi e trattamento del testo parlato Le registrazioni delle interviste effettuate sono state trascritte integralmente subito dopo il colloquio, contestualmente ad una prima analisi di ogni storia in coerenza con l'apertura e la flessibilità del piano dell'indagine e in coerenza con il suo impianto abduttivo (nel quale teoria ed empiria retroagiscono l'un l'altra lungo tutto il percorso di ricerca); questa prima analisi verticale dei percorsi di vita ha avuto, infatti, la finalità principale di ri-adattare le domande di ricerca in itinere in relazione ai significati emersi, di valutare in che misura si fossero affrontati gli argomenti centrali nel corso dell'intervista e di valutare eventuali aree di approfondimento da riproporre alle intervistate in colloqui successivi (strutturati e non). Rispetto alle proposte circa le modalità di trascrizione dei testi rinvenibili in letteratura [Bichi 2000, 2002; Tusini 2006], si è scelto di procedere ad una trascrizione fedele del testo parlato (senza appesantirla con indicazioni riferite al tono e al contesto) al fine di rendere più agevole la lettura del racconto e la comprensione dei significati espressi. Dunque, da un lato si è ritenuto opportuno trascrivere anche le digressioni e i racconti che al momento potevano risultare non pertinenti con il tema indagato ma che potevano portare informazioni importanti non immediatamente evidenziabili [Bichi 2001]; dall'altro lato, tutte le indicazioni sul comportamento non verbale sono state riportate nel "quaderno di campo" in forma di annotazioni generali sul clima di intervista, limitando la loro trascrizione nel testo ai casi particolari in cui queste annotazioni potevano risultare indispensabili alla comprensione del discorso. Al termine di tutte le interviste sono state effettuate ulteriori fasi di analisi e revisione dei testi, analizzate sia in senso verticale (storia per storia) che orizzontale (tra tutte le storie), nell'integrazione con altre fonti informative sulle singole storie, pervenendo così ad una rappresentazione complessiva del fenomeno. L'analisi si è basata sullo schema rappresentato in tab. I. Tab. 1 - Griglia di analisi dei testi

Fonte: rielaborazione di Bichi [2002: 151] Infine, le proposte esistenti in letteratura circa le modalità di pubblicazione dei risultati sono diverse. In questa sede, per una serie di motivazioni generali e specifiche dell'oggetto di studio, si è ritenuta impraticabile la strada della pubblicazione integrale delle storie di vita: ad un livello più tecnico, per la lunghezza delle storie di vita; in secondo luogo, per l'esigenza di tutelare la privacy delle intervistate, la cui identità potrebbe essere svelata dal racconto esaustivo della carriera tossicomanica; infine, vi è una motivazione gnoseologica che riposa sulla convinzione che la produzione di testi narrativi non dispensa «il ricercatore dall'interpretazione, dalla valutazione, dal giudizio [. ..]; nessun fatto parla da solo: occorre che ci sia qualcuno che si sobbarchi il compito rischioso di dirne la storia. Il che, nel linguaggio scientifico, non può che consistere nel compito di stabilire una catena di inferenze fondate e controllabili» [Campelli 1990: 192]. L'impraticabilità tecnica e l'inaccettabilità teorica della pubblicazione esaustiva delle interviste biografiche trova una soluzione nello stile riflessivo proposto da Colombo, ove la riflessività indica la «capacità di rendere conscio e visibile il processo di costruzione interno a ogni ricerca e di esplicitare la posizione che l'osservatore assume nel campo di osservazione» e il tentativo di «coniugare la specificità e la legittimità di un discorso specialistico sul sociale senza

accantonare la consapevolezza che tale discorso è inevitabilmente posizionato e parziale, risultato di uno sguardo sulla realtà from somewhere» [1998: 262]. L'esposizione rifles siva, nel suo intreccio tra le voci delle intervistate, le interpretazioni ed esperienze del ricercatore, le conclusioni di altri ricercatori e le voci autorevoli di testimoni privilegiati, permette di offrire una «descrizione ed un'analisi il più possibile fedele e documentata delle relazioni e degli eventi così come sono stati percepiti e, in alcuni casi, costruiti dal ricercatore» [Colombo 1998: 262], cercando di rendere la complessità del fenomeno studiato proprio dando voce a diverse intenzionalità discorsive presenti sul campo di ricerca. Validità e attendibilità Il principio della riflessività, come l'esigenza di garantire scientificità al procedimento di ricerca, ha imposto l'utilizzo di tecniche complementari alla ricostruzione dei percorsi di vita per garantire la validità e l'attendibilità dei risultati; se, infatti, i pregi di un'indagine qualitativa condotta con il metodo biografico sono indiscussi e trovano oggi un ampio riconoscimento nella comunità scientifica, da più parti viene espressa contestualmente l'esigenza di cercare «forme di integrazione complementare e simmetriche con altre strategie euristiche» [Cipolla 1990: 111] che permettano di risolvere gli squilibri del ciclo metodologico implicate dai procedimenti induttivi. Il problema della validità e dell'affidabilità del metodo, e della necessità di integrazione delle tecniche di indagine è stato affrontato in modo sistematico da Lincoln e Guba [1985]. Secondo gli autori, le domande fondamentali che occorre porsi dinanzi ad una ricerca riguardano: il valore della verità, ovvero come si possa attribuire "verità" alle risposte che i soggetti forniscono; l'applicabilità, ossia l'estensibilità e la generalizzazione dei risultati ad altri contesti; la consistenza, ovvero come si possa determinare se le scoperte sarebbero replicabili con gli stessi soggetti nello stesso contesto; la neutralità, come si può stabilire il grado in cui le scoperte di un'indagine sono determinate dai soggetti che rispondono e non dalle prospettive personali del ricercatore10 Ebbene, nell'indagine sui comportamenti di consumo di droghe illegali, il problema della verità delle ricostruzioni degli intervistati viene risolto entro i fondamenti epistemologici stessi dell'approccio fenomenologico, nel quale il sistema di credenze dell'intervistato, le sue forme di rielaborazione e giustificazione sono da intendere in sé e per sé come una verità oggettiva, per quanto situata [Wright et al. 1998: Rosenbaum 1981; Taylor 1993]". Nell'approccio correlazionale qui adottato, il valore e la dignità sociologica della verità dell'intervistato nel suo senso relativo non vengono negati, bensì ri-collocati entro un procedimento scientifico che afferma «l'esistenza di più verità interagenti ed al contempo concorrenti fra loro, capaci di apportare diversi contributi conoscitivi e volte a seguire un percorso empirico universale e circoscritto al tempo stesso [...]» e tali da fornire una «conoscenza oggettiva, a base empirica, verificata metodologicamente, condivisa intersoggettivamente» [Cipolla 1998: 15].

Con queste ratio, alla ricostruzione delle carriere tossicomaniche si sono affiancate ulteriori metodologie d'indagine, quantitative e qualitative, in funzione integrativa, descritte per esteso in apertura. Alcune riflessioni sulla relazione biografica «Il ricercatore e l'intervistato, in una situazione d'intervista finalizzata alla raccolta di una storia di vita partecipata, partono - come in ogni interazione sociale - con il proprio bagaglio conoscitivo, i propri schemi e categorie, le proprie strutture schematiche e categoriali, i propri sistemi valoriali, il proprio dato per scontato, il proprio non messo in discussione. L'interazione produrrà il loro incontro, la loro messa in relazione. In più, quando il ricercatore chiede di raccontare la sua vita ad una persona, questa la racconterà per lui, in una relazione affettivamente non neutra» [Bichi 2000: 61]. In particolar modo, le esperienze di ricerca qualitativa effettuate in ambito internazionale con tossicodipendenti hanno messo in evidenza numerosi elementi di specificità nella relazione biografica tra ricercatore e intervistato, dovuti soprattutto alla particolare condizione di vulnerabilità del soggetto narrante. Una prima annotazione importante riguarda l'effetto facilitante che l'essere una ricercatrice donna e con un'età di mezzo (34 anni) ha avuto sia sull'instaurazione di un legame empatico, sia sulla predisposizione al racconto delle intervistate. In generale, come sostiene Bichi [2000: 35], le donne sono tradizionalmente abituate a raccontare le loro storie, le loro vicende, i loro problemi e sviluppano forme di comunicazione particolari; risultano, dunque, più disposte ad accettare intrusioni con domande negli aspetti più personali della loro vita [Finch 1984], soprattutto in particolari condizioni di isolamento sociale ove la relazione stessa con i professionisti del servizio acquisisce un certo valore [Goode 2000]. Il fatto di essere una ricercatrice donna ha costituito sicuramente una risorsa nell'affrontare problematiche delicate come le violenze sessuali, gli aborti, la maternità o l'immagine del proprio corpo, anche in virtù di un'età che mi ha consentito di essere percepita sufficientemente grande per poter comprendere le problematiche delle donne adulte, e non troppo adulta per poter comprendere le problematiche delle ventenni, nonostante i maggiori problemi comunicativi siano sorti proprio con le ragazze giovanissime. Come sottolinea Bichi [2000: 35], l'aver vissuto ambedue esperienze simili all'interno di una stessa cultura portatrice degli stessi modelli e della stessa normatività - nello stesso periodo storico e nella comune appartenenza di coorte - può proiettare nell'interazione processi identificativi forti; Finch [1984: 78] sostiene, estremizzando, che la facilità con cui si riesce a far emergere la capacità di una donna di narrare se stessa dipende non tanto dalle capacità come intervistatore, nè dall'esperienza come sociologo, ma dalla propria identità di donna. Ma «se è vero che una donna racconta più facilmente di sé a un'altra donna e che una comune condizione comporta una migliore comprensione, è anche vero che esiste in questo caso un maggior rischio, da parte dell'intervistatrice, di dare per scontato qualcosa che potrebbe non esserlo, di attribuire,

cioè, significati che fanno parte della sua esperienza all'esperienza dell'altra» [Bichi 2002: 192]. La strategia utilizzata per contenere i possibili bias dovuti ad una eccessiva identificazione con le intervistate è stata quella di riprendere più volte nel corso dell'intervista quegli argomenti che, per similitudine con la mia storia personale, mi avrebbero potuto portare a dare per scontato delle spiegazioni riconducendole entro la mia esperienza e le mie categorie cognitive; in questo senso, vi è da evidenziare che le stesse intervistate si sono mostrate più propense a parlare del loro punto di vista che ad accondiscendere al mio, correggendo e riadattando su di sé eventuali interpretazioni che non ritenevano corrette, limitando in tal modo le possibilità di distorsione da parte mia. Un ulteriore concetto emergente in letteratura riferito alla relazione biografica e che si ricollega indirettamente a quanto detto finora, è quello dell'attaccamento affettivo tra narrante e ricercatore', definito in lingua madre affectionate attachment [Power 1989]. Afferma Feldman: «se i ricercatori devono essere distaccati nello studio dei loro soggetti umani e se devono considerare in modo oggettivo gli eventi che li circondano, mi sembra anche impossibile evitare quell'attaccamento affettivo alle persone le cui esperienze così intense sono diventate così tanto parte delle nostre reciproche biografie» [1974: 16, trad. mia]. Se per alcuni autori questo può costituire una perdita di oggettività [Eisner 1997] e il rischio di annullare (il termine inglese è passing) l'identità e il ruolo del ricercatore in quella del suo oggetto [Hughes 1957], nell'ambito specifico della ricerca con tossicodipendenti si sostiene da più parti che una simile predisposizione del ricercatore sia tanto inevitabile [Oakley 1981] quanto desiderabile e che non interferisca con l'attività di ricerca ma aggiunga valore alla profondità della conoscenza e alla possibilità di entrare nella vita nascosta dell'intervistato [Feldman 1974; Finch 1984; Thompkins et al. 2006, 2008; Power 1989; Rosenbaum 1981; Wright et al. 1998]. In modo particolare, è stata la critica femminista a porre le basi per una metodologia che non escludesse la categoria dell'esperienza, fondata anche su sentimenti ed emozioni, nel processo di conoscenza e che rivalutasse i concetti tradizionali di obiettività e distacco del ricercatore dal suo oggetto, poiché «il provare emozioni, il saperle riconoscere e comprendere vengono visti come una risorsa importante nella comprensione del fenomeno» [Terragni 1998: 133]. L'importanza di adattare le strategie relazionali alla particolarità dell'oggetto di studio ci viene da queste parole di Kelly che, nel corso di una delle mie prime interviste, sostiene che "non si racconta così facilmente la propria vita, e le cose terribili che si sono fatte in passato, ad un estraneo". Questa strategia di puntare sulla componente affettivo/emotiva, nel contesto di intervista come negli incontri successivi che avvenivano periodicamente con molte di queste donne presso il servizio, poteva permettere di ridurre l'estraneità e scendere in profondità nelle singole biografie; se, come si avrà modo di vedere, questo atteggiamento ha creato in qualche caso alcune problematiche di difficile gestione, in generale si è rivelato molto utile per cogliere tutta una serie di aspetti del fenomeno che non sarebbero emersi altrimenti nel contesto di intervista. Come sostiene Power [1989], in parte è dando qualcosa di se stessi ed essendo aperti e

preparati a mostrare qualcosa della propria storia personale - «no intimacy without reciprocity» [Oakley 1981: 49] - che è possibile instaurare una relazione di verità e rispetto tra ricercatore e consumatore di droga, il quale spesso è motivato a partecipare all'indagine, in modo più o meno conscio, dal desiderio di verbalizzare un'esperienza personale profonda ad una persona che si colloca più o meno sullo stesso piano, senza atteggiamenti discriminatori e giudicanti [Finch 1984; Hiller e Diluzio 2004; Wright et al. 1998]. Nel corso dell'intervista ho cercato di creare, dunque, un contesto molto più simile ad una conversazione informale, seppur sempre guidata verso obiettivi precisi, che ad un colloquio formale, spesso inserendo degli elementi della mia biografia che mi potevano servire a far emergere aspetti particolari delle loro biografie, anche in virtù di quanto avevo appreso nei diversi confronti preliminari sui casi con gli operatori. Inoltre, l'apertura alla condivisione di esperienze concrete con le intervistate, come l'aperitivo al bar, un appuntamento in gelateria, o una chiacchierata estemporanea nel cortile del servizio sull'evoluzione della storia di vita raccontata nel corso dell'intervista, mi ha permesso di approfondire molti aspetti delle singole biografie e, soprattutto, chiarire tutte quelle zone bianche che non erano emerse nel corso dell'intervista e corroborare - lungo la dimensione del tempo - le mie considerazioni su di esse. Nella realtà, ho spesso osservato che questo modo di procedere, che cercava di costruire una relazione paritaria e non asimmetrica, fatta di confidenza e reciprocità, nella quale eventualmente sarei stata io nella posizione down di chi non sa e vuole sapere, e che cercava di entrare nella vita quotidiana vissuta delle intervistate anche in contesti differenti dal colloquio, era perfettamente coerente e sintonico con la natura dell'oggetto di ricerca. Infatti, nel corso delle ricostruzioni dei percorsi di vita, l'aspetto che maggiormente emergeva dai racconti delle intervistate era proprio la dimensione emotivo/affettiva, fortemente legata a quella esperienziale e relazionale, che accompagnava ogni tappa del loro percorso e che loro stesse trasferivano anche nel contesto di intervista, mentre la dimensione cognitiva restava in qualche modo nascosta e doveva spesso essere approfondita con le mie esplicite sollecitazioni. In generale, fin dai primi mesi di vita la socializzazione femminile differisce da quella maschile anche in riferimento alle possibilità di espressione di emozioni e sentimenti: il pianto, lo sfogo emotivo, l'affettività, la dolcezza e la remissività sono comportamenti e qualità perfettamente in linea con gli stereotipi sulla femminilità e l'educazione impartita alle donne, mentre ad un uomo è richiesto di mostrare sicurezza, non esprimere sentimenti, essere attivo e mostrarsi, nei limiti, forte e deciso. Le indagini della Belotti, a tal proposito, evidenziano come questo «gioco delle aspettative, opposte per i due sessi» [2008: 18] inizi fin dai primi giorni di vita senza mai terminare Se «partire dall'esperienza delle donne significa anche partire dal loro stesso linguaggio, creare "dizionari nuovi"» [Terragni 1998: 131], è evidente da queste considerazioni che sul piano teoretico questa dimensione deve essere considerata a pieno titolo una categoria euristica14, con le necessarie conseguenze che questo può avere nelle modalità di utilizzo degli strumenti di

ricerca: lo sfogo emotivo, la vittimizzazione, l'espressione del senso di colpa e della bassa autostima non possono che influire, infatti, sulla relazione biografica e vanno opportunamente gestiti con strategie spesso distanti da quelle indicate dalle impostazioni di ricerca più classiche. Un atteggiamento di ricerca di questo tipo non inficia, a mio parere, la qualità dei risultati e del processo di indagine, ma lo rende certamente più stressante per il ricercatore: come osserva la Rosenbaum [1981], infatti, la relazione con persone tossicodipendenti mette a dura prova le capacità del ricercatore di mantenere la stabilità emotiva necessaria a portare a termine un percorso di indagine col metodo biografico, che non può che ritrovarsi diluito lungo un arco temporale sufficientemente lungo per poter permettere al ricercatore di riappropriarsi della propria identità personale. Se, come osserva Girtler, «il mondo della vita può essere esplorato in tutta la sua profondità se il ricercatore si lascia coinvolgere nella ricerca con la sua anima, ovvero con l'interezza della sua persona» [1999: 403], immergersi completamente nel mondo della vita di una tossicodipendente, diventando "nativa", ha il senso di comprendere quello che prova, quello che pensa, come vive le relazioni e come vive il rapporto con le droghe e immergersi nella ricerca significa compiere una serie di azioni (ascoltare, ri-ascoltare, annotare, scrivere, trascrivere, scomporre e ricomporre, osservare, riflettere, ecc.) in una incessante attività cognitiva ed emotiva direzionata, in un percorso a senso unico, verso l'oggetto droga. Un'ultima considerazione circa la questione della "verità" dei racconti15, di cui si è accennato più sopra. Nella realtà, in un approccio fenomenologico il valore della verità ha un senso relativo, in quanto si mette in discussione la possibilità stessa di giungere ad una conoscenza compiuta della realtà sociale; si tenga poi presente che, come sostiene Plummer [2001] le storie di vita non sono la vita, ma costituiscono delle ricostruzioni che il narratore cerca di assemblare in modo tale da rendere coerente, a sé e agli altri, il racconto stesso, tanto che probabilmente si conformano molto meno alla vita vissuta che alle convenzioni e alle pratiche narrative. Questa affermazione fatta da Felicia all'esordio del colloquio ove le chiedo di raccontarmi la sua storia di tossicodipendenza riassume bene questo concetto: "quello che ho vissuto proprio personalmente non mi viene... cioè mi viene più da spiegarti come l'ho ragionata io la cosa". É altrettanto evidente che accanto ai necessari accomodamenti dei racconti, senza necessariamente sostenere i tradizionali stereotipi sociali che identificano il tossicodipendente come un bugiardo e senza negarli completamente 16, le tematiche affrontate in sede di intervista sono particolarmente suscettibili di falsificazioni inconsce o "rimozioni" da parte degli intervistati, di deformazioni dovute al setting di intervista o alla relazione biografica, piuttosto che di omissioni o dimenticanze non volute ma dovute alla scarsità del tempo a disposizione. Inoltre, nel caso specifico, le donne sono arruolate entro un contesto terapeutico che ha come finalità principale la rielaborazione, la giustificazione o quantomeno l'accettazione di eventi, comportamenti o sentimenti vissuti nel passato in relazione alla storia di tossicodipendenza: spesso, nel corso delle interviste, le donne facevano riferimento alle spiegazioni che i professionisti del servizio avevano indotto in loro circa determinati comportamenti, e questo non

solo non deve essere interpretato come un punto debole dell'indagine biografica, ma deve essere inteso come auspicabile entro un processo terapeutico che si pone l'obiettivo della compliance al trattamento. A ciò si aggiungono alcune considerazioni che vengono segnalate in letteratura circa la difficoltà di ottenere resoconti "reali" con soggetti in stato di alterazione per l'assunzione di sostanze stupefacenti o per patologie psichiatriche ad esse correlate che compromettono le capacità cognitive dei soggetti, fino a sostenere che è impossibile in questi casi ottenere un reale consenso informato alla partecipazione ad un'indagine [Fry e Hall 2005]. Fermo restando che anche in questa sede si sostiene il valore intrinseco delle biografie raccontate, nel loro senso relativo per la relatività che gli stessi racconti di vita hanno assunto per le donne nel corso delle interviste, il procedimento metodologico che ho deciso di seguire ha permesso di giungere ad una conoscenza più approfondita dei casi concreti. Innanzitutto, il confronto preliminare con gli operatori sulle singole storie delle donne campionate mi ha permesso di avere una prima conoscenza della storia e delle caratteristiche delle intervistate; in tal modo, ho potuto riadattare le mie domande in maniera tale da far emergere i contenuti che mi interessavano, ho compreso quali argomenti non avrei dovuto trattare per evitare di compromettere la relazione biografica e la stabilità psicologica dell'intervistata, e soprattutto, mi ha permesso di adattare i miei schemi relazionali ai casi concreti. I confronti successivi con i professionisti del Sert, nonché l'osservazione diretta e la ricerca di situazioni conviviali di incontro con molte delle intervistate hanno costituito una fonte ulteriore di conoscenza delle storie di indubbio valore. Una nota su questa procedura: avendo libero accesso alla lettura delle cartelle cliniche, che in forma di racconto costruiscono in modo molto approfondito le storie di vita di ogni utente, avrei potuto preliminarmente ottenere le stesse informazioni che gli operatori mi hanno fornito consultando il sistema informativo. Un procedimento di questo tipo, per quanto fattibile, mi è parso eticamente scorretto e poco giustificabile, soprattutto nei confronti delle donne che ho intervistato: dichiarare, nel patto biografico, di aver discusso del loro caso con l'operatore X aveva un certo significato; dichiarare, al contrario, di aver letto la loro storia nelle cartelle cliniche avrebbe significato mettere in discussione le basi della relazione biografica stessa e la necessità di convenire in una situazione di intervista. Per questo, ho limitato la consultazione delle cartelle cliniche a quei casi (pochi in realtà) nei quali ho potuto ottenere un'autorizzazione esplicita delle intervistate, riferiti essenzialmente a donne con una lunga storia di tossicodipendenza che, nel timore di non riuscire a ricordarsi tutto, imi hanno invitato a leggere la loro cartella. Nel complesso i racconti di vita si sono rivelati congruenti con le indicazioni che avevo ricevuto dai professionisti sanitari, ad eccezione di un caso su cui mi soffermo che può essere considerato emblematico del valore che una persona, chiamata a raccontare di sé ad un estraneo,

può assegnare alla sua verità raccontata. Si tratta di una donna di oltre 40 anni, in carico al servizio da quasi 20 anni, descritta dall'operatore di riferimento come una persona molto socievole ed aperta al dialogo ma anche come una persona con difficoltà psicologiche rilevanti dovute ai meccanismi di negazione messi in atto su determinati eventi passati (come la contrazione di malattie infettive e la storia di prostituzione) che ancora non aveva rielaborato e accettato come parte della propria identità. Nel corso dell'intervista, ogni tentativo di far emergere questi eventi si è rivelato vano. Nel corso della successiva trascrizione, rileggendo più volte il suo racconto e le sue affermazioni mi sono resa conto che in realtà, pur non attribuendo a se stessa e alla sua storia determinati eventi, aveva comunque cercato di spiegarmi in terza persona, riferendolo a terzi, il significato che alcuni eventi possono avere nella biografia di una tossicodipendente; senza considerare che anche con lei ho avuto poi modo, sia a registratore spento che in diverse situazioni successive, di apprendere alcuni particolari della sua storia che, in quel preciso istante, non potevano emergere per il momento particolarmente doloroso che stava attraversando e che ha cercato di rimuovere dal racconto dell'intervista volgendolo in positivo e cercando di convincere se stessa di poterlo "superare senza la droga" (affermazioni sue). Infine, aggiungo una considerazione sulla "verità" nella sua veste pubblica, del resoconto di ricerca. Come sottolinea Fine in merito alla scrittura etnografica, «nel proteggere le persone, le organizzazioni, e le situazioni, nascondiamo alcune verità, ne ignoriamo altre, e costruiamo personaggi immaginari che distolgano i personaggi reali dalle pressioni» [1993: 287]. Nell'ambito della ricerca su comportamenti che rientrano nell'ambito dell'illegalità, il ricercatore non può esimersi dalla ricerca del miglior compromesso possibile tra la comunicazione fedele e dettagliata del percorso di indagine e la tutela delle fonti: il primo dei due termini costituisce un principio cardine della ricerca scientifica che permette il controllo intersoggettivo del processo di ricerca come la replicabilità dell'indagine; il secondo dei due termini comprende il "principio etico", da cui non si può prescindere, secondo il quale una persona non può ricavare un danno dalla partecipazione ad attività di ricerca. La letteratura internazionale destina uno spazio rilevante alla trattazione delle questioni etiche relative al processo di ricerca nell'ambito che qui si considera. Se guendo i principi formulati da Beauchamp e Childress [1989] per la ricerca biomedica, si sostiene che l'indagine sociologica ed epidemiologica debba rispettare 4 principi fondamentali: ilrispetto dell'autonomia dell'intervistato, ovvero la piena libertà di un soggetto di decidere autonomamente e senza coercizioni o forzature di aderire o meno ad un'indagine; principio che richiede dunque che i partecipanti alle indagini forniscano il proprio consenso informato e volontario e che vengano attivate tutte le procedure idonee al rispetto della privacy e della confidenzialità"; -la non maleficienza implica l'obbligo di non infliggere danni ai partecipanti alla ricerca,

cercando di minimizzare il più possibile i rischi connessi alla sua partecipazione all'indagine; ilprincipio di beneficienza richiede che gli studi abbiano ragionevolmente qualche possibilità di produrre benefici e che questi benefici siano maggiori dei potenziali rischi (per la società e per ipartecipanti); ilprincipio di giustizia richiede una distribuzione equa degli oneri e dei benefici della partecipazione ad una indagine. É evidente, da una prima loro lettura, che nell'ambito di comportamenti che si riferiscono alla sfera della illegalità e della criminalità i partecipanti ad un'indagine possono realmente subire delle gravi conseguenze dalla pubblicazione di un resoconto dettagliato di determinati atti o eventi. Per questo motivo, anche in questa sede, potrebbe a volte sembrare che alcuni resoconti manchino di particolari necessari a garantire la possibilità di verifica intersoggettiva dei risultati raggiunti. Si veda, nel capitolo successivo, la struttura del testo che descrive le caratteristiche delle singole partecipanti: se, proprio per questioni di trasparenza, ho preferito presentare in dettaglio e non in modo aggregato alcune delle caratteristiche delle partecipanti all'indagine, dall'altra parte questo dettaglio risente dell'omissione di alcuni particolari (come l'età, esposta in classi), in virtù della considerazione che il confronto incrociato di diverse informazioni potrebbe permettere l'identificazione delle donne, anche in virtù della considerazione che il Trentino ha una dimensione territoriale ed una densità di popolazione molto contenute, che lo rendono molto più simile ad un grande paese che ad una città [Morse 2007]. Anche l'ipotesi iniziale di riportare integralmente alcune delle storie di vita è stata accantonata per questi stessi motivi18. Dal caso alla teoria: ulteriori riflessioni etiche È evidente che nella pratica concreta della ricerca possono presentarsi delle situazioni non previste in fase di pianificazione che possono dare luogo ad una serie di problematiche di difficile gestione e che possono influire sull'andamento dell'intervista [Hesse-Biber, Leavy 2006], creando talvolta dilemmi di carattere etico purtroppo ancora poco approfonditi a livello teorico e che, come sostiene Marzano, possono costituire «un'occasione per la scoperta (o la costruzione) della propria identità morale, per misurare, sotto la pressione degli avvenimenti e l'urgenza delle scelte, la consistenza e la tenuta dei propri valori» [2004: 170]19 Si è più sopra precisato che intenzionalmente non ho voluto escludere, nella pianificazione campionaria delle donne da intervistare, le cosiddette persone in comorbidità psichiatrica, cioè coloro che presentano disturbi psicopatologici importanti, poiché questo avrebbe costituito una delimitazione di campo poco pertinente e con riflessi negativi sui risultati raggiunti. A livello teorico tale scelta può essere considerata metodologicamente corretta, tuttavia una situazione in particolare si è rivelata difficile da gestire, facendo un po' confondere i ruoli apparentemente definiti e chiariti nel patto biografico. Parlo di Brenda, una donna ultraquarantenne classificata

nella Bassa Evolutività proprio per la mancanza di risorse psicologiche idonee alla fuoriuscita volontaria dalla condizione tossicomanica e con gravi disturbi di tipo ossessivo-compulsivo e tendenze alla vittimizzazione (centrate soprattutto sul rapporto con la famiglia d'origine). Nel corso dell'intervista è emerso fin da subito il suo bisogno esasperato di trovare uno sfogo ai suoi pensieri, con discorsi logorroici che spesso non riuscivano a seguire percorsi coerenti, con una incessante apertura di digressioni spesso non concluse e la maniacalità nella ricostruzione di particolari minuziosi a discapito di un senso più generale della sua storia. Sebbene i tentativi di riportare il discorso entro i binari dei miei obiettivi siano andati a buon fine, giunta quasi al termine sono stata costretta ad interrompere in modo repentino l'intervista a causa di sfoghi emotivi che stavano degenerando in qualcosa di più grave. Già nel corso dell'intervista avevo notato spesso l'ambivalenza dei suoi discorsi e delle emozioni che esprimeva, tesi da un lato a richiamare in modo ossessivo i danni che lei aveva causato agli altri, come per l'aborto cui era stata costretta o per il rapporto con i genitori e il figlio, dall'altro a farsi vittima lei stessa dell'atteggiamento che i suoi genitori avevano avuto nei suoi confronti e delle sue tristi sorti complicate dalla scoperta di un tumore e da una breve ricaduta nell'uso di eroina. Ad un certo punto, Brenda mi pone una domanda di cui non avevo colto il senso in un primo momento: `B. senti ma non hai paura a fare questa tesi che è molto... a rimanere un po'... sei psicologicamente forte ad ascoltare tutto? L. eh... diciamo di sì B. perché ne ascolterai altre oltre a me, è pericoloso eh... L. hai ragione... io sono molto emotiva -e alcune interviste sono davvero pesanti, però faccio molti periodi di pausa e ho sempre comunque l'appoggio degli operatori... però hai ragione, alcune storie sono davvero coinvolgenti dal punto di vista emotivo B. ci ho proprio pensato adesso "ma non avrà paura?! L. paura no, ecco, però fatica sì... poi sono sempre stata abituata ad ascoltare certe storie, e quindi... B. ma anche io! Anche io! E tutti avrebbero messo le mani sul fuoco che io non avrei mai fatto niente e non sarei finita così! L. eh... sai forse poi il rischio per me è forse quello di identificarmi con molte di voi perché le storie possono essere simili, e quindi hai ragione B. è il cervello! Quello che ammazza è il cervello, in un attimo la testa ti gioca brutti scherzi e io ho tanta paura di questo, perché adesso che sono lì da sola... per fortuna che ho preso sto cane al canile e gli voglio un bene dell'anima, ho mio figlio, ma nient'altro, ma morirei se non avessi loro [....]". Da quel momento la situazione ha cominciato progressivamente a degenerare fino a raggiungere degli sfoghi emotivi particolarmente pesanti e discorsi che contenevano continuamente richiami ad ipotesi suicidarie che sembravano pian piano trovare elementi di concretizzazione. Era dunque chiaro che il ruolo di ricercatrice doveva necessariamente essere abbandonato in favore di un atteggiamento di contenimento più simile a quello che terrebbe un

terapeuta. Dunque, nelle fasi finali dell'intervista ho cercato di portarla a rivalutare gli elementi positivi della sua storia e i successi che aveva raggiunto per farle recuperare un minimo di controllo e di autostima. Ogni tentativo è risultato vano, tanto che a un certo punto mi è sembrato indispensabile spostare il setting della relazione in un contesto più neutrale, proseguendo però con il tentativo di dirigerla verso uno psicologo per riuscire ad affrontare la situazione: `B. no, non c'è niente che giustifica, solo la stupidità, perché tutte queste cose poi, queste vicissitudini è ovvio che son reali, ma il fatto di farsi e quello che ci sta intorno... cioè tutte le cose che ti capitano non sono una scusante perché succedono a tanta gente eppure non si vanno a fare le pere, è la debolezza tua, bisogna guardare negli occhi la verità L. qui stai prendendo il metadone? B. sì, ma dovrei andare dallo psicologo, ma siccome mi hanno inculcato sta maledetta mentalità, perché adesso mi ritrovo sola, mi vedi parlare con il cane e basta perché non ho nessuno, io ho davvero tante cose da buttare fuori perché non reggo, non reggo20 [n.d.r. piange disperata] L. perché non ci vai dallo psicologo allora? Sai che qui ci sono psicologi molto in gamba B. lo so, mi conoscono, ci sono andata, non riesco a volte a gestire il normale, continuo a piangere, non riesco più a gestire le emozioni che ho dentro L. capisco, e però gli psicologi sono li apposta per farti capire come fare B. ma cosa gli devo raccontare? L. quello che hai detto a me, poi te lo diranno loro cosa dire ma insomma... oggi con me sei andata avanti come un treno, quindi ne hai tante di cose da raccontare B. eh sì, te lo dicevo che io sono così, parlo a fiume L. ecco, vedi, allora non ti devi fare il problema su cosa dire perché loro pian piano riescono a tirarti fuori quello che gli serve, ti ascoltano e ti fanno capire come gestire questa emotività B. perché prima ero più forte, io non so, ma dove è andata a finire la Brenda di una volta? Che avrebbe scavalcato le montagne.... mi son ritrovata con un figlio da sola quando aveva 5 mesi, e ho fatto sacrifici e lavori per portarlo avanti, e son riuscita anche a portarlo al mare, non gli ho fatto mancare niente... e lavorando, e facendo sacrifici son riuscita anche a portarlo al mare! Ma dove è finita quella li? Non c'è più! Non c'è più! L. o forse è solo stanca... B. non è vero, non c'è più! E non servo più a nessuno adesso, mio figlio ha la ragazza ormai e io sono sola, e non ho niente, non ho più niente e ogni tanto penso "adesso vado in piazza, mi prendo la roba, mi faccio una pera di quelle forti però, così muoio di overdose e almeno non do più fastidio a nessuno" L. così però daresti un dispiacere a tuo figlio che ti vuole bene... ascolta, andiamo fuori, ti offro una sigaretta e facciamo una passeggiata, così ci rilassiamo un attimo". Mi sono dilungata nel racconto di questa storia perché è emblematica del tipo di contesto entro cui il ricercatore si trova ad operare e della relazione biografica che può essere instaurata nel corso di un'intervista. Vengono qui sollevati due aspetti dove i confini del lavoro di ricerca

appaiono essere sfumati. Innanzitutto, il confine tra intervista biografica e colloquio terapeutico, ben distinti sul piano teorico21 ma forse meno sul piano pratico, in quanto la relazione biografica può evolvere in tale direzione per i particolari bisogni mostrati dall'intervistato [Morse 2007], e spesso viene investita di un tale significato da parte dell'intervistato, sia a priori e inconsciamente che a posteriori, ad intervista conclusa. Come sostiene Vajda [2007], l'intervista biografica può in alcuni casi, sussidiare la ricostruzione di una nuova identità narrativa per l'intervistato; anche se l'intervistatore non agisce materialmente in questo senso, l'effetto può essere questo semplicemente costruendo una situazione di intervista dove c'è una persona che non vuole altro che ascoltare il racconto della vita dell'intervistato. Attraverso questo processo ci possono essere ricadute terapeutiche che gli intervistati esperiscono inconsciamente e per i quali esprimono gratitudine. Presentando due casi di interviste, l'autore ritiene che in alcune occasioni semplicemente il fatto di essere ascoltati ha un potere di cura poiché la narrazione di un passato insopportabile può portare sollievo. Raccontare la propria storia permette di convivere un passato insopportabile, anche a distanza di molto tempo; una intervista ben condotta, se coinvolge un buon ascoltare non-giudicante, non solo ha un enorme valore per la ricerca, ma aiuta gli intervistati a vivere nonostante la propria traumatica e dolorosa esperienza. Per questi motivi, spesso le donne mi hanno cercato anche in momenti successivi all'intervista; cito il caso di Judith che più volte è venuta nel mio studio per "il bisogno di parlare con qualcuno che già mi conosce, che mi può aiutare e capire". Questo è un caso emblematico di come l'intervistato possa concepire la relazione con l'intervistatore: le distinzioni che avevo opportunamente operato nella fase iniziale dell'intervista circa il mio ruolo all'interno del servizio e il rapporto con i professionisti socio-sanitari, hanno fatto si che si instaurasse un rapporto di fiducia e confidenza tale da essere anche successivamente ricercato. Judith è una giovane madre in un programma di trattamento che prevede il monitoraggio da parte dei Servizi Sociali delle sue capacità genitoriali, e che esprime più volte nel corso dell'intervista la sensazione di non poter avere con gli operatori la stessa libertà di essere sincera che sente con me per le conseguenze che potrebbero esserci su di lei e sul suo bambino. Nella prima intervista, nella fase iniziale, afferma: -J... ..non riesco a essere sincera al cento per cento perché sempre ho paura di quello che può succedere; se non avessi problemi, non avessi il bambino non mi farei la preoccupazione. Infatti una volta non avevo problemi. Sono molto sincera su tante cose, come tutte le volte che mi capita di far uso e che non dovrei perché... io lo dico, tanto viene fuori per cui è inutile che faccio finta di niente e poi mi fanno le analisi - ah, perché io ho l'obbligo delle analisi del capello e delle urine -, viene fuori... son sempre stata abbastanza sincera, però al 100 per cento è difficile... se son più sicura che la cosa rimane parlo, certo... L. per questo attribuisco dei nomi in inglese, così vi potete sentire più sicure che quello che mi dite rimane confidenziale J. sì... ma poi non penso che dopo ti verranno a chiedere chi ha detto cosa...

L. certo, era per chiarire un po' i confini..." E nel corso del secondo appuntamento: "J. io vado dallo psicologo x, mi trovo bene dai però non è che appunto sono costante... faccio magari una volta, poi 2 volte non ci vado... io poi non son mai tranquilla, te lo dicevo... sto parlando più tranquillamente con te, ma io non riesco a parlare con nessun'altro tranquillamente perché ho sempre la paura che poi possa ricadere su di me, sul bambino, sai che possono... L. ma non pensi che gli operatori siano qui per aiutarti, non per fare qualcosa contro di te? J. eh... ma poi ci sono le relazioni da fare, le cose... io dico, comunque nelle relazioni le cose le devono dire, perché l'assistente sociale del Comune viene una volta ogni 6 mesi giusto quando gli gira solo per fare la relazione: fa la relazione, viene, chiede di qua e di là, e poi vien fuori che non va bene. Se magari io mi espongo un po' di più ho paura che possa peggiorare la cosa, no? E allora cerco poi di evitare tutto..." Spesso, inoltre, è successo che nel corso delle interviste le donne mi chiedessero esplicitamente di non riferire determinate eventi agli operatori, circa tutti quei comportamenti che avrebbero potuto mettere in discussione la fiducia che era stata accordata loro nel corso degli anni. La relazione con i professionisti del Sert, infatti, è per molte di loro di fondamentale importanza in quanto in molte situazioni è l'unica relazione significativa sulla quale possono contare; dunque, il fatto che il loro medico, ad esempio, possa venire a conoscenza di determinati comportamenti (come l'auto-gestione dei dosaggi della terapia metadonica o le brevi ricadute nell'uso di eroina) è vissuto come un elemento che può turbare tale relazione, metterle in cattiva luce di fronte a loro e compromettere la stabilità della relazione terapeutica22. In un altro caso, le esigenze contingenti e personali dell'intervistata di essere ascoltata hanno messo in discussione i principi alla base del patto biografico, in particolare connessi al mio ruolo e ai miei obiettivi. Si tratta di Valerie; come già evidenziato da Rosenbaum [1981] e Taylor [1993], il ricercatore deve mettere in conto che l'intervista a donne tossicodipendenti può essere fortemente influenzata dal particolare momento in cui viene effettuata e dalla tendenza alla caoticità delle loro vite e agli up and down repentini nel loro umore. Questo di Valerie è un caso per il quale avevo valutato la necessità di fissare un ulteriore appuntamento di approfondimento delle tematiche emerse nel corso del primo colloquio, in particolare in merito al rapporto con il figlio e alla maternità. Al secondo appuntamento, non appena accendo il registratore pensando di proseguire in tutta tranquillità l'intervista, Valerie mi dice in modo aggressivo di spegnerlo con queste parole: -è che a me, onestamente, non me ne frega niente di venire qui adesso a parlare del mio passato, so che tu stai facendo un bel lavoro, ma io ho davvero tantissimi problemi e mi sembra tutte le volte di perdere tempo. Vengo qui e vedo sempre persone diverse, nessuno mi dà delle risposte, ma io le bollette le devo pagare a fine mese, lavoro in una cooperativa ma più di così non mi danno, non sai quanti debiti ho da pagare e allora io non so neanche che

cos'è che mi fa andare avanti, proprio non lo so. Quindi io ho solo bisogno di parlare dei problemi di adesso, cerco qualcuno che mi ascolti". Tali affermazioni non lasciavano spazio a margini di scelta su come procedere; la strategia utilizzata è stata quindi quella di accordarle tutta la disponibilità all'ascolto possibile e appuntare subito dopo il colloquio gli elementi emersi in riferimento ai miei obiettivi originari. Successivamente, Valerie mi ha contattato telefonicamente più volte per chiedermi consigli su come fare a gestire determinate situazioni, ad ulteriore conferma di quanto i tossicodipendenti possano percepire i propri bisogni come prioritari23, spesso a danno delle relazioni interpersonali; in questo caso, su sua autorizzazione esplicita, ho provveduto a comunicare all'operatore di riferimento le problematiche che-mi-ha espresso. Riprendendo la storia iniziale di Brenda, l'ulteriore confine che evidenzia ha a che fare con le questioni etiche che si accennavano precedentemente, inerenti la necessità che gli intervistati non subiscano un danno proveniente dalla partecipazione ad un'indagine, spesso affermato come principio generale nei diversi codici deontologici esistenti ma poco precisato nelle fattispecie concrete. In questo caso, la situazione dell'intervista ha sicuramente creato una situazione di disagio per l'intervistata; sebbene non sia certo stata l'intervista in sé a causare direttamente questo disagio, che ha radici ben più lontane e profonde, ha contribuito certamente, almeno in quel preciso momento, a riportarlo alla luce. È altrettanto chiaro che situazioni di questo tipo non sono ipotizzabili a priori ma possono solo essere abilmente gestite a posteriori, una volta che si sono verificate. Le parole di Peggie aiutano a chiarire il contributo che una situazione di intervista in profondità può dare all'emergere del disagio, con un brano ripreso dal secondo colloquio. In seguito al primo incontro era evidente che la storia che aveva alle spalle le creasse diverse problematiche nell'accettazione di quell'identità che si era velocemente costruita; ma non avevo considerato la possibilità che un'intervista avrebbe potuto creare un danno di questo tipo, per quanto contenuto, in questo caso, dal fatto di beneficiare del sostegno successivo e costante di uno psicologo: "L. allora, ti faccio solo l'ultima domanda P.... sai, quando sono andata dallo psicologo l'altra mattina dopo l'intervista, mi ha detto: "cos'hai?! Sei un po' strana...", e io le ho detto: "ho mal di testa", e infatti sai sono andata fuori di qua con il mal di testa... cioè ne parlo tranquilla, non ho mai avuto problemi a parlarne, però mi è venuto un mal di testa che mi è durato tutto il giorno L. ma perché hai tirato fuori determinate cose? P. probabilmente sì L. ma ti capita spesso, anche quando parli con lo psicologo? P. mah, quando vado da ** non è che... cioè parliamo magari di una cosa che poi va avanti per tante sedute, non è che si parla di tutto insieme così, no?... e infatti, a lui ho detto così dopo, a parlare tutto insieme di tutto... L. hai mal di testa adesso?Vuoi che ci fermiamo?

P. adesso no, ancora no... Va beh! Ma è lo stesso comunque! Stai tranquilla! Fammi la domanda..." In altri due casi si sono verificate delle situazioni che hanno creato dei conflitti di carattere etico. Il primo è l'intervista con Emily; è da premettere che si tratta dell'unico caso che ha avuto delle modalità di aggancio differenti, in quanto avevo chiesto ad un'altra intervistata, che nel corso del colloquio mi aveva parlato a lungo del suo rapporto con Emily, di chiederle la disponibilità ad effettuare l'intervista. E nell'incontro con Emily, lei da un lato esprime il risentimento per il fatto che non siano stati gli operatori a chiederglielo espressamente, dall'altro dice di non mostrarsi particolarmente stupita perché da quando è in carico al servizio loro non hanno mai manifestato interesse verso di lei. Questo vissuto di trascuratezza, tra l'altro, si inseriva in una storia personale densa di altri vissuti simili, prima di tutto in ambito familiare, e di esperienze traumatiche - come le ripetute violenze sessuali subite - che lei stessa affermava di non aver mai elaborato. In questo caso, il dilemma di carattere etico che mi si poneva contrapponeva i doveri espliciti che avevo nei confronti dell'intervistata a quelli impliciti che avevo nei confronti dell'organizzazione in cui lavoravo: ovvero, comunicare agli operatori questa vicenda, contravvenendo al segreto professionale e alle dichiarazioni di riservatezza effettuate nel patto biografico per favorire una ripresa di una relazione terapeutica che avrebbe potuto portare al benessere di Emily, oppure tutelare in assoluto il diritto alla riservatezza dell'intervistata anche se questo avrebbe continuato a creare un suo disagio nel rapporto con gli operatori? Come nel caso di Brenda, la soluzione che in coscienza mi son sentita di sposare è stata la prima, perché metteva davanti a tutto il benessere dell'intervistata; una strategia, tra l'altro, sostenuta da un esempio proveniente dalla letteratura internazionale, Morse [2007], che ritiene che in casi estremi ove non vi è la possibilità di concordare con l'intervistato le modalità con cui certi fatti devono essere riferiti agli operatori, la tutela del benessere del soggetto deve prevalere sulla riservatezza e confidenzialità. Gli operatori, poi, hanno concretamente studiato le modalità di ri-aggancio di Emily più idonee a non lasciare intendere che il loro interessamento fosse derivato da una mia (scorretta?) rivelazione. Un ulteriore dilemma etico si riferisce alla scoperta di reati nel corso dell'intervista; tale aspetto viene affrontato in modo più sistematico dalla letteratura di settore a livello internazionale, ma risulta comunque passibile di soluzioni anche profondamente differenti vista l'eterogeneità della regolamentazione giuridica. In verità, ingenuamente non mi sono posta un problema di questo tipo finché non mi è capitato, come nei casi precedenti, un'intervista nella quale il reato è stato raccontato minuziosamente e, tra l'altro, si inseriva in un momento particolare del mio lavoro di ricerca. Era un periodo nel quale le Forze dell'Ordine tenevano sotto controllo i movimenti di alcune persone che frequentavano il servizio, e l'esito di queste operazioni di intercettazioni telefoniche e di osservazione diretta degli scambi e delle relazioni tra gli utenti del Sert aveva portato all'arresto di diverse persone per spaccio di varie sostanze, tra cui il metadone. Due delle persone arrestate aveva partecipato ad una intervista con me, e un'altra delle donne che avevo proprio sentito in quel periodo era finita nelle intercettazioni telefoniche

ed era stata sentita dai magistrati come persona informata sui fatti, pur non essendo coinvolta direttamente in questi scambi; di fatto, le telefonate che avevo fatto con il mio cellulare personale a queste persone per concordare i diversi appuntamenti erano entrate in questo sistema di intercettazioni telefoniche. Dunque, il momento era particolare perché chiaramente avevo iniziato a pormi il problema su come avrei dovuto comportarmi nel caso in cui un magistrato mi avesse richiesto di collaborare con qualsiasi richiesta rispetto a quello che potevo sapere su persone o movimenti. Proprio in questo periodo, intervisto la ragazza X, tra l'altro l'unica intervista nella quale è anche sorto il problema dello stato di alterazione per l'assunzione di eroina avvenuta pochi minuti prima e ammessa dall'intervistata; nella fase iniziale nella quale stavo spiegando le finalità dell'intervista e le diverse procedure con cui si sarebbe articolata, a registratore ancora spento, la ragazza inizia a spiegarmi nei minimi particolari a chi, come e perché vendeva il metadone che prendeva in affido del Sert. In quel momento avevo acquisito pienamente la consapevolezza che quello che mi stava raccontando era un reato, ma d'altra parte era interessante per me approfondire proprio i particolari di questa attività: in due parole, il farmaco affidato veniva ripartito da lei in diverse dosi, tenendosene da parte un po' per eventuali momenti di emergenza personale, e vendendo il resto ad una cifra abbastanza alta per poi comprarsi in tutta tranquillità l'eroina che serviva per il suo fabbisogno personale. Questo aveva determinate ricadute: innanzitutto, le dava la possibilità di fingere di essere pulita da sostanze illegali di fronte ai propri familiari e, anche, di fronte agli operatori; in secondo luogo, le permetteva di potersi acquistare l'eroina con denaro che non era guadagnato con attività illegali più visibili che potevano esporla a problematiche con la legge; ma soprattutto, le permetteva di guadagnarsi una certa importanza nella rete di relazioni che si era costruita proprio per vendere la terapia, costituita da "personaggi di una certa fama sociale, e che svolgono professioni in vista... non è che loro possono venire qui al Sert...". L'importanza di questo discorso ai miei fini era evidente, perché confermava alcune considerazioni che già avevo avuto modo di avanzare sulla diversa percezione dello stigma associato alla condizione di tossicodipendente, per genere e status sociale, oltre che sulle capacità imprenditoriali manifestate anche dalle donne tossicodipendenti nel provvedere al sostentamento della propria dipendenza. Ora, il conflitto etico è in questo caso su più fronti: la tutela della riservatezza e dell'anonimato dell'intervistata di fronte ad un'eventuale indagine della magistratura, in primis, ma anche la tutela degli operatori e dell'immagine del servizio per cui stavo lavorando24. Rispetto al primo punto, vi è da dire che non vi è un accordo unanime in letteratura circa le strategie da seguire per risolvere un tale dilemma etico. Moore [2003] e Goode [2000], ad esempio, sostengono che la tutela della confidenzialità degli intervistati debba avvenire a qualunque costo e anche di fronte ad obblighi di legge espliciti: il ricercatore non può essere considerato un informatore della polizia, anche perché se fosse così nessuno parteciperebbe più ad indagini sociali e la conoscenza si fermerebbe. Fitzgerald ed Hamilton [1996] affermano che,

data la scarsità delle soluzioni proposte in letteratura circa le modalità più opportune su come agire in questo caso, l'unico modo per non incorrere in problemi più seri è quello di trattare il materiale eliminando dalle registrazioni e dalle trascrizioni eventuali riferimenti identificanti; gli autori sottolineano soprattutto la vulnerabilità del ricercatore, che nel corso di indagini etnografiche può assistere a transazioni di droga o venire a conoscenza di informazioni dettagliate su attività illegali (in corso), o ancora peggio essere presente nel corso di operazioni antidroga che conducono ad arresti, e l'assenza di forme di tutela legale del loro lavoro. In altri contributi si afferma la necessità che il ricercatore dichiari all'inizio dell'intervista che se dovessero emergere dei reati, lui sarebbe costretto per legge a denunciarli ai magistrati, oppure, viene proposto di chiudere l'intervista nel momento stesso in cui si viene a conoscenza del reato; in alcuni Stati, come affermano Fry e Hall [2005], è possibile chiedere preventivamente un'autorizzazione speciale dai magistrati che tuteli il ricercatore nel suo diritto/dovere alla confidenzialità. La mia indagine rappresenta un caso particolare rispetto a quelli commentati, in quanto il mio ruolo di ricercatrice si univa a quello di operatrice del servizio, tutelato dalla legge 309/1990 e successive modifiche (in tutta probabilità); fuor di ogni dubbio, mi è parso comunque fondamentale per la mia tutela il rispetto della procedura metodologica di conservazione dei nominativi che ho descritto nel testo, e l'eliminazione dei frammenti di registrazione che potevano creare problemi. Il secondo dilemma si riferisce ai doveri nei confronti dell'organizzazione entro cui ho operato. La correttezza professionale mi ha portato a chiedere esplicitamente al direttore del servizio l'autorizzazione alla pubblicazione di informazioni di questo genere; su suo esplicito consiglio, inoltre, mi sono sentita in dovere di tutelare in qualche modo il medico di riferimento di questa donna ammonendolo, senza preci sare l'identità di chi mi aveva fatto questa rivelazione, di tenere sotto controllo la questione degli affidi perché avevo avuto informazioni di un certo tipo25. Le considerazioni che ho espresso con queste riflessioni non sono certo sufficienti a rendere conto della complessità dell'indagine sociologica nell'ambito dei comportamenti di consumo di sostanze illegali, ma senz'altro esemplificano il tipo di problematiche di carattere etico e metodologico che possono presentarsi al ricercatore in ogni fase del processo di ricerca e che possono portarlo a ridimensionare i suoi obiettivi, le sue ambizioni, i suoi stessi ideali professionali e scientifici; un ambito di ricerca che, più di altri, richiede che nulla venga lasciato al caso e che la disciplina si interroghi costantemente sui propri metodi, sui propri principi, sulle soluzioni possibili.

Un breve profilo biografico delle intervistate Di seguito si fornisce una breve descrizione delle carriere tossicomaniche delle donne intervistate nel corso dell'indagine qualitativa, che fornisce gli elementi indispensabili a ritrarre gli aspetti più caratterizzanti delle biografie e soprattutto a leggere le diversità inter-generazionali, nonostante la necessaria vaghezza su alcuni dati, il cui incrocio con gli estratti riportati nel testo potrebbe portare all'identificazione, anche solo presupposta, delle singole donne'. Le under 21 anni Carolyn, in carico al servizio da pochi mesi con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Proviene da una famiglia benestante, con entrambi i genitori in posizioni lavorative stabili, la cui disponibilità economica ha costituito la sua fonte principale di sostentamento e al momento dell'intervista è studente con diverse difficoltà di rendimento causate dallo scarso impegno e dalle diverse assenze dall'ambito scolastico dovute al consumo di droghe. A 12 anni inizia a frequentare un ragazzo e una compagnia di amici nella quale si abusava spesso di alcolici, e attribuisce alla giovane età e all'esigenza di farsi accettare da loro il suo uso di alcolici, che diventa presto un abuso massiccio e quotidiano e che si protrae per tutta la durata della sua biografia. A 14 anni inizia a consumare cannabinoidi, fin da subito in modo quotidiano e frequente (anche reiterato 5/6 volte al giorno), ed ecstasy, usata il fine settimana ma anch'essa in quantità non moderate (anche 2/5 compresse per occasione); verso i 15 anni inizia a sperimentare amfetamine, cocaina (fumata e sniffata), ketamina ed LSD, spesso assunte contemporaneamente e in grandi quantità (fino a 5 grammi di cocaina mixata alle altre sostanze), soprattutto nei weekend. La prosecuzione di questa modalità di consumo a supermarket [Cipolla 2007a: 34] è dovuta alla sua incapacità di gestire qualsiasi situazione senza droghe, diventate per lei sempre più una necessità, in particolare in seguito all'allontanamento del suo ragazzo da parte della famiglia, persona con la quale intratteneva un rapporto che definisce lei stessa di dipendenza e morbosità, un evento che la porta a sperimentare eroina: fumata per la prima volta a 17 anni, diviene dopo pochissimo tempo un uso quotidiano e consistente e i tentativi di disintossicazione autonoma effettuati acquistando metadone sul mercato nero non vanno a buon fine, ragione fondamentale del ricorso al servizio. Nel corso dell'intervista, Carolyn affronta diverse tematiche che sono state, pertanto, oggetto di approfondimento: la sua incapacità di affrontare un cambiamento identitario, i disturbi alimentari, gli atti di autolesionismo, gli abusi subiti da piccola da parte di un parente riaffiorati alla memoria solo di recente, la sua sensazione di non essere mai all'altezza delle aspettative materne e il contestuale bisogno di costante approvazione, l'eccessiva libertà di cui ha sempre goduto fin da piccola e che ritiene di aver sfruttato a suo svantaggio, le discriminazioni subite a scuola e nei contesti lavorativi. L'intervista

si svolge in un clima di fiducia e di tranquillità emotiva, favorita senz'altro dalle capacità di introspezione e rielaborazione personale apprese nei percorsi psicoterapici. Jacquelyn, in carico al servizio da circa un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. I primi contatti con l'alcol avvengono precocemente all'età di 12 anni, inizialmente in compagnia dell'amica del cuore e con limitazione ai fine settimana; ben presto, il consumo diventa quotidiano e dalle motivazioni iniziali, di tipo ludico, si trasforma in una dipendenza rivolta a coprire gli stati di malessere, che la porta anche ad avere diversi coma etilici, non sufficienti a farle moderare l'uso. All'età di 14 anni sperimenta l'uso di cannabinoidi, in compagnia di questa amica e altri ragazzi appena conosciuti, anche in questo caso inizialmente con motivazioni ludiche, trasformatesi poi in consumo solitario e quotidiano. Alcune esperienze lavorative occasionali successive la portano a fare diverse conoscenze di persone fuori dal comune, di extracomunitari molto più grandi di lei a cui si avvicina e di cui vuole condividere le esperienze per riuscire a capire se tutti i pregiudizi che le persone hanno verso di loro sono reali. Dunque, sperimenta a 15 anni l'uso di cocaina e di droghe sintetiche. L'arrivo all'eroina, avvenuto a 17 anni, è casuale, in quanto racconta che ad una festa lei e l'amica del cuore attendevano che uno spacciatore portasse loro dei cartoni (Lsd), e quando hanno scoperto che non li aveva con sé, non potendo affrontare una festa senza droga, avevano acquistato e fumato eroina. L'episodio successivo avviene a distanza di una settimana, e dopo pochi mesi diventa quotidiano "per noia, perché non sapevo che cazzo fare", portando contestualmente alla sospensione del consumo di tutte le altre sostanze e all'uso fondamentalmente autoterapico della sostanza; sostiene, infatti, che nei momenti in cui le cose non vanno per il verso giusto c'è questa forza incredibile, nella sua testa, che la porta a farsi la fumata per riuscire a non pensare. Tali modalità di pensiero sono concomitanti anche al trattamento metadonico in corso al Sert; infatti, anche se con una frequenza contenuta, le capita di fumare ancora nei momenti di noia estrema o nei momenti in cui litiga con la madre o con il ragazzo. Il ricorso al servizio è motivato dall'incapacità di smettere autonomamente, anche ricorrendo al metadone acquistato sul mercato nero, e alle crisi di astinenza da metadone che la facevano stare male fisicamente. Inizialmente, il denaro per acquistare le droghe era reperito con un lavoro part-time; successivamente alle sue conoscenze di spacciatori e tossicodipendenti, utilizzava in modo strumentale la sua età e la relazione con loro per ottenere direttamente il rifornimento di droghe, senza fare lo sforzo di acquistarle. Tutta l'intervista gravita intorno all'argomento della noia e dei problemi esistenziali, colmati esclusivamente dalla droga; parla molto poco della famiglia e della scuola, sostenendo di avere da un lato problemi di relazione seri con la madre, depressa con un problema consistente di abuso di psicofarmaci, per la quale prova sentimenti ambivalenti considerandola prima causa, poi vittima dei suoi comportamenti fuori dalle righe; dall'altro, il tipo di vita che ha condotto l'hanno costretta, senza troppa fatica, ad abbandonare più volte gli studi superiori solo recentemente ripresi. Riprende, dunque, più volte la tematica nichilista del vuoto creato dalla società che spinge le persone, proprio per come è strutturata, alla noia e al ricorso alle droghe.

Jodie, in carico al servizio da circa un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Jodie inizia a fumarsi stagnole (eroina) all'età di 16 anni; precedentemente ha sperimentato tutte le sostanze psicoattive esistenti, dall'alcol e la cannabis (15 anni) alle droghe sintetiche e alla cocaina (15-17 anni), il cui consumo è rimasto occasionale ed è praticamente scomparso in seguito alla prima sperimentazione di eroina e rientrava in un progetto più generale di sperimentazione di droghe che non viene considerato una causa della sperimentazione successiva di eroina. L'eroina ha risposto, in quel momento, al suo desiderio di cambiare vita e di entrare in un contesto e in gruppi (le chiama "nicchie"), dove si viene rispettate proprio perché si fa uso di eroina dove si assume il ruolo di amica o ragazza "di"; sostiene che stava attraversando un periodo molto pesante per la rottura di una relazione importante e ha subito l'attrazione di questo mondo che, alla fine, "attira tutti bene o male". Il coinvolgimento con la sostanza è da subito molto intenso e il cambiamento comportamentale la porta a pensare di essere un'altra persona, sebbene non riesca a darsene una spiegazione e non voglia cambiare questa identità di tossicodipendente che si è costruita, in modo particolare per il senso di appartenenza che costantemente manifesta con ogni aspetto di sé: dall'abbigliamento, ai comportamenti, al linguaggio e all'uso frequente di termini gergali che la mantengono in questo mondo separato dalla "normalità". L'immagine che ha di sé è di una persona "con diverse turbe mentali", per la tendenza a pensare troppo e per la sua eccessiva sensibilità. Il ricorso al servizio è dovuto non tanto alla volontà di smettere definitivamente con la roba, che continua ad assumere sporadicamente nonostante la terapia sostitutiva, quanto alla difficoltà a contenere tutte le conseguenze che il consumo comporta connesse all'atto di comprarsela. L'intervista è molto ricca di particolari per la sua grande capacità di comunicare e razionalizzare; racconta dell'anoressia, del rapporto conflittuale di odio/amore con la madre che finora l'ha frenata dall'arrivare al buco, dei modi per recuperare denaro, della notte trascorsa in carcere per un fermo di polizia, di cosa significhi per una ragazza far parte di questo mondo, delle diversità di genere nella tossicodipendenza, dei sensi di colpa derivati dall'uso di droga, del conflitto tra i due modi di essere ("perfettina" da un lato, delinquente dall'altro). Nel corso di questa prima sessione, Jodie mi permette di fotocopiare il suo diario personale, centrato quasi esclusivamente sul rapporto con l'eroina, dicendomi di farne tesoro perché non ha mai permesso a nessuno di leggerlo. In diverse occasioni successive ho modo di approfondire in situazioni informali molti degli aspetti emersi nell'intervista e annotati nel diario; in modo particolare, dopo circa un mese, vedendola particolarmente in ansia, le chiedo se vuole continuare a fare due chiacchiere nel mio studio perché esprimeva costantemente la sua "voglia indescrivibile di farsi una pera". Approfondiamo quindi il discorso sull'astinenza dall'eroina (che dura da 12 giorni, pur compendiata dalla terapia sostitutiva) e il recente distacco da alcuni cari amici e amiche, che costituisce un po' la causa del "ritorno di fiamma" con l'eroina. Amici che, tra l'altro, nei progetti di Jodie avrebbero dovuto aiutarmi nel mio lavoro di ricerca sulle tossicodipendenti estranee al servizio: "io avevo già parlato con le mie amiche, avevo detto "guardate c 'è questa persona, vi potete fidare, ci metto io la parola, non vi preoccupate, viene con noi un giorno e le facciamo vedere come va veramente, il nostro linguaggio, le insegniamo quello che parliamo per telefono,

il farfallino, le insegniamo tutto... le facciamo vedere com 'è e come non è questo mondo, la portiamo dentro e basta!" Cioè, ovviamente senza farti fare niente!". Jasmin, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Proviene da una famiglia con un tenore di vita modesto, ma profondamente disgregata a causa della separazione precoce dei genitori, dovuta ai comportamenti violenti del padre verso la madre e il fratello. Jasmin passa un'adolescenza travagliata, divisa tra periodi passati a casa del padre o a casa della madre e del nuovo compagno, esperienze di istituzionalizzazione e, a partire dai 17 anni, in giro per l'Italia con quello che anche attualmente è il suo compagno. Già nel periodo scolastico sperimenta l'uso di cannabinoidi (con la sorella) e di droghe sintetiche ricreative (alle feste e nei weekend in discoteca); l'uso di tali sostanze, interrotto per l'opposizione del suo ragazzo, viene sostituito verso i 18 anni dapprima dalla cocaina, poi dall'eroina, entrambe consumate in compagnia del partner in quantità molto elevate grazie alla disponibilità che ne avevano (ospitando spacciatori in casa). Nonostante la sua avversione iniziale verso l'eroina, mai "toccata" pur avendone avuto l'occasione per le compagnie che frequentava, vedendo il fratello, la sorella e il partner che l'avevano fumata ha pensato che non le avrebbe fatto male provare, anche perché pensava di poter placare lo stato di agitazione derivato dalla cocaina. Le attività di spaccio (come il furto) sono motivate dalle esigenze concrete di pagarsi l'affitto e mantenersi più che di procurarsi la droga; attività che la portano a diversi arresti, uno dei quali scontato in carcere. In tutta l'intervista il riferimento costante va a questa figura significativa del partner, pregiudicato, coinvolto in diverse attività criminali e, al momento dell'intervista, detenuto in carcere; sostiene di essersi sempre andata a cercare persone di quel tipo, "delinquenti... non sono mai andata con uno sano", e di ritrovarsi ora in completa solitudine a causa della sua decisione di "ripulirsi" e rompere i legami con le amicizie del giro, nell'attesa del ritorno del partner. Il ricorso al Sert è stato sofferto poiché l'ha sempre visto come un posto dove vanno i tossici; lei non si è mai sentita tossica, e soprattutto sostiene "a me non piace stare insieme a chi si fa le pere"; inizialmente, affiancava alla terapia metadonica le fumate di eroina, ridotte nella quantità, quando poi ha compreso di stare meglio ha smesso definitivamente con la roba, nonostante l'accompagni costantemente il pensiero dell'eroina. L'intervista si è svolta a più riprese, in tre appuntamenti successivi e diversi incontri informali presso il servizio; i suoi racconti sono spesso confusi, fatica a collocare nel tempo gli avvenimenti e soprattutto sono scarsamente coesi e coerenti. Gli argomenti approfonditi, rimasti comunque frammentari, riguardano la relazione con i genitori e con il partner, l'esperienza carceraria, l'identità di tossicodipendente e in modo particolare l'astinenza dall'eroina. Mollie, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Inizia a 13 anni a fumare cannabinoidi in compagnia di un'amica come forma di sperimentazione, proseguendo poi l'uso per diversi anni con limitazione ai fine settimana e a situazioni di gruppo, ad eccezione di breve un periodo in cui l'assunzione era solitaria e quotidiana; verso i 16 anni inizia il suo percorso di sperimentazione di tutte le altre droghe (cocaina e droghe ricreative) alle

feste, considerate una forma di svago e di sfogo delle tensioni accumulate nel corso della settimana. Anche l'uso di eroina, avvenuto alla maggiore età, rappresenta un forma di sperimentazione e di curiosità, in un momento biografico di particolare sofferenza che porta, visti gli effetti positivi della sostanza e l'inizio di una relazione sentimentale con uno spacciatore con il quale va a convivere, ad un uso da subito consistente e quotidiano. Racconta di un'isolata esperienza in cui questa curiosità l'ha portata a provare a bucarsi in compagnia di un amico; esperienza che per il momento è riuscita a non ripetere, nonostante ci abbia più volte pensato, perché la spaventa ridursi fisicamente come le persone che conosce. Dopo circa 1 anno si presenta al servizio per le insistenze dei suoi genitori, nonostante avesse già intenzione di intraprendere un percorso comunitario separato dal suo compagno per poi ricominciare una vita diversa con lui; il suo malessere (si definisce "depressa da sempre") è però tale che dopo pochi mesi ha una ricaduta perché per quanti sforzi faccia per tirarsene fuori vede che "comunque non cambia niente, va sempre male tutto e allora così va un po' meno male". Nel corso dell'intervista fa spesso riferimento al senso di vuoto, alla mancanza di progettualità, al suo disinteresse verso qualsiasi cosa che non sia l'eroina, sostanza che ha costituito, e costituisce tuttora, l'unica sua fonte di benessere; nonostante questo suo stato di malessere, l'intervista procede serenamente nella discussione del rapporto conflittuale con i suoi genitori, di cosa significa essere tossicodipendente e perché lo si diventa, delle motivazioni che la portano verso le sostanze. Emily, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Proviene da una famiglia di status sociale elevato, con entrambi i genitori in posizioni professionali di un certo rilievo che però, a detta di Emily, si sono sempre disinteressati di lei facendole condurre una vita particolarmente disagiata a livello economico e, soprattutto, instabile. Fin dalla prima infanzia, proprio a causa del rifiuto esplicito dei suoi genitori di allevarla, trascorre interi periodi a casa di un parente tossicodipendente e a 14 anni inizia a vagabondare in giro per l'Italia. La storia di Emily è molto complessa; racconta che fin da piccola (8 anni) spesso partecipava a feste a base di droga organizzate da questo parente, il quale le insegnava a prepararle e la esortava spesso a provarle per sentirsi meglio. Dunque, Emily sperimenta le canne a 11 anni, passando per droghe sintetiche e cocaina (dai 12 ai 14 anni) e arrivando all'uso endovenoso di eroina, sperimentato per la prima volta a 14 anni con un'amica senza difficoltà, visto che aveva già avuto modo di apprendere le tecniche di preparazione delle siringhe e dell'atto iniettivo. Sostiene che la droga ha sempre fatto parte della sua vita e che per lei fin da subito drogarsi è stato un comportamento "naturale", normale; nonostante si rendesse conto delle conseguenze, in quanto spesso doveva chiamare i soccorsi per le overdosi delle persone che partecipavano a queste feste, in quel periodo il suo malessere era tale da cercare esplicitamente di morire, "l'unica cosa che volevo era di andare in overdose e che non mi trovasse nessuno". Parla delle violenze, verbali e fisiche, subite in famiglia, del rifiuto dei suoi genitori che non si preoccupavano di dove stava e non si rendevano conto del suo disagio, delle violenze sessuali subite (la prima delle quali a 11 anni), del tentato suicidio (a 11 anni), dell'anoressia, della relazione che ha avuto a 13 anni con un cocainomane che la teneva segregata

in casa e sfogava la sua ira su di lei, della vita di strada e dell'incontro a 15 anni con il suo attuale ragazzo, anch'egli tossicodipendente, che costituisce l'unica nota positiva della sua vita, oltre che stimolo ad abbandonare il mondo della droga per poter iniziare una vita normale: "mi sono innamorata di lui e allora ho visto che forse ho una vita davanti". L'intervista ad Emily rappresenta l'unico caso in cui l'aggancio è avvenuto tramite un'altra donna che avevo intervistato precedentemente e che aveva combinato l'incontro. Nel complesso, nonostante l'iniziale risentimento mostrato da Emily verso gli operatori che non le hanno chiesto direttamente la partecipazione all'intervista, si è creato un clima di serenità nel quale si è avuto modo di affrontare anche tematiche delicate, come le violenze sessuali, senza particolari problemi; il leit motiv di tutto il colloquio, durato quasi due ore, è stato proprio il rapporto con la figura materna in tutto il percorso biografico, su cui spesso Emily ritorna in modo distante e razionale, mostrando risentimento ma al tempo stesso distacco emotivo. Francis, in carico al servizio da tre anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Il contatto con le droghe inizia a 14 anni con i cannabinoidi e prosegue ai 15 con la sperimentazione di cocaina e droghe sintetiche, arrivando poi all'eroina all'età di 16 anni; mentre il consumo di altre droghe rimane limitato al weekend e alle occasioni ricreative che si presentano nel corso della settimana, l'uso di eroina, assunta tramite fumo, dopo pochi mesi diventa quotidiano. Riferisce che l'accesso alle sostanze è avvenuto come forma di sperimentazione con il gruppo di amici per divertirsi alle feste e sostiene che, essendole sempre piaciuti i ragazzi che andavano a "sballare" in discoteca, fin da subito ha cercato di imitarli. Nonostante avesse cercato di star lontano dall'eroina perché "non mi interessava, mifaceva paura", la convivenza iniziata molto precocemente con il suo ragazzo l'ha portata a provarla e, dunque, ad assumerla quotidianamente: vedendo il suo ragazzo che la fumava ogni giorno, e che grazie a questo stava bene, aveva pensato che poteva essere la soluzione al suo malessere, alla depressione che l'accompagna da quando aveva 10 anni. In seguito alla rottura di questa relazione, inizia un percorso autonomo di spaccio e consumo che la porta ad avere una grande disponibilità economica e, dunque, ad aumentare in modo repentino le dosi di eroina e la frequenza di consumo, abbandonando così gli studi. Un primo contatto con il servizio avviene due mesi dopo l'inizio dell'uso di eroina, per la voglia di "togliersela", ma non avendo ancora i sintomi di una dipendenza non ha potuto assumere la terapia metadonica; dopo 2 anni si ripresenta al servizio ed inizia una terapia sostitutiva, perché i tentativi di disintossicazione autonoma duravano per pochi giorni perché "non ce la facevo proprio a pensare di stare senza". L'intervista è stata molto difficoltosa perché fin da subito Francis ha mostrato una certa impazienza a chiudere in fretta il colloquio; motiva tale atteggiamento con l'assunzione di psicofarmaci per dormire, sostanze che non le permettono di mantenere un livello sufficiente di concentrazione nelle attività più banali, tanto che qualche ora dopo l'intervista mi dice "scusami se non ti sono stata di aiuto... mi stupisco che non mi sono addormentata sulla sedia perché con queste cose dormo ovunque". I contenuti affrontati, dunque, sono limitati al rapporto con le sostanze e ai rischi ad esso connessi.

Stephanie, in carico al servizio da circa un anno con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Proviene da una famiglia economicamente agiata, che le ha sempre lasciato molta libertà nelle uscite e nelle frequentazioni amicali. L'accesso alle droghe avviene nel periodo delle scuole medie, con la sperimentazione di cannabinoidi nel gruppo di amici che non viene problematizzato da Stephanie come comportamento, sia per la sua occasionalità sia per la normalità di tale comportamento nella sua cerchia di amici. Contestualmente, iniziano i giri per parties e rave, dove ha modo di sperimentare diverse droghe sintetiche senza le quali sostiene di non poter affrontare feste di quel tipo, in quanto richiedono di essere e di mostrarsi in un certo modo, impossibile da ottenere da "sana". Accede verso i 15 anni alla cocaina, in quanto inizia una relazione sentimentale con un ragazzo che la usava spesso; dice che era già nella sua 'testa l'idea di sperimentare un po' tutto" e quindi l'influenza di questo ragazzo è stata limitata e non riesce a capire se aveva sviluppato una dipendenza poiché il consumo, seppur consistente, era limitato a quella relazione di coppia. Le stesse dinamiche si presentano per l'accesso all'eroina, avvenuto verso i 18 anni: l'esigenza di riprendersi psicologicamente dalla rottura della relazione con questo cocainomane, il ritorno nella sua vita di un amico che usava la sostanza, unito al fatto che "era un 'altra cosa da provare", l'hanno portata a sperimentarne l'uso (tramite fumo e inalazione). Per i due primi mesi, l'uso era limitato a questa relazione, mentre poi inizia ad assumerla anche in modo solitario e a procurarsela autonomamente, con i soldi provenienti da lavori saltuari, dalla vendita di suoi oggetti di valore e da piccoli furti in casa; sebbene ricorra al Sert dopo circa un anno dall'inizio dell'uso, per diverso tempo continua ad assumere eroina sotto l'influenza di un nuovo ragazzo che aveva iniziato a fumarla, e solo recentemente ne ha abbandonato il consumo per poter intraprendere seriamente un percorso di recupero, separatamente dal compagno, e tornare con lui una volta risolti i propri problemi. L'intervista si concentra essenzialmente sul rapporto con le diverse sostanze, sulle relazioni interpersonali e sulla relazione con i genitori a cui spesso fa riferimento per sottolineare l'ambivalenza di questo rapporto, in modo particolare con la madre. Offre, inoltre, alcuni spunti di riflessione circa le differenze che intravede, nella sua generazione, tra ragazzi e ragazze nel loro modo di porsi nei confronti della droga, dell'illegalità e del rischio; su questo aspetto ritornerà in diversi incontri informali avvenuti presso il servizio, alcuni dei quali erano volti alla valutazione del suo aiuto nell'attività di ricerca di donne tossicodipendenti mai pervenute in trattamento. Daisy, in carico al servizio da tre anni con un programma terapeutico di Bassa Evolutività. Proviene da una famiglia socialmente disagiata e con forti difficoltà economiche, causati fondamentalmente dai comportamenti criminali del capofamiglia, una figura, tra l'altro spesso violenta in famiglia e che ha determinato un forte isolamento relazionale dei figli fin dalla tenera età, tutti entrati nel mondo della droga e nel circuito della criminalità. Daisy sostiene che è stata proprio la droga a permetterle di accedere alle relazioni esterne al contesto familiare, vissuto da sempre come opprimente; dunque, inizia a consumare occasionalmente cannabinoidi e alcolici in situazioni di gruppo all'età di 14 anni, e successivamente accede alle droghe sintetiche, ecstasy in primis, che assume in grandi quantità soprattutto in discoteca nei fine settimana ("anche 15

pastiglie di ecstasy in una serata, una dietro l'altra"). Racconta di aver consumato eroina per la prima volta a 15 anni, nonostante fino a quel momento si fosse sempre ritenuta contraria a tale sostanza, il cui uso caratterizzava, a suo parere, il tossicodipendente. La motivazione della sperimentazione di tale sostanza risiede nel suo tentativo di "salvare" una sua cara amica, che non riusciva a convincere a smettere di drogarsi: pensava che proponendole di fumarla insieme solo il sabato avrebbe potuto evitare che questa ragazza ritornasse ad esserne dipendente come prima. Pian piano, però, dopo poche settimane l'uso le sfugge di mano e si ritrova a cercarla quotidianamente, anche perché gli effetti piacevoli della sostanza costituivano una delle poche note positive della sua vita; in particolare, nel suo racconto mostra spesso risentimento verso una sorella, che dapprima la introduce alle prime esperienze di uso iniettivo di droghe, e in un secondo momento la inizia alla prostituzione per evitare di continuare a rifornirla gratuitamente di roba. Aldilà di alcune considerazioni sull'isolamento e lo stigma sociale che la portano ad incontrare solo persone come lei, l'intervista è resa molto difficile da un atteggiamento superficiale e scarsamente problematizzante, tant'è che ogni tentativo di approfondire i contenuti dei suoi discorsi si conclude con affermazioni del tipo "è stato così, non ci pensi e basta" o "lo fai perché ti viene di farlo". Daisy si mostra, inoltre, particolarmente irrequieta perché i suoi amici l'aspettano per andare a farsi un giro al parco, mi ripete spesso che preferisce scrivere piuttosto che parlare, e mi promette di portarmi i suoi diari per potermi fare capire cosa significa drogarsi. In diverse occasioni successive parliamo nel cortile, sempre in modo superficiale, e dopo qualche mese apprendo che ha sospeso il trattamento presso il servizio. Classe di età 22-25 anni Eveleen, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Eveleen si definisce una ragazza senza identità, nel senso che non si sente né "tossica" né tantomeno una ragazza "normale", visto il suo consumo di droghe. Figlia di genitori tossicodipendenti, afferma che la sua adolescenza è stata attraversata dalla sperimentazione di diverse droghe, sempre accompagnate dall'uso di alcol fino all'intossicazione: dunque, inizia a 16 anni con le prime canne, a 18 anni si fuma la prima "stagnola" di eroina, e successivamente sperimenta speedball e amfetamine (19 anni). Ritiene di aver sempre tenuto la testa sulle spalle e di aver sperimentato le diverse droghe per una forma di curiosità e per un loro utilizzo strumentale al raggiungimento di determinati stati emotivi; l'accesso all'eroina è stato casuale, in quanto è avvenuto durante un viaggio a Verona con un amico che stava andando ad acquistarla. A questo episodio sporadico è seguito subito l'inizio di una relazione sentimentale con un tossicodipendente che l'ha presto portata alla sperimentazione dell'uso iniettivo, perché "se la usa lui la usi anche te per forza". Attribuisce l'arrivo all'eroina alla morte della madre, che in famiglia rappresentava la figura che dava delle regole; la sostanza le permetteva di non pensare al dolore che le procurava la sua assenza, nonostante le creasse fin da subito enormi sensi di colpa e problemi di relazione con il padre, anche in virtù del fatto che sapeva benissimo i rischi che correva dato il passato di entrambi i ge nitori. Eveleen cerca più volte di disintossicarsi

autonomamente acquistando metadone sul mercato nero; inizia un trattamento presso il Sert quando non riesce più a reperire tale sostanza e si rende conto di aver bisogno di un percorso più strutturato per uscire definitivamente dal giro, anche per poter riprendere un rapporto di fiducia e onestà con il padre che considera attualmente l'unica persona di riferimento. Nel corso dell'intervista fa spesso riferimento allo stigma sociale che l'ha colpita fin da piccola e che ora inizia a pesarle perché sente di non far parte di quel mondo, nonostante l'aspetto fisico e l'abbigliamento costituiscano per lei un modo di differenziarsi anche dalle persone "normali". Viene, dunque, approfondita la tematica delle relazioni interpersonali, in particolare con le figure maschili, e delle differenze di genere, sulle quali spesso ritorna per evidenziare i motivi che portano una ragazza a stare in un mondo di quel tipo. Taylor, in carico al servizio da tre anni con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Taylor afferma di essere sempre stata affascinata fin da piccola dal mondo della droga, per cui già all'età di 12-13 anni ha cercato esplicitamente le persone che potevano farle fare esperienze di un certo tipo nonostante avesse una conoscenza precisa delle conseguenze a cui andava incontro. L'uso di droghe rispondeva alla convinzione che solo così poteva sentirsi e apparire agli altri una persona importante, "senza droga mi sentivo niente": dunque inizia a 12 anni con le canne, interrotte quasi subito per l'avvicinamento alle droghe sintetiche (soprattutto amfetamine) che a loro volta sono state sospese a 15 anni alla prima sperimentazione di eroina; sostiene di averne sempre "avuta tanta" sia perché aveva amici spacciatori, sia per la sua stessa attività di spaccio. Nonostante il pensiero costante di provare anche l'uso iniettivo, proprio questa disponibilità costante della sostanza l'hanno portata a tirarsi sempre indietro e a limitarsi a fumarla o tirarla. Per diversi anni alterna periodi di uso intenso e di astensione autonoma (tramite metadone reperito nel mercato nero); a partire dai 17 anni conduce una vita instabile, scappando spesso di casa e vivendo per la strada o a casa di spacciatori e tossicodipendenti fino all'arresto per spaccio e al conseguente periodo di detenzione in carcere. Si sofferma spesso, nel corso dell'intervista, sugli aspetti traumatici della sua storia, in particolare in riferimento agli aborti a cui è stata costretta, alle delusioni che ha dato ai suoi genitori e alle difficoltà di cambiare l'identità di tossicodipendente che si è volutamente costruita a causa del tipo di relazioni sociali che tuttora ricerca continuamente. Hilary, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. La storia di Hilary gravita intorno a due eventi che hanno segnato la sua biografia: un litigio pesante con i genitori che a 18 anni la buttano fuori di casa e, il carcere per spaccio, verso i 20 anni. Hilary è sempre stata una figlia ribelle, insofferente e incurante delle regole, con un rapporto molto conflittuale con la madre con la quale in molte situazione è venuta alle mani; ricorda, in modo particolare, un litigio dovuto al suo tentato suicidio con l'ingestione di varechina, che poi ha costituito la causa della sua espulsione dall'ambito domestico per la particolare violenza con cui si era scagliata contro la madre. Da quel momento, trovandosi sola e con un'unica relazione significativa di tipo sentimentale con un ragazzo tossicodipendente, inizia

un percorso molto intenso di assunzione di droghe, di spaccio per potersi acquistare la roba e di vita da strada (regolarizzata dopo qualche mese con l'affitto di un appartamento). Dunque, passa attraverso la sperimentazione della cocaina e di tutte le droghe ricreative, dovuta alla sua costante ricerca di "non essere guardata male" e di sentirsi accettata dagli altri; una volta provate tutte queste sostanze e compresi gli effetti che avevano sulla sfera psicoattiva, le utilizzava in modo strumentale per raggiungere determinati stati d'animo, congruenti alla situazione, ai contesti e alle persone che frequentava. In questa prima fase, riesce a conciliare le proprie esperienze con le droghe con un'attività lavorativa che le permette di mantenersi l'affitto della casa, nonostante già iniziasse a faticare con la gestione del denaro che veniva impiegato prevalentemente per l'acquisto delle sostanze. Inizia, poi, a fumare eroina verso i 19 anni e sperimentare le prime attività di spaccio, dapprima col compagno poi in solitudine; lo spaccio non rispondeva solamente al bisogno di "arrotondare" le entrate derivanti dal lavoro, che tra l'altro perde dopo qualche mese dall'inizio del consumo di eroina, ma anche e soprattutto alla sensazione di essere ricercata da tutti e di sentirsi importante. Inoltre, l'uso delle altre sostanze non viene mai abbandonato definitivamente, in quanto i vari mix di cocaina, amfetamine, ecstasy ed altre sostanze con l'eroina le permettevano di modulare a suo piacimento i suoi stati psicologici. Viene poi arrestata per spaccio, restando in carcere per diversi mesi e scontando l'ultimo periodo in una comunità terapeutica. Si sofferma molto a descrivere l'esperienza carceraria e il rapporto con i genitori che, a suo parere, non sono mai stati in grado di capire come dovevano trattarla. Margareth, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Margareth considera la sua storia di tossicodipendenza un incidente di percorso causato dall'essersi innamorata della persona sbagliata, dedita all'uso di droghe. Sebbene avesse avuto esperienze con la cannabis già a 12 anni, sostanza che assumeva con un gruppo di amici molto più grandi di lei per evitare di bere l'alcol che la faceva stare male, Margareth inizia a sperimentare tutte le droghe offerte dal mercato (e in tutte le modalità di assunzione) quando, verso i 16 anni, si innamora di un ragazzo con il quale sta per quasi 5 anni: il suo desiderio di farlo smettere con la droga, soprattutto con l'eroina che considerava la sostanza dei tossicodipendenti, la porta dapprima ad andarsene di casa vagabondando con lui in giro per l'Italia, e in un secondo momento a iniziarne lei stessa l'uso per compiacerlo. Parla delle violenze fisiche che subiva, che la portavano spesso in ospedale e l'hanno costretta ad un aborto e della sua incapacità a lasciarlo per "il troppo amore". Sostiene di essere diventata dipendente praticamente da tutte le droghe, perché dopo le prime esperienze, fatte per curiosità e per farsi accettare dal gruppo di amici del partner, le assumeva per raggiungere lo stato d'animo che voleva, tanto che per lei la normalità era avere una qualche droga in corpo; nel contempo, dice che questo coinvolgimento con le sostanze e con lo stile di vita che aveva intrapreso era superficiale, era diventato un modo automatico per gestire i propri stati d'animo ma in realtà non ne era mai stata attratta, tanto che riusciva per interi periodi a rimanere astinente e disintossicarsi in modo autonomo, oltre che a non "toccare mai il fondo" con la prostituzione per potersele procurare. L'intervista si basa essenzialmente sul cambiamento identitario intercorso con

l'instaurazione di questo legame sentimentale, su alcune riflessioni che propone in merito alle differenze di genere nella tossicodipendenza, e sul ricorso al servizio motivato dall'esigenza di intraprendere un percorso psicoterapico per riappropriarsi della sua vera identità di donna. Loren, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Loren si presenta al servizio in stato di gravidanza; le sue richieste di aiuto sono motivate dall'esigenza di avere informazioni più precise sui rischi per il feto del consumo di droghe, e di intraprendere un percorso di recupero, nonostante non abbia ancora deciso se tenere o meno il bambino. L'incontro con le droghe avviene a circa 20 anni; prima di allora, la vita di Loren era quella di figlia perfetta (pur nel legame conflittuale con la madre) e di studentessa modello, e aldilà di qualche tiro di canne in compagnia di amici non la sfiorava il pensiero di poter provare altro. Sostiene di essersi innamorata di un ragazzo che pian piano l'ha introdotta all'uso di cocaina: il fatto di vedere che lui conduceva una vita del tutto normale nonostante l'uso della sostanza, unito al desiderio di fare delle esperienze insieme a lui, l'ha portata a sperimentarne l'uso e a proseguirlo per diversi mesi, anche perché la disponibilità della sostanza era sempre consistente (per l'attività di spaccio del ragazzo) e non la costringevano ad esporsi per acquistarla. In seguito ad una breve rottura di tale relazione, inizia poi ad usare eroina, frequentando la compagnia di amici dell'ex-ragazzo; sostiene di aver voluto sperimentare l'eroina perché vedeva l'effetto anestetizzante che aveva su uno di questi amici, con il quale aveva instaurato un rapporti di particolare fiducia e confidenza; in quel momento, nel quale cercava di rielaborare la rottura della relazione con il suo ex-ragazzo, quell'effetto era proprio quello di cui aveva bisogno. Dunque, alterna per diverso tempo periodi di astinenza e di uso, sostiene di non essere mai diventata realmente dipendente dalla sostanza, che consumava solo in compagnia di questo amico e che non si esponeva ad acquistare per paura di essere vista. L'intervista ruota essenzialmente intorno alla comprensione dei meccanismi che l'hanno portata a cambiare in modo quasi repentino la propria identità e a considerare normale questo nuovo stile di vita, soprattutto in relazione a queste figure maschili che lei stessa ammette hanno esercitato una forte influenza in questo cambiamento; si approfondisce, inoltre, il discorso sulla maternità e sulle relazioni interpersonali e familiari. Judith, madre, in carico al servizio da cinque anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Dopo un'infanzia instabile a livello affettivo e materiale, Judith attraversa un'adolescenza turbolenta a causa di compagnie di amici molto più grandi di lei che la portano ben presto ad avvicinarsi alle droghe e ad assentarsi per lunghi periodi dall'ambiente familiare: a 13 anni inizia a fumare cannabinoidi e bere alcolici fino all'intossicazione, passando rapidamente alla sperimentazione di tutte le sostanze psicoattive offerte dal mercato ("non c'era una giornata senza una qualche droga") fino ad arrivare, a 14 anni, all'eroina. Nonostante la sua iniziale opposizione a tale sostanza, sostiene di essersi lasciata trascinare dal compagno e dalla sua migliore amica, entrambi tossicodipendenti: la mancanza di altre sostanze con cui passare quella serata in cui esordisce con l'eroina, unita al particolare legame affettivo con queste persone,

l'hanno portata a sperimentarne l'uso inalatorio, a proseguirlo nella ricerca di un effetto calmante dopo l'assunzione di altre droghe, fino ad arrivare all'uso iniettivo, proposto al partner come provocazione con l'obiettivo di farlo smettere di bucarsi. La rottura della relazione con questo ragazzo porta poi Judith ad intrattenere diverse relazioni strumentali con extra-comunitari al fine di ottenere gratuitamente la roba, finché conosce il suo partner attuale, estraneo al mondo della droga, con il quale concepisce un figlio. La gravidanza e la maternità hanno costituito una forte motivazione per Judith per troncare inizialmente con la droga e con le relazioni precedenti, che però dopo un anno dalla nascita del figlio ricomincia a cercare perché ne sente la mancanza e perché ritiene che quel tipo di relazioni e di attività siano la sua vera identità. Nonostante lei si ritenga una buona madre e una brava casalinga, identificandosi pienamente in tali ruoli, crede di non avere una vita sufficientemente completa a causa della mancanza di un lavoro, delle assenze prolungate del partner (che lavora molto durante la giornata) e della mancanza di una rete di relazioni "sane", che la portano ad affrontare le giornate con un senso di vuoto che le fa costantemente tornare il pensiero della roba. L'intervista con Judith avviene in 3 sessioni poichè il suo isolamento relazionale, favorito tra l'altro dall'atteggiamento geloso e possessivo del partner, la portano ad avere una disposizione particolare al dialogo; si approfondiscono gli aspetti legati al ruolo di madre e casalinga, alle relazioni interpersonali, al significato dell'eroina anche in rapporto alle ricadute. Hope, madre, in carico al servizio da tre anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista con Hope è stata molto difficoltosa per la sua scarsa volontà di problematizzare il proprio uso di droghe e la propria esperienza personale. Parla della gravidanza e della maternità come l'unico stimolo reale all'interruzione di uno stile di vita da lei ricercato fin dall'adolescenza per il fascino che le persone che si drogano hanno sempre avuto su di lei. Dunque, a 14 anni sperimenta l'uso di cannabici, di ecstasy e cocaina che subito assume quotidianamente senza freni ("sempre, a scuola, alla sera, al pomeriggio sempre"); a 15 anni sperimenta l'uso di eroina per inalazione poiché in quell'occasione era l'unica sostanza che i suoi amici erano riusciti a recuperare e, dopo pochi giorni, prova l'assunzione per via endovenosa tramite il partner, già tossicodipendente, con il quale aveva iniziato una relazione appositamente per provare questa esperienza ("per dirti quanto ero fissata, in 3° media avevo portato all'esame Noi ragazzi dello zoo di Berlino che avevo già letto 10 volte"). L'uso di droghe si interrompe per circa 2 anni quando Hope instaura un legame sentimentale con un ragazzo estraneo a questo mondo, che però lei lascia proprio perché troppo "smorto" per poi ritornare a frequentare il gruppo di persone di sempre, iniziando così una relazione con il suo attuale partner e padre del bambino. Il primo ricorso al servizio è motivato dalla paura del dolore fisico connesso all'astinenza e dalla ricerca di una qualche normalità, che però arriva anni dopo con la scoperta della gravidanza. Classe di età 26-30 anni Harper, madre, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Accoglienza,

Aggancio, Valutazione. Nella storia di Harper, la dipendenza dalle droghe si unisce ad una forma di dipendenza affettiva dalle figure maschili che, a suo parere, è dovuta all'assenza della figura paterna nel periodo infantile e adolescenziale; sostiene, infatti, che anche se il padre era fisicamente presente in casa, non è mai stato in grado di allacciare con lei un rapporto che la facesse sentire pro tetta, dunque ha poi sempre ricercato figure maschili che manifestavano la determinazione e la forza necessaria a soddisfare questo bisogno. Le prime esperienze con le droghe avvengono intorno ai 16-17 anni per una sorta di imitazione della sorella più grande, che usava occasionalmente cannabinoidi in serate con gli amici, ed ecstasy e cocaina in discoteca. Dopo la prima fase di sperimentazione di queste droghe, Harper scopre le loro proprietà anoressizzanti e le loro capacità di far "diventare un brutto rospo un bel cigno": dunque, il consumo di droghe diventa presto consistente in quanto riesce a dimagrire senza sforzi e ad avere un'immagine più equilibrata di sé in rapporto con il proprio corpo. Con l'instaurazione del legame sentimentale con quello che è stato il suo compagno per molti anni, l'uso di cocaina (inalata e fumata) si intensifica fino alla dipendenza, anche per le grandi quantità a disposizione dovute all'attività di spaccio del ragazzo. All'età di 20 anni, per calmare gli effetti eccitanti della cocaina, si lascia convincere dal ragazzo a sperimentare l'eroina, nonostante fosse sempre stata contraria perché quella era la sostanza dei "tossici"; fumata per pochi mesi, l'eroina aveva essenzialmente una funzione calmante degli effetti delle abbuffate di cocaina. La prima interruzione dell'uso di eroina e cocaina avviene alla scoperta della gravidanza, considerata da Harper la sua "salvezza" perché solo quando ha scoperto di essere incinta è stata in grado di smettere definitivamente con l'uso di droghe, disintossicandosi autonomamente senza bisogno di terapie sostitutive. La relazione con il partner termina dopo 4 anni, relazione che comunque aveva avuto alti bassi per le violenze fisiche da lei subite, per l'aborto a cui era stata costretta, e per la vita isolata che conduceva a causa della sua gelosia (e la conseguente interruzione dei rapporti familiari e lavorativi). Harper torna quindi a vivere per un periodo con i genitori ed inizia ad intrattenere rapporti con i servizi sociali per trovare un aiuto per la gestione del bambino, i quali la invitano ad iniziare un percorso di recupero presso il Sert quando, tempo dopo, scoprono la ripresa - limitata a poche situazioni - dell'uso di droghe di Harper: l'uso di cocaina era ripreso a causa dell'influenza di un nuovo compagno cocainomane e l'uso di eroina a causa della ripresa delle relazioni amicali precedenti. L'intervista avviene in due sessioni; in particolare, nella seconda intervista si approfondisce la tematica delle relazioni con le figure maschili, delle violenze subite, dell'aborto e della maternità, della ricaduta successiva alla nascita del bambino, delle relazioni con tossicodipendenti e non e dei disturbi del comportamento alimentare. Kimmie, in carico al servizio da un anno con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. Il valore che le droghe hanno sempre avuto per Kimmie va essenzialmente ricollegato al bisogno di condividere con gli altri un'esperienza di rottura della ordinarietà. Nel periodo adolescenziale, infatti, fa uso sporadico di alcolici, di cannabinoidi e di cocaina in situazioni ricreative con gli amici, esclusivamente nei week-end, ma sostiene che non

le sono mai interessate le sostanze in sé quanto il fatto di potersi svagare dopo una settimana stressante con qualcosa di diverso dal solito; recandosi spesso il fine settimana nelle discoteche con gli amici, e non capendo il senso di assumere droghe sintetiche come l'ecstasy in quanto non amava ballare, aveva pensato di usare in quei contesti queste sostanze per poter avere la sensazione di svagarsi e adeguarsi al gruppo. Con lo stesso spirito vi è un episodio isolato di uso di eroina per via inalatoria con la sua migliore amica che, al momento, intratteneva una relazione con un tossicodipendente; in realtà, passano degli anni prima che tale esperienza si ripeta ed evolva in dipendenza: da un lato, è sempre stata protetta dal gruppo di amici che la consumavano e non volevano lei facesse queste esperienze, dall'altro ne conosceva precisamente i rischi dato il trascorso di tossicodipendenza di un familiare e non voleva procurare una vergogna e un dolore simile ai suoi genitori. Dunque, a 25 anni ricomincia a farne uso in compagnia del suo partner, che ne aveva avuto esperienze precedenti; la scelta dell'eroina come sostanza ricreativa era dettata per entrambi dal costo minore rispetto alle altre sostanze ed inizialmente l'uso inalatorio era contenuto ai week end, progredendo poi lentamente nella frequenza e nelle quantità fino a costituire l'unica esperienza in comune della coppia. La situazione di Kimmie era aggravata, in quel periodo, dalla mancanza di un lavoro, che aveva sempre costituito per lei un motivo di realizzazione personale; poco prima della ripresa dell'uso di eroina, perde il suo lavoro a causa della crisi economica, e il fatto di usare eroina, con tutte le attività quotidiane che comporta, le permette di riempire le sue giornate e di avere uno scopo concreto. I suoi genitori non sono mai venuti a conoscenza della sua tossicodipendenza, in quanto lei ha sempre cercato di mantenere l'immagine di figlia perfetta per non dar loro un dispiacere; l'acquisto e il consumo di droghe avveniva sempre in case private e non è mai ricorsa ad attività illegali per potersi mantenere questa abitudine, chiedendo fondamentalmente prestiti ai genitori con la scusa delle spese della casa che aveva in affitto con il partner. Kimmie e il suo ragazzo intraprendono, insieme, un percorso di recupero al Sert per riuscire a recuperare un rapporto di coppia "sano" e per contenere le ingenti perdite economiche che stavano avendo. Durante l'intervista fa spesso riferimento alle diversità della sua storia rispetto ai comportamenti attuali di consumo nelle nuove generazioni, sostenendo che la minor libertà, l'educazione più rigida e il rapporto di fiducia costruito con l'autorità genitoriale le hanno permesso di mantenere sempre il controllo sull'uso di droghe, anche nel periodo della dipendenza dall'eroina. L'intervista gravita, quindi, intorno al tema delle relazioni interpersonali, in particolare di coppia e del lavoro. Morgana, in carico al servizio da 7 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. La mia relazione con Morgana inizia molto tempo prima del suo coinvolgimento in questa indagine, in quanto avevo avuto modo di conoscerla in occasione di una precedente indagine sociologica condotta presso il servizio, e di lì periodicamente avevamo iniziato a vederci circa una volta al mese in occasione delle sue visite mediche al servizio. Fin da subito Morgana aveva manifestato il desiderio di potermi rivedere ogni tanto perché per lei è difficile avere rapporti con persone "sane", poiché deve sempre tenere nascosta una parte di sé, sentendosi così a disagio; nella relazione con me, al contrario, conoscendo il suo passato, sostiene di poter mostrare le sue

debolezze e misurare se stessa nel rapporto con una persona che non usa droghe. L'intervista avviene in tre sessioni, due delle quali sono state condotte presso gli uffici del servizio ed una presso la sua abitazione, per il suo desiderio di mostrarmi la sua casa, il suo cane e il luogo dove lavora e di farmi conoscere i suoi genitori. La ricerca dello "sballo", ossia del piacere e di stati mentali alterati, è centrale nella sua biografia, ed assume un significato più ampio che si correla al raggiungimento del benessere psicologico, che lei identifica proprio nella "non normalità" indotta dalle sostanze. Dopo una breve parentesi di consumo di cannabinoidi, sperimentati a 15 anni e subito abbandonati per il loro effetto spiacevole, Morgana sperimenta dapprima lo sniffo di cocaina, a 18 anni, per poi accostarsi all'età di 20 anni al mondo dei rave, che tuttora frequenta saltuariamente assumendo le droghe ricreative ad esso correlate (soprattutto ketamina) per il senso di tranquillità e di pace interiore che queste situazioni le creano. In quel periodo inizia, inoltre, ad assentarsi per lunghi periodi da casa vivendo per la strada in diverse città italiane e pervenendo alla sperimentazione di eroina, che per qualche mese assume per via inalatoria e tramite fumo, incrementando progressivamente le dosi finché arriva all'uso endovenoso. Morgana riconduce la sua esperienza con le droghe al fascino che le persone alternative e il loro stile di vita hanno sempre avuto su di lei, dunque alla ricerca di una identità personale "ai margini" ben differenziata dalla normalità. Acquisita appieno questa identità sui generis, soprattutto nel periodo in cui inizia a far uso solitario di eroina intravenoso, sperimenta un isolamento relazionale, una solitudine e uno stigma sociale tale da farla vivere costantemente con il senso di colpa (soprattutto verso i genitori) e con il desiderio di ritornare "normale". Inizia, così, il suo percorso di recupero al Sert, senza rinnegare la sua identità di "tossica" che prosegue, a suo dire, nell'assunzione costante di questa pastiglia (il metadone) che considera una "stampella" della sua incapacità di affrontare ogni situazione senza un sostegno farmacologico. Il significato della terapia sostitutiva viene approfondito in modo particolare nel corso delle interviste, come il tema dell'identità tossicodipendente e del bisogno costante di alterare la mente anche attualmente nell'ambito di una vita stabilizzata a livello lavorativo, affettivo e familiare. Morgana si rende disponibile, infine, a farsi da mediatrice con alcune donne di sua conoscenza che fanno uso di eroina e non sono mai pervenute in trattamento, disponibilità che non ha sortito effetti per il rifiuto di queste donne di conoscermi. Cristine, in carico al servizio da 10 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'identità di Cristine è totalmente costruita sulla droga: sostiene, infatti, di aver sempre desiderato acquisire lo status symbol di "tossica", ricercando fin dai 12 anni relazioni che potevano introdurla alla sperimentazione di sostanze, e di esserci continuamente ricaduta perché non conosce un altro modo di essere, o almeno non lo ricorda. A 12 anni, dunque, riesce ad avvicinarsi ad un gruppetto di persone che vedeva da tempo al parco a fumarsi canne, a 13 anni si unisce con persone che la introducono all'uso di ecstasy ed Lsd, così a 15 anni sperimenta la cocaina per arrivare poi, a 16 anni, all'eroina assunta per via endovenosa e allo speedball, tramite un amico con il quale inizia ad intrattenere una relazione ancora una volta per essere introdotta a nuove esperienze. Non c'è mai stata una reale volontà di Cristine di abbandonare questo stile di

vita, nonostante l'astinenza dall'eroina si protragga da quasi un anno, non tanto per l'effetto delle sostanze in sé quanto per tutto quello che vi gravita intorno: ingegnarsi per trovare i soldi per acquistarla, andarsela a prendere, intrattenere relazioni con persone con cui si instaura un legame certo strumentale ma alla pari ("nessuno chiede nulla e si aspetta nulla"), sentirsi parte fino in fondo di un mondo separato da quello "normale". Il ricorso al servizio è stato motivato inizialmente dalle insistenze della madre, successivamente dai periodi di detenzione e comunitari, dunque non ha mai risposto ad una volontà di cambiamento personale; nella sua immagine di tossica, ricercata e costruita fin da subito secondo dei tratti ben definiti e precisi, non è mai stata contemplata la possibilità di assumere la terapia metadonica perché ciò avrebbe comportato una manifestazione di debolezza ("un tossico o fa il tossico fino alla fine o non lo fa") e solo nell'ultimo anno ha iniziato a prendere sul serio la terapia psicologica di supporto, anche per il rapporto di fiducia e stima che ha instaurato con il terapeuta. Da evidenziare, in tal senso, che spesso nel corso dell'intervista Cristine fa riferimento alle spiegazioni che questa figura di supporto ha fornito circa la sua esperienza e il rapporto con le sostanze, da lei considerate "vere" sebbene non le abbia ancora interiorizzate. Shirley, in carico al servizio da circa 4 anni con un programma terapeutico di Bassa Evolutività. Shirley è una ragazza ben integrata socialmente, con diverse amicizie estranee al mondo della droga, una famiglia che lei stessa definisce accudente e con la quale intrattiene rapporti equilibrati. L'accesso alle droghe avviene a partire dai 14 anni, dapprima con il consumo di cannabinoidi, poi di cocaina e qualche droga sintetica, sostanze che però venivano assunte in modo occasionale nel gruppo di amici che frequentava e costituivano una delle possibili esperienze di evasione e divertimento che si affiancavano, senza sostituirle, ad altre attività ludiche come il cinema, lo sport, le feste. L'arrivo all'eroina avviene intorno ai 21 anni a causa di una relazione sentimentale che Shirley intrattiene con un ragazzo che ne faceva uso e che l'ha più volte esortata a provare "altrimenti me la faccio con qualcun 'altra"; dopo aver cercato invano di farlo smettere, ha ceduto a questa forma di ricatto, dapprima fumandola, e dopo pochissime settimane bucandosi con frequenza quotidiana. Nonostante ciò, riesce comunque ad avere una vita apparentemente "normale", terminando gli studi universitari con successo e lavorando sempre senza particolari difficoltà: il suo senso di responsabilità l'ha sempre portata, infatti, a sospendere ogni attività lavorativa nei momenti di coinvolgimento più pesante con l'eroina. Quando i genitori vengono a conoscenza del problema, l'accompagnano al Sert per poter intraprendere insieme un percorso di recupero; in questi quattro anni, Shirley ha poi avuto diverse ricadute nell'uso motivate sia dalle relazioni sentimentali con uomini che la usavano sia dalla paura della crisi di astinenza e di provare dolore, sospendendo, però, l'uso endovenoso della sostanza per non mostrare i segni fisici. Nel corso dell'intervista, Shirley ritorna spesso sul rapporto con i suoi genitori e sul senso di colpa che ha sempre esperito consumando droghe, sulla sua capacità di mantenere una vita parallela normale e di controllare il suo coinvolgimento con persone e contesti legati alla droga, su quello che definisce lo "spirito della crocerossina" che l'ha portata a cadere nell'uso di eroina e ad aiutare - suo malgrado - gli amici del giro che si

trovavano in difficoltà. L'intervista si svolge in due sessioni, e in diverse occasioni ho modo di ritrovarla al servizio e apprendere gli sviluppi della sua storia; uno di questi incontri informali era stato programmato per la disponibilità che Shirley mi aveva accordato nel farmi conoscere alcune sue amiche mai entrate in trattamento. Sharon, in carico al servizio da 3 anni con un programma terapeutico di Bassa Evolutività. Sharon sostiene di essere sempre stata affascinata, fin da piccola, dalla vita che conducono le persone fuori dagli schemi e di essere sempre stata "riluttante nei confronti della società tra virgolette normale, mi sembravano degli sfegati le altre persone... le persone normali...". Nonostante ciò, il coinvolgimento reale con le droghe avviene ad adolescenza inoltrata quando si trasferisce in un'altra città italiana per intraprendere un percorso di studi universitari; prima di allora, Sharon beveva alcolici in compagnia, per un periodo aveva assunto degli antidepressivi che le dava la sua migliore amica ed aveva avuto i suoi primi contatti con la cocaina durante un lavoro stagionale come cameriera. Sostiene che l'informazione sui rischi delle droghe era limitata a quei tempi, e ingenuamente le sembrava che l'uso di cocaina potesse essere un modo alternativo per divertirsi. Quando si trasferisce inizia a frequentare rave e sperimentare tutte le droghe da party, unendosi a compagnie "alternative" che le potevano permettere di fare esperienze limite, vivendo in un camper che le permetteva di spostarsi con facilità nei diversi luoghi delle feste e iniziando ad entrare nella logica del piccolo spaccio per potersi comprare le droghe. Successivamente, allaccia una relazione sentimentale con un ex-eroinomane, ed inizia con lui a isolarsi da tutti, chiudendosi in casa a fumare marijuana, evitando perlomeno di proseguire con l'uso di altre droghe. Il termine di questa relazione, a 23 anni, segna il primo contatto di Sharon con l'eroina: si trasferisce da un'amica in una città estera e nel tentativo di ricominciare ad avere una vita sociale inizia a fumare tale sostanza, considerando questo comportamento ormai come "automatico". Il coinvolgimento più pesante con l'eroina inizia qualche mese dopo, quando Sharon apprende del suicidio dell'ex-ragazzo avvenuto subito dopo una loro accesa discussione: prima di allora, sostiene che si appuntava sul calendario tutte le volte che fumava eroina per poter averne una sorta di controllo ed evitare di diventarne dipendente, mentre questo episodio segna il passaggio ad un uso incontrollato della sostanza in funzione anestetizzante. Sharon cerca autonomamente di disintossicarsi con metadone acquistato sul mercato nero assieme al suo nuovo compagno, anch'egli tossicodipendente, con il quale tra l'altro ha le prime esperienze di uso endovenoso della sostanza per ragioni strumentali ed economiche (l'uso iniettivo comporta l'impiego di una minore quantità di sostanza); proprio la carcerazione del compagno, avvenuta per il sequestro di grossi quantitativi di cannabinoidi, la stimola a intraprendere un percorso di recupero presso il servizio. L'intervista approfondisce in modo particolare i temi dell'identità tossicodipendente, delle relazioni interpersonali e sentimentali e dei significati dell'uso di sostanze psicoattive. Classe di età 31-35 anni

Sherilyn, madre, in carico al servizio da 7 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Come nel caso di Morgana, la conoscenza di Sherilyn è avvenuta nel corso di una precedente indagine realizzata presso il Sert. In quella situazione di intervista, questa sua affermazione aveva dato vita ai miei successivi interrogativi di ricerca: "io ho conosciuto forse più donne che uomini che facevano uso di eroina e cocaina, le statistiche poi non so cosa dicono. Se è vero, come mi dici, che le donne si drogano di meno, penso che sia perché hanno più da perdere, la famiglia, i figli... e rischiano più degli uomini di restare sole: perché un uomo tossicodipendente trova sempre una donna che gli sta vicino, mentre per una donna è difficile che trovi un uomo che le sta vicino in momenti come quelli. Un uomo si stufa prima e va a cercare altrove quello che la compagna non le può dare, non è così per una donna... è una tendenza inconscia delle donne, non è che ci pensano razionalmente... è una specie di retaggio culturale o istinto di sopravvivenza...". L'intervista realizzata in questa sede e i diversi incontri informali avvenuti successivamente hanno approfondito in modo particolare questi aspetti in relazione alla sua esperienza di contatto con le droghe, iniziata a 16 anni con l'assunzione di cannabinoidi e proseguita a 20 anni con la sperimentazione occasionale di ecstasy e acidi e l'uso continuato di cocaina ed eroina; sostiene di essersi sempre lasciata trascinare dagli altri (dalla sorella che voleva imitare e dai ragazzi che frequentava) e poi dagli eventi della vita che l'hanno messa a dura prova, senza avere una reale percezione di quello che le stava succedendo. La separazione dalla sorella che si era trovata un compagno e l'aveva messa da parte, e l'interruzione della terapia antidepressiva che per 3 anni aveva contenuto i suoi stati di malessere l'hanno portata dunque ad usare cocaina, in compagnia di un amico, a sniffare poi l'eroina con un ragazzo per il quale si era presa una sbandata e a passare successivamente all'uso endovenoso con un nuovo compagno; sostiene che in tutte queste esperienze era alla ricerca di una identità di sé diversa, e che il consumo di droghe costituiva per lei una sorta di autoterapia, "un modo malato di curare me stessa". Il primo tentativo autonomo di abbandonare l'uso di eroina, obbligato dai genitori, ha successo, e infatti Sherilyn si reca al Sert solo dopo aver superato la crisi di astinenza per poter contenere il malessere fisico con farmaci sintomatici; ma, successivamente, si verificano diverse ricadute che la portano ad iniziare un percorso terapeutico più complesso con l'assunzione di metadone, anche in virtù delle due gravidanze che l'hanno interessata in questo arco temporale. Sherilyn sostiene di non essersi mai sentita "tossica" per il controllo che ha sempre mantenuto sulla sostanza e per la presenza di una vita alternativa con riferimenti familiari, sentimentali e lavorativi solidi. Peggie, madre, in carico al servizio da 7 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. La particolarità della storia di Peggie risiede nella sperimentazione tardiva di droghe, avvenuta a 27 anni in corrispondenza con il suo trasferimento in una casa in affitto lontana dal nucleo familiare. Fino ad allora, nonostante un rapporto molto conflittuale con la madre che spesso usava su di lei violenza fisica e nonostante i disturbi del comportamento alimentare emersi fin dai 17 anni, Peggie rappresentava la figlia "perfetta", aveva risultati scolastici ottimi e successivamente un lavoro fisso, usciva poco rispettando le regole rigide che i genitori le davano

e, soprattutto, nonostante frequentasse una compagnia di amici dediti alle droghe, era sempre riuscita a non lasciarsene coinvolgere vista la sua ferma contrarietà a tali comportamenti. Non potendo frequentare uomini per l'opposizione della madre, decide dunque a 27 anni di andare a vivere da sola. In concomitanza con questo cambiamento, inizia ad avere diversi problemi nella ditta in cui lavorava, sull'orlo del fallimento, e le tensioni che accumulava al lavoro, unite all'autonomia abitativa e alla libertà che aveva raggiunto, l'hanno portata a lasciarsi convincere da un amico, innamorato di lei, a sperimentare cocaina. Con questa sostanza, afferma, aveva risolto i suoi problemi di timidezza e incapacità relazionale e vedeva che riusciva a mantenersi in forma fisica perfetta e a sostenere i ritmi lavorativi senza troppi sforzi, motivazioni che l'hanno portata ad un rapido coinvolgimento con la sostanza. Essendo però economicamente dispendiosa, Peggie decide di passare ad una sostanza più economica e convince un amico della sua compagnia - poi diventato suo compagno, ed eroinomane dall'adolescenza - a farle provare questa sostanza, fin da subito assunta per via endovenosa sempre per questioni economiche. Sostiene che agli effetti positivi già sperimentati con la cocaina si univa quel senso di benessere interiore che le permetteva di affrontare meglio i problemi quotidiani, tra cui la perdita del lavoro avvenuta per il fallimento della sua ditta. Anche in questo caso il coinvolgimento è molto rapido, ma altrettanto rapido è il ricorso al Sert, avvenuto qualche mese dopo l'inizio a causa di una overdose che l'aveva intimorita. L'adesione al programma terapeutico è, però, strumentale, in quanto prosegue comunque con l'uso dell'eroina e con le sue attività di spaccio, di prostituzione e di scambi sessuali con spacciatori in cambio delle dosi, sperimentando inoltre qualche mese di carcere a causa di un arresto. In questo periodo intrattiene una nuova relazione sentimentale con un tossicodipendente, con il quale va a convivere e concepisce un figlio. La maternità è certamente la motivazione principale all'interruzione dell'uso di eroina, ma con una particolarità: Peggie, non potendo più abortire poiché aveva appreso di essere incinta al sesto mese di gravidanza, sostiene di essersi bucata fino al giorno prima del parto in quanto rifiutava anche solo il pensiero di crescere un figlio, decisione poi cambiata al subito dopo il parto poichè "dal momento che ti fanno vedere comunque il bambino, è nato qualcosa". L'intervista è avvenuta in due sessioni, ed è stata per Peggie molto pesante da sostenere in quanto non le era mai capitato di raccontare tutta la sua storia in poco tempo. Si approfondiscono, infatti, esperienze molto dure che lei stessa non ha ancora sufficientemente razionalizzato: l'aborto, la gravidanza, il periodo carcerario, le relazioni sentimentali con partner tossicodipendenti, l'autolesionismo, i disturbi del comportamento alimentare, i rapporti conflittuali con i genitori e le violenze subite (sia in ambito familiare che non), lo stigma sociale e le esperienze di discriminazione. Miranda, in carico al servizio da 6 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista con Miranda è avvenuta nel giardino della casa dei genitori, dove ha trascorso la propria infanzia e parte dell'adolescenza; infatti, a partire dai 17 anni, se ne è assentata per lunghissimi periodi in quanto non le è mai piaciuta la vita noiosa che il paese le offriva, in confronto alla vita di strada che le dava invece piena libertà di divertirsi, di sperimentare l'eccesso e di sentirsi "diversa" come desiderava. Spesso ripete nel corso dell'intervista che non

riesce a collocare nel tempo gli eventi che le sono successi a causa della sregolatezza del suo stile di vita: "non mi ricordo tantissime cose, ho un buio allucinante, è tutto frammentato come se il tempo non passasse, lo vedo tutto sullo stesso piano" [...], "son talmente confusa che non riesco a darti una spiegazione". Racconta che fin da quando aveva 67 anni girava con compagnie di ragazzi del paese molto più grandi di lei, che la portavano in macchina alle feste o anche, semplicemente, a prendere un gelato considerandola un po' la mascotte della compagnia. A partire dai 14 anni, quindi, inizia a bere alcolici e fumare cannabinoidi, con frequenza da subito quotidiana e consistente (4-5 volte al giorno) per la sua "predisposizione", all'esagerazione. L'inizio della sua vita di strada segna la sperimentazione di tutte le altre droghe offerte dal mercato, in modo particolare ai rave e alle feste organizzate anche da sconosciuti che incontrava nei suoi viaggi. Ricorda quel periodo come uno dei più felici della sua vita per il divertimento e il senso di libertà che provava a queste feste, piacere che inizia a venir meno dopo il suo incontro con l'eroina che, ritiene, le ha rovinato la vita. Nonostante due precedenti esperienze isolate vissute tra i 17 e 20 anni, Miranda era da sempre stata contraria all'eroina anche perché l'effetto che dava tale sostanza era completamente diverso rispetto a quello stimolante da lei ricercato; a 25 anni, però, si innamora di un tunisino con il quale va a vivere che la convince a provare e le fa il primo buco. Il fatto di trovarsi in un gruppo di amici che si bucavano l'ha portata quindi a ripetere tale esperienza poiché, sostiene, una diversa modalità di assunzione l'avrebbe fatta sentire fuori posto, anche per il tempo più lungo necessario ad esperirne gli effetti; quando il suo compagno finisce in carcere, lei inizia ad assumere quotidianamente eroina, poichè le permetteva di non pensare a tutti i problemi che stava attraversando, e ad intensificare le sue attività di spaccio, di scambi sessuali con spacciatori, di collette per la strada e di furti per potersi permettere la roba. Il ricorso al servizio avviene inizialmente per una segnalazione di possesso di stupefacenti da parte delle Forze dell'Ordine; in seguito, si rivolge al servizio altre volte, l'ultima delle quali è animata dal senso di colpa nei confronti della madre che l'ha sempre accettata a casa nonostante il suo comportamento, più che da una reale volontà di uscirne. Nel corso dell'intervista, il problema dell'assenza di un lavoro emerge con una certa forza: tornando nel paese d'origine, noioso come lo era un tempo, il fatto di non avere la possibilità di lavorare, mettere da parte qualche soldo, pensare ad una vita "normale", ad una famiglia e ai figli, contribuisce a rendere ancora più oppressivo il passato di tossicodipendenza e difficile il percorso di cambiamento identitario. Pochi giorni dopo l'intervista apprendo da una sua telefonata che è tornata alla vita di sempre con gli amici di sempre; la disponibilità che mi aveva accordato nel presentarmi alcune amiche tossicodipendenti mai giunte al Sert decade, dunque, per il suo improvviso trasferimento in un'altra città italiana. Merilyn, in carico al servizio da 6 anni con un programma terapeutico di Bassa evolutività. L'intervista con Merilyn è abbastanza difficoltosa per la mancanza di problematizzazione del suo rapporto con le droghe, che ormai considera una parte integrante della sua identità e delle sue relazioni interpersonali; si presenta come una ragazza molto timida, mi dice che non è molto brava quando deve parlare perché le mette agitazione, e trascorre tutta l'intervista con lo sguardo

perso nel vuoto giocherellando con la sua borsa, procedendo comunque alla ricostruzione del suo percorso di vita, per quanto poco approfondita. Dai 15 ai 17 anni Merilyn sperimenta l'uso di cannabinoidi, acidi e amfetamine in situazioni di gruppo, nella sua compagnia di persone molto più grandi di età; sostiene che queste esperienze erano fatte per la compagnia, pensando di "perdersi magari qualcosa di bello" se non le avesse fatte, e che erano state abbandonate ben presto proprio perché non le avevano dato effetti così piacevoli. Dunque, dice che con l'eroina il ragionamento che aveva fatto era lo stesso, ovvero "provo, al limite posso sempre lasciar li se non mi piace", mentre nella realtà era stata un'esperienza così piacevole da essere ripetuta per qualche mese, fino alla scoperta di questo fatto da parte dei genitori. Non sapendo come comportarsi, i genitori la mandano in comunità per un anno, e al suo rientro inizia la convivenza con il partner con cui tuttora sta, più grande di lei di 16 anni. Per diversi anni, nonostante anche il partner avesse una storia precedente di tossicodipendenza, riescono entrambi a rimanere astinenti, almeno fino alla carcerazione del ragazzo, momento nel quale Merilyn ha preso coscienza del fatto che lui non aveva mai smesso di drogarsi e gliel'aveva tenuto nascosto solo per proteggerla. In quei mesi, dunque, lei riprende i contatti con la compagnia precedente e, con gli stessi ragionamenti che l'avevano portata ad assumere le prime droghe, si lascia coinvolgere nella sperimentazione del buco, dapprima di eroina, poi di cocaina. Sostiene che da quel momento in poi lei non ha mai più smesso di farsi, nemmeno quando su consiglio del partner si reca al servizio e inizia ad assumere la terapia sostitutiva; non problematizza per nulla il suo attuale consumo di eroina, conside randolo ormai parte della sua quotidianità e un modo per affrontare meglio le situazioni che le si presentano. Pur rendendosi conto che la relazione con il partner si è deteriorata, riducendosi a questi contenuti, sostiene che non riesce ad affrancarsi dalla dimensione rituale del farsi ("tante volte anche magari con poco, che sai che non è che ti dia chissacchè, però già il fatto di bucarti... non so, ti sembra già di star meglio"). Classe di età 36-39 anni Pheobe, madre, in carico al servizio da 5 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Esempio di tossicodipendenza nell"`invisibilità". La carriera tossicomanica di Phoebe inizia intorno ai 25 anni; aldilà dell'uso occasionale di cannabinoidi in situazioni ricreative con amici a partire dai 20 anni, Phoebe è sempre rimasta estranea al mondo delle droghe conducendo una vita perfettamente integrata, a livello sociale, lavorativo e familiare. Tuttavia, sostiene di essere sempre stata una persona insicura, alla ricerca dell'approvazione degli altri e soprattutto di relazioni interpersonali significative, perlopiù diadiche, e questa sua volontà di identificazione con gli altri l'ha portata a sperimentare, a 25 anni, l'uso di eroina. Racconta di essersi lasciata coinvolgere dalla sua migliore amica, che ai tempi aveva un compagno tossicodipendente, nelle prime sperimentazioni, nella prosecuzione dell'uso e nel passaggio al consumo per via parenterale. L'assunzione di eroina rimane comunque limitata per circa 2 anni ai weekend, finché una serie di eventi traumatici - la carcerazione del partner, la perdita del lavoro, la rottura dei rapporti con la famiglia d'origine, la scoperta della gravidanza in corso - la portano a

sperimentare un coinvolgimento eccessivo con la sostanza, consumata con finalità automedicatine, fino alla tossicodipendenza. Phoebe si è sempre rifiutata di riconoscersi tossicodipendente, in quanto non accettava su di sé l'immagine che aveva dei tossicodipendenti; dopo tutto, non si mischiava mai con queste persone, mandava sempre qualcuno a comprarle la roba per non avere contatti con gli spacciatori e si appartava per non mostrare a nessuno che si faceva, non ha mai compiuto reati ed è sempre stata terrorizzata dalle forze di polizie per il timore che si scoprisse che aveva un comportamento di questo tipo; dapprima, il denaro che utilizzava per comprarsi la roba (o il Minias, che usava spesso come sostituto per il prezzo inferiore) veniva dall'attività lavorativa, poi da piccoli furti in casa della famiglia d'origine e dalla vendita dei propri oggetti personali. Anche i rapporti con il Sert, iniziati a gravidanza inoltrata, sono sporadici proprio per questo rifiuto a mostrare, a se stessa come agli altri, lo stato di tossicodipendenza: l'unico momento in cui si è sentita di dover ammettere di avere un problema con l'eroina è stato il parto ("credo sia stata la prima volta che lo dicevo agli altri e anche a me stessa") solo ed esclusivamente per il bene del bambino, che facilmente sarebbe nato in crisi di astinenza. La maternità, dunque, segna l'inizio del percorso di affrancamento definitivo dall'uso di droghe (con un lungo inserimento comunitario) e il ritorno allo stile di vita precedente, integrato ed equilibrato. Allison, madre, in carico al servizio da 10 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. La storia di Allison rappresenta un esempio di uso controllato, "nascosto" e in funzione auto-terapeutica di eroina. Racconta che le sue prime esperienze di contatto con le droghe e con persone tossicodipendenti sono avvenute in tenera età, tra i 12 e 14 anni, dapprima con le canne, "per atteggiarsi da grandi", poi con l'eroina. Vivendo in un piccolo paese, i suoi genitori le permettevano di uscire fino a tarda sera, e nel frequentare il bar del centro aveva conosciuto una comitiva di persone molto più grandi di lei delle quali era diventata la mascotte; dice che spesso, essendo piccola e graziosa, le facevano portare la roba da un posto all'altro ("mi facevano fare il cavallo") e la ricompensavano regalandole qualche dose per sé. Per tantissimi anni, Allison alterna pochi mesi di uso con interi periodi (anche di anni) di astinenza completa; non si è mai definita tossicodipendente proprio per la sua capacità di autocontrollo dell'uso, unita al rifiuto di consumarla per via endovenosa (anche se l'ha provato, senza proseguirlo per non distruggere il suo corpo), nonostante la consapevolezza che in alcuni momenti esagerava nelle quantità e nella frequenza ('facevo proprio schifo"). Nell'intervista racconta di aver sempre lavorato dall'età di 15 anni, quindi di essere sempre stata economicamente autonoma per potersi permettere la roba, di aver avuto due figli, uno dei quali da un matrimonio terminato dopo 7 anni con un divorzio, l'altro dalla relazione sentimentale con quello che è il suo attuale convivente (ex-tossicodipendente). Racconta inoltre di un rapporto molto conflittuale con la madre, con la quale vi era una sorta di competizione e che spesso era violenta fisicamente e verbalmente con lei; ritiene che questo elemento, unito al cattivo rapporto con i fratelli, abbia costituito uno dei motivi per i quali nei periodi in cui esagerava con l'uso di eroina riusciva anche a smettere, perché non avrebbe mai potuto confermare l'immagine negativa che i suoi familiari avevano di

lei diventando una tossicodipendente. Fondamentalmente, l'uso di eroina risponde alla sua esigenza di reggere i ritmi della vita quotidiana; in lei emerge molto il peso della "doppia presenza", lavorativa e familiare, e l'esigenza di ricorrere all'eroina come momento da ritagliare solo per sé e per darsi la carica. Il ricorso al Sert era motivato, a suo tempo, da una segnalazione per possesso di stupefacenti avvenuta per il rinvenimento in casa sua e del compagno di grossi quantitativi di droga, che aveva dichiarato essere in parte suoi per coprire il compagno ed evitargli problemi più seri; pertanto, non essendo mai stata una scelta autonoma, l'adesione al programma terapeutico è sempre stata strumentale e non ha portato a una reale dismissione dei comportamenti di consumo. L'intervista è avvenuta al suo domicilio, per la sua volontà di non volersi fermare troppo al Sert, dove incontra sempre la stessa gente che in un modo o nell'altro cerca di coinvolgerla in giri strani; in alcuni momenti, l'intervista è stata disturbata dalla presenza del compagno e dei figli, per i quali cambiava alcuni termini per evitare di fargli comprendere i discorsi che faceva. Nel complesso, questo suo rapporto di distacco dalle sostanze l'ha portato anche nelle modalità di strutturazione dei racconti, nei quali l'eroina compare molto raramente (e spesso su mia sollecitazione) e che sono invece centrati sul suo senso di solitudine, sulle problematiche della doppia presenza, del rapporto con il compagno e con i familiari e dell'educazione dei figli. Celeste, in carico al servizio da 3 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista con Celeste è totalmente centrata su alcune figure maschili che lei ritiene abbiano completamente condizionato la sua biografia, dall'infanzia, all'uso di sostanze e alla successiva astensione definitiva dalle sostanze. Fino all'età di 24 anni, Celeste conduce una vita apparentemente normale: ha una famiglia molto unita, un tenore di vita elevato, risultati scolastici ottimi e un lavoro con il padre che le consente di ricavare ampi margini di soddisfazione personale; racconta di essere sempre stata la figlia perfetta, anche perché non si poteva permettere nessun errore dato il carattere autoritario del padre, sul lavoro come nella vita personale, tant'è che ha sempre avuto orari di rientro serale molto rigidi che spesso non le permettevano di frequentare gli amici e, soprattutto, di avere un ragazzo. A partire dai 20 anni, allaccia due relazioni sentimentali con due uomini, entrambe terminate dopo 3 anni per il loro tradimento; Celeste attribuisce proprio a questi fallimenti amorosi l'esordio del consumo di droghe, ovvero cannabinoidi e alcolici fino all'intossicazione a 24 anni, cocaina a 25 anni ed eroina a 26 anni. Sostiene che inizialmente l'uso di droghe era motivato dall'esigenza di evadere dalla quotidianità, dallo stress lavorativo particolarmente pesante a causa del rapporto soffocante con il padre, e dalla sua stanchezza di dover sempre essere perfetta agli occhi degli altri, quando invece gli altri - in particolare i suoi compagni - le davano solo delusioni. L'arrivo all'eroina, avvenuto in seguito alla seconda rottura della relazione sentimentale, avviene casualmente tramite un amico che le propone, per stare meglio, di fumare insieme a lui; il senso di benessere che ne aveva ricavato, unito alle delusioni amorose e alla conseguente scarsa autostima, la portano ad assumere la sostanza fin da subito quotidianamente. Racconta che in questo periodo si era lasciata andare a comportamenti fuori dal normale, come l'avere rapporti sessuali occasionali

con chiunque per poter essere, anche solo per pochi momenti, accettata da un uomo. In questo periodo conosce anche il suo attuale compagno, uno spacciatore da cui spesso andava per acquistare la roba, dapprima in compagnia di un amico, poi da sola; inizia, così, l'ennesima relazione sentimentale, questa volta investita di un significato quasi salvifico da parte di Celeste per l'atteggiamento protettivo che lui aveva nei suoi confronti, in quanto cercava di farle capire che non poteva permettersi di esagerare con l'eroina. Il passaggio all'uso endovenoso avviene nel periodo della carcerazione del compagno; il senso di solitudine l'aveva portata a frequentare una coppia di amici che già lo facevano e a volerne sperimentare gli effetti, anche per non sentirsi fuori luogo quando assumevano droghe insieme (non poteva fumare mentre loro se la iniettavano). L'uso endovenoso dura per pochi mesi, quando Celeste si rende conto di essersi abbruttita e che se avesse continuato in quella direzione non sarebbe più piaciuta al suo compagno, assolutamente contrario all'uso delle siringhe; dunque, si rivolge al Sert per iniziare un programma di recupero e poter essere "pulita" al momento della scarcerazione definitiva del compagno. Grace, in carico al servizio da 8 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista con Grace è avvenuta in due colloqui, caratterizzati da un suo forte coinvolgimento emotivo unito però a delle grandi capacità di razionalizzazione, e soprattutto di espressione dei vissuti e delle proprie esperienze. Tali capacità sono legate, come lei stessa afferma a più riprese, al fatto che ha sempre amato molto la scuola e lo studio, tanto che ha passato anche lunghi periodi all'estero per seguire dei corsi universitari e preparare una tesi di laurea che, però, non è mai stata portata a termine. Proprio con il periodo universitario inizia la sua sperimentazione con le droghe; se fino ai 19 anni Grace era considerata da tutti la figlia modello e per riuscire a rispondere alle aspettative dagli altri si dedicava esclusivamente alla scuola, il passaggio all'università, e con esso il trasferimento in un'altra città italiana, ha segnato per lei l'inizio di un nuovo periodo nel quale, pre-meditatamente, ha voluto concedersi di lasciarsi andare a tutte le esperienze che prima si era preclusa. La sfida, per lei, era quella di mostrare che sarebbe riuscita a mantenere nel tempo una doppia identità sociale, ovvero l'immagine di donna e figlia perfetta, che consegue la laurea tanto desiderata dai genitori e si comporta apparentemente "bene", insieme all'immagine di donna trasgressiva, che ricerca il piacere e il divertimento, lasciandosi andare all'eccesso. Dunque, inizia a 19 anni a fumare cannabinoidi, a 21 sperimenta l'uso di ecstasy e a 22 anni incontra l'eroina, che assume saltuariamente tramite inalazione fino ai 26 anni, quando avviene il passaggio all'uso endovenoso, avvenuto con il compagno, anch'egli tossicodipendente. Racconta che per lungo tempo è riuscita a conciliare l'uso di droghe con gli studi universitari, sebbene con molta fatica, e a non far scoprire nulla ai suoi genitori, anche perché nei lunghi periodi all'estero aveva scoperto una terapia per il trattamento della dipendenza da eroina con un farmaco, legale e prescritto da medici privati, che veniva iniettato in vena, le evitava di incorrere nei rischi dell'acquisto dell'eroina per strada e, soprattutto, la faceva riconoscere come una persona che aveva dei problemi per i quali esisteva una soluzione sanitaria assolutamente efficace. Pian piano, però, si rende conto di essere diventata fortemente

dipendente da tale terapia, che alterna comunque con metadone ed eroina acquistati sul mercato nero in quanto le dosi che le prescrivevano le erano diventate insufficienti, e di non riuscire più a portare avanti nessuna attività quotidiana, tantomeno la tesi di laurea; questo è il periodo nel quale i genitori, dopo varie vicissitudini, vengono a scoprire del suo problema di tossicodipendenza e non le versano più il denaro sul conto, con il quale fino a quel momento poteva ampiamente permettersi l'acquisto di roba senza incorrere in attività criminali. Dal suo ritorno definitivo nel suo paese d'origine, avvenuto 5 anni fa, Grace ha avuto ancora qualche ricaduta, anche perché i locali e le persone che frequenta sono sempre quelle del giro precedente; ritiene di non aver ancora trovato quell'identità che ricercava a 19 anni, e di aspettare che "qualcosa accada", dentro o fuori di lei, per farle cambiare atteggiamento nei confronti della droga - che anche nei periodi in cui non la assume è nei suoi pensieri - e della vita in generale. Gli argomenti che vengono approfonditi in modo particolare nel corso dei colloqui sono stati quelli della doppia identità sociale, di cosa significhi essere tossicodipendente e una donna tossicodipendente, del significato delle ricadute, degli aspetti "contestuali" dell'uso di droghe, dell'uso endovenoso di eroina e del farmaco sostitutivo e dei rapporti familiari. Kelly, in carico al servizio da 19 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Parlando di sé, Kelly spesso fa riferimento alla sensazione di essere sdoppiata, di essere contemporaneamente un "angelo" e un "demone", "dott. Jeckyll e Mr. Hyde"; sostiene che fin da bambina non è mai stata in grado di trovare una via di mezzo e soprattutto di darsi un freno, eccedendo in qualunque esperienza facesse, ma comunque mantenendo sempre all'esterno l'immagine perfetta che tutti ne avevano, di brava studentessa, grande lavoratrice (per quanto poco abbia lavorato nella sua vita), figlia modello, ecc. L'intervista con Kelly è molto lunga e si svolge in due sessioni per la sua particolare capacità di raccontare nei minimi particolari le proprie esperienze di vita e con le droghe, che fa risalire certamente a questo suo carattere sempre alla ricerca della sperimentazione e dell'avventura, ma soprattutto ad una situazione familiare che la faceva star male al punto da dover necessariamente trovare un modo per attutire il dolore, per ricavarsi un momento tutto suo nel quale potesse stare finalmente bene. Già a partire dai 10 anni, infatti, la scoperta di una grave malattia della madre aveva destabilizzato il nucleo familiare, portando il padre ad andarsene di casa; il rapporto estremamente conflittuale tra Kelly e la madre, l'aveva portata ai suoi 16 anni a decidere di trasferirsi dal padre, incrinando così definitivamente questo rapporto che continuava ad essere per lei molto significativo. Dall'altra parte, anche con il padre le cose non andavano molto bene, in quanto non è mai stato in grado di darle l'affetto di cui aveva bisogno e di trovare un modo corretto per comunicare con lei. Le tensioni familiari erano arrivate ad un punto estremo, dunque in una situazione che Kelly attribuisce alla casualità, conosce un extracomunitario che le chiede se "vuole stare meglio" e acquista da lui questa pallina, che neanche sa cosa sia (forse le viene spiegato come usarla ma non lo ricorda); arrivata a casa, la prova e di li in poi inizia l'uso quasi da subito quotidiano di eroina, quella sostanza che proprio cercava per attutire il suo dolore. Dopo pochi mesi, le insegnanti si accorgono che c'era qualcosa che non andava e la convincono a rivolgersi al Sert;

nonostante la presa in carico, l'astensione definitiva dall'eroina, che per una breve parentesi di 3 mesi era stata assunta anche per via endovenosa, è proseguita fino ai 24 anni, cessando poi quando è riuscita ad ottenere dosaggi di metadone più adeguati di quanto non ne concedessero a quei tempi. In seguito, perviene alla cocaina e alle droghe da rave, che le aprono un mondo completamente diverso e maggiormente compatibile con il suo modo di essere, di persone aperta e socievole, in quanto non vuole proseguire a ridursi come "una larva". Se in tutto il primo periodo di tossicodipendenza riesce a recuperare i soldi per sostenersi dal padre, chiedendoglieli espressamente o rubandoglieli di nascosto, in seguito alla scoperta dell'uso da parte sua è costretta ad ingegnarsi in altro modo: entra, dunque, nel giro dello spaccio ed anzi, diventa un grande punto di riferimento per il circuito di vendita di droga, soprattutto nei periodi in cui vive in un'altra città italiana dove cerca di portare a termine gli studi intrapresi: ospita spacciatori in casa in modo da poter avere le sue droghe in cambio dell'ospitalità e intrattiene con essi relazioni sessuali per gli stessi motivi, che non giudica come forma di prostituzione in quanto afferma che il sesso faceva comodo anche a lei. Chiaramente, la storia di Kelly è molto lunga, ed è fatta di entrate ed uscite dalla droga, di lunghi periodi in carcere ed arresti domiciliari per l'accusa di spaccio, di un tentato suicidio nel corso di una di queste carcerazioni, di un periodo di inserimento comunitario giunto a buon fine e di 3 overdosi, tutti aspetti raccontati con una estrema minuziosità e spesso con riferimenti alla terminologia medica per spiegare la tossicodipendenza; nel corso del secondo colloquio, inoltre, compie delle riflessioni estremamente competenti sulle differenze di genere nella tossicodipendenza, calandole anche nella sua esperienza personale. Bridget, in carico al servizio da 15 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Bridget proviene da una famiglia con forti disagi economici residente in un piccolo paese, cui si sono unite le problematiche psichiatriche e di abuso alcolico da parte del padre, che spesso usava violenza fisica sui figli. Racconta di aver vissuto fin da piccola la stigmatizzazione da parte degli abitanti del paese, e di essersi ben presto unita alle compagnie di tossicodipendenti proprio perché si sentiva a suo agio con loro, sentiva di appartenere ad un gruppo di persone escluse, ai margini, che valevano tutte allo stesso modo. Sostiene, tuttavia, che il suo uso di droghe e la sua tossicodipendenza sono però sempre rimasti nascosti e non hanno mai influito sul suo modo di relazionarsi con le persone "normali", poiché lei ha sempre cercato di mantenere un'immagine sociale di un certo tipo, lavorando molto e riscuotendo la fiducia e la stima di colleghi e datori di lavoro. Dunque, il primo contatto con le droghe avviene a 17 anni, con la sperimentazione e l'uso saltuario di cannabinoidi in questa compagnia di uomini molto più grandi di lei; poco dopo, a 18 anni, sperimenta in modo occasionale l'uso inalatorio di eroina e successivamente di cocaina, per poi iniziare a consumare eroina quotidianamente verso i 25 anni e a passare all'uso endovenoso a 27 anni. In particolare, racconta che il passaggio al buco è avvenuto per una sorta di rivalsa nei confronti del compagno, con il quale assumeva abitualmente tale sostanza e che non aveva voluto condividere con lei la prima esperienza di uso endovenoso; il senso di tradimento che era derivato da tale comportamento l'aveva portata a sperimentare da sola l'uso iniettivo e a

proseguirlo per qualche anno, dapprima in coppia poi in modo solitario al momento della rottura di tale relazione sentimentale. Racconta che poi si è rivolta al servizio quando ha avuto la percezione che la situazione le stava sfuggendo di mano e, guardandosi allo specchio mentre si bucava, ha avuto la percezione di non essere più la stessa persona; la terapia metadonica, che per moltissimi anni non le ha comunque permesso l'astinenza completa, se non altro le ha fatto riacquisire il controllo dell'uso di eroina e la sua compatibilità con le attività lavorative e le relazioni interpersonali, che ha sempre considerato centrali nella sua vita. L'intervista approfondisce in modo particolare la prima esperienza di uso endovenoso, il senso di esclusione ed emarginazione sociale, e soprattutto la relazione tra il consumo di droghe e i contesti di assunzione: infatti, dai suoi racconti emerge che se lo stato di astinenza è mantenuto con una certa facilità nel luogo dove attualmente vive, le ricadute e le tentazioni di riprendere l'uso di eroina sono sempre state determinate dal ritorno in determinati luoghi e dall'incontro di persone che facevano parte del suo giro all'epoca. Si approfondiscono, inoltre, alcuni aspetti che, a suo parere, differenziano l'esperienza tossicomanica femminile da quella maschile, in modo particolare in merito allo stigma sociale. Al termine dell'intervista, molto emotiva e in alcuni momenti sofferta, Bridget mi esprime una sorta di gratitudine per la possibilità che le avevo dato di raccontare la propria esperienza su un piano "paritario"; il fatto di potermi parlare dandomi del "tu", infatti, le ha permesso di eliminare quelle barriere che di solito ha nel rapporto con i professionisti del servizio ed essere più naturale nell'esprimere il suo vissuto. Per questo motivo, si rende anche disponibile a farsi da mediatrice nei contatti con alcune donne tossicodipendenti di sua conoscenza che non sono mai entrate in trattamento. Tiffany, in carico al servizio da 9 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista con Tiffany è estremamente difficoltosa in quanto il momento biografico di forte depressione che sta attraversando non le permette di scendere in profondità nella sua storia, che rimane un racconto vago, frammentato e confuso, soprattutto nella cronologia degli eventi. L'operatore di riferimento mi aveva parlato delle sue problematiche relazionali, sostenendo che aveva a suo carico una diagnosi di personalità borderline con disturbo bipolare e accennando che il corso dell'intervista poteva essere aperto ad imprevisti vista la sua instabilità emotiva; dal confronto con l'operatore, inoltre, emergevano come aree di possibile approfondimento l'aborto che aveva sostenuto anni prima, la centralità delle figure maschili nelle sue esperienze di vita e di contatto con le droghe e il tentato suicidio, tematiche che non sono stata in grado di approfondire per lo stato di ansia che Tif fany manifestava, in particolare con discorsi incoerenti, risposte monosillabiche alle mie domande e lo sguardo sempre perso nel vuoto. Ciò che descrive è la sua iniziale sperimentazione con i cannabinoidi in situazioni di gruppo a 16 anni, e l'inizio del consumo di eroina a 17 anni, dapprima per inalazione e poi per via parenterale. Tali esperienze avvengono con un uomo che ai tempi era il suo compagno, ma Tiffany sostiene che l'idea di sperimentare le droghe è sempre stata sua. Di li inizia un percorso travagliato fatto di numerosi ingressi comunitari con altrettante ricadute nell'uso di eroina, prima, e di cocaina, successivamente, di una serie di relazioni sentimentali con persone tossicodipendenti cui si

legava in modo morboso, di un episodio di tentato suicidio che la rende per molto tempo invalida e per il quale inizia un trattamento presso il centro di salute mentale con l'assunzione di diversi psicofarmaci per sedare il suo stato d'ansia. Tiffany non è in grado di spiegare né cosa l'ha portata a sperimentare sostanze, né i motivi delle ricadute, sostenendo solamente che in tanti periodi della sua vita ha avuto solo voglia di "sparire". Tuttora assume diversi psicofarmaci che l'hanno resa dipendente, esprime il desiderio di provare a levarseli ma ha paura di non riuscire ad affrontare le sue giornate, vuote per la mancanza di un lavoro, nonostante la presenza dei familiari resti comunque un punto di riferimento saldo nella sua vita. Kimberlee, in carico al servizio da 18 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista si è svolta in due colloqui e si è caratterizzata per il forte coinvolgimento emotivo da parte di Kimberlee nel racconto della sua biografia, in modo particolare nell'approfondimento di alcuni eventi che sostiene di non aver mai razionalizzato, ovvero gli aborti, la contrazione dell'HIV e la prostituzione. I primi contatti con le droghe avvengono in compagnia di amici, all'età di 15 anni, con il consumo di cannabinoidi fin da subito a cadenza quotidiana; sostanza che se inizialmente aveva un significato di aggregazione del gruppo, pian piano diventa l'unico motivo di ritrovo di questi amici, che poi si dividono anche a causa della partenza per il militare di alcuni di essi. Cambiando compagnia si ritrova a sperimentare, a 16 anni, il consumo di diversi psicofarmaci senza prescrizione medica e con il solo scopo di alterare i propri stati d'animo; queste stesse motivazioni la spingono, a 17 anni, a tirare eroina, presentatale dagli examici ritornati da naja come una sostanza che le avrebbe permesso di trovare il benessere che cercava, come poi è realmente stato. Il passaggio all'uso endovenoso avviene per una questione strettamente economica, poiché la frequenza di consumo dopo 6 mesi era diventata tale da non essere più sostenibile con il solo reddito da lavoro. Di lì inizia un percorso molto complesso di inserimenti comunitari iniziati e interrotti, di prostituzione come fonte principale di sostentamento alternata ai furti e allo spaccio, di una serie di relazioni sentimentali con tossicodipendenti o ex-tossicodipendenti e, dunque, di astinenze e repentine ricadute nell'uso. La particolarità della sua storia risiede nell'interpretazione che Kimberlee dà di tali ricadute, motivate non dalla presenza di uomini che la influenzavano quanto dalla loro mancanza; infatti, i periodi nei quali aveva la possibilità di stare con la persona che amava trascorrevano serenamente con il lavoro, la casa, ed una vita apparentemente integrata, mentre nei momenti in cui finivano queste storie d'amore sentiva l'impulso fortissimo a bucarsi, "è sempre lo star male da non avere un uomo insomma". Questo aspetto viene approfondito in modo particolare nel corso dei colloqui, come la prostituzione, che viene considerata da Kimberlee alla stregua di un lavoro come un altro; la sco perta di aver contratto l'HIV dai rapporti sessuali con il primo dei suoi ragazzi (tossicodipendente e sieropositivo), non "protetti" per l'amore che provava per lui; le relazioni familiari e lavorative, che l'hanno sempre portata a sentire di avere una doppia immagine sociale, in apparenza perfettamente integrata ma con questa spinta alla trasgressione e al superamento del limite.

Betty, madre, in carico al servizio da 16 anni con un programma terapeutico di Bassa Evolutività. Nella storia di Betty la pervasività dell'identità tossicomanica e dello stigma ad essa connesse emergono in tutta la loro forza; nonostante la sua provenienza da una famiglia di elevato status sociale e le due maternità che l'hanno interessata nell'ultimo decennio, sostiene di appartenere completamente alla strada e di non conoscere alcuna possibilità di cambiamento, pensando alla sua tossicodipendenza come ad una sorta di condizione pre-destinata. Racconta di aver fatto le sue prime esperienze con le canne a 16 anni per trasgredire le regole sociali e per sentire di appartenere ad un gruppo, a 19 anni sperimenta poi cocaina ed Lsd che abbandona subito per lo stato ansioso che le creavano, per poi provare a 20 anni a sniffare eroina con il partner "con l'idea che fosse la prima e l'ultima", a proseguirla fino a bucarsi (due anni dopo), e a non abbandonarne mai l'uso. Dice che fin da piccola nell'ambito familiare sentiva parlare di droga ogni giorno, per la presenza di due cugini tossicodipendenti, e che il padre spesso sosteneva che avrebbe preferito un figlio morto ad uno tossicodipendente, e questa era l'opinione che Betty aveva sempre avuto dei tossicodipendenti, ovvero di persone da scansare, dei "rifiuti della società"; il passaggio all'acquisizione di tale identità è dovuto, a detta sua, al rapporto di ostilità che nell'adolescenza si era creato con il padre, percepito come un "dittatore". L'eroina continua a costituire, al momento dell'intervista, il rimedio ai suoi problemi; pur non volendo giustificare tale comportamento, Betty sostiene che è l'unico modo che ha imparato per annullare i suoi pensieri e non pensare alle difficoltà quotidiane. La biografia di Betty, a partire dai 22 anni, è segnata dall'espulsione dal contesto familiare, dallo spaccio, dalla prostituzione e dalla vita di strada, da una serie di esperienze carcerarie per un periodo complessivo di due anni e da numerosi inserimenti comunitari - ne conta 15 -, sempre falliti a causa del suo carattere ribelle e della sua insofferenza alle regole. Anche le due maternità, ricercate appositamente da Betty per realizzare un desiderio che aveva sempre avuto, non le sono servite nel percorso di cambiamento identitario: entrambi i figli sono stati affidati a terzi (alla famiglia d'origine, il primo e all'ex-compagno, il secondo) per la sua incapacità ad abbandonare l'uso di eroina. Classe di età 40-45 anni Sophie, madre, in carico al Sert da oltre 10 anni con un programma di Alta Evolutività. Sophie proviene da una famiglia economicamente e socialmente disagiata che la porta ad intraprendere diverse attività lavorative già in età precoce (14 anni) e ad interrompere di conseguenza gli studi superiori. Il padre, alcolizzato, viene descritto come una persona violenta in famiglia, soprattutto con la madre; quest'ultima, occupata stabilmente, viene descritta come una figura assente durante tutta la sua infanzia a causa del lavoro svolto, che alla morte del padre inizia una convivenza con un altro uomo, violento e irascibile, con il quale Sophie intrattiene rapporti molto difficoltosi che la portano ad assumere antidepressivi fin dall'età di 14 anni, ad uscire dal contesto domestico a 17 anni e a sposarsi poco dopo, al raggiungimento della maggiore età. Il contatto con le sostanze psicoattive illegali avviene dapprima con i cannabinoidi, all'età di 16 anni, consumati in situazioni di gruppo ma in modo molto sporadico ("al massimo una volta al mese"). Il primo

contatto con l'eroina, assunta per via inalatoria, avviene a 18 anni come forma di sperimentazione, in presenza del marito; si tratta, però, di un episodio isolato, in quanto l'uso si arresta subito per poi riprendere a 22 anni all'insaputa del marito stesso, che dalla prima esperienza si era mostrato contrario all'uso di droghe. La ripresa dell'uso, motivata dal fascino che tale esperienza esercitava su Sophie, si protrae per qualche anno secondo modalità perfettamente compatibili con il lavoro e le relazioni interpersonali, nella totale invisibilità, nonostante già a 23 anni inizino i primi episodi di astinenza nei quali Sophie matura pian piano la consapevolezza di non poter fare più a meno della sostanza; all'età di 24 anni l'uso inalatorio diviene quotidiano, mentre il primo episodio di uso endovenoso avviene a 27 anni. Nella ricostruzione del rapporto con l'eroina, Sophie racconta che fin dalle prime esperienze si caratterizzava come un uso solitario, in quanto le sembrava di sentirsi "sporca" agli occhi degli altri e di guastare in tal modo l'immagine sociale che si era costruita. Racconta che il suo uso di eroina non è stato costante, e che spesso ha alternato momenti di uso intensivo all'astinenza totale, in particolare contestualmente e successivamente alle gravidanze, e di uso di cocaina, abbandonata ben presto perché non ritenuta in sintonia con il suo modo di essere; il contatto con il Sert avviene proprio in occasione della prima di queste gravidanze. I rapporti con il marito iniziano ad incrinarsi a causa dapprima degli arresti domiciliari subiti per il reato di spaccio, poi alla carcerazione (subita per lo stesso reato); alla nascita del secondo figlio Sophie viene allontanata da casa e il marito, con la madre di Sophie, le impediscono di vedere i propri figli. L'esperienza successiva alla carcerazione di totale isolamento familiare e sociale, la porta a spacciare, a prostituirsi e a vivere per la strada per diverso tempo, allacciando due ulteriori relazioni sentimentali con soggetti tossicodipendenti e concependo due altri figli. L'intervista con Sophie si è svolta in due sessioni, entrambe caratterizzate da uno stato emotivo di particolare fragilità dovuto principalmente al racconto delle vicissitudini che l'hanno separata dai suoi figli. Nel corso della prima intervista, accanto alla ricostruzione biografica della carriera di consumo, si sono approfondite le tematiche delle recidive dell'uso e della maternità, aspetto su cui continuamente Sophie ritorna per evidenziare da un lato le sofferenze che subiscono le madri tossicodipendenti, dall'altro l'isolamento sociale e lo stigma che le colpisce. Nel corso della seconda intervista, che ha visto la presenza del suo attuale compagno (non tossicodipendente), ci si focalizza sul periodo carcerario e si ritorna, in un clima più disteso, sulla questione della genitorialità; emergono, inoltre, particolari della vita attuale caratterizzata da uno stigma sociale molto forte e da una situazione di difficoltà economica, oltre che emotiva, compensata però dalla presenza di questa figura maschile, protettiva e accudente, e dalla speranza (che sta per trovare una concretizzazione) di poter avere con sé i suoi ultimi due figli e di poter rivedere i suoi primogeniti, al raggiungimento della loro maggiore età. Nonostante le difficoltà, da lei stessa riconosciute, di collocare nel tempo gli avvenimenti ("scusa, non riesco ad andare in ordine di tempo, ogni tanto mi perdo"), i discorsi si presentano come sufficientemente coe renti e coesi; costante è il suo tentativo di mettere in evidenza le specificità dell'esperienza tossicomanica femminile, in coerenza con gli interrogativi di ricerca esplicitati nel patto biografico.

Kate, madre, in carico al Sert da circa 10 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Proviene da una famiglia particolarmente disagiata di bassa estrazione sociale, tanto che fin dalla prima infanzia Kate subisce diverse esperienze di istituzionalizzazione che si sono protratte fino ai 16 anni, seppur in alternanza ad alcuni periodi di rientro nel contesto familiare. In uno di tali rientri, i genitori la costringono, nonostante la sua passione per lo studio e i buoni risultati scolastici, ad andare a lavorare per poter pagare i debiti della famiglia; iniziano, inoltre, gli episodi di incesto, che la portano presto a rifugiarsi nell'alcol e nelle droghe con l'esplicito intento di annientarsi. L'uso di cannabinoidi avviene a 13 anni e si mantiene limitato a situazioni conviviali con i coetanei; non viene ricollegato da Kate alle violenze subite, ma all'emulazione di comportamenti di compagni ritenuti modelli di riferimento ("lo fai per sentirti all'altezza delfigo della classe che la fumava già"). La ricerca dell'eroina, ben conosciuta da Kate in merito ai rischi e conseguenze dell'uso, avviene invece a 14 anni proprio con lo scopo di `farla finita perché non ne potevo più", in seguito alla presa di coscienza che gli atteggiamenti del padre, da sempre considerato come un "Dio", configurassero gli estremi di una violenza, e non di una manifestazione di affetto; ha cercato l'eroina, e ha proseguito nel suo consumo, con una motivazione esplicitamente orientata all'auto-distruzione. Il consumo di eroina, alternato ad episodi di assunzione occasionale di cocaina e di metadone recuperato nel mercato nero solo in funzione compensatoria della mancanza di tale sostanza, si è mantenuto a lungo controllato, limitato ai fine settimana e pienamente compatibile con uno stile di vita normale, tanto che alla scoperta della prima gravidanza, cercata per realizzare il suo desiderio di maternità, Kate sospende subito l'uso di droghe e si mantiene a lungo astinente per poter assolvere appieno il suo ruolo genitoriale. L'episodio di rottura dell'equilibrio raggiunto da Kate, e il conseguente ricorso al Sert su segnalazione del Tribunale, avviene a causa della relazione che intrattiene con il padre del bambino, un uomo tossicodipendente con cui aveva iniziato una rapporto sentimentale già a partire dai 16 anni, terminato proprio per la sua non-volontà ad abbandonare l'uso di droghe nonostante la nascita del figlio. In seguito a diversi litigi, anche violenti, il figlio viene affidato al padre per un sospetto, in realtà infondato, di ricaduta nell'uso di eroina di Kate. La ripresa successiva dell'uso, protrattasi per pochi mesi, è motivata proprio dalla separazione dal figlio, con una costante motivazione auto-terapica. Il passaggio all'uso endovenoso e quotidiano motiva il ricorso alla prostituzione come fonte di sostentamento, evitata sino all'età di 36 anni; precedentemente, il consumo di droghe nei weekend era reso possibile da furti e dalla vendita di psicofarmaci (recuperati nella casa del padre). La prostituzione viene in realtà vissuta in modo molto conflittuale da Kate: la prima esperienza viene descritta come casuale e non intrapresa con l'esplicito intento di guadagnare denaro per il sostentamento dell'uso di droga, ma comunque ripetuta nel tempo per le facilità economiche che garantiva, in un circolo vizioso che dall'uso di sostanze portava alla vendita di sé e di nuovo all'uso di droghe per "ripulirti dallo sporco, per non sentire il sapore in bocca...... ; anche in questo periodo, l'uso veniva comunque sospeso in occasione degli incontri settimanali con il figlio per poter essere presente nella relazione genitoriale. L'attuale astinenza completa di Kate viene motivata dal desiderio principale di riavere la custodia del figlio, dalla nascita di un altro figlio che convive con lei, dalla necessità di

dimostrare a se stessa di potercela fare (in una sorta di sfida che, per carattere, non può perdere) e soprattutto dalla volontà di non deludere le aspettative e l'affetto di quella che considera la sua nuova famiglia, costituita dagli operatori del Sert, nella quale può esprimere compiutamente il suo nuovo senso di appartenenza, prima limitato alla strada. Dunque, recentemente ha ripreso gli studi conseguendo un diploma superiore, ha trovato un lavoro, mantiene il proprio secondo figlio pur nelle molte difficoltà economiche quotidiane, e cerca di dimostrare concretamente di avere le carte in regola per riavere con sé l'altro figlio nonostante la stanchezza e la mancanza di fiducia che ormai prova nei confronti dei servizi e delle istituzioni. L'intervista si svolge in due sessioni; fin da subito noto l'estrema disponibilità di Kate al dialogo, e soprattutto la sua volontà di farmi comprendere in modo preciso il suo punto di vista, e di contestualizzarlo entro gli interrogativi di ricerca sulle differenze di genere nella tossicodipendenza. La ricostruzione biografica è molto dettagliata e precisa, con un tono distaccato ed estremamente razionale rispetto agli eventi passati, dunque alle violenze familiari subite, alla prostituzione, all'istituzionalizzazione e al rifiuto che la famiglia ha sempre mostrato nei suoi confronti; tono che diventa più affettivo, ma comunque emotivamente contenuto, rispetto alla questione della maternità e della relazione con i figli. Nel corso della prima intervista, la ricostruzione biografica è già sufficientemente minuziosa da richiedere pochi interventi di chiarimento; al termine della prima sessione, nel momento del congedo, mi parla in modo competente delle similitudini che secondo lei troverò nelle storie di tossicodipendenza al femminile, ovvero la presenza di un padre alcolizzato o tossicodipendente, di un cattivo rapporto con la madre e di abusi e violenze intra ed extrafamiliare e ribadisce che secondo lei la difficoltà maggiore, per un ex-tossicodipendente, è di riuscire a ricreare il senso di appartenenza a qualcosa, che per lei è stato il rapporto con gli operatori del servizio che, simbolicamente, si sono sostituiti ad una famiglia distante, evitante e violenta. La seconda intervista prosegue approfondendo l'esperienza della prostituzione, la maternità (nel suo rapporto con le vicende giuridiche conseguenti), le relazioni interpersonali e l'identità di sé, come donna e come madre. Sibilla, madre, in carico al servizio da 12 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. La storia di disagio ed emarginazione di Sibilla inizia già in tenera età; proveniente da una famiglia numerosa e molto disagiata economicamente, fino a 15 anni ha vissuto per lunghi periodi in istituto, come i suoi fratelli del resto, anche a causa dell'alcolismo del padre e delle violenze che questo scatenava sui figli. Al suo rientro in famiglia, una serie di circostanze la portano a decidere di provvedere economicamente al sostentamento della famiglia, sia attraverso un lavoro che con l'esercizio della prostituzione per poter avere più denaro a disposizione. Racconta che fino all'età di 21 anni ha vissuto in un contesto familiare molto violento: il padre maltrattava i suoi fratelli poiché aveva il dubbio che non fossero realmente figli suoi, e uno dei fratelli picchiava spesso Sibilla per ottenere da lei denaro o beni mobili (come la macchina nuova). Come se non bastasse, racconta che il suo primo rapporto sessuale è avvenuto a 11 anni per una violenza sessuale e che la madre spesso usava con lei ricatti psicologici per farle pesare il fatto che non poteva mantenerla economicamente, spingendola così alla prostituzione attraverso

il senso di colpa che le instillava. All'età di 21 anni conosce un uomo di cui si innamora perdutamente proprio per l'atteggiamento di forza che mostrava e che avrebbe potuto "difenderla" dalle violenze dei suoi familiari; in realtà quest'uomo, che la introduce allo spaccio e all'uso di eroina, usava a sua volta violenza su Sibilla, che ciò nonostante è stata attratta da lui per quasi 10 anni, senza riuscire a separarsene definitivamente. Dunque, in pochi mesi Sibilla si sposa, interrompe i rapporti con la famiglia per la loro contrarietà alla relazione con quest'uomo, prosegue con il consumo quotidiano di eroina che era ormai diventato un modo per riempire quel vuoto che aveva sempre avuto e passa al consumo per via endovenosa fino al momento del suo primo arresto per spaccio, che la porta per diversi anni lontano dal marito, prima in carcere poi in comunità. Da quel momento inizia un percorso molto travagliato di ricadute e di periodi di astensione dall'uso; ricorda, ad esempio, l'astensione in corrispondenza delle due gravidanze e della nascita dei figli, e le ricadute successive al loro allontanamento e affido ad altre famiglie, ricadute che l'avevano portata nuovamente ad altri periodi in carcere e nelle comunità terapeutiche. Di fatto, Sibilla sostiene che in tutti questi anni non sono stati molti i mesi in cui realmente ha usato eroina, in quanto il suo fisico non ha mai retto la sostanza in quanto costantemente, dopo pochi mesi dalla ripresa dell'uso, si ritrovava a subire ospedalizzazioni per le overdosi - ne conta circa 5 - o per lo stato di denutrizione che subiva per la mancanza dello stimolo della fame. Nel corso dell'intervista, avvenuta in due colloqui molto lunghi (nel complesso, durati quasi 4 ore), Sibilla ha raccontato e approfondito con uno spirito fortemente critico molti altri particolari della sua biografia, in particolare: il rapporto con l'eroina, che considera ancora oggi una delle esperienze più belle della sua vita; la relazione con il marito, che considera una dipendenza fortissima paragonabile a quella dall'eroina e che l'ha portata a dover rinunciare anche ai propri figli; la nuova relazione con il suo attuale partner, un extossicodipendente conosciuto nell'ultimo percorso comunitario che, inizialmente, le aveva tenuto nascosto la sua sieropositività; soprattutto, l'esperienza di discriminazione e stigmatizzazione che una donna tossicodipendente subisce quando diventa madre. Cameron, madre, in carico al servizio da oltre 20 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista si rivela particolarmente difficile per l'ossessivo riferimento alle discriminazioni da lei subite da parte dei servizi sociosanitari, che a suo parere non l'hanno mai aiutata come avrebbero dovuto; questo vissuto di abbandono è pervasivo e adombra ogni aspetto della sua esperienza tossicomanica, che viene alla luce in modo frammentato solo su mia espressa sollecitazione. La storia di Cameron effettivamente presenta, fin dall'infanzia, vissuti di questo tipo; proveniente da una famiglia numerosa ed economicamente disagiata, caratterizzata dalla mancanza della figura paterna (che viveva lontano con un'altra famiglia), fin da piccola esperisce diverse esperienze di istituzionalizzazione, alternate con brevi affidamenti ad una zia e altrettanti rientri nella residenza materna, dove subiva spesso violenze fisiche da parte della madre, molto provata dalle sue esperienze matrimoniali e costretta a lavorare molto per poter mantenere i figli. L'ultima di queste esperienze di istituzionalizzazione si conclude, al compimento dei 18 anni, con l'espulsione di Cameron dall'istituto, la quale si ritrova sulla strada,

"senza una guida", "da sola ad affrontare una vita". In quel periodo sostiene di aver conosciuto una compagnia di persone dedite all'uso di sostanze, compresa l'eroina. Dunque, dapprima sperimenta l'uso di cannabinoidi e di roipnol (un farmaco per l'insonnia, usato senza alcuna prescrizione medica) con limitazione ai fine settimana e ai contesti ricreativi; in seguito, nonostante l'atteggiamento protettivo degli amici che non volevano coinvolgerla in tale esperienza, sperimenta l'uso di eroina per via endovenosa, che diventa quotidiano all'età di 21 anni a causa di un momento di particolare malessere che stava attraversando. Racconta che per potersi permettere la roba era costretta a darsi sessualmente alle persone che la aiutavano ad iniettarsi, in quanto lei non è mai stata capace di farlo da sola. Prosegue nell'uso per qualche anno, finché rimane incinta e decide di sospenderlo per il bene del bambino e da allora ha sempre alternato periodi anche lunghi di astensione dall'uso ad episodi di ricadute; racconta, in particolare, di un periodo di 8 anni successivo alla morte del marito in cui l'amore per un arabo le aveva permesso di dimenticare l'eroina, convertendosi all'islam. Se l'inizio dell'uso di eroina è motivato, nella sua ricostruzione, dal senso di solitudine e dal bisogno di appoggiarsi sempre a qualcuno, le diverse ricadute avvengono in periodi particolarmente difficili della sua vita caratterizzati, soprattutto, dalla mancanza di una attività lavorativa stabile e compatibile con il suo ruolo di madre; fattore che ha determinato, tra l'altro, l'affidamento del figlio ad un istituto a causa delle difficoltà economiche attraversate. Ora Cameron è astinente da qualche anno e continua il trattamento metadonico che le è di aiuto per affrontare la giornata e soprattutto per evitare di cedere alla tentazione di trovare un rimedio ai propri problemi con l'eroina, anche perché "alla mia età è anche difficoltoso sbattermi per fare la tossica, andare a cercarmi la roba...". Connie, madre, in carico al servizio da 17 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Connie ha alle spalle una lunga storia di tossicodipendenza - di quasi 30 anni iniziata all'età di 13 anni a causa della morte precoce del padre. Nei suoi racconti, infatti, attribuisce spesso a questo momento della sua vita l'inizio di questa sua forma di ribellione che l'ha portata ben presto a finire sulla strada e a condurre una vita completamente allo sbando; il padre costituiva la figura di riferimento in famiglia, colui che dava le regole e riusciva a tenere a bada la sua insofferenza, dunque alla sua morte, quando Connie aveva 13 anni, non c'è più stato nessuno in grado di darle un freno. Inizia proprio a quell'età a sperimentare l'uso di droghe, quindi inizia con i cannabinoidi, poi con le amfetamine, gli allucinogeni e le benzodiazepine usate a scopi non terapeutici, sperimentazioni sempre accompagnate dall'abuso di alcolici; a 15 anni sperimenta l'uso di eroina, fumata solo per qualche mese e poi consumata per via parenterale. Racconta che il consumo di queste droghe per i primi anni della sua vita si manteneva occasionale, limitato alle situazioni di incontro con la sua compagnia di amici, formata prevalentemente da uomini, tutti con problemi di abuso di droghe. Ancora minorenne, inizia anche a sperimentare la vita da strada per interi periodi, e all'età di circa 20 anni rimane incinta del figlio, forse uno dei pochi periodi della sua vita in cui è riuscita a mantenersi astinente dall'uso di sostanze, anche se per pochi mesi: racconta infatti che a un certo punto la situazione

ha cominciato a sfuggirle di mano, e dopo alcuni episodi che l'avevano vista drogarsi con il figlio vicino, decide di affidarlo lei stessa alla madre per evitargli questa forma di dolore. Descrive quel momento come un punto di rottura molto forte, in quanto questa separazione forzata dal figlio l'aveva fatta coinvolgere ancora più pesantemente con la droga, che se fino a quel momento rimaneva un comportamento nascosto poi degenera, portandola alla "luce del sole" con la prostituzione, la colletta per le strade, i furti e "tutto quello che una persona in quelle condizioni può fare". In realtà, sostiene di non aver mai accettato dentro di sé questa parte della sua identità e nonostante i livelli che raggiungeva in alcuni periodi pensava sempre al figlio e al dispiacere che creava alla madre; per questo motivo, molti sono stati i tentativi di inserimento comunitario che però non hanno mai dato risultati perché la sua insofferenza alle regole prima o poi riemergeva; almeno, è stato così fino all'ultimo periodo di comunità, che invece le ha permesso di trovare un certo equilibrio e smettere definitivamente con questa vita, per ragioni che non sa spiegare e che attribuisce al destino, alla provvidenza. L'intervista è resa un po' difficile dal linguaggio che usa, nel senso che si esprime esclusivamente in dialetto; a molte delle domande sostiene di non riuscire a dare una risposta, come se qualcuno avesse agito e agisse per lei senza il suo controllo. Si riferisce spesso, nel corso del colloquio, al figlio, ai problemi comportamentali che ora manifesta e che vagamente possono costituire una motivazione della sua recente astinenza completa dalle droghe, in quanto sente che ora deve iniziare a costituire un punto di riferimento per lui e deve cercare di risolvere i suoi problemi; approfondisce in modo particolare, inoltre, la relazione con un uomo tossicodipendente che è stato suo marito per 10 anni, fatta di violenze di ogni tipo, e della prostituzione, necessaria per vivere ma mai accettata come parte di sé. Charlotte, madre, in carico al servizio da oltre 20 anni con un programma terapeutico di Bassa Evolutività. La storia di Charlotte presenta un importante particolarità: l'eroina è stata per lei la sostanza d'esordio nel consumo di droghe, assunta per la prima volta a 14 anni per poter piacere ad un ragazzo di cui si era innamorata, più grande di lei di quasi 10 anni, tossicodipendente e spacciatore; pensava che un comportamento di questo tipo non le avrebbe certo fatto male, le avrebbe permesso di non apparire ai suoi occhi come "la piccolina del gruppo" e di entrare in sintonia con lui. Racconta che già a quell'età era autonoma, essendosi trasferita a vivere da sola a 13 anni in seguito alla scoperta di una relazione extra-coniugale del padre e avendo fin da subito iniziato a lavorare; prima di allora, sostiene che i rapporti familiari erano freddi, che essendo sempre stata brava a scuola i genitori non le davano l'attenzione necessaria pensando che fosse in grado di cavarsela da sola. Dunque, fatte le sue prime esperienze di consumo di eroina, Charlotte inizia una relazione sentimentale con questo uomo che dura per 10 anni, fino alla sua morte per Aids, e fin dai 15 anni intraprende un'importante attività di spaccio, divisa tra alcuni paesi esteri in cui comperava la roba e l'Italia in cui la smerciava, senza peraltro mai subire conseguenze legali grazie al suo aspetto fisico da bambina che la rendeva insospettabile alle forze dell'ordine. La sperimentazione delle altre sostanze - cannabinoidi, Lsd, oppio, cocaina, amfetamine avviene tra i 19 e i 22 anni mantenendosi occasionale nella frequenza; la ragione di questa

sperimentazione risiedeva nella scoperta di essere sieropositiva e di non aver più nulla da perdere, visto che pensava che con questa malattia sarebbe comunque andata incontro alla morte precoce. Il consumo di eroina, al contrario, non è mai stato abbandonato da Charlotte, tanto che anche ora, occasionalmente e nonostante la terapia metadonica, si concede il piacere di farsi una pera, a cui assegna una funzione essenzialmente edonistica, sostenendo di non averla mai utilizzata per non pensare ai propri problemi ma proprio per il benessere e le sensazioni che ne derivavano. Racconta che il periodo più lungo della sua vita senza l'eroina è stato in seguito alla 2° gravidanza, che le aveva fatto pensare di dover uscire definitivamente dal giro, intraprendendo un percorso comunitario, per non rischiare di diventare una "tossica da piazza", status evitato per oltre 20 anni in cui era stata in grado di nascondere la sua tossicodipendenza mantenendo un'immagine sociale adeguata e un buon livello di integrazione sociale. Nell'intervista, ottenuta dopo molti tentativi di aggancio sfumati per il suo carattere "sfuggente", si approfondiscono in modo particolare le tematiche della sieropositività, delle maternità e delle relazioni con i figli, entrambi affidati ad altre famiglie. Valerie, madre, in carico al servizio da 18 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Si è avuto già modo di accennare nelle considerazioni etiche delle vicissitudini legate al rapporto biografico con Valerie; dopo un primo colloquio, nel quale Valerie aveva raccontato la sua biografia con una capacità di introspezione e una ricchezza di particolari alquanto rare, al secondo colloquio di approfondimento si rifiuta di effettuare l'intervista, presa in modo particolare dai problemi concreti derivanti dalla gestione del figlio, che sta allevando da sola, e soprattutto delle varie spese che quotidianamente deve affrontare con entrate economiche limitate rispetto al bisogno. Nel corso di entrambi gli appuntamenti, Valerie afferma che il suo problema più grande è quello di non riuscire ad avere una progettualità, di vivere un po' alla giornata e di non sapere come fare a risolvere questa situazione che si trascina ormai dall'adolescenza. Racconta che ha vissuto un'infanzia serena, in una specie di paradiso dove i rapporti con i genitori e i tanti fratelli erano fonte di protezione e serenità; tuttavia, soprattutto i genitori, avevano una mentalità molto concreta, centrata sul "fare" più che sul "parlare", mentre lei aveva bisogno di manifestazioni di affetto e, soprattutto, di una guida che le spiegasse come doveva affrontare le situazioni. Quando i fratelli lasciano il nucleo familiare, Valerie inizia a sentirsi un po' allo sbando e a ricercare all'esterno figure di riferimento da cui ricevere questo affetto, che prevalentemente erano figure maschili. Quindi, i primi contatti con le droghe avvengono in questa sorta di "gioco", come lo definisce, e per una serie di "casualità" che le si presentano, di cui non era in grado di comprendere la portata e il rischio, perché le mancava questa guida: a 15 anni sperimenta l'uso di cannabinoidi e a 17 anni inizia a fumare saltuariamente eroina, per pochi mesi. Incontra poi un uomo che a 20 anni diventa suo marito, con il quale trascorre 3 anni di astinenza totale dalle sostanze, ma comunque con una irrequietudine di fondo che la porta a cercare relazioni con altri uomini, sempre basate sul sesso perché quella era l'unica forma di comunicazione con il genere maschile che la faceva sentire bene. Dunque, lascia quel contesto protetto della relazione coniugale e ritorna ad utilizzare

eroina, questa volta per via endovenosa, come se avesse "la mente spaccata in due": l'esigenza, da un lato, di protezione e tranquillità, e la spinta alla ricerca del proibito e della sfida, dall'altro. Trascorre, quindi, diversi anni a drogarsi, in modo controllato, in quanto afferma di non aver mai voluto eccedere anche per l'attività lavorativa che costituiva un valore importante nella sua vita; finché, in seguito ad una overdose, intorno ai 30 anni, decide di intraprendere un percorso comunitario, proseguito per diversi anni con successo fino alla morte del padre, momento nel quale ha di nuovo una ricaduta a causa del rapporto conflittuale che si era creato con lui quando, entrata in comunità, la sua tossicodipendenza era venuta alla luce. La gravidanza successiva, avvenuta per una relazione occasionale con un uomo incontrato in un locale, e il suo ruolo di madre hanno costituito per lei il motivo principale dell'astensione definitiva dall'uso di droghe, nonostante tutti i problemi concreti che ritiene di non essere in grado di affrontare e la mancanza di una figura maschile che le stia accanto, per la quale soffre in modo particolare. Bonnie, in carico al servizio da 18 anni con un programma terapeutico di Bassa Evolutività. L'intervista con Bonnie è stata molto difficile per il momento di forte depressione che stava attraversando e i suoi iniziali timori riferiti alla tutela dell'anonimato; i suoi discorsi erano particolarmente frammentati e confusi, senza un ordine cronologico preciso e inframezzati da molte pause di silenzio. Racconta di provenire da una famiglia molto ricca, con un'attività a conduzione familiare che le ha garantito un notevole benessere economico, un'educazione buona e soprattutto un lavoro stabile. Questa condizione economica, a suo dire, l'ha in qualche modo fregata", in quanto dopo l'esordio nel consumo di droghe la disponibilità di denaro le ha permesso di mantenersi a lungo tale abitudine, consumandole da subito in grandi quantità ma mantenendo al contempo un'immagine sociale dignitosa, di ragazza facoltosa e ligia al dovere. L'incontro con le droghe avviene a 17 anni con l'uso di cannabis, sperimentata per la stanchezza di avere solo doveri correlati all'attività lavorativa familiare, dunque per concedersi una qualche forma di evasione. Il punto di rottura avviene poco più tardi con la morte del padre, descritto come colui che le dava delle regole; la mancanza di questo punto di riferimento affettivo la porta a concedersi di provare l'eroina, assunta per inalazione, che un suo amico le aveva offerto per `farmi stare meglio"; l'uso di tale sostanza diventa subito quotidiano, proprio grazie al benessere che le permetteva di raggiungere, e dopo poche settimane Bonnie sperimenta l'uso endovenoso. A 25 anni, inoltre, inizia ad avere dei problemi pesanti con l'alcol, che tuttora assume in modo incontrollato per cercare di non pensare ai propri problemi e che riconduce essenzialmente ad un malessere interiore che l'ha sempre accompagnata in tutta la sua vita. Come altre donne intervistate, Bonnie afferma di essersi sempre sentita "sdoppiata", come se convivessero in lei due personalità opposte che non riescono a trovare un equilibrio; una trasgressiva e ribelle, vissuta nel privato, l'altra perfettamente aderente alle aspettative familiari e sociali, vissuta nel pubblico. Nell'intervista si approfondisce in modo particolare l'esperienza comunitaria, che l'ha portata ad un lungo periodo di astensione dalle droghe di 5 anni, e le specificità di genere nella tossicodipendenza, in riferimento ad alcuni episodi che riferisce nel racconto della sua storia (aborto, molestie sessuali).

Angie, in carico al servizio da 17 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Ottenere l'intervista con Angie non è stata un'operazione facile, in quanto già dai primi contatti ha manifestato, in modo quasi ossessivo, il suo timore di non essere sufficientemente tutelata dall'anonimato e, soprattutto, di vedere i suoi discorsi stravolti da possibili interpretazioni distorte delle sue esperienze. Dopo numerosi contatti che l'hanno rassicurata su tutta la procedura che avrei osservato scrupolosamente, Angie concede l'intervista entrando poco nella sua esperienza personale e parlando spesso in terza persona su ciò che crede sia in generale la tossicodipendenza e su come una persona lo possa diventare. Racconta di aver iniziato a 21 anni in modo del tutto casuale con l'eroina, per curiosità e come forma di condivisione delle esperienze ricreative del fine settimana con il suo gruppo di amici. Prima di allora, aveva provato a fumare qualche canna, con le stesse motivazioni, ma mi invita a non tenerne conto perché le teorie che ipotizzano il passaggio necessario dalle droghe leggere alle droghe pesanti sono totalmente inattendibili. Dunque, per oltre 5 anni riesce a gestire perfettamente l'uso di eroina con le normali attività quotidiane, mentre a 25 anni inizia un percorso di coinvolgimento con la sostanza che non riesce a spiegarsi con eventi particolari che le sono capitati, se non per il fatto che era una cosa che le piaceva a tal punto da richiederle di farlo sempre più spesso. Nell'intervista, approfondisce, quindi questi lenti passaggi che l'hanno progressivamente portata alla dipendenza; sostiene di aver comunque mantenuto la lucidità necessaria a non passare all'uso endovenoso e a non essere costretta a compiere attività illegali per mantenere l'abitudine all'eroina; la fonte principale di entrate economiche è sempre stata il lavoro, e quando ha percepito che poteva prima o poi arrivare a superare i limiti della legalità si è rivolta al Sert per chiedere aiuto ed assumere il metadone, che ora inizia ad essere per lei problematico per la dipendenza psicologica che le crea. Felicia, in carico al servizio da 19 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Felicia racconta che fin da piccola si è sempre sentita un "maschiaccio" in quanto frequentava compagnie di amici costituite quasi esclusivamente da uomini che le avevano insegnato a non esprimere mai sentimenti e desideri e a vivere la vita alla leggera; nell'ambiente familiare, inoltre, si è sempre sentita poco accettata perché proveniva da una famiglia molto numerosa da cui ritiene di non aver ricevuto la giusta attenzione, che invece trovava in questo gruppo di amici. L'avvicinamento alle sostanze era, dunque, motivato dall'esigenza di sentirsi parte del gruppo, dapprima, a 15 anni, fumandosi canne, e a 16 anni usando eroina, fin da subito per via endovenosa; l'eroina le permetteva di non pensare ad altre cose e concentrarsi sullo stato di benessere che provava in quel momento, oltre al fatto che tutte le attività quotidiane ad essa correlate, per quanto sbagliate, colmavano il suo bisogno di concretizzare qualcosa nella vita. Per diversi anni è riuscita a mantenere un uso ricreativo limitato ai fine settimana con gli amici e una piena compatibilità con le attività lavorative e con l'immagine sociale che aveva sempre avuto; a 26 anni, la situazione inizia a sfuggirle di mano e a "caderci dentro completamente con la mente", nella sua interpretazione a causa della mancanza di capacità di risolvere i problemi e riflettere indotta proprio dall'uso di sostanze e, forse, dal suo senso di isolamento relazionale che

tuttora le condiziona la vita. Racconta di non aver mai completamente accettato l'identità di tossicodipendente, e nemmeno la vita che era costretta a condurre, tanto che cercava sempre di nascondersi quando usava droghe perché aveva il terrore di essere scoperta; così, per potersi sostenere non ha mai svolto attività illegali, ma si univa a persone ricche di una certa età che le davano molto denaro, pur sapendo che in fondo era una relazione strumentale priva di qualsiasi forma di trasporto sentimentale. Nel corso dell'intervista Felicia fa spesso riferimento al senso di isolamento relazionale che ha sempre provato in Trentino, per la freddezza delle persone e la loro incapacità ad aprirsi agli altri; e, purtroppo, questa chiusura che percepiva la portava spesso a ricadere nella frequentazione delle stesse amicizie del giro, sentite come maggiormente simili a lei, e dunque a ricadere nei comportamenti d'uso di droga. Successivamente all'eroina, sperimenta cocaina, alcol fino all'intossicazione e farmaci ipnotici iniettati in vena ma sempre e solo in funzione compensatoria di questa sostanza; racconta, infatti, che nei molti periodi in cui non si riusciva a trovare eroina sul mercato, gli spacciatori le vendevano questi psicofarmaci che l'hanno distrutta fisicamente e creato quelle "schifezze" di segni sulla braccia, che son sempre lì a ricordarle il passato trascorso. Nel corso dell'intervista, nella quale Felicia precisa che i racconti sono frutto di una sua rielaborazione perché non le viene di raccontare precisamente quello che ha vissuto, si approfondisce in modo particolare il rapporto conflittuale con la terapia metadonica, le relazioni interpersonali e la sua sensazione di avere una doppia vita e una doppia personalità, elemento che emerge da numerose altre interviste effettuate. Cher, in carico al servizio da 27 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. Nella ricostruzione della sua biografia, Cher parte da subito a raccontare il momento della sua prima "pera", avvenuto a 17 anni per una curiosità che da tempo maturava; sebbene già a 15 anni avesse avuto i primi contatti con la cannabis, che per alcuni periodi consumava anche da sola e in modo massiccio, precisa che non lo ritiene un fatto che possa aiutare a comprendere la sua storia poiché non vede alcuna correlazione tra le due droghe. Erano gli anni '80, e sentendo continuamente parlare del buco le era venuta la curiosità di capire cosa fosse realmente, dunque convince un amico a mostrarle come si faceva e, non sentendo alcun effetto, si è sentita in dovere nei giorni successivi di riprovare perché "dici, non è possibile che sia tutto li". Inizia così un percorso molto lungo di tossicodipendenza, che dalle sue quantificazioni nel complesso ammonta ad una ventina di anni, se si tolgono gli anni di carcere e di astensione dall'uso per altri motivi; uno di questi motivi è stato, intorno ai 20 anni, il suo innamoramento di una persona non tossicodipendente che le aveva imposto un out out, e che tra l'altro le costa l'espulsione dal nucleo domestico perché quest'uomo non piaceva al padre. Questo periodo dura circa 3 anni, poi all'esaurirsi di questo amore si verifica la ricaduta nell'uso di eroina. É interessante notare, tra l'altro, in questa sua storia che l'uso della sostanza era fortemente legato al contesto, al suo luogo di origine; su questo aspetto ci si sofferma in modo particolare, poiché per diversi anni, nei primi della sua dipendenza, Cher ha lavorato per interi periodi all'estero, e in questi periodi dice di non aver per nulla fatto fatica a rimanere astinente, mentre non appena si accingeva a rientrare in città in automatico riprendeva con i soliti giri, fatti fondamentalmente di spaccio e di uso. Sostiene

che le ricadute nell'uso sono avvenute poiché implicitamente conferiva a questo comportamento un significato di fuga e di attesa che gli eventi le portassero qualcosa di positivo, e sintetizza questo atteggiamento che tuttora ha con una frase molto evocativa: "è come se fossi sul bordo di una piscina e cosa faccio? Mi butto o non mi butto? Bè, intanto cammino sul bordo... e aspetto che mi caschi una tegola in testa". Nel corso dell'intervista si approfondiscono in modo particolare le sue interpretazioni della tossicodipendenza e lo stigma che ha sempre sentito pesare in modo particolare su di lei, oltre che al peso da lei attribuito al contesto e alle relazioni stabilite nel luogo d'origine, familiari e non. In lei è particolarmente evidente la tendenza a spiegarsi in funzione delle interpretazioni che gli psicologi hanno dato dei suoi comportamenti, tanto che ad una mia domanda diretta su come la pensava invece lei, mi risponde: "io penso che se veramente è così, veramente è meglio che qualcuno mi faccia il lavaggio del cervello, eh!". Brooke, in carico al servizio dal 2000 con un programma terapeutico di Follow Up. La storia di Brooke presenta diversi tratti anomali rispetto alle altre storie di tossicodipendenza presentate in questa sede. Racconta di provenire da una famiglia benestante che definisce un po' "snob", in quanto tutti i suoi membri dovevano sempre mostrare di avere un'immagine sociale perfetta, senza alcuna macchia; per questo motivo, in virtù anche del fatto che fosse una ragazza, il padre aveva un metodo educativo molto rigido a livello di rientri ed uscite serali, di performance scolastiche e di frequentazioni amicali delle figlie, cui era fatto assoluto divieto di avere il ragazzo per evitare possibili "incidenti di percorso". Dunque, Brooke cresce comunque con questa sofferenza di non poter fare ciò che facevano le sue amiche, che però rimane sullo sfondo in quanto, di fatto, l'immagine di figlia e ragazza perfetta dopo tutto le si addiceva. Alla morte del padre, avvenuta ai suoi 25 anni, si è sentita liberata di un peso che la costringeva entro delle regole impossibili, e si ritrova ad avere tutta la libertà che prima le era negata senza però essere in grado di gestirla. In realtà, l'uso di droghe arriva molto più tardi, quando aveva 30 anni, e per ragioni che apparentemente sembrano slegate da questo passato familiare e più legate alla sua incapacità di accettare, per sé, il fallimento; infatti, racconta che era riuscita a realizzare il suo sogno di aprire un'attività economica in proprio, ed era stata proprio la paura di non riuscire a portarla avanti dignitosamente che l'aveva fatta accostare dapprima allo spaccio di cocaina, poi al suo consumo diventato presto fuori controllo. Dunque, intraprende a 30 anni questa attività di spaccio organizzata nei minimi particolari, ed inizia a crearsi da sola la rete di persone a cui venderla e soprattutto con cui consumarla, costituita da ragazzini più piccoli di lei per i quali si sentiva una leader, una posizione sociale cui ambiva e che non le faceva percepire il reale pericolo che correva. Era ricercata sempre da tutti, frequentava questi gruppetti di persone con cui andava anche alle feste e in discoteca, e dove le era capitato di provare anche ecstasy, cannabinoidi ed eroina, ma queste due ultime si sono fermate allo stadio di sperimentazione in quanto "impaccavano", davano un effetto completamente diverso da quello che voleva ottenere lei nella sua qualità di boss. Per circa 2 anni prosegue con questa che definisce una "doppia vita", per cui durante il giorno era la brava donna che gestiva un'attività e che aveva buoni rapporti con madre e familiari, e la sera e la notte viveva da spacciatrice nei locali del nordest; l'idillio, che

peraltro già stava cominciando a stancarla, finisce con il suo arresto con l'imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, che la porta prima in carcere e poi in comunità. Mentre il carcere era vissuto con una certa tranquillità, come se non vivesse realmente la situazione ma si vedesse da spettatrice, la comunità è stata per lei un momento di grande sofferenza, in quanto si era ritrovata con un sacco di persone con cui non aveva niente da spartire perché certo non si riteneva una tossica, perché i tossici usano le siringhe e fisicamente ne mostrano i segni. Dalla fine del percorso comunitario, che riesce a portare a termine con successo, si mantiene sempre astinente da qualsiasi droga, fino al momento dell'intervista. Le sue ricostruzioni sono centrate sul tema dell'identità, aspetto su cui ci si sofferma in modo particolare anche in virtù dei profondi cambiamenti attuati nel percorso comunitario: se le interpretazioni dell'origine familiare della tossicodipendenza sono state dapprima negate, sia per l'incapacità di riconoscersi tossicodipendente che per il non riconoscimento di avere avuto problemi risalenti all'infanzia con i genitori, poi diventano parte integrante dell'interpretazione di sé in rapporto con gli altri, dopo un lungo periodo di destabilizzazione in cui non sapeva proprio più chi fosse realmente. Sheila, in carico al servizio da 22 anni con un programma terapeutico di Follow Up. Sheila è ormai astinente dall'eroina da 10 anni, e si reca sporadicamente al Sert per un follow up sulla sua situazione sanitaria; sostiene che, tra l'altro, non gradisce farsi vedere al servizio, né tantomeno rivedere le persone che erano nel giro con lei e che sono ancora in quella situazione, non tanto per la paura di ricaderci a sua volta quanto per la tristezza di vedere che persone della sua età non sono ancora diventate consapevoli del problema e non sono riuscite a superarlo. Nell'intervista con Sheila è abbastanza difficile riuscire a raggiungere un buon livello di approfondimento della sua biografia in quanto, come lei stessa afferma, cerca sempre di dimenticare quel passato in cui ha perso tempo e possibilità di realizzare qualcosa nella vita; spesso volge i discorsi in forma impersonale, sostenendo le tesi comuni su quello che si dice della vita dei tossicodipendenti ed evitando il racconto di ciò che realmente ha vissuto. Dunque, a parte gli sporadici episodi di consumo di cannabinoidi in adolescenza, sui quali non si sofferma perché li ritiene scarsamente significativi ("è un po' come bersi qualche birra al bar"), l'avvicinamento all'eroina avviene quando, a 20 anni, si innamora di un ragazzo che più tardi scopre essere tossicodipendente. La curiosità di sperimentare la sostanza la porta a provarla all'insaputa del ragazzo, che quando lo scopre ha inizialmente un atteggiamento di rifiuto, perché aveva sempre cercato di proteggerla dalla droga; ben presto, diventa però il collante della relazione ed una delle esperienze da condividere nella coppia. Il primo anno con l'eroina trascorre serenamente, anche perché Sheila ha la fortuna di avere un ragazzo che la ama, una casa con lui, e un'attività lavorativa che le dà soddisfazione; poi inizia ad avere la percezione di esserne diventata dipendente in quanto la sostanza iniziava ad interferire con le normali attività quotidiane, che potevano essere seguite solo ed esclusivamente da `fatta". In particolare, questa sensazione si acuisce con il suo passaggio all'uso endovenoso, avvenuto dopo questo primo anno di sperimentazione sia per questioni economiche sia per le voci che sentiva nell'ambiente sugli effetti amplificati di questa

modalità d'uso; benché ricavasse il denaro dall'attività lavorativa, sua e del compagno, da qualche furto in casa e da un grosso risarcimento danni per un incidente stradale, la situazione stava iniziando a diventare insostenibile a livello economico tanto da richiedere una strategia d'uso alternativa. In seguito, cerca di disintossicarsi da sola acquistando metadone sul mercato nero, ma non riesce nel suo intento, e poco dopo inizia una terapia al Sert, con tutto il sostegno della famiglia che, quando ne viene a conoscenza, assume un atteggiamento protettivo. É importante, nella sua storia, il fatto che per molti anni alterna periodi all'estero, nei quali senza fatica si mantiene astinente, a periodi di rientro in Trentino, sempre caratterizzati dalla ricerca spasmodica delle persone e dei contesti collegati all'esperienza tossicomanica. Tuttavia, riesce comunque a preservare un'immagine sociale `pulita", anche grazie alle sue capacità di mantenere nel tempo le relazioni sociali con persone estranee al mondo della droga, aspetto a cui attribuisce un significato importante nel suo percorso verso la remissione definitiva. Le over 45 anni Joy, madre, in carico al servizio da oltre 20 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista con Joy si è svolta in due colloqui molto lunghi (circa 4 ore complessive) e molto emotivi per la gravità delle esperienze che l'hanno messa a dura prova già a partire dai suoi 20 anni; spesso, inoltre, negli incontri settimanali presso il Sert ho avuto modo di riprendere alcuni aspetti dei suoi racconti, incentrati in modo particolare sullo stigma, la discriminazione e la povertà ed una capacità di contestualizzazione storica e generazionale estremamente spiccata. L'accesso al mondo delle droghe avviene agli inizi degli anni '80, quando ancora non si sapeva nulla dell'eroina e delle conseguenze del suo consumo. Racconta che in quel periodo si innamora di un uomo che pian piano si rivela essere un tossicodipendente; inizialmente, avendo una vaga percezione che potesse costituire un problema, Joy cerca invano per qualche mese di tirarlo fuori dal giro, ma ben presto le viene la curiosità di provare a sua volta a farsi per capire cosa realmente attirava il suo compagno. E da questa iniziale curiosità, passa rapidamente all'uso quotidiano, ed endovenoso, di eroina perché effettivamente le dà delle sensazioni che non nessun'altra esperienza le concede. Non passa molto tempo tra questa sperimentazione e l'arresto per spaccio, che le costa la sua prima galera e l'espulsione definitiva dall'ambiente familiare; sostiene che la sua era famiglia "vecchio stampo" in cui "i problemi era meglio non vederli che affrontarli", e che alla scoperta della tossicodipendenza della figlia aveva avuto questa reazione, che poi si è mantenuta nel tempo senza mai risolversi in una riappacificazione. In seguito al periodo carcerario, esce e riprende a farsi vivendo da amici del giro o per strada, e iniziando a prostituirsi per guadagnare più soldi ed evitare le conseguenze legali che lo spaccio le aveva causato; conosce, quindi, un altro uomo tossicodipendente di cui si innamora e con il quale concepisce 2 figli, che però mostra ben presto di essere una persona inaffidabile, sia nei suoi confronti (se ne stava sempre in giro con altre donne e non era mai a casa con lei) sia nei confronti dei figli (sostenendo che tanto i bambini non capiscono e se ne possono anche stare soli). Rimanendo sola con due figli, inizia la sua odissea per poterli mantenere, dar loro una casa

e una vita dignitosa, sempre in contrasto con dei servizi che non riescono a comprendere le sue reali, benché minime, esigenze; dunque, non riuscendo a conciliare le poche opportunità lavorative che si presentano con il suo ruolo di madre, riprende a prostituirsi per poter assicurare un minimo vitale ai suoi figli, e questa azione ha come conseguenza il loro allontanamento e la loro adozione immediata. Joy racconta che fino a quel momento aveva fatto interi periodi di astinenza dall'uso, oltre che nei periodi di carcere (ne aveva fatti altri a causa di "infami" che avevano fatto il suo nome, senza che fosse realmente coinvolta nelle situazioni) anche in corrispondenza dei primi anni di vita dei figli; dopo l'adozione dei figli, per qualche anno ricade però nell'uso massiccio di eroina perché il dolore era insopportabile, e in molti momenti pensava che l'unico rimedio ai suoi problemi potesse essere l'overdose. Il contatto con il Sert, poi, le ha fatto prendere coscienza dell'importanza dell'astinenza completa - ed ormai sono più di 3 anni che si mantiene astinente - in vista dell'obiettivo di "ripulirsi" per poter rivedere i suoi figli al raggiungimento della loro maggiore età. Come anticipato, in ogni suo racconto emerge con forza il senso di discriminazione e lo stigma da lei subito dapprima come prostituta, poi come tossicodipendente ma soprattutto come madre tossicodipendente, in famiglia, sul lavoro e con i servizi socio-sanitari; i colloqui, quindi, si centrano sulle prime esperienze con l'eroina e l'influenza in essa della figura maschile, sui periodi carcerari e sulle gravidanze, la maternità e l'adozione dei figli. La sua disponibilità a farsi da mediatrice con donne di sua conoscenza che fanno uso di eroina e non sono mai pervenute in trattamento non ha sortito effetti per il rifiuto di queste donne di conoscermi. Brenda, madre, in carico al servizio da 15 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. La storia di Brenda è atipica in quanto l'uso di eroina in tutta la sua vita ha riguardato un periodo brevissimo, di circa un anno - ricadute comprese. Racconta di provenire da una famiglia anaffettiva, che non pensava minimamente ai suoi bisogni poiché riteneva che fosse abbastanza intelligente per cavarsela da sola. I temi dell'esclusione dalle scelte familiari, del rapporto conflittuale con i genitori che non dimostravano mai il loro affetto, del senso di colpa nei loro confronti unito al tempo stesso al risentimento per i loro comportamenti, attraversano in modo quasi ossessivo tutta l'intervista, caricandola di una tensione particolare, come già descritto nel capitolo sulle considerazioni etiche. Dunque, Brenda rimane in famiglia fino all'età di 26 anni, lavorando molto e dando tutto il denaro guadagnato in famiglia come era d'uso fare nelle famiglie vecchio stampo; conosce poi un uomo con cui concepisce un bambino e con cui a quell'età si trasferisce a vivere e poi si sposa, lasciando così i genitori che, a detta sua, non le hanno mai perdonato questo fatto. Il marito era un uomo dedito all'uso di droghe e, soprattutto, all'attività criminale, prevalentemente basata sullo spaccio; fino a che il figlio ha 7 anni, la loro vita procede senza che Brenda si ponesse dubbi su ciò che faceva il marito, anche perché pur avendo dei sospetti che non fosse così pulito, sosteneva di amarlo al punto di dovergli star vicino qualsiasi cosa succedesse. Al momento della sua carcerazione, Brenda inizia a mostrare i primi segni di cedimento psicologico, in quanto tutt'a un tratto si rende conto della persona che aveva sposato, leggendo tutte le sentenze che lo riguardavano e parlando con le forze dell'ordine.

Dunque, inizia ad intrattenere con la vicina di casa dei rapporti più frequenti rispetto a prima, e questa vicina la convince a fare quello che faceva il marito", per star meglio sia economicamente che psicologicamente. Così è stato: inizia a tirare eroina per qualche mese ed entra nel grosso giro di spaccio che prima era nelle mani del marito per poter riuscire a mantenere dignitosamente il figlio. Conosce poco dopo un ragazzo più giovane, tossicodipendente, con cui intrattiene un rapporto sentimentale molto profondo e che la fa passare, seppure per pochi mesi, all'uso endovenoso della sostanza. Il ricorso al servizio avviene pressoché subito, poiché in seguito ad una segnalazione viene obbligata a rivolgersi al Sert e, di lì a poco, ad intraprendere un percorso comunitario (con il figlio) che dura ben 6 anni. L'uscita dalla comunità è motivata dalla scoperta di avere un tumore, evento che si verifica in concomitanza con altri due episodi per lei traumatici, ovvero la morte del padre e la separazione definitiva dal marito; la ricaduta seguente a questi episodi dura solo 2 mesi, poiché subito si rende conto che non ha senso riprendere quella strada. Nel corso dell'intervista il tema del senso di colpa viene approfondito in modo particolare, non tanto per i miei obiettivi di ricerca quanto per la sua tendenza a mettersi costantemente in questa posizione auto-giudicante; sostiene di non essere mai stata una "cretinetta", di aver sempre avuto la testa sulla spalle ma che purtroppo il fatto di avere una famiglia come la sua le ha condizionato pesantemente la vita. Il senso di colpa emerge soprattutto nei confronti del figlio, in particolare per il primo periodo in cui l'uso di eroina aveva condizionato un po' le sue capacità di madre; emerge, inoltre, verso i genitori, per la sua consapevolezza di averli messi nella vergogna per il comportamento che ha avuto, verso il bambino che ha abortito prima di avere l'attuale figlio e verso quel ragazzo con cui aveva avuto una breve relazione sentimentale e con cui era arrivata al buco, in quanto sostiene che la sua morte di overdose era dovuta al dispiacere per l'ingresso di Brenda in comunità. Darla, madre, in carico al servizio da 4 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista con Darla è resa difficoltosa da un suo grave problema fisico che le provoca molto dolore e su cui spesso ritorna per parlare del senso di sconforto che in periodi come questi la invade, facendole pensare di non aver nulla di perdere tornando a farsi. Racconta di aver trascorso tutta la sua infanzia in collegio, prima, e in affidamento da una signora, a partire dai 14 anni fino alla maggiore età, a causa della morte precoce della madre durante il parto; tale esperienza è stata vissuta in modo positivo per la presenza di una guida nei momenti critici della sua adolescenza, che le ha pennesso di sviluppare un forte senso della socialità che non l'ha mai abbandonata in tutto il suo percorso di vita. Questa spinta alla socializzazione l'ha portata a 18 anni a sperimentare l'uso di cannabinoidi, rimasto confinato a situazioni di gruppo e investito di un senso più ampio di condivisione delle esperienze, e alla stessa età conosce un uomo con il quale si trasferisce e concepisce un figlio; a pochi mesi dalla nascita del bambino, in circostanze che non si è avuto modo di approfondire, il compagno si trasferisce da sua madre con il bambino e in quel momento, per riuscire a non pensare al dolore provocato dalla separazione dal figlio, Darla inizia a bere alcolici fino all'intossicazione fino ad arrivare, a 20 anni, all'uso di eroina per via nasale e a 24 anni all'uso endovenoso. A differenza dell'alcol, l'eroina le permetteva di

preservare l'immagine sociale che aveva sempre voluto e avuto, in quanto era perfettamente compatibile con il suo modo di essere e con lo svolgimento delle normali attività quotidiane, mentre non si sentiva a suo agio nel ruolo di "ubriacona" che rifletteva, a se stessa come agli altri, "un 'immagine squallida". Il ricorso al Sert (di un'altra città italiana) è precoce, ed avviene l'anno successivo all'inizio dell'uso di eroina; sebbene ci siano stati lunghi periodi di astensione completa dall'uso di droghe, in corrispondenza dell'esperienza carceraria e dell'inserimento comunitario, racconta che le diverse situazioni che ha dovuto affrontare l'hanno portata più volte a ricaderci. Le motivazioni che adduce sono molto complesse: innanzitutto, la funzione autoterapica di cui era investita la sostanza, in secondo luogo, la mancanza del gesto dell'iniettarsi la roba (tanto che si portava sempre nella borsa la siringa, anche nei periodi di astinenza), e infine per il senso di accettazione sociale di cui godeva quando si faceva: per potersi permettere l'acquisto di eroina, Darla era infatti diventata un'abile spacciatrice intorno a cui gravitavano diverse persone che avevano stima di lei, e nei periodi di astensione non era riuscita a ritrovare in altri gruppi un senso di accettazione sociale simile a questo. Questi aspetti vengono approfonditi in modo particolare, accanto alla questione dell'immagine sociale nei confronti delle persone "normali" che è risultata centrale nelle sue rievocazioni. Agnes, in carico al servizio da 7 anni con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. L'interesse per la storia di Agnes è nato non tanto per la sua condizione di tossicodipendente quanto per la sua identità di transessuale e gran parte dell'intervista ha riguardato in modo particolare questo suo sentirsi donna nel corpo di un uomo, le sue definizioni di femminilità e mascolinità, e le sue interpretazioni delle differenze di genere nella tossicodipendenza. Agnes racconta che fin da bambina sapeva che in lei c'era qualcosa di non "normale" perché faceva i discorsi che facevano le sue amiche femmine, le piaceva vestirsi come loro e soprattutto provava attrazione per gli uomini; a 14 anni aveva già le idee chiare sulla sua vera identità, che ha cercato di nascondere per il quieto vivere della madre con cui aveva un rapporto molto conflittuale, almeno fino ai 17 anni quando decide di andare a vivere da sola e concedersi la libertà di essere come si sente realmente e non come i falsi moralismi paesani vorrebbero. Da quel momento la sua identità sessuale viene pubblicamente dichiarata, anche per l'inizio della sua attività di prostituzione da strada che non rappresenta solo un modo per poter guadagnare molto denaro in poco tempo, ma soprattutto per sentirsi apprezzata, per poter essere amata e cercata da un altro uomo proprio per la sua particolare sessualità. L'uso di droghe è sempre stato, fin da quel momento, funzionale a tale stile di vita: in particolare, l'uso quotidiano di cocaina, che le pennetteva di avere la carica giusta per poter essere all'altezza del suo lavoro, e che al tempo stesso poteva essere mantenuto nel tempo senza difficoltà proprio tramite questo lavoro. Così, dai 17 anni fino ai 40 anni Agnes fa un uso massiccio di tale sostanza, arrivando poi all'eroina in modo del tutto casuale: una sera, in un locale, in seguito ad una crisi dovuta all'eccitazione eccessiva della cocaina, una persona le propone di fumare eroina come antidoto a quello stato di malessere. Lo stato di benessere che l'eroina le aveva dato era proprio quello che cercava in quel momento, stanca della vita frenetica che stava conducendo; dunque, prosegue per

qualche anno a fumare tale sostanza finché decide di ricorrere al servizio perché la disponibilità economica che aveva rischiava di coinvolgerla ulteriormente e i suoi tentativi autonomi di disassuefazione con metadone acquistato sul mercato nero non davano esiti positivi. Gli anni successivi sono caratterizzati da una breve esperienza carceraria e da alcuni inserimenti comunitari, nel primo dei quali conosce l'attuale compagno, presente tra l'altro nella fase finale dell'intervista; questa figura maschile è particolarmente significativa per Agnes, tanto che spesso nel corso dell'intervista si riferisce alla sua storia personale parlando al plurale, sostenendo che la reale motivazione della sua astinenza definitiva dall'uso di eroina è motivata proprio da questa relazione. Spesso ho avuto modo di incontrare di nuovo Agnes in situazioni informali e di approfondire con la stessa inforinalità alcuni aspetti della sua storia; fondamentalmente, mentre l'identità di genere è stata ricercata ed è sempre stata ben definita e non rinnegata, la tossicodipendenza (da eroina) viene vissuta invece come una condizione discriminante che non le appartiene e che non vuole rendere pubblica. Per questo motivo, nonostante la sua insistenza a voler comparire nelle mie ricostruzioni con il suo nome di battesimo, ho preferito attribuirle un nome fittizio, per evitare di contraddire il suo desiderio di mantenere nascosta la sua dipendenza. Natalie, in carico al servizio da 20 anni con un programma terapeutico di Alta Evolutività. L'intervista con Natalie è stata abbastanza difficoltosa per la sua telegraficità e la mancanza di problematizzazione del percorso tossicomanico. Proveniente da una famiglia molto unita, da lei definita "la classica famiglia normale" e con un tenore di vita agiato, sostiene di essere stata sempre attratta, fin da piccola, dalle persone fuori dagli schemi e dal mondo della droga; i primi contatti con i cannabinoidi, a 14 anni, e con l'eroina usata fin da subito - a 18 anni - per via endovenosa, avvengono proprio per la curiosità di provare cosa significava appartenere a quel mondo. L'uso di eroina è stato presto coinvolgente al punto da divenire quotidiano; per i primi 7 anni, Natalie è riuscita a condurre una doppia vita e a gestire la sua immagine sociale, da un lato mantenendo i rapporti familiari e lavorativi nell'assoluta normalità, dall'altro compiendo tutte le attività illegali che le permettevano di raccogliere i soldi sufficienti a farsi quotidianamente, dunque la prostituzione, gli scambi sessuali con spacciatori per la dose, le truffe e lo spaccio. Il suo primo ricorso al Sert è motivato dall'esigenza di assumere la terapia metadonica per poter diminuire la frequenza di consumo di eroina e limitarne le conseguenze, quando ha avuto la percezione di non riuscire più a lavorare a causa della tossicodipendenza. Qualche anno più tardi, in seguito ad un episodio in cui un familiare l'aveva vista prostituirsi sulla strada, e dunque anche i genitori erano venuti a conoscenza della sua condizione, decide di entrare in comunità e riesce poi a mantenersi astinente per oltre 10 anni, conducendo una vita perfettamente integrata, sposandosi, trasferendosi a vivere in un altro paese, lavorando e riallacciando i rapporti con i familiari. Una serie di lutti e di eventi traumatici, prima tra tutte la separazione dal marito, la spingono a rientrare nel nucleo familiare e a riallacciare i rapporti con le persone del giro, dunque a ricadere nell'uso di eroina, questa volta all'insaputa dei genitori; riprende, pertanto, dopo un anno il trattamento metadonico pur proseguendo saltuariamente (ogni 2-3 settimane) a farsi la sua dose perché "non la vado a cercare... ma se proprio me la mettono davanti... dopo

chiaramente è una cosa che è bella, cioè ti piace... e quindi non vedo perché non lo dovresti fare". Mentre l'uso di eroina non costituisce un problema, Natalie si pone in modo problematico nei confronti della terapia metadonica, che vorrebbe concludere, anche per l'opposizione del suo attuale compagno (estraneo alle droghe), ma che dall'altra parte le è necessaria per poter condurre uno stile di vita compatibile con una vita "normale". Poche le aree di approfondimento, ovvero la prostituzione e il significato della terapia metadonica. Ginette, in carico al servizio da oltre 20 anni con un programma terapeutico di Accoglienza, Aggancio, Valutazione. L'intervista con Ginette si è svolta in 3 sessioni di circa un'ora ciascuno, oltre ai diversi incontri informali avvenuti al Sert; nonostante si sia fin da subito mostrata appassionata all'argomento di indagine, proponendomi anche di scrivere alcune sue riflessioni in merito, il periodo di instabilità emotiva, sentimentale e lavorativa che stava attraversando non le ha permesso di proseguire nel suo intento. Dunque, nel corso delle interviste si è potuto approfondire poco della sua biografia, anche per la sua tendenza ad aprire lunghissime digressioni che rendevano difficile l'argomentazione della sua storia personale. Proveniente da una famiglia economicamente agiata di un piccolo paese del Trentino, racconta del rapporto conflittuale con la madre, una bellissima donna in competizione con lei per l'amore che il marito le dava; della amenorrea primaria, che nel periodo adolescenziale l'aveva portata a sentirsi idealmente androgina, donna e uomo allo stesso tempo, e che le avevano permesso di sfruttare a suo vantaggio entrambe le sue doti, maschili e femminili, nel gruppo dei pari; del momento in cui, dal piccolo paese, è stata proiettata nel contesto cittadino per frequentare le scuole superiori e dell'impatto che l'atmosfera sessantottina ha avuto su di lei; tematizza, infine, la condizione della donna a quei tempi soprattutto in riferimento alla negazione del piacere che, invece, per lei ha sempre assunto un ruolo centrale. Questi racconti rappresentano per lei le premesse che possono aiutarmi a comprendere la sua dipendenza dall'eroina, sostanza sperimentata "per prima" a 22 anni e in realtà mai abbandonata. La sperimentazione del "buco" è avvenuta in modo traumatico: compagna di un tossicodipendente che usava da tempo eroina per via endovenosa, a un certo punto decide di sperimentare lei stessa cosa voleva dire "farsi" per comprendere i motivi che portavano il compagno a preferire la droga a lei. Racconta il momento del primo buco, fatto in solitudine all'insaputa del compagno, e dei momenti successivi nei quali ha condiviso con lui tale esperienza fino alla dipendenza. Nel tempo, ha alternato periodi di ricaduta nell'uso di eroina anche pesanti - come in occasione del divorzio dal marito con il quale è stata per quasi 20 anni a periodi di consumo di cocaina, cocaina ed eroina insieme, e soprattutto a periodi di forte dipendenza dall'alcol. I key informant L'indagine ha previsto un coinvolgimento diretto di alcuni informatori chiave; ad eccezione di due casi (Joshua e Joe), la finalità delle relazioni instaurate con questi ragazzi, di estrazione e status sociali tra loro diversificati, era quella di sondare la possibilità di raggiungere donne

tossicodipendenti estranee ai servizi per poter costruire un campione di controllo ove far emergere analogie e differenze con le intervistate in carico al Sert. Di seguito si presenta un loro breve profilo. Joshua, 56 anni. Si tratta di uno dei tossicodipendenti "storici" in carico al servizio da lungo tempo (quasi 30 anni), cui ho scelto di destinare una attenzione particolare mediante un colloquio in profondità proprio per la lunga carriera tossicomanica alle sue spalle, iniziata ancora all'età di 22 anni con il consumo endovenoso di eroina e mai terminata in modo definitivo. L'intervista in profondità ha riguardato esplicitamente le sue opinioni circa le differenze tra uomini e donne nella tossicodipendenza. Esordisce l'intervista sostenendo che "la donna nasconde il suo uso di droghe come nasconde la perdita della sua verginità, mentre l'uomo lo millanta così come millanta la perdita della sua verginità", al fine di evidenziare che le differenze di genere nella tossicodipendenza sono un riflesso delle diversità osservate in tutti gli altri ambiti di vita, essendo dunque indotte dalle rappresentazioni culturali e dagli stereotipi convergenti sui due sessi, nelle loro derivazioni psicologiche e sociali. Diversi sono stati gli elementi di discussione, incentrati proprio sul tipo di socializzazione femminile e sulle sue conseguenze nel modo di vivere la dipendenza da sostanze. Joe, 52 anni. Si tratta di un uomo che ho conosciuto casualmente all'esterno del Sert e che quando ha appreso del mio lavoro si è offerto di aiutarmi a comprendere le dinamiche della tossicodipendenza. Ha trascorso gran parte della sua vita in Sud America ed ha avuto contatti prolungati con il mondo dell'eroina e i contesti sociali più disagiati. Racconta che ai tempi l'eroina era purissima e che lui la consumava in modo controllato per 8 mesi all'anno, disintossicandosi poi autonomamente senza sostegni farmacologici per i successivi 4 mesi per riprendere poi ciclicamente queste due fasi. Al suo rientro in Italia prosegue con questo sistema, fino all'accertamento che il mercato ormai non offriva più roba per cui valesse la pena di affrontare le astinenze; ritiene che, comunque, l'eroina sia una delle più belle esperienze che ha vissuto nel corso della sua vita e che nonostante abbia ormai desistito dall'uso ne conserva sempre il desiderio e il ricordo in quanto "once a junkie always a junkie" (il motto che circolava nelle subculture delinquenti americane). James, 42 anni, in carico al Sert da 5 anni per le problematiche connesse al consumo per via parenterale di eroina. Fino all'età di 32 anni James riferisce di aver avuto una vita normalissima, con una buona integrazione sociale e familiare a fronte di una condizione lavorativa instabile, che l'ha portato a cambiare numerose professioni a causa della precarietà dei contratti. A partire dai 16 anni ha sperimentato tutte le droghe offerte dal mercato, che si sono mantenute però occasionali nella frequenza di consumo fino a che, a 32 anni, in seguito al mancato superamento di un concorso che avrebbe permesso una sua stabilizzazione lavorativa, perviene all'eroina e, con essa, all'isolamento relazionale e alla depressione. Giunge al servizio in seguito a diversi tentativi autonomi di disintossicazione con terapia agonista acquistata nel mercato nero,

chiedendo sostegno farmacologico e psicologico in vista di una sua imminente assunzione in una nuova professione con contratto a tempo indeterminato, evento che considera una sorta di riscatto per tutte le sofferenze che ha subito nel corso degli ultimi anni. Kevin, 41 anni, in carico al Sert da 3 anni. Conosco Kevin nel 2008 in occasione di una precedente indagine condotta presso il servizio; si tratta di un imprenditore locale inserito in network sociali di elevato status socio-economico e dediti principalmente al consumo di cocaina. Anche Kevin assume cocaina più volte a settimana a partire dai 19 anni e giunge al Sert per problemi circa l'uso di eroina (tramite inalazione) che ha assunto per pochi mesi per sedare gli effetti eccitanti della cocaina. Sostiene di aver avuto molte riserve ai suoi primi accessi al servizio, in quanto non si sentiva per nulla simile alle persone che vi incontrava, corrispondenti al classico stereotipo del tossicodipendente povero, trascurato ed economicamente disagiato; riesce però a superare le sue riserve per obbligare se stesso a prendere coscienza della sua condizione di dipendenza. Intraprende recentemente un percorso comunitario per quello che continua ad essere il suo problema principale, ovvero la cocaina, che non ha mai considerato una droga e che aveva finalità non solo prestazionali ma anche di socializzazione e di status: la frequentazione di parties di alto borgo, più o meno collegate con la sua attività professionale, infatti, gli ha sempre imposto questo tipo di "adeguamento". Georg, 41 anni, in carico al Sert da 17 anni per le problematiche connesse al consumo per via parenterale di eroina complicate da patologie psichiatriche (personalità borderline). Proviene da una famiglia senza particolari problematiche a livello economico ma segnata dalla separazione dei genitori, avvenuta nel corso dell'infanzia di Georg. Questo aspetto della sua biografia ha influenzato molto le sue vicissitudini con le droghe e con la vita di strada che lo portava per interi periodi in giro per l'Italia, in quanto a suo dire è stata proprio la mancanza del riferimento paterno a portarlo ad agire spesso in modo impulsivo senza pensare alle conseguenze. Ha esperito diverse carcerazioni ed inserimenti comunitari, sempre conclusi dopo pochi mesi per la sua intolleranza alle regole, come di durata breve sono state le sue poche esperienze lavorative per questi stessi motivi. Nonostante le sue difficoltà di costruirsi un'identità diversa, ora è ben cosciente della necessità di dare una svolta decisiva alla sua vita, mantenendosi astinente dall'uso di qualsiasi sostanza; si considera un creativo e si interessa in modo particolare all'esoterismo e alla criminologia, interessi che coltiva quotidianamente nonostante non trovino una concretizzazione in percorsi di studio poiché sostiene che la droga gli "abbia fuso completamente la testa". Jonathan, 37 anni, in carico al Sert da 8 anni per le problematiche connesse al consumo per via parenterale di eroina. Si tratta di un ragazzo con una biografia segnata da esperienze di istituzionalizzazione precoce e da diversi affidamenti eterofamiliari, culminati con una adozione che gli hanno permesso una relativa stabilità affettiva fino alla morte della madre adottiva che lo porta a frequentare gruppi di amici dediti alle droghe. A 15 anni dunque, inizia ad assumere

eroina per via endovenosa e a condurre una vita divisa tra la strada, istituti di beneficienza e brevi periodi di rientro a casa. Trascorre, inoltre, diversi periodi in carcere con l'accusa di spaccio, in quanto la sua incapacità a mantenere un'attività lavorativa lo portava a svolgere le attività che conosceva per poter provvedere al proprio sostentamento; questi periodi, come i diversi inserimenti comunitari, sono comunque vissuti da lui in modo sereno come forma di contenimento alla sua ingovernabile impulsività verso la droga. Prosegue tuttora alternando periodi di astensione dall'uso a periodi di ricaduta, complicati dalla relazione sentimentale con una partner tossicodipendente, con la quale attende un imminente inserimento in una comunità per coppie. Amos, 35 anni, in carico al Sert da 13 anni per le problematiche connesse al consumo per via parenterale di eroina. Proviene da una famiglia disagiata economicamente composta dalla madre e dal fratello, che tuttora costituiscono l'unica fonte reale di sostentamento economico di Amos, che non ha mai svolto alcuna attività lavorativa in tutta la sua vita. In lui è particolarmente accentuata la pervasività dell'identità tossicomanica: nonostante non faccia più uso di eroina da qualche anno, fa un uso consistente di alcolici quotidianamente (fino o 15 litri di birra al giorno e qualche superalcolico) e un uso ricreativo di droghe sintetiche nei fine settimana. Sostiene che non può fare a meno di essere alterato e che la droga e lo sballo ad essa associato costituiscono gli elementi di cui non si priverebbe mai, pur avendone spesso subite le conseguenze - anche gravi - sul piano fisico. Alla mia esortazione a cercare di cambiare stile di vita risponde: "ci ho messo 20 anni a diventare così., Ne ho fatta di fatica". Brad, 32 anni, in carico al Sert da 10 anni per le problematiche connesse al consumo per via parenterale di eroina, iniziato all'età di 18 anni. Conosco Brad nel 2008 in occasione di una precedente indagine condotta presso il servizio. Egli considera la sua tossicodipendenza come un errore di percorso: proviene da una famiglia benestante senza particolari problematiche economiche e sociali, da lui considerata come un saldo punto di riferimento, ha sempre avuto un'attività lavorativa stabile presso un esercizio commerciale e una integrazione sociale che definisce buona. Le circostanze della vita l'hanno portato in adolescenza ad avvicinarsi a compagnie di paese nelle quali i comportamento di consumo costituivano la normalità e a lasciarsi condizionare nelle prime sperimentazioni di eroina, fino ad arrivare al consumo endovenoso assunto per pochi mesi prima di maturare la deci sione di uscirne definitivamente. Ha recentemente concluso la terapia metadonica e frequenta il servizio per proseguire una terapia di sostegno psicologico. Dawson, 31 anni, in carico al Sert da 8 anni per le problematiche connesse al consumo per via parenterale di eroina complicate da patologie psichiatriche (disturbo bipolare in personalità borderline). Dawson inizia a consumare eroina all'età di 16 anni e viene espulso dal nucleo familiare per la sua incapacità ad uscirne in modo definitivo già a partire dai 17 anni; inizia così un lungo percorso fatto essenzialmente di vita da strada, interrotta per brevi periodi durante i suoi

inserimenti comunitari (ne conta circa una trentina) sempre terminati dopo pochi mesi per la sua insofferenza alle regole. Alterna per lunghissimo tempo periodi di ricaduta nell'uso, sostenuta attraverso attività di prostituzione, a periodi di astensione nei quali riesce a svolgere qualche attività lavorativa occasionale, appoggiandosi per la notte nelle ditte dove lavorava. Sostiene che il suo problema principale è proprio la difficoltà a trovare un'attività lavorativa che gli permetta pian piano di ricostruirsi una vita, ormai segnata dall'etichetta di tossico e di vagabondo, e di affrancarsi completamente da questo stile di vita che non gli permette più una stabilità psicologica. I professionisti socio-sanitari Sert Raffaele Lovaste: direttore del Sert, membro dell'ufficio di presidenza e del consiglio direttivo nazionale della FeDerSerd, del Gruppo Interregionale di esperti nel settore delle tossicodipendenze e referente nazionale per la Provincia Autonoma di Trento in materia di dipendenze. Domenico Marcolini: psicologo e formatore, docente presso la Scuola di specializzazione in Psicoterapia del Ruolo Terapeutico di Milano e nel Corso di Laurea per Educatore Professionale Sanitario presso l'Università degli Studi di Trento. Lavora al Sert dal 1982. Pietro Gianfranceschi: psicoterapeuta sistemico-relazionale, lavora nel settore delle dipendenze patologiche dal 1988, prima nel privato sociale e poi, dal 1994, presso il Sert. Iva Vedovelli: psicologa e psicoterapeuta, con precedenti esperienze nell'ambito del disagio adolescenziale in una comunità alloggio, dal 1992 lavora al Sert con compiti di coordinamento del personale psicologo; fino al gennaio 2010 ha occupato la carica di presidente del Consiglio dell'Ordine degli Psicologi di Trento. Enrica Latterini: psicologa e psicoterapeuta, con un Corso di Psicodiagnostica Adolescenti e Adulti, lavora al Sert dal 1987, affiancando all'attività clinica il lavoro di formazione di figure professionali appartenenti all'ambito delle relazioni d'aiuto. Cecilia Isatto: psicologa e psicoterapeuta della famiglia, ha lavorato 10 anni nell'ambito della salute mentale e dal 2007 nel settore delle dipendenze patologiche. Enrico Betta: psicologo, ha lavorato 2 anni presso il Sert di Trento e a partire dal 1995 è consulente presso gli Istituti Penitenziari di Rovereto e Bolzano, specificamente per problematiche connesse alla tossicodipendenza. Pierino Anesin: psicologo e psicoterapeuta, lavora dal 1988 presso gli Istituti Penitenziari di Trento e Rovereto, specificamente per problematiche connesse alla tossicodipendenza a partire

dal 1995. Barbara Fava: assistente sociale laureata in "Interventi di rete ad alta complessità", ha lavorato per 2 anni nel privato sociale in sostegno a tossicodipendenti e dal 1998 presso il Sert. Stefania Calmasini: assistente sociale con diploma di specializzazione in Metodologia Sistemico Relazionale, lavora al Sert dal 1988; svolge attività di formatore e docente presso la Scuola Superiore di Formazione Sanitaria APSS di Trento, e di supporto alla didattica e supervisione dei tirocini presso l'Università degli Studi di Trento e l'Università degli Studi di Verona. Serena Avancini: assistente sociale laureata, lavora al Sert dal 2004. Paola Sperandio: assistente sociale laureata in "Metodologia e Organizzazione del Servizio Sociale", lavora al Sert dal 2004 dopo una breve esperienza nell'ambito di servizi rivolti al disagio adolescenziale. Laura Moratelli: assistente sociale laureata, lavora al Sert dal 2005 in seguito a brevi esperienze come educatrice nelle scuole e nei gruppi appartamento per minori a rischio. Roberta Ferrucci: medico psichiatra, con un master in "Medicina delle farmacodipendenze" ed una specializzazione in Psicoterapia sistemico-relazionale, lavora al Sert dal 1996 con compiti di coordinamento del personale medico. Silvana Chiasera: medico specialista in medicina interna e pediatria, con un master in Medicina delle farmacodipendenze e un Corso di Formazione Manageriale, lavora al Sert dal 1997 con un incarico di alta professionalità in "Patologie internistiche". Oltre agli operatori appena indicati, il confronto preliminare sui casi è avvenuto con: Alberto Porta (medico psichiatra), Rosalia Anna Locascio (medico), Luca Lipreri (medico), Maurizio Sgrò (medico), Orietta Campestrin (infermiera professionale), Paola Fumana (infermiera professionale), Simone Turato (infermiere professionale), Masciadri Paola (assistente sociale), Maria Luisa Lunz (assistente sociale). Privato sociale Michele Poli: presidente della Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids del Trentino dal 1997, impegnato nell'ambito delle problematiche socio-sanitarie legate ad HIV-AIDS già dal 1993. Andrea Bortot: lavora nell'ambito delle dipendenze patologiche dal 2004, prima come direttore dell'Associazione Famiglie Tossicodipendenti e vicedirettore del Centro Antidroga, dal 2008 come direttore dell'Associazione Provinciale Dipendenze Patologiche.

Marilena Zeni: lavora nell'ambito della tossicodipendenza dal 2006 come responsabile pedagogica dell'Associazione Famiglie Tossicodipendenti e, a partire dal 2008, dell'Associazione Provinciale Dipendenze Patologiche. Katuscia Cabras: psicologa, lavora nel campo della dipendenze patologiche dal 2000, prima presso la comunità terapeutica "la casa di Giano", poi come responsabile dell'Associazione Famiglie Tossicodipendenti dal gennaio 2007, seguendo i percorsi di reinserimento sociolavorativo. Andrea Rizzonelli: educatore professionale, lavora nell'ambito della tossicodipendenza dal 1999, prima presso Casa Lamar (residenza protetta per pazienti terminali di Aids), poi presso la Cooperativa sociale Arianna, occupandosi in particolare dell'educativa di strada.

La revisione degli studi di genere L'analisi delle evidenze scientifiche ha riguardato in modo prevalente gli studi quantitativi condotti sui pazienti in trattamento presso servizi per le tossicodipendenze, volti a testare l'esistenza di differenze di genere nel background familiare, nelle variabili socio-demografiche, nella carriera tossicomanica e nella carriera di trattamento. La revisione bibliografica è stata condotta a partire dai principali database Psychlnfo e Medline con le chiavi di ricerca "gender", "differences", drug" e "substance use" e si è concentrata esclusivamente sulle indagini che hanno comparato i due sessi'. L'analisi si è limitata agli studi successivi al 19902, al fine di contenere i bias dovuti ad un arco temporale eccessivo3, e ha escluso i soggetti in trattamento in regime carcerario, che presentano caratteristiche per molti aspetti particolari che li distinguono dai pazienti in trattamento presso centri di recupero sul territorio4; inoltre, l'analisi è circoscritta agli studi effettuati su campioni sufficientemente numerosi c/o rappresentativi, o di una certa rilevanza per il metodo di indagine utilizzato. Per completezza, l'analisi è stata integrata con altre importanti revisioni della letteratura già presenti, che discutono i risultati degli studi sulle differenze di genere nelle carriere tossicomaniche e negli outcome dei trattamenti. Di seguito si presentano alcune caratteristiche fondamentali degli studi compresi nelle analisi. Allen [1994]: revisione della letteratura nell'ambito delle barriere al trattamento, dell'accesso ai servizi di cura e dell'uso dei servizi da parte della popolazione tossicodipendente femminile. Almog et al. [1993]: disanima delle differenze di genere nei pattern di consumo di alcol ed eroina in un campione di 443 pazienti coinvolti in programmi di mantenimento metadonico della California meridionale. Arkfen et al. [2001]: lo studio si basa su un campione di 2471 utenti (668 donne) dei servizi per le dipendenze di Detroit in carico nel periodo 1995-1999 per l'uso di diverse sostanze e si propone di valutare le differenze di genere nella gravità delle problematiche correlate all'uso di droghe presentate all'ingresso e i risultati del trattamento in termini di ritenzione entro 30 giorni e di completamento del programma. Ashley et al. [2003]: revisione di 38 studi quantitativi sull'outcome di trattamenti specificamente progettati per i bisogni delle tossicodipendenti (in particolare, nell'ambito della cura dei figli e dell'integrazione di programmi socio-sanitari). Barnard [1993]: analizza i dati raccolti nel corso di uno studio etnografico su un campione di 122 giovani residenti in una zona di Glasgow ove è particolarmente diffuso il consumo di

sostanze per via iniettiva, reclutati in servizi per il trattamento delle tossicodipendenze e in altri setting. Lo studio è realizzato con interviste in profondità volte a precisare motivi e contesti di comportamenti a rischio per la contrazione del virus HIV. Bennett et al. [2000]: studio volto ad analizzare i comportamenti a rischio di un campione di 181 tossicodipendenti (91 donne) reclutati tramite campionamento a valanga in Inghilterra. Bloom, Covington [1998]: propone una rilettura delle evidenze scientifiche circa i programmi di trattamento tarati sui bisogni delle donne con l'obiettivo di proporre un modello di trattamento efficace per le tossicodipendenti che entrano nei circuiti penitenziari. Breen et al. [2005]: lo studio considera i dati provenienti dal sistema di monitoraggio nazionale IDRS (Illicit Drug Reporting System) riferiti ad un campione di 154 tossicodipendenti (di cui 49 donne) che fanno uso regolare di droghe per via iniettiva reclutati tramite campionamento a valanga in Australia. Si considera l'anno 2003 nell'analisi delle differenze di genere nei comportamenti a rischio e nelle storie tossicomaniche. Brems et al. [2004]: studio svolto su un campione di 830 soggetti (274 donne) in trattamento per consumo di droghe in un centro statunitense tra il 2000 e il 2002, avente la finalità di analizzare le conseguenze della storia di abusi sessuali e fisici durante l'infanzia sul decorso della tossicodipendenza e sul processo di recupero. Brener, Treloar [2008]: revisione dei principali risultati presenti in letteratura sulla trasmissione dell'epatite C (e la sua prevenzione) nelle relazioni intime, focalizzati sull'esperienza delle donne. Bryant, Treloar [2007]: studio condotto su 336 soggetti (146 donne) con recente inizio del consumo di droghe per via iniettiva (inferiore a 5 anni) reclutati tramite campionamento per convenienza in Australia nel triennio 2000-2002, intervistati attraverso un questionario strutturato somministrato faccia a faccia volto ad indagare le differenze di genere in merito al contesto socio-demografico, all'uso di droga e al ruolo delle reti sociali nell'inizio dell'uso. Burroni et al. [2007]: gli autori presentano un approfondimento sulle differenze di genere emerse dallo studio Vedette sulla valutazione dell'efficacia dei trattamenti per la tossicodipendenza da eroina effettuato su una coorte multicentrica di 11905 tossicodipendenti, arruolati tra il 1998 e il 2001 in 115 Sert di 13 regioni italiane. Byqvist [1999]: lo studio longitudinale (SWEDATE project) compara la criminalità in un campione di 351 donne e 798 uomini in trattamento presso i servizi per le tossicodipendenze svedesi. Byqvist [2006a; 2006b]: si analizzano i dati riferiti a 5539 soggetti (1279 donne) con

consumo problematico di droghe, provenienti da un'indagine nazionale svedese condotta nel 1998 ("Heavy", Severe Drug Misuse in Sweden). Callaghan et al. [2002]: analisi della documentazione medica riferita a 2595 ammissioni di soggetti in una unità di disintossicazione ospedaliera da alcol e droghe su un periodo di 3 anni, avente l'obiettivo di valutare le differenze di genere circa i pattern di consumo, la storia di tossicodipendenza e il decorso del trattamento. Chatham et al. [1999]: studio condotto su un campione di 435 utenti in trattamento (il 31% dei quali di sesso femminile) attraverso interviste strutturate somministrate all'ingresso e dopo un anno dal termine del trattamento (USA). Cox et al. [2008]: presenta i risultati di uno studio sull'efficacia dei trattamenti dei servizi per le dipendenza in Irlanda condotto su un campione di 285 consumatori di oppiacei in trattamento. Cusick [2006]: revisione della letteratura circa i rischi connessi alla prostituzione e le politiche di riduzione del danno. De Fazio [2000a]: revisione dei principali studi sulle specificità di genere nei trattamenti per le tossicodipendenze in Spagna, Italia, Portogallo, Germania e Francia (nazioni coinvolte nell'indagine di Irefrea presentata in Stocco et al. [2000]. El-Guebaly [1995; 2003]: revisioni della letteratura circa le differenze di genere nella comorbidità psichiatrica di soggetti con problematiche di abuso di sostanze psicoattive e circa la significatività clinica di tali differenze negli outcome dei trattamenti tra le donne. EMCDDA [2000]: analizza le specificità dei bisogni delle tossicodipendenti, in modo particolare nelle aree tematiche della gravidanza e maternità, delle malattie droga-correlate, del trattamento e della prevenzione. EMCDDA [2005]: analizza le differenze di genere nei consumi di sostanze psicoattive, prendendo in considerazione le indagini condotte a tal fine nella popolazione generale e studentesca e i dati provenienti dai servizi per le tossicodipendenze. EMCDDA [2006]: analizza i dati a disposizione circa le differenze di genere nei consumi di sostanze psicoattive, nelle conseguenze dell'abuso di droghe e nelle risposte politiche all'uso di droga specificamente tarate sulle diversità di genere. Evans et al. [2003]: indaga la percezione del rischio di contrazione dei virus HiV, HbV e HcV in un campione di 844 giovani di età inferiore a 30 anni (260 femmine) a San Francisco nel periodo 2000-2002.

Farrell [2001]: raccolta di saggi di ampio respiro sulle tematiche correlate all'uso di sostanze psicoattive in Irlanda, comprendente alcune riflessioni che riguardano esplicitamente le specificità della tossicodipendenza femminile (prostituzione, comportamenti a rischio, gravidanza e maternità). Finkelstein [1994]: riflette sulla maggiore efficacia dei trattamenti esplicitamente progettati sui bisogni delle tossicodipendenti donne in merito alla cura dei figli, alle responsabilità familiari e alla complessità delle storie di tossicodipendenza (soprattutto, nella loro correlazione con episodi di abusi fisici e psicologici o violenze). Fiorentine et al. [1997]: rielaborazione di dati di una indagine longitudinale su 330 soggetti in 26 diversi programmi di trattamento a Los Angeles volta ad identificare le ragioni del "paradosso di genere" per cui le donne mostrano una maggiore compliance al trattamento nonostante la presenza di maggiori fattori di rischio per le recidive. Freeman et al. [1994]: analizza un campione di 769 assuntori di sostanze psicoattive per via iniettiva in trattamento ambulatoriale, residenti in un'area - Paterson, New Jersey - caratterizzata da un elevato livello di infezioni HIV tra gli utilizzatori di droga, al fine di comparare le conoscenze e i comportamenti a rischio. Gil-Rivas et al. [1997]: si presentano i risultati di una indagine longitudinale su 330 soggetti in 26 diversi programmi di trattamento a Los Angeles, mettendo in evidenza le differenze di genere negli abusi sessuali e fisici riportati e sulle conseguenze sul piano psicopatologico. Gogineni et al. [2001]: considerando un campione di 252 pazienti (100 donne) in mantenimento metadonico presso un centro di Providence, lo studio analizza come le relazioni sociali siano associate alla prosecuzione del comportamento iniettivo e dello scambio di siringhe. Gossop et al. [1995]: l'indagine ha l'obiettivo di verificare l'associazione tra il consumo di droghe e i comportamenti sessuali a rischio in un campione di 51 prostitute dedite all'uso di oppiacei e stimolanti, reclutate con un campionamento a valanga tramite 7 informatrici chiave tra l'agosto del 1992 e maggio 1993. Green [2006]: revisione della letteratura sulle barriere al trattamento per le donne e sulle soluzioni terapeutiche che possono concorrere a limitarle. Greenfield et al. [2007]: revisione di 280 studi presenti in letteratura circa gli outcome dei trattamenti nelle donne tossicodipendenti. Grella, Joshi [1999]: si considerano i dati riferiti a 7652 soggetti in trattamento coinvolti nello studio Datos (Drug Abuse Treatment Outcome Study), per evidenziare le diversità di genere nelle carriere di trattamento, ovvero nelle caratteristiche demografiche e del background socio-

familiare, nella carriera tossicomanica, nelle esperienze di trattamento, nelle relazioni sociali e familiari, nel coinvolgimento in attività criminali e nelle malattie mentali. Haseltine [2000]: riflette sulle evidenze scientifiche circa le diversità di genere nel consumo di sostanze psicoattive e nel percorso di recupero. Hodgins et al. [1997]: revisione della letteratura circa gli outcome dei trattamenti che comprendono programmi riservati a donne (single-gender groups). Hser et al. [1987a]: l'analisi presentata dagli autori si basa su uno studio condotto su 546 tossicodipendenti da eroina (di cui, 264 donne) in trattamento nel 1978 nel Sud della California, ed opera un confronto tra i due sessi in merito al primo accesso alla sostanza, alle relazioni interpersonali intrattenute nell'anno precedente all'inizio dell'uso di eroina, al consumo di altre sostanze, alle fonti di sostentamento e alle attività criminali. In saggi successivi il confronto tra i due sessi è effettuato su altre dimensioni del fenomeno, considerando lo stesso campione di soggetti: nel primo vengono considerati i periodi che intercorrono tra il primo uso della sostanza e la richiesta di trattamento e tra il primo e l'ultimo giorno di consumo di eroina [Hser et al. 1987b]; nel secondo viene comparata la compliance al trattamento [Anglin et al. 1987a]; nel terzo si esaminano le diversità nei percorsi che portano alla dipendenza [Anglin et al. 1987b]. Hser et al. [2003; 2004]: studio longitudinale condotto su un campione di 511 pazienti reclutati presso i servizi per le dipendenze a Los Angeles, intervistati alla presa in carico e ad un anno dall'inizio del trattamento, al fine di valutare le differenze di genere nei risultati del trattamento. Johnson, Leff [1999]: revisione bibliografica riguardo i fattori di rischio per i figli di tossicodipendenti e alcolisti. Kang et al. [2009]: studio condotto su 425 donne e 1374 uomini in trattamento presso i servizi per le dipendenze di New York e Puerto Rico nel periodo 19982003, volto alla comprensione delle differenze di genere nella costruzione dei network sociali e nei percorsi di trattamento. Kauffinan et al. [1997]: revisione delle differenze di genere sui pattem di consumo, sui fattori di rischio e sull'efficacia dei trattamenti. Keen et al. [2000]: lo studio analizza 23 famiglie composte da genitori tossicodipendenti e dai loro figli (nel complesso 26 adulti e 33 bambini) in trattamento con un programma residenziale familiare in un centro di Sheffield (Inghilterra), con l'obiettivo di valutare l'efficacia di questo tipo di offerta. Landheima et al. [2003]: lo studio analizza le differenze di genere nelle prevalenze dei disturbi di Asse I e di Asse II in 260 poli-consumatori di sostanze, in trattamento residenziale ed

ambulatoriale in due regioni norvegesi. Lieberman [2000]: revisione bibliografica riguardo i fattori di rischio per i figli di tossicodipendenti e alcolisti. Liebschutz et al. [2002]: lo studio valuta la correlazione tra l'abuso fisico e sessuale e il consumo di sostanze psicoattive su un campione di 470 soggetti (111 donne) in trattamento presso un centro di disintossicazione del Massachussetts (1997-1999). Markoff, Cawley [1996]: si descrivono i risultati di un progetto che istituisce un percorso terapeutico riservato alla popolazione femminile (il "Project Second Beginning", Massachusetts, 1991), che ha coinvolto nel complesso 99 donne dipendenti da sostanze, mostrando i punti di forza nell'ambito della ritenzione al trattamento delle pazienti e sull'astensione dal consumo di sostanze. Il percorso terapeutico si basa su un modello di tipo relazionale finalizzato all'empowerment delle donne. Marsh et al. [2009]: analisi svolta a partire dai dati raccolti nello studio prospettico di coorte americano denominato National Treatment Improvement Evaluation Study (1992-1997) su un totale di 59 programmi di trattamento e 3027 utenti inseriti in questi programmi (1105 donne). Mitchell, Latimer [2009]: si analizza la differente percezione del rischio di contrazione dell'HIV tra donne e uomini in un campione di 271 consumatori di droga per via endovenosa (anni 2000-2005), focalizzandosi sui comportamenti sessuali. Montgomery et al. [2002]: si esaminano le differenze di genere nei comportamenti a rischio per la contrazione del virus Hiv in un campione di 193 consumatori di sostanze per via iniettiva e 127 soggetti appartenenti alla loro rete sociale, reclutati con diversi tipi di campionamento nella popolazione generale tra il 1998 e il 2000 in tre comunità di Los Angeles. Neale [2004]: studio condotto in Inghilterra su 1033 soggetti (318 donne) in trattamento all'interno del programma "Drug Outcome Research in Scotland" (DORIS 2001-2002). Nelson et al. [1995]: riflette sulle evidenze scientifiche circa i bisogni di trattamento specifici per le donne e sulle sue implicazioni per il lavoro sociale. Oggins et al. [2001]: si considerano i dati riferiti a 261 consumatori di sostanze (77 donne) in trattamento, ricavati dalla somministrazione dell'intervista strutturata ASI all'ingresso e dopo 18 mesi, con l'obiettivo di verificare le differenze di genere sulla gravità della situazione sociale, comparando gli esiti dei test nei due momenti. L'indagine è svolta a San Francisco tra il 1992 e il 1994. Ouimette et al. [2000]: lo studio, promosso dal Department of Veterans Affairs, coinvolge

24959 consumatori di sostanze e si focalizza sull'associazione tra gli abusi fisici e sessuali e i problemi psicologici/psicopatologici, verificando se tale associazione sia o meno mediata dal genere. Pelissier [2004a, 2004b]: revisione della letteratura sulle differenze di genere nelle caratteristiche socio-demografiche, del background familiare e degli outcome dei trattamenti di pazienti tossicodipendenti. Poole, Dell [2005]: revisione delle evidenze scientifiche e dei dati disponibili sulle differenze di genere nell'uso di sostanze psicoattive. Powis et al. [1996]: lo studio coinvolge 558 consumatori di eroina e cocaina reclutati tramite campionamento a valanga in contesti differenti da quelli terapeutici. Quaglio et al. [2004]: lo studio, svolto in Veneto, analizza 589 utenti in trattamento per dipendenza da eroina (136 donne) per valutare le diversità di genere nelle relazioni con i partner. Sherman et al. [2001]: lo studio si colloca all'interno del progetto SHIELD di Baltimora (SelfHelp in Eliminating Life-threatening Diseases; 1997-1999); circoscrive l'analisi a 508 tossicodipendenti che usano scambiarsi siringhe al fine di comprendere la diffusione delle informazioni sui rischi, la percezione personale del rischio associato e il ruolo giocato dalle reti sociali. Stewart et al. [2003]: studio svolto su un campione di 753 pazienti (201 donne) selezionati a partire da 54 programmi di trattamenti considerati rappresentativi dei programmi condotti a livello nazionale, intervistati alla presa in carico e ad un anno dal termine del programma. Stocco et al. [2000; 2002]: indagine realizzata dall'istituto Irefrea in 4 stati europei (Italia, Francia, Spagna, Germania; il Portogallo si è aggiunto in un secondo momento) su un campione di 320 donne tossicodipendenti in trattamento (metà delle quali con esperienza di maternità) tramite la somministrazione di un questionario strutturato, intergrato con un focus group ed interviste in profondità a donne tossicodipendenti. UNODC [1995]: rapporto di ampio respiro dell'United Nations Office ori Drugs and Crime circa le conseguenze sociali del consumo di droghe. UNODC [2004]: rapporto dell'United Nations Office ori Drugs and Crime sulle specificità della tossicodipendenza femminile e sulla necessità di servizi orientati ai bisogni specifici delle donne. Van Etten et al. [1999; 2001]: gli studi fanno riferimento ai dati raccolti nel corso di un'indagine nazionale americana (National Household Surveys ori Drug Abuse) su campioni

rappresentativi della popolazione, per un totale di 131226 soggetti di età superiore ai 12 anni nel periodo 1979-94, al fine di esaminare le diversità di genere nei fattori che determinano l'iniziazione all'uso di droghe. Wechsberg et al. [1998]: analizza le diversità di genere in un campione di oltre 10000 soggetti con una storia di trattamenti per tossicodipendenza ammessi allo studio prospettico nazionale DATOS (Drug Abuse Treatment Outcome Study) tra il 1991 e il 1993. Nel complesso, il DATOS coinvolge 96 programmi di trattamento di tipo ambulatoriale (con o senza mantenimento metadonico) e residenziale (a lungo e breve termine) di 11 città americane. Weiss et al. [2003]: revisione della letteratura circa le diversità di genere nell'eziologia e nel decorso della tossicodipendenza femminile e nel suo trattamento. Westermeyer, Boedicker [2000]: si considerano 642 pazienti (43% donne) reclutati in due centri medici universitari (Minnesota and Oklahoma) che hanno attivato programmi di trattamento per alcol e droghe presso dipartimenti di psichiatria, al fine di verificare le differenze di genere nel decorso e nella gravità dell'uso di sostanze. Winhusen, Kropp [2003]: revisione della letteratura sui trattamento psicosociali tarati sulle specificità dei bisogni delle donne. L'analisi sull'utenza in trattamento presso il Sert di Trento Si presentano, di seguito, alcuni dei principali risultati dell'analisi statistica ad hoc condotta sugli utenti in trattamento nel quinquennio 2005-2009 presso i Sert della Provincia Autonoma di Trento, presentati nel testo a sostegno della lettura qualitativa e delle evidenze scientifiche internazionali. L'analisi ha finalità puramente descrittive e si propone di verificare se esistano differenze di genere nelle principali caratteristiche socio-demografiche, nel rapporto con le sostanze e nelle conseguenze sociali e sanitarie. I criteri di circoscrizione dell'utenza in analisi sono i seguenti: 1. si considerano i "soggetti in trattamento", ovvero qualsiasi persona che sia stata sottoposta a qualunque procedura terapeutica e riabilitativa presso il Servizio, farmacologica o di altro tipo, a causa dei problemi derivanti dal consumo, abuso o dipendenza da sostanze psicoattive illegali5. Tale precisazione è importante in quanto nel flusso statistico corrente vengono considerati unicamente i soggetti tossicodipendenti (ovvero, presi "in carico" o "in carico temporaneo"), dunque i risultati qui esposti si riferiscono ad una popolazione molto più ampia rispetto a quelli commentati nelle relazioni annuali al Parlamento. I pazienti si definiscono in carico e in carico temporaneo quando è accertato lo stato di abuso o dipendenza da sostanze, diagnosticata sulla base dei criteri stabiliti dal Dsm IV [APA 1998]: la distinzione tra le due definizioni si basa unicamente sulla residenza in Trentino (soggetti in carico) o in altre province italiane (in carico

temporaneo). In questa sede, e per i nostri fini, è più interessante estendere l'analisi a tutti coloro che manifestano un problema correlato alle sostanze psicoattive, e non solo coloro che evolvono in uno stato di dipendenza, in quanto l'obiettivo è quello di verificare se esistano diversità di genere anche nel tipo di coinvolgimento con le droghe e nella gravità delle sue conseguenze. L'analisi, dunque, comprende anche i soggetti definiti a rischio, ossia coloro che pur consumando sostanze psicoattive e non presentando una diagnosi di dipendenza secondo i criteri indicati dal DSM IV fanno presupporre una possibile evoluzione in tal senso. 2. Si considerano i soggetti trattati nell'arco temporale 2005-2009: la scelta di limitare l'analisi all'ultimo quinquennio riposa su un giudizio di completezza delle informazioni ricavabili dal sistema informativo in quanto, sebbene il sistema fosse già attivo dal 2000, la definizione puntuale dei dati da raccogliere in virtù degli indicatori proposti dall'Osservatorio Europeo sulle droghe e le tossicodipendenze (OEDT) è avvenuta, a pieno regime, proprio a partire dal 2005. 3. I pazienti che accedono per la prima volta ad un trattamento presso il servizio nel quinquennio considerato vengono definiti incidenti, mentre coloro che proseguono un trattamento iniziato in anni precedenti al 2005 vengono definiti rientranti6. In virtù della considerazione che la proporzione di soggetti rientranti è prevalente rispetto all'arruolamento di nuovi utenti', al fine di procedere con le analisi sull'utenza complessiva è necessario guardare al numero grezzo dei soggetti trattati presso il servizio, contando cioè ogni soggetto una sola volta per evitare che il peso della componente dei rientranti influenzi i risultati'. Inoltre, dato che la situazione sociale e tossicologica dei pazienti viene aggiornata ogni anno per permettere la comparazione temporale, in questa sede si è scelto di considerare la situazione del paziente al momento del primo contatto con il servizio nel periodo 2005-2009; per i pazienti rientranti, tale situazione corrisponde a quella in essere nel 2005, mentre per i nuovi utenti si considera l'anno di primo contatto con il servizio. 4. Si considerano i soggetti trattati per qualsiasi sostanza primaria: in alcuni casi, viene selezionato il sotto-campione di coloro che ricorrono al servizio per abuso o dipendenza da oppiacei, al fine di coglierne le specificità. 5. In merito alle misure statistiche utilizzate per confrontare gli utenti sulla base del sesso, l'analisi comprende la descrizione delle tavole di contingenza, il calcolo della statistica x2 (per verificare che le differenze di genere osservate siano statisticamente significative e non siano effetto del caso, e il calcolo dell'Odd-Ratio (una misura di associazione utilizzata in epidemiologia per quantificare la relazione tra l'esposizione ad una fonte di rischio ed un outcome di salute)9. 6. Il campione complessivo è costituito da 2419 soggetti, il 17,9% dei quali di sesso femminile (433 unità).

Caratteristiche socio-demografiche e background socio-familiare Tab. 1 - Caratteristiche socio-demografiche

Test chi quadro: Titolo di studio x2= 53,0603 per 4 df, p< 0,001; condizione professionale x2= 38,871 per 3 df, p< 0,001; fonte di sostentamento x2= 118,878 per 6 df, p< 0,001; status civile x2 ° di 31,672 per 3 df, p< 0,001; dove vive x2 = 24,092 per 3 df., p< 0,001; con chi vive x2 = 93,521 per 5 df, p< 0,001; presenza di figli x2 = 19,910 per 1 df, p< 0,001; situazioni problematiche x2 = 1,383 per 1 df, p>0,05; genitori deceduti/separati x2= 1,772 per 1 df., p>0,05. Storia tossicomanica e ricorso al servizio Tab. 2 - Sostanza primaria, modalità d'assunzione e tipologia di diagnosi: campione complessivo e consumatori di oppiacei

Test chi quadro: Campione complessivo: sostanza primaria x2=34,666 per 3 df., p0,05; modalità assunz.: 2=2,638 per 2 df:, p>0,05.

Tab. 3 - Età di primo contatto con un servizio per le dipendenze, età di prima assunzione della sostanza primaria, periodo di latenza: campione complessivo e consumatori di oppiacei

Test chi quadro: Campione complessivo: età 1° contatto xz =21,669 per 4 df, età 1° assunzione x2 =9,118 per 3 df, p