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Italian Pages 160/162 [162] Year 2017
Collana diretta da Massimo Temporelli Che cosa fa la scienza? Che limiti ha la tecnologia? Come stanno cambiando la società e il nostro mondo?… La collana Microscopi prova a rispondere a queste e altre domande in modo brillante e non accademico. Un taglio agile e disincantato, un linguaggio alla portata di tutti, autori giovani e vicini al mondo della ricerca: ecco i tratti salienti di una collana per informarsi in modo veloce ed efficace sui principali argomenti della scienza e della tecnologia. Quelli che stanno sempre di più cambiando la nostra vita. I titoli della collana Microscopi si articolano in diversi filoni legati ai temi della divulgazione scientifica, delle frontiere tecnologiche e delle sue applicazioni, delle biografie di scienziati, inventori e movimenti, delle idee e delle scoperte che hanno segnato la storia dell’umanità.
Maria Rosa Panté
La scienza delle donne Ricerca, teoremi e algoritmi al femminile
EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO
Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2017 via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy) tel. +39 02 864871 – fax +39 02 8052886 e-mail [email protected]
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ISBN 978-88-203-7825-7 Ristampa: 4 3 2 1 0
2017 2018 2019 2020 2021
Progetto editoriale e realizzazione: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali ([email protected]) Copertina: Sara Taglialegne
Stampa: L.E.G.O. S.p.A., stabilimento di Lavis (TN) Printed in Italy
A Guglielmo che con pazienza mi narra del Piano di Gauss
SOMMARIO
Prefazione
di Gabriele Lolli. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . IX Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . XIII Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . XVII Capitolo 1
Figlie di papà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .1 Capitolo 2
Madri e figlie, una storia 3.0. . . . . . . . . . .15 Capitolo 3
Sorelline. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .29 Capitolo 4
Mogli e amanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .45 Capitolo 5
Una matrigna buona. . . . . . . . . . . . . . . . .61
Capitolo 6
L’abito non fa… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .71 Capitolo 7
Oltre la matematica, le rivoluzionarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .89 Capitolo 8
Ben oltre la matematica, le filantrope. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .109 Capitolo 9
Tiriamo le somme . . . . . . . . . . . . . . . . .127 Postfazione
C’è una matematica femminile? . . . . . .137 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141
Prefazione
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Se persino Einstein oscillava nelle sue esternazioni tra Fräulein Noether è stata il genio creativo matematico più significativo da quando l’istruzione superiore è stata aperta alle donne,1
e Pochissime donne sono creative. Non manderei una mia figlia a studiare fisica,2
è chiaro che le vicissitudini delle donne matematiche nei secoli sono solo un aspetto minore dello stato di subordinazione generale del genere femminile a quello maschile e delle sue rare eccezioni; è sufficiente un’informazione approssimativa sulle condizioni di vita nelle varie società per non meravigliarsi della sorte preordinata delle coraggiose che le sfidavano. Alle matematiche è andata ancora bene, perché soggette solo ai loro mariti, come 1. A. Calaprice (a cura di), The Ultimate Quotable Einstein, Princeton University Press, Princeton, 2011, p. 144. Emmy Noether (1882-1935) ha dato fondamentali contributi all’algebra e alla fisica moderne. 2. Ivi, p. 457.
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raccomandava Paolo di Tarso nella prima epistola ai Corinzi: “Tácciansi le donne nelle assemblee, perché non è loro concesso di parlare, ma debbono stare soggette […]. E se vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro mariti a casa, perché è cosa indecorosa per una donna parlare in assemblea” (34,35). Solo tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo, sembra che l’emancipazione femminile abbia dato finalmente la spallata, a parte ancora il differenziale salariale, nelle professioni, nella politica, nella cultura, nelle arti e nella scienza. Non è stato un percorso lineare; per esempio verso la metà del Novecento un caso di eterogeneità dei fini è stato provocato dagli elettrodomestici, che hanno reso superflua la servitù, e l’hanno fatta sparire come classe sociale, ma con ciò hanno danneggiato le donne, almeno quelle dell’alta borghesia; all’inizio del secolo potevano dedicarsi con profitto e successo a varie attività, e si trovano ora di nuovo legate ai compiti familiari, per i quali non esiste ormai la possibilità di delega.3 Ci sono nuove difficoltà, ma oggi la parità dei sessi, aiutata tra l’altro dal fatto che sembra diventare scontato che siano più di due, è un contenzioso in via di contrattazione e aggiustamento, se le impressioni sono corrette più delle statistiche che registrano aumenti progressivi inevitabilmente lenti. Le figure femminili conosciute e riconosciute in vari campi sono numerose e soprattutto accettate come un fatto naturale. Così non ha destato neanche troppo scalpore l’assegnazione della medaglia Fields nel 2014 a Maryam Mirzakhani. Il ruolo delle donne matematiche sta diventando normale, il che non significa, e non deve significare, che diventa un mestiere. Certamente gli impieghi di matematici o di persone con una forte preparazione matematica stanno aumentando e diventano strategici nella nuova economia; tuttavia il fascino della matematica e l’attrazione che esercita su alcune donne non dipende dall’utilità. 3. Congettura di Freeman J. Dyson, Il Sole, il genoma e Internet, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, pp. 69-75, trascurando lo spostamento di nuove popolazioni disposte ad accettare condizioni di servitù.
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Il pubblico crede con ragione che per la maggior parte dei matematici la loro disciplina sia un insieme di tecniche, ma deve sapere che esistono matematiche che vivono con passione totale e vitale la scienza che coltivano e ne hanno una visione lucida, quasi mistica, e sofferente. Quella che sembra incapacità di presa sul mondo è assorbimento in una realtà più alta, cristallina, pulita. Vivono perciò paradossalmente in un’insicurezza profonda, contraddittoria con la loro bravura e incomprensibile alle persone comuni e razionali. Il pubblico le può incontrare solo nella letteratura o nei film. Un esempio è rappresentato dalla protagonista di Proof, film del 2005 del regista John Madden, tratto da un’opera teatrale omonima di David Auburn, che ha vinto il Premio Pulitzer e il Tony Award per la lunga stagione di rappresentazioni a Broadway. In Italia è passato veloce. “Proof ” è dimostrazione, ma anche “prova”, cimento da superare. Catherine (Gwyneth Paltrow) accudisce il padre afflitto da demenza senile, matematico che in gioventù aveva ottenuto importanti risultati; anche Catherine ha ambizioni matematiche, ha studiato in un’altra università per evitare imbarazzi al padre; quando questi muore, lascia alcuni quaderni, esplorati con ansia dai giovani allievi alla ricerca di suggerimenti di ricerca, ma sembrano l’espressione penosa di una mente svanita. Fino a quando Catherine trova un quaderno dove sembra essere descritto un risultato sensazionale; la dimostrazione è incompleta, con lampi geniali accompagnati da difetti da dilettante, o di persona con improvvisi vuoti; è comprensibile nelle sue linee fondamentali e giudicata sostanzialmente corretta, sia pure con lacune, dai colleghi del padre. A sorpresa, però, Catherine confessa di averlo scritto lei, senza essere inizialmente creduta, né dai parenti, né dai colleghi del padre, né dallo studente che la corteggia interessato, protagonista della gara allo spasimo per emergere. Alla fine, dopo che il regista abilmente offre ambigui indizi sulla sincerità e sanità mentale di Catherine, questa decide di fermarsi all’università per riprendere gli studi e incomincia a essere ascoltata nel suo sforzo di completamento della dimostrazione. E se la matematica, in queste donne eteree, è portatrice di sofferenza, è invece fonte di sicurezza e autostima negli autistici (quasi tutti
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uomini). Ancora un film, A Brilliant Young Mind, di Morgan Matthews, del 2014, titolo originale x + y, racconta la storia di un ragazzo con la sindrome di Asperger che partecipando alle Olimpiadi di matematica riesce a dare espressione alla sua vita emozionale. Non si sa perché i ragazzi che vivono questa condizione abbiano facilità e talento e trovino soddisfazione nella matematica; il fenomeno è confermato da diversi educatori che hanno esperienze di ragazzi autistici capaci addirittura di guidare le discussioni di gruppo da leader. La matematica è per loro un ponte alla realtà, forse vedono un ordine che riescono a imporre sul mondo in modi che noi non considereremmo appropriati perché non abituati a vivere nell’universo matematico. Bellissimi e commoventi esempi si trovano in Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon,4 Più che sulla mente autistica le avventure del protagonista Christopher ci illuminano sulla matematica: il suo legame con la verità, che è una, mentre le cose che non accadono, e il discorso obliquo, le menzogne, sono infinite; l’intelligenza contrapposta all’osservazione, per scoprire cose nuove, o svelare misteri; e smascherare i falsi e dividere i problemi risolvendo i sottoproblemi; il muoversi nell’ignoto, anche fisicamente, come quando Christopher usa una spirale per arrivare alla stazione che non sa dove si trova. “Il signor Jevons non capisce i numeri”, dice con orgoglio Christopher, come la maggior parte delle persone normali, che usano l’intuizione per prendere decisioni e sbagliano, invece di aiutarsi con la logica. I numeri qualche volta sono complicati e non diretti; a seguirli, si hanno sorprese. Bisogna desiderare di essere sorpresi. Le persone normali dovrebbero prendere ispirazione dalle donne, che nel corso dei secoli hanno patito sacrifici e umiliazioni per allargare il loro mondo. Gabriele Lolli
4. Einaudi, Torino, 2003.
INTRODUZIONE Donne e matematica. Chissà perché, quando mi è stato chiesto di scrivere di donne e scienza, fra le molte possibilità ho scelto le matematiche. Forse perché avevo scritto un monologo teatrale su Maria Gaetana Agnesi e quindi mi ero già accostata “da dentro” al mondo di una matematica. E poi per altri vari motivi. Quando si parla di scienza, l’immaginario collettivo difficilmente colloca la donna nell’ambito del puro pensiero, della speculazione, piuttosto la associa alle scienze applicate e preferibilmente ai settori pratici, inerenti la cura: medicina, chimica, biologia, psicologia. Io, scegliendo proprio l’ambito della matematica, il più astratto del pensiero umano, vorrei invece sfatare il mito (che ha condizionato anche me) secondo cui il cervello femminile non è matematico, e, addirittura, la matematica fa paura soprattutto alle donne. Infatti, approfondendo la storia di questa disciplina, di donne ne ho incontrate non poche e la cosa un po’ mi ha stupito. In realtà la matematica ha dei punti a favore delle donne. Uno di questi è che una matematica non deve uscire di casa, non ha bisogno di laboratori, ma solo della sua mente. Infine, poiché io scrivo poesie, ho scoperto che la matematica è anche potente intuizione e dunque, in un certo senso, è poesia. La matematica, insomma, è una sorta di chiamata cui non si può resistere, anche se si è donne. Non la si sceglie, ma la si vive.
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Le matematiche hanno in comune almeno cinque caratteristiche importanti: 1. Non sono mai “solo” matematiche: sono madri, sorelle, figlie, amanti. Tra i vari legami familiari, che sono spesso parte integrante del loro lavoro e del loro studio, molto interessante è quello col padre. 2. Alcune studiose hanno lasciato i numeri per dedicarsi alle opere di bene, spinte dalla fede religiosa. Tuttavia, hanno fatto tesoro degli studi matematici e li hanno “calati” nella nuova vita. 3. Sono frequentemente impegnate nel campo dell’educazione (non potendo ambire a un ruolo accademico ufficiale e riconosciuto, accettano persino di insegnare gratuitamente), e si dedicano alla costruzione di connessioni e reti: per esempio, riscrivono o traducono opere di altri matematici. 4. La loro estrazione sociale è alta (e vien da chiedersi se questa è stata una condizione fondamentale anche per gli uomini). 5. Sempre impegnate a “liberare” se stesse dai molti ostacoli del quotidiano, si dedicano spesso con passione anche alla politica e al sociale, battendosi per la tutela dei diritti delle donne e non solo. La figura dello studioso isolato nei suoi alti pensieri, un simpatico bizzarro, non fa per loro. I pregiudizi di cui le matematiche sono state vittime e che devono essere sfatati sono numerosi. Cominciamo da quello più folkloristico, ma in realtà semplicemente sessista, che vuole che siano tutte brutte e zitelle. Per smontare questo luogo comune, basta citare l’esempio di Madame du Châtelet, che non solo era sposata, ma che addirittura lasciò il marito per un amante celebre, Voltaire, che poi lasciò per un altro amante più giovane di lei. Le matematiche non sono meno dotate dei colleghi maschi, ma sono certamente meno numerose e soprattutto meno note, perché il punto di partenza dei due sessi non è paritario: per esercitare la loro passione, le donne si devono travestire, devono lavorare gratis, scrivere a nome di qualcun altro, scomparire…
INTRODUzIONE
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D’altra parte, una buona notizia c’è. Il mondo delle scienze è, in genere, più aperto e meno ostile rispetto a quello della società e della politica, persino più del mondo umanistico. I matematici, dunque, superano i pregiudizi sessuali con una certa elasticità, perché la matematica risulta essere una patria comune. Ecco la struttura del libro: 1. Figlie di papà: Ipazia, Lucrezia Cornaro, Olga Ladyženskaja. 2. Madri e figlie, una storia 3.0: Anne Milbanke, Ada Lovelace Byron, Mary Somerville. 3. Sorelline: Caroline Herschel, Simone Weil. 4. Mogli e amanti: Émilie du Châtelet, Grace Chisholm Young. 5. Una matrigna buona: Julia Bowman Robinson. 6. L’abito non fa…: Sophie Germain, Emmy Noether ed Hedy Lamarr. 7. Oltre la matematica, le rivoluzionarie: Sofja Kovalevskaja, Grete Hermann. 8. Ben oltre la matematica, le filantrope: Maria Gaetana Agnesi, Florence Nightingale. 9. Tiriamo le somme. L’indice è certo un po’ provocatorio, ed è la scelta di un punto di vista preciso, che fotografa una situazione di fatto e denuncia le condizioni storiche in cui le donne hanno dovuto coltivare la loro passione matematica e le loro ricerche. La struttura portante è quella della famiglia, dei rapporti affettivi, non perché sia la migliore, né la più utile alla conoscenza delle matematiche, ma perché è quella in cui si sono dovute muovere e realizzare. Aggiungo che i loro nomi sono indicativi: alcune hanno storie trasversali ed esemplari, altre devono ancora comparire nei registri ufficiali. Di molte esistono già delle biografie, di alcune in italiano non si trova nulla. Il che la dice lunga. Una nota metodologica: nel raccontare, seguendo la mia vocazione narrativa, sono partita da un particolare della loro vita, da un’affermazione o da un legame, insomma da episodi che fossero in qualche
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modo esemplari, o semplicemente stimolanti, utili a conoscerle meglio. Da lì ho sviluppato il racconto, storico e documentato, della loro esistenza e della loro opera. Su tutto, per me che sono profana, aleggia l’oggetto misterioso delle loro ricerche: la matematica. La domanda che mi pongo e che pongo ai lettori è di riflettere se nei loro studi e nei loro ambiti di ricerca ci sia un comune denominatore, un “tocco femminile”. Qualcuno penserà che sarebbe una bella scoperta, qualcuno forse si augura che non sia così. Lo si vedrà, forse, alla fine di questo viaggio, perché, nella matematica, di certo e definitivo non c’è proprio nulla.
RINGRAZIAMENTI
Per la consulenza matematica e in particolare per la spiegazione del Teorema di Emmy Noether, grazie a Riccardo Zanfa che frequenta il quarto anno del dipartimento di Matematica dell’Università degli Studi di Milano. Per la traduzione dall’inglese di tutte le citazioni delle matematiche e dei loro ammiratori, grazie a Bianca Pizzimenti che frequenta il secondo anno della facoltà di Lettere all’Università Cattolica di Milano. Per avermi proposto uno studio entusiasmante, ringrazio Massimo Temporelli, di cui io fui insegnante.
Capitolo 1
FIGLIE DI PAPË Essere figli e figlie di papà non è sempre facile: ha i suoi vantaggi, ma anche i suoi svantaggi. Certo, le figlie di papà oggetto di questo capitolo, tre donne e matematiche vissute rispettivamente nell’Evo antico, nel Seicento e nel Novecento, hanno potuto studiare e si sono appassionate alle materie scientifiche, e alla matematica in particolare, grazie al padre. Eppure, essere donne e figlie di papà in ambito culturale e soprattutto scientifico ha creato loro problemi anche gravi. Sono state perseguitate, ostacolate, poco riconosciute nel loro valore, ne sono letteralmente morte. Le tre figlie di papà che attraversano la nostra storia e il nostro mondo sono Ipazia, Elena Lucrezia Cornaro e Olga Alexandrovna Ladyženskaja. Curiosamente, sia Ipazia che Elena Cornaro hanno trovato a ostacolare la loro strada un uomo di fede: due vescovi, entrambi tuttora Santi della Chiesa Cattolica.
Ipazia “O madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto”: queste parole sono tratte dall’ultima lettera di Sinesio inviata poco prima di morire a Ipazia, la sua maestra.
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Capitolo 1
Il nome di Ipazia è ormai leggenda, eppure di lei non resta nulla di scritto, vive della fama tramandata dai suoi allievi, perché Ipazia fu soprattutto una Maestra nel senso più ampio del termine: maestra di astronomia e di aritmetica, di filosofia e di pensiero. Fu l’ultimo grande filosofo e matematico dell’antichità, prima che il cristianesimo inglobasse tutti gli uomini di cultura. È curioso che sia stata proprio una donna la grande erede del sapere greco. Ma essere donna, probabilmente, le costò anche la vita.
Figura 1.1 – Busto di marmo della scienziata alessandrina.
Ipazia nasce ad Alessandria d’Egitto intorno al 370 d.C. da Teone, ha uno o due fratelli, ma è lei l’erede del padre. Teone è un matematico e astronomo, oltre che uno dei primi divulgatori scientifici. Insegna al Museo, quel fiorente luogo culturale
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che, insieme alla celebre Biblioteca, costituì il fulcro della cultura ellenistica, erede del “miracolo” greco. Teone ne è conscio, sembra, tanto che le sue opere sono spesso commentari (una forma letteraria inventata da lui) di testi matematici dei grandi classici greci, come Euclide e Tolomeo. Vive ad Alessandria, la città che ha tolto ad Atene il ruolo di leader della cultura filosofica, e, soprattutto, scientifica. Famose, infatti, sono le scuole di medicina e matematica del luogo: in una di queste Diofanto, con la sua opera intitolata Aritmetica, propone equazioni che in algebra si studiano ancora oggi e dà grande impulso alla notazione simbolica che è economica e universale. Ipazia nasce da un padre di tale calibro, coltiva le sue stesse passioni e lo affianca negli studi fino a prendere il suo posto di insegnante e a superarlo in conoscenza. Le fonti antiche tramandano che fosse avvenente e di bell’aspetto e che avesse fatto innamorare di sé un discepolo. Ma Ipazia non voleva quel tipo di amore. Restò vergine per scelta e senza marito, dato che si sentiva già “sposata alla verità”. Dunque, Ipazia studia col padre. Non stupiva, all’epoca, che un padre istruisse la figlia, era anzi un evento abbastanza consueto nel mondo ellenistico, dove numerose erano le studiose e le filosofe. Ciò che invece colpì già i contemporanei di Ipazia fu la sua personalità, la pronta intelligenza, la capacità d’intelletto e l’abilità nell’insegnamento che condussero i suoi studi a importanti scoperte nel campo dell’astronomia e della matematica. Poiché, sino a ora, non possediamo opere che portano il suo nome (ma molto manchevoli sono gli studi, le ricerche e le traduzioni di testi di quest’epoca), ci si basa sulle testimonianze a lei più vicine. Particolarmente importante è quella del suo allievo Sinesio, uno studioso, uomo equilibrato e tormentato, che, nonostante fosse sposato e padre, fu scelto come vescovo dalla sua comunità, Cirene. Per lui Ipazia fu, appunto, “madre, sorella, maestra”, a lei chiese consigli e guida per tutta la sua vita. Morì due anni prima di lei.
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Capitolo 1
Sembra, inoltre, che Ipazia non si limitasse ai commentari, alla stregua del padre, ma che avesse anche scritto un’opera intitolata Canone Astronomico, che probabilmente presentava alcune novità rispetto alle teorie di Tolomeo, e che avesse, per prima, usato le nuove regole algebriche diofantee per meglio comprendere e spiegare i moti celesti. La sua era una scuola di grande libertà e tolleranza, vi studiavano pagani, neoplatonici e anche cristiani come Sinesio. Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini. Infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale. Per questo motivo allora l’invidia si armò verso di lei.
Così scrive di lei uno dei suoi primi biografi, Socrate Scolastico, in un libro che tratta della storia della Chiesa. E ancora un altro biografo, Damascio, che invece era pagano, scrive in termini analoghi: Era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del governo.
Lo stesso Damascio, tuttavia, in un altro punto della sua opera sostiene che rispetto al suo maestro, Isidoro, Ipazia era inferiore perché donna e perché più matematica che filosofa.
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Era una donna, in effetti, e troppo libera, troppo saggia, troppo amata, troppo influente. Nella lotta fra ellenismo e cristianesimo, e tra varie correnti del cristianesimo, Ipazia era scomoda. La tolleranza e l’intelligenza da sempre fanno una brutta fine di fronte al fanatismo e all’ignoranza. Così il vescovo di Alessandria, Cirillo, noto per la sua protervia, intolleranza e violenza, invidioso e preoccupato del potere morale di Ipazia, sobillò una squadraccia di estremisti cristiani (ce ne sono stati per lungo tempo, non dimentichiamolo mai) che la sorprese per strada e la fece a pezzi. Non è una metafora, la martoriarono letteralmente, tagliandola con cocci (qualcuno dice conchiglie) affilati: una morte atroce. Non paghi, dopo averla uccisa, smembrandola, ne bruciarono i resti. Nulla di lei doveva restare. Così Pallada, poeta alessandrino, scrive in un epigramma, dicendoci molto sulla fama di Ipazia: Quando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura.
Elena Lucrezia Cornaro Piscopia Anche Elena, circa 1200 anni dopo Ipazia, incontrò un vescovo non troppo benevolo sulla sua strada. Per sua fortuna, in questo caso, non fu questione di vita o di morte. Il vescovo, semplicemente, non riusciva a concepire che una donna potesse laurearsi in teologia. Forse che non potesse laurearsi in generale, ma soprattutto in materia religiosa. Eppure Elena, italiana, è la prima donna laureata al mondo. L’università dove consegue il titolo è quella di Padova e l’uomo che vi si oppone è il vescovo della città.
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Anni dopo le fu concesso, invece, il titolo in filosofia, probabilmente grazie alle continue pressioni del padre. Un altro padre! Giovan Battista era erede ambizioso di una famiglia in decadenza che era stata importantissima nella storia della città di Venezia. Per colmo di sua sventura, si era innamorato di una donna di umilissime origini, forse addirittura una prostituta, e da lei aveva avuto sette figli. Per lunghi anni non aveva regolarizzato la sua posizione familiare, ma poi, anche per via dei figli, aveva dovuto sanare lo scandalo sposando la donna e pagando, nel vero senso della parola, per riacquisire l’antica dignità. Tuttavia, pur avendo sborsato fior di ducati per far riconoscere la nobiltà ai figli maschi, a Venezia non riusciva a ottenere l’autorità, la fama e gli onori di cui riteneva di essere degno insieme al suo casato. Anche solo per se stesso, infatti, aveva ottenuto solo cariche di poco conto e spesso nominali. Insomma, era un uomo frustrato in attesa di riscatto. Lo strumento di questo riscatto era a portata di mano: non uno dei figli maschi, ma Elena, la figlia quintogenita. Un padre frustrato e una figlia geniale: questa è la miscela che ha creato la prima donna laureata, non solo in Italia, ma al mondo, quantomeno nell’epoca dopo Cristo. Elena nasce a Venezia nel 1646 e muore a Padova nel 1684, giovane e spossata dallo studio che si è sommato a una salute malferma: ha la tubercolosi e una costituzione debole. La famiglia in cui nasce è in decadenza, ma vanta personaggi illustri anche nell’ambito culturale: il bisnonno paterno, che si chiamava Giacomo Alvise Cornaro, era amico di Galileo Galilei, il nonno era un fisico e lo stesso Giovan Battista era un uomo colto e un mecenate. La madre, Zanetta Boni, era umile ma capace, a detta del marito, di educare bene i figli. In casa c’era una biblioteca così ricca da essere visitata da personaggi illustri, con cui Elena venne in contatto. Anche una sorella di Elena fu colta e intelligente, tanto da raccomandare alla figlia nel suo testamento di amare le figlie femmine quanto i maschi.
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Ecco il contesto familiare in cui Elena si muove, e al di fuori c’è la città di Venezia, con la famosa università dove aveva insegnato il grande Galilei. È un canonico che rivela al padre quanto Elena, che ha solo 7 anni, sia di intelligenza precoce e fuori dal comune. Giovan Battista, senza esitazioni, fa quindi studiare la figlia, perché intravede in lei la possibilità di un riscatto per tutta la famiglia. Un peso, questo, che Elena sente e che rivela anche nelle sue lettere. Così, già laureata, gli scrive dopo una malattia per rassicurarlo sulla prosecuzione dei suoi studi: “domus nostrae Nomen ab interitu temporis vindicare” (preservare il Nome della nostra casa dalla distruzione del tempo).
Figura 1.2 – Ritratto di elena Cornaro, Biblioteca ambrosiana, Milano.
Elena studia materie umanistiche: impara le lingue classiche dal canonico che ha scoperto le sue doti, l’erudito don Giovanni Battista Fabris, ma studia anche le lingue moderne e l’ebraico da un famoso e sapiente rabbino di Venezia, Shemuel Aboaf. Studia persino matematica, astronomia, geografia e poi musica, insieme all’organi-
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Capitolo 1
sta Maddalena Cappelli, che diventa sua amica. Soprattutto, però, si appassiona alla filosofia e alla teologia e in queste due discipline ha come maestri due professori dell’Università di Padova: Carlo Rinaldini e padre Felice Rotondi. La sua educazione, insomma, non bada a questioni di differenza religiosa, anche se Elena è religiosa, anzi lo è molto, tanto da ottenere, a 19 anni, di essere ordinata oblata benedettina. Semplicemente, sotto gli abiti “normali” portava lo scapolare nero che era segno distintivo del suo ordine, era un modo per coltivare la fede e al contempo non abbandonare il padre e la famiglia. Ovviamente, non si sposò, anzi rifiutò la proposta di matrimonio di un principe tedesco. Fondamentale, per la giovane, era non abbandonare il padre: la passione che la spinge a dedicarsi a ogni forma dello scibile non è puro amore del sapere, ma ha un fine, il riscatto della famiglia. Dalle sue lettere si intuisce, infatti, che Elena si preoccupa per il padre: “Non fusse il padre per ardere nel Purgatorio per lo vano compiacimento”. Eppure, continua a fare come lui le chiede, perché “tanto ne godeva” che “le sembrava di vederlo ringiovanire”. Al padre appare chiaro, dunque, quale può essere la forma della riabilitazione familiare: la laurea in teologia della figlia. La prima laurea mai riconosciuta a una donna. Elena studia, si sottopone a test, prove, sembra tutto pronto per la famosa laurea, ma vi si oppone il vescovo di Padova, il cardinale Gregorio Barbarigo, che ritiene assurdo dare una laurea in teologia a una donna: “Non rendiamoci ridicoli a tutto il mondo” afferma. Per lui è “uno sproposito dottorar una donna”. Lo scontro fra il cardinale e il padre di Elena è duro e alla fine il padre decide di lasciar perdere, puntando almeno su una laurea in filosofia. E qui il vescovo cede, pur di levarsi da torno quel genitore molesto. Elena si laurea, per acclamazione, ma “soltanto” (non esageriamo) in filosofia e questa restrizione viene ben dichiarata nel titolo che ottiene: Magistra in philosophia tantum. La cerimonia di conferimento della laurea è un vero spettacolo:
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Alle ore 9 di sabato 25 giugno 1678, a Padova, trasferito all’ultimo momento in Cattedrale, nella cappella della Vergine, essendo la sede abituale risultata insufficiente per il pubblico convenuto, ebbe luogo l’esame per il conferimento del Dottorato in Filosofia a Elena Lucrezia Scolastica Cornaro Piscopia.
Durante la discussione dei puncta che le erano stati assegnati, consistenti in due tesi su Aristotele, le dotte e brillanti risposte di Elena impressionarono i suoi esaminatori che, a scrutinio segreto, decisero di proclamarla per acclamazione magistra et doctrix in philosophia. Ricevette anche le insegne del suo grado: il libro, simbolo della dottrina, l’anello che rappresenta le nozze con la scienza, il manto di ermellino, cioè la dignità dottorale e la corona d’alloro, contrassegno del trionfo. Fu un trionfo, ma chissà come si sentiva Elena, durante quella cerimonia, lei che aveva ben altri interessi. La fama della Cornaro si diffonde, Elena viene ammessa in varie accademie: nel 1669 nell’Accademia dei Ricoverati di Padova, poi nell’Accademia degli Infecondi di Roma, quindi nell’Accademia degli Intronati di Siena, negli Erranti di Brescia, in quelle dei Dodonei e dei Pacifici di Venezia. Diventa famosa anche all’estero: il cardinale Federico d’AssiaDarmstadt la consulta nel 1670 su problemi di geometria solida e sulla sfera, e persino il re di Francia manda suoi emissari per mettere alla prova la sua erudizione. Tutti sono ammirati e restano impressionati dal suo carattere affabile e modesto. Affabile anche quando, nel palazzo del padre, deve fare sfoggio della sua cultura, anche se nell’intimo aspira soprattutto a una vita sobria e spirituale, dedita agli studi e alle opere di carità. Infatti, dopo la laurea, decide di vivere a Padova il resto, ben poco, in verità, della sua vita. Nel 1684, a 38 anni, muore di tubercolosi, senza aver mai potuto insegnare, in quanto donna. Di lei restano solo due opere devote, perché nel testamento lascia disposizione di distruggere tutto ciò che aveva scritto.
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Qualcuno sostiene che Elena non meriti tanta fama di studiosa e che l’enfasi sulla sua intelligenza sia controproducente per i diritti delle donne. Lei stessa non ebbe alcuna velleità in questo senso, ma è importante ricordare che il suo fu il primo (e tardivo) caso di donna laureata! E rimase eccezionale ancora a lungo, poiché il padre, per non perdere il privilegio di avere come figlia l’unica donna titolata, si oppose a ogni laurea di una donna dopo di lei! Ma la strada era ormai aperta.
Olga Alexandrovna Ladyžhenskaya L’ultimo padre è, invece, un padre assente, e proprio tale assenza segnerà la vita della figlia. Nel bene e nel male. Olga nasce a Kologriv, in Russia, il 7 marzo del 1922, vive in epoca stalinista e affronta la Seconda guerra mondiale. La sua, purtroppo, è una famiglia russa della piccola nobiltà. Dico purtroppo perché questo condizionerà la sua vita e quella dei suoi familiari. Il padre, Alexander Ivanovich Ladyžhensky, è un insegnante di matematica alle scuole superiori del paese. Ha tre figlie e in tutte cerca di risvegliare l’amore per la sua materia, proponendo, per esempio, un teorema da dimostrare, in cui la più brava si rivela la più piccola, Olga. Siamo nel 1930, la bambina ha 8 anni e da qui nasce la sua passione per la matematica. Purtroppo il padre non saprà mai di avere una figlia geniale. Non saprà quasi nulla delle sue figlie perché sarà vittima delle epurazioni di Stalin (1878-1953), quelle di cui parla Solženicyn nel suo famoso e terribile libro, Arcipelago Gulag, descrivendo le torture, i processi sommari e le morti di coloro che erano considerati dissidenti o da eliminare. Uno di questi, e Solženicyn lo cita, è proprio il padre di Olga. Qualcuno dei contadini lo aveva avvertito che il suo nome campeggiava nella lista nera della polizia di Stalin, la famigerata NKVD, che poi diverrà il famoso e ancor più famigerato KGB, ma lui non aveva voluto lasciare la famiglia e i suoi studenti, così nel 1937 era stato arrestato ed era scomparso: ucciso senza processo in quanto “nemico del popolo”.
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Essere figlie di un nemico del popolo non era certo cosa facile e inizialmente tra le tre sorelle la più fortunata fu Olga perché, mentre le altre furono espulse dalla scuola, a lei fu concesso di terminare il ciclo di studi superiori. Tuttavia, non le fu permesso di frequentare la facoltà di matematica di Leningrado, nonostante avesse superato brillantemente l’esame di ammissione. Stranamente, poté invece frequentare l’Istituto Pedagogico Pokrovsky. Così dal 1942 poté insegnare matematica nella stessa scuola in cui aveva insegnato il padre. Su raccomandazione della madre di una sua allieva le fu permesso, nel 1943, di iscriversi all’Università di Mosca. Si laureò nel 1947, tornò a Leningrado e nel 1949 ottenne il dottorato di ricerca. Ma poté discutere la tesi solo nel 1953, cioè subito dopo la morte di Stalin. Dal 1954 è ricercatrice presso il prestigioso Istituto Steklov di Matematica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, e dal 1961 al 1991 vi dirige il Laboratorio di Fisica e Matematica. Diviene poi membro di numerose Accademie della Scienza in tutto il mondo, tanto che il suo nome è scolpito nel Museo della Scienza di Boston tra i grandi matematici del XX secolo. Olga si occupò di matematica e fisica, studiando il moto dei fluidi, un campo che interessa tutti nella vita quotidiana perché si applica, per esempio, alla meteorologia e alla chirurgia del sistema vascolare. Si occupò anche di equazioni ellittiche e paraboliche e diede impulso alla soluzione del diciannovesimo problema di Hilbert, quindi all’analisi matematica. Si sposò nel 1947 con un matematico, Andrey Alekseevich Kiselev, ma il matrimonio finì perché lui desiderava dei figli mentre lei non voleva trascurare gli studi matematici cui il padre l’aveva iniziata. Al termine dello stalinismo, venne universalmente riconosciuto il valore delle sue ricerche e, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica, avrebbe potuto, come molti colleghi russi, ambire a un posto di lavoro in Occidente e a uno stipendio più corposo, ma, nonostante la crisi economica, fedele alla memoria del padre, decise di rimanere in Russia.
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Capitolo 1
Amava viaggiare e infatti viaggiò molto, e allo stesso modo amava anche conversare: le testimonianze la descrivono come una donna garbata. Era stata anche amabile, e soprattutto molto valida, come insegnante: ebbe, infatti, numerosi allievi che sarebbero diventati poi famosi. Scrisse numerose opere e almeno 250 articoli scientifici. Un suo testo fondamentale del 1961 si intitola The Mathematical Theory of Viscous Incompressible Flow. Poter viaggiare, come si è detto, era stato per lei un motivo di grande interesse e piacere, ed era proprio in procinto di un viaggio per la Florida il mattino in cui non si svegliò. Era il 12 gennaio 2004.
Figura 1.3 – Fotografia di olga ladyzhenskaya.
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Il professor Max Gunzburger, che la attendeva presso l’università della Florida, annunciò la morte dell’illustre studiosa con queste parole: Nonostante fosse un gigante della matematica, non è conosciuta come analista numerica; in ogni caso, è suo il merito di esser stata la prima (e ancora oggi una delle poche) a fornire prove rigorose della convergenza di un metodo delle differenze finite per le equazioni di Navier Stokes. E ancora più importante è che il suo lavoro di studio sulle equazioni parziali differenziali abbia avuto un’incredibile e duratura influenza su quanti si specializzano nel Numerical PDEs. […] Olga Ladyžhenskaya ha superato grandi difficoltà di natura politica e personale per diventare una delle matematiche più influenti della sua generazione. Questa nobile donna mancherà molto alla sua famiglia, agli amici e alla comunità scientifica.
Una lodevole sintesi della sua opera.
Capitolo 2
MADRI E FIGLIE, UNA STORIA 3.0
Chissà se, in un’epoca in cui tutto è 2.0, c’è posto per una storia 3.0 avvenuta all’incirca 200 anni fa? Ada è un nome proprio femminile breve e aggraziato, ed è anche un linguaggio di programmazione di computer. Nel 1979, infatti, il Pentagono commissionò la ricerca di un linguaggio che unificasse gli oltre 400 in uso nella gestione di banche dati e sistemi d’arma: tale linguaggio fu chiamato ADA, appunto. Non per una ventata di romanticismo, ma per rendere omaggio a un personaggio in carne e ossa, una vera Ada, una donna nata a Londra nel 1815. Ada Lovelace Byron, detta anche “l’incantatrice dei numeri”, ha molto a che fare con i computer e con la programmazione poiché fu la creatrice del primo algoritmo della storia. Fu condotta sulla strada della scienza dalla madre, Anne Isabella (Annabelle) Milbanke, anche lei matematica. E nel suo viaggio fu accompagnata da una brillante docente, un’altra eccelsa matematica, un’altra donna: Mary Somerville, i cui testi erano usati nelle università inglesi, nonostante lei, proprio in quanto donna, non vi potesse insegnare. Dettaglio paradossale, questo, come molti aspetti nella storia delle matematiche.
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Paradossale e metaforico come è anche l’universo 3.0, ma la metafora qui regge benissimo, perché Ada fu figlia di una matematica e di un poeta. E che poeta: Lord Byron, genio romantico e maledetto per eccellenza. E anche la figlia di Ada, che sarà viaggiatrice e geografa, sposerà un poeta. La poesia è tignosa, non ti molla mai, come la matematica, del resto. Che la poesia fosse così determinante Lady Milbanke non lo immaginava, lei che aveva cercato in tutti i modi di coltivare nella figlia l’amore per la matematica e il suo ordine e rigore allo scopo di evitarle il disordine della poesia e l’influenza della figura paterna, non del tutto consona alla morale dell’epoca (e forse anche a quella odierna, giacché Byron ebbe tre figlie da tre donne diverse: dalla moglie, dall’amante e dalla sorellastra).
Lady Milbanke Lady Milbanke nasce a Durham il 17 maggio del 1792 e muore a Londra nel 1860, un giorno prima di compiere 68 anni. È una ragazza ordinata, rigorosa, di saldi principi morali e dotata di un’intelligenza superiore volta alle scienze. Ed è anche un po’ fredda e altezzosa, dato che non cela le sue doti intellettuali, anzi le mette ben in vista. Dopotutto, ha avuto come insegnante un laureato di Cambridge, William Frend, uomo di ampia cultura. Eppure, in una vita tutta dedicata agli studi e a dirigere le vite altrui, le capita un momento di umana (femminile?) debolezza: si innamora. E, cosa assai più grave, s’innamora di un poeta romantico. È il 1812: siamo nell’età napoleonica, l’età delle libertà politiche, esistenziali, poetiche e artistiche. L’età della ribellione alle regole, dei grandi poeti tormentati e tormentosi. Annabelle si innamora proprio di uno dei più famosi: George Gordon Byron. Sono una coppia alquanto squilibrata: lui, mentre erano fidanzati, la chiamava affettuosamente la “regina dei parallelogrammi” e le scriveva che, pur sapendo che due più due fa quattro, gli sarebbe piaciuto
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che qualche volta facesse cinque; lei, invece, amava quegli studi anche per il loro rigore.
Figura 2.1 – anne isabella Milbanke, baronessa Byron, ritratta da Charles Hayter (1812).
A ogni modo si innamorano (lei di certo, di lui si può nutrire il dubbio che cercasse un matrimonio di interesse) e nel 1814, dopo qualche anno di fidanzamento, si sposano. Lui era già abbastanza famoso per le sue poesie, era nobile, ma totalmente spiantato e pieno di inquietudini, di squilibri e di eccessi che certo una moglie così ordinata, rigorosa e religiosa non poteva tollerare a lungo. Infatti, a un anno dal matrimonio, mentre lei è già incinta, lui si fa un’amante, una corista. Il matrimonio finisce nel 1816, pochi mesi dopo la nascita della bambina. Annabelle torna a vivere dai suoi genitori e Byron, dopo alcu-
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ne resistenze, le concede la separazione e parte alla volta della Grecia, dove morirà a 36 anni combattendo per la libertà di quel popolo. Non si fa mai vivo con la figlia, ma all’inizio ne segue la crescita a distanza, rimproverando all’ex moglie, in una lettera, di passare poco tempo con la bambina. Ada, infatti, viene cresciuta dalla nonna materna, mentre la madre si occupa soprattutto di farle odiare il padre e farle studiare matematica. Lady Milbanke ha tanto a cuore di tener lontana la figlia dalla poesia (senza peraltro riuscirci del tutto, per fortuna) da affiancarle i docenti più qualificati dell’epoca. Tra tutti, quella che, insieme ad Augustus De Morgan, ebbe più influenza non solo scientifica ma anche umana su Ada fu la donna 3.0 di questo strano programma, cioè Mary Somerville.
Mary Somerville Delle tre, la storia di Mary è quella che dà più soddisfazione. Nonostante le numerose difficoltà, vive a lungo; una vita piena, ricca e con una mente lucida fino alla fine, a 92 anni. Fino all’ultimo, come scrive lei stessa nelle sue memorie, dedica allo studio quattro/cinque ore ogni mattino (“read books on the higher algebra for four or five hours in the morning, and even to solve problems”), risolve problemi e conversa, nonostante qualche cedimento nell’udito. Mary è una donna minuta e non particolarmente espressiva, se non per gli occhi vividi e miopi. È versata nelle scienze, è simpatica, intelligentissima e semplice. Parlare con lei è un piacere, non fa pesare la sua cultura, le sue doti intellettuali. Si esprime in modo tanto chiaro e semplice che chi la ascolta quasi non si rende conto che dalla sua bocca escono cose straordinarie, per una donna… Così la descrive lo studioso David Forbes, che la incontra nel 1831: Below middle size, fair, countenance not particularly expressive except eyes which are piercing. Short-sighted. Manners the simplest possible. Her
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conversation very simple and pleasing. Simplicity not showing itself in abstaining from scientific subjects with which she is so well acquainted, but in being ready to talk on them all with the naiveté of a child and the utmost apparent unconsciousness of the rarity of such knowledge as she possesses, so that it requires a moment’s reflection to be aware that one is hearing something very extraordinary from the mouth of a woman.
Questa piccola donna scopre la passione per l’algebra attraverso l’arte e i giornali di moda femminili, dimostrando che la matematica è davvero dovunque, come del resto la poesia: basta solo saperle riconoscere. E incuriosirsi. Mary nasce in Scozia, a Edimburgo, il 26 dicembre del 1780 da una famiglia benestante. Il padre è un ammiraglio che non è affatto contento degli studi della figlia, perché è preoccupato che troppo impegno possa compromettere la sua fragile natura femminile: “the strain of abstract thought would injure the tender female frame”. Tale, infatti, era la credenza del tempo: che gli studi facessero male… e una successione continua di parti invece no! Mary studia di notte, come nelle migliori tradizioni agiografiche. Non è né la prima né l’ultima giovane costretta a studiare a lume di candela, e ciò che l’appassiona è la scienza in tutte le sue articolazioni. Approda anche alla matematica, ma in modo inconsueto e molto “femminile”. La famiglia la spinge a studiare musica, lingue, arte e altre materie per fanciulle, adatte a una futura madre di famiglia, mentre ai fratelli insegnano ben altro. Durante una lezione di arte, Mary apprende che, per capire la prospettiva, bisogna conoscere gli Elementi di Euclide, su cui appunto si basa tutta la prospettiva pittorica. Questi Elementi la appassionano e si dà alla loro lettura, complice il tutore del fratello più piccolo che le procura i testi e, in seguito, anche libri di algebra. Il primo incontro con l’algebra avviene, invece, sulle pagine di una rivista di moda femminile: un giorno, in un rompicapo, la ragazza incappa in strane e curiose figure, i segni algebrici, e così eccola pronta a studiare e approfondire l’algebra.
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Un destino davvero segnato, il suo, che passa attraverso i canali più impensati per rivelarsi. Come spesso accade a queste donne, Mary è anche una studiosa autodidatta. A ogni modo, riceve un’educazione abbastanza libera, perché il padre è spesso in mare e la madre controlla soprattutto che lei legga la Bibbia. Trascorre, però, un anno difficile in un collegio femminile (che ricorda quello di Jane Eyre, romanzo di Charlotte Brontë del 1847) dove non impara quasi nulla e sta malissimo, al punto che, quando riesce a venirsene via, si sente come un animale selvatico fuggito da una gabbia (così lei stessa scrive: “like a wild animal escare out of a cage”).
Figura 2.2 – Ritratto di Mary somerville.
La famiglia cerca per lei una vita “normale”, cioè senza matematica e troppo studio, e la giovane non disdegna le occasioni mondane. Tra un ballo e l’altro si fidanza e poi si sposa con un cugino. Il matrimonio, da cui nascono due figli, dura tre anni, ma non è felice per Mary, perché il marito, seppure non la ostacola apertamente negli studi, certo non la incoraggia: non ne capisce proprio nulla e nemmeno si incuriosisce. I due appartengono a due mondi lontanissimi.
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Alla morte del marito Mary si trova ad avere una maggiore libertà, al punto da poter anche studiare senza le tutele della famiglia e del coniuge. Eppure si risposa, sempre con un cugino, William Somerville, che, a differenza del precedente, la sostiene e si appassiona alle sue passioni. Inoltre, a causa del lavoro di William, che è medico e ispettore di ospedali, i coniugi viaggiano molto. Finiranno in Italia, dove Mary passerà un bel periodo, fino alla morte di William. Anche da vedova, continua a studiare e a pubblicare: a 60 anni dà alle stampe un trattato di geografia che sarà usato nelle scuole britanniche per 50 anni; a 89 anni conclude il suo ultimo libro, che tratta di un argomento modernissimo e soprattutto stupefacente per una donna di quell’età, la cui vista di certo era indebolita: la scienza microscopica e molecolare. Come si è già detto, morirà poi a Napoli all’età di 92 anni. Perché Mary è una donna 3.0? Perché conosce la matematica e la scienza, studia gli Elementi di Euclide e i Principi di Newton. Sa di astronomia, traduce e commenta Laplace e scrive il suo testo più famoso, The Mechanism of the Heavens, grazie al quale, insieme a Caroline Herschel, nel 1835, è la prima donna ammessa alla Royal Astronomical Society. Ciò che la attrae nell’astronomia è lo stupore e la curiosità di fronte a quella forza che regola le cose grandi tanto quanto le piccole, una goccia d’acqua tanto quanto le cascate del Niagara, le cose che stanno nel cielo e quelle sulla terra: Nell’astronomia noi percepiamo le operazioni di una forza che è mescolata con tutto ciò che esiste nei cieli o sulla terra; che pervade ogni atomo, che governa il movimento di esseri animati e inanimati, ed è percepibile nella caduta di una goccia di pioggia così come nelle cascate del Niagara; nel peso dell’aria, così come nel ciclo lunare.
Il suo valore è tanto riconosciuto che viene persino stipendiata dalla Corona per i suoi studi. E sono numerosi i riconoscimenti che riceve nel corso della sua vita: nel 1819, durante una spedizione nell’Artico,
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Lord Parry dà addirittura il suo nome a un’isola. Varie scuole sono intitolate a lei e persino un cratere lunare e un asteroide, cosa che probabilmente l’avrebbe entusiasmata. Ma non basta, Mary ha un’altra importante caratteristica: sa spiegare cose difficili in modo comprensibile, e lei stessa ne è conscia, quando scrive: “Ho tradotto il lavoro di Laplace dall’algebra al linguaggio comune.” Dunque, sa far amare la matematica e si impegna perché l’istruzione femminile sia all’altezza di quella maschile, non un’istruzione di serie B come quella che aveva avuto lei rispetto ai suoi fratelli. È anche una strenua sostenitrice del suffragio universale e una delle prime firmatarie della petizione per il voto alle donne presentata nel 1866 alla Camera dei Comuni dal filosofo ed economista John Stuart Mill. Il valore dei suoi studi per la causa dell’emancipazione femminile è riconosciuto anche da una poetessa e drammaturga scozzese, Joanna Baillie, che, dopo aver ricevuto il suo libro sul meccanismo dei cieli, le scrive che, con questo testo, ha fatto più di tutte le poetesse e le scrittrici per rimuovere i pregiudizi sulla fragilità delle donne. Mary ne avrà avuto orgoglio e piacere, dato che i suoi interessi erano tanti e così pure le sue amicizie, anche nel mondo letterario. Durante la gioventù in Scozia ebbe persino la ventura di avere come vicino il romanziere Walter Scott, di cui ha riportato in seguito quanto fosse affascinante quando raccontava storie divertenti, antiche leggende e vicende di fantasmi e streghe: I shall never forget the charm of this little society, especially the supperparties at Abbotsford, when Scott was in the highest glee, telling amusing tales, ancient legends, ghost and witch stories.
Donna vivace e complessa, scrive anche un libro di ricette semplici, di tutti i giorni, che si trova anche digitalizzato, per chi volesse cimentarsi in una cheesecake di una grande matematica.
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Mary, insomma, sa vivere e non solo studiare. Per questo è un’ottima maestra e una guida, un esempio per la giovane Ada Byron, che sognava di volare via, dalla madre quasi sicuramente e forse anche dalla matematica.
Ada Lovelace Byron Ada, a soli 12 anni, dimostra già almeno quattro cose: è portata per l’osservazione scientifica e anche tecnica, vuole volare, è dotata di visionarietà e ama le sfide impossibili. Dimostra tutto questo semplicemente cercando di costruirsi delle ali. Non immagina, come accade a molti, di avere delle ali, ma vuole proprio fabbricarle e dunque studia il volo degli uccelli, la loro anatomia, calcola le loro traiettorie, pensa a quale materiale debba usare per costruirle, alla dimensione adatta al suo peso e, infine, scrive un piccolo trattato intitolato Flylogy. Da una bambina così ci si poteva aspettare qualcosa di meno che, una volta adulta, immaginare un computer? Che fosse interessata all’osservazione lo si era intuito già quando, a 8 anni, aveva studiato e annotato le abitudini della sua gatta, che, insieme alla nonna, era forse l’unico essere affettuoso con lei, dato che il padre era sparito e la madre era assente. Che fosse visionaria lo si sarebbe capito qualche anno dopo. Certo è che il suo sogno è di volare via e di motivi per scappare ne ha un bel po’. L’infanzia di Ada è probabilmente infelice: alla madre interessava solo che studiasse, per estirpare da lei ogni forma di poesia e di immaginazione, perciò la costringeva a ore intense di matematica. Avendo saputo che la bambina preferiva la geografia e che l’insegnante l’aveva accontentata, aveva rimosso l’insegnante e aumentato le ore di matematica. Era una donna terribile, insomma. E Ada progettava di andarsene in due modi apparentemente opposti, ma in realtà molto simili: cerca di costruirsi delle ali e si ammala ripetutamente. Soffre di frequenti ce-
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falee e a causa del morbillo resta paralizzata per parecchio tempo, ma, per fortuna, cresce in fisico (sempre fragile), intelletto (sempre vivace) e in bellezza. Viene istruita da menti brillanti, tra cui appunto Mary Somerville che, oltre a darle insegnamenti e letture di algebra, la porta con sé a eventi d’arte, di musica e mondani. In una lettera a William King, suo fidanzato dell’epoca, Ada scrive infatti che sarebbe andata a un concerto con Mary Somerville. La ragazza ama la musica e suona l’arpa, una delle poche concessioni della madre. Proprio grazie a Mary, a 17 anni, Ada fa l’incontro che cambierà la sua vita. Mary le presenta l’ingegnere e scienziato quarantenne Charles Babbage, che mostra alla giovane il suo motore differenziale, una macchina totalmente innovativa per l’epoca che serve a fare addizioni e sottrazioni, la cui elaborazione e costruzione è sovvenzionata dal governo inglese. Ada resta affascinata e Babbage ancor di più, sarà lui, infatti, a definirla “l’incantatrice dei numeri”. I due iniziano una fitta corrispondenza e insieme a loro cresce e si modifica anche la macchina che diviene il motore analitico, ampliando, cioè, le operazioni numeriche che sa compiere. Poiché il governo inglese non intende sovvenzionare questa seconda diavoleria, visto che non ha nemmeno terminato la prima, Babbage la porta in giro per l’Europa. A Torino, un giovane ingegnere e scienziato che poi sarà capo del governo, Luigi Menabrea, ne intuisce le potenzialità e scrive un testo in francese sul suo funzionamento. Ada, che ora corrisponde anche con Menabrea, è convinta che tutti debbano conoscere le potenzialità della macchina e traduce in inglese il testo dello scienziato italiano. Nelle sue memorie Babbage scrive di aver chiesto ad Ada di aggiungere al testo di Menabrea le sue osservazioni e, infatti, la traduzione si arricchisce delle Note di Ada, un vero saggio a sé stante, che aumentano del doppio il testo originario pur andando solo dalla A alla G. Ada si firma A.L.L., ma sanno tutti che si tratta di lei: nel frattempo è stata presentata a corte, si è sposata con William King, di dieci anni
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più vecchio di lei, e ha avuto tre figli. Non è, però, una moglie tutta casa e chiesa, e nemmeno tutta casa e matematica: ama bere, giocare e scommettere sulle corse di cavalli. Si indebita moltissimo, tanto da cercare di impegnare i gioielli di famiglia del marito. Ama anche piacere, flirtare, e forse tradisce il coniuge.
Figura 2.3 – Ritratto di ada lovelace (1840).
Chissà se tutte queste cose sono ali che cercava ancora di costruirsi per volare via dal controllo della madre, sempre presente e oppressiva. Volare dove? Tra matematica e poesia. Lei stessa si definiva “analista e metafisica”, dunque matematica e poetessa. Nonostante i numerosi riconoscimenti (per lo più postumi, va detto), Ada lamentava che, in quanto donna, le sue intuizioni scientifiche non sempre venissero considerate. Aveva tanti progetti in mente, per esempio quello di scrivere degli effetti che alcool e oppio avevano sulla mente. Bisogna tener presente, infatti, che l’oppio le veniva somministrato per alleviare i dolori causati dalle numerose malattie di cui soffriva. Poi, voleva studiare e creare un modello del funzionamento del cervello, un algoritmo che spiegasse le sensazioni nervose. A pensarci bene, quest’intensa curiosità si addice perfettamente a colei che, con
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quasi duecento anni d’anticipo, ha intuito cosa è e cosa può fare un computer. Perché fu questa la grande visione di Ada. Babbage progetta e costruisce il motore analitico, ma è Ada a creare il primo algoritmo della storia per trovare i numeri di Bernoulli, senza dover effettuare tutti i passaggi matematici. Scrive, cioè, le regole per far fare a una macchina una determinata operazione: un software! Ed è sempre lei a capire che questa macchina può non solo trattare i numeri, ma anche i simboli e le note musicali, insomma qualsiasi relazione fra oggetti nell’universo. Così scrive nelle Note: “The Analytical Engine weaves algebraic patterns just as the Jacquard loom weaves flowers and leale”, cioè “la macchina analitica tesse modelli algebrici esattamente come il telaio Jacquard (uno dei primi telai automatici della storia, N.d.A.) tesse fiori e foglie”. E poi aggiunge: Consentendo al meccanismo di combinare tra loro simboli generali in successioni di varietà ed estensione illimitate, viene stabilito un legame unificante tra le operazioni della materia e i processi mentali della branca più astratta della scienza matematica. Viene sviluppato un linguaggio nuovo, vasto e potente per gli usi futuri dell’analisi, in cui esprimere le sue verità, sicché esse possono avere applicazione pratica più rapida e precisa per i fini dell’umanità di quanto non abbiano permesso i mezzi finora in nostro possesso.
Un’osservazione davvero profetica. Ada, oltre alla velocità e all’esattezza delle operazioni e degli esiti, coglie anche l’universalità del linguaggio della programmazione, cioè di quell’insieme di istruzioni da dare alla macchina analitica, e intuisce come questo sia importante per tutta la scienza. Ma non si spinge mai a pensare che la macchina possa pensare come un essere umano. Anzi, mette in evidenza la grande responsabilità di
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colui (o colei) che deve dare istruzioni a una tale macchina, cioè al programmatore. Sarà Alan Turing, che conosceva le sue Note, a mettere in pratica la sua visione e le macchine di Babbage nel 1942. Ada ha vissuto divisa tra due nature, fra la matematica e la poesia. Nel gennaio del 1841 si chiedeva: “What is imagination?”; la risposta pare molto poetica, ma è anche molto matematica. Per lei l’immaginazione è la facoltà di combinare, di mettere in relazione. Mette insieme le cose, i fatti, le concezioni in modi sempre nuovi originali, con infinite possibilità di combinazioni. E così si penetra nei mondi che ci circondano ma che non vediamo. I mondi della Scienza.
In bilico fra la presenza oppressiva della madre e l’assenza pesante del padre, muore nel 1852, a soli 36 anni, gli stessi del padre, per un cancro alle ovaie, distrutta dai dolori e dai salassi. Vicino a lei c’è la madre, ma Ada chiede e ottiene di essere seppellita a fianco del padre. Perché la potenza della sua mente fosse riconosciuta c’è voluto molto tempo, e ancora oggi qualcuno minimizza il suo contributo a favore di Babbage. Anche il fatto fondamentale che lei ritenesse l’essere uno scienziato una professione e non un hobby le è stato riconosciuto con grande ritardo. Ma, alla fine, Ada l’ha spuntata, ha sorvolato i secoli e oltre al programma del Pentagono ha avuto numerosi altri riconoscimenti: in molte parti del mondo, per esempio, le hanno dedicato un giorno, l’Ada Lovelace Day, che si prefigge di incrementare il ruolo delle donne nella scienza, nella tecnologia, nell’ingegneria e nella matematica, per creare un nuovo modello di donna, insomma per dare alle donne scienziato delle ali. Lasciamola con questo suo elogio davvero poetico e visionario della matematica, linguaggio potente e universale: Coloro che considerano la scienza matematica non solo come un ampio corpo di verità astratte e immutabili, la cui intrinseca bellez-
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za, simmetria e completezza logica, viste nella connessione con il tutto, danno a questa scienza un posto importante nelle menti profonde e logiche, ma [vedono la matematica anche] come qualcosa che presenta un interesse ancora più profondo per la razza umana; perché questa scienza costituisce il solo linguaggio attraverso il quale possiamo esprimere adeguatamente i grandi fatti del mondo naturale, e quei cambiamenti incessanti della mutua relazione che, visibili o invisibili, consci o inconsci, [...] procedono incessantemente verso gli effetti della Creazione in mezzo a cui viviamo; coloro che pensano in questo modo alla verità matematica, come allo strumento attraverso il quale la debole mente dell’uomo può effettivamente leggere l’operato del suo Creatore, costoro guarderanno con interesse particolare a tutto ciò che può facilitare la traduzione esplicita dei suoi principi in forme pratiche.
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SORELLINE La storia ci regala racconti (per lo più struggenti) di sorelle vissute all’ombra dei fratelli: nella musica, nella poesia, nella scienza. Ma alcune, stanche dell’ombra, a un certo punto sono uscite alla luce. E che luce, una di queste è paragonabile alla luce di ben otto comete! Le due sorelle di cui si parla in questo capitolo sono diversissime; hanno in comune, però, una sconfinata passione per la matematica e un grande affetto per i loro fratelli. La prima è Caroline Lucretia Herschel, matematica ma soprattutto astronoma e persino cantante lirica. Era sorella di William, anch’egli matematico, astronomo, compositore e direttore del coro in cui cantava Caroline. Siamo nell’Inghilterra all’inizio dell’Ottocento, ma l’esistenza di Caroline si dipana equamente a cavallo dei due secoli, giacché morì nel 1848 a 98 anni di età. Della seconda sorella si tramanda che fu filosofa, attivista e mistica, ma non viene mai fatto cenno alle sue doti di matematica, eppure fu anche quello. Si tratta di Simone Weil, sorella minore di André, uno dei più importanti studiosi del Novecento. Simone morì in Inghilterra nel 1943, a 34 anni, mentre il fratello era docente negli Stati Uniti: tutta la famiglia Weil era dovuta scappare dalla Francia a causa delle persecuzioni razziali naziste.
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Caroline Herschel Caroline nasce ad Hannover nel 1750 e cresce insieme ad altri cinque fratelli: quattro maschi, tra cui il prediletto William, e una femmina. Il padre Isaac, che è giardiniere ma anche oboista e direttore della banda della città, vuole educare i figli all’arte e alla musica, mentre la madre Anna, che non crede nella cultura, ritiene che almeno le figlie debbano ricevere una formazione semplice che le renda brave donne di casa. Non sappiamo se abbia avuto successo con una delle due, mentre è certo, invece, che Caroline fu per lei una delusione. Nelle sue memorie Caroline ricorda che, quando era bambina, il padre la portò nella notte fredda perché familiarizzasse con alcune delle più belle costellazioni, mostrandole le stelle e anche una cometa, visibile proprio in quel momento: On a clear frosty night into the street, to make me acquainted with several of the beautiful constellations, after we had been gazing at a comet which was then visible.
Da allora, la ragazza vive all’inseguimento di quella cometa e con gli occhi alti verso il cielo, troppo distante dai programmi terreni che la madre aveva in serbo per lei. Isaac, infatti, da quando Caroline a 10 anni si ammala di una grave forma di tifo, è particolarmente attento alla sua educazione; ma quando, nel 1757, deve andare in guerra contro la Francia e William fugge in Inghilterra per non essere arruolato, la madre prende il sopravvento e la povera ragazza è confinata alle attività domestiche. Isaac torna a casa nel 1760, provato dalla guerra, e muore nel 1767. Poco dopo, quando Caroline ha 21 anni e sembra ormai destinata a una vita grama da serva, il fratello William la chiama ad aiutarlo nella cittadina di Bath, in Inghilterra, dove era musicista. Questo evento, che sancisce la fine di un’odiosa schiavitù, condizionerà la vita di Caroline: la gratitudine verso il fratello la segue per tutta
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la vita, e anche oltre. Alla morte di William, infatti, avvenuta nel 1822, si dedica al figlio di lui, John. Chiamandola con sé a Bath, William, che aveva 12 anni più della sorella, non le chiede aiuto nelle faccende domestiche, piuttosto la induce a seguirlo nei suoi mutevoli interessi. Grazie a lui, quindi, Caroline ha l’opportunità di approfondire gli studi di musica: diventa un bravo soprano, si esibisce in pubblico e, sempre diretta dal fratello, arriva a tenere fino a cinque concerti alla settimana fra Bath e Bristol. Le chiedono di partecipare persino al Festival di Birmingham, dove, però, non sarebbe stato il fratello a dirigerla, dunque rifiuta. Caroline, inoltre, segue William anche nella nuova passione che l’aveva preso e che lo avrebbe reso celebre, la matematica e, soprattutto, l’astronomia. Nelle sue memorie descrive quanto entrambi fossero assorbiti dalla nuova passione: non si cambiavano d’abito, lui dimenticava di mangiare al punto che lei doveva imboccarlo, e una volta era arrivato persino a non staccare le mani per ben 16 ore da una lente che doveva preparare:
Figura 3.1 – Ritratto di un’anziana Caroline Herschel.
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Every leisure moment was eagerly snatched at for resuming some work which was in progress, without taking time or changing dress, and many a lace ruffle… was torn or bespattered by molten pitch… I was even obliged to feed him by putting the vitals by bits into his mouth; – this was once the case when at the finishing of a 7 foot mirror he had not left his hands from it for 16 hours.
Dopo averle insegnato la musica e l’inglese, William, dunque, le insegna ora la matematica. Caroline, colma di gratitudine, lo segue. Non è attratta dalla materia in sé, quanto da quella matematica che le venisse utile nelle sue ricerche astronomiche e dunque studia algebra, ma soprattutto trigonometria sferica. Cominciano a esaminare il cielo da autodidatti e nel 1781 William scopre Urano, il settimo pianeta del sistema solare, che all’inizio aveva scambiato per una “semplice” cometa. Diventa così Astronomo del Re, Giorgio III, che gli assegna uno stipendio perché svolga la professione a tempo pieno. Giorgio III assegna un salario annuo anche a Caroline, come assistente di William: per quanto lo stipendio sia basso, si tratta pur sempre del primo caso in cui viene riconosciuto e remunerato un lavoro in campo astronomico a una donna. Il re in questione aveva assegnato uno stipendio come matematica anche a Mary Somerville: era sua abitudine, infatti, proteggere la cultura, le scienze e persino le donne che vi si dedicavano riconoscendole come delle professioniste. Su di lui molto si è scritto, soprattutto perché diede presto segni di squilibrio e morì pazzo. Una pazzia a tratti più lucida della salute mentale, a quanto pare… Oltre allo stipendio, il re dona a William un telescopio, che certo dovette sembrare un tesoro agli occhi dei due fratelli, che avevano costruito insieme il primo telescopio di William. I due sono inseparabili: insieme studiano matematica e astronomia, insieme osservano i cieli. Ma poi, è Caroline a occuparsi del lavoro più noioso di catalogazione e sistemazione degli appunti e dei calcoli. È brava e il fratello le vuole bene, così nel 1782 le regala un telescopio personale, così che possa dedicarsi a studi soltanto suoi. Non a tempo
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pieno, ovviamente, perché la sua prima occupazione è pur sempre aiutare il fratello. Ma quando questi è via, lei può quantomeno scrutare il cielo e cercare i suoi astri. Le sue comete. È la prima donna, infatti, a scoprire una nuova cometa nel 1786, dalla casa in cui vivono e che hanno soprannominato Observatory House. Anzi, è la seconda: all’inizio del Settecento, Maria Kirch, astronoma tedesca, ne aveva scoperta una, ma l’aveva catalogata sotto il nome del marito. William fu più onesto, invece, tanto che, mostrando ai reali la cometa scoperta da Caroline esclamò: “Ecco la cometa di mia sorella!”. Dopo la prima, Caroline ci prese gusto e ne scoprì altre otto fra il 1786 e il 1797. Sembrava che nulla potesse turbare la vita alla Observatory House: i due fratelli osservano il cielo, lei lo aiuta, si dedica alla casa e ogni tanto studia per conto suo. Forse hanno tempo per fare ancora un po’ di musica. Finché quel pazzerello di William, a 50 anni, decide di sposarsi con una ricca vedova, di nome Mary Pitt. Caroline per qualche tempo la prende male, al punto da lasciare la casa del fratello, ma non gli studi, e gettarsi ancor di più nel lavoro. Fortunatamente la cognata è una donna intelligente, si fa amica Caroline e addirittura le affida per lunghi periodi l’educazione di John, l’unico figlio che ha avuto con William. John, come il padre, diventa un valente astronomo e rimane sempre molto legato alla zia con cui collaborerà dopo la morte del padre. Quando William muore, Caroline lascia gli studi per qualche anno per dedicarsi al nipote e prende una decisione di cui poi si pentirà a lungo, tornare ad Hannover. Ma ormai non è più la giovane donna che una madre ignorante tentava di educare: è una studiosa di fama. Le fa visita addirittura Gauss, il grande matematico. È anche la prima donna, insieme a Mary Somerville, a diventare membro, nel 1835, della Royal Astronomical Society di Londra, non solo per la scoperta delle comete, ma per un immane lavoro di catalogazione e classificazione delle stelle. Insieme al fratello, prima, e insieme al nipote, poi, ha infatti redatto un catalogo di 2500 Nebulae, cioè
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Nebulose: un colossale lavoro di registrazione delle coordinate celesti di quelle che sembrano nuvole (Nebulae era il nome con cui le aveva chiamate Galileo), ma che sono insiemi di stelle. Partita dal lavoro di catalogazione di Flamsteed, che era stato un altro astronomo reale, lo amplia aggiungendo ben 560 stelle. Per questo è entrata nella storia della scienza e le sono stati dedicati un cratere lunare e l’asteroide Lucretia. Lei stessa diventa una star della scienza inglese: nel 1799 è invitata nell’Osservatorio Reale dall’astronomo Maskelyne ed è ospite della famiglia reale in molte occasioni nel 1816, 1817 e 1818. Gode di una salute di ferro e il nipote John la descrive così a 83 anni: un po’ più lenta al mattino, poi col trascorrere delle ore sempre più vivace e attiva, come è giusto per un’astronoma che “lavora” di notte. È probabilmente sera, dunque, quando, all’età di 97 anni, intrattiene per due ore i reali con storielle, canti (rigorosamente composizioni del fratello) e persino qualche passo di danza. Proprio in occasione del novantasettesimo compleanno riceve una lettera dal re di Prussia che le conferisce, per i suoi lavori, la medaglia d’oro per la scienza. Muore circa un anno dopo, in perfetta salute. La vicinanza di un fratello come William, scoprire a tempo perso comete, e ogni tanto cantare evidentemente ad alcune donne fa bene. Quando vengono rese note le sue scoperte, ne scaturisce una certa notorietà e vengono scritti numerosi articoli. In uno di questi è descritta come “molto minuta, molto gentile, molto modesta e molto ingenua”. Un altro, invece, la definisce come “una creatura davvero eccellente e di animo gentile”. Caroline, insomma, non ci delude neanche sul piano della simpatia ed effettivamente era molto piccola di statura, proprio a causa di quel tifo che ne aveva compromesso lo sviluppo, ma solo fisico. Caroline, tra le altre cose, ha ispirato questa lettera in forma di poesia, scritta dalla poetessa e artista americana Siv Cedering (19392007):
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William è via, e sto osservando i cieli. Ho scoperto otto nuove comete e tre nebulose mai viste prima dall’uomo e sto preparando un Indice per le osservazioni di Flamsteed, assieme a un catalogo di 560 stelle tralasciate dal British Catalogue, più una lista di errata in quella pubblicazione. William dice che me la cavo con i numeri, così conduco tutte le semplificazioni e i calcoli necessari. Pianifico anche il programma dell’osservazione di ogni notte, perché dice che il mio intuito mi aiuta a dirigere il telescopio per scoprire ammasso di stelle dopo ammasso. L’ho aiutato a pulire gli specchi e le lenti del nostro nuovo telescopio. È il più grande che ci sia. Puoi immaginare il brivido di volgerlo verso qualche nuovo angolo dei cieli per vedere qualcosa di mai visto prima dalla terra? Mi piace davvero che egli sia impegnato con la Royal Society e il suo club, così quando termino le mie altre faccende posso passare tutta la notte a spazzare i cieli. Talvolta quando sono sola nel buio, e l’universo rivela un altro segreto ancora, pronuncio i nomi delle mie lontane, perdute sorelle,
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dimenticate dai libri che registrano la nostra scienza – Aglaonice di Tessaglia, Ipazia, Ildegarda, Caterina Hevelius, Maria Agnesi – come se le stelle stesse potessero ricordare. Sapevi che Ildegarda propose un universo eliocentrico 300 anni prima di Copernico? Che scrisse di gravitazione universale 500 anni prima di Newton? Ma chi l’avrebbe ascoltata? era solo una monaca, una donna. Qual è la nostra epoca, se quest’epoca è buia? Riguardo al mio nome, anch’esso sarà dimenticato, almeno non sono accusata di essere una maga, come Aglaonice, e i Cristiani non minacciano di trascinarmi in chiesa, di uccidermi, come fecero a Ipazia di Alessandria, l’eloquente, giovane donna che ideò gli strumenti usati per misurare accuratamente la posizione e il moto dei corpi celesti. Per quanto a lungo si viva, la vita è breve, così lavoro. E per quanto l’uomo importante diventi, egli è niente paragonato alle stelle. Esistono segreti, sorella cara, e tocca a noi rivelarli. Il tuo nome, come il mio, è una canzone. Scrivimi presto, Caroline
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Simone Weil André Weil chiamava la sorella, Simone, la trollesse, nomignolo che deriva dai troll, esseri fantastici burloni e irriverenti della mitologia dei paesi nordici. Un soprannome che suggerisce molto di un rapporto tra fratelli che fu particolarmente intenso per l’affetto e il continuo confronto. André aveva tre anni più di Simone e fin da piccoli si prese cura di lei, anzi della sua cultura. Senza dubbio, trovò un terreno fertile. Erano due fratelli strani, “intellettuali”: i loro giochi erano sempre impregnati di cultura. Una cugina ricorda: “Vivevano in un loro universo, dove era ammessa solo la loro madre”. Inventavano rime, si dedicavano a musica e teatro, declamavano intere pagine dei due drammaturghi Corneille e Racine e chi sbagliava si prendeva un ceffone dall’altro. È André a insegnare a Simone a leggere, come regalo di Capodanno per il loro padre. Lei segue sempre il fratello nelle sue imprese, nonostante sia più piccola e fragile. Per mettersi alla prova lui decide di stare senza calze in inverno? Lo fa anche lei, nonostante le rimostranze della madre. Questo rapporto rimane strettissimo anche oltre la morte di Simone, stando a quanto riporta la figlia di André, Silvye, nel suo libro Casa Weil. André, in un incontro con Gabriella Fiori, che ha scritto un bel libro su Simone Weil, riferisce a proposito del rapporto fra lui e la sorella: “Eravamo due strumenti accordati sullo stesso tono”. Mentre André era negli Stati Uniti con la famiglia per sfuggire al nazismo, Simone gli scrive: Siamo tutti molto contenti di ricevere il tuo telegramma, perché da due settimane si pensava troppo spesso a te e non era piacevole. Adesso, ci si può almeno dimenticare, com’è normale, della tua esistenza per gran parte del tempo. Un fratello è come un dente: è una buona cosa a condizione di non essere costretti troppo spesso ad avere coscienza della sua esistenza.
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André ammira la sorella per il suo coraggio, le sue lotte, il suo pensiero: “Mi ha superato” dice, “io sono stato soltanto un matematico”. In gioventù, pur approvando sempre le battaglie di lei, talvolta le commenta con ironia e stupore e la chiama “stupefacente fenomeno”. Simone, dal canto suo, ammira l’intelligenza del fratello, un vero genio matematico che inizia a risolvere equazioni già a 9 anni, e teme di non essere in grado di seguirne i successi, non tanto per sé quanto per il bene degli altri. Simone non si dedica specificatamente alla matematica, anzi si laurea in filosofia. André la inizia alla letteratura e, sempre grazie a lui, Simone si avvicina all’induismo e al Bhagavadgītā, testo sacro indiano. Si scrivono molto e soprattutto di matematica. Simone partecipa anche ad alcuni incontri del Bourbaki, che è lo pseudonimo di un gruppo fondato da alcuni matematici, inizialmente solo francesi, fra cui anche André, che voleva portare in Francia le conquiste della matematica moderna e si ispirava in particolare alle teorie di Hilbert. C’è una fotografia che ritrae i diversi giovani matematici in uno degli incontri: Simone è l’unica donna e sta china a guardare i suoi appunti. Quando André, che non vuole partecipare alla Seconda guerra mondiale, perché pensa, come si afferma nel Bhagavadgītā, che ognuno abbia un suo destino e un suo compito e che il suo non è combattere ma fare il matematico (oltretutto la sua famiglia era ebrea), viene arrestato come renitente alla leva, la sorella gli scrive lettere piene di affetto e di domande matematiche. Gli chiede conto della teoria dei quanti, allora agli inizi. E di altre questioni, un po’ per distrarlo, un po’ perché davvero interessata a questo continuo dialogo con lui. I testi delle lettere sono stati raccolti in un volume intitolato Sur la Science. La Weil si interessa alla geometria, alla matematica e alla scienza dai Greci fino alle ricerche contemporanee (come i quanti) e studia l’algebra che, insieme al denaro, considera uno dei mali della modernità. Ne L’ombra e la grazia scrive, infatti: “Denaro, macchinismo, algebra. I tre mostri della civiltà attuale. Analogia completa”.
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Perché mai? Perché proprio mentre una donna, Emmy Noether, fondava l’algebra astratta, la Weil sparava contro l’algebra? Alcune considerazioni in merito possono essere comprese solo dopo una breve conoscenza della vita di Simone. Simone nasce a Parigi il 3 febbraio del 1909. Il padre è medico, di famiglia ebraica osservante, mentre lui è ateo; la madre, anch’essa di origine ebraica ma non osservante, viene da una famiglia di artisti e musicisti. La famiglia Weil è benestante e soprattutto affettuosa, molto unita. Dopo aver frequentato la scuola con vicende alterne, nel 1925 incontra Alain, un filosofo e docente che la seguirà per tutta la vita. Fin da questi anni cominciano i mal di testa che segnano pesantemente la sua esistenza. Nel 1931, dopo la laurea in filosofia, inizia a insegnare a Le Puy: ha un ottimo rapporto con le alunne, ma pessimo con le autorità scolastiche; è molto attiva nell’impegno sindacale e in difesa dei disoccupati. Nel 1933 fa un viaggio in Germania per cercare di capire il nazismo e la reazione della gente. Si dedica per altri due anni all’insegnamento, ma nel 1934 decide di prendere un anno di aspettativa per andare a lavorare in fabbrica. Fa l’operaia per un anno ed è un’esperienza che la cambia nel profondo, che le dona la sensazione non solo della propria sventura, ma della sventura di intere popolazioni. Lavora alle presse perlopiù in fabbriche meccaniche, vive sola e solo col suo stipendio: poiché è lavoro a cottimo, a causa della sua inettitudine al lavoro manuale, spesso patisce la fame, perché rimane senza soldi. Nel 1935 torna a insegnare e nel 1936 partecipa alla Guerra di Spagna: ne esce con l’orrore per ogni forma di violenza. Nell’estate del 1937 compie il suo primo viaggio in Italia per rendersi conto di cosa sia il fascismo, e questo viaggio si rivela una tregua. Qui fa l’esperienza della bellezza e dell’arte e ad Assisi ha un’intensa esperienza mistica. Nel 1937 inizia il suo quinto anno di insegnamento, ma a causa dei mal di testa chiede congedi ripetuti, interrompendo di fatto l’insegna-
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mento. Nel 1938, durante le vacanze di Pasqua, si reca nel monastero di Solesmes per ascoltare il canto gregoriano, e questa è una tappa importante del suo incontro col cristianesimo. Nello stesso anno fa anche un secondo viaggio in Italia.
Figura 3.2 – Fotografia di simone Weil.
Nel 1939 inizia la Seconda guerra mondiale. Simone, a casa in congedo, studia molto, si avvicina sempre di più alla religione cattolica e si documenta anche sulla spiritualità induista. Si dedica assiduamente allo studio della situazione politica e sociale e si pone il problema del pacifismo e della partecipazione alla guerra. Nonostante le resistenze di Simone, la famiglia Weil, di origine ebraica, è costretta a lasciare Parigi, occupata dai tedeschi. Tutti, tranne André, sposatosi e trasferito negli Stati Uniti, vivono a Marsiglia fino al 1942. Qui Simone fa molti incontri importanti, tra cui quello con padre Perrin, con cui discute a lungo della fede e dell’opportunità di accedere al battesimo.
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Dopo un breve soggiorno in Africa, la famiglia Weil raggiunge André negli Stati Uniti. Simone soffre moltissimo il distacco dall’Europa, non tollera di stare bene quando gli altri soffrono, per cui presenta incessantemente un suo progetto di crocerossine che agiscano proprio dove si sta combattendo per aiutare i feriti e i morenti. Tale progetto non suscita attenzione, ma Simone ottiene almeno di essere rimandata a Londra e qui spera in una missione che la riporti dove si sta combattendo. Tra il 1942 e il 1943, già profondamente debilitata, viene usata in incarichi d’ufficio per lo studio di proposte da attuarsi con la ricostruzione. Scrive una quantità impressionante di testi, probabilmente prodotti anche di notte. Tuttavia, è tormentata dal fatto di trovarsi lontano dai veri pericoli. Una mattina viene trovata svenuta in ufficio. La portano in due ospedali, ma è troppo debilitata e soprattutto non riesce più a mangiare. Infatti, muore poco dopo e, poiché probabilmente ha ricevuto il battesimo prima della morte, viene sepolta in un cimitero cattolico in Inghilterra. Muore giovanissima, a 34 anni, avendo vissuto molte vite. Quando André afferma “Io sono stato solo un matematico”, coglie nel segno. Non che l’essere un matematico sia poca cosa, un genio matematico non si trova certo tutti i giorni, ma nella frase si coglie un elemento importante: diversamente da lui, Simone ha amato lo studio di qualsiasi disciplina e argomento, i suoi Quaderni sono ricolmi delle osservazioni più diverse, sembra impossibile che abbia potuto scrivere così tanto in così poco tempo, ma tutto in lei è finalizzato alla vita. E, più precisamente, al miglioramento della vita degli altri, degli sventurati, degli sfruttati, degli ultimi. Anche per questo è sempre stata vicina ai sindacati, ha partecipato addirittura alla Guerra di Spagna, ha insegnato nelle scuole per operai, ha persino lavorato come operaia. Per questo alla fine è diventata cristiana, perché il cristianesimo, anzi il cattolicesimo, le sono apparsi davvero come la religione degli ultimi della terra. A questa sua ricerca di giustizia sociale, di elevazione degli ultimi, anche culturale, una ricerca che alla fin fine tende alla verità, non sfug-
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gono nemmeno i suoi studi sulle scienze e in particolare sulla matematica. I Quaderni di appunti contengono numerose riflessioni sulla matematica e sul suo ruolo, oltre a pagine e pagine di calcoli e dimostrazioni. Senza dubbio ha studiato e approfondito la materia, con cui aveva familiarità anche per via del fratello, ma non l’ha studiata da matematica e nemmeno da filosofa, bensì in un’ottica di ricerca di verità e giustizia. Per questo ha colto della matematica i lati più profondi ed essenziali. “La matematica è la capacità di ragionare rigorosamente sul non rappresentabile.” E dunque: “La matematica è la storia del tessuto di finito e infinito.” La sua riflessione parte dai Greci, che ammirava profondamente, e soprattutto da Pitagora, il matematico, mistico e filosofo. Attraverso la matematica greca, attraverso il Platone della Repubblica, arriva a sostenere: “Dio ha dato alle creature finite questo potere di trasportare se stessi nell’infinito, la matematica ne è l’immagine.” Per Simone la matematica è il linguaggio del mondo, anzi è lo strumento essenziale per indagare le leggi dell’ordine del mondo. Dunque, vi è uno stretto legame tra il mondo e la matematica, un legame “concreto”. Un legame che i Greci avevano compreso e coltivato. Un legame rotto dall’algebra. Ecco perché i Greci si dedicarono alla geometria rifiutando l’algebra: “Dio, secondo la formula pitagorica, è un perpetuo geometra, ma non un algebrista.” È questo mutamento, prima di tutto, ad aver comportato un allontanamento della matematica dalla gente. E poi porta ad astrattezza, al proliferare di simboli su simboli. Si è creata una mediazione fra matematica e reale che non porta alla verità, ma a costruzioni formali che sviliscono la verità, come fa anche il denaro in un altro ambito. L’algebra, dice la Weil, separa il segno dal significato: Il rapporto fra segno e cosa significata scompare, il giuoco degli scambi fra i segni si moltiplica da sé e per sé. E la complicazione crescente esige segni di segni.
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La Weil nei suoi scritti si propone talvolta di sostituire all’astrazione dell’algebra l’analogia: Invece di produrre astrazioni, mettere in luce analogie tra cose concrete e particolari. Che ne è allora delle formule? Anch’esse termine di un’analogia e niente di pi•.
La sua principale biografa, Simone Pétrement, che fu anche sua cara amica, scrive che Simone riteneva che vi fosse un rapporto tra l’oppressione sociale e il fatto che le alte matematiche sono inaccessibili all’uomo della strada. Questo perché sono troppo astratte, cioè ridotte all’algebra e separate dall’intuizione. In una lettera al fratello la Weil ragionava così, infatti: La matematica attuale, considerata sia come scienza che come arte, mi sembra singolarmente lontana dal mondo. Non potrebbe uno sforzo di riflessione e di critica riavvicinarvela? È uno degli scopi a cui mi sarebbe piaciuto consacrare tutta la mia vita; ce ne sono purtroppo tanti.
Quella di Simone Weil è una domanda che molti vorrebbero porre: cari matematici, uomini e donne, possibile che non si possa ricreare il legame fra mondo e matematica? Pensateci, schiere di studenti vi sarebbero eternamente grati.
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MOGLI E AMANTI Si dice che dietro a un grande uomo c’è una grande donna. Dietro appunto. First lady, si dice. First purché accanto a un uomo… È famosa perché “è la moglie di”. O anche “è molto famosa perché è stata l’amante di…”. Non è solo questione di pettegolezzi, ma di riconoscimento di un merito, di un valore, di una presenza. Madame du Châtelet è l’amante, ricordata proprio per essere stata amante di un uomo famosissimo, Voltaire. Grace Chisholm Young è la moglie. Moglie di un matematico e Young, infatti, è il suo cognome da sposata: non a caso li chiamavano “gli Young”, non “i Chisholm”, eppure la mente della coppia era lei…
Madame du Châtelet “L’uomo più felice è colui che non vuole cambiare il proprio stato.” Ma forse così non è per la donna. Forse così non è mai stato per la donna che questa frase l’ha scritta. Madame du Châtelet. Anzi, Gabrielle Émilie Le Tonnelier de Breteuil, marchesa du Châtelet.
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Eppure, la marchesa Du Châtelet, pochi anni prima di morire di parto, all’età di 43 anni, scrive un Discorso sulla felicità, pubblicato postumo nel 1779, ma non è per questo che la ricordiamo. Per 13 anni (tra il 1733 e il 1746) è anche l’amante di Voltaire (amante è il termine esatto, dato che era una donna sposata). Voltaire, il famoso filosofo che alla morte della Châtelet scrive queste parole: Non ho perduto un’amante ma la metà di me stesso. Uno spirito per il quale il mio sembrava essere stato fatto.
Eppure, lei lo aveva lasciato per un altro. Ma non è nemmeno per questo che noi ne scriviamo. Certo, Voltaire è un personaggio famoso che attraversa la Storia e lei viene ricordata soprattutto per essere stata la sua amante, sia pure, bontà degli studiosi, un’amante colta e intellettualmente stimolante per il filosofo. Ma noi non la citiamo nemmeno per questo. Compare a pieno diritto in questo libro non per le sue relazioni, ma perché è stata una scienziata, e qualcuno sostiene addirittura che sia la prima scienziata francese, e si è dedicata in particolare alla matematica e alla fisica. La sua traduzione in francese dei Principia, scritti da Newton in un latino abbastanza ostico, è ancora l’unica traduzione del celebre testo che circola in Francia. Émilie traduce anche Leibniz, contrariando Voltaire, ma non si cura dei newtoniani puri e dei puri sostenitori di Leibniz. Come in tutto nella sua vita, fa di testa sua. Nasce a Parigi nel 1706, è rampolla di una famiglia nobilissima. Il padre, che ha incarichi importanti alla corte del re Sole, Luigi XIV (quello che era uso dire: “Lo Stato sono io”), è un uomo illuminato e, fatto insolito, la fa studiare come i fratelli maschi, per cui la ragazza può avvalersi di precettori di qualità, ma in molte materie prosegue da autodidatta. Gli studi superiori erano interdetti alle donne e solo una donna facoltosa poteva permettersi il lusso (perché di lusso davvero si parla) di studiare e farsi una cultura.
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Émilie si dedica alle lingue (studierà latino, greco e tedesco) e si appassiona anche alla scienza, passione che, insieme alla filosofia e alla teologia, la accompagna per tutta la vita. La ragazza, però, non è il classico esempio di scienziata che siamo soliti immaginare. In quanto studiosa e amante di Voltaire, non v’è dubbio che con lui abbia animato uno dei salotti, luoghi di discussione culturale dell’epoca, più importanti della Francia! Ma è anche capace di passare interi pomeriggi a discutere di crinoline e merletti (tipici fronzoli femminili) e della disposizione delle porcellane, che possiede in quantità.
Figura 4.1 – Émilie du Châtelet ritatta da Marianne loir, Museo delle Belle arti, Bordeaux.
Dunque, è tutt’altro che una “secchiona”. Studia e apprende con facilità, il che le permette di vivere una vita degna del suo stato, e si dedica anche all’equitazione, alla danza e al teatro. Si dedica anche all’amore: Émilie sapeva amare con tutta se stessa ed era sensuale ed esigente,
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tanto che non sempre Voltaire è alla sua altezza. Non lo è probabilmente nemmeno il marito, Florent Claude du Châtelet, perché militare di carriera e spesso assente. Un uomo che sposa a 19 anni, quando lui ne ha 30, cui dà 4 figli e da cui si separa serenamente andando a vivere con Voltaire in una casa di proprietà del marito. Ecco un mondo che ha molto da insegnare oggi in fatto di libertà di costumi e di scelte di vita. Ma non lasciamoci trarre in inganno: Émilie è un’eccezione anche perché molto ricca, molto colta e molto intelligente. Ha, in effetti, parecchi amanti, alcuni famosi quanto Voltaire, come Richelieu (sì proprio lui, quello che si studia a scuola insieme al re Sole o ai moschettieri). Ma muore in seguito a un amore sventato, come nella vita era forse anche lei. Forse. Infatti, all’età di 40 anni lascia Voltaire per seguire un poeta, Saint Lambert, di dieci anni meno di lei. Come la prese Voltaire? In una maniera che non ci delude e che ben si adatta all’immagine che ha lasciato di sé, lui, il filosofo della tolleranza: certo è un po’ seccato… ma la mette in versi, ironici, dove le fa pur sempre fare una bella figura e dove la definisce “la bella amante di Newton”, mostrando di cogliere qual è stato il vero amore della vita della donna. Ecco i versi scritti nel 1748: Tandis qu’au-dessus de la terre Des aquilons et du tonnerre La belle amante de Newton Dans les routes de la lumière Conduit le char de Phaêton Sans verser dans cette carrière; Nous attendons paisiblement Sur le bord de cette fontaine Que notre héroïne revienne De son voyage au firmament;
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Et nous assemblons pour lui plaire, Dans ses jardins et dans ses bois, Les fleurs dont Horace autrefois Faisait des bouquets pour Glycère. Saint-Lambert, ce n’est que pour toi Que ces belles fleurs sont écloses; C’est ta main qui cueille les roses Et les épines sont pour moi. (Mentre sopra la terra / degli aquiloni e del tuono / la bella amante di Newton / sulle strade della luce / conduce il carro di Fetonte / senza uscire dalla carreggiata / noi attendiamo in pace / sul bordo di questa fontana / che la nostra eroina ritorni / dal suo viaggio nel firmamento /e noi per compiacerla raccogliamo / nei suoi giardini e nei suoi boschi / i fiori con cui un tempo Orazio / fece dei mazzi per Glicera. / Saint Lambert, non è che per te / che questi bei fiori sono fioriti; /è la tua mano che coglie le rose / e le spine sono per me.)
Sembra che Saint Lambert non avesse un particolare interesse per i fiori di Émilie, ma cominciò a corteggiarla soprattutto perché voleva far ingelosire la sua amante che l’aveva abbandonato. L’amante era la marchesa di Boufflers, che era stata contemporaneamente l’amante del re Stanislao di Polonia, del suo ministro delle finanze e del suo ministro di stato, tanto che la chiamavano dame de volupté. In ogni caso, lungi dall’ingelosirsi, la marchesa lasciò il poeta alla Du Châtelet e anzi le diventò amica, dimostrando di essere anche una donna intelligente. Sembra un tipico romanzo del Settecento, nell’epoca dei libertini, del seduttore Casanova, del Don Giovanni di Da Ponte, altro famoso libertino e librettista italiano. L’epoca di Mozart e delle Liaisons dangereuses di Laclos. La frase che segue, attribuita proprio a lei, non pare possa essere d’ispirazione alle vicende del seducente e diabolico Valmont, protago-
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nista appunto delle Liaisons, o del dongiovanni per eccellenza, appunto Don Giovanni? “Sua passion predominante è la giovin principiante”: così Da Ponte fa dire al personaggio di Mozart. Nella Marchesa, però, c’è qualcosa in più: la compassione, femminile, per la sorte delle ragazze. L’uomo giovine, ardente d’una immaginazione impetuosa, è raramente capace di far tacere i suoi desideri; per lui, le lezioni della morale sono ordinariamente inutili. Se non può rivolgersi alle cortigiane, egli pervertirà le vostre mogli, le vostre figliuole e le vostre serve; le più innocenti, le più virtuose saranno quelle cui egli investirà d’assedio in preferenza e contro le quali porrà in opera tutt’i mezzi immaginabili di seduzione; metterà il disordine nelle case, farà la sventura di un gran numero di padri e di figliuoli, e però quella della società intera… Se la giovine sedotta dal libertino è senza educazione e se appartiene alle classi inferiori della società, non avrà probabilmente a gittarsi che nelle braccia della prostituzione. Così, allontanando quell’uomo dalle prostitute, si moltiplica il numero di queste disgraziate; si precipitano nel più orribile baratro delle creature, che forse sarebbero rimaste innocenti, e, sotto il pretesto di favorire la morale, le si arrecano, senza saperlo, le più gravi offese.
Madame du Châtelet vive in questo clima, in quest’epoca, anzi un po’ la anticipa, dato che nasce nel 1706, mentre Casanova nel 1725, Laclos nel 1741 e Da Ponte nel 1749, che poi è l’anno della morte di Émilie. Perché questa storia, come le Liaisons (pubblicate nel 1782), finisce male, con una morte, anzi due. La Du Châtelet, per tenersi questo amante recalcitrante e giovane, concepisce una bambina, che nasce nel 1749. Purtroppo è lei la prima a morire, appena nata, e dopo sei giorni la segue Émilie, al cui capezzale, oltre al poeta, è accorso Voltaire a salutare la sua anima gemella. Qualcuno ha scritto che la Du Châtelet era eccessiva in tutto.
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Io, leggendo il suo Discorso sulla felicitˆ, mi sono fatta l’idea che cercasse la felicità e penso che questo non sia mai eccessivo: è un dovere, anzi un diritto di tutti. Émilie ha cercato la sua felicità nell’amore, nei figli, negli affetti, nelle crinoline, nel teatro, recitando nel castello di Lunéville, dove abitava con Voltaire, fino alla mattina. L’ha cercata negli alti pensieri e nelle frivolezze, forse persino nella Bibbia, che leggeva a letto con Voltaire, ridendo talvolta per le incongruenze. Siamo nel secolo dei lumi, in cui un certo tipo di religione è al tramonto (per fortuna). Émilie ne scrive addirittura, della felicità, e, chissà, forse la trova infine nel sapere, negli studi, nella conoscenza. Ha fame di conoscere e, in particolare, è attratta da argomenti quasi vietati o impensabili alle donne di quell’epoca: le scienze e la matematica. Studia Newton, che è nato nel 1643 e morto nel 1727, quando lei ha appena 21 anni. Studia anche Leibniz, il filosofo e matematico tedesco che i puristi seguaci di Newton, come anche Voltaire, non amavano. Anche Leibniz è un suo contemporaneo, nato nel 1646 e morto nel 1716. Li studia entrambi, ne traduce e divulga gli scritti. Certamente Voltaire la sprona, ma sono tutti suoi gli studi e le conoscenze matematiche e anche un certo pensiero astratto che influenza non poco il filosofo, almeno secondo Élisabeth Badinter, biografa della marchesa che in un’intervista afferma: È stata la sua maestra dal punto di vista filosofico. Fino a quando non incontra la marchesa Du Châtelet, Voltaire scrive più che altro pamphlet, teatro. È lei che lo introduce all’astrazione filosofica, al mondo dei concetti.
Si completavano davvero e stupisce che lei sia corsa dietro a un uomo tanto più giovane e certo meno colto di Voltaire, stupisce anche perché lei stessa non ha seguito i suoi precetti: “Ogni età ha la felicità che gli è propria”.
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Si allontana da Voltaire ma non da Newton e dai suoi studi. Quando amava il poeta ed era incinta di lui, come se presentisse la fine vicina, lavorò alacremente alla sua opera principale, la traduzione in francese dei Principia di Newton, che arricchì anche degli sviluppi che le teorie di Newton avevano avuto in Francia. Pochi giorni prima della morte, avvenuta il 10 settembre del 1749, così scriveva a Monsieur l’Abbé Salier presso la Biblioteca Reale a Parigi, per raccomandare la sua opera e farla registrare alla Biblioteca: (Io uso la libertà che voi mi avete dato. Signore, di mettere nelle vostre mani questi manoscritti che ho grande interesse che restino dopo di me. Io spero che vi ringrazierò ancora di questo servizio e che il mio parto, di cui non attendo che il momento, non sia così funesto come io temo. Vi supplico di mettere un numero a questi manoscritti e di farli registrare perché non siano perduti. Il signore de Voltaire che è qui con me vi fa i più teneri complimenti e anche io vi ribadisco, Signore, l’assicurazione dei sentimenti grazie ai quali io non cesserò mai di essere la vostra serva più umile e obbediente.
Non è stata solo traduttrice e divulgatrice delle teorie dei due grandi matematici, né solo teorica: nella sua casa faceva esperimenti ed elaborava pensieri suoi. Nel 1738 partecipa in modo anonimo al Prix de l’Académie de Science il cui tema era “La natura del fuoco e della sua propagazione”, e per scrivere questo testo fa varie esperienze con specchi e altri strumenti legati al fuoco. Al Prix partecipa anche Voltaire. Non vincono, ma i loro scritti sono pubblicati a spese dell’Académie. Conviene lasciarla, però, mentre è ancora ben viva e pronta a cogliere occasioni di felicità, non solo per sé, ma per tutte le donne. Nel 1735 traduce l’opera satirica dell’inglese Robert de Mandeville, La favola delle api, e nella prefazione rivendica per le donne, tutte le donne, un’educazione che liberi la loro anima e il loro intelletto dai lacci
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dei pregiudizi, migliorando così tutta l’umanità. Alla domanda perché così pochi poemi, opere d’arte, trattati scientifici siano sotto il nome di donne, lei risponde che è colpa dell’educazione. Cita il suo caso personale e dice di essere stata fortunata, perché grazie all’amicizia di persone colte lei stessa ha compreso di essere una creatura pensante. Le donne non devono essere educate solo alle cose frivole, ma soprattutto nello spirito a coltivare la loro anima. Lei stessa sente di non essere un genio creativo, ma di poter tradurre con chiarezza le idee di altri per divulgarle. Ecco le sue parole, ancora attuali: Bisognerebbe riflettere sul perché dopo tanti secoli mai una grande tragedia, un buon poema, una storia stimata, un bel quadro, un buon libro di fisica sia uscito dalla mano delle donne. Perché queste creature, il cui intelletto sembra in tutto così somigliante a quello degli uomini, tuttavia sembrano arrestate da una forza invincibile al di qua del limite. Io lascio ai naturalisti di cercare una ragione fisica, ma finché non l’abbiano trovata, le donne saranno in diritto di protestare contro la loro educazione. Se io fossi re, vorrei fare questa esperienza di fisica. Io riformerei un abuso che taglia, per così dire, la metà del genere umano. Io farei partecipare le donne a tutti i diritti dell’umanità, e soprattutto a quelli dello spirito. Sembra che siano nate per ingannare e non si lascia che questo esercizio alla loro anima. Questa nuova educazione farebbe un gran bene alla specie umana: le donne varrebbero di più e gli uomini guadagnerebbero un nuovo oggetto di emulazione. […] Io sono persuasa che molte donne o non conoscono i loro talenti per un vizio dell’educazione o li affossano per pregiudizi e mancanza di coraggio nello spirito. Quello che io ho provato in me mi conferma in questa opinione. Il caso mi ha fatto conoscere persone di lettere che hanno provato amicizia per me e io mi sono stupita del loro interesse. Ho cominciato così a credere di essere una creatura pensante.
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Grace Chisholm Young Siamo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in Inghilterra. Così un marito scrive alla moglie, entrambi matematici: Sono molto felice che tu faccia progressi con le idee. Mi sento un po’ come se ti stessi insegnando, ponendoti problemi che io non potrei risolvere da me, che però posso rendere te capace di risolvere. Il fatto è che i nostri lavori dovrebbero essere pubblicati con i nostri due nomi insieme. Ma se si facesse così nessuno di noi due ne avrebbe un beneficio. No. Miei ora gli allori e la conoscenza. A te solo la conoscenza. Tutto ora a mio nome e più tardi, quando pani e pesci non saranno più procurabili così, tutto o molto sotto il tuo nome. Nel presente tu non puoi intraprendere una carriera pubblica. Tu hai i tuoi bambini, io posso farlo e lo farò.
Senza ancora sapere di chi stiamo parlando, da questo stralcio di lettera si possono trarre alcune considerazioni davvero interessanti: 1. La moglie ha le idee. 2. Il marito sa allenare (“ponendoti problemi”), ma non sa giocare (“che io non potrei risolvere”). Lei è il giocatore, lei ha le idee, lei è il genio. 3. Lavorano insieme e pubblicano dei testi col nome di lui, ma giustizia vorrebbe che comparissero quelli di entrambi. 4. Ma non si può, se il lavoro serve a mantenere la famiglia deve essere a nome solo di lui. Perché mai? Forse perché un uomo matematico è più affidabile di una donna matematica? 5. In ogni caso, bontà sua, se lui ora ha onori e conoscenza a lei lascia almeno la conoscenza e poi… “più tardi” (quando?) anche lei avrà i suoi riconoscimenti. 6. Ah, no, a lei lascia anche altro. I figli. Che pur concepiti insieme sono i “tuoi bambini”, appartengono a lei. 7. Una madre non ha tempo per una carriera pubblica, un uomo (incidentalmente anche padre), invece, ne ha eccome!
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Forse sono impietosa e anche un po’ ingiusta, d’altronde questo povero marito non è dei peggiori e la struttura stessa della società certamente lo condiziona, ma la lettera lascia ugualmente un po’ di amaro in bocca. Soprattutto perché in questa stessa lettera lui esordisce dicendo: “Io spero che a te piaccia questo tuo lavorare per me”, quasi si trattasse di una governante o di una segretaria e non di una ricercatrice matematica che aveva già raggiunto successi maggiori del coniuge. Questa lettera non è immaginaria. È di un marito vero che si rivolge a una moglie in carne e ossa. Sono i coniugi Young: William Young e la moglie Grace Chisholm coniugata Young, appunto. E i figli sono anch’essi reali, ben sei (in nove anni). Grace, dunque, è matematica, moglie e madre. Non ha avuto subito la carriera pubblica del marito, ma ha conciliato ciò che era quasi inconciliabile: ricerca, lavoro condiviso con il coniuge, casa e sei figli. Non trascura nulla, nemmeno la gioia di vivere e di avere degli hobby: sport, vini, scacchi, storia e musica. Scrive libri per bambini, non favole, ma libri di scienza: geometria e uno dei primi libri per l’infanzia che trattano di riproduzione. Perché Grace ha da sempre il pallino della medicina. Voleva fare il medico, ma i genitori erano contrari, allora si tuffa nella matematica però, tra un teorema e l’altro, un figlio e l’altro, studia medicina, pur senza mai arrivare a sostenere l’esame finale. Segue i figli a tal punto che insegna a ciascuno di loro a suonare uno strumento musicale, ovviamente sempre fra un teorema e l’altro, un articolo e l’altro, un’idea e l’altra e così via. Grace Chisholm nasce il 15 marzo del 1868 in Inghilterra, da genitori facoltosi e piuttosto anziani (la madre alla sua nascita ha 44 anni e il padre 59). Tra i fratelli, uno, Hugh, è letterato e autore piuttosto noto di saggi per l’Enciclopedia Britannica e di articoli per il Times. Fin da bambina, Grace studia con profitto e, su incoraggiamento dei suoi, si dedica anche alle opere di bene, aiutando famiglie bisognose. Vuole studiare medicina forse anche per questo spirito filantropico, ma vista l’opposizione dei genitori frequenta i corsi di matematica al Girton College di Londra, dove era suo tutor William Young.
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Figura 4.2 – Fotografia di Mary Chisholm Young (1923).
È evidente da subito che è davvero portata per i numeri. In breve raggiunge il massimo dei riconoscimenti che una donna possa ottenere in Inghilterra nell’Ottocento e così, per approfondire i suoi studi, nel 1892 si trasferisce in Germania, a Gottinga, la Mecca dei matematici dell’epoca. È l’allieva prediletta di Felix Klein e nel 1895 completa con lui il suo dottorato con una tesi intitolata I gruppi algebrici della trigonometria sferica. È, dunque, la prima donna in Germania a conseguire ufficialmente una laurea. In una lettera, Grace scrive che il professor Klein le pone talvolta quesiti tanto difficili che la preoccupano così tanto da sorprendersi che il suo cervello funzioni ancora permettendole di dare delle risposte e delle soluzioni adeguate:
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Another time Professor Klein asked for an explanation of certain facts, a thing he is very fond of doing. I had been more frightened than anything of his questions, it is so difficult to think on an occasion like that, and although the same thing happens succeed to nearly every one I always think it looks foolish not to be able to answer. The Gods willed on this occasion that my brain should work, and I gave the explanation to my own astonishment, and I fancy, to his too.
Klein la accoglie a Gottinga perché in Germania, e soprattutto in quell’università, ci sono delle aperture verso l’educazione anche scientifica delle donne, ma certo devono essere matematiche coi fiocchi. Secondo le parole stesse di Grace, riportate in una lettera, si richiede che queste studiose abbiano fatto già lavori importanti e che sottopongano i loro nuovi articoli e le loro intuizioni a controlli accurati del professor Klein. Klein è un moderato, e a Gottinga vi sono docenti molto più favorevoli all’ammissione delle donne, insieme ad altri che invece disapprovano totalmente: Professor Klein’s attitude is this, he will not countenance the admission of any woman who has not already done good work, and can bring proof of the same in the form of degrees or their equivalent… and further he will not take any further steps till he has assured himself by a personal interview of the solidity of her claims. Professor Klein’s view is moderate. There are members of the Faculty here who are more eagerly in favour of the admission of women and others who disapprove altogether.
Grace tiene anche delle lezioni, e in proposito è divertente la descrizione che ne fa a un’amica, raccontando la sua preoccupazione e i suoi strafalcioni in tedesco. Grace probabilmente ha davvero il dono della chiarezza, e dalla lettera si intuisce che non segue degli appunti, ma che va a braccio. Lei stessa racconta che, quando parlava, tutti parevano attenti, che nessuno mostrava evidenti segni di sonno (cosa
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che in altre lezioni accadeva) e che una volta un allievo, avendo confuso un segno meno, l’aveva corretta, una prova evidente che la stava ascoltando. The lecture came off yesterday, and if it is a success to interest one twelfth of one’s audience I may be said to have achieved one. As to the other eleven I do not know what they thought about it, but May Winston says they were all quite wide awake, which is something that cannot be said for all the preceding lectures. I never felt the pulse of an audience so little, and I was much too nervous to have made any alterations if I had been more aware of how they were taking it. I noticed once that Mr. Woods was wrinkling his eyebrows over one of my figures, and trying to work out a result I had stated as clearly evident. […] It took a little over an hour to deliver and there were a good many interruptions, which is always a good sign. Once I had written some equations down and Professor Klein asked me to verify them as there seemed to be discrepancy. Now I did not feel equal to doing any brain work then and there, and for one moment I had a pang of despair; but Dr. Ritter got up and explained that I had rubbed out a minus sign by mistake and I blessed him; that showed he was attending.
Poiché i genitori invecchiano sempre più, Grace torna in Inghilterra per stare loro accanto, e nel 1896 accetta la proposta di matrimonio di William Young. Quel William Young che era stato suo tutor quattro anni prima e che già allora le aveva chiesto di sposarlo. Ma allora Grace aveva preferito andare a Gottinga, preferendogli cioè la matematica. Ora, invece, accetta di sposarsi. Grazie anche alla presenza e all’incoraggiamento di Grace, William intraprende la ricerca matematica. Nel 1898 i due coniugi passano un anno in Italia, ma gli studi di geometria, per i quali l’Italia era famosa allora, non li soddisfano, così nel 1899 si recano a Gottinga da Klein, che li incoraggia a studiare la teoria degli insiemi, e da lì, nel 1908, si spostano a Losanna e infine a Ginevra.
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Insieme mettono al mondo sei figli, il primo dei quali, Frank, nasce nel 1897, e scrivono un numero impressionante di pubblicazioni: circa 220 articoli e parecchi libri, per lo più a nome di William, come abbiamo visto. Ma alcuni lavori (solo 18!) sono solo a nome di Grace, anche se è a lei che si deve il merito di molti scritti del marito o quantomeno della loro revisione e correzione. I loro studi sono stati fondamentali nella topologia, nelle serie di Fourier e nella fondazione del calcolo differenziale. Tra il 1914 e il 1916 Grace fa ricerche sui fondamenti di calcolo, nel 1915 pubblica un saggio sulle derivate infinite che vince il Gamble Prize al Girton College. Grace ha una grande vitalità, scrive, anche per bambini, studia medicina, impara sei lingue, tante quanti i figli. I quali saranno tutti personaggi notevoli. Ma in questa vita così piena irrompe la tragedia della guerra. Nella Prima guerra mondiale muore il primogenito Frank, aviatore della RAF. Questa disgrazia mina per sempre la salute di Grace, che nel 1920 cessa anche la ricerca matematica e i suoi studi. La Seconda guerra mondiale divide per sempre gli Young. Infatti, allo scoppio della guerra, Grace accompagna due nipoti, figli della figlia Janet, in Inghilterra. È decisa a tornare a casa ma impossibilitata a farlo, perché anche la Francia si arrende alla Germania nazista. Lontano dalla moglie, William cade in depressione e muore nel 1942. Grace non riesce più a tornare in Svizzera, e nel 1944 muore in Inghilterra, a casa della figlia Janet, per un attacco di cuore. Al Girton College vogliono finalmente darle l’onore della laurea, ma la morte sopraggiunge prima, fatto non inconsueto nella storia delle matematiche. Vale la pena di citare cosa ne è stato degli altri figli di Grace: Cecily, una matematica e storica della matematica; Janet, una fisica, oltre che la prima donna membro del Royal College of Surgeons; Helen Marion, anch’essa matematica; Laurence, campione di scacchi, una delle passioni di Grace, insegnante di matematica presso l’Università di Città del Capo; il figlio più piccolo, Patrick, scienziato e chimico, seguì poi la
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carriera della finanza e della diplomazia. La figlia di Laurence, Sylvia Wiegand, nipote di Grace, fu matematica e primo presidente dell’Association for Women in Mathematics. Una bella famigliola, non c’è che dire. Se spesso le matematiche che sono passate alla storia non si sono sposate o, essendo ricche e di nobili natali, hanno avuto chi badasse a marito e figli, Grace testimonia la nascita di una nuova e inusitata specie: la matematica madre di famiglia. Non so se augurarmi che la specie si estingua o invece, al contrario, che proliferi, purché coi dovuti aiuti e riconoscimenti.
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Cosa venne in mente a Hilbert, il famoso matematico dalla battuta pronta e salace che visse a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, al Congresso di Matematica di Parigi nell’agosto del 1900? In quell’occasione pose 23 problemi ai matematici del tempo. Così facendo, in realtà, diede lavoro anche ai matematici e ai logici del Duemila. E come venne in mente a quella ragazza di dedicarsi per tutta la vita al decimo problema di Hilbert? Chissà! Il mondo dei matematici e dei logici è un mondo a parte. Un mondo quasi ideale. Un mondo così: Sarebbe bello se i matematici formassero una nazione senza distinzione di geografia, razza, credo, sesso, età, persino tempo cui dedicarsi alla più bella delle arti e delle scienze.
Un mondo bellissimo in cui vivere, ma pur sempre immerso nel mondo reale, come ha ben sperimentato chi ha pronunciato questa frase, la ragazza fragile, matematica e logica, che ha dato un contributo fondamentale alla risoluzione del decimo problema di Hilbert.
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Stiamo parlando di Julia Bowman Robinson. La sua idea della matematica può apparire troppo ideale, lontana dalla realtà, persino ingenua. Ma solo conoscendo la sua biografia si comprende che lei, quel mondo, ha cercato di realizzarlo e di costruirlo nella vita di tutti i giorni.
Figura 5.1 – Fotografia di Julia Bowman Robinson (maggio 1941).
Julia Bowman nasce l’8 dicembre 1919 a Saint Louis. Ha una sorella più grande, Constance, che le è costantemente accanto e che per tutta la vita sarà la sua voce, in quanto scrittrice e divulgatrice scientifica. Nonostante Julia sia inorridita da quanto si sarebbe potuto dire della sua vita intima e pensi che di un matematico contino i suoi studi, i suoi lavori, non i suoi interessi, Constance riesce a convincerla a scrivere con lei un’autobiografia basata soprattutto sulle sue ricerche e sulla sua idea di matematica. L’esistenza di Julia non inizia nel migliore dei modi: resta orfana di madre a 2 anni, il padre cade in depressione, trascura la famiglia e il lavoro, poi si trasferisce con le bambine nel deserto dell’Arizona. Nella sua autobiografia Julia riferisce che uno dei suoi primi ricordi è di lei piccola che mette in ordine i ciottoli all’ombra di un grande saguaro,
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un cactus simbolo dell’Arizona. Ma Julia non è solo una bambina che gioca con dei sassolini, infatti dice che ha avuto da sempre un gusto innato per i numeri naturali, che considera l’unica cosa reale. E a tal proposito scrive: Noi possiamo concepire una chimica diversa dalle nostre o una biologia, ma non possiamo concepire una matematica diversa che prescinda dai numeri. Ciò che riguarda i numeri e ciò che essi dimostrano sarà un fatto vero in ogni universo.
In questi ricordi, in questa bambina, c’è la grande visione universale, senza barriere e divisioni, che accompagna non solo gli studi, ma anche tutta la sua vita futura. La ricerca di un mondo ideale e la voglia di costruirlo saranno una costante, pur tra gli alti e i bassi della sua esistenza. Julia non solo perde la madre in tenera età, ma si ammala pure gravemente di scarlattina e poi di febbri reumatiche che le danneggiano il cuore. Per qualche anno viene accudita nella casa di una zia, lontana dalla sorella, dal padre e dalla scuola. Sono anni solitari. Una volta guarita abbastanza per recuperare una vita quasi normale, dapprima viene educata in casa da un maestro, poi torna a scuola, mostrando fin da subito una vivace intelligenza, soprattutto scientifica. Nonostante una grande insicurezza nelle sue possibilità, è dotata di senso dell’umorismo e capacità di godere delle cose della vita. In occasione del diploma, per esempio, riceve in regalo un regolo calcolatore che nomina “slippy”, cioè “scivolino”. Julia è e si sente diversa, perché è gracile, fragile, a causa del suo cuore non può giocare e fare sport come tutti gli altri, e inoltre ama i numeri, argomento non molto diffuso tra le fanciulle. Nella sua autobiografia afferma che ognuno ha una favola adatta alla sua vita e che la sua è quella del brutto anatroccolo, un brutto anatroccolo che diventerà cigno grazie alla matematica e allo studio, quando potrà iscriversi a Berkeley. La ragazza riesce infatti a studiare grazie all’aiuto di una zia
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e di Constance, che era già insegnante, perché nel frattempo il padre, che aveva perduto tutto nella crisi del ’29, si suicida quando Julia è al secondo anno di università. La vita della povera Julia è costellata di morti, ma a Berkeley vive un periodo speciale, che le fa pregustare un po’ di quel mondo ideale della matematica che perseguirà sempre. A Berkeley si sente beatamente felice e trasformata in cigno. È circondata di studenti e docenti entusiasti di lei e partecipa alle attività sociali del dipartimento. E poi c’è Raphael… I was very happy, really blissfully happy, at Berkeley. In San Diego there had been no one at all like me. If, as Bruno Bettelheim has said, everyone has his or her own fairy story, mine is the story of the ugly duckling. Suddenly, at Berkeley, I found that I was really a swan. There were lots of people, students as well as faculty members, just as excited as I was about mathematics. I was elected to the honorary mathematics fraternity, and there was quite a bit of department social activity in which I was included. Then there was Raphael.
Finalmente, ha trovato dei suoi simili e si sente accettata, inserita in un gruppo, partecipe della vita degli altri. Nel mondo ideale della matematica fiorisce e incontra anche l’amore, Raphael Robinson, appunto, il suo insegnante di teoria dei numeri. Si sposano nel 1941, e, poiché lui è docente a Berkeley, secondo una norma che vuol evitare casi di nepotismo, Julia non può insegnare, ma è impegnata, durante gli anni della Seconda guerra mondiale, con un laboratorio di statistica dove, insieme al professor Jerzy Neyman, lavora su progetti militari segreti. Si dedica con entusiasmo anche alla vita matrimoniale, alla sua nuova casa, all’arredamento e al marito. Vuole una vera famiglia, forse perché non l’ha avuta mai: quando resta incinta è felice, non le importa della matematica, della ricerca, ma solo di quel figlio, che però, purtroppo, le muore in grembo. Ad aumentare il dolore arriva la raccomandazione del medico: con quel cuore così malmesso non deve cer-
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care mai più di averne altri. Il suo sogno di maternità si infrange a causa del suo cuore malato. Julia cade in una profonda depressione, ma fortunatamente la salveranno altri due amori: il marito Raphael e la ricerca sul decimo problema di Hilbert. È proprio il marito a spingerla a tornare ai suoi studi: ecco che la matematica, per lei, diventa salvifica.
Figura 5.2 – Fotografia di Julia Bowman Robinson (a sinistra) e sua sorella Constance Bowman Reid (luglio 1984).
Quasi tutta la sua ricerca, oltre che alla teoria dei numeri, è orientata al confine tra matematica, logica e teoria dell’informatica, sulle questioni di problemi di decidibilità, computabilità e non computabilità. Si tratta di una serie di problemi, tra cui il decimo problema di Hilbert, il cui quesito richiede che si risponda sì o no. Anni e anni di studi, di formule e di dimostrazioni per arrivare a una risposta così semplice, secca. Si può o non si può. Acceso o spento: On/Off. C’è o non c’è un segnale. Un battito del cuore. Ecco l’oggetto degli studi di Julia. Nel 1948 ottiene il dottorato di ricerca col professor Tarsky, eminente logico statunitense di origine polacca, con una tesi sulla teoria
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della decisione. Per qualche anno, dunque, Julia, come la definisce la sorella, è “una casalinga che si occupa di matematica”. Non solo una casalinga e nemmeno solo una matematica. Nonostante la malattia, ha sempre in mente un mondo migliore, più libero e democratico, e così nel 1952 e nel 1956 si impegna molto attivamente in politica, sostenendo la campagna elettorale per il candidato alla presidenza del Partito Democratico, Adlai Stevenson, che, però, fu sconfitto entrambe le volte da Eisenhower. Nell’estate del 1959 Martin Davis, matematico nato nel 1928, e Hilary Putnam, filosofo e matematico nato nel 1926 e morto nel 2016, le inviano, perché lo revisioni, il loro lavoro sul decimo teorema di Hilbert, quel teorema cui lei lavorava da almeno 12 anni. Davis ricorda che Julia, fin da subito, gli diede un metodo, spiegandogli come evitare un’analisi disordinata, e che riuscì a semplificare alcune parti del lavoro, arrivando a formulare una prova semplice ed elegante. Ecco le parole di Davis: Her first move, almost by return mail, was to show how to avoid the messy analysis. A few weeks later she showed how to replace the unproved hypothesis about primes in arithmetic progression by the prime number theorem for arithmetic progressions… [She] then greatly simplified the proof, which had become quite intricate. In the published version, the proof was elementary and elegant.
La vita di Julia cambia nel 1961 in seguito a due eventi rilevanti. La scoperta di una tecnica innovativa le permette di sottoporsi a un’operazione alla valvola mitralica che le libera il cuore dal peso dell’affanno, consentendole di fare ciò che prima non aveva mai potuto, per esempio andare in bicicletta. Il marito, con ironia, racconta che mentre tutte le mogli dei suoi colleghi compravano pellicce o gioielli, la sua comprava biciclette. Nello stesso anno, Julia presenta i risultati dello studio, condotto con Davis e Putnam, sul decimo problema di Hilbert, gettando le basi
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per la sua soluzione, che verrà trovata nel 1970 da un matematico russo, Yuri Matijasevic, nato nel 1947. Così Julia scrisse a Yuri Matjasevic: Ora so che è vero, è bellissimo, è meraviglioso… se davvero hai 22 anni sono contenta di pensare che, quando ho elaborato la prima congettura, tu eri un bambino e io dovevo solo aspettare che crescessi.
Non è suo, dunque, il merito di aver fatto l’ultimo passo per risolvere il problema. Ma Yuri, per Julia, è il figlio che non ha mai avuto, il figlio matematico che coglie la sua eredità. Entrambi i Robinson lo trattano con stima e affetto. Gli anni Settanta, nel pieno della Guerra fredda, sono dominati dall’equilibrio del terrore fra le due superpotenze: gli Stati Uniti, patria della democrazia, del benessere e del consumismo sfrenato e l’Unione Sovietica, la principale potenza comunista, dove la libertà è un miraggio e si trova oltreconfine. Julia e Yuri devono discutere e collaborare, ma lui è russo, dunque lontano fisicamente, e le lettere che si scambiano impiegano tre settimane ad arrivare. La comunicazione fra questi due mondi separati, insomma, è quasi impossibile. Ma non per Julia, non per i matematici che, come lei ha sempre pensato e ora può rendere concreto, vivono in un mondo senza confini. Julia e Yuri si incontrano per la prima volta nel 1971, in occasione di un congresso a Bucarest. A un altro congresso cui Yuri non poté partecipare perché non aveva avuto il permesso dalle autorità è Julia a parlare anche per lui. Tra loro, infatti, si instaura un rapporto di amicizia e rispetto tra simili. Nella loro corrispondenza si trovano, ovviamente, soprattutto ragionamenti serissimi sul loro lavoro, ma ogni tanto si intravede una nota di più personale e qualche commento che rivela la personalità di Julia. Lei, per esempio, sa ridere della matematica: “Con sole 14 variabili dovremmo essere in grado di conoscere ogni variabile personalmente…”
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Julia ha una grande generosità e lucidità che metteva sempre al servizio degli altri. Una volta che Yuri aveva annunciato pubblicamente di aver trovato il risultato del decimo problema di Hilbert, si era poi ritrovato in imbarazzo perché qualcosa non quadrava e non aveva idee risolutive. Ma era arrivata una lettera di Julia che cercava di consolarlo: Io credo che gli errori di ragionamento siano molto peggiori di quelli aritmetici, che sono anche divertenti.
Ma, soprattutto, aveva avuto nuove idee per risolvere la situazione concretamente, salvandogli la reputazione. Julia, inoltre, ha una mente aperta e libera da gelosie e senso di possesso. In una lettera a Yuri, per esempio, scrive che certamente dopo di loro altri studiosi pubblicheranno altre cose, andranno oltre le loro idee, ma è proprio questo il bello della matematica! D’altra parte, in un mondo ideale senza confini la proprietà privata, anche delle idee, ha ben poco senso: Of course there is the possibility that someone will make a breakthrough and supersede our paper too, but we should think of that as being good for mathematics!
Sempre in quest’ottica, Julia rifiuta di essere menzionata come autore di un articolo che non ha mai letto: ritiene che sia tutto merito del lavoro di Yuri e non vuole in alcun modo appropriarsene: I do not want to be a joint author on the 9 unknowns paper. I have told everyone that it is your improvement and in fact I would feel silly to have my name on it. If I could make some contribution it would be different.
Yuri, però, è consapevole che senza il contributo di Julia quel lavoro non sarebbe mai nato. Anzi, per dirla con le parole della stessa Julia,
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secondo la quale la matematica è una meravigliosa rete di idee, di persone e di numeri: In realtà sono molto contenta che lavoriamo insieme – migliaia di miglia di distanza –, ovviamente insieme facciamo molti più progressi di quanto potrebbe fare uno solo.
Nel mondo della matematica in cui vola il cigno Julia, lei lascia anche altri contributi: per esempio, studia la teoria dei giochi, si occupa di idrodinamica nell’ufficio di Ricerche navali e insegna all’università di Berkeley, seppur parzialmente e per pochi anni per via della salute sempre cagionevole. Dopo essere stata per tanto tempo “la moglie del professor Robinson”, può ora vantarsi di essere la professoressa Julia Bowman Robinson! E pensare che, anni prima, alla commissione che doveva decidere se assegnarle un posto di ricercatore e che le chiedeva conto della sua attività settimanale, aveva risposto (rivelando comunque, oltre la soavità, un carattere alquanto determinato): Lunedì – cercato di dimostrare il teorema, Martedì – cercato di dimostrare il teorema, Mercoledì – cercato di dimostrare il teorema, Giovedì – cercato di dimostrare il teorema, Venerdì – teorema errato.
Da insegnante continua a tentare di far crescere il mondo libero della matematica. Ecco alcune sue dichiarazioni: Pensiamo sia positivo parlare di idee. Abbiamo scelto l’università per farlo, perché l’università dovrebbe essere un luogo dove si possono dibattere le idee senza che diventino polarizzate.
O, potremmo aggiungere, senza che si trovino al di qua o al di là di una qualche cortina di ferro.
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Capitolo 5
L’aver tanto contribuito alla soluzione del decimo problema di Hilbert le dona notorietà e molti onori, ma anche, come si dice, degli oneri. Certamente Julia apprezzava le attenzioni, ma allo stesso tempo le creavano imbarazzo: Perché ciò che io sono veramente è una matematica. Piuttosto che essere ricordata come la prima donna in questo o quello, preferirei essere ricordata, come ogni matematico dovrebbe, semplicemente per i teoremi che ho dimostrato e per i problemi che ho risolto.
Nonostante questa convinzione e nonostante la sua fragilità, nonostante il marito, per protezione, fosse contrario, Julia accetta vari incarichi legati alla sua nuova notorietà. Nel 1975 è la prima donna eletta alla National Academy of Sciences. Nel 1982 le chiedono di presiedere la American Mathematical Society (AMS). È la prima donna a ricoprire questo incarico e questo le dà una responsabilità di primo piano nella realizzazione del mondo dei matematici, che dovevano essere uomini e donne, senza distinzioni di sesso. Così accetta: Come donna e come matematica non avevo alternativa se non accettare. Ho sempre provato a fare tutto ciò che potevo per incoraggiare donne di talento a diventare ricercatrici matematiche. Ho trovato vessante il mio compito come presidentessa della società, ma molto, molto soddisfacente.
È presidentessa dell’AMS fino al 1985, anno in cui muore, il 30 luglio, all’età di 66 anni. Non è il cuore a fermarsi, la uccide la leucemia. Fino alla fine, e persino oltre, Julia mostra quelle doti di idealismo che la rendono forte e amata, pur nella sua timidezza e fragilità: non vuole fiori ma opere di bene, cioè che tutte le donazioni raccolte in sua memoria vengano devolute alla Fondazione Alfred Tarsky, amministrata dal dipartimento di Matematica di Berkeley.
Capitolo 6
L’ABITO NON FA…
… la donna matematica. Infagottate, nude, vestite da donna o da uomo, l’abito non fa la matematica, anche se nella storia spesso è l’abito a condizionare il giudizio e il pregiudizio.
Sophie Germain Antoine Auguste Le Blanc ha rischiato di finire in un libro di matematica a sua insaputa. Ha rischiato di dover comparire persino davanti a Lagrange, il grande matematico torinese, per discutere di numeri, argomento di cui da tempo non si occupava più. Chissà come gli è venuto in mente di iscriversi all’École Polytechnique di Parigi, una scuola nuova fondata nel 1794, destinata alla formazione superiore di scienziati e matematici. Antoine Auguste aveva pensato che gli sarebbe piaciuto occuparsi di numeri, ma aveva scoperto presto che i numeri non facevano per lui. E così aveva lasciato il corso e la scuola, e si era dedicato ad altre attività. Eppure, il suo nome era finito sotto il naso di due grandi matematici, Lagrange e persino Gauss, il matematico tedesco definito
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Capitolo 6
“il principe dei matematici”. Entrambi avevano ammirato le osservazioni contenute nelle lettere scritte a suo nome. In particolare, avevano trovato interessanti i suoi progetti sulla teoria dei numeri. Ma si può davvero dire che fossero suoi? Antoine non stava certo chino su formule di matematica. Dunque di chi erano le lettere scritte a nome suo? Un vero mistero. Un sotterfugio? Qualcuno si era messo nei panni altrui, nei suoi panni! Un modo spericolato e disperato per inseguire la propria passione. Una ribellione o uno scherzo del destino, o meglio della storia? La solita, vecchia storia, piena di pregiudizi. Antoine aveva capito quasi subito che quella strada non faceva per lui e aveva lasciato l’École Polytechnique senza rimpianti, per quel che ne sappiamo. Di certo sappiamo che c’era qualcun altro che avrebbe voluto con tutte le sue forze frequentare quella scuola, qualcuno che studiava per conto suo, da autodidatta, tutto quello che scovava di matematica. Qualcuno che non aveva potuto iscriversi alla scuola, per un pregiudizio, perché donna. La donna in questione è Sophie Germain, portata dal suo destino ad appassionarsi di una materia poco “femminile”, i numeri, e dunque a doversi nascondere sotto il nome di un uomo per coltivare questa passione. Ma la sua genialità matematica le dà anche delle soddisfazioni, per esempio permettendole di conoscere due grandi matematici, Lagrange e Gauss, che poi in parte l’hanno smentita. I due matematici, infatti, una volta scoperto che le lettere di Le Blanc non appartenevano a quello studente svogliato ma a una giovane donna, l’ammirarono ancora di più. E, soprattutto, la incoraggiarono a continuare i suoi studi. Le cose andarono così. Sophie Germain ha 13 anni e le capita di leggere la storia di Archimede, intento a studiare formule matematiche, incurante dell’assedio che i Romani avevano posto alla sua città, Siracusa, tanto concentrato da non accorgersi che un soldato romano, un nemico, gli si era parato davanti minacciosamente. Un soldato
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poco colto e anche spaventato, come molti dopo di lui, dal mistero che sta sempre dietro le formule matematiche. Questo milite lo apostrofò, ma Archimede era assorto nel mondo dei matematici, dove non c’è la guerra, dove, se stai studiando qualcosa, nessuno ti apostrofa per futili motivi. E così, narra la leggenda, Archimede non alzò la testa e il soldato lo uccise. Un racconto così è ancora emozionante, figurarsi per una ragazzina di 13 anni che vive a Parigi, nel 1789. Sophie scopre la sua passione per la matematica proprio nell’anno della Rivoluzione francese e inizia la sua rivoluzione personale contro i pregiudizi, nel pieno di un’altra rivoluzione, di cui è impregnata anche per motivi familiari, dal momento che suo padre, un ricco mercante di seta, è eletto come rappresentante del Terzo Stato. Sophie, che è nata il 1º aprile 1776, ascolta la storia di Archimede e si chiede quale potenza di fascinazione possa mai avere la matematica, e in che mondo meraviglioso si trovasse Archimede per dimenticarsi addirittura di sé. Sophie vuole entrare in questo mondo e così inizia a leggere tutto ciò che trova sulla matematica nella biblioteca paterna. Legge instancabile e, naturalmente, la sua mania suscita perplessità nella famiglia, che cerca di dissuaderla e di condurla verso studi più “normali”. Lei resiste, studia di nascosto a lume di candela, sotto le coperte, finché la famiglia non arriva ad accettare la sua passione, al punto che il padre le finanzierà gli studi per tutta la vita. Nel romanzo Ragione e sentimento, Jane Austen, che inizialmente pubblicava con uno pseudonimo maschile, fa esprimere dalla sua protagonista tutto il rammarico di una donna che non solo non può ereditare, ma nemmeno può trovare un lavoro e mantenersi, come invece potrebbe fare un uomo. Sophie è contemporanea della Austen e si trova nella stessa condizione. Non può lavorare né può studiare, non può avere sotto mano gli scritti più recenti sulla matematica, non può discutere le sue tesi con scienziati, non può frequentare veri maestri. Eppure, la matematica da signorine non le basta e così trova uno stratagemma, che guarda caso
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Capitolo 6
è stato usato anche da alcune donne nel Medioevo per poter entrare in monasteri solo maschili ed è sopravvissuto fino a pochi anni fa in Albania con le Vergini giurate. Sophie non ha bisogno di travestirsi da uomo, dato che non può uscire di casa e mettere piede nell’École Polytechnique. Però ci si iscrive col nome dell’ignaro Antoine Auguste Le Blanc, uno studente non più frequentante, e così riceve opuscoli, materiali, può diffondere i suoi scritti e addirittura iniziare una corrispondenza col matematico di punta della scuola, Joseph-Louis Lagrange. Immaginiamo la faccia di Lagrange, immaginiamola due volte. La prima quando riceve lettere con intuizioni notevoli e acute apparentemente scritte da uno studente che era stato mediocre e quasi invisibile. La seconda quando, su sua pressante richiesta di un incontro, invece di Le Blanc si trova di fronte una giovane donna. Intimidita, ma non tanto da non stupirlo con la vivacità della sua intelligenza e il suo entusiasmo per la matematica. Lagrange, passato lo stupore, non si fa frenare dal genere di Sophie, anzi ne diviene mentore e la segue negli studi per tutta la vita.
Figura 6.1 – sophie germain a 14 anni, riratta da auguste eugene leray.
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I due studiosi oggi sono ancora uniti da un’equazione in comune: si tratta di un’equazione sull’elasticità della piastra che per molto tempo portò solo il nome di Lagrange e solo da poco s’è fatta giustizia storica aggiungendo anche il nome della Germain. Sophie si appassiona anche alla teoria dei numeri, si cimenta nel famoso teorema di Fermat (un misterioso teorema risolto solo nel 1994) e si ritrova a volersi confrontare con qualcuno che sa più di lei, ossia Gauss, il principe dei matematici. Gauss vive a Gottinga e sta studiando proprio la teoria dei numeri: come fare a farsi ascoltare da lui? Sophie rispolvera l’identità del suo ignaro prestanome, Antoine-Auguste Le Blanc e scrive a Gauss. Possiamo pensare che davvero anche lei avesse dei pregiudizi nei confronti del mondo maschile, ma erano abbastanza giustificati, dato che Sophie non poteva esercitare la professione, non poteva insegnare, non aveva potuto frequentare le scuole perché era donna… Sophie scrisse a Gauss che, ammirato, rispose. Ah, Antoine Le Blanc quanti complimenti ha ricevuto senza mai saperlo. La corrispondenza ebbe un esito inatteso a causa della guerra e… di Archimede. Ancora lui. La Rivoluzione francese è infatti sfociata nell’età napoleonica e il generale Napoleone porta gli ideali della rivoluzione e la sua ambizione in giro per l’Europa. Quando Sophie viene a sapere che l’esercito francese avrebbe attaccato la città tedesca in cui viveva Gauss va subito col pensiero al fantasma di quando era bambina e rivive la scena della morte dell’assorto Archimede, ora nei panni di Gauss. Ecco, perciò, che chiede a un generale amico di famiglia di cercare il matematico e metterlo in salvo. Quando il generale porta a Gauss i saluti di Sophie Germain, il matematico sbalordisce, chiedendosi che ne è stato di quell’Antoine tanto brillante coi numeri primi. A questo punto Sophie è costretta a rivelare la sua identità: Nel descrivere l’onorevole missione di cui l’ho incaricato, M. Pernety (il generale) mi ha informato di avervi fatto il mio nome.
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Ciò mi induce a confessarvi che io non sono completamente sconosciuta a voi come potreste pensare, ma che temendo il ridicolo attribuito a una donna scienziato, io ho preso in precedenza il nome di M. Le Blanc nel comunicarvi quelle note che, senza dubbio, non meritano l’indulgenza con cui avete risposto.
Gauss non si scompone, anzi, scrive una delle più belle lodi che Sophie probabilmente ha mai ricevuto: Come esprimerle la mia ammirazione e il mio stupore nel vedere il mio stimato corrispondente signor Le Blanc trasformarsi in un personaggio illustre che dà un esempio così luminoso di ciò che io stenterei a credere. Il gusto per le scienze astratte in generale e per i misteri dei numeri in particolare è rarissimo: ma non è questo il motivo del mio stupore. Il fascino incantevole di questa scienza sublime si rivela solo a coloro che hanno il coraggio di immergersi nel suo studio. Ma quando una persona del genere che, secondo i nostri costumi e pregiudizi, deve incontrare difficoltà infinitamente superiori a quelle degli uomini nel familiarizzare con queste scabrose ricerche, riesce nondimeno a sormontare gli ostacoli e a penetrare le parti più oscure della materia, allora senza dubbio ella deve possedere il coraggio più elevato, talenti straordinari e un genio superiore. Niente potrebbe in maniera altrettanto lusinghiera e inequivocabile fornirmi la prova che le attrattive di questa scienza, che ha arricchito la mia vita di gioie così numerose, non sono chimere quanto la predilezione di cui voi l’avete onorata.
I due smettono di scriversi solo nel 1808, quando Gauss lascia la teoria dei numeri per occuparsi d’altro. Anche Sophie, a quel punto, si dedica ad altri progetti: in particolare, è impegnata per ben sei anni a combattere contro le equazioni sull’elasticità e contro i pregiudizi maschili, questa volta reali e ben radicati. Perché abbattere i pregiudizi si può, ma non è da tutti.
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Dal 1809 al 1815 studia la risoluzione di un problema che aveva interessato anche Napoleone, al punto da farne nascere un concorso il cui premio al vincitore è una medaglia d’oro da 1 kg. Di cosa si tratta? Il fisico Ernst Chladni aveva mostrato come della sabbia posta su delle piastre percosse con l’archetto di un violino formasse dei disegni, delle forme artistiche. Bisognava capire cosa accadesse dal punto di vista matematico in questi esperimenti sulle vibrazioni delle superfici elastiche. Al concorso, che fu indetto ben tre volte, per tre volte partecipa solo Sophie. La prima volta la sua spiegazione contiene degli errori che risolve insieme a Lagrange, che è parte della giuria: ne nasce, come già accennato, l’equazione Germain-Lagrange, ma Sophie deve attendere altre due edizioni del concorso per poter ottenere il riconoscimento della sua opera. Eppure, poi, non si presenta alla premiazione, perché offesa e umiliata dal comportamento della giuria che non aveva preso in considerazione seriamente il suo lavoro e si era rifiutata a un vero confronto fra studiosi. Uno dei giurati, il fisico Poisson, in effetti continuò a ignorarla in pubblico. Ma non fu il solo, basti pensare, infatti, che, nonostante i suoi studi sulla teoria delle piastre fossero fondamentali, il suo nome non figura fra i settanta fatti stampare sulla costruzione della Tour Eiffel. Sophie, dunque, non si presenta a ritirare il premio, ma pubblica il risultato delle sue ricerche: La Memoria sulle vibrazioni delle piastre elastiche resta il suo grande contributo alla matematica ed è alla base della moderna teoria dell’elasticità. Ma vincere un concorso alla fin fine porta a dei risultati. Poiché gode di una certa notorietà, Sophie è la prima donna ammessa a frequentare le sessioni dell’Accademia delle Scienze, cui di solito potevano accedere solo le mogli degli scienziati. Lei, invece, vi entra come studiosa, giacché non pensò mai di sposarsi. Tuttavia, nonostante la fama derivata dal premio, Sophie non può comunque laurearsi, perché, non avendo potuto frequentare liberamente l’École Polytechnique, l’idea di laurearsi sotto falso nome è impensabile!
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Per combinazione matematica, nella vita di Sophie tutto è ciclico: Antoine, Archimede, la teoria dei numeri, Lagrange, persino Gauss. Proprio Gauss nel 1830 la propone per una laurea honoris causa all’università di Gottinga. Ma Sophie non può avere questa soddisfazione, perché muore nel 1831, a 55 anni, per un male del tutto femminile: un cancro al seno.
Emmy Noether ed Hedy Lamarr L’abito non fa il monaco, dunque, ma non fa nemmeno lo scienziato o il matematico. Le due donne di cui vedremo ora la storia sono due facce della stessa medaglia. Di una si pensava che fosse troppo matematica per essere una vera donna e infatti era considerata un uomo, tanto che un suo collega ebbe a dire: “Non c’è alcun dubbio che sia un grande matematico, ma che sia una donna non posso giurarlo”. L’altra, invece, era troppo bella, troppo femmina per pensare che fosse anche intelligente. Un amico, al primo incontro, notò solo la sua bellezza, e solo in seguito si accorse che la casa era piena di formule e disegni tecnici. Entrambe sono state donne di successo, ma fraintese. La faccia brutta della medaglia è Emmy Noether. Emmy vive nel periodo della Seconda guerra mondiale, è tedesca di origini ebraiche e ostile al nazismo, anzi di simpatie marxiste, ed è pacifista convinta. All’inizio della guerra si rifugia negli Stati Uniti. L’altra è un’attrice, il suo nome d’arte è Hedy Lamarr, è austriaca, anche lei di origine ebraiche e avversa al regime nazista. Anche lei durante la guerra si trasferisce negli Stati Uniti. Non credo si siano mai conosciute, ma in comune hanno un fraintendimento. Hedy Lamarr è nota per lo scandalo del primo nudo integrale del cinema. Era considerata bellissima, troppo per poter essere non solo intelligente, ma anche un’attrice. “Mi trattano come un ornamento” lei stessa diceva. Invece fu inventrice e il suo nome è legato addirittura al wi-fi.
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Emmy è sciatta, invece, brutta e vestita senza gusto. Eppure è una donna, non v’è dubbio, dato che muore a causa di una cisti ovarica. Ma “per fortuna” era mascolina nell’aspetto e così alla fin fine poteva essere il grande matematico che fu e di cui persino Einstein, in una lettera, lodava “il penetrante pensiero matematico”. Nude o vestite male, l’abito non fa il monaco per le donne quando si affacciano in ambiti considerati maschili. Lo stereotipo, però, fortunatamente non regge e le due storie dimostrano che anche una donna bellissima può essere intelligente, e che una donna trasandata e matematica resta pur sempre una donna. Emmy Noether Emmy era femminile soprattutto nella sua capacità di aiutare gli altri, nella sua empatia, nel suo autentico interesse per gli studenti, per la sua professione e per l’intera umanità. Un collega e amico diceva che “era piena di calore umano quanto una pagnotta di pane”. Fu un’insegnante amatissima sia in Germania che negli Stati Uniti, al punto che intorno a lei si era costituito un gruppo di allievi chiamati affettuosamente “i ragazzi di Noether”. I suoi studenti erano caratterizzati dallo stile informale dell’abbigliamento, certo preso da lei, e dal fatto di essere entusiasti delle sue lezioni, benché queste fossero a un livello molto avanzato, dal momento che lei pensava in modo veloce e parlava in modo altrettanto veloce. Tentava vie personali per risolvere i problemi, e le tentava “in diretta”, durante la lezione. Quando non riusciva a venirne a capo, si arrabbiava, gettava il gesso a terra e lo calpestava. Poi risolveva il tutto in modo ineccepibile secondo la via tradizionale. Per i suoi allievi era un riferimento e li aiutava in ogni modo, “sembrava una robusta lavandaia molto miope i cui studenti si affollavano intorno a lei come una nidiata di anatroccoli intorno a una chioccia materna e affettuosa”. Uno dei suoi studenti più brillanti, Alexandrov, proprio a causa del suo aspetto fisico, iniziò però a chiamarla der Neither, il Neither, poiché der, in tedesco, è un articolo maschile.
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Nelle fotografie non ufficiali Emmy Noether è spettinata e ride sempre di gusto. Durante le lezioni si appassionava tanto che perdeva le forcine e si ritrovava coi capelli sparsi, per lo più infagottata in qualche abito largo e comodo, con occhiali spessi e un largo sorriso rivolto a chi la fotografava. Emmy nasce il 23 marzo del 1882 a Erlangen da una famiglia ebrea. Il padre è un famoso matematico, Max Noether, sua madre, pianista, cura la sua educazione. Sembra che Emmy debba diventare una perfetta donna di casa, studia economia domestica e si abilita all’insegnamento di inglese e francese, ma non insegnerà mai, perché si rivelano presto il suo genio e la sua passione per la matematica. La Noether (non cederò alla trappola di mascolinizzarla, come fecero invece i suoi allievi) studia seguita dal padre e poi da un collega del padre con cui si laureerà, ottenendo la più alta qualifica che una donna in Germania potesse ottenere intorno al 1900. Da tempo era in corso una feroce discussione sulla possibilità di ammettere le donne agli studi universitari. Molti accademici erano contrari e dunque erano indietro anche rispetto alla politica, che invece aveva già previsto l’accesso delle donne all’università. Era ancora il periodo in cui era il docente a decidere se ammettere le donne ai suoi corsi o meno. La Noether segue i corsi di matematica e inizia a studiare temi che attraggono l’attenzione di due dei matematici più famosi dell’epoca, i quali insegnano nella “Mecca” europea della matematica, cioè l’università di Gottinga, la stessa in cui avevano insegnato Gauss e Riemann, per intenderci. I due matematici sono Felix Klein, alto, elegante, organizzato, un po’ mondano, e David Hilbert, piccolo, nervoso, dalla battuta pronta, e talmente disorganizzato da non preparare le lezioni (alcune finivano male, in altre si elaboravano coi discenti nuove teorie). Entrambi questi mostri sacri della matematica presero a cuore le sorti scientifiche e universitarie della Noether, che, tuttavia, non fu ammessa alla docenza. Il senato accademico, infatti, si oppose a che una donna potesse diventare docente, temendo una destabilizzazione dell’ordine universitario. Hilbert fece un commento sarcastico: “Do-
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potutto l’università non è una stazione balneare”. E nonostante, come s’è già detto, quasi tutti i colleghi e persino gli allievi della Noether sostenessero che proprio non aveva nessuna attrattiva femminile, Noether a Gottinga riesce a insegnare solo come assistente di Hilbert e dunque non pagata. Come se per una donna dedicarsi alla ricerca fosse un hobby, uno sfizio, come se una donna dovesse sempre avere qualcuno che la mantenga… Gli studi della Noether sono in bilico fra matematica e fisica, come spesso accadeva in quegli anni tumultuosi, gli anni delle grandi rivoluzioni nella fisica, gli anni di Einstein, che nel 1915 aveva reso nota la sua teoria della relatività generale. La teoria della relatività, la meccanica quantistica, l’aspirazione titanica di trovare una teoria dell’universo. Aspirazione che unisce Einstein e Hilbert e cui contribuisce, coi suoi studi, la stessa Noether: a un’amica raccontò che con un gruppo di Gottinga stava eseguendo per Einstein calcoli difficilissimi che “nessuno di noi capisce a cosa possano servire”.
Figura 6.2 – Fotografia di emmy noether (primavera 1931).
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In questa aspirazione ben si colloca il teorema di Noether, un grandioso progetto che unisce campi diversi del sapere matematico e fisico in una grande intuizione sul tema delle simmetrie e delle invarianti. È un teorema che mostra qual è stata la grande capacità e genialità della Noether, cioè una visione che dal particolare va diritta al generale, dal noto a cercare di scoprire l’ignoto. Nelle fotografie si nota il suo sguardo miope, che sembra guardare oltre, concentrato su chissà quale punto lontano: i miopi danno l’impressione di guardare oltre. In effetti, lo sguardo e la mente della Noether si dimostrano potenti grazie alla capacità di generalizzazione e di astrazione. Il suo interesse va alle strutture, all’essenza (d’altra parte questi sono gli anni dello strutturalismo anche nel linguaggio: non a caso, nel 1916 veniva dato alle stampe il Corso di linguistica generale di De Saussure). La Noether riformula l’algebra in questo modo, fondando l’algebra astratta. Nel settembre 1932 Emmy Noether è l’unica donna a partecipare alle ventuno conferenze plenarie del Congresso internazionale di matematica tenuto a Zurigo. Proprio in quest’occasione, in quello che probabilmente è il suo momento di massima gloria, enuncia le sue teorie. Eppure, non le interessava la gloria, a lei piaceva solo “parlare di matematica”. È l’attrazione del convegno, la principale relatrice. Questa donna piccola, tozza, scarmigliata e sorridente, detta le linee della nuova algebra a un pubblico attonito e spesso ammirato. Ma già l’anno seguente la Noether deve lasciare la Germania di Hitler a causa delle sue origini ebraiche e della mai dissimulate simpatie marxiste. Come molti altri scienziati, arriva negli Stati Uniti. Anche qui, grazie alla sua abilità comunicativa, crea un folto gruppo di studenti, che aiuta in ogni modo anche contribuendo ai loro articoli senza comparire. Ma la tranquillità non dura a lungo: nel 1935, a 53 anni, viene operata per una cisti ovarica, un intervento di scarsa importanza tanto da non farne cenno nemmeno al fratello. Muore, invece, a quattro giorni dall’operazione.
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Purtroppo, chi oggi studia l’algebra secondo le linee che lei ha dettato, con i termini che lei ha individuato, non conosce quasi il suo nome, né le vengono riconosciuti i contributi che ha dato alla fisica. In vita, però, ottiene numerosi riconoscimenti dai colleghi maschi, e questo fa loro onore, perché arrivano in un mondo in cui un genio come lei non può percepire uno stipendio che corrisponda alla sua attività. Per questo vive modestamente, o forse è per lei l’unico modo di vivere, dato che, se le avanza qualcosa, aiuta i suoi familiari. A riprova del fatto che essere donna e matematico non era (e forse non è) facile, ecco cosa scrive Einstein a Klein alla fine del 1918: Nel ricevere il nuovo lavoro della Noether ho riflettuto di nuovo sulla grossa ingiustizia che le viene fatta negandole l’abilitazione. Io sarei dell’avviso di intraprendere un energico passo verso il Ministero. Se lei non lo ritiene possibile, allora me ne incaricherò io stesso.
Ma nulla poté nemmeno lui. Emmy morì troppo presto, “al culmine dei suoi poteri, la sua immaginazione e la sua tecnica avevano raggiunto il punto più alto di un perfetto equilibrio”, come ricorda il suo amico e collega Weyl. Il teorema di Emmy Noether spiegato all’autrice da uno studente di matematica Il teorema di Emmy Noether è importante quasi come la teoria della relatività di Einstein, eppure solo pochi sanno cosa sia e chi sia Emmy. Fino ai primi del Novecento la matematica, che pure era già una scienza astratta, aveva ancora uno sguardo che, nei suoi calcoli e ricerche, analizzava gli oggetti più che le strutture. Dopo la teoria degli insiemi di Cantor e dunque dall’inizio del Novecento, molto è cambiato. È come se lo sguardo del matematico si fosse alzato dalla pura osservazione degli oggetti (numeri, lettere, nuvole, castelli e altro ancora) per fissarsi sulle strutture, sulle regole, sulle
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relazioni e sullo spazio. L’oggetto diventava meno importante. Non importava cioè se fossero nuvole o numeri, contava (è il caso di dirlo) che tipo di rapporto, che relazione ci fosse fra loro. Insomma uno sguardo sempre più astratto. E più potente, perché l’astrazione rende il pensiero più ampio. Ma anche più pericoloso perché astrarre e generalizzare vuol dire levarsi in alto, lontano dalla realtà, rischiare di non curare più il contenuto per un formalismo fine a se stesso. Ed era il pericolo individuato nell’algebra da Simone Weil. L’algebra: chi la rifonda, anzi fonda l’algebra astratta è un’altra donna, appunto la Noether, contemporanea della Weil. Partiamo dalla base. Se degli oggetti soddisfano le seguenti proprietà: 1. esiste un’operazione (come la somma) che è associativa, 2. esiste un elemento neutro (come lo zero), 3. per ogni elemento esiste un inverso (come -2 per 2), allora si dice che questi oggetti formano un gruppo. Nell’Ottocento, di questi gruppi si studiavano il funzionamento interno, il comportamento dei diversi oggetti, le permutazioni che mettevano gli oggetti in relazione fra loro. Nel Novecento, invece, si inizia a pensare che, qualsiasi siano gli oggetti, se obbediscono a delle regole comuni, sono un gruppo. Dunque, via via dai semplici oggetti, si analizzino i gruppi direttamente. E più gruppi fra loro, le leggi, le strutture che li governano e governano lo spazio in cui si collocano senza preoccuparsi se si tratta di numeri o lettere o nuvole e castelli come s’è detto. Immaginiamo una spiaggia in cui alcuni bambini stanno giocando con delle biglie. Nell’Ottocento avremmo guardato il colore delle biglie e i rapporti fra loro, le loro permutazioni. Nel primo Novecento si comincia a dare per assodato che le biglie in certe condizioni formano un gruppo (e se anche fossero conchiglie non ci importa) quindi possiamo ampliare lo sguardo da un pezzo di spiaggia a un pezzo molto
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più grande, fino ad arrivare a osservare tutta la spiaggia e tutte le interazioni fra tutti i gruppi (di biglie o conchiglie) e i loro spazi nella spiaggia. Tutto quello che conta in algebra astratta non sono i singoli oggetti dentro uno spazio, ma le regole che collegano gli oggetti e gli spazi. (Riccardo Zanfa)
Il discorso sulla generalizzazione e dunque sulla nascita dell’algebra astratta a opera della Noether è legato al suo teorema sulla simmetria e la conservazione. Questo teorema è anche la risposta a un problema di Einstein e di Hilbert che stavano scrivendo le equazioni che descrivevano la teoria della relatività generale. E non è da trascurare che la relatività generale abbia al suo centro il principio di invarianza dei sistemi di riferimento. In ogni caso a Einstein e Hilbert si poneva il problema della conservazione locale dell’energia e qui interviene il Teorema di Emmy Noether che infatti dice: “Per ogni simmetria di tipo continuo corrisponde una legge di conservazione e viceversa”. Da sempre o quasi da sempre, l’uomo ha saputo che se lascia cadere una pallina questa ha un’energia potenziale (cade) e un’energia cinetica (che dipende dalla velocità), la loro somma (energia meccanica) rimane costante. È parso naturale, in natura è così. Naturale da sempre, quantomeno per i fisici, è che vi sia la conservazione di quantità come l’energia, la quantità di moto e il momento angolare (che riguarda cioè le rotazioni). Rivoluzionario fu pensare che la conservazione derivasse da proprietà della simmetria che descrivono i sistemi fisici. Questo passaggio si deve a Emmy Noether. Lei ha scoperto che questo non è naturale, ma può essere dimostrato col linguaggio della matematica che naturale non è, poiché la matematica è uno sguardo sul mondo, un modo umano per vedere le cose e spiegarle.
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Il teorema sulle simmetrie e la conservazione dell’energia, della quantità di moto e del momento angolare della Noether ha dunque non solo un’importanza capitale per le sue applicazioni ma proprio per il pensiero che sta dietro, perché spiega le leggi di qualcosa che sembrava dato misteriosamente e basta, “caduto dal cielo”. Proprio per questo è paragonabile alla teoria della relatività, cui comunque è strettamente connesso. La Noether ci dice anche che ogni volta che si dà conservazione si dà simmetria e dunque ancora una volta generalizzando ci tranquillizza sul fatto che certi fenomeni traslati nel tempo o nello spazio però si ripetono. Uguali. Viceversa, se c’è simmetria (cioè una trasformazione che mantenga le forme come erano), allora c’è una quantità conservata, un numero costante (come l’energia). L’uomo, o la donna in questo caso, alla fin fine scoprono che quello che pare naturale non lo è, ma è già uno sguardo, una interpretazione umana. Probabilmente un gatto o un bruco vedranno sia le simmetrie che la relatività in ben altro modo. Hedy Lamarr Morì, invece, nel 2000, Hedy Lamarr, anziana e in declino come attrice, ma in piena luce come inventrice. Solo quando ormai la sua bellezza era sfiorita si era scoperto questo suo diverso ruolo. Si era scoperto che Hedy aveva anche un cervello. In effetti, la Lamarr fu un’attrice e una donna bellissima, tanto bella da essere usata nei film solo come un oggetto sessuale, un ornamento. Qualcuno poteva immaginare quanta intelligenza si celasse dietro quei lineamenti perfetti? Nessuno l’avrebbe pensato perché lo stereotipo della bella ma oca è imperante. La Lamarr nasce in Austria nel 1915 e, per dedicarsi al cinema, lascia gli studi di ingegneria. Tuttavia, avendo una mente matematica ed essendo interessata alla tecnica, non smette mai di studiare e riflettere. È oppressa dal nazismo, anche perché di origini ebraiche, e fugge dal suo
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primo marito filonazista e mercante d’armi, grazie al quale, però, viene a conoscenza di segreti militari. La casa del marito è frequentata addirittura da Hitler e Mussolini, dunque Hedy fugge dal nazismo stesso, travestita da cameriera con le tasche piene di gioielli, e approda negli Stati Uniti.
Figura 6.3 – Hedy lamarr in una fotografia pubblicitaria del 1940.
È ossessionata dalla possibilità di usare dei segnali che impediscano di individuare le frequenze dei siluri. Quando negli USA, nel 1941, conosce il compositore americano George Antheil, che si interessava al controllo automatizzato delle pianole, gli chiede aiuto per costruire un sistema in grado di sincronizzare i segnali mandati su frequenze diverse allo scopo di non far intercettare i siluri radiocomandati. All’inizio il musicista, secondo quando raccontò in seguito, non ha occhi che per la bellezza di Hedy, che dal vivo è ancor più bella che sullo schermo (certo più espressiva), ma poi, durante una visita a casa sua, si stupisce di vedere tanti libri incomprensibili (di matematica ed elettronica) e soprattutto una grande quantità di appunti fitti di idee e invenzioni.
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I due creano un sistema di comunicazione segreto che nel 1942 ottiene un brevetto dallo U.S. Patent Office. L’idea si basa sul sistema usato con le carte perforate delle pianole meccaniche (di cui il musicista era esperto), con continui cambi di frequenza che devono essere conosciuti da chi invia e da chi riceve. I salti di frequenza rendono molto difficile l’individuazione del siluro e prefigurano quello oggi integrato nell’espansione dello spettro, quello grazie al quale funzionano telefoni cellulari, wireless, internet, sistemi satellitari e altre apparecchiature. In questo modo oggi si cerca di evitare che siano intercettate le conversazioni. Gli inventori mettono la loro scoperta a disposizione della marina americana, ma non esiste ancora la tecnologia per usarlo: sarà a disposizione solo nel 1962. Verrà usato, a insaputa dei due inventori, nella Guerra fredda. Intanto Hedy invecchia, ossessionata anche dalla perdita della bellezza, ma finalmente le sue capacità di inventrice vengono a galla donandole un altro tipo di riconoscimento e di fama. Quando nel 1997 riceve il premio Pioneer award assegnato agli inventori che hanno rivoluzionato il mondo dell’elettronica e della comunicazione, il suo commento è “Era ora”. E ha ragione, dopotutto sono passati ben 55 anni da quando ha brevettato la sua invenzione! Ormai i riconoscimenti arrivano più numerosi, tanto che il Giorno dell’inventore nei paesi di lingua tedesca viene indetto per il 9 novembre, data della sua nascita e in suo onore. Il brevetto non le frutta nulla, ma la fama tardiva di inventrice le permette di guadagnare parecchi soldi, quando, ormai vecchia, ha dilapidato tutti i suoi beni ed è così povera da non “potersi comprare un panino”, come dichiara lei stessa. Muore all’età di 85 anni per un arresto cardiaco, e uno dei suoi tre figli, secondo le volontà espresse dall’attrice, disperde le sue ceneri nelle selve austriache dove era nata. Di lei, dunque, non resta più nulla, se non i suoi numerosi brevetti e, certamente, i suoi film.
Capitolo 7
OLTRE LA MATEMATICA, LE RIVOLUZIONARIE Proprio per l’eccezionalità della loro inclinazione verso una disciplina ritenuta poco femminile come è la matematica, e la scienza in genere, le matematiche non sono mai donne reazionarie, piuttosto, che ne abbiano coscienza o meno, tendono a contrastare i pregiudizi e le consuetudini, contestando, con la loro stessa esistenza, l’ordine costituito. Alcune fra queste, però, si sono spinte oltre, prendendo posizioni politiche ben precise e anche coraggiose.
Sofja Kovalevskaja Ne ha scritto Alice Munro, scrittrice canadese, premio Nobel per la Letteratura. Ibsen diceva che scrivere di lei e della sua vita significava scrivere un romanzo. E lei, a 13 anni, si era innamorata di Dostoevskij. Di Dostoevskji in persona, non dei suoi libri. Eppure, è di una matematica che parliamo. Ma anche di una scrittrice. E persino di una rivoluzionaria. Parliamo di Sofja Vasilyevna Kovalevskaja. Una donna che affossa tutti i pregiudizi sulle donne e sulla matematica. È bella. Dai
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ritratti emerge un volto con occhi limpidi, vivaci e decisi. Ha una bocca sensuale e imbronciata, e delle fossette. Si occupa della rotazione, anzi della rivoluzione, di un corpo rigido e scrive poesie, drammi e il racconto della sua infanzia. Si sposa per poter studiare all’università e ha una figlia. Lotterà sempre per il diritto delle donne allo studio. Ha una fede rivoluzionaria, non a parole, ma sul campo. Non vive di soli numeri, dunque. Anche se i numeri e la matematica sono la sua vera passione. Quando tutto nella vita mi sembra meschino, insignificante, allora mi rifugio nella contemplazione delle leggi immutabili ed eterne della scienza.
Sofja è tante cose. Muore per una polmonite a 41 anni, giovane, troppo giovane. Ma ha vissuto parecchie vite. Nasce in Russia nel 1850 da una famiglia di piccola nobiltà: la madre è affettuosa, il padre è severo ma non ottuso, infatti permette alle figlie di studiare. Tutto questo traspare dalle parole della stessa Sofja in Ricordi dÕinfanzia, il suo testo letterario più famoso e tradotto (anche in italiano). Ha un fratello e soprattutto una sorella più grande, Anja, detta affettuosamente Anjuta, alla quale è molto legata e di cui conviene delineare brevemente la storia: letterata, inviò, a insaputa della famiglia che cercò vanamente di ostacolarla, dei suoi racconti a Dostoevskji, che li trovò eccellenti, li pubblicò, volle conoscerla e si innamorò di lei. Ma lei non volle sposarlo e all’incredula sorellina, che invece era stata affascinata dallo scrittore, diede questa motivazione del rifiuto: A volte mi meraviglio io stessa di non poterlo amare. È così buono. All’inizio, ho pensato che forse l’avrei amato. Ma lui ha bisogno di una donna tutta diversa da me. La sua donna deve dedicarsi a lui
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completamente, consacrargli tutta la sua esistenza, pensare esclusivamente a lui. E questo mi è impossibile: anch’io voglio vivere.
Anjuta sposò poi un rivoluzionario francese, Victor Jaclard, che fu anche un importante uomo politico. In uno dei loro esili, a causa delle loro idee socialiste, vissero a Londra dove incontrarono Marx. Lei stessa fu sulle barricate nella Comune di Parigi del 1870 e non mancò di farci una capatina anche Sofja. Dunque, i comportamenti e le attitudini delle due sorelle non dovettero essere facili da comprendere in una famiglia che era piuttosto tradizionale, ma sicuramente entrambe diedero ai genitori anche delle grandi soddisfazioni. Sofja racconta che il suo amore per la matematica nacque quando era piccola grazie ai racconti dello zio Piotr: Fu proprio da lui, per esempio, che sentii per la prima volta parlare della quadratura del cerchio e dell’asintoto a cui una curva si avvicina costantemente senza mai raggiungerlo, e di molti altri problemi di natura simile. Naturalmente non riuscivo ad afferrare il significato di questi concetti, ma essi agirono sulla mia immaginazione, instillando in me un sentimento reverenziale per la matematica, una scienza misteriosa ed eccelsa che spalanca ai suoi adepti un mondo nuovo di meraviglie inaccessibili ai comuni mortali.
Questo racconto dovrebbe diventare un metodo pedagogico per avvicinare i bambini ai calcoli in modo “indolore”. Oltre ad avere uno zio simile, accadde, e l’episodio è famoso quasi più di Sofja stessa, che non ci fosse abbastanza carta da parati, così nella camera dei bambini per un po’ di tempo rimasero appiccicate al muro le pagine di un vecchio libro del padre sulle conferenze sul calcolo differenziale del prof. Ostrogradskij. Sofja racconta che passava le ore a fissare quei simboli affascinanti e sconosciuti. Quei simboli e quelle frasi le si impressero nella mente tanto che, quando frequentò l’università, un docente
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si stupì delle sue conoscenze, per cui sembrava che conoscesse certi argomenti “da molto tempo”. E infatti così era, sia pure in modo inconscio.
Figura 7.1 – Fotografia di sofja Kovalevskaja (1880).
Sofja, dunque, si appassiona alla matematica sin da bambina. Forse, se ai bambini, oltre a leggere libri da bambini, si leggessero anche formule, non semplificate per carità, non si avrebbero per forza dei geni, ma studenti meno impauriti, scoraggiati e svogliati credo di sì. Eppure, questa passione per una materia tanto ostica che in nulla si addiceva a una signorina da marito (quante volte abbiamo letto cose così sulle nostre matematiche?) è ostacolata dalla famiglia e Sofja, dunque, doveva accontentarsi di leggere i libri di matematica e fisica di notte, di nascosto. Da autodidatta, a 14 anni impara la trigonometria per capire un testo di ottica che stava leggendo. Casualmente, l’autore è un vicino di casa che, discutendo con Sofja del suo libro, si stupisce delle qualità
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intellettuali della fanciulla e convince il padre a farla studiare, sia pure privatamente. Nelle sue memorie lei confessa che fin da allora le interessavano i temi più astratti, sempre in bilico fra ragione e immaginazione, come d’altronde fu tutta la sua vita: … l’infinito per esempio. E, a onor del vero, è l’aspetto filosofico della matematica che mi ha attratto per tutto il corso della mia vita. La matematica mi è sempre sembrata una scienza che dischiude nuovi orizzonti.
Ovviamente, la matematica compie questa magia se studiata a livelli sempre più alti, e, infatti, studiare con maestri privati a Sofja ben presto non basta più. Ottiene il diploma di scuola superiore, ma in Russia non può, in quanto donna, frequentare l’università. Inoltre, se una donna per studiare vuole andare all’estero, deve avere il permesso o del padre o di un marito. Il padre di Sofja, dopo averle fornito un’educazione privata tra le mura domestiche, non ha alcuna intenzione di concederle di andare all’estero. Come può fare Sofja per avere il permesso? Anche nella Russia del 1870 vale il detto: “Fatta la legge, trovato l’inganno”. Infatti, in quegli anni, si era formato un gruppo di giovani che si definivano nichilisti. Il termine è nato proprio in Russia, e lo si trova utilizzato per la prima volta nel romanzo di Turgenev Padri e figli, pubblicato nel 1862: “È un nichilista” ripeté Arkadij. “Nichilista” articolò Nikolaij Petrovic. “Dal latino nihil, nulla, per quanto possa giudicare; dunque codesta parola indica un uomo che… che non riconosce nulla?” “Dì: che non rispetta nulla” ribatté Pavel Petrovic e daccapo mise mano al burro. “Che considera tutto con occhio critico” osservò Arkadij. “E non fa lo stesso?” domandò Pavel Petrovic.
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“No, non fa lo stesso. Il nichilista è un uomo che non si inchina davanti ad alcuna autorità, che non accetta neppure un principio sulla fiducia, di qualunque rispetto sia circondato questo principio.”
Questi giovani che non si inchinavano davanti a nessuna autorità volevano ottenere anche l’abolizione della servitù della gleba e l’accesso all’istruzione per le donne. Per aiutarle a studiare combinavano matrimoni nominali, finti. Una volta sposata, la donna aveva il permesso del marito di andare a studiare all’estero. A 18 anni, dunque, Sofja sposa il paleontologo Vladimir Kovalevsky, che fu uno dei primi a diffondere il pensiero di Darwin in Russia e ne fu amico. Il matrimonio che le dona la libertà a mano a mano diventa una vera unione, tanto che i due mettono al mondo una figlia. Benché Vladimir non ostacoli la moglie nei suoi studi e i coniugi condividano idee politiche e ideali, il matrimonio non è felice. I quindici anni di vita insieme sono un continuo altalenare tra ricorrenti momenti di depressione, esasperazione e tensione fra i due. A rompere la concentrazione di Sofja ci sono anche le frequenti lamentele e incomprensioni del marito. Eppure, nemmeno ottenere il permesso di sposarsi fu facile: certo Sofja non poteva presentarsi a casa con Vladimir e dire: “Lo sposo!”. Si rivela necessario creare una situazione in cui, per preservare il suo onore, il padre sia costretto ad accondiscendere al matrimonio. Sofja, infatti, fa sapere al padre, mentre è a casa con ospiti, che lei è da sola a casa di Vladimir e che non tornerà nella casa paterna fino a che non abbia avuto il permesso di sposarlo. Costretto dalla situazione, il padre concede il benestare al matrimonio, dopodiché Sofja si sposa nel 1868 e finalmente può andare all’estero a studiare. I due “sposini” vanno prima in Germania a Heidelberg, ma Sofja, dopo tutta la fatica fatta, pretende di studiare col matematico più bravo e famoso, perciò si mette in contatto con Karl Theodor Wilhelm Weierstrass (1815-1897) e lo raggiunge a Berlino per scoprire che, a differenza di Heidelberg, qui alle donne è vietato l’accesso all’universi-
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tà. Ma la ragazza, col suo ingegno, riesce a conquistare il famoso matematico: il divieto, in questo caso, diventa una fortuna, una fortuna paradossale, perché così può addirittura avere da lui lezioni private. Gli studi con Weierstrass si protraggono per quattro anni, mentre la frequentazione e l’amicizia durano per tutta la vita. Questi studi hanno avuto la più profonda influenza possibile sulla mia intera carriera matematica, hanno determinato in modo definitivo e irrevocabile la direzione che io dovevo seguire nel mio futuro lavoro scientifico: tutto il mio lavoro è stato fatto precisamente nello spirito di Weierstrass.
A Berlino scrive tre articoli importanti, due di matematica pura e uno legato all’astronomia, grazie ai quali conseguì il titolo di dottore presso l’università di Gottinga, nel 1874. Uno di questi, On the Theory of Partial Differential Equations, fu pubblicato anche su una prestigiosa rivista, un grande riconoscimento per una studiosa sconosciuta. Nonostante gli onori, in tanti probabilmente cominciano a interrogarsi e a malignare sul rapporto fra Weierstrass e Sofja, tanto che Anna Carlotta Leffler, la sua amica e scrittrice svedese e sorella del matematico Gosta, che ritroveremo nella biografia dedicata a Sofja, descrive in modo gustoso un incontro tra i due. Sofja aveva risolto tre problemi che Weierstrass aveva posto e lui si stupisce che ci sia riuscita ben prima di qualsiasi altro suo allievo (tutti maschi, per inciso). Nel momento dell’incontro, Sofja è vestita in modo ordinario, indossa un cappello che le copre quasi tutto il volto, sembra più vecchia e nasconde anche gli occhi, che, per la loro insolita espressività, di solito conquistano tutti al primo sguardo. Quando si rivedono un’altra volta la settimana seguente, lui si sorprende molto e loda il modo acuto e ingegnoso con cui ha operato. Stavolta lei non indossa cappello e mostra i suoi bei ricci. Arrossisce per i complimenti suscitando così, secondo la biografa, una tenerezza paterna nell’anziano matematico.
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Questo, ovviamente, è il punto di vista di un’amica. Sofja di sicuro non vive di soli numeri, ma anche di tante passioni, tra cui l’amore. Negli ultimi anni della sua vita si innamora di un cugino del marito, Maksim Kovalevskij, di professione avvocato, col quale intrattiene una relazione tempestosa. Lui la vorrebbe con sé in Francia, ma lei non intende rinunciare ai suoi studi. Si sente dunque dilaniata fra queste due passioni, tanto da scrivere: Ma come può una donna con gli occhi arrossati a furia di studiare, la cui fronte si copre di rughe nello sforzo di conquistare un premio dell’Accademia delle Scienze, come può catturare l’immaginazione di un uomo?
Tuttavia, nelle difficoltà, la letteratura non le è d’aiuto, al contrario della matematica: Nei momenti più tristi mi aggrappo alla matematica, è bello poter pensare che esista un mondo del tutto separato dal nostro “io” e sento la necessità di pensare ad argomenti indipendenti da qualsiasi implicazione individuale.
Oltre ai numeri e alle passioni individuali, Sofja si accende di forti passioni politiche, è di idee comuniste, lotta per il diritto delle donne allo studio e ama profondamente la sorella. Quando il cognato, Victor Jaclard, viene incarcerato, lei corre a Parigi nel 1870 dopo la fine dell’esperimento socialista della Comune e aiuta la sorella e gli altri a liberarlo. Li accompagna poi in esilio a Londra, dove conosce Charles Darwin, amico del marito, e George Eliot. Dopo la laurea summa cum laude del 1874, Sonja e il marito tornano in Russia e qui lei, nonostante la laurea e una lettera di Weierstrass, non può insegnare se non alle scuole elementari. Rifiuta, dunque, con amara ironia: “I was unfortunately weak in the multiplication table” (“Ero debole nelle tabelline…”).
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Durante questi anni in Russia, Sofja si dedica alla figlia, nata del 1878, che si chiama Sofja come lei, ma è detta “Fofi”. Poi aiuta il marito, scrive perlopiù opere letterarie e diventa una signora della buona società, finché il matrimonio non va in crisi, anche per problemi economici. Sofja si riavvicina dunque alla matematica e partecipa a un convegno dove incontra Gosta Mittag-Leffler, matematico svedese e allievo di Weierstrass, che cercherà in tutti i modi di aiutarla a intraprendere la carriera universitaria. Grazie al suo appoggio, Sofja nel 1881 lascia la Russia e frequenta Parigi e Berlino per riallacciare i rapporti col mondo matematico. Nel 1883 il marito, che era rimasto in Russia, si uccide a causa dei problemi finanziari. Sofja, nonostante la separazione, ne è molto scossa, ma paradossalmente questo tragico evento regolarizza la sua posizione: poiché è ora una vedova rispettabile, la sua carriera universitaria può finalmente iniziare. Nel 1884 Gosta riesce a farle ottenere una cattedra per cinque anni come professore straordinario nella giovane e dinamica università di Stoccolma. Il primo anno può insegnare in tedesco, poi dovrà farlo in svedese. Sofja impara la lingua così bene da riuscire a scrivere anche testi in svedese. Non si è geni per nulla. Nel 1888 vince il premio Bordin, un prestigioso riconoscimento dell’Accademia delle Scienze di Francia, con l’importante lavoro Sulla rivoluzione di un corpo solido intorno a un punto fisso, e così, finalmente, diviene professore a tutti gli effetti. A Stoccolma occupa la cattedra di Analisi Superiore. Dopo Laura Bassi e Maria Gaetana Agnesi, è la prima donna europea ad avere una cattedra universitaria di matematica. È anche la prima donna a far parte del comitato editoriale della rivista scientifica Acta matematica, fondata da Gosta Mittag-Leffler. Numerose reazioni all’annuncio di una donna docente di matematica sono positive: Oggi non annunciamo l’arrivo di un volgare e insignificante principe di sangue nobile. No, la Principessa della Scienza, Madame
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Kovalevskij, onora la nostra città con il suo arrivo. È la prima donna in Svezia che entra come docente universitaria
scriveva un giornale svedese dell’epoca. Ma non tutti sono così entusiasti, come, per esempio, il “simpatico” drammaturgo Strindberg che così si lamenta: Sofja Kovalevskij dimostra, in modo lampante, come due più due fa quattro, che una donna docente di matematica è una mostruosità, e come essa sia inutile, dannosa e fuori luogo.
Lei replicò che forse Strindberg aveva ragione, per poi aggiungere: “Mi dispiace, visto che in Svezia ci sono tanti matematici uomini a me superiori, che abbia rivolto la sua attenzione a me per pura galanteria.” Essere donna e matematica, che mostruosità! Lei stessa ironicamente commenta: Incomincio a capire perché gli uomini apprezzano tanto le brave, utili casalinghe. Se fossi un uomo, anch’io mi sceglierei una bella e piccola mogliettina che mi potrebbe liberare da tanti lavori.
Essere matematica e madre, che difficoltà! Sofja fu accusata anche di essere una madre che trascurava la figlia, perché questa la raggiunse in Svezia quando aveva ormai 8 anni. Nonostante la cattedra universitaria, in Svezia Sofja non si trova bene ed è preda di momenti di depressione, oltre a vivere, come abbiamo visto, una storia d’amore tormentata. In proposito, scrive a un’amica: Questo sole eterno, queste lunghe notti chiare troppo in anticipo sul calore dell’estate, sono snervanti; sono notti che promettono una felicità che non sanno dare.
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Bisogna aggiungere che nel 1887 è morta l’amata sorella Anja e l’evento l’ha tanto colpita da spingerla a scrivere il dramma Il nichilista. Nel 1891, tornando da una vacanza in Francia, sorpresa dalla pioggia, dopo aver trasportato i bagagli da sola sotto l’acqua, Sofja si ammala. Sembra un raffreddore, invece è polmonite. Una polmonite che la uccide, a 41 anni. Due cose, tra tutte, sono da sottolineare. In primo luogo, Sofja visse una sorta di dissociazione fra la sua passione matematica e quella letteraria, ma cercò sempre di conciliarle. Scriveva di non essere mai stata capace di scegliere fra la due, ma aggiungeva: È impossibile essere una matematica senza essere una poetessa nell’anima. Molti di quelli che hanno avuto l’opportunità di saperne di più riguardo alla matematica la confondono con l’aritmetica e la considerano una scienza arida. In realtà, invece, è una scienza che richiede una grande quantità di immaginazione.
E infine: “Il matematico, come il poeta, deve vedere solo ciò che gli altri non discernono; il suo sguardo deve penetrare più profondamente.” La sua immaginazione fu sempre presente anche nel lavoro matematico, come testimoniano le parole di Weierstrass e le motivazioni del premio Bordin: “Our co-members have found that her work bears witness not only to profound and broad knowledge, but to a mind of great inventiveness”, in cui si parla delle sue profonde conoscenze, ma anche della sua grande inventiva. Con la sua ricerca, secondo l’amica e biografa Anna Carlotta Leffler, Sofja voleva trovare “le connessioni logiche tra tutte le manifestazioni della vita, come, per esempio, tra le leggi del pensiero e i fenomeni naturali”. Dunque, “vedere l’unità nella varietà era l’obiettivo e il fine di tutta la sua filosofia e la sua poesia”. In secondo luogo, fu una donna tesa alla ricerca della felicità, non solo per sé, come dimostrano le sue idee politiche, ma per tutti. Nel 1885 scrisse anche un dramma con Anna Leffler intitolato La lotta per
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la felicità, in cui realizza quella sintesi fra le multiformi istanze della sua mente e quelle del suo animo, fra l’ispirazione poetica e matematica. Il dramma, infatti, tratta dell’evoluzione del destino di due persone, sospeso tra il “come era” e il “come sarebbe potuto essere”. Perché è pur vero che il nostro destino è determinato, ma ci sono momenti in cui ci troviamo davanti a un bivio, dobbiamo scegliere e ogni decisione presa cambia tutto. Non è solo una questione autobiografica, ma anche, secondo qualche studioso, un’idea scientifica quella che sta alla base del dramma. Sofja, infatti, pare ispirarsi alla ricerca di Poincaré sulle equazioni differenziali: gli integrali di queste equazioni geometricamente rappresentano le curve continue, che si diramano solo in punti particolari, cioè quando si arriva al punto di biforcazione, dove tutto si fa indeterminato e imprevedibile. Questo suo intricarsi di passioni per la matematica, la felicità e la letteratura appare in modo quasi esemplare in una lettera scritta al cognato: Data una funzione (la felicità, nel nostro caso) che dipende da numerose variabili (come le nostre risorse economiche, la possibilità di vivere in bel posto e di frequentare amici piacevoli ecc.), come determinare le variabili in modo che la funzione raggiunga il suo massimo? Inutile dire che siamo incapaci di risolvere matematicamente questo problema.
Una sua parziale soluzione si trova forse nel motto che appose al suo articolo più famoso, quello con cui vinse il premio Bordin: “Say what you know, do what you must, come what may” (“Dì quello che sai, fa quello che devi, succeda quel che deve succedere”).
Grete Hermann “Ogni volta che pensiamo a lei ci sorridono gli occhi” dichiara una sua studentessa. Eppure, dalle fotografie appare il volto di una donna molto seria, che intimidisce un po’.
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In effetti, gli occhi sorridono. Gli occhi dei suoi allievi. La donna dal volto serio si chiama Grete Hermann. È nata in Germania, a Brema, il 2 marzo del 1901 ed è morta, sempre a Brema, nel 1984. Non è sempre vissuta in Germania, tuttavia, anzi è dovuta fuggire dalla sua patria durante il nazismo: è stata, infatti, una dei pochi tedeschi che hanno avuto il coraggio di opporsi alla dittatura, motivo per il quale è stata costretta all’esilio prima in Danimarca, poi in Francia e infine in Inghilterra. La politica è stata la sua vita. Ma anche l’educazione dei suoi studenti. Grete è stata amante del sapere in tutte le sue forme: è stata matematica e fisica, filosofa, pedagoga, insegnante, politica. Avanti coi tempi e misconosciuta, ha spesso agito nell’ombra, ma è rimasta nel cuore dei suoi studenti che tuttora, quando pensano a lei, sorridono con gli occhi, che è un riconoscimento bellissimo e duraturo. Grete, dunque, nasce in Germania e vive l’esperienza di due guerre, che la segnano profondamente. Studia a Gottinga matematica e anche filosofia, avvicinandosi in particolare alla corrente del neokantismo con Leonard Nelson, filosofo e pedagogo di cui fu assistente. Animata da idee socialiste, si occupa attivamente anche di formazione e di politica. Lavora soprattutto con la pedagoga e socialista Minna Specht, insieme a Leonard Nelson, e formano un movimento di opposizione al nazismo. Grete è una donna coraggiosa, ma le vicende politiche del suo paese la costringono a lasciare la Germania. Dopo qualche tempo passato in Danimarca, va prima in Francia e poi a Londra. Qui si sposa, nel 1938, per non avere problemi di cittadinanza, con Edward Henry: è un matrimonio di convenienza, perché dopo qualche tempo i tedeschi che vivono in Inghilterra vengono considerati ugualmente dei nemici e chiusi in campi di internamento. Grazie al matrimonio, Grete sfugge a questa sorte. Ma al termine della guerra, nel 1946, divorzia e torna in Germania. Negli anni dell’esilio non interrompe il suo lavoro scientifico e insieme alla Specht continua soprattutto il lavoro sull’educazione, fon-
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damentale, dopo un conflitto così devastante e un periodo appena trascorso come quello nazista, per creare una nuova coscienza davvero democratica. Dunque, tornata in Germania, lascia gli studi scientifici e si dedica totalmente alla realizzazione di un nuovo progetto pedagogico: una scuola che formi cittadini democratici e consapevoli. Fonda addirittura un sindacato che tuteli la cultura e la scienza e partecipa alla riedificazione del partito socialdemocratico della Germania dell’Ovest (quando ancora un muro, caduto nel 1989, divideva la Germania Ovest dalla Germania democratica dell’Est, sotto l’influenza russa). Lavora nell’ombra, ma è una delle ispiratrici del nuovo corso dell’SPD che non sarà più un partito marxista e rivoluzionario, ma riformatore. Si occupa anche di formazione degli insegnanti e dell’Alta scuola pedagogica. Inoltre, tiene corsi di filosofia all’università, dove lascia il segno. Una sua ex allieva, infatti, ricorda: “Grazie a lei abbiamo imparato a vivere di nuovo”. Dopo 12 anni di nazismo e una guerra mondiale, la Germania è una nazione sconfitta e distrutta. La Hermann è un esempio per i giovani, un esempio di democrazia e libertà. Ascolta e aiuta tutti, passa tutto il suo tempo con i suoi studenti, cercando di rispondere ai loro perché, alla domanda angosciosa sulle ragioni che avevano reso possibile la guerra e il nazismo. Quando, fra ben 300 iscritti, deve selezionare gli studenti per i suoi tre corsi, non guarda alla burocrazia, non cerca di stanare chi aveva avuto un passato nazista, ma sceglie le persone più diverse e affidabili con cui costruire un nuovo cittadino democratico. Le sue lezioni sono complesse e, se anche non tutti riescono a seguirle, è importante il processo socratico che lei mette in atto. Grazie a lei ognuno sperimenta se stesso e tutti hanno la possibilità di crescere e di uscire da quel mondo terribile in cui erano vissuti. Di sorridere ancora. Grete ha un’idea innovativa della formazione e rifiuta i dogmi politici: rispetto ai suoi tempi è avanti in ogni campo, anche nella matematica e nella fisica. Si laurea nel 1926 con Emmy Noether con la tesi
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The Question of Finitely Many Steps in Polynomial Ideal Theory, pubblicata sugli annali di matematica, che praticamente fonda l’algebra per i computer, in quanto propone algoritmi per la decomposizione primaria, che è una parte dell’algebra astratta. Grete è anche interessata, sia come fisica che come filosofa, ai fondamenti della scienza, in particolare della nuova fisica che si sta affermando allora, cioè la fisica dell’infinitamente piccolo, la fisica quantistica. La sua idea è quella di conciliare la concezione neokantiana della causalità con la nuova meccanica quantistica. Nel 1934 va a Lipsia, dove fa numerosi incontri e ha numerosi scambi di vedute con importanti esponenti di questa nuova idea della fisica: in particolare con Carl Friedrich von Weizsäcker, fisico, astrofisico e filosofo tedesco, e addirittura con Werner Heisenberg, premio Nobel della fisica cui si deve il principio di indeterminazione.
Figura 7.2 – Fotografia di grete Hermann all’università di Brema.
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Di lei e delle sue teorie, oltre ai tre articoli in cui si occupa soprattutto della distinzione fra prevedibilità e causalità, si trovano testimonianze in testi di Weizsächer e nel libro di Heisenberg La parte e il tutto. Pubblica la sua opera principale, I fondamenti della meccanica quantistica nella filosofia della natura, durante l’esilio in Danimarca. I suoi studi sulla meccanica quantistica sono senza dubbio interessanti, ma lo è soprattutto il fatto che il frutto del suo lavoro sia stato ignorato per più di trent’anni. L’approccio di Grete alla meccanica quantistica parte da un punto di vista filosofico, per prima cerca di dare una base filosofica a questo nuovo modo di vedere il mondo, sia pure il mondo infinitamente piccolo. Nella meccanica quantistica, infatti, vi sono alcuni elementi che contrastano con la logica cui la fisica classica (e la nostra esperienza di esseri che vivono nella mezza misura) ci ha abituati. Il principio di indeterminazione di Heisenberg, il principio di complementarità di Bohr, o l’impossibilità di osservare un fenomeno senza modificarlo, l’idea stessa di un qualcosa che è due cose, onda e insieme particella… tutto questo mette in crisi la nostra concezione della realtà, e quindi alcuni principi base come, per esempio, il rapporto causa-effetto. Proprio questo è il tema centrale nella riflessione di Grete: la causalità. Qualche studioso ha pensato che Grete contestasse, in nome della filosofia neokantiana, la fisica quantistica, ma lei, semplicemente, tentava di trovarne i fondamenti e di individuare elementi a noi comprensibili, senza i quali noi ci perderemmo. Ritiene che la fisica quantistica non vada contestata, anzi, che vi si debba cogliere la possibilità di vedere anche il principio di causalità in un’ottica diversa, più libera. La sua opera principale si conclude, infatti, con queste parole: La teoria della meccanica quantistica ci obbliga ad abbandonare il presupposto dell’assoluta conoscenza della natura e a gestire il principio di causalità indipendentemente da questo. Quindi la meccanica quantistica non ha per niente contraddetto la legge di causalità,
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ma l’ha chiarificata e ha permesso di sviluppare principi nuovi non necessariamente collegati.
In un altro passo la sua idea è ancora più evidente: Le difficoltà in cui si trovano i partigiani della causalità, date dalla scoperta della meccanica quantistica sembrano… non spuntare dal principio di causalità stesso. Preferiscono emergere dalla tacita assunzione a esso connessa che la cognizione fisica comprenda i fenomeni naturali adeguatamente e indipendentemente dalla connessione dell’osservatore. Questa assunzione è espressa dal prerequisito che ogni connessione causale tra processi tenga un’azione calcolabile data dalla causa, anche più, che la connessione causale è identica con la possibilità di tale calcolo.
E ancora: La meccanica quantistica ci obbliga a dissolvere questo misto di principi diversi di filosofia naturale, a lasciare l’assunzione del carattere assoluto della cognizione della natura e a usare il principio causale indipendentemente da quest’ultimo. In nessun caso ha provato come falsa la legge causale, ma ha chiarificato il suo status e l’ha liberata dagli altri principi con cui non deve necessariamente essere combinata.
Indubbiamente, l’impossibilità di predire una conseguenza misurabile e di vederne la causa, tipica della meccanica quantistica, dove l’idea stessa di misura ha un significato ben diverso dalla fisica classica, crea un problema o quantomeno delle domande. La soluzione, secondo Grete, potrebbe essere questa: poiché nella fisica quantistica, come s’è detto, non è possibile una misura certa degli eventi e soprattutto non è possibile predire un evento, allora bisogna partire dalla fine. La fisica quantistica si basa sull’esperienza, su un fatto che si osserva e non si
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può prevedere e quindi, da lì, si deve a ritroso arrivare alla catena di cause ed effetti che anche nella fisica quantistica esiste. In questa conciliazione di pensieri così diversi, ritroviamo la cifra della Hermann che l’ha contraddistinta anche nella sua visione politica. La sua indole non è rivoluzionaria, ma la porta a scoprire e a fare cose rivoluzionarie, suo malgrado. Il problema della non misurabilità dei fenomeni quantici aveva preoccupato anche Einstein che, per risolvere la questione, insieme a Podolsky e Rosen aveva ipotizzato il paradosso EPR (un esperimento mentale) secondo cui la fisica quantistica non è completa, e dunque ci sono delle variabili nascoste, che, se invece fossero comprese, farebbero perdere alla fisica quantistica il suo carattere di non misurabilità, non prevedibilità e (apparente) non causalità. Contro questa idea si era schierato Von Neumann nel 1932, provando che non era possibile ipotizzare una teoria delle variabili nascoste e così, in effetti, aveva rinforzato l’idea della non località della fisica quantistica. Nel 1935, la Hermann dimostra che il teorema di Von Neumann ha una falla nel ragionamento. Secondo lei, infatti, non esiste formalismo matematico in grado di supportare quella teoria e non si può negare una teoria solo perché non si hanno conoscenze adeguate a provarla. Insomma, la prova di Von Neumann è tautologica. Grete non pensa che la teoria della fisica quantistica sia incompleta, non vuole difendere le variabili nascoste, vuole semplicemente mostrare che è necessaria una teoria filosofica accanto a quella fisica per spiegare alcuni aspetti della fisica dei quanti. Secondo lei, ed è questa l’altra sua grande intuizione, la fisica quantistica è relazionale, cioè non è incompleta, ma ogni fenomeno è in relazione con gli altri. Il fisico Carlo Rovelli, in questi ultimi anni, sta sviluppando questa idea. Tra parentesi: il nostro cervello funziona proprio così. L’idea della fisica quantistica relazionale porta a eliminare concetti quali stato assoluto di un sistema e valore assoluto di quantità fisiche. La teoria relazionale descrive il modo in cui un sistema si rapporta ad
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altri nel corso di un’interazione fisica e così lo stato e le quantità fisiche si riferiscono sempre a un’interazione o relazione fra sistemi. Questa teoria venne formalizzata da Bohr, ma ben dopo l’intuizione della Hermann, mentre la sua critica al teorema di Von Neumann venne ignorata fino al 1966, quando il fisico Bell arrivò alla stessa conclusione di Grete e solo nel 1974 un altro fisico si rese conto che era stata lei la prima a trovare questo errore di logica. Perché, dunque, la Hermann è stata circondata da una sorta di indifferenza che ha precluso e rallentato il cammino scientifico? I motivi sembrano essere molteplici. Grete era una donna, giovane, dissidente politica, di idee socialiste. Non era una matematica pura, ma una filosofa. Non era influente né conosciuta, non aveva appoggi, non pubblicava su riviste importanti. Non era agguerrita, né interessata ad avere ragione. Von Neumann, invece, era famoso, importante, un genio. Infine, Heisenberg e Bohr avevano tutto l’interesse a che l’idea di Von Neumann restasse in auge, giacché confermava le loro teorie sull’indeterminatezza della fisica quantistica. Dunque, anche nella scienza le idee possono arenarsi. Qualcuno ha scritto che il caso di Grete dovrebbe essere monito per tutto il mondo scientifico. Quel che è certo è che Grete diede un contributo essenziale e che anticipò, e di molto, i tempi. Ma forse, per carattere, la ricerca scientifica non era il suo fine prioritario. La storia, la guerra e la costruzione di una nuova società le parvero più importanti.
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BEN OLTRE LA MATEMATICA, LE FILANTROPE “Non entri qui chi non è geometra” stava scritto sulla porta dell’Accademia di Platone. Non è che Platone ce l’avesse con architetti o ingegneri: geometra, in questo caso, è colui che si dedica alla misura, métron in greco, è uno che ha a che fare coi numeri. E il geometra, in questa accezione, è anche una delle ultime immagini che Dante evoca nella Divina Commedia quando è al cospetto di Dio. La matematica è astratta, talmente astratta da evocare quasi il divino. Le leggi matematiche che governano l’universo potrebbero essere il linguaggio di Dio. L’astrazione della matematica, però, non è il motivo che ha attratto le donne di questo capitolo. Esse si sono appassionate agli studi matematici per amore del sapere, ma soprattutto hanno amato Dio e Dio, guarda caso, ha chiesto loro di occuparsi degli ultimi, dei poveri, dei sofferenti. Così la matematica è servita a entrambe per fare il volere di Dio. A loro uno studente non avrebbe osato chiedere: “Ma a cosa serve la matematica?”.
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Le due donne “sante” del titolo sono la milanese Maria Gaetana Agnesi e l’inglese Florence Nightingale.
Maria Gaetana Agnesi L’uomo deve sempre operare per un fine, il cristiano per la gloria di Dio; finora spero che il mio studio sia stato di gloria a Dio, perché giovevole al prossimo, ed unito all’obbedienza essendo tale la volontà di mio padre: ora cessando questo, trovo mezzi e modi migliori per servire Dio e giovare al prossimo ed a questi devo e voglio applicarmi.
In questa frase c’è tutta la vita, la doppia vita, di Maria Gaetana Agnesi. Il grande ingegno e l’intensa spiritualità che la portano ad avere un obiettivo: la gloria di Dio, anche attraverso gli studi, a patto che giovino al prossimo. In queste righe si legge anche il suo carattere, l’obbedienza e la tenacia. Le sue passioni: gli studi, Dio e il prossimo. È una frase davvero centrale nella sua esistenza, perché sancisce il passaggio fra le sue due vite. Al confine sta la morte del padre Pietro, colui che, colpito dall’intelligenza della figlia, la fece studiare, con grande merito, ma che volle anche plasmarla, esibirne la meravigliosa intelligenza, condizionandola finché fu in vita. Lui, infatti, la voleva matematica ed erudita, lei avrebbe voluto essere povera e dedita alla cura degli altri. La svolta avviene nel 1752, quando il padre muore e lei ha ormai 34 anni. Maria Gaetana nasce a Milano il 16 maggio 1718. La famiglia paterna, originaria della Brianza, è una famiglia che si è arricchita grazie al commercio della seta. Pietro si è sposato tre volte e ha una bella messe di figli. Maria Gaetana, infatti, è la terzogenita di venti, tra fratelli e sorelle. Una di que-
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ste, Maria Teresa, sposata Pinottini, poco più giovane di lei, è una nota musicista e buona compositrice. Quella è infatti l’età di Mozart, tanto che Maria Teresa figura tra gli invitati a uno dei primi concerti del musicista, allora quattordicenne, a Milano.
Figura 8.1 – Ritratto di Maria gaetana agnesi.
Nonostante la marea di figli, Pietro riconosce l’intelligenza di Maria Gaetana che, già all’età di 9 anni, è in grado di tradurre in latino un breve testo, dettato dal suo istitutore, in cui chiede pari possibilità di studi per le figlie femmine e i figli maschi. Non a caso, per tutta la vita Maria Gaetana è una strenua sostenitrice dell’istruzione alle donne. Intanto, però, apprende tutto e dappertutto. Impara il francese dalle istitutrici e le lingue classiche ascoltando le lezioni impartite ai fratelli. Nel suo imparare, capisce di essere portata per la speculazione.
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Ma anche per le lingue, tanto da guadagnarsi il soprannome “oracolo sette lingue”, anche se in realtà ne conosce “solo” sei: italiano, latino, greco, ebraico, inglese, francese, tedesco. Le attribuiscono anche lo spagnolo e il 7 è certamente un numero più simbolico. Il padre è molto orgoglioso di lei e così incentiva e indirizza i suoi studi, spingendola a intraprendere gli studi scientifici, lasciando la filosofia. Le chiede anche di fare mostra delle sue conoscenze nel salotto di casa, il che lo aiutava molto nella sua affermazione sociale. Maria Gaetana, invece, non ama affatto la mondanità. A 21 anni chiede al padre, che ne ha un malore, di ritirarsi in convento. La reazione di Pietro la ferma e la fa desistere, dunque decide di obbedirgli, ma a tre condizioni: non avere l’obbligo di partecipare a eventi mondani, vestirsi in modo dimesso e umile, andare in chiesa quando voglia. Da quel momento in poi, la vita di Maria Gaetana si svolge fra gli studi e il salotto di casa. Nelle serate è modesta e seria, timida, non ostenta mai la sua cultura, ma quando arriva un ospite straniero gli si rivolge parlando la sua stessa lingua e, se non la conosce, in latino. Sa parlare e discutere di ogni argomento, filosofico, e scrive addirittura un volume di tesi filosofiche, ma in particolare scientifico. Possiamo immaginare queste serate: Maria Gaetana parla e discute dottamente e ogni tanto tutti si fermano ad ascoltare le musiche composte dalla sorella Maria Teresa. Maria Gaetana pare una donna perfetta. Da sposare. Ma qualcuno dice che è così brutta da sembrare un uomo! Un diplomatico e scrittore francese, l’elegante e mondano De Brosses, che l’ha incontrata, scrive invece che la fanciulla parla come un angelo e aggiunge che non era né bella né brutta: una persona normale. Particolare che si evince anche dai ritratti. Il fatto, risaputo e immutato nei secoli e di cui già s’è detto, è che verso le donne c’è un doppio pregiudizio: se troppo intelligenti, automaticamente si pensa che debbano essere anche mascoline e brutte, se troppo belle sembra impossibile che siano anche intelligenti o le si accusa di essere di costumi non troppo morigerati.
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A ogni modo, Maria Gaetana partecipa ai salotti per volere del padre, che non le ha permesso di entrare in convento, ma le ha concesso di andare in chiesa quando vuole, e di occuparsi delle opere di carità e anche dell’educazione dei fratelli. Tra un impegno e l’altro studia anche le matematiche che “ci conducono sicurissimamente a raggiungere la verità e a contemplarla, della qual cosa niente è più piacevole”. Nel 1740, a 22 anni, fa un incontro importante con padre Rampinelli, padre del monastero olivetano di San Vittore e matematico, esperto nelle recenti teorie sul calcolo che facevano capo a Newton e a Leibniz. Con lui Maria Gaetana studia tutto ciò che riguarda il calcolo analitico, traduce vari testi, risolve problemi, semplifica, eliminando il superfluo perché il suo scopo è fondamentalmente fornire uno strumento didattico, addirittura divulgativo, dell’analisi matematica. Nella prefazione al libro che raccoglierà il suo lavoro scrive, infatti: Non avvi alcuno il quale informato essendo delle Matematiche cose non sappia altresì quanto, in oggi spezialmente, sia necessario lo studio dell’analisi e quali progressi si sieno con questa fatti, si facciano tuttora, e possano sperarsi nell’avvenire; che però non voglio né debbo trattenermi qui in lodando questa scienza, che punto non ne abbisogna, e molto meno da me. Ma quanto è chiara la necessità di lei, onde la Gioventù ardentemente s’invogli di farne acquisto, grandi altrettanto sono le difficoltà che vi s’incontrano, sendo noto e fuor di dubbio che non ogni città, almeno nella nostra Italia, ha persone che sappiano o vogliano insegnarla e non tutti hanno il modo di andar fuori della Patria a cercarne i maestri.
Con questo spirito e quest’obiettivo, dopo lunghe notti di riflessioni e di scrittura, quasi inconsapevoli perché lei al mattino non ricordava nulla, compone le Istituzioni Analitiche ad uso della giovent• italiana, che vengono stampate nel 1748, sotto l’accurata e attenta supervisione di Maria Gaetana stessa. Il primo volume si occupa di algebra e geometria analitica, vi si studiano varie curve, tra cui la versiera cui è legato
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soprattutto il nome dell’Agnesi; il secondo volume, invece, si occupa di calcolo. Il trattato è dedicato a Maria Teresa d’Austria, l’imperatrice del regno austroungarico di cui Milano faceva parte. Poiché Maria Gaetana ha molto a cuore l’istruzione per le donne, scrive in proposito anche alla grande imperatrice illuminata, che le risponde complimentandosi per la sua opera, inviandole un magnifico diamante e confessandole, però, di non poter risolvere il problema dell’istruzione femminile, perché i tempi non sono ancora maturi. Il testo rende celebre Maria Gaetana, tanto da farle guadagnare un commento dell’Accademia delle Scienze di Parigi: Non si erano ancor vedute apparire in lingua alcuna delle istituzioni d’analisi che potessero condurre gli studiosi così presto e così lontano nella comprensione.
La sua fama si diffonde così tanto da farle ricevere il diploma di lettore di matematica dall’università di Bologna, un onore riservato, prima di lei, solo a un’altra donna al mondo: la fisica Laura Bassi. Una cattedra universitaria che certamente la lusinga, nonostante la sua vocazione la porti altrove. Oltre ai complimenti dell’imperatrice, riceve anche una lettera da papa Benedetto XIV, che, dimostrando saggezza e assenza di pregiudizi, le scrive: Son contentissimo di vedere che venga impiegato il bel sesso agli alti progressi delle scienze e de’ talenti. Vi esorto a formare delle compagne che vi somiglino; affinché resti ognuno persuaso che voi valete quanto noi, quando volete studiare. L’anima diventa frivola quando non pensa che a nastri e pennacchi; ma essa è sublime allorché sa meditare. Vi accerto che avrei gran piacere squadernando nelle librerie di trovare presso de’ nostri dottori delle donne stimabili, le quali avessero occultato il loro sapere colla
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modestia. In questo modo potrebbero le donne abitare nel palazzo de’ Papi.
Una donna nel palazzo dei papi! Un papa che preferisce donne pensanti a donne impegnate in nastri e pennacchi! Non è certo un fatto consueto. E pensare che per uno strano gioco del destino questa donna deve la sua fama matematica, oltre alle istituzioni, a una curva, la versiera di Agnesi, la aversiera, the witch, la strega… Ma come? Una donna tanto piena di virtù, di modestia e di carità verso il prossimo… definita una strega? Tutta colpa di un errore di traduzione. Maria Gaetana si è occupata a lungo di questa curva, citata da Fermat e poi studiata dal Grandi, il quale, in modo ben poco poetico l’aveva definita “curva con seno verso”. L’ha studiata a fondo e per la sua forma l’ha chiamata “versiera”, ma qualche studioso straniero ne aveva travisato il termine, sembrandogli più familiare forse dire “aversiera”, cioè avversaria, nemica, che era poi stato tradotto in inglese witch of Agnesi. La strega di Agnesi. E, quasi certamente, qualche anno dopo la gloria matematica, nella sua seconda vita, qualcuno avrà detto di Maria Gaetana “quella strega dell’Agnesi”, riferendosi alla sua esistenza da povera, alla sua ricerca di aiuti e denaro per i sofferenti. Alla morte del padre, infatti, Maria Gaetana fa della sua casa un ricovero per i bisognosi, vende tutto ciò che possiede, compreso il gioiello dell’imperatrice, e vive in povertà. Una povertà che suscita scandalo e molte domande persino nei suoi conoscenti, e che fa parlare molto le malelingue. Chi aveva ammirato la giovinetta modesta e colta ora volta le spalle alla nuova Maria Gaetana. Finché, nel 1771, Maria Gaetana trova la sua collocazione definitiva. In quell’anno, grazie a una donazione, nasce il Pio Albergo Trivulzio. Lì Maria Gaetana viene indirizzata dal cardinale di Milano col compito di “visitatrice e direttrice delle donne, specialmente inferme”. All’inizio
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lo frequenta saltuariamente, poi, nel 1783, il cardinale le dà la responsabilità e la grazia di dirigere il reparto femminile. Così la donna vi si trasferisce, pagando l’affitto, come teneva a precisare. Proprio per assolvere al meglio questo incarico, Maria Gaetana rispolvera le sue conoscenze matematiche. Numerose sono le domande che le scelte di Maria Gaetana suscitano ancora oggi. Due in particolare. La prima è se non sentisse la mancanza degli studi. In realtà, Maria Gaetana cerca la verità e, dopo aver indagato il mondo della matematica, si volge a studi ancor più alti: si dedica alla teologia e tiene lezioni e catechesi pubbliche, confermandosi pioniera nella storia dell’emancipazione femminile. L’altra domanda è più complessa e non ne conosciamo la risposta. Dunque, perché fra tutti i diseredati Maria Gaetana aveva scelto di dedicarsi proprio alle anziane dementi? Quasi anticipando Basaglia, e anche in questo caso andando controcorrente, le accoglie facendole vivere insieme alle altre. Ma perché proprio loro, anziane e dementi? Anni fa, in un mio testo teatrale proprio su Maria Gaetana, ho cercato di individuare una motivazione, che però è puro frutto di invenzione. Forse così avrebbe potuto rispondere, in punto di morte: In verità non ho mai saputo con certezza perché scegliessi proprio le dementi, la Gloria di Dio mi chiamava a loro e non ho mai indagato il perché. Io, che avevo indagato i misteri della scienza, non avevo avuto il tempo di indagare su di me. Però ora lo so e per questo so anche che è giunta la mia fine: sono pronta. […] C’è armonia in tutto questo: è per armonia che io, il genio matematico, sono stata scelta dalle dementi, dalle pazze. Le ho tolte dall’inferno dei manicomi, dalla solitudine della strada e hanno vissuto con me. C’è armonia ed equilibrio in questo. L’armonia dei numeri non è dissimile da questo miracoloso equilibrio della carità.
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Ho studiato le lingue, ma la lingua universale dell’amore non l’ho appresa dai libri. Ho studiato le scienze, le meraviglie dell’armonia del cosmo, i numeri, straordinari mattoni di questo edificio, ma ho imparato che l’armonia è possibile persino nella più reietta esistenza. Il genio e la follia si toccano, si contagiano: quel che ho dato ho ricevuto, tutto è compiuto, l’equilibrio ora è perfetto!”
Maria Gaetana muore il 9 gennaio 1799, a 81 anni, nel Pio Albergo Trivulzio a Milano, controcorrente in tutto, anche nella sua religiosità così fuori moda nel Settecento dei Lumi.
Florence Nightingale In un’enciclopedia di carta che avevo da bambina c’era un capitolo dedicato a Florence, l’infermiera instancabile, la dama della lampada. Nel mio immaginario era una donna anziana, dimessa e umile, col volto parzialmente illuminato da una candela, nella notte, fra i malati. Solo ora ho scoperto che anche Florence, che pure in vita ha goduto di fama e onori, in qualche modo è stata un po’ tradita dalla storia. Di lei, che ha scelto una strada molto diversa da quella tracciata per le giovani inglesi benestanti dell’età vittoriana, si è evidenziato, invece, proprio il lato più tipicamente femminile: la cura instancabile. Certamente Florence aveva come suo obiettivo nella vita quello di curare i malati, ma fu anche appassionata di matematica e soprattutto di statistica: già a 9 anni organizzava dati con tabelle numeriche che riguardavano frutti e verdure del giardino. Non fu “solo” un’infermiera particolarmente caritatevole e instancabile, ma praticamente fondò l’idea nuova del lavoro infermieristico, usò la statistica per dare indicazioni operative sulla gestione degli ospedali, indicazioni valide ancora oggi, e anticipò l’idea dell’assistenza domiciliare e degli ambulatori medici aperti soprattutto ai bisognosi e ai poveri.
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E tutto per gloria di Dio. Quando sentì per la prima volta la chiamata del divino, che le chiedeva appunto di occuparsi dei poveri e dei sofferenti, Florence aveva 16 anni. Fu dunque una donna dotata di amorevolezza, abnegazione, indubbiamente, ma anche di intelligenza, di spirito organizzativo e di capacità politica.
Figura 8.2 – Fotografia di Florence nightingale.
Florence deve il suo nome al fatto di essere nata a Firenze (ben peggio è andata alla sorella maggiore che, essendo nata a Napoli, è stata chiamata Parthenope). Il padre e la madre, ricchi rappresentanti dell’alta borghesia inglese, si erano potuti permettere una luna di miele in giro per l’Europa lunga due anni, nei quali erano nate le due sorelle.
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Florence, per la precisione, nasce il 12 maggio del 1820. In Inghilterra vive un’infanzia dorata, in diverse case, tutte grandi e confortevoli, e ricevendo un’educazione secondo i dettami dell’età vittoriana. Lei stessa scrive, quando ha appena 12 anni: Io ho un enorme desiderio di imparare, e per sette anni della mia vita ho pensato a poco tranne che a coltivare il mio intelletto.
Studia col padre che le fa conoscere Euclide, Aristotele, la Bibbia. Si appassiona agli studi e anche alle questioni politiche. All’età di 20 anni, quando dovrebbe cercare marito e comportarsi da signorina per bene, chiede ai suoi genitori di studiare matematica e non di occupare il tempo con un “worsted work and practising quadrillesÓ, cioè nel ricamo e nelle danze. È un mondo un po’ alla rovescia per noi, quello in cui un genitore si dispera perché la figlia vuole studiare, invece è stato così per molto tempo e in molti paesi lo è ancora oggi. La madre di Florence si dispera, dunque, dal momento che la matematica non serve per contrarre un buon matrimonio. Persino il padre, da cui lei ha ereditato l’amore per la matematica, pensa che dovrebbe studiare cose più adatte a una donna. Ma lei resiste e alla fine la famiglia cede, assegnandole dei maestri in casa con cui studiare matematica e soprattutto statistica, che è il suo interesse più grande. Conviene precisare che quella vittoriana è l’età della statistica: si fanno statistiche in campo politico, sociale, la statistica è anche strumento con cui chiedere delle riforme o attenzione dell’opinione pubblica su alcuni temi. La statistica diventa uno strumento anche di divulgazione delle notizie e di pressione politica. Florence studia la statistica e saprà usarla nel modo migliore. Studierà anche matematica, e giustifica così la sua predilezione: Non credo che riuscirei altrettanto bene in qualcosa che richieda rapidità rispetto a qualcosa che richieda solo lavoro.
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Della matematica coglie alcuni aspetti importanti di cui parlerà nelle lettere scritte nel 1846 al suo innamorato (deluso). Maggio 1846: C’è un carattere dolcissimo dato alla leggerezza del grande matematico di D’Alembert. Dice che il privilegio esclusivo della scienza esatta è godersi ogni giorno qualche nuova verità che arriva come ricompensa del proprio lavoro.
In una lettera di settembre mette in mostra anche un uso alternativo e certo più divertente della matematica. Dopo aver seguito un discorso politico, scrive: Ho inventato un nuovo sistema di logaritmi, [trovando le capacità dell’aritmetica non abbastanza ampie] per contare il numero di volte in cui “Maestà imperiale” è presente nel discorso.
Oltre alla matematica, dunque, conosce anche la geometria, l’algebra e le lingue. Come l’altra “santa”, l’Agnesi, sa il francese, il tedesco, l’italiano, il greco e il latino. Nel 1845, Florence fa un’altra richiesta che sconvolge la famiglia: chiede di andare a fare l’infermiera in un ospedale. È stanca di curare vicini e parenti, vuole fare un’esperienza fuori della sua cerchia. Peccato che all’epoca quel lavoro fosse visto in modo socialmente molto negativo. Le infermiere erano ritenute grossolane, rozze, dedite all’alcool e moralmente criticabili. Non era certo una professione adatta a una signorina della levatura di Florence. Ma Florence vince anche questa volta, vince anche perché ha un alleato potente, anzi onnipotente: Dio. La prima “chiamata”, nel 1837, avviene mentre passeggia nel giardino di casa e si sente pervasa di una sensazione cui ancora non sa dare un nome, ma che si rivelerà il suo compito: seguire Dio curando i malati e usando la statistica! Nel 1850 Florence fa esperienze di diversi ospedali durante un viaggio in Europa e in Egitto. Ad Alessandria d’Egitto e a Parigi conosce
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ospedali cattolici, in Germania fa esperienza di un ospedale protestante. Ovunque osserva e raccoglie dati. Nel 1853 torna in Inghilterra e, a titolo gratuito, accetta la posizione di sovrintendente presso l’Establishment for Gentlewomen during Illness, un istituto che si occupa di curare le dame cadute in povertà. Da lì poi passa a studiare ospedali più grandi e a farsi un’idea di come andrebbero modificate le cose. Grazie alla sua famiglia incontra scienziati, come Babbage, e personaggi politici, tra cui Sidney Herbert, segretario inglese alla guerra. Ma di quale guerra parliamo? La guerra che nel 1854 scoppiò tra Inghilterra, Francia e Turchia contro le mire espansionistiche della Russia, conosciuta come la Guerra di Crimea. Dal fronte, da uno dei primi reporter di guerra, un giornalista del Times, giungevano notizie terribili sulle condizioni degli ospedali militari inglesi (figuriamoci gli altri). Sidney Herbert decide allora di scrivere a Florence per chiederle di formare un gruppo di infermiere per l’ospedale militare al fronte. Nel frattempo Florence scrive alla figlia di Herbert, che era sua amica, per chiedere la stessa cosa. Col titolo ufficiale di Superintendent of the Female Nursing Establishment of the English General Hospitals in Turkey, il 4 novembre del 1854 arriva a Scutari, sobborgo di Istanbul, con 38 infermiere. Qui deve affrontare la diffidenza generale e l’ostilità dei medici e del resto del personale, ma non si dà per vinta. Proprio per la sua abnegazione, per la sua instancabilità senza ostentazione, per la sua tenerezza verso i malati, viene soprannominata la Dama della Lampada. Ma, come s’è detto, era molto di più. Si rende conto che negli ospedali militari i soldati muoiono non tanto e non solo per le ferite, ma molto di più per altre cause: sporcizia, mancanza di cibo adeguato, mancanza di acqua dolce pulita e di cure minime. Arriva a dire che hanno sette volte più probabilità di morire di malattia in ospedale che sul campo di battaglia. Comincia col mobilitare la politica in patria e le mogli dei soldati e, attraverso il Times, inizia una raccolta fondi per l’ospedale militare
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che frutta parecchi soldi. Usa anche i suoi fondi personali per comprare frutta, verdura e attrezzature ospedaliere standard. Pensa anche ai bisogni psicologici dei feriti: alle infermiere fa scrivere le lettere dei soldati e organizza attività ricreative ed educative.
Figura 8.3 – diagramma polare Coxcomb, creato da Florence nightingale.
Avvia un grande lavoro di raccolta e organizzazione dei documenti e dei dati, e grazie alla sua conoscenza matematica riesce a calcolare i tassi di mortalità negli ospedali da campo e a verificare come il tasso diminuisse col miglioramento delle condizioni dei feriti. Nel febbraio del 1855 la mortalità scende, infatti, dal 60 al 42,7% e diminuisce ancora nei mesi seguenti. Purtroppo non raccoglie solo dati, ma si prende anche un’infezione, probabilmente la brucellosi, che con alti e bassi la accompagna per
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tutta la vita, divenendo cronica, dolorosa e certo invalidante, ma non abbastanza da frenare il suo spirito! In base ai dati e alle sue conoscenze, la Nightingale riuscì a creare un Polar Area Diagram che, per la sua forma di berretto da giullare, lei battezza coxcombs. Il grafico mostra il tasso di mortalità durante la Guerra di Crimea tra il 1854 e il 1856. Il diagramma va letto dal centro, che è il punto comune. I confini blu esterni degli spicchi rappresentano i morti per malattie epidemiche che vengono dalle condizioni ambientali, i confini centrali rossi indicano i morti per le ferite. La linea nera in mezzo sono i morti per tutte le altre cause. Questo avviene soprattutto fra i fanti, la carne da macello, insomma. Si vedono qui i risultati del suo amore per la statistica, non fine a se stessa, ma intesa come strumento per i più sofferenti. Perché la statistica è la voce di Dio. The true foundation of theology is to ascertain the character of God. It is by the art of Statistics that law in the social sphere can be ascertained and codified, and certain aspects of the character of God thereby revealed. The study of statistics is thus a religious service.
Florence pensa che la statistica debba capire cosa vuole Dio e che, comprendendo e codificando anche le leggi della sfera sociale, possa aiutare a comprendere certi aspetti del volere di Dio. In sintesi: “Lo studio della statistica è un servizio religioso”. E ancora: L’universo – includendo le comunità umane – si sta evolvendo di comune accordo con un piano divino; questo è il lavoro dell’uomo: cercare di comprendere questo piano e guidare le proprie azioni all’unisono con esso. Ma per capire i pensieri di Dio, si deve studiare la statistica, perché questa è la misura del suo scopo. Quindi lo studio della statistica è un dovere religioso.
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E così Florence apre la via alle donne che si dedicano agli studi matematici e alla statistica, conferendo un’importante dignità spirituale nella religiosa società vittoriana. Nel 1856, quattro mesi dopo la fine della Guerra di Crimea, Florence torna in Inghilterra e fa stampare le sue statistiche, ma la sua fama, grazie anche alle lettere dei soldati dal fronte, la precede e così attrae l’attenzione della regina Vittoria, del principe Alberto e del primo ministro, Lord Palmerston. Grazie a questo interesse, nel 1857 si realizza uno dei suoi desideri, cioè che venga istituita una commissione di inchiesta sugli ospedali militari e che si realizzi la Reale Commissione sulla Salute dell’Esercito. Nel 1858, per il suo contributo alla statistica applicata all’Esercito e agli ospedali, la Nightingale è la prima donna eletta membro della Royal Statistic Society. Oltre a una riorganizzazione degli ospedali e dell’intero sistema sanitario inglese, il suo scopo è stato quello di riabilitare il lavoro dell’infermiera, sia dal punto di vista professionale che della considerazione sociale, rendendolo un lavoro rispettabile. In questo modo Florence compie anche un’opera di emancipazione per tutte le donne. Inoltre, usando ancora soldi suoi, istituisce una scuola per infermiere che è anche una casa dove esse studiano e vivono secondo regole ben precise. La sua idea del lavoro di infermiera è un modello ancora oggi. Certamente Florence rivendica dignità per le donne, perché ritiene che sia importante Portare il meglio che [ciascuno] ha, quello che è il lavoro di Dio… fare ciò che è buono, sia che sia adatto alle donne sia che non lo sia.
Scrive molti libri sui temi della salute e del lavoro delle infermiere, in particolare Notes on Nursing è stato stampato dal 1860 per moltissimi anni e in numerose lingue. La sua consulenza viene richiesta anche per ospedali militari negli Stati Uniti e in Canada. Diventa membro ono-
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rario della Società Statistica Americana ed è la prima donna a ottenere dalla Corona l’onore di essere membro dell’Ordine al Merito del Regno Unito nel 1907. Insomma, il suo lavoro viene riconosciuto mentre è ancora in vita, sia pure malata. Non si sposa mai e, contro il volere della madre, rifiuta addirittura la pluriennale corte di un lord che poi diventa comunque suo sostenitore. Afferma, infatti, che Dio le avrebbe detto di rimanere sola. Un bel modo per rifiutare le convenzioni e le costrizioni dell’epoca! Per una donna il matrimonio era un obbligo, a meno che Dio intervenisse! Il suo era un Dio particolare, lei si aspettava un Cristo femminile. Anche in questo fu un tipo innovativo. Florence muore il 13 agosto del 1910, a 90 anni. Per suo espresso desiderio la famiglia non accetta esequie pubbliche né la sepoltura nella cattedrale di Westminster e viene sepolta nella tomba di famiglia. Se abbiamo imparato a conoscere un po’ il suo carattere, possiamo certamente affermare che, statisticamente, le probabilità che Florence volesse un funerale in pompa magna erano davvero basse!
Capitolo 9
TIRIAMO LE SOMME
Aride cifre? Epoche Vissute nell’antichità: 1 (Ipazia). Nate nel 1600: 1 (Elena Cornaro). Nate nel 1700: 6 (Maria Gaetana Agnesi, Émilie du Châtelet, Sophie Germain, Caroline Herschel, Anne Isabella Milbanke, Mary Somerville). Nate nel 1800: 5 (Sofja Kovalevskaja, Ada Lovelace, Florence Nightingale, Emmy Noether, Mary Chisholm Young). Nate nel 1900: 5 (Grete Hermann, Olga Ladyzhenskaya, Hedy Lamarr, Julia Bowman Robinson, Simone Weil). Luoghi Germania/Austria: 5 (Grete Hermann, Caroline Herschel, Hedy Lamarr, Emmy Noether, Mary Chisholm Young). Inghilterra: 4 (Ada Lovelace, Anne Isabella Milbanke, Florence Nightingale, Mary Somerville). Francia: 3 (Émilie du Châtelet, Sophie Germain, Simone Weil). Russia: 2 (Sofja Kovalevskaja, che però lavorerà in Svezia, Olga Ladyzhenskaya). Italia: 2 (Maria Gaetana Agnesi, Elena Cornaro)
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Usa: 1 ( Julia Bowman Robinson), cui aggiungere 2 fuoriuscite a causa del nazismo (Hedy Lamarr, Emmy Noether). Grecia: 1 (Ipazia). Asia/Africa: ? (Le matematiche sono tutte bianche?) Stato civile Sposate: 10 (Émilie du Châtelet, Grete Hermann, Sofja Kovalevskaja, Olga Ladyzhenskaya, Hedy Lamarr, Ada Lovelace, Anne Isabella Milbanke, Julia Bowman Robinson, Mary Somerville, Mary Chisholm Young). Separate: 5 (Grete Hermann, Sofja Kovalevskaja, Olga Ladyzhenskaya, Hedy Lamarr, Anne Isabella Milbanke). Nubili: 8 (Elena Cornaro, Ipazia, Maria Gaetana Agnesi, Sophie Germain, Caroline Herschel, Emmy Noether, Florence Nightingale, Simone Weil). Madri: 7 (Émilie du Châtelet, Sofja Kovalevskaja, Hedy Lamarr, Ada Lovelace, Anne Isabella Milbanke, Mary Somerville, Mary Chisholm Young). NON ostacolate nel loro desiderio di studiare: 5 (Maria Gaetana Agnesi, Lucrezia Cornaro, Émilie du Châtelet, Ipazia, Simone Weil). Ambiti prevalenti delle ricerche Analisi: 5 (Maria Gaetana Agnesi, Émilie du Châtelet, Sofja Kovalevskaja, Olga Ladyzhenskaya, Mary Chisholm Young). Astronomia: 3 (Caroline Herschel, Ipazia, Mary Somerville). Algebra: 2 (Grete Hermann, Emmy Noether). Geometria: 1 (Simone Weil). Teoria dei numeri: 1 (Sophie Germain). Rapporto matematica/fisica: 1 (Emmy Noether). Logica: 1 ( Julia Robinson). Statistica: 1 (Florence Nightingale). Informatica: 1 (Ada Lovelace). Altro: 2 (Lucrezia Cornaro, Hedy Lamarr).
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Tirare le somme Il primo particolare che salta all’occhio è la provenienza. Le matematiche sono tutte europee, a eccezione di una, nata e vissuta negli Stati Uniti. Sono tutte bianche, nate e vissute nel mondo occidentale: vengono tutte da una minoranza, insomma. E le altre? La maggior parte della popolazione del pianeta quale tipologia di matematiche e in quale numero ha prodotto? Forse il mio è un punto di vista particolare, settoriale. Occidentale, appunto. Ho spulciato nell’elenco delle donne citato nel sito dell’Agnes Scott College che dà ampio spazio alle biografie delle matematiche. La prima studiosa extraeuropea e non statunitense è cinese, Hu Hesheng, nata nel 1928. Nel 1935 si trova la prima indiana, anche se nata a Manchester: Bhama Srinivasan è il suo nome. La prima sudamericana è l’argentina, di origini italiane, Cora Ratto, coniugata Sadosky, nata nel 1912; fu, oltre che matematica, attivista politica a favore dei diritti umani e oppositrice del nazismo e del fascismo. La prima matematica nata in India, nel 1948, è Raman Palimana. Grace Alele Williams, nigeriana, nata nel 1932, è invece la prima africana a comparire nelle biografie. Proprio la Nigeria, dove imperversa Boko Haram! Avendo avuto ruoli ufficiali nell’ambito dell’educazione scientifica africana e soprattutto avendo lavorato per l’istruzione alle donne, la Williams, in un’intervista del 2004, afferma che uno dei giorni più tristi della sua vita è stato quando, nel 1978, in Nigeria è stato eliminato dalle scuole lo studio della matematica. La prima donna araba è Maryam Mirzakhani, nata in Iran nel 1976, ed è anche la prima donna in assoluto ad aver ricevuto la prestigiosa medaglia Field, il corrispettivo del Nobel per i matematici. Anche lei, però, vive e lavora negli USA. In realtà, negli Stati Uniti non è tutto rose e fiori per le donne. È vero che hanno ospitato alcune delle matematiche citate, fuggite dal nazismo: Hedy Lamarr, Emmy Noether, Simone Weil, ma, se si sono dimostrati accoglienti con queste donne bianche, la vita delle studiose di matematica di colore non è stata certo facile, anzi.
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Figura 9.1 – Fotografia di Maryam Mirzakhani.
La prima donna di colore che si è laureata in matematica negli Stati Uniti è Euphemia Haynes, nata nel 1890. Be’… in realtà si è laureata nel 1943, durante la Seconda guerra mondiale. Nel 2017 esce un film che tratta di un fatto eccezionale: tre donne nere che coi loro calcoli contribuirono alla missione spaziale del 1962 in cui John Glenn fu il primo statunitense a essere mandato nello spazio e a entrare in orbita attorno alla Terra. Il film si intitola, in modo neanche tanto metaforico, Hidden figures cioè “figure nascoste”, ma il titolo italiano sarà Il diritto di contare. La storia di queste donne matematiche, dunque, fino alle soglie del 1900 è, per ora, la storia di donne bianche e occidentali. Segue, cioè, l’andamento della conquista lenta e difficile di un posto nel mondo alla pari con gli uomini. Perché, anche senza voler fare un discorso forzatamente femminista, dalle biografie saltano agli occhi tutte le difficoltà che le donne hanno dovuto affrontare per affermarsi, pur essendo delle privilegiate per situazione familiare ed estrazione sociale. Prendiamo l’istruzione: molte di loro sono autodidatte, hanno dovuto studiare matematica di nascosto dalla famiglia, a lume di candela. Molte lo hanno fatto fino a un certo punto e poi, per continuare, hanno
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dovuto trasferirsi in un altro paese. Per molto tempo sono stati riconosciuti loro uno stipendio e una posizione inferiori rispetto ai colleghi maschi, che talvolta erano anche loro mariti. Spesso queste donne hanno lavorato gratis. In sostanza, una differenza di trattamento e considerazione, un partire da posizioni più sfavorevoli, c’è stato eccome. La donna, si pensava, ha una costituzione troppo debole per fare ragionamenti troppo complessi.
Figura 9.2 – locandina del film Hidden figures.
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La donna deve essere madre e anche madri, infatti, sono state queste donne, ma molto meno nell’età contemporanea, quando non c’erano nutrici che badassero ai figli. Dieci su diciotto si sono anche sposate, ma due con matematici e due hanno contratto matrimoni obbligati, l’una per poter studiare, l’altra per sfuggire alle persecuzioni della guerra. E ben 5 si sono separate. Esistono anche donne che si sono dedicate alla ricerca matematica e contemporaneamente hanno accudito i figli. Ognuna di loro ha anche preso posizione nel suo tempo in politica, nella società, molte si sono spese per dare alle altre donne l’emancipazione che viene dallo studio e dall’istruzione. Pare che le donne, insomma, riescano davvero a fare di tutto. A confermare l’idea che matematica e poesia abbiano molto in comune, sta il fatto che spesso queste donne si sono dedicate anche a scrivere opere poetiche e letterarie. Curioso è che ben due abbiano scritto sulla ricerca della felicità. Altre sono state sul crinale fra matematica e filosofia. In alcune di queste lo studio matematico è stato un cammino verso la ricerca della verità: Ipazia, Simone Weil e le filantrope Agnesi e Nightingale. Alcune delle loro scoperte dimostrano anche che il luogo comune secondo cui la donna non riesce ad astrarre come l’uomo o a generalizzare… è davvero solo un luogo comune. Ma, dunque, esiste o non esiste un tocco di femminilità? Su diciotto, cinque si sono occupate di analisi. Forse il tocco sta in questo. Se continuassi su questa strada, avrebbero però facile gioco coloro che prendono in giro le donne, dato che a occuparsi di logica fu solo una fra tutte quelle citate. In realtà, non è importante che questo tocco esista, perché è comunque un dato certo che ci siano delle costanti nella loro vita e persino nel loro lavoro: l’esigenza di tradurre, che non è mai solo traslare, ma di tradurre completando, arricchendo e rendendo più chiaro a tutti le scoperte matematiche. Un’esigenza di divulgazione, insomma. Cui segue una
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potente vena pedagogica: quasi tutte sono state insegnanti e soprattutto hanno sostenuto l’educazione femminile al pari di quella maschile. Femminile, poi, è sicuramente la tendenza a fare rete, a creare comunità, a non voler per forza arrivare primi, il mirare, più che al riconoscimento, al raggiungimento di un risultato. Questo è un pregio tipicamente femminile, che può essere presente ovviamente anche negli uomini. Queste donne spesso sono visionarie, aspetto che deve essere tipico delle grandi anime. La Robinson immagina un mondo dei matematici che superi ogni differenza di sesso, età, razza, religione… Ada Lovelace spera che la macchina computazionale cambi il mondo in senso più ampio, e aveva ragione. In effetti, forse è lei la più visionaria di tutte. Ma il dato più importante è che nessuna di loro ha abdicato, come purtroppo avviene in molti altri campi, alla propria femminilità. Lo dice bene Florence Nightingale: nessuna donna deve cercare di imitare un uomo. Ognuno deve essere quello che è. Al suo meglio.
La prima medaglia Field al femminile La storia tutta contemporanea di Maryam Mirzakhani in realtà è perfetta per chiudere il libro e aprirci al mondo. La vicenda di Maryam contiene e riassume in sé quasi tutte le caratteristiche che hanno caratterizzato i personaggi del libro. Nata nel 1977 a Teheran, studentessa modello, lettrice di romanzi e amante della letteratura, solo alla fine del liceo capisce che vuol fare la matematica. Ad avvicinarla alla matematica è il fratello maggiore, ma tutta la famiglia la incoraggia e la segue. Per fortuna finisce le elementari alla conclusione della guerra fra Iran e Iraq, che lei ricorda come un periodo angoscioso, e per questo può studiare alle superiori, fare l’università e ottenere da subito riconoscimenti importanti (nel 1994 e nel 1995 vince le olimpiadi internazionali di matematica). Infine, può spiccare il volo verso gli Stati Uniti, dove tuttora vive e dove insegna all’università di Stanford.
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I suoi campi di ricerca sono la geometria iperbolica e simplettica e la teoria ergodica (che sta a cavallo fra matematica e fisica), sono settori della geometria e della matematica più astratte. Dunque Maryam è una vera figlia di papà, ma anche una sorellina, però non tenuta all’ombra dei fratelli, anzi, aiutata e incoraggiata. Vive in un mondo che ancora purtroppo discrimina le donne, però grazie alla sua curiosità, alla tenacia, all’intelligenza e anche alla famiglia, Maryam Mirzakhani riesce a superare gli stereotipi e la cultura maschilista del suo paese e diventa matematica. Ma ci sono altri aspetti che la accomunano ad altre scienziate: spesso ciò che avvicina alla matematica è un aneddoto, un fatto curioso, una storia matematica. La fanciulla Sophie Germain fu colpita dal racconto della morte di Archimede, Sofja Kovalevskaja aveva uno zio che le parlava di matematica, Mary Somerville fu attratta dalla matematica presente nella prospettiva pittorica, quando era bambina. Fu il fratello maggiore a raccontare a Myriam la prima storia matematica che la colpì, cioè come Gauss risolse velocemente il problema della somma dei primi 100 numeri naturali. Ci vuole immaginazione a fare matematica. E infatti anche lei, come forse ogni matematico geniale, e come molte delle donne del libro, ha in sé doti di immaginazione, tanto che appunto avrebbe pensato di diventare scrittrice piuttosto che matematica. In fondo non ha mai smesso di dedicarsi alla letteratura: lei stessa in alcune interviste dice che la ricerca matematica è come scrivere un romanzo in cui ci sono vari personaggi che bisogna arrivare a conoscere meglio e nell’evolversi della storia si scopre che i personaggi sono totalmente diversi dalla prima impressione. Solo che i personaggi di Maryam sono figure geometriche. Nelle sue interviste si sente anche il gusto della scoperta, quel momento unico e magico in cui si palesa la soluzione o una delle soluzioni a un problema. Maryam afferma che talvolta si sente quasi perduta in un bosco e poi in qualche modo arriva come in cima a una collina e da lì tutto è più chiaro. E quello è un momento di felicità.
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Insomma, la storia di questa prima donna e prima iraniana a ricevere la prestigiosa medaglia Fields ci dice che molte cose restano immutate, ma la sua vittoria ci porta verso il futuro. Un futuro dove conta la persona di qualsiasi sesso, paese, età, religione sia. Come sarebbe piaciuto a Julia Robinson. Myriam appena saputo di aver vinto il premio ha scritto sul sito della facoltà dove insegna: “Sarei felice se desse coraggio alle giovani scienziate e alle matematiche. Sono sicura che ci saranno altre donne che vinceranno questo tipo di premi nei prossimi anni.”
Postfazione
C’È UNA MATEMATICA FEMMINILE? CIOÈ DIFFERENTE E COMPLEMENTARE A QUELLA MASCHILE? SE C’È, QUALI CARATTERISTICHE HA?
Per conoscere il parere di alcune grandi matematiche italiane di oggi, ho rivolto loro questa domanda. Maria Grazia Speranza, docente presso la facoltà di Economia e management dell’università di Brescia La matematica è una disciplina astratta e la forza della matematica è di sviluppare metodi e risultati che prescindono dall’area di applicazione e che possono pertanto essere utilizzati in molteplici contesti applicativi. Chi in ambito accademico si occupa di matematica lavora peraltro talvolta sui metodi astratti – si parla quindi di matematica pura – e a volte sull’applicazione di tali metodi – qui si parla di matematica applicata. Personalmente, io mi sono innamorata della matematica proprio perché astratta e perfetta. Con il tempo ho sentito però il bisogno di usarla per contesti applicativi. Uomini e donne hanno le stesse doti, sul piano puramente tecnico, sia nel campo della matematica pura sia di quella
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postFazione
applicata. Senza generalizzare troppo – attitudine che porta sempre a individuare controesempi – le donne peraltro tendono a voler portare un contributo utile alla disciplina o alle sue applicazioni, tendono a valorizzare le persone, l’insieme, il gruppo. Gli uomini viceversa tendono a essere mossi dalla curiosità e dalla prospettiva di raggiungere obiettivi, compreso quello di ottenere visibilità e fama. Questi diversi atteggiamenti si riflettono nei temi di ricerca scelti, nel modo in cui vengono sviluppati i progetti, nei risultati che si ottengono. Quello che certamente cambia, sia nella matematica pura sia in quella applicata, è la capacità di rendere noti i risultati ottenuti e di far sì che vengano citati e utilizzati perché per far questo è necessario farsi conoscere, visitare altre università, presentare i risultati ai convegni, avere rapporti con imprese e istituzioni. Le donne, spesso vincolate dai figli e da incombenze familiari e organizzative e inoltre in difficoltà a interagire con un mondo a prevalenza maschile, diventano meno note, e con loro i loro risultati, degli uomini. La matematica femminile c’è ma è difficile da vedere. Maria Rosa Menzio, laureata in Scienze matematiche, Direttrice artistica della rassegna teatrale “Teatro e scienza” di Torino Per alcuni uomini la matematica è una disciplina scientifica, di grande astrazione, a cui le donne non sono abituate né culturalmente né tanto meno geneticamente. I Premi Nobel e le medaglie Fields sono stati vinti soprattutto da maschi. Certo, tutto vero. Odifreddi dice che le donne sono in genere più brave degli uomini in matematica ma hanno meno “vette” di pensiero, così come hanno meno autismo e schizofrenia. Il che fa pensare che la matematica sia materia da pazzi. Io penso invece due cose. Prima di tutto, la società maschilista ha permesso a pochissime donne di studiare matematica, quindi di eccellere, per non parlare poi di essere pagate.
C’è una MateMatiCa FeMMinile?
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Ritengo che la matematica abbia a che fare di più con la filosofia che con la scienza intesa alla Popper. Non esiste teorema che abbia bisogno di conferme o smentite da parte di esperimenti, non c’è l’esperimento cruciale che brucia una teoria. In realtà credo che la matematica sia una materia umanistica, che parla del nostro cervello, del nostro modo di ragionare, di essere persone pensanti con una certa logica. E dico UNA certa logica perché ce ne sono molte. In conclusione, credo non vi siano modi maschili o femminili di rapportarsi alla matematica: c’è solamente una società che deve dare spazio, e soprattutto possibilità di pensiero condiviso, all’altra metà del cielo. In Occidente si fa un gran parlare dei concetti triti e ritriti “donne sensibili, uomini razionali” pare che invece in Oriente sia il contrario. Con buona pace della psicologia. Susanna Terracini, professoressa di Analisi matematica presso il dipartimento di Matematica “Giuseppe Peano”, università di Torino È una domanda molto difficile, perché la matematica non è una questione di opinioni ma un corpo di metodologie, relazioni logiche e concetti che soddisfano un criterio di generalità e universalità. Non credo quindi che si possa parlare di una matematica femminile complementare a quella maschile in senso strettamente disciplinare. Se invece parliamo delle modalità o dello stile di conduzione della ricerca matematica o del funzionamento dei gruppi di ricerca, allora, a mio avviso, si possono riconoscere comportamenti diversi, anche, ma non solo, collegabili al sesso dei ricercatori; questi comportamenti possono influenzare indirettamente la direzione delle ricerche.
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