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Italian Pages 320 Year 2020
L’enigma dell’umano. Per una soluzione biologica Paul Alsberg
Anthropos
Collana diretta da Carmine Di Martino
Comitato scientifico: Étienne Bimbenet, Petar Bojanić, Eugenio Mazzarella, Dominique Pradelle, Caterina Resta, Giusi Strummiello, Davide Tarizzo.
Anthropos | 2
Paul Alsberg
L’enigma dell’umano Per una soluzione biologica a cura di Elena Nardelli
Titolo originale: Das Menschheitsrätsel. Versuch einer biologischen Lösung. Neue, völlig umgearbeitete Ausgabe, Sensen-Verlag, Wien-Leipzig 1937.
© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Anthropos ISSN: 2533-0985 n. 2 - marzo 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-78-0 ISBN – Ebook: 978-88-5529-037-1
Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: secret code dancing men © arbalest – stock.adobe.com
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Paul Alsberg o l’altra faccia dell’antropologia filosofica Saggio introduttivo di Elena Nardelli
«Molte sono le meraviglie [Wunder], ma nulla è più portentoso dell’essere umano». Questa versione stupefatta dell’incipit del primo stasimo dell’Antigone incarna appieno lo spirito che anima il lavoro di Paul Alsberg, il quale a esso affidava appunto l’esergo della prima edizione della sua opera. È possibile in questo caso riferirsi all’opera, utilizzando il singolare senza il rischio di un fraintendimento, perché con un’eccezionale disponibilità a rivedere ostinatamente il proprio lavoro Alsberg tornò a più riprese su di esso proponendone, a distanza di parecchi anni l’una dall’altra, altre due edizioni decisamente rinnovate, ma che restano versioni di un unico progetto, unitario e costante nella struttura. L’edizione qui proposta è quella intermedia, pubblicata nel 1937, che sembra la più felice non tanto in termini di ricezione, quanto per l’equilibrio raggiunto tra la formulazione concentrata della proposta teorica e la vivacità polemica con cui si inserisce in modo originale nel dibattito del tempo1.
1. Cfr. P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel. Versuch einer prinzipiellen Lö sung, Sibyllen-Verlag, Dresden 1922 e Id., Das Menschheitsrätsel. Versuch einer biologischen Lösung, Sensen-Verlag, Wien 1937; fu lo stesso Alsberg
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Il senso di proporre per la prima volta al pubblico italiano il lavoro di Alsberg è innanzitutto quello di pensare sino in fondo e con un nuovo sguardo i suoi nuclei teorici, in primis la differenza tra viventi umani e non umani e il rapporto dell’umano con la tecnica. Si tratta di questioni riemerse prepotentemente nel dibattito filosofico attuale che, per praticità, può essere indicato come il dibattito attorno al «postumano», i cui perni teorici sembrano tutto sommato affondare in tempi – secondo una scala umana del tempo – non troppo recenti. Il volume va inoltre a nutrire quell’ambito di studi, caratterizzato da un atteggiamento di reciproca assimilazione produttiva tra scienza e filosofia, che prende il nome di antropologia filosofica e può giocare, anche oggi, un ruolo decisivo nell’istanza di ripensamento dei rapporti reciproci tra queste due discipline. Da un punto di vista storico-filosofico, questa pubblicazione è final-
a riscrivere il testo in inglese proponendo una terza versione del suo lavoro in Id., In Quest of Man. A Biological Approach to the Problem of Man’s Place in Nature, Pergamon, London 1970. Nel riscoprire il lavoro di Alsberg, Claessens ha dato alle stampe una nuova edizione dell’Enigma dell’umano nella quale il testo viene ripresentato al pubblico con un titolo redazionale, snellito attraverso numerosi tagli concentrati nelle sezioni di ricapitolazione, munito di un apparato di note teso a mettere in dialogo il testo con gli avanzamenti scientifici del tempo e ulteriormente personalizzato dal curatore con l’evidenziazione di alcuni specifici passaggi: Id., Der Aus bruch aus dem Gefängnis – zu den Entstehungsbedingungen des Menschen, a cura di D. Claessens, con una prefazione di D. Claessens e i commenti di H. e I. Rötting, Focus-Verlag, Gießen 1975. Quest’edizione è stata poi ristampata pochi anni più tardi da Edition Schlot curiosamente con il titolo della prima edizione dell’opera, quella del 1922, che constava all’incirca del doppio delle pagine. Di questa edizione è in circolazione una versione digitalizzata dalla piattaforma «vordenker» nel 2010. Oltre che dell’Enigma dell’umano, Paul Alsberg (1883-1965) è autore dei seguenti saggi: Homun kulus in Goethes «Faust» (1918), Pithecanthropus erectus – Homo Trinilis (1925), Die Abstammungsfrage des Menschen (1928), Zur Phänomenologie der Vernunft (1929), Zur Grundbestimmung der Vernunft (1931), Vom be liebten Redner und guten Journalisten (1983).
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mente l’occasione per liberare il pensiero di Alsberg da una serie di fraintendimenti e di misconoscimenti che hanno caratterizzato la (non) ricezione dell’opera in un contesto storico ben più che problematico e che ha visto il suo autore costretto all’emigrazione per via della sua origine ebraica. La speranza è dunque quella di poter donare all’opera una nuova vita, più fortunata della prima. Da qui, e a fortiori, la scelta di non tradurre la prima edizione, quella del 1922, la sola a essere stata recepita per circa cinquant’anni e rimasta tuttavia intrappolata tanto in un intrico di vicende storiche e personali, quanto nella sua dimensione mastodontica, trattandosi di un testo di oltre cinquecento pagine, spesso ripetitivo e tracimante, al limite del caotico, tanta è l’abbondanza di informazioni e riferimenti. La terza edizione dell’opera, che il suo autore preparò per il pubblico inglese negli anni Sessanta traducendola e snellendola ulteriormente, sembra poi ormai troppo lontana dalla sua storia «continentale» e frutto di un esercizio di semplificazione da parte di Alsberg che non rende giustizia alla sua stessa creatività terminologico-concettuale. 1. Sembra oggi piuttosto lontano dalla nostra sensibilità quel gusto per l’enigma, per quei Rätsel che nel mondo tedesco, quantomeno a partire dalla conferenza di Emil Du Bois-Reymond (Die sieben Welträtsel, 1880), avevano sfidato le intelligenze dei naturalisti di allora2. Ed è probabilmente una certa sfrontatezza ciò che permette a Alsberg, medico di formazione
2. Cfr. E. Du Bois-Reymond, I sette enigmi del mondo [1880], in Id., I con fini della conoscenza della natura, a cura di V. Cappelletti, Milano, Feltrinelli 1973, pp. 49-80. Il principale riferimento di Alsberg è certamente E. Haeckel, I problemi dell’universo. Con una introduzione sulla filosofia monistica in Italia e aggiunte del prof. E. Morselli [1899], tr. it. di A. Herlitzka, UTET, Torino 1904. Se il confronto con Haeckel è alquanto serrato, Alsberg si riferisce indirettamente a Du Bois-Reymond solamente nel passaggio conclusivo
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e di professione, di prendere posizione nel dibattito sull’evoluzionismo per proporne un’originale eresia, costellata da alcune inedite tesi e argomentata con rigore e ostinazione. Del darwinismo, o di quella teoria che egli concepisce come tale, ciò che Alsberg in prima battuta contesta – insieme al concetto di lotta per l’esistenza e all’idea che sia un elemento riconducibile alla sfera del caso a muovere il processo evolutivo – è il «dogma» dell’animalità dell’essere umano. Il quale si fonderebbe su di un parallelismo illecito, su una sineddoche fallace che estenderebbe surrettiziamente la differenza di grado che intercorre tra gli organi o tra le funzioni vitali dell’animale e dell’essere umano alla differenza essenziale. La differenza tra queste due sfere del vivente sarebbe dunque abissale. L’atteggiamento di Alsberg è tutt’altro che provocatorio. Egli tenta invece di conciliare tanto il darwinismo con il senso comune – «i fatti della scienza con i dettami della coscienza», espliciterà nella prefazione all’edizione inglese – quanto le opposte teorie e posizioni scientifiche, continuismo e discontinuismo, meccanicismo e vitalismo su tutte, ricucendole in un quadro unitario dal risultato piuttosto coerente. Con una prosa scientifica caratterizzata da uno stile eccezionalmente narrativo, vicino alla lingua orale, ironicamente polemico o caricaturale, talvolta epico sino a lambire il patetico, Alsberg non si sottrae dall’affermare veri e propri «principi» dalle formulazioni icastiche e perentorie. La peculiarità di questi principi, che dona loro una straordinaria potenza speculativa esponendoli al contempo a un facile fraintendimento, è in primo luogo la loro intima dinamicità. Si tratta infatti di principi ad alta ricorsività, lontani dalla struttura della legge e più vicini a quella del meccanismo, attraversati da una spinta trasformativa. In secondo luogo, si tratta di principi reattivi, del capitolo 16, nel quale vengono rifiutati i limiti che questi aveva tracciato per le possibilità di indagine della ricerca scientifica.
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che rispondono al darsi di precise circostanze e interagiscono con un contesto costruito su occasioni e contingenze, con l’ambiente e le necessità del momento. In questo senso la loro secondarietà reagente, alla quale pertiene più la struttura della risposta che quella dell’affermazione, sembra spingere verso il paradosso la nozione stessa di principio. Il primo principio, quello che racchiude la sua intuizione più brillante e con il quale l’intera proposta di Alsberg viene spesso identificata, è un principio che va ad affiancare, o meglio, a specificare la modalità con cui l’essere umano fa proprio il principio darwiniano dell’adattamento: «Il principio evolutivo dell’ani male è il principio dell’“adattamento del corpo”; il principio evolutivo dell’essere umano è quello della “disattivazione del corpo attraverso strumenti artificiali”» (infra, p. 83). Se l’ani male si adatta all’ambiente trasformando il suo corpo, l’essere umano si adatta all’ambiente acquisendo strumenti artificiali. Il corpo viene liberato da questa funzione e gli organi precedentemente cruciali per l’adattamento tendono ad atrofizzarsi. In quanto principio evolutivo, che tenta dunque necessariamente di cogliere una processualità presupposta, una delle maggiori difficoltà che la nozione di disattivazione incontra è la chiarificazione del suo avvio. Lo sforzo di fornire questa spiegazione sposta la questione verso il problema dell’ominazione. Di fronte a essa Alsberg non si sottrae e introduce una duplice arma concettuale: una congettura di ispirazione haeckeliana, il metapiteco come antenato comune alla scimmia e all’essere umano, e un’altra coppia di principi, quello della fuga e quello del combattimento. La genesi dell’umano viene situata nello specifico passaggio dall’uno all’altro. Questo passaggio non riguarda esclusivamente l’essere umano, mentre lo è il come, perché è il passaggio al combattimento o, più precisamente, alla difesa attiva – un altro concetto reattivo più che affermativo – tramite strumenti a essere peculiarità dell’umano. L’istante del suo generarsi è quello in cui il metapiteco getta
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una pietra, uno strumento estraneo al corpo, invece di darsi alla fuga come era accaduto sino a quel momento. A partire da quel gesto e in maniera irreversibile, quell’essere non sarà più lo stesso, sarà umano, non più metapiteco. Sebbene Alsberg individui e analizzi diverse condizioni indispensabili perché il processo di ominazione abbia luogo, lo esclude dal raggio d’azione del principio di causa ed effetto e sembra invece affidarlo alla potenza creatrice di una sostanza vivente di ispirazione bergsoniana. A ben vedere, il passaggio dal principio della fuga a quello del combattimento è imperniato proprio sul principio della disattivazione. La grande forza e al contempo il grande limite del lavoro di Alsberg, il quale si avvita spesso in asserzioni semi-tautologiche, è proprio l’aver fatto coincidere definizione ontologica e definizione genetica dell’umano. E proprio su questa monofattorialità del lavoro di un pensatore che, come ricordato, dedicò tutte le sue energie alla rielaborazione di una sola opera, ridimensionandola sempre più quasi a distillarne l’essenza, ha insistito Hans Blumenberg3. All’interno di questa unitarietà del discorso di Alsberg, l’articolazione delle coppie concettuali che entrano di volta in volta in gioco è piuttosto fine. Cade la semplice contrapposizione tra natura e cultura: quest’ultima viene intesa come lo stadio avanzato di un processo di trasformazione dell’umano per mezzo della tecnica, dove essere tecnico è il principio naturale dell’essere umano. Per questo, esplicita Alsberg, non ha senso pensare a una gigantomachia tra essere umano e tecnica, o tra l’essere umano e quelle macchine che si sostituiscono sempre più a esso nei diversi ambiti della sua attività, perché questa sostituzione rientra nel naturale corso dell’evoluzione. Il dualismo tra corpo e spirito viene poi affrontato prendendo le di-
3. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006, p. 583.
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stanze tanto dall’indirizzo «antropista» che da quello «zoista»: Alsberg rifiuta di individuare nella ragione (o nello spirito) ciò che rende propriamente umano l’umano, né situa in essa l’origine della tecnica o del linguaggio, e indirizza l’indagine verso il corpo per leggerci il luogo decisivo e primario dell’attività autopoietica dell’umano4. Al contempo però il corpo è inteso da Alsberg come una prigione, la chiusura in una costrizione dalla quale l’essere umano si libera progressivamente attraverso la propria attività tecnica. L’umano sembra dunque, non senza una certa impudenza teorica di Alsberg, produrre da sé la propria genesi e la propria liberazione. Non soltanto Alsberg relega nella sua antropologia la ragione e lo spirito a una fase tarda dell’evoluzione umana, ma mette completamente da parte il versante dell’intenzionalità e del progetto, per illuminarne la contropartita, ossia gli effetti di ritorno, preterintenzionali, delle attività umane, extra-organiche per natura5. Se il ventaglio degli effetti va oltre quello primario dell’adattamento per raggiungere risultati decisamente inattesi, Alsberg può mettere in conto tra questi il dominio umano sulle altre specie e sul pianeta: «Così nella natura l’essere umano non sta accanto all’animale in maniera omogenea, ma il suo divenire diventa a poco a poco fatale per ogni altra evoluzione. Si può tranquillamente sostenere che tra non molto l’essere umano 4. Questi elementi di critica allo spiritualismo hanno permesso di intravedere nel lavoro di Alsberg il potenziale per una proficua integrazione della sua teoria nella riflessione antropologia di stampo materialistico, come quella di Lukács. Questa l’ipotesi di Harich, riportata in K.-S. Rehberg, Affermare le istituzioni, in «Discipline Filosofiche», vol. XII, n. 1, 2002, L’uomo, un pro getto incompiuto, vol. I, Significato e attualità dell’antropologia filosofica, a cura di A. Gualandi, pp. 218-219. 5. Per una riflessione sull’antropogenesi preterintenzionale per via tecnica dell’umano che valorizza l’apporto teorico di Alsberg cfr. C. Di Martino, Viventi umani e non umani. Tecnica, linguaggio, memoria, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, pp. 100-105.
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avrà mutato la terra intera nel suo giardino, nel suo allevamento, nel suo laboratorio chimico-fisico» (infra, p. 285). La radicalità con la quale Alsberg pensa il principio essenziale dell’umano come disattivazione del corpo per via extraorganica è supportata da un’originale disamina della nozione di strumento, dalla cui plasticità dipende il raggio d’azione del principio. In questo senso sembra che Alsberg arrivi a pensare lo strumento, in modo parzialmente controintuitivo e immanente al suo pensiero, come tutto ciò che disattiva il corpo, liberandolo così dall’onere dell’adattamento. Lo strumento non è un mezzo per raggiungere un fine prefissato attraverso una procedura, non è espressione dell’inventiva di fronte a un caso di problem-solving, ma è tutto ciò che l’essere umano frappone tra la pressione dell’adattamento e il proprio corpo. Questo viene sollevato dal compito di una reazione diretta alle sollecitazioni esterne e, al contempo, viene plasmato dallo strumento (regressione) e su di esso (progressione). Non si dà umano senza tecnica come, secondo questa riformulazione che lega tecnica e sopravvivenza, non si dà tecnica senza umano. Con la liberazione del corpo dall’onere dell’adattamento e la sua graduale trasformazione in una direzione imprevedibile si apre lo spazio per nuove prestazioni precedentemente impensabili, dischiudendo all’essere umano la possibilità di «prestazioni illimitate», dove però questa apertura va sempre immaginata in senso non progettuale. Se si dovesse dunque localizzare tra le varie parti del corpo il punto in cui s’insedia l’umanità dell’essere umano, secondo Alsberg non si dovrebbe cercare nel piede, responsabile della statura eretta, o nel cervello, eventualmente sede del l’intelligenza o della ragione. Parecchi decenni prima di Leroi- Gourhan egli assegna invece, non senza una certa riluttanza che va letta a favore di un tentativo di considerare il corpo sempre in maniera complessiva, questo privilegio alla mano: «Se vogliamo poi proprio rendere responsabile un organo su
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tutti per l’insorgere dell’umano, allora dobbiamo concedere questo prestigio alla mano. È questa che conduce gli strumenti e rende così in primis possibile adottare il principio dell’umano» (infra, p. 224). Il principio della disattivazione del corpo lo plasma in un equilibro, sempre da rinegoziare, tra regressione e progressione, tra atrofizzazione di alcuni organi e funzioni, come la dentatura o la brachiazione, e il potenziamento di altri. La mano e, parzialmente, il cervello sembrerebbero i due soli organi a essere – per ora – rimasti indenni e non aver subito gli effetti della disattivazione, costituendo dunque in un certo senso gli elementi residuali del processo. A partire dalla proposta teorica di Alsberg, la cui eccezionale vivacità risiede proprio, come si è visto, nel non definire l’umano in senso positivo ma attraverso progressive cessazioni, la questione è se ci siano dei confini alla disattivazione. Ossia se nel processo in cui la componente organica dell’umano diviene progressivamente parassitaria demandando le operazioni necessarie per il proprio sostentamento a quella inorganica, si diano delle attività fisiche non disattivabili perché senza di esse non sarebbe più possibile dire l’umano propriamente tale. Di questa criticità, dispiegata dalla paradossalità interna a una definizione essenziale per via negativa dell’umano, non sembra esserci coscienza da parte di Alsberg. Non è neppure il linguaggio ciò che rende propriamente umano l’umano. Sebbene, secondo Alsberg, questo sia una sua prerogativa, non è altro che uno tra i tanti strumenti tecnici, dai quali non differisce se non per la sua immaterialità. L’intuizione di Alsberg, nella quale si riconoscerà ormai la struttura argomentativa che gli è propria, è quella di pensare tanto il linguaggio attuale nella sua dimensione evolutiva, dunque come il risultato di un’evoluzione interna a esso, quanto l’insorgenza del linguaggio come il risultato del processo di ominazione già precedentemente avviato, senza di esso. Quando comincia a parlare l’essere umano è già umano. E anche qui, ciò che egli
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indaga non è tanto il movente che ha portato l’essere umano ad approdare al linguistico, ma sono gli effetti di ritorno di questa acquisizione. In quanto strumento il linguaggio non è un mezzo utilizzato dall’essere umano per raggiungere un fine che questi si è preposto, ma una delle modalità della disattivazione del corpo. Ma quali funzioni vengono disattivate dal linguaggio? A essere disattivati sono gli organi di senso poiché la parola si pone al posto della percezione diretta delle cose sostituendo con una via artificiale, mediata, quella naturale all’esperienza, immediata. La prestazione della parola, ossia l’evocazione in assenza, non precede la sua formazione e la sua pratica, in altri termini, il significato non precede il significante ed è anzi sulla materialità della parola che Alsberg insiste maggiormente, prendendo come paradigmatica per ogni esperienza linguistica quella della lettura della parola scritta6. A partire da un uso ripetuto della parola concreta, che prende il posto del singolo oggetto, progressivamente si sviluppa il pensiero astratto, il quale con la produzione dei concetti avrebbe lo straordinario potere di collegare e ordinare con una certa omogeneità la complessità altrimenti puntiforme dell’esperienza particolare. E ancora, sui concetti può essere praticato un processo di astrazione che dà vita a ulteriori concetti, più elevati e astratti, e così via. Si va formando la ragione, la facoltà dei concetti, la quale non precede affatto l’uso di strumenti materiali o immateriali, ma 6. La posizione di Derrida si avvicina su questo punto a quella di Alsberg, dove però l’originalità di quest’ultima continua a risiedere nell’inversione causale tra ciò che è condizione per la significazione e ciò che da essa risulta. L’assenza è per Alsberg il risultato e non la condizione della significazione. «L’assenza dell’intuizione – e quindi del soggetto dell’intuizione – non soltanto è tollerata dal discorso, è richiesta dalla struttura della significazione in generale, per poco che la si consideri in se stessa. Essa è radicalmente richiesta […]. Anzi questa possibilità fa nascere il voler-dire come tale, lo dona all’ascolto e alla lettura» (J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introdu zione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl [1967], a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1968, pp. 133-134).
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è invece il risultato del ripetuto utilizzo di particolari strumenti extra-organici, quelli linguistici. Come gli strumenti, la maggior parte delle parole ci giungono già pronte, quasi preconfezionate, perché la capacità di crearne di nuove secondo Alsberg è riservata a pochissime persone, e la maggioranza di noi fruisce soltanto. È in questi paragrafi che si apre uno spiraglio per una breve trattazione dell’intersoggettività, grazie alla quale è possibile immaginare l’occasione in cui si genera la parola che seguendo il suo sviluppo diviene il patrimonio di una comunità, tramandato e ampliato con il susseguirsi delle generazioni. Nell’esiguità di questa trattazione, ossia nella mancata tematizzazione degli effetti del principio della disattivazione del corpo sulle dinamiche sociali e sull’ambiente circostante, è da localizzare una delle principali lacune della teoria di Alsberg, in questo senso integrata da coloro che ne hanno in seguito rivalutato la proposta, in primo luogo da Claessens. Non pochi problemi solleva poi la teleologia di fondo del suo pensiero. L’evoluzione ha una precisa destinazione, la quale non sembra affatto essere lontana, anzi, Alsberg suggerisce di pensare quel meraviglioso movimento naturale che è il processo evolutivo come un processo entrato nella sua ultima fase e in procinto di acquietarsi. L’ottimismo di Alsberg – il quale è tutt’altro che un esplicito critico della civilizzazione ma assume invece un atteggiamento di moderato scetticismo nei confronti dei suoi eccessi – oscilla tra la constatazione della conclusione del processo evolutivo («qui il tipo “umano” è compiuto» [infra, p. 281]) e uno slancio di speranza nei confronti di un futuro che promette in senso destinale all’essere umano una perfezione sempre maggiore. Ciò va di fatto oltre il suo orizzonte teorico, un oltre dal quale però Alsberg è profondamente attratto. La questione particolarmente delicata è se una volta che questa perfezione venisse raggiunta, come sembra essere il caso dell’animale – «gli animali sono sempre perfetti, sono sempre tutto ciò che potrebbero essere; sono un’esaustiva espressione della
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loro possibilità» (infra, p. 283), cita Alsberg da Keyserling –, continuerebbe a rimanere aperta per l’essere umano la dimensione della possibilità, se l’essere umano continuerebbe dunque a non essere tutto ciò che può essere. O se invece, come lascia intendere la definizione nietzschiana dell’essere umano in quanto «animale non ancora stabilmente determinato»7, sia possibile ipotizzare per l’umano di raggiungere una determinazione stabile, quella della sua destinazione, secondo il duplice significato del termine Bestimmung, la quale non risulti a sua volta in contraddizione con la dinamicità del suo principio della disattivazione. In ogni caso, secondo Alsberg, ciò non sarebbe temporalmente equidistante per tutti gli esseri umani, ci sarebbero infatti «razze inferiori», «razze “selvagge”», presso le quali non si sarebbero ancora sviluppati i concetti astratti e che vivrebbero in un differente – evolutivamente precedente – equilibrio tra vigore fisico e disattivazione del corpo. Con questa e con altre inaccettabili implicazioni del pensiero di Alsberg, per il quale ad esempio la differenza di essenza tra umano e animale sembra indirettamente presupporre anche un giudizio assiologico di principio, dovrà fare i conti il lettore di oggi. Perché per Alsberg al grado di sviluppo tecnico non può che corrispondere il grado di sviluppo tout court, per il quale egli non riesce a ipotizzare che un’unica direzione e determinazione (Bestimmung). 2. Da un punto di vista storico-filosofico, cogliere la portata del lavoro di Alsberg significa retrodatare la nascita di quell’indirizzo di pensiero che prende il nome di «antropologia filosofi7. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male [1886], tr. it. di F. Masini, in Id., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 ss., vol. VI, tomo II, p. 68.
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ca» dalla pubblicazione della Posizione dell’uomo nel cosmo di Scheler (1928), convenzionalmente intesa come suo momento inaugurale, alla prima edizione dell’Enigma dell’umano (1922). Lo stesso Scheler doveva aver incrociato il lavoro di Alsberg come testimoniato dalla breve sinossi che ne propone affiancandolo a Budda, Schopenhauer e Freud come esponente della «teoria negativa». Al di là della plausibilità o meno della categorizzazione, è probabilmente questo il momento in cui ha origine il primo e decisivo fraintendimento del nucleo teorico del pensiero di Alsberg. Questi viene infatti presentato come il pensatore dei meccanismi attraverso i quali l’essere umano compensa, o sovracompensa, la sua costitutiva inferiorità organica. Questo il passaggio cruciale del riferimento di Scheler: come causa del sorgere di questo «principio dell’umano», di questa tendenza della vita a disattivare i suoi organi [Organe auszuschalten] e a porre al posto delle funzioni vitali degli organi «strumenti» e «segni» e, dunque, anche come causa della crescente «cerebralizzazione» dell’essere umano in senso morfologico e fisiologico, Alsberg vede la particolare carenza degli organi dell’essere umano nell’adattamento al suo ambiente.8
La rapidità e la superficialità con le quali Scheler si sofferma su Alsberg fanno insorgere una spiacevole ambiguità. Lo 8. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo [1928], tr. it. di R. Padellaro, a cura di M.T. Pansera, Armando Editore, Roma 1997, p. 162. Qui la traduzione è mia. Secondo Scheler, Alsberg avrebbe concepito, in quanto allievo di Schopenhauer, l’essere umano come un «Neinsager», come colui che dice no, dove appunto a essere negata sembrerebbe essere la volontà di vivere. Per la lettura, sostanzialmente univoca, che Scheler propone di Alsberg cfr. anche M. Scheler, Zur Geschichte und Typologie der mensch lichen Selbstgegebenheit, in Id., Schriften aus dem Nachlass, Gesammelte Werke, vol. III: Philosophische Anthropologie, a cura di M.S. Frings, Bouvier Verlag Herbert Grundmann, Bonn 1987, pp. 27-79, in particolare p. 75, e Id., Uomo e storia [1926], in Id., Formare l’Uomo. Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica, a cura di G. Mancuso, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 91-120.
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snodo è il seguente: se per un lettore del saggio scheleriano Alsberg sembra aver individuato la causa della disattivazione degli organi nella costitutiva carenza organica dell’essere umano, nell’Enigma dell’umano, come si è visto e come il lettore avrà modo di verificare, Alsberg sottolinea più volte che la debolezza fisica dell’essere umano è il risultato di una crescente interazione con l’oggetto tecnico, il quale disattiva il corpo, sostituendosi a esso nel compito dell’adattamento. Nell’edizione del 1937 Alsberg è molto chiaro su questo punto, così come lo era stato nella prima edizione dell’opera con la quale poteva essersi confrontato Scheler: «È stato dunque lo strumento artificiale a provocare il deperimento del corpo e non l’inverso, come oggi si crede interpretando la produzione dello strumento come conseguenza della regressione del corpo»9. Se inoltre è corretto rilevare che Alsberg ha tra i suoi riferimenti Schopenhauer, è anche vero che il confronto è di tipo puntuale sulla questione della ragione, in quanto «facoltà dei concetti», nella sua distinzione dall’intelletto e ben poco ha a che vedere con l’impianto filosofico di Schopenhauer, ancor meno con una «“negazione della volontà di vivere”» come semplifica invece Scheler10. Data la posta in gioco teorica, sostanzialmente fraintesa ma pur sempre evidenziata da Scheler, sembra piuttosto strano non trovare alcun riferimento a Alsberg nell’Uomo (1940) di Gehlen. Il parallelismo tra il principio della disattivazione del corpo di Alsberg e il modello dell’esonero di Gehlen è stato tracciato da Plessner nella seconda prefazione (1965) a I 9. P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel. Versuch einer prinzipiellen Lösung, Sibyllen-Verlag, Dresden 1922, p. 102; cfr. infra, p. 80, nota 2. 10. Alla trattazione della ragione in Schopenhauer Alsberg aveva dedicato anche un saggio critico pubblicato separatamente. Cfr. P. Alsberg, Zur Grund bestimmung der Vernunft, in «Jahrbuch der Schopenhauer-Gesellschaft», vol. 18, 1931, pp. 179-201.
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gradi dell’organico e l’uomo ed esplicitamente riconosciuto da Rehberg, allievo di Gehlen e curatore delle sue opere11. Wolfgang Harich ci ha visto un evidente caso di plagio, come dichiara nella sua autobiografia: Arnold Gehlen ha sottratto il nucleo razionale della sua opera principale a un ebreo perseguitato, Paul Alsberg. Paul Alsberg, L’enigma dell’umano, 1922. Alsberg è stato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, è stato liberato dagli americani con l’aiuto di sua moglie, è poi emigrato in Inghilterra e Gehlen, supponendo che il Reich millenario sarebbe durato mille anni, lo ha plagiato senza vergogna. Lo ho capito solamente nel 1986.12
11. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo [1940], tr. it. di C. Mainoldi, a cura di V. Rasini, Mimesis, Milano-Udine 2010. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo [1965], tr. it. di U. Fadini, E. Lombardi Vallauri e V. Rasini, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 17. Nelle lezioni del 1961 Plessner ripropone il fraintendimento scheleriano annoverando Alsberg tra gli esponenti della teoria della carenza, cfr. H. Plessner, Philosophische Anthropologie. Göttinger Vorlesung vom Sommersemester 1961, a cura di J. Gruevska, H.-U. Lessing e K. Liggieri, Suhrkamp, Berlin 2019, pp. 118-119. In uno scritto del 1967 Plessner mette poi in una relazione di dipendenza il principio della disattivazione del corpo con l’accentuata cerebralizzazione dell’essere umano, cfr. H. Plessner, L’uomo come essere vivente [1967], tr. it. di V. Rasini, in «B@belonline. Rivista di filosofia», n. 5, 2008. Cfr. inoltre H. Plessner, Tier und Mensch, in Id., Politik – Anthropologie – Philo sophie. Aufsätze und Vorträge, Fink, München 2001, p. 166. L’osservazione di Rehberg si trova nelle annotazioni al saggio A. Gehlen, Philosophische Anthropologie [1971], in Id., Arnold Gehlen Gesamtausgabe, vol. IV: Philo sophische Anthropologie und Handlungslehre, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1983, p. 465, nota n. 241.2; il saggio è stato tradotto in italiano da S. Cremaschi con il titolo Antropologia filosofica, in A. Gehlen, Prospettive antropologiche, a cura di V. Rasini, il Mulino, Bologna 2005, pp. 199-204. 12. W. Harich, Ahnenpass. Versuch einer Autobiographie, a cura di Th. Grimm, Schwarzkopf & Schwarzkopf, Berlin 1999, p. 374, traduzione mia. Cfr. anche la «dichiarazione» rilasciata da Harich a Rehberg nel 1989 con il permesso di pubblicarla, riportata in K.-S. Rehberg, Affermare le istituzioni, cit., pp. 218-219.
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Se la posizione di Gehlen assomiglia a quella che Scheler aveva attribuito ad Alsberg, fraintendendolo, il confronto diretto con il lavoro di Alsberg mostra le profonde differenze. Se questi spiega l’atrofizzazione del corpo come il risultato del processo della sua disattivazione, Gehlen ritiene una contraddizione biologica considerare gli organi non specializzati dell’essere umano attuale, l’idea cardine della sua deficienza organica, come il risultato di un’involuzione di organi specializzati. Di fatto, Gehlen cita Alsberg soltanto di sfuggita negli scritti sulla tecnica, avvicinandolo alle posizioni di Ortega y Gasset e di Sombart, e in un saggio tardo nel corso del quale ricostruisce le tappe percorse dall’antropologia filosofica. Qui Alsberg viene definito «un geniale outsider» e gli viene tributato un breve paragrafo nel quale sembra echeggiare la sinossi di Scheler13. E il fraintendimento prosegue per la medesima rotta: anche se Alsberg viene valorizzato per aver pensato a fondo l’intimo rapporto dell’essere umano con la tecnica, gli viene attribuita la tesi che questa sia un bisogno, una necessità dell’essere umano per via della sua costitutiva carenza organica. La posizione di Alsberg è invece più radicale, l’essere umano è essenzialmente tecnico e dunque l’utilizzo dello strumento non è affatto un mezzo, secondario, di compensazione rispetto a una condizione naturale pre-tecnica. Se per Gehlen la non specificità dell’organismo umano è il punto di partenza di tutto ciò che è umano, per Alsberg è eventualmente il punto conclusivo, il risultato di un lungo processo. L’impressione complessiva dunque è che se Gehlen si confrontò direttamente, tacendo 13. Gli echi, in un certo senso letterali, sono relativi al lessico utilizzato dai due autori che insistono entrambi sulla «disattivazione degli organi [Organen ausschaltung]», mentre in Alsberg l’espressione è «disattivazione del corpo [Körperausschaltung]». Cfr. A. Gehlen, Antropologia filosofica, cit. Cfr. anche Id., L’uomo nell’era della tecnica [1957], a cura di M.T. Pansera, Armando Editore, Roma 2003 e Id., La tecnica vista dall’antropologia, in Id., Prospet tive antropologiche, cit., pp. 135-148.
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per lungo tempo questo confronto, con il lavoro pioneristico di Alsberg, lo fece senza comprenderlo a fondo e proseguendo la linea del fraintendimento avviata da Scheler14. Occorre dunque attendere un ricambio generazionale perché il pensiero di Alsberg venga finalmente preso seriamente e liberato dalla comprensione superficiale nella quale era rimasto avviluppato per via della prima ricezione. Il merito della sua riscoperta va a Dieter Claessens che adotta il «teorema alsberghiano» come pilastro della sua riforma dell’antropologia filosofica, integrando la mancata tematizzazione da parte di Alsberg della dimensione sociale dell’umano e dell’ominazione con il «teorema milleriano» dell’insulazione contro la pressione selettiva15. Claessens propone nel 1975 una riedizione dell’Enigma dell’umano e il suo interesse più speculativo che storico-filosofico per l’opera è testimoniato tanto dalla scelta dell’edizione del 1937 ulteriormente snellita dal curatore, quanto dal nuovo titolo redazionale L’evasione dalla prigione – sulle condizioni dell’insorgere dell’umano. Un’attenta e puntuale lettura del lavoro di Alsberg, inserita all’interno della teoria dell’actio per distans, viene inoltre proposta da Hans Blumenberg nei suoi inediti sull’antropologia fenomenologica. Se l’essere umano si è originato in un lancio, nel 14. Per una precisa disamina dei punti di distanza e di maggior vicinanza tra il pensiero di Gehlen e Alsberg, specialmente sulla questione del linguaggio, cfr. M. Marino, Da Gehlen a Herder. Origine del linguaggio e ricezione di Herder nel pensiero antropologico tedesco, il Mulino, Bologna 2008, in particolare pp. 130-186. 15. Cfr. D. Claessens, Instinkt Psyche Geltung. Bestimmungsfaktoren mensch lichen Verhaltens, Westdeutscher Verlag, Köln-Opladen 1968, e D. Claessens, Das Konkrete und das Abstrakte. Soziologische Skizzen zur Anthropologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, in particolare pp. 62-66. A Claessens è stato recentemente dedicato il dossier La “seconda nascita”. Natura, società e storia nell’antropologia di Dieter Claessens, a cura di A. Borsari e M. Marino, in «Iride», vol. XXXI, n. 83, gennaio-aprile 2018, pp. 89-147.
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lancio di quella pietra che segna il passaggio dalla fuga alla difesa attiva e dunque dall’animale all’umano, l’aspetto di maggiore criticità della teoria di Alsberg risiederebbe per Blumenberg nel conciliare la subitaneità del mutamento del principio e la gradualità della trasformazione fisica, inizialmente non osservabile, che fa della genesi dell’umano una «criptogenesi»16. A profittare dell’operazione di Claessens è certamente Sloterdijk e lo stesso concetto di «omeotecnica» deve molto al principio alsberghiano della disattivazione, seppur non sembra cogliere sino in fondo la radicalità con la quale Alsberg pensa la coessenza dell’umano con ciò che è tecnico. Nel discorso di Sloterdijk la proposta di Alsberg sembra poi ormai indistricabile tanto dall’abbinamento proposto da Claessnes con il meccanismo milleriano dell’insulazione, quanto dallo schema sul quale ha insistito Blumenberg della presa di distanza tipicamente umana dall’immediatezza dell’esperienza. La scena dell’ominazione proposta da Alsberg viene fagocitata dalla macchina narrativo-argomentativa di Sloterdijk che la ripresenta plasticamente gettando su di essa delle suggestive proiezioni: lo sguardo che segue la pietra nel lancio di difesa sarebbe la prima forma di teoria, mentre la sensazione di aver centrato il bersaglio sarebbe la prima forma di una funzione di verità di una frase, la quale non potrà che mimare sempre la struttura del lancio17.
16. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 570-622. 17. Nel saggio La domesticazione dell’essere, Sloterdijk punta l’attenzione su Alsberg in quanto esponente trascurato dell’antropologia empirica e prosegue l’operazione iniziata da Claessens di affiancare il «teorema alsberghiano» e il «teorema milleriano», aggiungendo agli elementi che portano alla produzione dell’umano i «meccanismi» della pedomorfosi, della neotenia (Kollmann) e quello della trasposizione (McLuhan). Cfr. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger [2001], a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 113-184. In Sfere III, Sloterdijk
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Affondando nella suggestione di Sloterdijk, il lavoro di Alsberg può effettivamente fornire una buona base d’appoggio per pensare l’attività filosofica come attività essenzialmente tecnica, animata dunque da un intimo movimento di disattivazione dagli effetti trasformativi e preterintenzionali, attraversata dalla struttura reattiva della risposta. Se dunque sfogliando un trattato scientifico del primo Novecento si ha spesso l’impressione di avere tra le mani un fossile millenario e ciò non accade con il lavoro di Alsberg, non è tanto perché le posizioni e le ipotesi che egli assume o discute non siano state superate o confutate dalla scienza, talvolta con delle modalità di verifica che egli non poteva neppure intravedere malgrado l’acuta capacità di prognosi che spesso dimostra. Ma è perché nell’equilibro alchemico raggiunto tra l’eterogeneità dei discorsi provenienti da medicina, biologia, zoologia, primatologia, geologia, paleoantropologia e filosofia c’è un eccezionale pensiero dell’umano18. Dove quella meraviglia (Wunder) incoativa che proprio negli stessi anni prendeva il bivio tradut-
insiste maggiormente sul principio della distanza e sul ruolo svolto dalla mano (svolta «chirotopica»), facendone il criterio per spiegare l’evoluzione a discapito di quello della stazione eretta. Cfr. P. Sloterdijk, Sfere III [2004], a cura di G. Bonaiuti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, pp. 346-347. In conclusione alla sua ricostruzione dei tratti più originali del pensiero di Alsberg Cusinato avanza l’ipotesi che il principio della disattivazione sia invece adatto a descrivere non tanto l’essere umano in generale, ma solo l’homo faber della modernità. Cfr. G. Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, FrancoAngeli, Milano 2008, pp. 143-147. 18. È curioso che Alsberg abbia composto un contributo che potrebbe essere classificabile come uno scritto di teoria della letteratura e, anche in esso, non abbia in fondo smesso di occuparsi della questione dell’umano, del suo generarsi e della continuità tra naturale e artificiale. Cfr. P. Alsberg, Homunkulus in Goethes «Faust», in «Jahrbuch der Goethe-Gesellschaft», vol. 5, 1918, pp. 108-134. La tesi in esso sostenuta è che l’homunculus non sia altri che il Doppelgänger di Faust.
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tivo dell’inquietudine (Unheimlich) condivide con essa l’inesauribilità e la vertigine che l’umano non cessa di suscitare19.
19. Il riferimento è alla traduzione del primo stasimo dell’Antigone proposta da Heidegger nel corso del 1935, per la quale si rimanda a M. Heidegger, Introduzione alla metafisica [1953], tr. it. di G. Masi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1968, pp. 154 ss.
L’enigma dell’umano Per una soluzione biologica
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Prefazione dell’autore alla seconda edizione
La prima volta che ho esposto pubblicamente le idee di fondo di questo libro è stato nel 1922, in un intervento all’assemblea dei naturalisti tedeschi di Lipsia che avevo intitolato Sull’es senza e l’origine dell’essere umano. Nello stesso anno veniva dato alle stampe L’enigma dell’umano, un volume nel quale veniva affrontato lo stesso tema a partire da più ampi fondamenti. Nella prefazione alla prima edizione chiarivo il punto di maggiore importanza: «la reintegrazione dell’essere umano in antichi diritti e privilegi che un’errata interpretazione della dottrina evoluzionistica gli ha sottratto»1. Con queste parole veniva espresso chiaramente che a essere contestata non era la dottrina evoluzionistica come tale. Anzi, al contrario, questa dottrina doveva essere ulteriormente perorata con rinnovato prestigio, liberandola dalla deduzione decisamente errata dell’«animalità» dell’essere umano. Le continue proteste contro la dottrina evoluzionistica, specialmente nei testi a carattere divulgativo, vogliono colpire proprio il famigerato «dogma animale». Certo questa via è fallimentare e lo sforzo è destinato a
1. Cfr. P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel. Versuch einer prinzipiellen Lö sung, Sibyllen-Verlag, Dresden 1922, p. 11. [N.d.C.]
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restare vano. Contestare l’intera dottrina evoluzionistica significa buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. Con questo tipo di polemica si nuoce solo a se stessi. Perché la dottrina evoluzionistica è, nel suo nucleo, assolutamente sana – gode di una salute «imperturbabile» – e non esiste in verità una «crisi del darwinismo», se con ciò si intende la dottrina evoluzionistica o della discendenza. Tuttavia, anche se l’essere umano dovesse discendere dall’animale, si può esigere che non gli venga negata la sua peculiarità. È indubbio infatti che la dottrina evoluzionistica può acquisire il suo pieno significato e guadagnare un senso più profondo, se riesce anche a conciliare e a spiegare assolutamente da sé la posizione dell’essere umano come «coronamento della creazione» nella sua unicità, nella sua «estraneità per essenza all’animale». Dai tempi di Lamarck si è alle prese con questo problema senza però che si sia trovata una soluzione adeguata alla questione della «dignità umana». Notoriamente, anche per il fatto che lo si pone nel regno animale rendendolo un «animale tra animali», l’essere umano viene inserito «con disinvoltura» nella storia dell’evoluzione. Tuttavia questa non è una soluzione credibile e diviene oltretutto fatale dal momento che l’«animalizzazione» dell’essere umano va a minare l’elaborazione metafisica del processo evolutivo, provocando una continua «disputa per la corretta visione del mondo». In questa spiacevole situazione, proprio poiché ne va della nostra propria «personalità» [Persönlichkeit], della «posizione dell’essere umano nella natura», ogni serio tentativo di trovare una nuova soluzione dovrebbe quindi essere benvenuto. Al contempo la difficoltà nella risoluzione del problema, laddove già numerosi esperti hanno fallito, mi auguro verrà tenuta in considerazione nella valutazione di un tentativo come quello che il nostro libro intende portare avanti. La novità dell’argomentazione ha reso necessaria l’accentuazione, forse eccessiva, del principio guida sul quale la nostra soluzione si fonda con una pronunciata unilateralità. Soltanto enfatizzando l’impo-
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stazione della problematica la soluzione compare davanti agli occhi in maniera sufficientemente persuasiva. Questa necessità di una certa schematicità nell’argomentazione è stata spesso fraintesa dai critici del volume. Dato che il libro non ha voluto limitarsi al solo problema cruciale, ossia al chiarimento dell’unicità del principio dell’evoluzione dell’umano, bensì ha voluto dedicarsi agli ulteriori problemi che derivano dalla determinazione concettuale dell’essere umano, è stato così costretto ad avventurarsi nel terreno incerto delle costruzioni speculative, sul quale le opinioni saranno sempre discordanti. Determinante invece per noi in questo libro è stato prima di tutto guadagnare una base stabile a partire dalla quale avere la possibilità di costruire sensatamente una teoria di questo tipo. Una volta risolta la questione fondamentale di dove finisca l’animale e dove incominci l’essere umano, tutte le altre sottoquestioni non avranno più alcun significato decisivo e la loro risoluzione cambierà in base allo stato della scienza e alle concezioni personali dei singoli ricercatori. Lo stesso vale per tutte le questioni che riguardano l’interpretazione metafisica del processo evolutivo in generale, e in particolare del processo evolutivo dell’essere umano. Dalla prima edizione dell’Enigma dell’umano, già esaurita, sono trascorsi parecchi anni senza che il tema del libro abbia perso attualità e rilevanza. Tuttavia il vecchio testo è stato completamente rielaborato, non soltanto per adeguarlo allo stato della scienza attuale, ma anche per accrescerne la limpidezza e la comprensibilità grazie a un’esposizione più chiara delle idee di fondo e con tagli risoluti al materiale superfluo. Questa nuova edizione dell’Enigma dell’umano presenta così in verità un libro nuovo e diverso che, con la sua forma abbreviata e più comprensibile, si rivolge a un pubblico ampio. Paul Alsberg
Parte Prima
La disputa sull’essere umano
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Capitolo 1
La disputa sulla dottrina evoluzionistica Il movimento evoluzionista – Lamarck e Darwin – Il problema della formazione della specie
Nella disputa sul «darwinismo», riaccesasi oggi ancora una volta, non viene sempre tenuto sufficientemente in considerazione il fatto che la dottrina evoluzionistica come tale non sostiene nient’altro che ciò che il suo nome esprime in maniera inequivocabile: l’evoluzione. Secondo questa dottrina il mondo animale non è sin dall’inizio così come lo conosciamo, con le sue innumerevoli specie che oggi abitano la terra; l’intero mondo degli organismi è stato invece coinvolto in un processo evolu tivo nel quale la sostanza vivente, partendo dalle forme più elementari, si è dispiegata e si è configurata in una maniera sempre più ricca producendo in linea ascendente la classe animale più elevata, quella dei mammiferi, e, alla fine di questa, l’essere umano. La storia della terra, sulla scorta dei numerosi fossili animali conservati nel suo grembo, ci insegna che all’inizio della vita terrestre c’erano solamente gli invertebrati. Solo in un’era geologica successiva, il paleozoico1, compaiono i primi vertebrati e precisamente, in prima battuta, nella forma più 1. Per la scala dei tempi geologici Alsberg utilizza termini di una classificazione non più in uso: Primärzeit, Sekundärzeit, Tertiärzeit e Diluvium. Nella traduzione si è optato per la denominazione attuale che da quei termini deriva: paleozoico, mesozoico, cenozoico e pleistocene. [N.d.C.]
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bassa, quella dei pesci. L’era geologica successiva, il mesozoico, vede poi la comparsa e l’ampia diffusione dei rettili, una classe superiore di vertebrati. E poi di nuovo deve passare molto tempo prima che, all’inizio del cenozoico, giunga finalmente al pieno sviluppo la classe animale più elevata dei mammife ri. Per sapere quanto lentamente procede l’intero movimento evolutivo si tenga conto che, secondo le stime attuali, la durata di ognuna di queste ere geologiche si aggira attorno ai molti milioni di anni. Il cenozoico, il cui termine si suppone risalga a oltre mezzo milione di anni fa, suscita in noi un ulteriore motivo di interesse poiché tale era va messa in relazione con l’essere umano in quanto splendido compimento dell’intero processo evolutivo. Perché al termine del cenozoico, ma secondo un’altra interpretazione solo all’inizio dell’era geologica successiva, del pleistocene, dell’era glaciale, incontriamo per la prima volta dei resti di ossa umane. La successione storica [historische] in cui compaiono le singole classi animali secondo i documenti della storia geologica non è casuale, ma regolare, e coincide sotto ogni aspetto con i fatti e i risultati della ricerca anatomica comparata. Dobbiamo rinunciare a iniziare a questo punto una dimostrazione generale della dottrina evoluzionistica. Con incessanti sforzi le scienze naturali moderne hanno accumulato un numero infinito di prove, coerentemente integrate tra loro, attraverso le quali la dottrina evoluzionistica è stata dimostrata al di là di ogni dubbio. Oggi la dottrina è dunque un bene completamente acquisito della scienza e la sua affidabilità non viene intaccata dal fatto che, anche oggi, essa è solo una teoria e non potrà mai essere altro che una teoria. Perché non è possibile né osservare autonomamente il processo evolutivo dispiegatosi in un lasso temporale enorme, né sarà mai possibile ripeterlo per via sperimentale. Conosciamo soltanto i fatti dell’evoluzione come tali e li riportiamo in un contesto logico e sensato, ossia li organizziamo in una teoria. Questo contesto viene prodotto da una
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supposizione semplice e lineare, inevitabile se si tiene conto di ciò che attualmente conosciamo, la supposizione che ogni nuova forma organica insorgente non sia venuta dal nulla, non sia apparsa nel mondo grazie a uno specifico atto di creazione sovrannaturale, ma abbia invece sempre avuto il suo imprescindibile predecessore a partire dal quale questa si è evoluta e dal quale essa discende. Secondo la dottrina evoluzionistica è dunque l’evoluzione ciò che fa emergere le nuove forme ed è la discendenza [Abstammung] ciò che collega l’intero mondo degli organismi all’indietro in un circolo di forme [Formenkreis]2 unitario e coerente in se stesso; e ciò vale non soltanto per la connessione tra forme preistoriche ormai estinte e le specie animali attuali e l’essere umano, ma anche, in generale, tra specie superiori e specie inferiori. In questo senso si è parlato legittimamente di dottrina evoluzionistica anche in termini di teoria della discendenza [Abstammungslehre]. Non c’è bisogno di enfatizzare le prospettive grandiose che la dottrina evoluzionistica dischiude al sapere e al pensiero. Da sempre l’umano rimugina sull’enigma della sua esistenza. Ciò è testimoniato dagli antichi miti della creazione nei quali l’essere umano, lottando per una visione del mondo, tentava di cogliere se stesso e di determinare la sua posizione nella natura. Oramai, con l’affermarsi della dottrina evoluzionistica, è stato risolto in un colpo solo l’enigma della sua prove nienza. Si è diradata la nebbia che si era fatta impenetrabile attorno ai meccanismi segreti e profondi della creazione della natura e un chiaro raggio di luce si è posato sul suo regnare e sul suo agire. Ogni vita sulla terra si svela improvvisamente come una compatta unità storico-evolutiva che abbraccia an2. Il concetto di circolo di forme (Formenkreis) è stato introdotto da Kleinschmidt per indicare un gruppo di diverse specie monofiletiche con caratteristiche simili o uguali. In questo senso è il precursore dell’idea di «superspecie» di Mayr. [N.d.C.]
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che l’essere umano in una discendenza comune. Per noi che siamo cresciuti nell’«era della dottrina evoluzionistica» è difficile immaginare quale luce fulminea questa dottrina abbia gettato sull’umano. Certamente le somiglianze formali fra gli animali e in particolare anche le sbalorditive concordanze tra gli esseri umani e le scimmie dovevano essere saltate agli occhi già da molto tempo. Fin nell’antichità venivano condotte delle autopsie sulle scimmie con l’intento di conoscere meglio la costituzione del corpo umano. E certamente il famoso naturalista svedese Linné, il quale nella sua opera ancor oggi fondamentale Systema naturae (1735) riunì gli esseri viventi secondo le loro somiglianze formali, posizionò, con stretta coerenza, gli esseri umani nel mezzo dell’ordine delle scimmie. Ma l’idea fondamentale di una intima coappartenenza tra gli esseri che posseggono una somiglianza formale, riconducendo la parentela formale all’intimo fondamento della loro parentela filetica [Stammesverwandtschaft], è stata enunciata con estrema chiarezza e franchezza per la prima volta dal naturalista francese Lamarck nella sua opera Filosofia zoologica (1809). Lamarck merita dunque il titolo di vero fondatore della dottrina evoluzionistica. Si sarebbe tentati di pensare che nel suo tempo Lamarck sia stato acclamato come un luminare della scienza e un faro per l’umanità [Menschheit]. Nulla di più errato! Non venne mai preso sul serio e venne intenzionalmente messo fuori gioco. Il motivo di questa proscrizione è da rintracciare nel fatto che la dottrina di Lamarck scosse le vecchie ben radicate credenze in linea con la storia biblica della creazione. La convinzione scientifica condivisa del tempo era che le specie animali fossero immutabili, che, come insegna la Bibbia, tutti gli animali e l’essere umano fossero stati creati sin dal principio nel modo in cui esistono ancora oggi. Lamarck invece contesta l’immutabilità delle specie e sostiene l’evoluzione di tutti gli animali superiori (incluso l’essere umano) da quelli inferiori. Con sguardo
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retrospettivo bisogna ammettere che la dimostrazione fornita da Lamarck per la sua rivoluzionaria dottrina poggiava ancora su basi troppo fragili perché un vecchio dogma scientifico e religioso non la spazzasse via al primo colpo. La sua dottrina è stata più un’idea geniale e precorritrice dei tempi, da alcuni forse già presentita, da pochi invece compresa e in ogni caso unanimemente rifiutata dalla scienza ufficiale e dalla chiesa. La fiamma continuava però a covare sotto la cenere e veniva continuamente alimentata da nuovi fatti che si adducevano da ogni parte. Il materiale che si andava raccogliendo continuò a ribollire finché finalmente, nel 1859, il naturalista inglese Darwin diede fuoco alle polveri con la sua opera epocale Sull’ori gine della specie per selezione naturale attirando l’interesse di tutto il mondo culturale sulla dottrina evoluzionistica. Darwin poté però portare propri esperimenti con i quali si era sforzato di dimostrare, anche appunto per via sperimentale, la mutabilità [Veränderlichkeit] delle specie. Secondo la sua teoria era la «lotta per l’esistenza», potentissimo fattore della natura, a effettuare una selezione e una coltura naturali. Perché solo l’animale meglio equipaggiato sembra avere successo nella lotta per l’esistenza trasmettendo per via ereditaria ai posteri le sue caratteristiche migliori. A quel punto non era più possibile arrestare la marcia trionfale della dottrina evoluzionistica. Molti importanti uomini di scienza, specialmente Thomas Huxley e Herbert Spencer in Inghilterra, Ernst Haeckel in Germania, si impegnarono con grande zelo in favore della nuova dottrina. Così Darwin fu, se non proprio il fondatore della dottrina evoluzionistica, certamente il suo geniale pioniere. L’eminente significato che ebbe per il progresso spirituale dell’umanità non è pregiudicato dal fatto che, negli anni successivi, il principio dell’evoluzione non venne più accolto entusiasticamente come in precedenza. Una delle critiche principali riguardava il fatto che la lotta per l’esistenza, che vede «sopravvivere il più adatto», avrebbe la facol-
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tà di eliminare le forme di valore inferiore, ma non creerebbe modificazioni a tal punto radicali da spiegare di per sé l’insorgere di specie completamente nuove. La stessa ereditabilità delle metamorfosi venne messa in discussione, sottraendo così al darwinismo il suo stesso fondamento. Senza dubbio i processi di trasmissione ereditaria sono più complicati di quanto non si assumesse in passato. Se animali e piante vengono sottoposti a un cambiamento artificiale delle loro condizioni di vita, ad esempio passando da un ambiente caldo a uno più freddo, allora per prima cosa reagiscono chiaramente con delle metamorfosi, nel senso di un adattamento alle nuove circostanze. Se vengono però riportati nelle precedenti condizioni ritornano nuovamente alla forma precedente. Da questo comportamento degli organismi alcuni ricercatori hanno dedotto che le «caratteristiche acquisite» non sono assolutamente trasmissibili per via ereditaria. Questi esperimenti mi sembrano invece dimostrare semplicemente un’eccezionale capacità di reazione e di adattamento della sostanza vivente. Se si volessero riprodurre le vere relazioni esistenti in natura si dovrebbero lasciare gli organismi nel nuovo ambiente per 100 o 1.000 o 10.000 anni. E anche in questo caso dovrebbe essere tenuta in considerazione l’estrema plasticità della sostanza vivente che con il ritornare nell’ambiente precedente effettuerebbe un nuovo adattamento subitaneo a esso, nel senso di un «ritorno alla forma precedente». La deduzione della non ereditabilità delle nuove caratteristiche venne però confutata anche per via positiva attraverso delle ulteriori osservazioni fatte sulle piante: anche senza un intervento artificiale comparvero improvvise metamorfosi, le cosiddette «mutazioni», che si riproducono nei posteri senza dunque lasciare alcun dubbio sulla loro «fissità ereditaria [Erbfestigkeit]». Come avvengano le mutazioni, al momento non è ancora stato sufficientemente chiarito. Perciò non possiamo sapere quale ruolo abbiano giocato nel processo evolutivo complessivo. Relativamente alla questione essenziale
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circa la trasmissione ereditaria, le mutazioni rappresentano in ogni caso delle prove rilevanti. Finché però anche gli esperimenti in laboratorio non ci daranno dei risultati soddisfacenti relativamente ai complessi processi di trasmissione per via ereditaria, affidiamoci fiduciosi ai numerosi esperimenti che la natura stessa, in grande stile, ci ha messo davanti agli occhi. Che le balene, ad esempio, discendano da mammiferi di terra e che solo in un secondo momento abbiano «acquisito» e «fissato ereditariamente» i nuovi caratteri della permanenza in acqua risulta in maniera infallibile dalla loro formazione ossea così come dalla respirazione polmonare. Una volta riconosciuta la capacità di trasmettere per via ereditaria nuove caratteristiche rimane aperta la domanda cruciale relativamente a quali siano le cause interne ed esterne che avviano e portano avanti il processo evolutivo. Già Lamarck si era occupato di questo significativo problema, assegnando nella sua teoria la massima importanza alle forze interne dell’organismo che trasformavano il corpo in vista dell’adattamento alle nuove circostanze ambientali. Se osserviamo come da mammiferi terrestri siano derivati animali acquatici muniti di pinne e volatili muniti di ali, così come da uccelli che volano siano derivati animali terrestri con le ali atrofizzate e animali acquatici muniti di pinne, oppure come perfino tra i pesci acquatici ci siano delle varietà capaci di volare nell’aria e di arrampicarsi sul terreno, allora non saremo soltanto impressionati dalla straordinaria capacità di adattamento e di trasformazione della sostanza vivente (dimostrata anche per via sperimentale), ma dovremo individuare la responsabilità della trasformazione delle specie principalmente nel cambiamento di ambiente e, contestualmente, nel mutato modo di vivere – sia che questo sia stato volontario (ad esempio prediligendo l’alimentazione a base di pesce o la permanenza in acqua), sia che sia stato costretto dalle circostanze esterne (ad esempio il cambiamento climatico, il cambiamento della composizione del suolo, ecc.). Nella misura
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in cui qui la metamorfosi viene considerata come una «reazione» del corpo al mutato modo di vivere, dovrebbe essere interpretata secondo la dottrina di Lamarck. Ma una volta avviato il mutamento della forma di vita e del corpo, dobbiamo supporre che il principio darwiniano della selezione sia già entrato in attività in maniera decisiva, spingendo avanti con forza il processo evolutivo lungo la via tracciata. Non è più possibile valutare nel dettaglio quale sia stato l’apporto di ciascuno dei due principi nell’intero processo evolutivo. Dopo un periodo in cui è stato favorito il principio di Lamarck («neolamarckismo») si dà oggi priorità al principio darwiniano, come lasciano trasparire le discussioni della British Association del 1936. Accanto al problema dell’insorgere della specie la dottrina evoluzionistica solleva poi altri problemi significativi che attendono urgentemente di essere risolti. Le opinioni divergono molto soprattutto nelle specifiche questioni di derivazione delle singole classi e specie. Ma la questione principale, in passato dibattuta in maniera così accesa, se un’evoluzione abbia mai avuto luogo o meno, oggi non è più in discussione tra gli esperti. La debolezza di ogni teoria è proprio quella di non poter estorcere il proprio riconoscimento; non ci si dovrebbe perciò stupire del fatto che la dottrina evoluzionistica, che non potrà mai essere nient’altro che una teoria, ancora oggi, perfino nella cerchia dei naturalisti, venga guardata con scetticismo o addirittura contestata. Certamente l’ostinata resistenza alla dottrina evoluzionistica non avrebbe raggiunto però una tale intensità e tali aberrazioni, se la controversia avesse riguardato solamente gli animali e non, invece, anche l’essere umano.
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Capitolo 2
La discendenza dell’essere umano L’essere umano preistorico – Gradualità storica dell’evoluzione umana – Testimonianze del passato animale
L’homme fossile n’existe pas!1 Con questa memorabile trovata il famoso naturalista francese Cuvier stroncò un giorno il suo connazionale Lamarck. Alcuni anni dopo, nel 1856, durante gli scavi di una caverna nella valle di Neander, nei pressi di Düsseldorf, venne però rinvenuto uno scheletro umano dai tratti molto particolari. Sopra le grandi orbite oculari si inarcavano delle grosse sporgenze, l’osso frontale era inusualmente piatto, il volume cranico conseguentemente piccolo e la corporatura in generale straordinariamente tozza e massiccia. Inizialmente l’interpretazione del reperto non fu affatto facile. Presto però, a seguito del rinvenimento di altri reperti simili nei dintorni, venne riconosciuto l’immenso valore del tesoro che si aveva tra le mani. A quel punto era dimostrato che lo scheletro della valle di Neander apparteneva all’essere umano dell’era glaciale, vissuto probabilmente nel medio pleistocene, ossia circa 100.000 anni fa. Furono ritrovati anche i suoi strumenti, pietre grezza-
1. Cuvier espone le sue considerazioni senza utilizzare questa specifica formulazione nel paragrafo intitolato «Il n’y a point d’os humains fossiles» in G. Cuvier, Recherches sur les ossemens fossiles de quadrupèdes, vol. 1, Deterville, Paris 1812, pp. 82-83. [N.d.C.]
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mente scheggiate, ma rese maneggevoli, le quali caratterizzano il Neandertal come l’essere umano della «più antica età della pietra». Così esisteva dunque anche l’«homme fossile», l’essere umano preistorico contemporaneo del mammut e dell’orso delle caverne, e questi indicava anche in maniera chiara la sua provenienza attraverso le numerose caratteristiche scimmie sche («pitecoidi») – la fronte «sfuggente», la glabella sporgente, il mento mancante, il prognatismo a forma di muso, ecc. Mancava però ancora l’autentico anello di congiunzione (ipotetico) che fosse in grado di dimostrare proprio il passaggio tra l’essere umano e la scimmia. E proprio a questo «missing link» si appellavano gli oppositori. Volevano vedere prima di credere. Ma anche quest’ultimo appiglio doveva venir loro presto sottratto. Fu una fortuna che, durante i suoi scavi sistematici a Giava (nei dintorni della località di Trinil), il ricercatore olandese Dubois si imbattesse, nello strato di terra relativo al cenozoico, in alcuni pezzi di scheletro pietrificati, i quali permettevano di dedurre legittimamente che si trattasse di un essere dall’andatura eretta, anche se nella loro foggia [Formgebung] complessiva mostravano una tale inconfondibile somiglianza con la scimmia da non consentire a Dubois di definire completamente umano questo essere primordiale; in esso egli individuò bensì quell’anello di congiunzione tra essere umano e scimmia a lungo cercato, dandogli quindi il nome di «Pithecanthropus erectus», ossia «uomo-scimmia dall’andatura eretta» (1890)2. Anche sul ritrovamento di Trinil sorse subito una vivace controversia. Alcuni ricercatori attribuirono i frammenti di scheletro a una scimmia, altri contestarono la
2. Diversi elementi lasciano ipotizzare che Dubois abbia maturato la denominazione Pithecanthropus erectus alla fine del 1892 ufficializzandola poi nell’opuscolo E. Dubois, Pithecanthropus erectus. Eine menschenaehnliche Uebergangsform aus Java, Landesdruckerei, Batavia 1894. [N.d.C.]
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loro datazione al cenozoico. Ma anche se l’essere di Trinil dovesse aver vissuto anziché all’inizio del pleistocene, come si suppone, nel primo periodo medio, sarebbe comunque circa 100.000 anni più vecchio del Neandertal. Il punto cruciale rimane che la datazione e la forma dello scheletro si accordano perfettamente; quello di Trinil non solo è considerevolmente più antico di quello di Neandertal, ma nella costituzione scheletrica è anche corrispondentemente più vicino alla scimmia. La sua stretta vicinanza con la famiglia delle scimmie non potrebbe trovare una migliore prova del fatto stesso che lo si è preso proprio per una scimmia. Oggi si è affermata sempre più l’opinione secondo la quale lo scheletro di Trinil indicherebbe già la direzione evolutiva dell’essere umano. In ogni caso, colui al quale è appartenuto non doveva ancora essere un essere completamente umano, ma soltanto un «proto-essere umano». Come verrà poi illustrato in maniera più esaustiva, già per motivi puramente biologici l’ipotesi di una scimmia o di un essere simile alla scimmia va comunque esclusa. Il reperto di Trinil sta invece senz’altro sul versante dell’essere umano e ha pieno diritto a essere chiamato «uomo di Trinil». L’uomo di Trinil mostra in maniera inequivocabile il più antico stadio di evoluzione umana sinora conosciuto. Anche se del suo scheletro sono rimasti soltanto alcuni frammenti, questi sono perfettamente adatti per spiegare il passaggio (morfologico) dalla scimmia all’essere umano. Dell’uomo di Neandertal, invece, sono stati fatti così tanti ritrovamenti concordi tra loro nelle diverse aree della terra che questi può essere considerato il tipico rappresentante dell’evoluzione umana nel pleistocene medio. Lo stadio evolutivo successivo, ugualmente documentato da numerosi ritrovamenti, è rappresentato dall’uomo di Aurignac, il quale prende il nome da uno scheletro portato alla luce in Francia, presso appunto Aurignac. L’Aurignac visse nell’ultimo terzo dell’era glaciale. Con la sua corporatura slanciata, le sue arcate sopraccigliari alte, la formazione del
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mento e la sua avanzata industria dello strumento («neo-litica») veicola già il passaggio all’umanità dell’epoca postglaciale e del presente. Se si tiene conto che è stata proprio la «famigerata» dottrina della «discendenza dell’essere umano dalla scimmia» a provocare i più acuti attacchi alla dottrina evoluzionistica, si sapranno apprezzare i grandi meriti delle scienze naturali moderne per aver conseguito l’impressionante scoperta della gradualità storica dell’evoluzione umana. Una volta portate sotto gli occhi di tutti con autentiche prove le singole tappe, non è stato più possibile mettere in discussione che l’essere umano sia diven tato, solamente nel corso del tempo, ciò che oggi è, facendo risultare evidente anche il punto di partenza animale dell’evoluzione umana. Ma la scienza ha potuto portare ancora un’altra serie di prove stringenti a sostegno della provenienza animale dell’essere umano. Questi infatti non possiede un solo osso, muscolo, nervo che non sia in comune anche con l’animale. A questo riguardo le concordanze si estendono sin nei più piccoli dettagli, sino alla struttura cellulare degli organi. Corrispondentemente alla formazione anatomica anche le funzioni umane, la respirazione, la circolazione sanguigna, la nutrizione, la riproduzione, ecc., sono assolutamente identiche a quelle dell’animale. Come nell’animale anche nell’essere umano l’evoluzione embrionale comincia con la semplice cellula-uovo e questa percorre chiaramente tutti gli stati animali precedenti, quando transitoriamente produce quelle formazioni come le fessure branchiali, una coda o un manto di lanugine. Haeckel ha definito questo processo di ripetizione abbreviata della filogenesi nell’ontogenesi la «legge biogenetica fondamentale». Anche le numerose formazioni rudimentali dell’essere umano sono evidenti «testimonianze del suo passato animale». Alcuni di questi apparati atrofici sono assolutamente senza funzione e senza valore, come i muscoli auricolari (che invece nell’animale hanno l’importante funzione di drizzare le orecchie),
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altri possono addirittura diventare dannosi, come l’appendice dell’intestino cieco. Recentemente si è appreso di particolari reazioni del sangue che danno risultato positivo soltanto nel caso di consanguineità. Anche così è stata inequivocabilmente confermata la stretta parentela dell’essere umano con le scimmie antropomorfe. Infine l’approfondimento scientifico degli stati culturali primitivi delle razze umane meno evolute3 [der niedern Menschenrassen] e della psiche degli animali ha consentito di giungere alla significativa conoscenza del fatto che la costituzione del nostro corpo, così come la nostra vita spirituale e la nostra cultura sono cresciute a partire da infimi abbrivi. Ancora oggi i chiari passaggi dalla forma di vita animale a quella umana sono documentabili. A qualsiasi ambito speciale della scienza si sia attinto, il risultato è stato sempre lo stesso: l’essere umano si è evoluto dall’animale. Con il crescente accumularsi di materiale probatorio efficacemente interconnesso, la protesta contro la dottrina della «discendenza dell’essere umano dalla scimmia» fu costretta ad affievolirsi sempre più. Prescindendo dalle posizioni marginali ostinate o legate a visioni tradizionalistiche, possiamo dire che la scienza ritiene oggi la dottrina universalmente valida. Essa è penetrata anche in ambito filosofico e perfino teologico. E lascia così ancora più spazio all’interpretazione metafisica del processo evolutivo. Se infatti si osserva dall’alto il movimento evolutivo nel suo insieme, l’essere umano rimane sempre progenie del regno animale «inferiore»; ma come ultimo e più elevato grado della serie organica dell’evoluzione ottiene un significato particolare allorché attraverso l’evoluzione progressiva del mondo animale viene preparata proprio la sua creazione. In questa cornice metafisica l’essere umano sembrerebbe
3. Sull’uso di questa espressione, si veda il saggio introduttivo, in particolare p. 20. [N.d.C.]
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il fine a cui mira il grande processo evolutivo e, come tale, sarebbe soggetto nuovamente a destinazioni e compiti peculiari.
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Capitolo 3
La disputa per la corretta visione del mondo Darwinismo e materialismo – Il dogma dell’«animalità» dell’essere umano – Il principio «spirituale» come controargomento
Con il riconoscimento generalizzato della dottrina evoluzionistica la disputa sul darwinismo dovrebbe essersi finalmente acquietata. Vediamo però che ancor oggi questa prosegue con un’intensità nient’affatto diminuita. Tuttavia i suoi termini sono mutati nella misura in cui la dottrina evoluzionistica come tale non è più il punto focale del confronto. Sono invece gli effetti, o meglio, le interpretazioni di questa dottrina ad aver messo in campo la nuova materia del contendere. Alla dottrina evoluzionistica venne attribuito soprattutto un triviale materialismo. È chiaro che la dottrina darwiniana portava acqua al mulino della visione del mondo materialista (che rifiutando in linea di principio ogni «sovrasensibile» si attiene semplicemente alla materia e alla sua regolarità meccanica). Forse Darwin stesso non avrebbe riscosso un successo così repentino se con la «naturalezza» dei suoi principi, con il loro funzionamento puramente meccanico non fosse andato incontro al trend materialista del suo tempo. Di per sé, però, come abbiamo già accennato, la dottrina evoluzionistica non è affatto imprigionata nel materialismo, neppure imbrigliando l’evo luzione degli organismi nel quadro complessivo dell’ampio processo dell’evolvere cosmico. L’interpretazione unilaterale
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della dottrina evoluzionistica in senso materialista mobilitò gli oppositori di questa visione del mondo e così, sulla scia del «darwinismo», non mancò di accendersi una nuova disputa. Non si volle infatti mai ammettere che l’evoluzione, nella sua destinale ascesa dalla forma più bassa a quella più alta e infine all’essere umano, si risolvesse in un processo semplicemente «meccanico». Ma proprio in merito all’essere umano, i seguaci dell’orientamento materialista potevano a quel punto appellarsi trionfalmente a una conquista scientifica fondamentale: anche l’essere umano, in conformità alla sua provenienza animale, andrebbe annoverato tra gli animali, pure se, per via delle sue particolari acquisizioni culturali, lo si dovesse considerare l’animale più elevato. Questa conquista, estrapolata dalla dottrina evoluzionistica, era effettivamente l’artiglieria pesante che nella inasprita «disputa sulla corretta visione del mondo» poteva intervenire con la massima potenza d’urto proprio nei punti più controversi, quelli relativi all’essenza dell’essere umano. Per comprendere chiaramente lo stato della disputa non si deve perdere di vista il fatto che la dottrina evoluzionistica, di per sé, non implica a ogni costo la classificazione «zoologica» dell’essere umano. Sostiene soltanto la sua discendenza dall’animale e, conformemente a ciò, l’evoluzione dell’essere umano a partire dall’animale. Cosa sia invece l’essere umano come tale, se sia «rimasto» un animale o sia «diventato» qualcos’altro, si sottrae al suo raggio di esplicazione. Con il dogma dell’«animalità» dell’essere umano – di ciò dobbiamo renderci conto – la scienza ha fatto dunque un passo considerevole e al contempo decisivo oltre la dottrina evoluzionistica. Ora non ci sarebbe nulla di più sbagliato che rimproverare a un ricercatore di trarre dalla dottrina evoluzionistica tutte le conclusioni che ne derivano e di non arrestarsi anticipatamente davanti all’essere umano come dinnanzi a un presunto «caso peculiare». Il privilegio inviolabile della scienza è e rimane
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certamente quello di percorrere il proprio itinerario di ricerca senza presupposti e senza pregiudizi, noncurante dell’opinione corrente o delle questioni relative alle visioni del mondo. Innegabilmente con la dottrina evoluzionistica si è creata una situazione nuova. Il vecchio sacro dogma della creazione pecu liare dell’essere umano è stato fatto a pezzi. Non doveva forse così, con le nuove conoscenze, essere superata anche l’opinione tramandataci secondo la quale l’essere umano occupa una posizione peculiare nella natura? Un mutamento sostanziale relativamente a questa questione sembrava imminente, dal momento che in precedenza l’elevato «essere umano civilizzato» stava a misura di tutte le cose, mentre a quel punto sembrava invece stabilito che la nostra intera cultura non è altro che un prodotto molto tardo dell’evoluzione, nato da elementi tanto primitivi quanto quelli che oggi osserviamo presso alcuni popoli naturali e che, a giudicare dagli strumenti giunti sino a noi, dobbiamo immaginarci come ancora più primigeni negli esseri umani preistorici dell’età della pietra. Come potevano dunque a quel punto incontrare la precedente considerazione e valutazione l’andatura eretta, il linguaggio e la ragione dell’essere umano – quella valida triade dalla quale un tempo si deduceva la peculiarità d’essenza dell’essere umano – dopo che si era preso atto che l’intero patrimonio culturale umano con tutte le sue proprietà e gli indubitabili pregi è il prodotto di un processo evolutivo profondamente radicato nel regno animale? La scienza tirò imperterrita le sue conclusioni. Date queste due premesse: 1. L’essere umano discende dall’animale, si è evoluto a partire dall’animale. 2. L’evoluzione dello stato culturale attuale ha avuto luogo a poco a poco, passo dopo passo, gradino dopo gradino, in pas saggi fluidi, senza formare nuovi organi o nuove funzioni.
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La conclusione fu: 3. L’essere umano è diverso dall’animale soltanto per il suo gra do evolutivo più elevato, ossia tra l’essere umano e l’animale c’è solamente una differenza di grado, ma non una differenza di specie [Art], di essenza [Wesen]. Questa conclusione non sembra forse la più stringente possibile? Non deve forse infrangersi contro di essa ogni obiezione? Ma che cosa significa? Ebbene, nient’altro che un giudizio che spazza via la visione del mondo tramandataci, visione fondata sulla «posizione peculiare» dell’essere umano. Tutti quei pregi peculiari dell’essere umano, dai quali in precedenza era stata dedotta la sua peculiarità d’essenza, ora non vengono infatti più considerati come segni distintivi essenziali assoluti dell’essere umano, ma soltanto come elevati gradi evolutivi di quelle caratteristiche che compaiono nell’animale in grado inferiore e nell’essere umano sono maturate fino all’odierna perfezione soltanto nel corso di un lungo periodo di sviluppo. Perciò l’essere umano non può più rivendicare per sé un posto peculiare nella natura, ma appartiene per punto di partenza e per specie ugualmente al regno animale. E solo nella misura in cui si deve tenere conto del suo più alto valore e della sua superiorità sull’animale gli spetta il primo posto nel regno animale. L’essere umano un animale, una migliore specie [Art] di «scim mia»! Ci si può immaginare l’effetto che questa nuova definizione suscitò nei circoli attenti alle questioni filosofiche (e più che mai in quelli teologici). Certo veniva ormai spalancata la porta al più triviale materialismo, impedito ogni sguardo che aspirava alla libertà e al sublime, soffocato nell’essere umano il grande desiderio di compimento e di liberazione che gli mette le ali, in una parola: crollava il cielo metafisico. Tuttavia con le proteste infiammate, le maligne diffamazioni o la repressione violenta della nuova dottrina non si ottenne nulla. Se le scienze natu-
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rali, con tutte queste conclusioni così ricche di conseguenze, fossero nel giusto, volersi ribellare contro di esse non sarebbe altro che ottusa cocciutaggine. D’altra parte, una metafisica che non si ponesse senza riserve sul terreno dei dati naturali sarebbe un’impresa anacronistica e assurda. Così, se gli oppositori volessero continuare a insistere con la loro tradizionale concezione della particolarità d’essenza dell’essere umano e della sua posizione peculiare nella natura, dovrebbero, da parte loro, addurre la prova che le scienze naturali abbiano tratto una conclusione errata, cioè dovrebbero fondare il loro disaccordo su una motivazione che non stia in contraddizione con la nuova scoperta della graduale evoluzione umana. Quali sono ora i controargomenti? Detto in breve, ciò a cui si fa appello è la vita spirituale dell’essere umano. Il corpo umano si può cedere tranquillamente al regno animale come prodotto riconosciuto della discendenza animale, ma non il suo spirito, il quale sarebbe invece qualitativamente diverso dalla capacità intellettiva [Intellekt] animale. La ragione, tanto nei suoi atti di pensiero, quanto nelle sue immediate ricadute sulla morale, la scienza, la tecnica e il linguaggio, sarebbe ciò che innanzitutto renderebbe «umano» l’essere umano e lo differenzierebbe, secondo la sua essenza, dall’animale. Se però indaghiamo ulteriormente su quali peculiari proprietà dovrebbe a questo punto poggiare la diversità qualitativa dello spirito umano dalla capacità intellettiva animale, non riceviamo alcuna risposta soddisfacente. Il filosofo tedesco Eucken, uno dei massimi protagonisti della «lotta per un contenuto spirituale della vita», sostiene a tal proposito che «nell’essere umano compaiono nuovi segni, quelli spirituali, che non si lasciano spiegare come mero incremento della natura». Sarebbe accaduto «un grande cambiamento quando, nell’essere umano, un essere presso di sé della vita ha cominciato a crescere all’interno del nostro mondo, quando hanno fatto irruzione un vivere e un creare originari, producendo nuove grandezze e
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beni, introducendo una realtà appartenente solo a se stessa»1. Questa «svolta verso un mondo interiore autonomo, verso un essere presso di sé della vita» sarebbe ciò che contraddistingue la vita umana rispetto a quella dell’animale e che le divide in maniera fondamentale l’una dall’altra. In sostanza è sempre la vecchia dottrina secondo la quale l’essere umano sarebbe dotato di ragione, mentre l’animale ne sarebbe privo, quella che viene qui esposta, non più secondo il modello di Descartes, per il quale gli animali non erano altro che macchine insensibili, ma in veste più moderna. Oggi si riconosce che lo spirito dell’essere umano è divenuto tale, dispiegandosi maggiormente e in maniera più ricca rispetto alla capacità intellettiva animale. Il perfezionamento dello spirito non viene però considerato un «incremento», ma un perfezionamento qualitativo, al quale l’animale non prende parte; soltanto dall’elevazione spirituale toccata all’essere umano e che ha portato alla ragione consegue la diversità di essenza dell’essere umano dall’animale. Questo tipo di argomentazione non è certamente convincente. Quelle che vengono qui avanzate sono più asserzioni che argomenti. Se si sostiene che lo spirito dell’essere umano debba essere diverso per essenza da quello dell’animale, allora dovrebbe essere addotto un nuovo principio dal quale proviene la diversità di essenza. In questa direzione vanno ora proprio alcuni tentativi lodevoli nelle intenzioni (così si vorrebbe aver scoperto come principio dell’umano ad esempio la «fantasia», l’«esperienza», la «cura della vita»); ma tutti questi tentativi, di per sé già insufficienti, non riescono a depotenziare l’obiezione delle scienze secondo la quale ogni evoluzione è soltanto «in-
1. Alsberg propone qui una rielaborazione libera di un passo di R. Eucken, Der Kampf um einen geistigen Lebensinhalt. Neue Grundlegung einer Welt anschauung, Verlag von Veit & Comp., Leipzig 1896, p. 136. [N.d.C.]
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cremento» e che da un incremento non può mai venire qualcosa di nuovo, estraneo nell’essenza, ma sempre e soltanto un semplice incremento. Stando così le cose, quella dei «metafisici» contro le scienze naturali, con la loro artiglieria pesante di fatti e logica, è stata necessariamente, sin dall’inizio, una lotta impari. Già solo il fatto che la ragione non è un bene esclusivo di tutti gli esseri umani rende la loro posizione insostenibile. Ci sono infatti ancora oggi tribù che, a giudicare dalla loro lingua, partecipano poco o per nulla della ragione e perciò è impossibile crederli capaci di una «svolta verso un mondo interiore autonomo», di un «essere presso di sé della vita». E quanto diviene ancora più discutibile la questione della ragione se guardiamo indietro ai primi millenni dell’umanità. Perché inevitabilmente dobbiamo a un certo punto giungere al momento in cui nell’essere umano non si dà ancora la ragione. A questo proposito Haeckel poteva scagliare con notevoli risultati contro i suoi avversari questa sentenza devastante: «o consideriamo il concetto di ragione in senso esteso, e dunque questa spetta tanto ai mammiferi più elevati quanto alla maggior parte degli esseri umani, oppure consideriamo il concetto di ragione in senso stretto, e allora questa manca alla maggioranza degli esseri umani così come alla maggior parte degli animali»2.
2. Alsberg cita in maniera piuttosto precisa la conferenza conclusiva (la venti seiesima nelle edizioni dal 1874 al 1877, la trentesima in quelle successive) dell’Antropogenia. Cfr. E. Haeckel, Anthropogenie oder Entwickelungsge schichte des Menschen, parte II, Verlag von Wilhelm Engelmann, Leipzig 1910, pp. 938-939. Per l’edizione italiana si veda E. Haeckel, Antropogenia o Storia dell’evoluzione umana, tr. it. di D. Rosa, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1895, pp. 615-616. [N.d.C.]
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Capitolo 4
Il problema dell’umano: un problema insoluto La messa in dubbio sul piano del sentimento – Il fenomeno della cultura – Passaggi e incrementi – L’errore nella dimostrazione – L’impercorribilità del principio genealogico
Nel «campo di battaglia» delineato dall’accanita «disputa sul l’essere umano» per coloro che contrastano la dottrina sostenuta dalle scienze naturali le cose si metterebbero male, se dalla loro parte non stesse invece la certezza istintiva che l’essere umano è qualcosa di completamente altro dall’animale. Certamente non possono confutare in nessun modo la stringente dimostrazione delle scienze naturali, né trovare solidi sostegni per la loro opposta concezione. Al contempo contestano energicamente una deduzione logica che sembra loro inaccettabile. Quando io, assoluto seguace della dottrina evoluzionistica, mi pongo imparzialmente la questione decisiva, se la «soluzione» offerta dalle scienze naturali all’enigma dell’umano abbia su di me degli effetti liberatori, devo parimenti rispondere negati vamente. Perché la vita culturale dell’essere umano mi sembra differenziarsi in maniera così evidente da quella della forma di vita «inferiore» dell’animale che qui il pensiero di un semplice incremento non potrà mai affermarsi. Quando recentemente, in un processo americano che ha avuto un’ampia risonanza, la dottrina evoluzionistica è stata messa al bando dallo scranno di un tribunale, il mondo degli eruditi non ha potuto che deridere questo giudizio che oltraggiava ogni
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scienza1. Il ricercatore serio riserverà però ogni attenzione a quell’«evento» che illumina in maniera accecante il «conflitto di coscienza» della tendenza metafisica dell’umano. Egli vorrà cercare una soluzione che renda giustizia alla dottrina evoluzionistica e che al contempo non debba mettere a tacere le nostre posizioni sul piano del sentimento. Ma si può pensare, in generale, una soluzione di questo tipo? La scienza non ha invece già detto l’ultima parola relativamente a questa questione? Se risaliamo ai motivi che risvegliano in noi una protesta sul piano del sentimento, allora, in generale, è il fenomeno della cultura quello che non possiamo mettere in immediata relazione con l’animale. La scuola naturalistica replica certamente che il fenomeno della cultura abbaglia, inganna e per questo motivo suscita un’impressione insolita, non-animale, perché nella sua molteplicità ingarbugliata e variopinta esso nasconde quei semplici fattori evolutivi sui quali, in verità, poggia. Per rintracciare i fondamenti elementari della cultura, non si potrebbe dunque limitare l’indagine agli esseri umani culturalmente elevati, ma si dovrebbe invece prendere come punto di partenza della trattazione le razze umane meno evolute con le loro condizioni di vita semplici e trasparenti. Questo è in un certo senso completamente corretto. La cultura è certo qualcosa che è divenuto e si rende quindi meglio comprensibile se la seguiamo dai suoi abbrivi. Ciononostante il fenomeno della cultura non perde in singolarità e unicità. In esso incontriamo fatti che all’animale sono completamente estranei: nessun animale appronta strumenti, nessun animale parla con parole o pensa attraverso concetti. 1. Il riferimento è probabilmente allo «Scopes Trial» (1925), durante il quale John Thomas Scopes fu processato per aver violato il cosiddetto «Butler Act» che proibiva l’insegnamento della dottrina evoluzionistica in tutte le scuole pubbliche del Tennessee. [N.d.C.]
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La peculiarità del fenomeno della cultura non va dunque negata; d’altra parte, è dimostrato che la cultura si è evoluta passo passo verso la forma attuale da infimi abbrivi al confine con l’animale. Occorre dunque assumersi il compito di conciliare l’un l’altro questi due fatti evidenti. Dovesse però venir dimostrato che tutti i più piccoli passi nel movimento dell’evoluzione non sono nient’altro che «semplici incrementi», allora logicamente anche l’essere umano civilizzato dovrebbe essere diverso solamente «di grado» da tutti gli stadi evolutivi precedenti. Quali sono ora gli argomenti sui quali poggia l’affermazione del semplice incremento del processo evolutivo? Il primo argomento poggia sulla fondamentale analogia tra le parti del corpo umano e del corpo animale. Se si smembra il corpo umano nei suoi singoli organi e questi nelle loro singole parti costitutive e se li si confronta con quelli corrispondenti del corpo animale, in ogni specifica foggia delle parti del corpo umano i due sono assolutamente analoghi nell’apparato e nella costruzione delle singole parti. Sì, «la comparazione critica di tutti gli organi e delle loro modificazioni all’interno della serie delle scimmie ci porta», come dice la famosa affermazione di Huxley, «a un unico risultato: le diversità anatomiche che dividono l’essere umano dal gorilla e dallo scimpanzé non sono così grandi rispetto alle differenze che separano le scimmie antropomorfe dalle scimmie inferiori»2. Con ciò viene dimostrato che i singoli organi si sono modificati nell’essere umano solo di grado, diventando più grandi e forti oppure più piccoli e deboli, ecc. Ciò che vale per gli organi può essere certamen2. Alsberg fa qui riferimento con qualche imprecisione all’edizione tedesca del saggio Evidence as to Man’s Place in Nature (1863), ossia a Th.H. Huxley, Zeugnisse für die Stellung des Menschen in der Natur, tr. ted. di J.V. Carus, Vieweg und Sohn, Braunschweig 1863, p. 117. Per l’edizione italiana si veda Id., Il posto dell’uomo nella natura, a cura di G. Giacobini, UTET, Torino 2005, p. 131. [N.d.C.]
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te assunto anche per la funzione dell’organo. All’organo corrisponde infatti di volta in volta la funzione. Laddove, come nel caso del cervello umano, l’organo si è potentemente dispiegato, anche la funzione si sarà conformemente elevata al più alto grado. In altri casi nei quali l’organo nell’essere umano è regredito (ad esempio la dentatura), la funzione si è altrettanto indebolita. Questi mutamenti semplicemente «graduali» delle funzioni degli organi costituiscono il secondo argomento a sostegno della tesi che l’evoluzione nell’essere umano e nell’animale sia diversa solamente secondo il grado. Il terzo argomento si appella all’andamento dell’evoluzione, la quale procederebbe gradualmente in fluidi passaggi dalla forma di vita animale a quella umana. Come è riconoscibile ad esempio nella stazione eretta della scimmia e dell’essere umano, essi differiscono l’uno dall’altra solo di «grado», poiché questo modo di incedere nell’essere umano si è sempre più perfezionato e la formazione del piede si è adeguatamente modificata. Così anche lo spirito dell’essere umano, per quanto sia grande la sua superiorità sulla capacità intellettiva animale, si è formato solo in maniera graduale, passo dopo passo, in direzione dell’apice culturale attuale. I tre argomenti della scuola naturalistica sono piuttosto impressionanti. Al contempo rimane aperta la questione se questi argomenti siano veramente in grado di dimostrare ciò che con essi doveva essere dimostrato, ossia l’incremento puramente graduale dell’evoluzione dall’animale all’essere umano. Innanzitutto, per quanto riguarda l’ultimo argomento, quello dei «passaggi fluidi», vorremmo obiettare: se l’evoluzione è stata un processo «naturale», cioè continuo, connesso in maniera causale, in quale altro modo avrebbe dovuto procedere se non con quegli impercettibili passi? Il semplice fatto che l’evoluzione proceda in maniera ininterrotta non permette affatto di dedurre qualcosa sulla modalità del processo evolutivo. Se
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vogliamo scoprire qualcosa su di essa, dobbiamo confrontare tra loro i singoli stadi evolutivi. Appare però chiaro che eventuali differenze nella modalità dell’evoluzione si evidenziano in maniera tanto più forte quanto più ampio è l’intervallo che scegliamo per la comparazione, mentre, all’inverso, aumentando la vicinanza dei punti della comparazione cresce il pericolo di non tenerle in considerazione. Se spostiamo dunque intenzionalmente il nostro sguardo dall’umanità civilizzata [Kultur menschheit] ai suoi più bassi stadi evolutivi e ai suoi passaggi nell’animale, allora scegliamo un intervallo di comparazione così stretto che non è più affatto possibile trarre una conclusione certa – come dovrebbe mostrare l’esempio che segue, riferito all’insorgere della tecnica. 1. La scimmia lancia delle pietre, l’essere umano delle origini [Urmensch] lancia delle pietre – ciò è evidentemente una pratica dello stesso identico tipo. 2. L’essere umano delle origini si sceglie pietre particolarmente adatte, ad esempio quelle con gli angoli scheggiati e affilati – in linea di principio questa è sempre la stessa pratica, ma in una forma «incrementata», perfezionata. 3. L’essere umano delle origini si affila egli stesso le pietre – ciò è di nuovo un semplice incremento, perfezionamento della pratica precedente, e così via. Si dovrebbe pensare che non ci possa essere nulla di più illuminante che questi «incrementi» evolutivi fluidi, collegati tra loro, i quali hanno poi elevato la tecnica (così come il linguaggio e lo spirito) al livello attuale. E tuttavia dobbiamo sospettare che nell’esempio addotto si insidi un errore grossolano. Perché con un intervallo sufficientemente ampio, in una comparazione dell’essere umano civilizzato con l’animale, incontriamo appunto il fenomeno della cultura, che nell’animale non c’è e che non si rivela quindi necessariamente come mero «incremento» dell’evoluzione animale.
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Se partiamo dalla premessa innegabile di un movimento evolutivo «naturale», cioè ininterrotto, collegato causalmente, allora il suo svolgimento può essere osservato in due modi. Possiamo seguire la direzione dall’essere umano civilizzato all’indietro verso l’animale oppure dall’animale in avanti verso l’essere umano civilizzato. Se scendiamo giù per la scala dell’evoluzione sino al piolo più basso, il nostro sguardo è indirizzato al da dove dell’evoluzione, cioè alla provenienza dell’essere umano. Se, all’inverso saliamo su per la scala dell’evoluzione sino al piolo più alto, ci si rivela il verso dove dell’evoluzione, ossia la specie umana. Ciascuno dei due modi di considerare la cosa ha dunque il suo proprio significato autonomo per l’indagine del problema dell’umano. All’inizio il compito più urgente della scienza è stato certamente quello di seguire il cammino dell’evoluzione con lo sguardo fisso all’indietro. Si trattava infatti di dare sostegno all’osteggiata dottrina evoluzionistica in maniera duratura. La scoperta dei gradi più bassi dell’evoluzione umana divenne tanto una prova certa per la discendenza animale dell’essere umano, quanto la dimostrazione della fondamentale analogia dei singoli organi e delle loro funzioni come «patrimonio ereditario animale». Dopo che in questo modo la dottrina evoluzionistica venne consolidata, il compito successivo, e il più urgente, sarebbe stato quello di cambiare la direzione dello sguardo e, a quel punto, apprezzare l’essere umano anche come portatore del fenomeno culturale. Qui produce conseguenze negative, come si vede, l’errore capitale di aver scelto gli intervalli di comparazione troppo ravvicinati tra loro e troppo prossimi all’animale. Perché così ci si è inavvertitamente impigliati nell’opinione acritica che i cambiamenti di stato, che passano fluidamente l’uno nell’altro, non siano altro che un mero incremento graduale; conseguentemente alla fine anche l’essere umano doveva dunque diventare un mero incremento evolutivo della forma animale.
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Avrebbe dovuto già far sorgere qualche dubbio il fatto che gli stessi argomenti che prima venivano citati per dimostrare la provenienza dell’essere umano, dovevano poi essere utilizzati anche come dimostrazione della sua specie. Ma si era troppo impressionati dall’evidenza dell’idea che, poiché i singoli organi e le singole funzioni si sono evoluti ulteriormente solamente secondo il grado, anche l’essere umano come tale potrebbe essere diverso dall’animale solo secondo il grado. Questa deduzione dalla parte al tutto è stata una deduzione er rata che doveva poi divenire fatale alla scuola darwiniana nella sua determinazione dell’essere umano. Oggi, pur riconoscendo tutto ciò, dobbiamo ben guardarci dall’ergerci a giudici inflessibili per non peccare contro il lavoro inaudito delle moderne scienze naturali, senza il quale l’attuale progresso spirituale dell’umanità sarebbe impensabile. Il concetto di «biologia», ai tempi di Darwin e anche oggi, sta muovendo i suoi primi passi. Soltanto il naturalista e filosofo tedesco Hans Driesch ci ha reso consapevoli della ricchezza dell’approccio biologico, facendoci comprendere che la deduzione dalla parte al tutto coincide con la deduzione dalla quantità alla qualità. Perché la forma del corpo e della vita non è mai una semplice somma dei singoli organi e delle singole funzioni; essa è invece sempre una «totalità» maturata secondo la storia dell’evoluzione, cioè un’unità biologica che riposa su se stessa, nella quale tutte le parti si sono evolute armonicamente e in relazione tra loro, secondo un piano di costruzione sovraordinato. Perciò la «non somiglianza dell’aspetto esteriore dell’essere umano» (a quello dell’animale), la quale appare piuttosto strana, non può essere spiegata tagliando corto in maniera causale, attraverso la «differente crescita delle singole parti», come vorrebbe ancora farci credere Haeckel3. Invece come fondamento della 3. Il riferimento testuale di Alsberg è verosimilmente costituito dalle battute finali del secondo capitolo di E. Haeckel, Die Welträtsel, neu bearbeitete
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crescita disuguale dei singoli organi nell’essere umano deve essere posto un piano di strutturazione unitario che, in quanto fattore sovraordinato, si manifesta al contempo nel fenomeno della cultura e, già solo per questo motivo, presuppone una diversità totale tra forma umana e animale. Ciò può essere qui solo accennato e verrà completamente chiarito nella prossima sezione di questo trattato. Considerando ancora le due premesse (cfr. p. 55) che hanno portato alla fatale deduzione dell’«animalità» dell’essere umano, possiamo ora constatare che la seconda premessa non dichiara affatto ciò che le si attribuisce. Essa dovrebbe provare il «carattere incrementale» dell’evoluzione, ma si riferisce in verità soltanto al suo andamento «naturale». Non dice nulla su ciò che più conta, sulla «modalità» dell’evoluzione. Poiché già nella prima premessa viene presupposta la naturalezza dell’evoluzione, questa parte viene sostanzialmente ripresa nella seconda premessa. Ossia: l’intera deduzione è barcollante. In altre parole: l’uguaglianza d’essenza dell’essere umano con l’animale non è affatto stata dimostrata. E, per quanto almeno per ora dobbiamo presupporre, neppure sarà mai dimostrabile poiché è in aperta contraddizione con il fenomeno della cultura. Considerata dalla prospettiva del culturale, l’evoluzione umana non si presenta affatto come un incremento dell’evoluzione animale e, di conseguenza, l’essere umano non risulta affatto uguale all’animale per essenza. Certamente anche queste rimangono «vuote parole» sino a quando non riusciremo a sostenerle con una stringente argomentazione. Prima di tutto, però, per noi è importante mostrare l’errore che si è insinuato nei calcoli delle scienze naturali.
Taschenausgabe, Alfred Kröner Verlag, Leipzig 1909, p. 24. Per l’edizione italiana si veda Id., I problemi dell’universo, tr. it. di A. Herlitzka, UTET, Torino 1904, p. 51. [N.d.C.]
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Ora è interessante vedere che, sino a oggi, non si è mai propriamente riusciti a inserire in maniera effettiva l’essere umano nel regno animale. Eppure non dovrebbe esserci nulla di più facile che indicare all’essere umano, se questi è veramente solo una forma animale «incrementata», il suo posto ben determinato nel sistema zoologico (del quale farebbe dunque immancabilmente parte). Ma già Darwin non riuscì a portare a termine questo compito delicato. Poiché per lui era in questione solo il principio «genealogico» come principio classificatorio «naturale», l’essere umano dovrebbe costituire con le scimmie antropomorfe un’unica famiglia o persino solo una sottofamiglia. Considerate le sue caratteristiche culturali, l’essere umano potrebbe invece pretendere almeno il grado di un sottordine o persino quello di un ordine proprio, cosa che andrebbe però nuovamente contro il principio genealogico. Anche Haeckel, il quale più di tutti ha proclamato a gran voce che l’antropologia è una «parte della zoologia», non vede altra soluzione che accordare all’essere umano un ordine peculiare accanto ai due ordini delle scimmie e delle proscimmie. Anche se egli avesse voluto concepire questi tre ordini non tanto come «gruppi coordinati», ma piuttosto come «gradi evolutivi subordinati storicamente», rimarrebbe comunque il fatto – il quale parla da sé – che il principio genealogico non si lascia applicare all’essere umano senza peccare contro il suo essere culturale. La prova su campione ha qui dunque splendidamente fallito.
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Capitolo 5
Il nuovo percorso della ricerca Critica riassuntiva – L’evoluzione come segnavia – Compiti e aspettative
Abbiamo descritto la disputa tra le due visioni del mondo «sulla scia del darwinismo». In effetti essa ci offre uno spettacolo bizzarro. Ogni fazione si crede in possesso della verità, senza però riuscire a convincere di ciò la parte opposta. Entrambi gli avversari credono di aver in mano delle micidiali armi affilate, ma in realtà combattono soltanto con delle spade spuntate. La scuola naturalistica può vantare il grande merito di aver dato basi incrollabili alla dottrina evoluzionistica. Ma, rinchiusa nell’idea darwiniana che l’essere umano nella sua evoluzione debba essere sottoposto agli stessi principi naturali dell’animale, si è infilata in un vicolo cieco che ha impedito il vero accesso all’essenza dell’essere umano. Dapprima, dal dato di una serie continua di gradi nell’evoluzione e dall’analogia fondamentale fra gli organi e le funzioni umani e animali, ha dedotto correttamente la provenienza animale dell’essere umano. Ricorrendo però poi erroneamente alle stesse unità argomentative anche per determinare la modalità dell’evoluzione dell’essere umano e, per un altro verso, tralasciando le autentiche testimonianze della modalità evolutiva umana – le forme del corpo e di vita unitariamente radicate nel fenomeno della cultura –, è giunta anche alla fatale deduzione dell’uguaglianza dell’essere umano e dell’animale nella loro essenza.
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La corrente opposta, impigliata nella sua stessa vita culturale spirituale, ha concepito senza esitazione, attenendosi all’antica tradizione, lo spirito umano come qualcosa di completamente nuovo in natura e su ciò ha fondato la dottrina della diversità d’essenza tra essere umano e animale. Non riuscendo però a mostrare in maniera attendibile la diversità qualitativa tra la ragione e la capacità intellettiva animale, si è messa per di più nei guai assumendo la ragione come unica manifestazione possibile dell’essenza umana. Da una parte infatti, secondo le ricerche della psicologia animale, lo spirito umano contiene molti elementi essenzialmente affini alla capacità intellettiva animale, dall’altra la ragione, nel senso stretto del termine, appartiene soltanto agli esseri umani maggiormente evoluti. La prima corrente ha considerato l’essere umano a partire dall’animale e dunque non ha visto le linee divisorie che delimitano il confine tra i due, contestandone sbrigativamente l’esistenza. La seconda corrente è partita dall’essere umano civilizzato e ha evitato di scendere, seguendo il filo dell’evoluzione, sino all’animale, per cui senza troppo esitare ha posto le linee divisorie a un livello troppo alto e dunque errato. Così entrambe le impostazioni ci devono ancora fornire la so luzione al problema dell’umano. Le nostre considerazioni critiche portano a riconoscere che la questione fondamentale sull’essenza dell’essere umano è risolvibile soltanto se riusciamo a ricondurre al loro rapporto causale i due poli evolutivi estremi, l’animale e l’essere umano culturale. Evoluzione è la parola magica che ci ha svelato il resto della natura; questa deve poterci dischiudere anche l’accesso all’umano. Attraverso la sua evoluzione l’essere umano è diventato «umano»; perciò dobbiamo concentrarci sulla modalità della sua evoluzione per desumere la qualità della sua essenza. Si tratta allora di cercare il principio evolutivo dell’essere umano, principio che per un verso deve essere com-
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pletamente estraneo all’animale, per un altro deve essersi già palesato nell’essere umano delle origini che inaugurò la pista evolutiva dell’essere umano nella stessa forma in cui appare nell’essere umano civilizzato, il quale sta all’apice dell’evoluzione. Se, come c’è da aspettarsi, il principio a capo dell’evoluzione complessiva dell’umano fosse un principio specifico e uniforme-regolare, allora potremmo cogliere l’evoluzione e, con essa, l’essere umano in quanto essere dotato di corpo e spirito; allora impareremmo a comprendere anche la relazione dell’essere umano con l’animale e la sua posizione nella natura. Il nostro compito verrebbe assolto però in maniera soltanto incompleta se non volessimo render conto anche dell’atto, appartenente alla storia del mondo [welthistorisch], della stessa ominazione, per dimostrare non soltanto la possibilità, cioè la necessità storica [geschichtlich] dell’insorgere dell’essere umano dall’animale, ma anche per esporre come, malgrado la semplicità del meccanismo, possa comparire un nuovo essere nel progetto della natura, un essere che, nonostante il suo punto di partenza dall’animale e la sua vicinanza con l’animale, non è certo più un animale, anzi, grazie al suo specifico principio evolutivo si allontana sempre più da esso, si eleva sempre più su di esso. A partire da questa nostra nuova prospettiva verrà poi fatta luce anche sulla destinazione culturale [Kulturbestimmung] dell’essere umano e sul contenuto metafisico del grande movimento evolutivo terrestre e con ciò verrà preparata, nei limiti di ciò che spetta al naturalista, la soluzione definitiva al problema dell’umano.
Parte Seconda
Il principio evolutivo dell’essere umano
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Capitolo 6
Enunciazione del principio Forma del corpo animale e forma del corpo umano – Adattamento dell’essere umano alla natura attraverso strumenti artificiali – Parallelismo tra perfezionamento dello strumento e regressione del corpo – Principio evolutivo animale e umano
L’assunto che l’evoluzione umana debba essere supportata da un principio totalmente peculiare si impone da sé a ogni osservatore scevro di pregiudizi nel momento in cui questi metta in relazione la struttura di vita dell’essere umano contemporaneo con la sua discendenza animale. La figura dell’essere umano civilizzato fuoriesce in maniera sin troppo palese dal quadro unitario del resto della natura organica perché questo stato di cose straordinario non abbia a sua volta una causa altrettanto straordinaria. Fu proprio la dottrina di Darwin a porre la nostra attenzione sulla perfetta organizzazione del corpo degli animali stimolando così, indirettamente, numerose osservazioni riguardo alla divergente configurazione del corpo umano. Con matura comprensione riconosciamo la compiutezza con cui la classe animale si è adattata alle condizioni di ciò che la circonda [Umgebung] attraverso il corpo, come la lotta per l’esistenza abbia fatto emergere le svariate operazioni [Vorrichtungen] di adattamento e protezione. Qui si trovano denti affilati, artigli, corna, aculei che servono alla difesa dai nemici oppure si trovano degli organi per fuggire rapidamente dinnanzi a essi; qui sono presenti mezzi di intimidazione o di inganno per la difesa oppure la pelle forma una dura corazza, un guscio o una conchi-
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glia nei quali in caso di pericolo l’animale si può ritirare; qui ci sono sostanze velenose, aromatiche o colorate che proteggono l’animale oppure la continuazione della specie viene invece assicurata da una fertilità illimitata, ecc. Una pelliccia folta o uno spesso strato di grasso tengono il corpo al riparo dal freddo; forti zanne permettono di fare a pezzi la carne per alimentarsi oppure ampi molari di sminuzzare i frutti; acuti organi di senso fanno percepire il nemico o la preda già a una distanza considerevole, ecc., ecc. Porterebbe troppo lontano elencare qui tutte le operazioni di difesa e resistenza dell’apparato animale. Data la notorietà della cosa è sufficiente farvi semplicemente accenno perché venga sicuramente riconosciuto che nell’ani male tutto è adattamento del corpo. Come appare diversa invece al nostro sguardo la figura del corpo dell’essere umano! Questi non possiede né potenti organi di difesa per contrapporsi a un nemico pericoloso, né una capacità di fuga sufficiente per mettersi in salvo rapidamente, né affinati organi sensoriali per percepire con anticipo il nemico, né particolari mezzi di difesa e resistenza che gli permettano di affrontare con successo la lotta per l’esistenza. L’essere umano non è neppure protetto contro il gelo dell’inverno da una pelliccia o da uno strato di grasso, né la sua dentatura è particolarmente appropriata per nutrirsi di carne cruda o di vegetali, ecc., ecc. In breve: al corpo dell’essere umano man cano tutte le garanzie necessarie per la sua sopravvivenza e per la conservazione del suo genere sulle quali può invece fare affidamento con certezza l’animale grazie al suo corpo perfettamente adattato alla natura. Un impianto del corpo così misero risulta addirittura innaturale e nell’animale è assolutamente impensabile. Un animale a cui la natura badasse in tal modo da matrigna sarebbe condannato a un declino repentino poiché non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivenza. Per questo anche i predecessori
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animali dell’essere umano non potevano essere equipaggiati in una maniera così miserabile. Altrimenti non avrebbero potuto provvedere né a loro stessi né alla prosecuzione del genere umano. Se però con il loro corpo fossero stati perfettamente adattati alla natura, come ogni altro animale, sarebbe inevitabile concludere che l’essere umano nel corso della sua evoluzione abbia in qualche modo perso queste antiche operazioni corporee di difesa. Ora però neppure l’essere umano può mai sottrarsi alla generale richiesta da parte della natura di un completo adattamento a ciò che lo circonda. Ovunque, in natura, la capacità di difesa, in particolare di adattamento all’ambiente [Umwelt], è decisiva e a questa legge di natura nella sua severità deve essere stato sottoposto sempre e dovunque anche l’essere umano. Se si sostenesse che l’essere umano nel corso della sua evoluzione avesse prima perso la sua capacità corporea di difesa per poi, in uno stato di incapacità difensiva, improvvisamente vedersi messo di fronte all’amara necessità di inventare una maniera completamente nuova di difendersi, ebbene con questa ipotesi si ribalterebbe addirittura la realtà dei fatti. Senza il precedente approntamento di un sostituto pienamente valido, il periodo di affievolimento dell’abilità corporea nella storia dell’evoluzione avrebbe significato un periodo di declino. Riconoscendo correttamente questo stato di cose alcuni autori si sono sempre rifugiati nella fantasiosa ipotesi che l’essere umano abbia soggiornato in maniera transitoria, ma proprio in questo decisivo periodo di passaggio, in un luogo privo di predatori, cioè in una sorta di «paradiso», fino a che il suo spirito non si fosse ulteriormente e potentemente formato. Ma neppure con questa fittizia ipotesi ausiliaria dell’idilliaca età paradisiaca dell’umanità delle origini riusciamo a venirne a capo. Per poter inventare un nuovo tipo di arma di fronte al sopraggiungere improvviso del pericolo, l’essere umano delle origini sarebbe dovuto essere più che intelligente, sarebbe dovuto essere
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un genio, come conseguentemente conclude Metschnikoff1. Questa è però un’idea assolutamente improbabile e dunque completamente insostenibile. Così a seguito di una corretta valutazione delle fattuali circostanze di vita e delle condizioni di esistenza sulla terra, l’unica concezione che si può avanzare è che l’essere umano in ogni fase della sua evoluzione, come l’animale, si è perfettamente adattato alla natura e si è attrezzato nel migliore dei modi per la lotta per l’esistenza. La sua attuale condizione di essere indifeso si lascia spiegare soltanto con il fatto che l’essere umano, avendo ottenuto ed essendosi assicurato la sua indispensabile abilità di difesa e la sua adeguatezza alla vita in un’altra ma niera, non abbia più avuto bisogno delle operazioni corporee di adattamento e di protezione ereditate dai suoi antenati animali e che queste quindi, per via del loro mancato uso, si siano abbandonate a una graduale regressione. La conclusione è stringente. Solo grazie all’acquisizione di altri mezzi di protezione e resistenza l’organizzazione corporea dell’essere umano ha potuto, in un secondo momento, indebolirsi2. Ora, poiché le nuove operazioni di protezione dell’essere umano non sono poste all’interno della sua corporeità non 1. Alsberg si riferisce qui alla caratterizzazione dei primi esseri umani come geniali figli di genitori antropomorfi che si trova in E. Metschnikoff, Studien über die Natur des Menschen. Eine optimistische Philosophie, Verlag von Veit & Comp., Leipzig 1904, p. 75. Cfr. anche infra, p. 180. [N.d.C.] 2. Nella prima edizione dell’Enigma dell’umano Alsberg era stato, se possibile, ancora più esplicito nel chiarire la direzione del rapporto causale che intercorre tra carenza organica e sviluppo tecnico, ribadendo a più riprese che se oggi l’essere umano ci appare fisicamente debole, ciò va inteso come il risultato di un lungo processo di progressiva disattivazione. A p. 102, ad esempio, si legge: «È stato dunque lo strumento artificiale a provocare il deperimento del corpo e non l’inverso, come oggi si crede interpretando la produzione dello strumento come conseguenza della regressione del corpo». [N.d.C.]
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possono che stare necessariamente all’esterno di esso. Sono gli strumenti artificiali ad assumersi il compito dell’adattamento alla natura al posto del corpo. Infatti, finché questo può essere accertato, troviamo sempre il genere umano in possesso di strumenti artificiali e il collegamento concettuale tra l’umano e lo strumento artificiale è diventato così stretto che anche solo il ritrovamento di strumenti di pietra primitivi lascia presupporre la presenza di esseri umani che abbiano costruito questi strumenti. Perciò dovrebbe essere corretta la supposizione che la capacità di difesa dell’essere umano sin dal principio risieda nei suoi strumenti artificiali. Vista nella prospettiva della storia dell’evoluzione, questa situazione si presenta così: con l’essere umano ha avuto luogo nell’adattamento un cambiamento re pentino dalla corporeità in direzione dello strumento artificiale. Diviene allora subito comprensibile la particolare modalità evolutiva dell’essere umano. Lo strumento artificiale è entrato «al posto» del normale equipaggiamento del corpo. Ciò che però è stato guadagnato con il mezzo di adattamento artificiale, nella stessa misura è andato perduto in qualità corporee a seguito di una minore sollecitazione del corpo. Chi ha correttamente individuato la relazione causale tra lo strumento artificiale e la regressione del corpo nell’evoluzione dell’essere umano è esentato dalla fatica, cioè dall’inutile rompicapo di cercare ipotesi artificiose per una presupposta successiva introduzione dello strumento. La concezione qui proposta, secondo la quale solamente l’utilizzo dello strumento avrebbe provocato l’arretramento del corpo, non soltanto è lineare e logicamente convincente, ma poggia anche sui dati storici che mostrano un evidente parallelismo tra il progresso tecnico e il regresso corporeo. L’essere umano dell’era glaciale di Neandertal, che era giunto alla tecnica di una grezza amigdala fatta di selce, possedeva proporzionatamente alla sua rudimentale produzione di strumenti una così possente ossatura che deve aver avuto una forza paragonabile addirittura a quella di un
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orso. Invece l’Aurignac del tardo pleistocene, già più progredito nella costruzione di strumenti, aveva una struttura ossea molto più snella. Ancora al giorno d’oggi possiamo constatare che le razze umane rimaste meno evolute dal punto di vista tecnico sotto alcuni aspetti sono dal punto di vista corporeo più possenti degli esseri umani civilizzati. La storia dell’umanità ci insegna quindi che lo stato del corpo corrisponde sempre al livello della tecnica. Perciò diciamo che lo strumento è ciò che ha influenzato il corpo in maniera decisiva e, con l’accrescersi del suo perfezionamento, ne ha diminuito sempre più la capacità di difesa. La differenza tra l’evoluzione animale e quella umana spicca dunque chiaramente. Per l’animale il corpo è tutto. L’utilizzo, lo sviluppo, l’incremento di tutto ciò che appartiene alla corporeità, gli apparati e i dispositivi utilizzabili nella lotta per l’esistenza con lo scopo di un adattamento del corpo il più possibile perfetto alle condizioni esterne sono il fine evidente dell’evoluzione animale. Perciò l’animale è oggi, a evoluzione compiuta, adattato con il suo corpo alla natura in modo così eccellente. Nell’essere umano invece l’evoluzione si muove in maniera altrettanto mirata verso l’utilizzo, il perfezionamento e la proliferazione dello strumento artificiale. Perciò «tutto attorno» all’essere umano, indipendentemente dal corpo e fuori di esso, fiorisce un regno della tecnica fondato su se stesso, mentre il corpo, esentato attraverso lo strumento dal suo compito originario di adattamento alla natura, si abbandona alla regressione. Ora capiamo perché l’essere umano e l’animale nel corso dell’evoluzione siano finiti ai poli opposti, perché nel secondo il corpo sia assolutamente completo, nel primo inabile e bisognoso: nel corso della sua evoluzione l’animale ha proseguito la for mazione del corpo; all’inverso, nel corso della sua evoluzione l’essere umano ha disattivato il corpo.
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Questo grande contrasto nell’evoluzione animale e umana ci rivela già quali siano i principi delle rispettive evoluzioni: Il principio evolutivo dell’animale è il principio dell’«adatta mento del corpo [Körperanpassung]»; il principio evolutivo dell’essere umano è quello della «disattivazione del corpo attra verso strumenti artificiali [Körperausschaltung mittels künstlicher Werkzeuge]»3. In un caso come nell’altro il precetto naturale dell’adattamento viene meticolosamente soddisfatto. L’animale effettua l’adattamento con il suo corpo, l’essere umano con i propri strumenti artificiali. L’adattamento alla natura da parte dell’essere umano accade dunque in maniera «esosomatica» [«außerkörperliche» Weise]. Così l’evoluzione animale e umana è riconducibile alla seguente formula fondamentale: L’animale sottostà al principio evolutivo dell’«adattamento cor poreo», l’essere umano a quello dell’«adattamento esosomatico».
3. I termini «ausschalten» e «Ausschaltung» sono stati introdotti nella lingua tedesca in epoca relativamente recente, negli anni Quaranta dell’Ottocento, a partire dal più antico e comune «schalten». Indicano primariamente l’interruzione del circuito elettrico che alimenta un apparecchio, ossia l’attività di spegnere un dispositivo attraverso l’interruttore, in secondo luogo indicano l’esclusione, l’attività di rendere qualcosa impossibile o di mettere fuori gioco l’azione di qualcuno. La coppia «disattivare» e «disattivazione» sembra cogliere al contempo la dinamicità del processo in gioco, il carattere secondario della negazione di un’attività già in corso e la connotazione tecnica propria del nocciolo concettuale dell’antropologia di Alsberg. [N.d.C.]
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Capitolo 7
Fondazione del principio Precedenti tentativi – La teoria dello strumento di Kapp – Organo e strumento – Superiorità materiale dello strumento – Il principio della liberazione dal corpo – Determinazione della forma del corpo attraverso lo strumento
Data l’evidenza della relazione tra i dispositivi artificiali e le necessità corporee dell’essere umano, l’idea che l’evoluzione umana debba avere il suo cardine fuori dal corpo è troppo evidente per non essere stata già da tempo individuata. Così il filosofo inglese Spencer, nella sua prosecuzione sociologica della dottrina darwinana, ha già contrapposto al principio evolutivo «organico» dell’animale il principio evolutivo «super-organico» dell’essere umano. Nell’essere umano non sarebbero, come nell’animale, gli organi a dispiegarsi, ma la società nelle forme della cultura, della scienza, ecc. Ma poiché l’evoluzione passa dai singoli alla «società», questa assume una forma «super-organica» che abbraccia tutti quei prodotti e processi che fuoriescono dall’attività coordinata dell’insieme degli esseri umani1. La dottrina di Spencer ha guadagnato un grande 1. La trattazione dei fenomeni «superorganici» in relazione all’animale è fornita da Spencer nel paragrafo 111 dei Primi principii e viene ripresa nel primo capitolo della prima parte dei Principi di sociologia, intitolato «Evoluzione super-organica». Cfr. H. Spencer, First Principles, Williams & Norgate, London 19156, pp. 254-256 e Id., Principles of Sociology, vol. 1, D. Appleton and Company, New York 19063, pp. 3-7. Per l’edizione italiana si veda Id., I primi principii, ed. a cura di M. Sacchi e G. Cattaneo, Casa Editrice «L’Arte
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credito già per il fatto di aver fornito una spiegazione del fenomeno singolare della «tradizione», ossia della trasmissione della cultura da una generazione all’altra. Al contempo però con il principio della società «super-organica» non viene ancora colto il nocciolo autentico del problema dell’evoluzione umana. Dal punto di vista corporeo l’essere umano non è affatto, come ipotizza Spencer, un «tipo fisso [Dauertypus]», ma ha invece continuato a evolvere il suo corpo nella stessa misura in cui lo ha fatto l’animale, in una direzione tuttavia completamente diversa. Perciò anche il principio evolutivo dell’essere umano non incide sulla «società», ma sul singolo individuo, proprio come quello animale. Se la cultura fosse una «regola» della società, allora anche l’animale dovrebbe possederla poiché analogamente conosce «forme sociali» autentiche. La cultura può essere definita un «prodotto» della società umana solo nella misura in cui i singoli mezzi culturali sono nati dal principio evolutivo generale della «disattivazione del corpo» e per questo motivo vengono custoditi e favoriti collettivamente da tutti gli esseri umani. Sul versante dell’«esosomatico» E. Friedrich insiste in modo più mirato sul principio dell’evoluzione umana nel suo Geo grafia economica generale e speciale. Alla costrizione della natura l’animale reagirebbe con il corpo (adattamento corporeo), mentre l’essere umano, per liberarsi dalla costrizione della natura, avrebbe una reazione esosomatica, iniziata con l’impugnare o il produrre attrezzi e strumenti (esosomatici), che prende il nome di «economia». Sin qui il principio dell’economia di Friedrich coincide magnificamente con il nostro principio dello strumento «esosomatico». Segue ora però la difficoltà di inquadrare e comprendere l’elemento spirituale di questo Bodoniana» Lorenza Rinfreschi, Piacenza 1920, in particolare pp. 250-253 e Id., Principi di sociologia, a cura di F. Ferrarotti, UTET, Torino 1987, in particolare pp. 67-72. [N.d.C.]
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principio. Con questo scopo il promettente principio dell’economia viene convertito in un «principio dell’esperienza», il cui senso sarebbe «investire esperienze nella psiche». L’umanità avrebbe così attraversato quattro stadi evolutivi, lo stadio dei «riflessi», dell’«istinto», della «tradizione» e della «scienza». Questa è ora una scala evolutiva puramente spirituale che in questa forma non è più adoperabile per distinguere la condizione umana da quella animale. Riflessi, istinto, tradizione si trovano anche nel regno animale ed è indicativo che lo stesso Friedrich si veda costretto a etichettare il più basso stadio umano come stadio «animale»2. Nonostante i suoi considerevoli tentativi, anche il filosofo francese Bergson (L’evoluzione creatrice) ha fallito di fronte alla grande difficoltà di cogliere nel principio evolutivo dell’essere umano insieme allo «strumento» anche lo «spirito». In un primo momento egli consegue una divisione di fondo tra l’animale, che «costruirebbe strumenti organici», e l’essere umano, che «realizzerebbe strumenti inorganici». Poi però riconduce questi accadimenti sotto dei principi «spirituali». Il principio essenziale dell’animale dovrebbe infatti poggiare sull’«istinto», quello dell’essere umano sulla «capacità intellettiva»3. Poiché ora istinto e capacità intellettiva si trovano in reciproca compenetrazione tanto nell’animale quanto nell’essere umano, anche solo per questo motivo non è possibile fondare su di essi la diversità d’essenza tra essere umano e animale. 2. Alsberg ricostruisce i tratti principali del capitolo «L’essere umano come il soggetto economizzante [Der Mensch als das wirtschaftende Subjekt]» di E. Friedrich, Allgemeine und spezielle Wirtschaftsgeographie, G. J. Göschen’sche Verlagshandlung, Leipzig 1904, pp. 13-55. [N.d.C.] 3. Alsberg ricostruisce qui sommariamente alcuni tratti dell’argomentazione del secondo capitolo dell’Evoluzione creatrice. Cfr. H. Bergson, L’évolution créatrice, Félix Alcan Éditeur, Paris 19084, pp. 107-202. Per l’edizione italiana si veda Id., L’evoluzione creatrice, ed. it. a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, pp. 85-154. [N.d.C.]
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Vedremo più avanti in quale fruttuosa maniera il principio dello strumento «esosomatico» riesce a ricomprendere anche gli elementi «spirituali». Tuttavia per me non c’è dubbio che per l’autentica comprensione di questo principio, il suo approfondimento e la sua conseguente realizzazione non c’è alcun impedimento se non l’erronea interpretazione del concetto di strumento utilizzata in via ipotetica a sostegno della dottrina evoluzionistica. Poiché gli «strumenti» tecnici contraddistinguono l’essere umano rispetto all’animale, ci si è sforzati il più possibile di equiparare questi strumenti con gli «organi» del corpo, i quali invece accomunano tra loro i due esseri. Già Spencer interpretò gli strumenti come «ampliamenti artificiali degli organi umani»4. Questa concezione divenne nota soprattutto attraverso i Lineamenti di una filosofia della tecnica di Kapp, dove gli strumenti vengono ricondotti addirittura al concetto di «proiezione organica»5. Il martello, come prototipo dello strumento, risulta dunque una semplice imitazione, un semplice prolungamento o rafforzamento del pugno umano. Ora una certa banale somiglianza di forma tra il martello e il pugno chiuso e allungato può essere trovata e ci si può immaginare l’effetto del martello come se il pugno fosse prolungato e rafforzato; la finzione di una «proiezione organica» può poi essere qui agevolata dal fatto che è il pugno a dirigere il martello. Ma in verità né il martello è un elemento che appartiene al pugno, né la sua prestazione, per la quale è prezioso, potrebbe essere compiuta dal pugno. È invece evidente che l’essere umano si serve del martello con la deliberata intenzione che questo esegua il lavoro «al posto della mano», cioè «disattivi» 4. Il riferimento è probabilmente a H. Spencer, Principles of Psychology, William & Norgate, London 18903, pp. 362-366. [N.d.C.] 5. Kapp discute il concetto di «proiezione organica» per poi metterlo in relazione allo strumento rispettivamente nel secondo e nel terzo capitolo dei Grundlinien einer Philosophie der Technik [1877], Stern-Verlag Janssen & Co., Düsseldorf, 1978, pp. 29-39 e pp. 40-67. [N.d.C.]
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la mano come tale. L’assurdità della teoria dello strumento kappiana diviene poi subito evidente non appena ci poniamo dinnanzi agli occhi un macchinario moderno, ad esempio una calcolatrice. Qui certamente a nessuno verrà in mente che la mano che si serve del macchinario venga «prolungata e rafforzata» o che forse sia il cervello a essere «prolungato e rafforzato» o che il macchinario sia un’«imitazione» della mano o del cervello. È invece evidente che il macchinario entra in funzione «al posto» del cervello, eseguendo il calcolo in sua vece, «disattivando» dunque proprio il cervello relativamente al calcolare. Lo strumento è un mezzo per la disattivazione del corpo; questa è la sua determinazione autentica. E raggiunge lo scopo della disattivazione del corpo perché sta fuori dal corpo. Per questo motivo, perché è «esosomatico» e agisce «al posto» del corpo, lo strumento viene definito anche come un mezzo «artificia le». A un primo sguardo potrebbe forse apparire paradossale che si parli qui di «disattivazione del corpo» sebbene il corpo entri evidentemente in «azione» con l’utilizzo dello strumento. Tuttavia, a uno sguardo più attento, diverrà chiaro che il dato di fatto della disattivazione del corpo non viene affatto sfiorato dalla partecipazione del corpo a questa attività. Lo strumento deve prima essere fabbricato e poi deve anche essere azionato, prima che possa divenire effettuale e assolvere il compito della disattivazione corporea, e il contributo del corpo riguarda solo questo, cioè la fabbricazione e l’azionamento dello strumento. Mentre la prestazione come tale alla quale si mira viene portata a termine dallo strumento autonomamente. Così, relativamente alla prestazione prevista e realizzata, il corpo è di fatto disattivato. Il livello della prestazione non viene assolutamente determinato dal grado di fatica corporea necessaria per l’azionamento dello strumento, ma dipende invece in generale dal grado di perfezione dello strumento. Non è certo privo di un notevole significato il fatto che l’ideale dell’ingegnere moderno
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sia un macchinario che lavora in maniera completamente «automatica», disattivando dunque completamente l’essere umano in relazione al suo azionamento. Ci si potrebbe chiedere perché mai l’essere umano utilizzi strumenti «al posto del corpo», se deve prima faticosamente fabbricarli e poi azionarli. Ora, l’uso di strumenti trova la sua maggiore motivazione, reale e pratica, nella grande superiorità materiale degli strumenti sugli organi del corpo. Lo strumento permette prestazioni che sarebbero impraticabili soltanto con il corpo. Per quanto l’organo del corpo migliori la sua prestazione, diventando più grande, più forte o più affilato, anche nel suo dispiegamento estremo rimane sempre fisso negli stretti confini predeterminati dalla sua struttura. Lo strumento, al contrario, può essere fabbricato con ogni possibile materiale che si trova in natura e plasmato in ogni possibile forma ed è perciò pressoché illimitato nella sua capacità di evolvere e di prestazione. Inoltre se il corpo, a seguito della sua relazione strutturale, è capace sempre soltanto di uno sviluppo unilate rale, dispiegando in maniera particolarmente acuta questa o quella facoltà specifica, ma mai tutte le facoltà insieme, lo strumento artificiale sta a disposizione dell’essere umano in quella forma e in quel materiale in maniera duratura ed è possibile impiegarlo in ogni ambito in maniera simultanea e molteplice. Il materiale che l’essere umano sceglie per i suoi strumenti condiziona spesso le specifiche prestazioni di quello strumento e deve perciò corrispondere anche alla prestazione desiderata. Il carattere di strumento (di uno strumento) come tale rimane però insensibile al tipo di materiale. Se un martello è fatto di ferro, legno o gomma è certo decisivo per la sua specifica prestazione, ma in egual modo lo caratterizza come uno «strumento». Questa determinazione apparentemente «ovvia» deve però essere fatta e tenuta ferma specialmente perché il materiale degli strumenti non deve necessariamente essere
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soltanto di natura inorganica e «solida» (ferro, pietra, vetro). Altrettanto efficacemente, a seconda della prestazione a cui si mira, il materiale può essere di provenienza organica (ossa, lana) oppure di tipo energetico (elettricità, calore, luce) oppure perfino, come vedremo, di tipo spirituale. Le precedenti «prolisse» considerazioni sullo «strumento» non potevano essere tralasciate dato che, se il principio evolutivo dell’essere umano deve essere compreso e pensato sino in fondo, il concetto di strumento va prima di tutto ripulito accuratamente dalle sue falsificazioni. Perciò io definisco «organo» una qualsiasi parte, anatomica o funzionale, appartenente alla struttura del corpo, definisco invece «strumento» un qualsiasi mezzo esosomatico (artificiale) con il quale viene perseguita una disattivazione del corpo. Secondo questa definizione rientrano nel concetto di strumento non soltanto le armi, gli attrezzi e i macchinari degli esseri umani, ma anche qualsiasi mezzo esosomatico, determinato e appropriato per disattivare in qualche modo il corpo, quindi ad esempio anche i vestiti, l’abitazione, il fuoco deliberatamente acceso, ecc. La superiorità materiale degli strumenti sugli organi del corpo deve essere stata da sempre decisiva per gli esseri umani. Già per l’essere umano delle origini l’utilizzo di strumenti deve essersi rivelato un metodo superiore, motivo per cui questi lo ha reso un dispositivo fisso e, dunque, il principio dinamico della sua evoluzione. Con il crescente perfezionamento degli strumenti la superiorità sulle facoltà del corpo deve essere cresciuta sempre più. A che serve ora all’orso la sua forza, alla lepre la sua rapidità se il fucile del cacciatore, molto più debole e lento, li abbatte con facilità? In questo modo l’utilizzo di strumenti ci si presenta sotto un’altra luce, la quale già illumina il profondo significato del principio evolutivo dell’essere umano: ponendo lo strumento più performativo al posto dell’adattamento del corpo, l’essere umano si liberò al contempo dalla naturale limi
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tatezza del suo corpo, uscì dagli stretti confini tracciati dall’adattamento del corpo ed entrò in un mondo più libero, nel quale ottenne una sua propria forma di vita e un ampio potere che lo condusse alla vittoria sull’animale e al dominio della terra. Disattivazione del corpo significa liberazione dal corpo [Körperbefreiung]6! Questo è il cuore del problema evolutivo del l’essere umano. Lo strumento artificiale infatti non è un mero «sostituto» del corpo, ma è invece un mezzo di liberazione che svincola l’essere umano dalla limitatezza naturale del corpo. In questo modo il principio della «disattivazione del corpo» si presenta come un principio della «liberazione dal corpo» e la grande opposizione tra l’evoluzione animale e quella umana trova un’espressione corrispondente al suo significato più profondo soltanto quando lo riportiamo alla seguente formula fondamentale: L’animale sta sotto il principio evolutivo della «costrizione del corpo», l’essere umano sotto quello della «liberazione dal corpo». Il singolare stato di indigenza del corpo dell’essere umano con il quale è cominciata la nostra trattazione è, come ormai possiamo affermare, il conseguente risultato della continua disattivazione del corpo fondata nel principio evolutivo. D’altra parte, l’uso di strumenti rende necessaria una peculiare partecipazio ne del corpo per la produzione o l’azionamento degli strumenti. Secondo la regola che gli organi del corpo se non vengono usati si indeboliscono e regrediscono, mentre con l’uso si rafforzano 6. L’espressione «Körperbefreiung» può significare tanto liberazione dal corpo, quanto liberazione del corpo. Nell’edizione inglese dell’opera Alsberg rinuncerà a tradurre l’espressione «Ausschaltung» e formulerà il principio dell’umano semplicemente come «the principle of body-liberation» in opposizione a quello animale della «body-compulsion» (P. Alsberg, In Quest of Man. A Biological Approach to the Problem of Man’s Place in Nature, Pergamon Press, London 1970, p. 38 e passim). [N.d.C.]
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e si formano ulteriormente, allo stesso modo anche la costante sollecitazione del corpo attraverso lo strumento deve aver provocato una reazione fisiologica, ma sul versante opposto, in direzione di un progresso. Se il principio che è stato trovato dovesse dunque essere proprio il principio evolutivo dell’essere umano che si stava cercando, allora nella forma del corpo umano si dovranno trovare, come conseguente reazione all’uso di strumenti, accanto alle manifestazioni di regressione accertate anche le rispettive nuove acquisizioni di tipo progressivo. Ed è senza dubbio così. Si consideri quindi la mano umana, sulla quale lo strumento tecnico è prevalentemente improntato. Dobbiamo supporre che la celebrata perfezione di questo «organo degli organi» non sia affatto uno stadio originario, ma acquisito. Se compariamo la mano dell’essere umano con quella della scimmia, già al primo sguardo risulta evidente il carattere progredito della sua formazione. Di ciò parleremo ancora più avanti in maniera più dettagliata. Qui si accenni per ora soltanto all’allungarsi e rafforzarsi del pollice e all’accorciarsi della membrana interdigitale con cui il pollice e le altre dita ottengono possibilità funzionali completamente diverse e che hanno procurato alla mano la sua attuale grande destrezza e versatilità nell’uso dello strumento. In ogni caso deve però essere chiaro che qui il concetto di «perfezione» ha legittimità soltanto in relazione allo strumento. Perché in relazione ad altro, ad esempio in relazione alla capacità originaria di brachiazione, anche la mano si è abbandonata alla generale regressione corporea e da lungo tempo non è più così abile in questa funzione come lo è invece la mano di una scimmia. Un altro organo con un’evidente tendenza progressiva è il piede d’appoggio dell’essere umano, che deve il suo insorgere all’andatura eretta. A giudicare dal fatto che discende dalla scimmia, l’essere umano possedeva originariamente un piede adatto alla brachiazione. Con il perfezionamento nell’uso di strumenti l’essere umano è andato acquisendo l’andatura eretta, trasformando il piede
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in un solido organo d’appoggio. Anche il piede d’appoggio va però indicato come un’acquisizione progressiva soltanto in relazione all’uso di strumenti; per quanto riguarda la sua capacità originaria di arrampicarsi l’essere umano ha subito al contempo una perdita altrettanto forte. Infine, si faccia ancora un accenno alla caratteristica formazione di un mento, alla specializzazione dell’organo del linguaggio e all’enorme dispiegamento del cer vello, tutte acquisizioni progressive che, come vedremo, sono in un rapporto originario con l’uso di strumenti. La forma del corpo umano si rivela così come una regolata mescolanza di formazioni regredienti e progredienti. Nella sua dipendenza monocausale dallo strumento questa mescolanza è però la migliore dimostrazione che si possa pensare per la nostra affermazione che l’evoluzione umana è stata unicamen te determinata dallo strumento. Dopo che il principio è stato dedotto dalla forma del corpo umano, sarà ora nostro compito cercarlo anche nella forma di vita dell’essere umano. Perché bisogna pretendere che da esso sia possibile dedurre, in quanto principio evolutivo unitario e generale, l’intera ricchezza della vita in tutte le sue manifestazioni culturali. Solo allora verrà raggiunta la certezza e verrà conclusa la dimostrazione che l’evoluzione culturale, unica e grandiosa, del genere umano poggia soltanto sull’efficacia e il dispiegamento di questo principio. Il principio deve tuttavia limitarsi all’essere umano, deve cioè essere completamente estraneo all’evoluzione animale se deve dimostrarsi il «principio dell’umano» nel vero senso della parola.
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Capitolo 8
La tecnica dell’essere umano Il principio della liberazione dal corpo nella tecnica – Lo strumento come un mezzo della «compensazione» – Unità della tecnica
Per quanto riguarda la tecnica il principio ha già superato la prova del fuoco nell’esposizione precedente. Qualunque sia il dispositivo tecnico dell’essere umano civilizzato sul quale cade il nostro sguardo, ovunque spicca la medesima tendenza alla «liberazione dal corpo». Con i più diversi tipi di utensili disattiviamo la mano, con gli autoveicoli le gambe, con le calcolatrici il cervello. Abitiamo in solidi edifici che in estate offrono refrigerio e in inverno vengono scaldati con impianti termici, portiamo vestiti, pellicce, scarpe adeguati alle diverse temperature dell’anno, utilizziamo ombrelli da sole e da pioggia, ecc. Perché tutto ciò? Perché, come si è soliti dire, vogliamo «proteggere» il corpo dagli agenti esterni. Questa è però solo una perifrasi del fatto che noi «disattiviamo» il corpo dall’adattamento alle condizioni esterne. Un metodo potrebbe essere quello di proteggere il corpo stesso da ogni possibile condizione climatica, ad esempio con lo sviluppo di uno strato di grasso, di una folta pelliccia, ecc. È il metodo adottato dall’animale e rimane entro confini ristretti. L’altro metodo è quello di liberare il corpo dalla necessità dell’adattamento per ottenere quest’ultimo con mezzi artificiali, con gli «strumenti». È il metodo adottato dagli esseri umani e porta a prestazioni illimitate. Con l’aereo attraversiamo i cieli senza esserci fatti crescere le ali; con la nave attra-
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versiamo l’oceano senza possedere pinne, con il sommergibile scendiamo nelle profondità del mare senza avere le branchie, con il telefono parliamo da un paese all’altro senza dispiegare organi adatti a gridare così lontano, con il cannocchiale penetriamo negli universi di stelle senza aver acquisito l’acutezza necessaria nella vista. Il fatto della liberazione dal corpo viene spesso espresso così: attraverso la tecnica, noi umani vogliamo operare una compen sazione artificiale della nostra inferiorità corporea. Di fatto, al giorno d’oggi, accade spesso che lo strumento venga in aiuto proprio dei bisogni del corpo. La «compensazione» non può però essere interpretata come se la tecnica fosse stata creata sin dall’inizio per questo scopo. All’inverso, l’indigenza del corpo è invece, come abbiamo visto, proprio un effetto storicoevolutivo dell’uso di strumenti. Per via delle ripercussioni del suo principio evolutivo sul suo corpo, l’essere umano è caduto gradualmente e in maniera sempre più profonda in una dipen denza forzata dallo strumento, tanto che certamente oggi (ma già in precedenza) non sarebbe più capace di esistere senza la tecnica. È il suo tracciato evolutivo a fargli approntare mezzi artificiali anche lì dove la carenza [Mangel] del corpo è sorta attraverso altri fattori causali, come malformazioni, malattie o incidenti: la miopia viene «compensata» con gli occhiali, la perdita di una gamba con una protesi, l’impossibilità per una madre di allattare con un estrattore di Soxhlet, la mancanza di formazione di antitossine con un siero, ecc. Poiché così anche le carenze personali costitutive possono essere trasmesse ereditariamente senza ostacoli ai posteri, la dipendenza dell’essere umano civilizzato dalla tecnica non può che aumentare. In ogni operazione artificiale il principio guida rimane però sempre lo stesso, ossia la liberazione del corpo attraverso gli strumenti dalla costrizione all’autoadattamento. Al contempo la superiorità materiale degli strumenti può mettere a segno un adattamento persino se le facoltà corporee ci piantano com-
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pletamente in asso. Un mammifero non «normalmente senziente» o che avesse subito la perdita di un organo necessario per l’esistenza sarebbe irrimediabilmente perduto, così come lo sarebbero i suoi cuccioli se venisse meno alla madre la capacità di allattarli. L’essere umano invece è capace di esistere grazie agli strumenti. Anche se la moderna vita culturale dal punto di vista tecnico sembra influenzarci in maniera impressionante, in essa e dietro di essa c’è solamente il principio poco appariscente della liberazione dal corpo limitato dalla natura, il principio dell’adat tamento alla natura attraverso la maggiore performatività dello strumento. Infatti non c’è alcun prodotto tecnico che, in qualche misura, non contribuisca alla liberazione dal corpo e quotidianamente, per lo stesso scopo, vengono concepiti e messi sul mercato centinaia di nuovi mezzi. La spinta al perfezionamento e alla moltiplicazione degli strumenti deve essere innata nell’essere umano, altrimenti non si spiega l’enorme slancio e il continuo progresso della tecnica. Poiché dunque la tecnica mira sempre alla liberazione dal corpo, non incapperemo più nella precedente generalizzazione del concetto di strumento. In linea di massima è lo stesso se tengo caldo il corpo con il fuoco del camino o con una pelliccia o con una boule elettrica. In un caso come nell’altro utilizzo un mezzo esosomatico con lo scopo di liberare il corpo dalla costrizione dell’autoadattamento, cioè utilizzo uno «strumento». Riguardo a ciò è poco significativo quanto in là si spinga la liberazione dal corpo nei singoli casi. Se taglio una mela con il coltello, la disattivazione del corpo è ancora minima perché con il coltello viene risparmiato alla dentatura un lavoro minimo. Se però taglio la carne e la metto sul fuoco affinché diventi più tenera, con questa preparazione artificiale disattivo già in misura considerevole la dentatura. Perché senza questa tecnica sarebbe stata necessaria la dentatura di un predatore per nutrirsi di carne cruda. Se mi preparo un morbido purè, la disattivo completamente. Se scompongo
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completamente gli alimenti in maniera artificiale (chimica), come in alcuni preparati per infanti o malati, disattivo il corpo addirittura in una parte della sua attività digestiva. In un caso l’essere umano aspira a una limitata disattivazione del corpo, nell’altro a una maggiore. Il principio rimane lo stesso. Così il principio della liberazione dal corpo celebra il suo più grande trionfo nella tecnica moderna. Questo è quanto ci eravamo proposti di dimostrare. Ma la tecnica non è un privilegio del nostro tempo; l’essere umano civilizzato ha invece semplicemente continuato a costruire su ciò che avevano cominciato a preparare le generazioni precedenti e le più antiche. Da sempre lo strumento ha dominato la vita dell’essere umano. Una volta entrato a far parte saldamente del patrimonio dell’uma no, si è lavorato con zelante fervore al suo perfezionamento. L’amigdala dell’essere umano dell’era glaciale proveniente dalla valle di Neander, ricavata in maniera ancora estremamente grezza da un blocco di selce, per allora era certamente già una prestazione tecnica d’alto rango. Quanta fatica hanno dovuto fare generazioni di esseri umani per realizzare l’affilatura dei bordi a regola d’arte! Quella che muoveva l’umanità delle origini è la stessa inestinguibile spinta che ancora oggi anima l’umanità, la stessa che già muoveva l’umanità delle origini a un ampliamento sempre maggiore della sua produzione di strumenti. Ma ciò a cui il Neandertal aspirava con l’aiuto del suo ancora primitivo cuneo di pietra, la liberazione dal corpo attraverso lo strumento più performativo, l’essere umano civilizzato lo ottiene con lo splendido sfoggio di moderne fabbriche e di un’immensa quantità di prodotti tecnici.
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Capitolo 9
Il linguaggio dell’essere umano La parola e il suo oggetto – La natura di strumento della parola – Retroeffetto del linguaggio sulla formazione del corpo
Il fenomeno della cultura non si limita soltanto alla tecnica, ma comprende anche «i beni spirituali» dell’essere umano. La vita culturale ha luogo in un’atmosfera «completamente spiritualizzata» e, nonostante l’elevato livello della tecnica, sono proprio i valori spirituali a essere maggiormente apprezzati. E certamente anche la tecnica moderna non sarebbe neppure immaginabile senza la partecipazione significativa di una facoltà spirituale altamente evoluta. Ora perlomeno può essere chiaro che nella tecnica è attivo il principio della liberazione dal corpo. Certo la tecnica si basa su solidi strumenti tangibili con i quali facilmente si mette a segno una disattivazione del corpo. Ma come si comporta questo principio con l’essenza spirituale dell’essere umano? Gli elementi spirituali non sono forse qualcosa di completamente altro rispetto agli strumenti tecnici? In che modo gli aspetti spirituali possono essere ricondotti a un denominatore comune con la tecnica, con lo «strumento artificiale»? Ponendoci queste domande ci troviamo nel cuore della difficile questione sulla quale, come si è visto, precedenti tentativi analoghi hanno fallito. Se il principio dello strumento [Werkzeugprinzip], il principio della liberazione dal corpo, fos-
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se realmente il principio evolutivo dell’umano, allora dovrebbe necessariamente palesarsi tanto nella tecnica, quanto nei beni culturali spirituali. A un primo sguardo ciò sembra improbabile. Eppure ritroveremo anche qui il principio comune, una volta intrapreso il compito inusuale di trattarne gli elementi fondamentali dalla prospettiva dello strumento. Rivolgiamoci prima di tutto al linguaggio umano. Riconosciamo facilmente ciò che significa e ciò a cui mira il linguaggio se apriamo un libro, magari la descrizione di un viaggio. La lettura ci conduce in un paese straniero nel quale non abbiamo mai messo piede, né l’abbiamo visto con i nostri occhi. Eppure la descrizione variopinta risveglia in noi una rappresentazione plastica di questo paese, della natura del suo suolo, del suo clima, con il suo mondo vegetale e animale, con gli esseri umani che lo abitano e i loro costumi. Ciò significa quindi che il linguaggio ci trasmette tutte le possibili conoscenze, esperienze, vissuti che non abbiamo fatto con il nostro proprio corpo [Leib]. Tutti i giornali, tutti i libri, tutti i colloqui ampliano le nostre conoscenze in questa direzione, fanno svolgere davanti ai nostri «occhi spirituali» eventi che noi stessi non abbiamo vissuto. Questo è un fatto così comune nel quotidiano che non ci rendiamo veramente conto di quanto sia curioso. Dopotutto però è anche sufficientemente bizzarro che il linguaggio ci faccia pervenire a delle rappresentazioni che, di per sé, presuppongono una percezione personale e che potrebbero essere ottenute per via «naturale» soltanto attraverso i nostri organi di senso. La soluzione all’enigma è da individuare nel fatto che il linguaggio si compone di singole parole e ciascuna di queste parole designa un determinato oggetto. La parola non è questo stesso oggetto e neppure effettua una percezione «reale» dell’oggetto. Non è altro che un segno «convenzionale» per il suo oggetto; tuttavia come tale ha la facoltà di destare in noi una rappresen tazione «mentale [gedanklich]» dell’oggetto inteso. Se dunque,
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per esempio, viene pronunciata la parola per il mio «cane», io in verità non vedo il mio cane; nondimeno compare in me «spiritualmente» la sua figura. Non è necessario tematizzare qui i fondamenti psicologici di questo accadere. A ogni modo la parola, come «segno» per un determinato oggetto, riesce a portare in noi questo oggetto «inteso» sotto forma di rappresentazione intuitiva. Ora nella vita pratica questa «prestazione» della parola ha un significato straordinario. La rappresentazione mentale dell’oggetto, così come questa viene veicolata dalla parola, ha infatti per i nostri bisogni e scopi quotidiani un effetto di utilità simile a quello che avremmo se vedessimo l’oggetto stesso. Se percepisco con i miei occhi che la mia abitazione sta andando a fuoco o se apprendo ciò attraverso una comunicazione, in un caso come nell’altro vengo a conoscenza dell’accaduto e agisco di conseguenza. La parola, come segno per il suo oggetto, può così esentarci nella vita pratica dall’intuizione reale dell’oggetto. Qui la rappresentazione dell’oggetto (veicolata dalla parola) subentra al posto della percezione personale dell’oggetto. Il rapporto del linguaggio con il principio della liberazione dal corpo diviene già perspicuo. La natura ha dotato il corpo di un apparato sensoriale per procurargli, attraverso di esso, a suo beneficio e per la sua prosperità, la conoscenza dei fattori ambientali utili o nocivi, che dunque promuovono o mettono in pericolo la vita; per un altro verso ha predisposto il corpo a poter fare esperienze esclusivamente con i sensi. Eppure l’essere umano, grazie al linguaggio, è in grado di pervenire all’esperienza anche senza il vissuto personale (percepire). Perché pone «al posto» dell’oggetto (o meglio, della percezione dell’oggetto) la parola (o meglio, la rappresentazione dell’oggetto veicolata dalla parola). Come con un filo, attraverso la «parola» l’essere umano riesce, a sua discrezione, in ogni momento e in ogni occasione, a tirare l’oggetto inteso nel suo ambito rappresentativo.
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Così si comprende il cuore del problema del linguaggio: Con la parola che compare al posto dell’oggetto l’essere umano disattiva la propria percezione, ossia i propri organi di senso come parte della sua corporeità. Così anche il linguaggio è al servizio del principio evolutivo della liberazione dal corpo e la parola, attraverso la quale viene effettuata la disattivazione del corpo, rientra nella serie degli strumenti artificiali che l’essere umano si è creato perseguendo il suo principio evolutivo. Con il linguaggio l’essere umano si libera dalla limitazione naturale degli organi di senso, i quali, per quanto possano essere acuti, rimangono certo riferiti al proprio vissuto e, perciò, allo stretto ritaglio di presente che da essi si dispiega. La parola porta invece alla rappresentazione qualsiasi oggetto, vicino o lontano, presente o meno. Attraversando spazio e tempo, fa uscire l’essere umano dall’ambito ristretto della propria esperienza nell’ampio spazio dell’esperire ogni cosa [des Alleserfahrens], lontano dal proprio vissuto. È l’inestimabile superiorità materiale di tutti gli strumenti sugli organi del corpo a manifestarsi anche qui, nuovamente, nella sorprendente prestazione della parola. L’autentica natura di strumento della parola è rimasta sino a oggi nascosta perché si è rivolta l’attenzione solamente al processo funzionale del «parlare», secondo l’opinione preconcetta che il linguaggio non sia nient’altro che una facoltà funzionale dell’essere umano. Non si è tenuto conto del fatto che la parola, quando viene «pronunciata», non si forma certo in quell’istante, ma esiste già da tempo e anche solo per questo motivo non può essere una mera funzione dell’organo del linguaggio. Inoltra si è sorvolato senza esitazioni sul fatto evidente che la parola non deve essere necessariamente «pronunciata», ma può benissimo essere scritta o stampata e compare dunque su carta come un’opera altamente «materiale» che – come gli eoliti – può essere «disseppellito» anche dopo secoli. Nella prospettiva
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della «funzione del corpo» ciò dovrebbe apparire addirittura contraddittorio, mentre nella prospettiva dello «strumento» diviene subito chiaro che pronunciare, scrivere o stampare la parola non è altro che il suo «azionamento». Come ogni strumento «tecnico», la parola, una volta formata, deve anche essere messa in azione affinché possa fornire la sua prestazione di rappresentazione dell’oggetto. Anche il fatto che la parola debba essere «intesa» non costituisce alcuna differenza sostanziale con lo strumento tecnico che altresì deve essere conosciuto, per costruzione e scopo, al fine di essere utilizzato in maniera sensata. Ciò vale soprattutto per gli strumenti già pronti e qui viene provato ancora una volta il carattere di strumento della parola, poiché questa, come la maggior parte degli strumenti tecnici, normalmente non viene coniata in proprio, ma viene trasmessa («appresa») come «prodotto già pronto». Una funzione corporea mai sarebbe trasmissibile. Come funzione corporea la parola dovrebbe accompagnare l’essere umano nella tomba. Ma riesce invece a sopravvivere perfino al declino di un intero popolo (le cosiddette lingue «morte»). Infine, anche il fatto che, nell’umanità, nonostante l’affinità della costituzione del corpo e dunque anche delle funzioni, esistano centinaia di lingue adduce un’ulteriore testimonianza a favore della natura non-funzionale (esosomatica) della parola. Se il linguaggio fosse una mera funzione dei suoi organi, sarebbe anche difficile concepire che nell’umanità si trovino lingue differenti, tantomeno che un singolo essere umano possa parlarne più di una. L’artificialità della parola è assolutamente evidente. Ma la parola non è forse un prodotto spirituale? Come può allora essere di natura non-funzionale? Certamente la parola si costituisce sul collegamento tra idea e oggetto, è perciò un vero «prodotto dell’associazione». Ma, come mostrato in precedenza, il materiale di costruzione, di qualunque tipo esso sia, non tocca mai il carattere di strumento di uno strumento come tale, condiziona invece semplicemente la specifica prestazione dello strumen-
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to. Nella parola non è diverso che nello strumento tecnico. Ciò che la parola in quanto «parola», in quanto «strumento», permette, ossia la rappresentazione dell’oggetto al posto della percezione diretta dello stesso, essa lo deve proprio alla natura associativa del suo materiale di costruzione. Prestazione e materiale sono qui congruenti, all’incirca come la specifica prestazione di una lente ottica coincide con la particolarità del vetro levigato. Nella parola la «spiritualità» della costruzione (e della corrispondente prestazione specifica) implica soltanto la sua caratterizzazione in quanto strumento «spirituale». Diciamo quindi: per la provenienza del suo materiale la parola è un «prodotto cerebrale» e deve anche esserlo in relazione alla prestazione che con essa si vuole ottenere; ma la parola già pronta, nonostante la sua costruzione spirituale, rappresenta un’opera autonoma, svincolata dalla funzione cerebrale. Per tornare ancora al confronto con gli strumenti tecnici, un martello di legno è e rimane sempre «prodotto dall’albero». Una volta finito, però, non è più un «albero» né una parte costitutiva di esso, è invece uno strumento indipendente, esistente e operante di per sé, che non rinnegherà mai il suo «essere di legno», ma lo mostrerà chiaramente nella sua specifica prestazione. Se si distingue fermamente tra costruzione della parola e parola già pronta, non si incapperà più nella «spiritualità» del suo materiale, ma si prenderà la parola per ciò che essa rappresenta in verità: un’opera sì condizionata psichicamente e da spiegare psicologicamente, ma certo oggettuale e liberamente esistente, che percorre autonomamente il suo cammino evolutivo e ha il suo proprio ambito effettuale nel linguaggio e nella scrittura. L’unica differenza della parola (considerata come strumento) rispetto allo strumento tecnico sta nel fatto che con la parola viene presentata di nuovo anche la «materia prima» della funzione del corpo – un contributo aggiuntivo irrilevante per il carattere di strumento in quanto tale, ma altamente rilevante invece per la specifica prestazione dello strumento. Inoltre
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questa differenza diviene ancor meno significativa se si pensa che la parola, normalmente, non viene formata da coloro che la utilizzano, ma viene trasmessa già pronta – la formazione autonoma delle parole, come la costruzione dei macchinari, è riservata soltanto a pochi esseri umani – cosicché la maggior parte degli esseri umani sono esclusi dall’intero processo di formazione funzionale (psichico) della parola. Sulla natura esosomatica (non-funzionale) della parola già pronta non può esserci ora alcun dubbio. Infatti nel linguaggio le cose sono molto simili a quelle della tecnica. Qui come lì sono gli «strumenti» a essere ricevuti e usati da ciascuno e a esistere in maniera completamente indipendente dai singoli esseri umani. Qui come lì c’è un regno completamente autonomo, staccato dal corpo, esistente di per sé, che sorge «tutt’attorno» all’essere umano e a partire da se stesso spinge all’evoluzione, secondo le sue proprie leggi, con la sua propria dinamica. Entrambi i regni vengono ulteriormente ampliati da ogni successiva generazione di esseri umani e, al declino di un popolo, costituiscono la sua eredità assolutamente materiale. Il parallelismo tra tecnica e linguaggio è così chiaro perché in entrambi gli ambiti è attivo e si dispiega lo stesso principio della liberazione dal corpo, il quale, con la creazione del linguaggio, si estende anche alle forze spirituali dell’essere umano utilizzandole come materiale di costruzione per gli strumenti e in questo modo conquista un’area di efficacia completamente nuova. Anche il linguaggio è cresciuto dai suoi primitivi inizi alla sua attuale levatura culturale e mostra così anch’esso, da parte sua, il principio della liberazione dal corpo come il «principio evolutivo dell’umano». Infine dovremo aspettarci che, come la tecnica, anche il linguaggio in quanto «facoltà dello strumento» abbia duplicemente influito sulla formazione del corpo umano: sia in modo regressivo, lì dove ha «disattivato» il corpo, sia in direzione progressiva, lì dove per la sua costru zione e per il suo azionamento si è allacciato alla funzione del
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corpo. La parte del corpo che viene disattivata sono gli organi di senso. Poiché questi hanno subito una notevole evoluzione regressiva, potrebbe infatti essere legittima la supposizione che il loro ottundimento sia almeno parzialmente da ricondurre all’acquisizione del linguaggio. Nell’ottica di un processo in direzione progressiva la formazione del mento umano è stata messa in rapporto causale con il linguaggio. Anche la muscolatura della lingua, come l’intero «apparato fonatorio» hanno senza dubbio esperito mutamenti di tipo progressivo. Soprattutto però dobbiamo supporre che il linguaggio abbia esercitato un potente stimolo per il dispiegamento del cervello. Lo strumento tecnico nella sua fabbricazione e nel suo impiego potrà anche aver indotto gli esseri umani alla riflessione sollecitando la crescita del cervello, ma certamente la parola, in quanto strumento creato e mantenuto in esercizio dallo spirito, deve aver occupato l’attività cerebrale in maniera incomparabilmente più intensa e aver conseguentemente stimolato il dispiegamento spirituale dell’essere umano, tanto più che solo l’introduzione del linguaggio ha reso possibile fissare e scambiare pensieri.
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Capitolo 10
La ragione dell’essere umano La determinazione fondamentale della ragione secondo Schopenhauer – L’astrazione – Natura di strumento dei concetti – Intelletto [Verstand] e ragione [Vernunft] – Retroeffetto della ragione sulla formazione del corpo
Il processo evolutivo del linguaggio non è ancora stato completamente colto nella misura in cui le nostre lingue civilizzate non sono più composte da termini puramente «concreti», cioè da termini che indicano un solo oggetto determinato. Forse soltanto i nomi propri sono ancora di questo tipo, la maggior parte degli altri termini sono diventati «astratti», ossia sono diventati concetti. Come alcune lingue primitive lasciano ancora intravedere, una lingua composta soltanto da termini concreti è troppo goffa per adeguarsi alla molteplicità e policromia degli eventi che ci incalzano e per poter stare al passo di una maggiore vivacità del pensiero. Solamente con l’introduzione dei termini concettuali la lingua si è innalzata al suo attuale livello culturale nella facoltà di comunicare e di esprimersi. È la ragione ciò che si manifesta nel linguaggio e con il linguaggio. Se vogliamo indagare quale relazione intercorre tra la ragione, come il più evidente segno identificativo della vita culturale più elevata, e il principio umano della liberazione dal corpo, allora dobbiamo prima di tutto fare chiarezza su che cosa mai rappresenti la «ragione» nel senso proprio del termine. La psicologia moderna, pur mirando all’analisi delle facoltà spirituali dell’essere umano, non ci dà alcuna informazione in proposito.
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Rifacendosi alla dottrina evoluzionistica si ritiene che la ragione sia un grado superiore dell’intelletto riconducendo così senz’altro la «ragione» all’«intelletto». Nei moderni manuali di psicologia difficilmente si trova ancora il termine «ragione». Ma questa non è una soluzione, piuttosto un modo per soffocare il problema. L’essere umano ha invece tanto l’intelletto quanto la ragione e la separazione delle due facoltà deve essere definita con urgenza dal momento che la ragione è estranea all’animale e rappresenta una facoltà puramente umana. Un confronto sostanziale sull’essenza della ragione e la sua limitazione nei confronti dell’intelletto lo dobbiamo al filosofo tedesco Schopenhauer. Nella sua indagine rivolta ai principi delle due facoltà spirituali fondamentali dell’essere umano giunse alla constatazione, al contempo semplice e illuminante, che ogni intuizione immediata scaturisce dall’attività dell’intelletto, mentre ogni conoscenza mediata concettuale è opera della ragione. L’intelletto trasforma la mera sensazione dei sensi in intuizione e soltanto attraverso questa riconosciamo e comprendiamo ciò che viene intuito immediatamente; per mezzo dell’astrazione la ragione traspone ciò che viene intuito con l’intelletto in coscienza riflessa. Se l’astrazione è il principio che risiede tanto nel più basso concetto quanto nell’idea più elevata, il concetto, come il «più semplice elemento del pensiero», è invece ciò su cui poggia il pensiero nella sua interezza. Anche se la ragione gioca dunque un ruolo superiore nella vita culturale spirituale poiché ogni avvedutezza [Besonnenheit], ogni grandezza interna o esterna dell’essere umano proviene da essa, il suo ultimo e più semplice elemento fondamentale è il concetto ottenuto per astrazione. La terminologia di Schopenhauer conquista una radicale delimitazione delle due facoltà spirituali umane, senza che venga colta però con essa la vera differenza essenziale tra l’intelletto e la ragione. Qui incomincia la nostra nuova indagine. Pri-
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ma di tutto ci chiediamo: Che cos’è un «concetto»? Che cos’è l’«astrazione»? Un concetto viene formato in questa maniera: da un numero indeterminato di oggetti che concordano in almeno una relazione, il segno distintivo comune a tutti questi oggetti viene estratto con il pensiero e fissato per sé solo. Così ad esempio il concetto di «bianco» insorge nel pensiero estrapolando da tutti i possibili oggetti – di per sé diversi ma collegati tra loro dallo stesso colore, come cigno, gesso, neve, alabastro, latte – questo colore (sensazione del colore) che essi hanno in comune. Chiamiamo astrazione la pratica di questa attività spirituale della selezione del segno distintivo comune. Ora questo dell’astrazione è un caso a sé. In natura infatti non c’è alcun «bianco» di per sé, ma soltanto oggetti dall’aspetto «bianco». Quando perciò l’essere umano forma attraverso l’astrazione il concetto di «bianco», fa qualcosa di veramente precipuo: spezza violentemente – estraendo il segno distintivo comune dalle sue connessioni naturali – le immagini intuitive complesse degli oggetti così come la natura le offre e la conseguenza è che gli rimane qualcosa di completamente nonintuitivo1. Se dunque il «concetto», come prodotto dell’atto di
1. Il «bianco» non si lascia mai «intuire» di per sé, ma solo in connessione con i suoi oggetti. Anche la più semplice «rappresentazione astratta» (concetto) è completamente non-intuitiva e deve esserlo, perché risulta dall’atto di astrazione. Un «triangolo» che non è né acutangolo – né ottusangolo – né rettangolo, ma che restituisce semplicemente il concetto di «figura limitata su tre lati» e che ricomprende dunque egualmente tutti i possibili triangoli, non è più intuibile. Tantomeno è possibile rappresentare intuitivamente una «rosa» che non sia né gialla né rossa né bianca oppure un albero che non sia né un abete né un faggio né una betulla, ecc. Ciononostante, se tentiamo di ricavare da una rappresentazione astratta un contenuto intuitivo, emergono in noi certo solamente le singole rappresentazioni degli oggetti sui quali essa si basa, quindi questo o quello specifico triangolo, questa o quella
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astrazione, non può più essere rappresentato intuitivamente, ma può essere solamente «pensato», allora deve proprio alla sua non-intuitività il suo ampio campo d’azione. Solamente grazie a essa infatti è possibile per il concetto abbracciare un così grande numero di oggetti base, altrimenti completamente differenti e concordanti solamente in uno o in alcuni punti. In sé il «concetto» ha come contenuto soltanto la loro «caratteristica comune». Poiché però questa è una parte costitutiva o una proprietà dei singoli oggetti base e perciò rimane insolubilmente catturata in essi, allora il concetto deve agguantare insieme al segno distintivo comune anche gli oggetti base collegati inscindibilmente a essa. Così con il concetto di «rosa» ho in mano tutte le specie e tutti gli esemplari di rosa. Solo ora comprendiamo quale percorso sensato ed efficace rappresenti l’astrazione: estraendo da una serie di oggetti ciò che è «comune», pone al posto dei tanti oggetti un’unica opera di pensiero, il concetto, che fissa ciò che è loro comune e al contempo agguanta gli oggetti con le redini di questa loro comunanza. Ormai capiamo anche come mai l’essere umano, sebbene possa percepire il variopinto mondo delle cose e delle datità con i suoi organi di senso in maniera soltanto intuitiva, ciascuna cosa per sé, sia potuto pervenire a un sistema unitario, configurato panoramicamente da sovraordinazioni e subordinazioni, afferrando così spiritualmente le connessioni del mondo. L’essere umano ha messo «al posto» delle cose intuitivamente percepibili il concetto non-intuitivo che gli è servito da appiglio specifica rosa, ecc. La stessa rappresentazione astratta rimane non-intuitiva e per questo motivo non si lascia più «rappresentare», ma solo «pensare». Perciò essa sarebbe una cosa del pensiero [Gedankending] completamente inconcepibile, facilmente cancellabile e smarribile se l’evoluzione naturale non le avesse dato nella lingua un appoggio afferrabile con i sensi [sinnlich- greifbar]. Con il suo ancoraggio nella lingua la rappresentazione astratta è certamente divenuta un mezzo altamente utilizzabile, ciò che noi chiamiamo un «concetto [Begriff]» nel senso proprio del termine.
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pratico per inserire, come perle, tutte le innumerevoli percezioni singole nel filo delle loro concordanze, unendole così in regolate concatenazioni. Con questa cognizione siamo penetrati sino al nocciolo della questione del concetto: il concetto si pone al posto dei suoi og getti base, o meglio, della percezione degli stessi. Così anche il concetto si rivela uno «strumento», un mezzo artificiale per la liberazione dal corpo. Come per il linguaggio, anche qui sono gli organi di senso a essere disattivati. Certo nel concetto la liberazione dalla limitatezza naturale degli organi di senso è essenzialmente differente. La parola (concreta) disattiva gli organi di senso relativamente alla percezione di un singolo oggetto, il concetto (astratto) relativamente alla percezione di tutti gli oggetti collegati da un segno distintivo comune. Il concetto è così lo strumento più comprensivo, motivo per cui, nell’uso della lingua, ha limitato sempre più la parola «concreta». Ma nonostante il legame, dato dalla storia dell’evoluzione, del concetto con la «parola» e il carattere (divenuto) concettuale della nostra lingua, la differenza essenziale tra parola e concetto è sempre verificabile: dove una parola si riferisce a un preciso oggetto singolo, essa compare al posto di questo oggetto e veicola una rappresentazione intuitiva di esso; dove invece una parola compare come «concetto», essa si pone al posto di tutti gli oggetti ricompresi dal concetto ed è non-intuitiva. Nella straordinaria prestazione dei concetti di ricondurre sensatamente all’ordine, all’unità, sotto controllo, tutta l’incoerenza, la pluralità, l’immensità che si trova nella natura si fa nuovamente valere la potente superiorità materiale di tutti gli strumenti artificiali sulle possibilità corporee. Che il concetto quindi, anche se può essere solo pensato, non sia affatto un vissuto «psichico» (fisico-funzionale), ma si presenti invece come un’opera artificiale ed esosomatica, dovrebbe essere di facile comprensione dopo la nostra coerente tratta
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zione dell’essenza del linguaggio. Prima di tutto anche qui dobbiamo differenziare in maniera precisa i concetti già pronti, in quanto «strumenti», e la formazione e l’azionamento dei concetti, in quanto prestazioni fisico-funzionali. La «materia prima» dei concetti (rappresentazione degli oggetti e della loro caratteristica comune) proviene sempre dalla nostra funzione cerebrale, è perciò di tipo «spirituale» e caratterizza allo stesso modo il concetto come strumento spirituale. Anche la formazione dei concetti (astrazione) così come il loro «azionamento» poggiano su funzioni cerebrali, cioè su tutte quelle attività spirituali attraverso le quali i concetti vengono ricondotti a concetti più alti o collegati in giudizi o organizzati in deduzioni. Ma anche il pensare i concetti fa parte del loro «azionamento» (così come nel linguaggio il «dire» la parola). Certamente, pensandolo, il concetto già precedentemente esistente non viene formato, ma viene soltanto messo in azione. È lo spirito che mette in attività gli strumenti che lui stesso ha costruito per compiere le prestazioni per le quali sono finalizzati. Un concetto che non viene pensato è come una parola che non viene detta o come un martello che non viene utilizzato: tutti e tre sono «strumenti», cioè mezzi per la liberazione dal corpo e come tali costantemente a disposizione, senza però che la possibilità di disattivare il corpo venga sempre realizzata. Solamente quando il martello viene vibrato, la parola detta, il concetto pensato essi entrano in azione come strumenti. Di per sé questo è ovvio, tuttavia con il «concetto» è necessario sottolinearlo affinché il «pensare» il concetto (notoriamente un «vissuto psichico», ma anche nulla più che il suo «azionamento») non venga confuso con il concetto in sé, disconoscendo così la sua natura di strumento. Nel concetto dunque tutto ciò che lo costruisce e lo adopera è di tipo funzionale (spirituale). Come abbiamo visto ciò non tocca minimamente la natura di strumento del concetto già pronto, ma diviene piuttosto un fattore determinante soltanto per il suo specifico tipo di prestazione.
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L’«oggettualità [Gegenständlichkeit]» dei concetti2 è dimostrabile attraverso un’ampia serie di argomenti. Già la relazione alla lingua come a una materia artificiale accredita sufficientemente la realtà esosomatica dei concetti. Perché è impossibile che ciò che è stampato in un libro sia qualcosa di funzionale. Analogamente alla lingua, anche l’esistenza propria dei concetti poggia su quegli oggetti base – e non sulla funzione corporea indipendentemente dalla quale essi sussistono. Il fatto della loro esistenza propria implica che i concetti sopravvivano in modo duraturo a quelle generazioni di esseri umani che li formano. La trasmissibilità dei concetti da un essere umano all’altro sarebbe inconciliabile con l’essenza della funzione del corpo. Inoltre normalmente i concetti non vengono affatto formati dai singoli esseri umani a partire da loro proprie intuizioni, ma vengono assunti già come «prodotti finiti [Fertigware]», contraddicendo nuovamente una concezione funzionale dei concetti. La grande maggioranza degli esseri umani non partecipa affatto all’attività essenziale della formazione dei concetti e si limita semplicemente al loro utilizzo. In questo modo diviene anche comprensibile il fatto che un bambino di una razza «selvaggia» che venga precocemente trapiantato in un paese 2. In merito a ciò è qui significativo che i «logici» che sono soliti maneggiare i concetti come cose «solide» abbiano già da tempo scorto l’artificialità e l’au tonomia dei concetti e abbiano realizzato una «teoria oggettuale dei concetti [Gegenstandstheorie der Begriffe]» (Bolzano). È stato così giustamente riconosciuto che i concetti, poiché essi, nella «definizione», divengono creazioni costanti e generalmente valide al di là dell’esperienza del singolo, con una tale stabilità entrano in decisa contrapposizione con tutti i vissuti «psichici», i quali sono sempre soggettivi e mutevoli. Secondo la «teoria oggettuale» il concetto non viene più dunque considerato come qualcosa di «circostanziato [Zuständliches]», ossia psichico-funzionale, ma invece all’inverso come qualcosa di «oggettuale [Gegenständliches]», come «qualcosa in sé», brevemente, come una «cosa». Ciò costituisce un buon inizio che si sarebbe potuto facilmente realizzare in una «teoria strumentale dei concetti» se la teoria oggettuale come tale avesse trovato un riconoscimento collettivo.
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civilizzato impari molto velocemente la lingua astratta del nuovo popolo, anche se il suo popolo d’origine non conosce per nulla o solo limitatamente i concetti astratti. Ci si è giustamente stupiti che persino i membri delle più umili tribù africane dei pigmei potessero imparare a parlare fluentemente l’inglese. In ogni caso questo sarebbe impensabile se i concetti fossero una mera funzione cerebrale. Perché come potrebbe mai il cervello dispiegarsi così ampiamente da un giorno all’altro? E invece anche questi esseri umani imparano velocemente la lingua astratta così come, nonostante nei loro paesi d’origine siano abituati solamente all’utilizzo di arco e freccia, di carri trascinati da buoi e di tamburi per comunicare, imparano velocemente a utilizzare un fucile, un’automobile e un telefono, perché le parole e i concetti sono ugualmente forme di strumento che vengono loro offerte bell’e pronte con le istruzioni per l’uso. Che i concetti siano cose maneggevoli risulta evidente anche nel fatto che si lasciano addizionare e sottrarre come le palline dell’abaco. A ragione si è parlato quindi di un’«algebra della logica». Certo i concetti, esattamente come i loro oggetti base «materiali», sono essi stessi accessibili all’astrazione: da concetti è possibile formare attraverso l’astrazione nuovi concetti (più elevati). Tutti i nostri concetti più elevati sono sorti, attraverso l’astrazione, da concetti inferiori, dai loro «oggetti base». Non soltanto la logica, ma tutti i sistemi filosofici e matematici sono la prova più evidente del fatto che i concetti (siano essi della tecnica o del linguaggio) formano per sé un regno indipendente, autolegiferante e autoproduttivo. Riconoscere la natura di strumento dei concetti significa volgersi contro il presupposto, dedotto a partire da un fraintendimento della dottrina evoluzionistica, secondo il quale la ra gione non sarebbe altro che un più elevato grado evolutivo dell’intelletto, portandoci invece a rivalutare l’antica concezione filosofica della peculiarità d’essenza della ragione. Da sempre alla facoltà della ragione sono stati associati due postula-
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ti: il primo comprende la ragione, e questa soltanto, come la più elevata facoltà spirituale dell’essere umano; il secondo la intende come limitata agli esseri umani, cioè essenzialmente estranea agli animali; queste due esigenze non possono venir soddisfatte in maniera più convincente che assumendo, con Schopenhauer, la ragione come la «facoltà dei concetti». Con il concetto la sfera dell’intuizione viene abbandonata, si leva il pensiero non-intuitivo, astratto, che abbraccia il più modesto concetto dell’esperienza così come l’idea più elevata. Ma in quanto «facoltà dei concetti» la ragione ci si presenta ora come una facoltà dello strumento (esosomatica), la quale si radica nel principio evolutivo dell’essere umano e che dunque è propria solamente a esso. L’intelletto, posseduto anche dall’animale, in quanto «facoltà del rappresentare intuitivo» è invece una facoltà fisico-funzionale, vale a dire una funzione cerebrale3. 3. Per determinare molto chiaramente la relazione dell’intelletto con la ragione, dovremo qualificare l’intelletto come quella facoltà funzionale alla quale spetta la costruzione e l’azionamento dei concetti. È l’intelletto che fornisce l’«intuizione», cioè ci fa «vedere» e ci fa cogliere gli oggetti base. L’insorgere di «rappresentazioni intuitive» conduce poi alla comparazione degli oggetti base e al concentrare la nostra attenzione sulle loro caratteristiche comuni. Così l’intelletto crea le condizioni fondamentali dell’astrazione e realizza lo stesso atto di astrazione. Al contempo produce le connessioni associative che stanno a fondamento dei procedimenti del giudicare e del dedurre. Infine è sempre l’intelletto a rendere possibile il «chiarimento» dei concetti, vale a dire la loro riconduzione alle rappresentazioni intuitive dei rispettivi oggetti base. La ragione si costruisce dunque sull’intelletto e al di sopra di esso, e come è stata resa possibile dall’intelletto, così da esso deve essere ancora sorretta («azionata»). L’inventario di tutti gli atti ai quali partecipa l’intelletto nel rendere operativa la ragione potrebbe suscitare l’impressione che l’intelletto sia tutto, la ragione nulla. Nella vita pratica le cose però stanno così: una volta che i concetti sono stati formati e intesi, la partecipazione dell’intelletto diminuisce sempre più dietro all’attività autonoma della ragione, come verrà esplicitato nuovamente nel confronto con la tecnica che segue. A ogni modo senza l’intelletto (e il suo maneggiare i concetti) non c’è ragione, così come senza mano (e il suo maneggiare gli strumenti tecnici) non è possibile la tecnica.
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Se poniamo in parallelo tecnica e mano da una parte, ragione e intelletto dall’altra, il nesso analogico tra le due facoltà dello strumento diviene evidente: per fabbricare e maneggiare gli strumenti la tecnica rimane dipendente dalla mano, la ragione sotto questo aspetto dall’intelletto. Come la tecnica non è identica alla mano, così non lo sono la ragione e l’intelletto; come la mano con l’aiuto di più semplici strumenti produce i macchinari più complicati, così l’intelletto con l’aiuto di concetti più semplici produce i concetti più elevati. Come però l’ingranaggio della tecnica altamente evoluta richiede soltanto un minimo azionamento per mezzo della mano, così anche la ragione altamente evoluta si fa sempre più indipendente dall’intelletto. Così l’essere umano civilizzato e acculturato comprende il discorso più astratto anche senza chiamare in aiuto la sua facoltà intuitiva (intelletto) e il matematico lavora con le formule e le equazioni più astratte senza doverle prima rappresentare «figurativamente». I concetti sono divenuti qui così correnti che, per così dire, «corrono da soli». Oltre che all’intelletto, che si occupa della formazione e dell’azionamento dei concetti, la ragione è insolubilmente legata anche al linguaggio. Senza linguaggio, niente ragione; perché soltanto la «parola» offre al «concetto» un indispensabile appoggio concreto: è il suo simbolo esterno, percepibile, ciò che rimane costante nel mutare dei fenomeni. Perciò solamente il linguaggio rende possibile un effetto pratico della ragione, uno scambio di pensieri e una costruzione di elementi concettuali. Il processo storico-evolutivo dell’ancorarsi della ragione al linguaggio è stato spiegato come se la ragione fosse l’autentica creatrice del linguaggio poiché il fine principale e naturale di questo andrebbe individuato nel formare i «pensieri». Di contro io sostengo che il linguaggio, come tutte le forme di segnificazione [Zeichengebung], è sempre stato un puro strumento della comunicazione come lo è ancor oggi negli scambi degli esseri umani tra loro. Dunque io sostengo che non sia
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stata tanto la formazione dei pensieri, ma la necessità biologica di una reciproca comunicazione di esperienze ad aver portato alla creazione del linguaggio; in questo il linguaggio si rivela e si afferma in maniera evidente come una manifestazione del principio della liberazione dal corpo. Secondo i risultati della moderna indagine linguistica non ci sarebbe poi alcun dubbio che il carattere originario del linguaggio è intuitivo. Inoltre, come è stato dimostrato, questo esisteva già prima della ragione, ossia, nella sua evoluzione, l’essere umano non ha percorso il cammino dall’astratto al concreto, ma all’inverso dal concreto all’astratto (Geiger)4. L’osservazione che le forme linguistiche concrete (dei «popoli naturali») siano molto goffe e inefficaci e che solamente con l’introduzione dell’astratto venga raggiunto un livello più alto della capacità comunicativa e della possibilità di espressione mi sembra ora far riferimento in maniera persuasiva al fine originario della formazione dei concetti: il concetto è nato dal linguaggio per perfezionarlo. Con questa ipotesi diventano senz’altro comprensibili non soltanto l’ancorarsi dei concetti alle parole come risultato naturale dell’evoluzione, ma anche il continuo processo di astrazione del linguaggio che nei paesi civilizzati è già considerevolmente compiuto. Le prime formazioni concettuali devono essere avvenute in questo modo: attraverso sottili differenziazioni tra gli oggetti o attraverso l’inclusione di oggetti simili la rappre sentazione originaria e concreta della parola ottenne carattere concettuale (Mach)5.
4. Il riferimento è probabilmente alle tesi esposte in a L. Geiger, Ursprung und Entwicklung der menschlichen Sprache und Vernunft, Verlag der J. G. Cotta’schen Buchhandlung, Stuttgart 1868. [N.d.C.] 5. Alsberg si riferisce qui verosimilmente al capitolo intitolato «Il concetto» di E. Mach, Erkenntnis und Irrtum. Skizzen zur Psychologie der Forschung, Verlag von Johann Ambrosius Barth, Leipzig 1905, pp. 124-141. Per l’edizione italiana si veda Id., Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia
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Con la creazione della ragione il principio della liberazione dal corpo ha ampliato di nuovo in maniera essenziale la sua piattaforma. Poiché i concetti portano la totalità delle cose e le loro relazioni reciproche nel nostro ambito rappresentativo creano un contesto di vita drasticamente nuovo per profondità e ampiezza. Le catene della costrizione della rappresentazione intuitiva vengono spezzate e i motivi astratti conquistano un influsso decisivo sulla configurazione della vita. È l’«avvedutezza» ciò che pervade l’essere umano civilizzato con l’acquisizione della ragione, conferendogli così un atteggiamento superiore. Come la tecnica e il linguaggio, anche la ragione ha percorso il cammino verso il proprio compimento a partire dai suoi primi abbrivi. L’elevazione naturale della ragione ci porta nuovamente dinnanzi agli occhi quella spinta al perfezionamento degli strumenti artificiali in azione nell’umano e mostra, anche da parte sua, il principio della liberazione dal corpo come il «principio evolutivo» dell’umano. Anche con la ragione, in quanto terza facoltà dello strumento, dobbiamo aspettarci un doppio retroeffetto sulla formazione del corpo umano. Una conseguenza regressiva della ragione mi sembra risiedere nella perdita di istinto nell’essere umano. Nella sua condotta di vita l’essere umano civilizzato si appoggia in maniera sempre più stabile alle rivelazioni della ragione, disattivando gli atti istintivi. Il concetto, l’idea logica, il motivo astratto trionfano sull’istinto e lo sostituiscono (cfr. anche il capitolo seguente). Pertanto l’istinto ha perso molta forza nell’essere umano civilizzato rispetto a quanto accade nelle razze meno evolute con la loro «irrimediabile povertà della facoltà dell’astrazione». In merito all’influsso della ragione sulla formazione del corpo come fattore di crescita siamo nuova-
della ricerca, tr. it. di S. Barbera, a cura di P. Parrini, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 171-185. [N.d.C.]
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mente indirizzati al cervello, alla cui funzione (intelletto) spetta il formare e l’azionare i concetti. Se, come abbiamo dovuto supporre, il linguaggio «concreto» aveva già fecondato abbondantemente lo spirito, soltanto una volta che il linguaggio si è fatto «astratto», la formazione e lo scambio di «pensieri» si sono elevati a una regione superiore, nella quale è diventato nuovamente possibile allenarsi spiritualmente in direzione di un’evoluzione dello spirito all’altezza della ricerca scientifica. Ora, sebbene la struttura del cervello non sia ancora stata sufficientemente indagata in questo senso, dobbiamo tuttavia supporre un forte retroeffetto della ragione sul dispiegamento del cervello, forse più a livello qualitativo che quantitativo.
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Capitolo 11
Scienza, morale ed estetica I motivi astratti del vero, del buono e del bello – La liberazione dalla costrizione corporea delle pulsioni – Maturità logica, morale ed estetica
Finché il pensiero astratto non riesce a cogliere e utilizzare le relazioni pratiche della nostra persona con il mondo esterno, la ragione non può ancora elevare l’essere umano al di sopra della sua egocentrica sfera di vita. Le cose cambiano quando, nella loro attività, i concetti in quanto «motivi astratti» (ideali) guadagnano un’influenza a tal punto dominante sul nostro comportamento, da farci mettere in secondo piano i nostri immediati interessi personali. Perché, da quel momento in avanti, i contesti di vita pratici vengono frantumati dai concetti. Ma come è possibile tutto ciò? Anche l’essere umano, come ogni altro essere vivente, nelle sue condizioni di esistenza è inevitabilmente incatenato sulla terra alle situazioni e perciò, al contempo, forzatamente sottomesso a ogni imperativo della natura che, nell’interesse dei singoli come del genere, esige l’inclusione nella propria sfera vitale di tutte le conoscenze e di tutti i vissuti, di tutte le forze e di tutte le attività. Chi vuole superare con successo la lotta per l’esistenza deve tenere sempre assiduamente davanti agli occhi i nessi pratici tra i comportamenti e gli avvenimenti del mondo esterno e i bisogni orientati all’esistenza del proprio corpo [Leib]. Non dovrebbe esserci alcuna eccezione a questo pressante imperativo, eppure negli ambiti umani della scienza, della morale e dell’estetica (arte) incon-
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triamo dei fatti, nei quali i motivi astratti del pensiero dominano a tal punto l’agire e il sentire che il proprio corpo, con i suoi bisogni e i suoi desideri naturali, non viene minimamente preso in considerazione. Di come questa trasgressione arbitraria di un imperativo della natura si inserisca nuovamente in maniera armonica nello schema evolutivo naturale dell’essere umano ci occuperemo più avanti. Anzitutto qui ci interessa la pratica della «disattivazione del corpo» come tale. Se infatti anche i tre grandi ambiti culturali della scienza, della morale e dell’arte dovessero sfociare nello stesso principio della liberazione dal corpo verrebbe così dimostrato che la vita dell’essere umano sottostà a questo unico principio anche nei suoi movimenti e ambizioni spirituali più elevati. Nella scienza l’idea astratta del vero costituisce la stella polare della ricerca. Il «vero» viene cercato ed esplorato «per se stesso» e quindi il «puro» conoscere forma il reale e unico scopo della scienza autentica. Se il vero ricercatore cerca la pura conoscenza «per se stessa» o se il vero giudice emette il suo giudizio secondo il diritto «puro», senza «riguardo alla persona», in questi casi parliamo dell’«oggettività» dello studioso. Nella natura, con le sue implicazioni nella lotta per l’esistenza, non c’è alcuna «oggettività»; qui c’è solamente la più potente «soggettività», soltanto il più incondizionato riferimento alla propria corporeità con i suoi bisogni, e tutto ciò viene necessariamente assicurato dalla tirannia innata degli istinti del corpo. Così l’oggettività dello scienziato, poiché in essa l’idea di verità viene posta contro e sopra la soddisfazione della propria corporeità prescritta dalla natura, ci si presenta come una liberazione dalla costrizione corporea delle pulsioni e questo atto di liberazione dalla propria vita pulsionale è ciò che senz’altro correttamente è stato qualificato e apprezzato come «libertà spirituale» dell’essere umano. Il vero giudice lascia libero l’imputato anche quando il suo «sentimento» personale è contro di lui, oppure lo condanna anche quando gli è legato a livello del sentimento.
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Così il vero scienziato non si chiede se le sue nuove scoperte gli siano vantaggiose o svantaggiose, se siano utili o dannose alla sua vita, neppure se abbiano un valore pratico oppure no. Il «vero» come tale, al quale soltanto viene rivolto ogni sforzo, è sempre la priorità e perciò viene posto senza riserve e senza riguardo al di sopra del corpo e dei suoi interessi naturali. Il distacco dalla vita pulsionale del corpo può raggiungere proporzioni tali che per l’idea di verità viene sacrificata perfino la propria vita, come mostrano la morte per avvelenamento di Socrate e il rogo di Giordano Bruno. Se passiamo dal «puro» pensare al «puro» agire, entriamo nel regno della morale. In esso il motivo guida è l’idea astratta del bene. Ma solamente la coscienza della buona azione imprime all’agire il timbro di ciò che è morale e lo differenzia da ogni agire istintivo che si esercita in maniera incosciente (ad esempio dall’«amore materno» istintivo dell’animale). Il grande Kant ci ha insegnato che l’essenza fondamentale di ogni morale deve essere cercata nell’incondizionatezza della sottomissione al comando etico [Sittengebot]. Ciò significa che i precetti morali che si fondano sull’idea del «bene» devono essere seguiti senza alcuna restrizione, quindi senza riguardo per il proprio io e i suoi bisogni naturali, perfino contro il proprio interesse. La vera morale viene perciò sempre accompagnata dall’abnegazione e dal superamento dell’egocentrico vivere pulsionale. La madre che si sacrifica consapevolmente per il proprio figlio, il soldato che di buon animo va incontro alla morte per la patria sono esempi eroici di questa genuina abnegazione morale. Quindi anche nel campo della morale, con l’idea del bene, l’essere umano ottiene la liberazione dalla costrizione del corpo da parte delle pulsioni – un fatto di per sé conosciuto da lungo tempo e che è stato celebrato come la «libertà morale» dell’essere umano. Nell’arte è invece il motivo astratto del bello a essere contrapposto e preposto all’io interessato, bisognoso e desiderante.
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Secondo Kant l’essenza fondamentale di ogni estetica poggia sul «disinteresse» per l’oggetto contemplato. Non ci è concesso né desiderare l’oggetto, né detestarlo, né metterlo in una qualche relazione pratica con la nostra sfera vitale. Perché noi viviamo un oggetto «esteticamente» soltanto quando questo viene completamente sottratto dalla cerchia dei nostri interessi e la magia estetica immediatamente si spegne non appena risuonano in noi dei moti personali che toccano il nostro interesse. Così posso godermi in maniera puramente estetica un campo di spighe ricoperto di fiori colorati, abbandonandomi completamente all’effetto del «bello». Se invece lo considero dal punto di vista del danno economico, questo è un osservare egoistico e dunque «non-estetico». Il guardare «interessato» è in sé il comportamento dato dalla natura perché radicato nel vivere pulsionale del corpo, mentre nella contemplazione estetica i nessi naturali vengono spezzati. È questo staccarsi dei vissuti dalla costrizione istintuale del corpo che costituisce il carattere propriamente estetico dell’arte e che ha assicurato all’essere umano il riconoscimento di una «libertà estetica». Negli ambiti della scienza, della morale e dell’arte, nella misura in cui li abbiamo molto schematicamente ricondotti al comune denominatore dell’idea astratta che sta alla base di essi, incontriamo quindi lo stesso fatto della liberazione dell’essere uma no dalla costrizione naturale della sua innata vita pulsionale. Ogni volta è un «motivo» astratto quello che entra «al posto» del corpo che si ribella, disattivandolo nel suo essere pulsionale. Liberandosi qui dalla sua vita pulsionale più intima, l’essere umano compie così un peculiare atto di «liberazione dal corpo» e fa valere il principio evolutivo della disattivazione del corpo anche nel pensare, agire e sentire. Data la potenza della costrizione pulsionale del corpo, il distacco da essa è possibile soltanto sulla base di una certa maturità spirituale. Soltanto se noi, nel nostro intimo, veniamo toccati e conquistati nella maniera più profonda dalle idee del vero, del buono e del bello,
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possiamo regolare il nostro pensare, agire e sentire secondo il criterio e il diktat di queste idee, frenando l’«egoismo» naturale, soprattutto se si tratta di elevati gradi di abnegazione o se c’è in ballo la vita stessa. In questo senso si è parlato giustamente di maturità logica, morale ed estetica dell’essere umano come precondizione per il suo ingresso nel regno della «libertà spirituale». Finché questa maturità non è raggiunta, l’essere umano rimane ancora fermo nello «stadio preliminare» storico-evolutivo, dove l’«essere interessato» non è ancora stato sostituito dal «non essere interessato», dove quindi la scienza è ancora semplicemente rivolta a fini puramente pratici, dove la morale viene esercitata nella prospettiva di ricompense a venire, dove l’arte prevede soltanto effetti puramente sensoriali (erotici). Oppure nel suo comportamento l’essere umano viene ancora completamente dominato dall’istinto, come nel caso dell’amore materno istintivo degli esseri umani primitivi. In tutti questi casi in cui l’essere interessati o l’istinto sono la forza trainante, il principio evolutivo della «liberazione dal corpo» non ha ancora messo radici, la corporeità non è ancora superata. Solamente con la liberazione dalla corporeità votata agli interessi vitali insorgono le sue forme «pure» e un nuovo principio, il principio dell’umano, la pervade ed entra in attività. Con questo, però, cioè con il fatto che l’essere umano è giunto gradualmente alla sua «maturità spirituale» e che mantiene e prosegue quel cammino della liberazione dalla costrizione delle pulsioni del corpo che ha precedentemente intrapreso, il principio si conferma nuovamente come il «principio evolutivo» dell’umano.
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Capitolo 12
L’utilizzo animale degli strumenti Apparente analogia – Divergenza nell’evoluzione – La pietra in mano all’essere umano e alla scimmia – Cambio di principio all’interno della continuità dell’evoluzione
La nostra indagine ha posto la questione se, e in quale misura, la vita culturale dell’essere umano mostrasse dei nessi e delle relazioni con il principio della liberazione dal corpo, dopo che ci eravamo imbattuti in questo principio attraverso una semplice comparazione della formazione del corpo umano e animale e che eravamo giunti all’assunzione logica che questo principio per un verso dovesse aver posto le radici della nostra intera cultura, per l’altro dovesse aver raggiunto in essa la sua massima fioritura. Già una breve panoramica delle più preminenti manifestazioni della vita culturale – la tecnica, il linguaggio, la ragione e le forme «pure» della scienza, della morale e dell’arte che si costruiscono sulla ragione – è stata sufficiente per confermare ciò che ci aspettavamo, ossia che il culturale [Kulturtum] deve di fatto la sua unicità e grandezza soltanto al principio della liberazione dal corpo, quel principio poco appariscente che spinge gli esseri umani alla produzione di strumenti artificiali per conseguire con essi la liberazione dal corpo naturalmente limitato. Con la divergenza dei principi evolutivi umano e animale dovrebbe d’ora in poi essere stato stabilito che l’animale non partecipa in nessun modo alla forma culturale umana. Poiché però, considerando i passaggi continui
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dall’animale all’essere umano, ormai ha preso piede l’erronea opinione che l’evoluzione umana non sarebbe nient’altro che un semplice «incremento» dell’evoluzione animale, nell’interesse di un chiarimento sostanziale di questa questione sembra una buona volta necessaria una dimostrazione anche su questo versante. In particolare si tratterà di cercare e di fissare la li nea di confine [Grenzlinie] tra forma di vita animale e umana seguendo il filo conduttore del principio evolutivo. Una volta individuata questa linea, sarà comprensibile anche il modo in cui il nuovo principio dell’umano prende le mosse per realizzarsi a partire dalle condizioni che lo precedono. Ci renderemo poi anche conto che, nonostante il processo dell’evoluzione sia un processo continuo, il suo principio è diventato tuttavia un altro. In vista di ciò ricominciamo la nostra indagine a partire dallo strumento tecnico, la cui forma primordiale ci viene incontro con la grezza arma in pietra dell’essere umano delle origini. Con questo strumento semplicissimo, che costituisce il vero punto di partenza per ogni successiva tecnica, si manifesta per la prima volta il principio evolutivo della liberazione dal corpo. Se dunque già nella grezza difesa per mezzo di pietre dell’essere umano delle origini può comparire il principio dell’umano, come ci si deve porre nei confronti delle pratiche del mondo animale che si presentano apparentemente come molto simili? Sappiamo certamente in modo attendibile che anche le scimmie si difendono lanciando pietre e pure che si servono di pietre e di altri oggetti per diversi fini. È dunque ancora legittimo descrivere il metodo dell’essere umano delle origini come qualcosa di completamente nuovo nella storia del mondo, o non è invece esattamente la stessa cosa se l’essere umano o la scimmia impugnano la pietra per difendersi? Anche dal punto di vista della «liberazione dal corpo», a quanto pare, si presenta lo stesso stato di cose perché, qui come lì, «al posto» del corpo viene utilizzato un mezzo «esosomatico», cioè uno strumento.
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Se tuttavia andiamo a fondo del problema, le cose, apparentemente così semplici in superficie, si complicano in maniera inattesa. L’argomentazione ingenua: «uno lancia pietre, l’altra lancia pietre, allora i due fanno la stessa cosa» non può più davvero soddisfarci. Questa infatti non si chiede in quale relazione questa pratica stia con la vita, che cosa questa pratica possa fare nella vita e significhi per la vita. Questa argomentazione vede soltanto la pietra e non chi la lancia. Ma come si può dedurre l’analogia delle due pratiche e, conseguentemente, l’analogia di essere umano e animale, se viene ignorata la forma di vita, la quale tuttavia può essere decisiva? È evidente che estrapolare pratiche apparentemente simili dal loro contesto organico può portare alle deduzioni più erronee. Costruendo ad esempio la frase: «il cielo annaffia la terra, il giardiniere annaffia la terra, i due fanno la stessa cosa e dunque non c’è alcuna differenza essenziale tra loro» ho dimenticato di inserire nelle premesse la pioggia (come fenomeno naturale) e l’annaffiatoio del giardiniere (come dispositivo umano) e, a seguito di questa omissione, sono giunto a delle false conclusioni. Se non vogliamo cadere in un simile errore nel valutare l’«uti lizzo animale degli strumenti», non possiamo mai trattare isolatamente la pratica del lanciare pietre, ma dobbiamo invece indagarla nella sua relazione naturale con la vita, con il principio evolutivo. Ricapitoliamo dunque ancora una volta nella prospettiva del principio evolutivo il vero significato del fatto che l’essere umano delle origini si difenda per mezzo di pietre. Abbiamo detto che questo metodo di combattimento esosomatico ci si presenta come una pura incarnazione del principio della liberazione dal corpo. Anche se è stato semplicemente un inizio grezzo, in ogni caso avviò un’evoluzione che si inverò nello strumento e portò il corpo a essere completamente dipendente da esso. Originariamente, come dobbiamo supporre, la mano era un organo prensile [Greiforgan], nel senso di un organo per la brachiazione (e in quanto tale magnificamente
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adatto ad afferrare i rami degli alberi), pur sempre però sufficientemente abile anche a impugnare oggetti. Oramai la sua evoluzione è stata spinta in una direzione che segue solamente lo strumento. Perciò, come già rimarcato in precedenza, anche la famosa «perfezione» della mano umana deve essere riconosciuta soltanto in relazione allo strumento. Perché sotto un altro aspetto, come la brachiazione, la mano umana non è affatto «perfetta» e non regge il minimo confronto con la mano (a sua volta «perfetta» proprio nella brachiazione) di un orango o di un gibbone. Se scorriamo l’intero organismo dell’essere umano, osserviamo ovunque lo stesso: lo strumento è, nell’evoluzione dell’essere umano, la parte determinante in modo esclusivo, il corpo invece la parte che segue secondariamente. In questo modo la semplice difesa tramite pietre dell’essere umano delle origini si pone da sé sotto una luce significativa. Sembra in un certo senso elevarsi a principio vitale. Perché è lo strumento ciò su cui si ripone l’intera esistenza e ogni ulteriore evoluzione. Ciò significa: l’utilizzo dello strumento da parte dell’essere umano delle origini non è né un accadimento occasionale né insignificante, ma invece una pratica che assicura l’esistenza, determina l’evoluzione e – con il presentarsi delle prime manifestazioni secondarie di atrofizzazione nel corpo (perdita della brachiazione!) – inevitabilmente necessaria. D’altra parte, nelle scimmie è il corpo che viene impiegato in maniera esclusiva nella lotta per l’esistenza, sia che la difesa venga affidata a una potente dentatura come nel mandrillo o nel gorilla, sia che avvenga tramite la fuga, grazie a una brachiazione veramente virtuosa come nella maggior parte delle scimmie. Significativamente è però proprio la mano ad aver sacrificato l’adattamento tramite la brachiazione. Se osserviamo la mano di uno scimpanzé, siamo colpiti proprio dall’estrema lunghezza delle dita e del metacarpo. Anche le braccia sono affette da questa inconsueta crescita per il lungo. Solo il pollice è rimasto piccolo e, stando in cima al lungo metacarpo, suscita
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un’impressione grottesca, quasi fosse «scivolato sul braccio». L’orangutan mostra mani e braccia ancora più lunghe; conformemente a ciò, in esso risalta in misura ancora maggiore l’irrilevanza del pollice. Sì, il suo pollice è divenuto persino più piccolo. Nel gibbone, che ha mani e braccia così lunghe da toccare a corpo disteso con le dita sino a terra, l’atrofizzazione del pollice è avanzata talvolta fin già alla sua completa perdita. Poiché alcune dita possono poi essere cresciute unite le une con le altre, la mano è divenuta qui un perfetto organo da presa, comparabile soltanto con le unghie da presa del bradipo. Nella scimmia la tendenza evolutiva della mano è quindi inconfondibile: tende il più possibile a perfezionarsi nella brachiazione. Perciò la mano si scosta dalla sua formazione originaria, molto più vicina a quella umana e dunque molto più adatta all’utilizzo dello strumento, proseguendo in direzione della mano da presa. Per questo è particolarmente caratteristico che il pollice, indispensabile per usare gli strumenti, non prenda parte alla esagerata crescita in lunghezza, ma resti fermo nella posizione ormai troppo alta e lì, più o meno, si atrofizzi. Può la natura parlare più chiaramente che nell’organizzazione degli arti anteriori di questi animali? Essa dichiara che la brachiazione, cioè l’adattamento del corpo, è stato per loro l’unico scopo evolutivo di fronte al quale tutto il resto si è fatto da parte. Perciò, in maniera tanto spietata quanto unilaterale, l’evoluzione ha sorvolato sull’apparato di per sé favorevole all’utilizzo di strumenti e ha portato il corpo a una forma che è diametralmente opposta rispetto all’uso di strumenti. Nel chiedersi ciò che per un essere è significativo e ciò che non lo è non c’è pietra di paragone migliore dell’evoluzione. Nella vita delle scimmie lo «strumento» gioca infatti un ruolo assolutamente secondario. Come insegna l’osservazione, a causa della loro organizzazione le scimmie sono assolutamente maldestre nel lanciare pietre e nel caso di emergenza, in cui istintivamente viene scelto il mezzo opportuno, vediamo che lasciano perdere subito le pietre e,
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in compenso, ritornano in modo ancora più fiducioso ed efficace alle loro armi «naturali», alla dentatura o alla brachiazione. Se poniamo ora nuovamente la questione (cfr. p. 65) se il lanciare delle pietre da parte di un essere umano o di una scimmia sia la stessa pratica, dal punto di vista del principio evolutivo lo negheremo ormai in maniera decisa. Ciò che nella scimmia sta in opposizione diretta con l’evoluzione, all’inverso, nell’essere umano è l’anima dell’evoluzione. Quando la scimmia lancia delle pietre, questo comportamento contraddice la sua essenza innata ed evolutivamente condizionata e per essa non significa sostanzialmente nient’altro che il massimo sfruttamento di tutte le possibilità funzionali che le sono date, ancor oggi, attraverso il possesso della mano, nella misura in cui questa potrebbe essere ancora adatta all’uso di strumenti. Per nominare una pratica analoga nell’essere umano, questi ha ancor oggi la possibilità funzionale, nonostante la regressione evolutivamente condizionata della sua dentatura, di utilizzare i denti come difesa e, ad esempio, staccare con un morso il naso a un suo simile. Questo non è certo un avvenimento che capita quotidianamente, ma è occasionale e il suo carattere «anomalo», che va contro l’innata essenza umana, non viene tuttavia mai disconosciuto. Decisivo, in un caso come nell’altro, è sempre il principio evolutivo, il quale determina la forma di vita e tiene le redini della formazione del corpo. Un essere umano che occasionalmente morde in giro con i denti è perciò altrettanto poco un «animale» quanto, d’altra parte, una scimmia che occasionalmente lancia pietre sia un «essere umano». Questi due modi di difendersi non hanno minimamente a che vedere con il principio evolutivo, ma sono invece rivolti contro di esso e dunque sono delle azioni singole completamente insignificanti che derivano da un uso esteso degli organi. Il molto discusso «uso animale degli strumenti» si riduce dunque a un fatto senza significato e l’apparente analogia con la
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difesa per mezzo di pietre dell’essere umano delle origini si risolve addirittura in un’opposizione. Ciò che nelle scimmie è una possibilità che fuoriesce dal quadro della loro forma di vita, evolutivamente ricacciata in confini sempre più stretti, perciò una possibilità insufficiente e «funzionale», rappresenta nell’essere umano delle origini un provvedimento posto nel tracciato della sua evoluzione, quindi evolutivamente sempre più favorito, che caratterizza la sua autentica forma di vita assicurando l’esistenza; provvedimento che, essendo dapprima un’uscita [Ausgang] e un rozzo inizio [Anfang], diviene una necessità «biologica» con il darsi dei primi segnali di atrofizzazione. Un’«uscita» e un «inizio», ma non, come vogliono farci credere, un’analoga «prosecuzione»! Con lo strumento di pietra dell’essere umano delle origini viene invece abbandonato l’antico principio animale dell’adattamento del corpo e accolto il nuovo principio umano della liberazione dal corpo. Che il nuovo principio non sia caduto dal cielo, ma si sia riagganciato a fattori preesistenti utilizzandoli per sé, è il presupposto logico di ogni evoluzione «naturale». Qui il fatto che le scimmie siano contraddistinte dall’avere una mano (originariamente appropriata) e, dunque, il presentarsi della possibilità di utilizzare strumenti diviene il punto di partenza decisivo. Quanto è privo di significato il difendersi con le pietre per le scimmie, poiché si oppone al loro principio evolutivo, tanto è significativo come punto di raccordo e di partenza per il principio evolutivo dell’essere umano. Elevato dall’essere umano delle origini a principio vitale dinamico ottiene tutto d’un colpo un’interna necessità e porta ora con sé una vera liberazione dal corpo. Come possa essersi svolta nei dettagli questa parte della storia dell’umanità, la più interessante e la più importante, «l’insorgere dell’essere umano dalla scimmia», verrà affrontato nella prossima sezione del trattato. Ma già ora possiamo immaginare che il passaggio da uno stato all’altro fu un passaggio assolutamente impercettibile, cosicché all’inizio gli stati si rassomigliavano ancora
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apparentemente in tutto, nonostante fosse invece intervenuto un enorme cambiamento di principio a ridirigere prontamente il corso dell’evoluzione nella direzione opposta.
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Capitolo 13
La fonazione animale Premessa critica – Vocalizzazione di sentimenti e segni degli oggetti – Cambiamento di principio all’interno della fonazione – L’assenza di linguaggio nell’animale
Come per «l’uso di strumenti» da parte dell’animale, così, rifacendosi alla dottrina evoluzionistica, ci si è abituati a porre anche il «linguaggio» degli animali sullo stesso livello della facoltà umana. Anche qui si presentava soprattutto e di nuovo l’argomento secondo il quale il linguaggio umano si sarebbe sviluppato in maniera continua a partire dalla fonazione animale, continuità che viene fatta valere contro la concezione di una differenza essenziale. Così si legge in Wundt (Psicologia dei popoli): «Un osservatore a cui fosse stato concesso di seguire, passo dopo passo, attraverso percezioni dirette, l’evoluzione del linguaggio non sarebbe mai stato in grado di poter dire: qui, in questo istante, inizia il linguaggio e lì, nell’attimo immediatamente precedente, non c’era ancora. Considerato come gesto espressivo [Ausdrucksbewegung], quale permane in tutti i suoi stadi evolutivi, deriva con perfetta continuità dal complesso dei gesti espressivi che contraddistinguono la vita animale [das animalische Leben]. Da ciò si comprende che, al di là del concetto di gesto espressivo, non c’è nessun altro segno
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distintivo mediante il quale il linguaggio possa essere con sicurezza circoscritto, se non in modo arbitrario»1. Vediamo qui che, per amore di una opinione preconcetta, il di per sé ristretto concetto di linguaggio viene ricondotto a un concetto generale così ampio come può esserlo quello di «gesto espressivo», un concetto sotto il quale trova posto effettivamente ogni tipo possibile di manifestazione esteriore di un moto interiore. La psicologia animale da parte sua ha tentato di fornire contributi pratici per accreditare l’uguaglianza essenziale del linguaggio umano e di quello animale, analizzando i suoni emessi dagli animali in parallelo con quelli umani. Il ricercatore americano Garner con l’aiuto di un disco fonografico ha potuto fissare un gran numero di singoli suoni delle scimmie e osservare che lo stesso suono significava, per lo più, la stessa cosa e che suoni diversi venivano sempre accompagnati anche da diversi gesti. Senza riserve si concorda con la moderna psicologia animale sul fatto che l’animale possieda nella sua espressione sonora un mezzo molto utile di comprensione. Ogni segnificazione nasce certo dal desiderio di comunicazione. Ciò vale per l’animale quanto per l’essere umano. Chiediamoci ora che cosa mai si comunichino reciprocamente gli animali e l’osservazione quotidiana ci insegnerà che è l’intera scala dei sentimenti della gioia, del dolore, della paura, della gelosia, ecc. ciò che gli animali traspongono in suoni, che traducono attraverso suoni. Anche i loro richiami, amorosi e non, le loro espressioni di rabbia, i loro moniti e avvertimenti sono manifestazioni altamente efficaci che l’altro animale comprende immediatamente. È dunque incontestabile che gli animali si mandino «comunicazioni»; es1. Alsberg cita qui con precisione W. Wundt, Völkerpsychologie. Eine Unter suchung der Entwicklungsgesetze von Sprache, Mythus und Sitte, seconda edizione riveduta, Verlag von Wilhelm Engelmann, Leipzig 1904, p. 635. [N.d.C.]
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senziale rimane però il fatto che tutte le loro comunicazioni si limitano a rendere sentimenti ed emozioni, nei quali l’animale versa per via di un qualche oggetto o avvenimento. Le espressioni sonore degli animali si caratterizzano nella loro essenza come pure «vocalizzazioni degli affetti [Affektlaute]». Con questa affermazione il grado della loro capacità comunicativa non viene in nessun modo sminuito. Proprio i sentimenti si lasciano esprimere particolarmente bene attraverso suoni inarticolati e, in caso di improvvise esplosioni di sentimenti, lo stesso essere umano ricorre abbastanza spesso a questo tipo di forma elementare di «gesti sonori [Lautgebärde]» (grido di paura o di gioia). Tutte queste esclamazioni del sentimento accompagnano sempre qualcosa di indefinito poiché, con il mero manifestarsi dei sentimenti, non viene al contempo comunicato anche il loro motivo. Certamente, nelle semplici relazioni dell’animale, in generale è assolutamente sufficiente che un richiamo si riferisca alla soddisfazione della fame o della pulsione all’accoppiamento, un grido d’allarme a un minaccioso pericolo. L’autentico motivo del segnale di richiamo l’altro animale lo esperisce però sempre soltanto attraverso la propria percezione. Le espressioni sonore degli animali sono così caratterizzate dal fatto di comunicare solamente l’effetto del sentimento provocato da un oggetto, ma non invece l’oggetto stesso. La «parola» invece indica l’oggetto in quanto tale. Su questa radicale differenza tra la vocalizzazione animale [Tierlaut] e la parola articolata scivola via intenzionalmente la scienza moderna, mentre ricercatori venuti in precedenza, Geiger su tutti, vi avevano posto un certo accento. Nella prospettiva della nostra trattazione questa differenza assume un nuovo significato. Perché è proprio l’indicazione e, attraverso di essa, la rappresentazione dell’oggetto nel pensiero, ciò che rende la «parola» un mezzo della disattivazione del corpo e la mostra come figlia legittima del principio della liberazione dal corpo. Nella parola il suono è diventato un simbolo dotato di significato, esoso-
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matico, strettamente connesso con l’oggetto e come tale può sostituire la propria percezione, cioè disattivare gli organi di senso. L’animale invece, con le sue «vocalizzazioni degli affetti», rimane sempre assoggettato alla costrizione del corpo alle sue proprie percezioni. In un senso più profondo la differenza principale tra vocalizzazione animale e parola risiede nel fatto che la vocalizzazione animale, in quanto sentimento trasmesso all’esterno, è di natura puramente funzionale, mentre la parola, in quanto mezzo artificiale per la liberazione dal corpo, in quanto «strumento», è di tipo esosomatico. Poiché l’animale è completamente privo della parola, ossia della lingua composta di parole, diviene chiaro che non partecipa neppure a questa seconda modalità in cui si manifesta il principio evolutivo dell’essere umano. Inoltre anche qui dobbiamo partire nuovamente dal presupposto logico che il linguaggio umano, nei suoi primi abbrivi, si sia allacciato alla facoltà fonatoria animale e si sia evoluto da essa con passaggi tra loro in continuità. Ma la parola rimane tuttavia qualcosa di sostanzialmente nuovo; è un inizio e non un «incremento». Con la prima formazione di una parola, per quanto all’inizio questa possa essere stata ancora molto primitiva, nella facoltà comunicativa compare un nuovo principio, principio che traccia un confine netto con quello precedente. Anche qui è come con lo strumento tecnico: il principio animale della costrizione del corpo viene abbandonato ed entra in vigore il principio umano della liberazione dal corpo. Così, anche in relazione al linguaggio, l’evoluzione umana non si presenta come un’analoga prosecuzione dell’evoluzione animale, anche se questa ha preso come punto di allaccio e di partenza la facoltà fonatoria animale. A proposito dell’insorgere del linguaggio siamo rimandati a congetture. Alcuni autori pensano all’imitazione dei suoni della natura. Il ricercatore austriaco Mach immagina la prima formazione di una parola plausibilmente così: il momento del sentimento sarebbe retrocesso sempre più die-
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tro all’oggetto che ha provocato la vocalizzazione degli affetti connettendosi con la rappresentazione dell’oggetto. Io credo invece che non cogliamo a fondo l’insorgere del linguaggio se non lo mettiamo in connessione causale con gli strumenti tecnici, la loro fabbricazione artificiale e la loro molteplice applicazione. Nella tecnica e nel linguaggio è certamente attivo lo stesso principio, il quale si vuole ulteriormente ampliare e, in questo sforzo, crea nuove forme di strumento. Per quanto mi è noto, Noiré è stato il primo a richiamare l’attenzione sull’intima connessione tra strumento tecnico e formazione del linguaggio. In qualsiasi modo sia accaduto che il linguaggio si sia inizialmente evoluto, mi sembra in ogni caso legittimo supporre che «il linguaggio non è stato né inventato né scoperto, ma si è semplicemente “evoluto” e che l’essere umano delle origini è giunto a esso senza saperlo» (James Ward)2. Nell’epoca della dottrina evoluzionistica, la questione relativa al perché gli animali non «parlino» ha necessariamente risvegliato un nuovo interesse, senza che però si sia riusciti a trovare per essa una risposta soddisfacente. Alcuni autori riconducono l’assenza di linguaggio negli animali alla costruzione dei loro organi fonatori, inadatti all’articolazione linguistica; altri ritengono che gli animali non abbiano fondamentalmente nulla da «dire» perché sarebbero sprovvisti di «pensieri». Secondo me entrambe le ipotesi hanno in sé poca plausibilità. Perché, a prescindere dal fatto che alcuni animali sanno imitare il linguaggio umana molto bene, mi risulta difficile comprendere perché le scimmie, così strettamente imparentate con l’essere umano, non dovrebbero avere come l’essere umano i prerequisiti anatomici per parlare o, quantomeno, perché non dovrebbero
2. Alsberg accosta qui in un’unica citazione due differenti proposizioni provenienti entrambe da J. Ward, Psychological Principles, Cambridge University Press, Cambridge 1919, p. 287. [N.d.C.]
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averceli avuti originariamente. D’altra parte, dubito che proprio alle scimmie superiori manchi la capacità intellettiva necessaria per produrre le più primitive vocalizzazioni di parole [Wortlaute], come ad esempio quei segni-parola [Wortzeichen] che si riferiscono a cose assolutamente banali e comuni, perfettamente conosciute dall’animale. La risposta corretta alla domanda relativa alla mancanza di linguaggio degli animali mi sembra invece andare in tutt’altra direzione, nella quale veniamo subito sospinti se prendiamo come segnavia il principio evolutivo. Allora riconosciamo che l’animale non parla per il semplice motivo che il suo principio evolutivo si oppone al linguaggio come forma di strumento. Nell’essere umano la creazione linguistica sta nella direzione del suo processo evolutivo e significa per lui un arricchimento e un perfezionamento della sua liberazione dal corpo. Il rovescio di questa vantaggiosa acquisizione è l’ottundimento degli organi di senso che entra in gioco con la disattivazione del corpo, una conseguenza di per sé spiacevole che però, in quanto posta nel quadro del principio della liberazione dal corpo, viene abbondantemente controbilanciata dall’ulteriore evoluzione di questo principio. L’animale si evolve invece secondo il principio dell’adattamento del corpo. Con questo principio non è sopportabile neppure il minimo indebolimento degli organi di senso. Inoltre il principio impegna in maniera assoluta l’intero corpo e con esso anche gli organi fonatori servendosene per i suoi propri fini. Comunque, gli organi fonatori animali sono ancora oggi sufficienti per la formazione delle più primitive vocalizzazioni di parole, così come la mano delle scimmie, analogamente non più adatta all’utilizzo di strumenti, permette oggi di trafficare ancora maldestramente con le pietre. Ciononostante, come si è detto, l’animale non parla perché il suo principio evolutivo lo costringe a evolversi nei suoi propri binari o, come si è soliti dire, non si presenta una «necessità biologica». Certo, possiamo affermarlo, si fosse anche giunti nell’animale alle prime
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e primitive formazioni della parola, come ipotizza Garner, se non subito soffocate sul nascere, queste sarebbero certo state costrette in confini così stretti che sarebbe mancata loro ogni valenza pratica – tutelando così completamente in ogni caso l’integrità dell’adattamento del corpo.
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Capitolo 14
La capacità intellettiva animale Precondizioni per l’acquisizione della ragione – La moderna psicologia animale – La sfera intuitiva della rappresentazione dell’animale – L’assenza di ragione dell’animale – Esclusione dell’animale da scienza, morale ed estetica – Gli «stadi preliminari» e il nuovo principio
Il linguaggio è una precondizione della ragione. Perché, come abbiamo visto, soltanto attraverso l’àncora della «parola», in quanto appoggio afferrabile con i sensi, la rappresentazione astratta, assolutamente non intuitiva e per così dire «appesa in aria», si fa «concetto» e, con ciò, si fa opera atta a essere usata ed evoluta. Inoltre il linguaggio ha preparato la formazione della ragione nella misura in cui, attraverso i suoi stimoli, lo spirito è balzato a un tale livello di dispiegamento da imparare a padroneggiare la difficoltà dell’astrazione, la distruzione artificiale del complesso naturale delle rappresentazioni. L’animale non soddisfa né l’una né l’altra precondizione per l’acquisizione della ragione. Gli manca la lingua [Wortsprache] e, già solo per questo motivo, gli manca anche quella «maturità» spirituale necessaria alla formazione dei concetti che lo stesso essere umano (come testimoniano le razze primitive povere di ragione ma già in possesso di una lingua) ha potuto ottenere soltanto in uno stadio evolutivo molto avanzato. Questo fatto dovrebbe essere sufficiente per negare una volta per tutte all’animale la facoltà concettuale. Nei tempi passati non si è mai dubitato della assenza di ragione dell’animale. Soltanto la dottrina evoluzionistica ha tentato di gettare nuovamente un ponte tra l’animale e l’essere umano.
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Già Darwin era dell’opinione che l’animale fosse assolutamente capace d’astrazione. Ogni volta che, ad esempio, al richiamo «Heda! Dov’è?» il suo cane si metteva immediatamente alla ricerca di un qualcosa da cacciare, questo comportamento del cane gli sembrava essere in relazione con la formazione della rappresentazione astratta «selvatico» o «caccia». Oppure, in generale, ogni volta che un cane vede un altro cane da lontano, in un primo momento sembrerebbe notarlo soltanto in una maniera «astratta»; perché quando l’altro si avvicina sembrerebbe mutare immediatamente il suo comportamento, se questo è un amico. La concezione di Darwin fu ripresa specialmente dallo studioso inglese Romanes che la difese in un’opera molto accurata. Non si potrebbe, dice Romanes, negare all’animale la capacità di astrazione già soltanto perché possiede quantomeno quelle rappresentazioni astratte come «commestibile» o «non commestibile», «dolce» e «amaro», «caldo» e «freddo», ecc. Anche se l’animale per carenza di una lingua non ha l’ulteriore capacità di formare le sue astrazioni fissandole linguisticamente in autentici «concetti», in ogni caso condividerebbe però – e ciò costituisce il nocciolo dell’intera questione – con l’essere umano la facoltà fondamentale dell’«astrazione». Secondo questa dottrina l’animale non forma autentici «concetti», ma «ante-concetti [Vorbegriffe]» che differirebbero dai veri concetti solo «per grado», poiché a essi mancherebbe solamente l’àncora nella lingua1. Se, con Wundt, si adotta un metro severo per valutare le espressioni spirituali dell’animale, scovando in esse non più di quanto queste offrano in verità, allora della psicologia animale intesa 1. Alsberg ricostruisce la posizione esposta nel secondo capitolo di G.J. Romanes, Mental Evolution in Man. Origin of Human Faculty, D. Appleton and Company, New York 1898, in particolare p. 27. Per l’edizione italiana si veda Id., Evoluzione mentale nell’uomo. Origine delle facoltà umane, tr. it. di G. Scoccianti, Fratelli Bocca Editori, Torino 1907, in particolare p. 26. [N.d.C.]
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nel senso di Romanes non rimane molto altro che «la tendenza a interpretare tutte le manifestazioni osservate in maniera il più possibile obiettiva secondo la forma umana di pensare e precisamente secondo la riflessione logica»2. Come altrimenti intendere l’attribuzione all’animale di quelle rappresentazioni astratte come caldo, amaro, commestibile, ecc.! Neppure l’essere umano solitamente ricorre alla sua capacità concettuale quando prova queste sensazioni. L’animale impiegherebbe qui allora la riflessione logica in misura molto maggiore rispetto all’essere umano. E quindi, se si volesse essere coerenti, si dovrebbe pensare l’intera vita animale come permeata e determinata unicamente da rappresentazioni astratte. Già il giovane pollo, quando becca il chicco e lascia da parte il granello di sabbia, verrebbe guidato dalle rappresentazioni astratte «commestibile» e «non commestibile». Inoltre non sarebbe la semplice sensazione di fame a indurre l’animale ad andare alla ricerca di cibo, ma la rappresentazione astratta «fame», ecc. Il carattere non intuitivo della rappresentazione astratta comporta già il fatto che l’animale non possa essere capace di astrarre. Tutte le osservazioni e soprattutto i precisi esperimenti di Koehler sugli scimpanzé intelligenti hanno portato all’assoluta consapevolezza che l’animale, con il suo rappresentare e pensare, rimane irrimediabilmente limitato alla zona dell’in tuizione. Forma certo rappresentazioni intuitive (rappresentazioni individuali e di specie), ma la sua capacità intellettiva non è sufficiente per il concettuale non intuitivo. Così il cane non vede l’altro cane «in quanto cane», ossia in quanto oggetto del pensiero non intuitivo che si riferisce a ogni cane e al quale non corrisponde nulla di reale; vede invece in esso «un» 2. Alsberg cita qui con precisione W. Wundt, Grundriss der Psychologie, Verlag von Wilhelm Engelmann, Leipzig 1898, p. 334. Per l’edizione italiana si veda Id., Scritti scelti, a cura di C. Tugnoli, UTET, Torino 2006, p. 366. [N.d.C.]
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cane, cioè un cane bianco o nero, grande o piccolo di questa o quella razza. Se l’altro cane è ancora molto distante, si forma prima di tutto una rappresentazione intuitiva della specie o della classe cane; se l’altro cane si avvicina, la rappresentazione della classe viene sostituita dalla rappresentazione individuale di questo cane. Una rappresentazione della specie o della classe (per esempio quella di un uovo di gallina), a causa della evidente somiglianza dei singoli oggetti tra loro, è sempre di carattere intuitivo all’opposto della rappresentazione generale (concetto) riferita non tanto a una classe di oggetti assolutamente somiglianti, ma proprio a oggetti dissomiglianti che si rassomigliano tra loro solamente in questo o quel punto e perciò ha sempre un carattere non intuitivo. Se dunque distinguiamo nettamente le rappresentazioni intuitive, individuali e di classe, dalle rappresentazioni concettuali non intuitive, allora non potremmo mai dubitare del fatto che l’animale non può spingersi sino all’astrazione. Se trascuriamo questa distinzione, allora uno stato di cose di per sé semplice ci si ingarbuglia tra le mani, portando a conclusioni completamente assurde. La sfera rappresentativa intuitiva dell’animale corrisponde anche al suo comportamento. Ma proprio nei comportamenti degli animali si è voluta scorgere un’ulteriore dimostrazione del loro essere dotati di «ragione», lasciandosi affascinare dal loro carattere «logico»: il cavallo passa con un salto maggiore sopra un fossato più largo che sopra uno più stretto; la scimmia testa la portata del ramo prima di affidarsi a esso; l’elefante si rifiuta di passare sopra un ponte che sembra troppo fragile per il peso del suo corpo, ecc. Se da questo tipo di comportamento dell’animale si è dedotto che questi abbia un pensiero «razionale», si è potuti incorrere in questo equivoco soltanto perché non si è tenuto conto che c’è anche una logica «naturale», radicata nella facoltà dell’intelletto, che non ha nulla a che vedere con il pensiero astratto e la logica concettuale scientifica. Finché la logica, come negli esempi precedenti, ricomprende solamente
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i giudizi intuitivi, ottenuti per comparazione, e le conclusioni intuitive, tratte dal rilevamento di nessi e relazioni visibili, essa non è altro che una questione che riguarda l’intelletto. Solamente quando viene estrapolata dalla sfera intuitiva e assume dunque un carattere concettuale si mette al servizio della ragione. Anche all’animale non deve dunque essere contestata una certa dose di logica naturale crescente di pari passo con l’evoluzione dell’intelletto; resta tuttavia decisivo il fatto che la sua logica si riferisca sempre soltanto a cose e pratiche percepite in maniera intuitiva. Come potrebbero riuscirgli infatti, malgrado il suo cervello non sviluppato, prestazioni di pensiero più elevate rispetto alle razze umane meno evolute, con il loro dispiegamento cerebrale incomparabilmente più ricco? Poiché queste possiedono una lingua, abbiamo una positiva testimonianza di quanto siano elevate le loro formazioni di pensiero. Una lingua composta solamente da parole concrete dimostra che l’essere umano che parla questa lingua è ancora bloccato nella zona delle rappresentazioni puramente intuitive. Poiché non si riesce a capire perché un popolo che possiede segni-parola per le rappresentazioni intuitive non dovrebbe aver trovato dei nomi per le rappresentazioni astratte, se ne avesse. La difficoltà del pensiero concettuale deriva inoltre anche dal fatto che se nella lingua sono realmente già presenti delle parole astratte, di esse viene fatto un uso ancora limitato e viene preferita loro una prolissa perifrasi composta da parole concrete. La constatazione che all’animale manchi la facoltà concettuale ci conferma che l’animale non prende parte neppure a questa modalità di effettuarsi del principio evolutivo umano. L’animale ha sì l’intelletto, ma non la ragione. In questo modo viene al contempo data risposta anche alla domanda se l’evoluzione spirituale dell’essere umano sia un mero incremento dell’evoluzione spirituale dell’animale. L’intelletto è una facoltà fisico- funzionale, la ragione una facoltà esosomatica dello strumento. Con la formazione del concetto un nuovo principio irrompe
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così nel processo evolutivo per trasformarlo da capo a piedi. Riguardo a ciò, anche se la ragione dovesse ricollegarsi all’intelletto in quanto suo punto di partenza, essa non è affatto una sua analoga prosecuzione, ma differisce da esso per essenza. La domanda, di per sé oziosa, sul perché l’animale non possegga una ragione, dal punto di vista della nostra trattazione trova sostanzialmente ancora una volta risposta nella contrapposizione dei principi evolutivi. Storicamente [historisch] l’assenza di ragione dell’animale viene fatta risalire al suo essere privo di linguaggio e alla sua formazione spirituale non ancora sufficientemente evoluta per il processo di astrazione. La carenza di ragione deve negare all’animale anche le rappresentazioni astratte del vero, del buono e del bello, precludendogli per sempre l’accesso agli ambiti spirituali umani della scienza, della morale e dell’estetica. Eppure, anche in questa equiparazione all’essere umano, si sono volute fare all’animale certe concessioni. Che l’animale pratichi una vera scienza, tuttavia, non è mai stato sostenuto seriamente. L’essere umano stesso riesce a elevarsi a un pensiero logico-scientifico, ispirato da una pura tensione alla verità, solamente quando ha raggiunto un alto grado di maturità spirituale attraverso un ricco dispiegamento della ragione. Come la mettiamo però con lo «stadio preliminare», con la cosiddetta scienza «pratica», che è indirizzata alla vita stessa e alla sfera dei suoi interessi? Anche l’essere umano privo di ragione esercita già la scienza pratica raccogliendo esperienze per arricchire i suoi mezzi di sussistenza. Perché dunque anche l’animale non dovrebbe voler e poter raccogliere per la sua propria utilità un certo numero di esperienze, tanto più che la caratteristica della «curiosità» non gli è affatto estranea? Così ci si è immaginati il passaggio dalla scienza pratica a quella pura: l’osservazione, prima fatta con lo scopo di «un’applicazione utile per sé», in seguito suscitò interesse in quanto
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tale e perciò, senza considerare la sua valorizzazione pratica, divenne fine a se stessa (Mach). Sarebbe però assurdo interpretare qui la «continuità» dell’evoluzione ancora come un suo «incremento». Perché una volta che la «pura» conoscenza si è impossessata del nostro pensiero con la sua idea del «vero», ha già avuto luogo l’affrancamento dalla costrizione corporea delle pulsioni, il principio si è rovesciato, la scienza ha preso una forma completamente nuova, radicata nella liberazione dal corpo. Certamente anche l’animale, conformemente alla sua vita pulsionale, è in grado di fare esperienze utili. Ma rimane escluso dalla vera scienza che disattiva la costrizione del corpo. Qui, nuovamente, abbiamo un principio evolutivo contro l’altro. Anche nel campo della morale dovremo tirare una linea netta tra gli «stadi preliminari» e lo stadio autentico della morale vera e riconoscere al contempo che, seppur ci siano passaggi continui, lo stadio morale non è una mera prosecuzione dell’evoluzione, ma conduce a una nuova era. Per quanto dovrebbe essere già certo che l’animale non conosce la «morale» perché gli manca la coscienza della «buona» azione, non sono mancati gli sforzi di cancellare la linea di confine e di includere l’animale nella sfera morale umana. Così Graeser, solo per citare un singolo autore, collega la «fedeltà al proprio dovere» del cane a una rappresentazione «etica [sittliche]» ed egli ritiene che «sarebbe oltremisura arbitrario e ingiusto negarla agli animali, soltanto per far passare il “senso morale” come un privilegio dell’essere umano»3. A essere soprattutto avvolto da una parvenza «morale» è il fenomeno dell’«amore materno» nell’animale. La cura della madre per il suo cucciolo nelle scimmie è persino divenuta proverbiale, con il significato secondario di un amore materno «esage3. Alsberg cita qui K. Graeser, Die Vorstellungen der Tiere. Philosophie und Entwicklungsgeschichte, Verlag Georg Reimer, Berlin 1906, p. 182. [N.d.C.]
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rato». Non si può certo dubitare che l’allevamento dei cuccioli venga posto come alto interesse per il genere e non è mai rimesso all’arbitrio dei singoli, ma viene invece indotto con forza attraverso l’istinto [Instinkt]. E se andiamo a fondo nelle cose, l’accudire la prole sino all’autonomia ci si presenta come la mera conclusione della questione istintiva della riproduzione, dunque come una sua parte integrante (von Hartmann)4. Allo stesso modo è asservito alla costrizione dell’istinto il tanto decantato dispositivo della «monogamia» di alcune specie animali. Il suo carattere istintuale risulta già dal comportamento assolutamente omogeneo di tutti gli animali all’interno del genere. Se l’animale pratica la monogamia, la poligamia o vive completamente senza vincoli di questo tipo, non è mai una sua scelta, ma ciò viene esercitato in maniera puramente istintuale in stretta correlazione con l’allevamento della prole. Perciò si trova «raramente nei vertebrati inferiori il vivere insieme in coppia, più spesso invece negli animali superiori che prendendosi cura della crescita della prole rimangono legati per un tempo più lungo all’agire collettivo, specialmente negli uccelli, dove alla fine si sviluppano delle relazioni che, come nelle cicogne e nelle rondini, ecc., ricordano il matrimonio degli umani» (Kraepelin)5. Accanto all’istinto anche il principio di utilità gioca nella vita animale un importante ruolo e può condurre a molteplici tipologie di socializzazione. La più famosa è la «simbiosi» di alcuni animali, come il vivere insieme del paguro bernardo e dell’anemone di mare. L’anemone altamente urticante allontana i nemici dal corpo [Leib] del pa4. Alsberg si riferisce qui verosimilmente al capitolo B.1. «L’istinto nello spirito umano» di E. von Hartmann, Philosophie des Unbewussten, Carl Dunkers Verlag, Berlin 18713, pp. 183-196. [N.d.C.] 5. Alsberg cita qui in maniera imprecisa K. Kraepelin, Die Beziehungen der Tiere und Pflanzen zueinander, B. G. Teubner Verlag, Leipzig 1913, p. 67. [N.d.C.]
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guro, mentre questo, potendosi spostare, procura all’anemone cibo in abbondanza. Quando il paguro cambia la conchiglia, prende con sé il suo anemone e lo pone con le sue chele sulla sua nuova casa (Brehm). Per descrivere la relazione reciproca di questi due animali si potrebbero far sfilare, volendo affrontare la cosa in maniera «morale», le più belle «virtù» come l’amicizia, la riconoscenza, il senso del dovere, ecc., eppure ciò è semplicemente dettato dal mero tornaconto. Se scartiamo da una parte ogni agire dettato dall’istinto e dal l’utilità, dall’altra ogni agire che poggia sull’addestramento e sull’abitudine, nell’animale non rimane molto della «morale». L’errore è stato di prendere troppo alla lontana il concetto di morale, tanto nell’animale che nell’essere umano, invece di fondarlo sul segno distintivo decisivo e differenziante della consapevolezza della buona azione. Fintanto che nei popoli primitivi, ma anche nell’umanità civilizzata, la costrizione dell’istinto e le rappresentazioni di utilità determinano la condotta della vita, la morale stessa non ha ancora messo radici. Solamente il consapevole superamento della vita pulsionale del corpo in forza dell’idea del buono imprime a un agire o a un sentire il timbro della morale. Solo in quel momento il principio dell’umano è entrato in essi ed è subentrata una differenza di principio rispetto a tutti gli «stadi preliminari». Anche qui è dunque ancora una volta lo stesso: l’evoluzione procede, il principio invece cambia. L’evoluzione verso la morale potrebbe essere andata così: all’istinto si sovrapponevano sempre più rappresentazioni etiche, finché queste non lo hanno sostituito completamente e anche le azioni dettate dall’utilità a poco a poco sono passate dal singolo alla famiglia, alla stirpe, alla comunità umana, ossia si trasferirono dall’egoismo all’altruismo. Il fatto che l’essere umano, anche nell’ambito della morale, spesso non si comporti diversamente da quanto non farebbe l’animale sotto la costrizione dell’istinto (ad esempio nel suo «morale» amore materno) è una questione a sé che mira alla
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destinazione naturale della morale e che verrà tematizzata nella parte conclusiva del nostro trattato. Resta ancora da ricordare il tentativo di mettere in relazione con l’animale l’estetica. Qui solitamente ci si richiama al presunto «senso del bello» dell’animale. Già Darwin prese le mosse da idee di questo tipo nella sua teoria della «selezione sessuale». Ebbene, non c’è nulla di più discutibile dell’ipotesi che l’animale veda il mondo con lo stesso sguardo dell’essere umano. Ma ammesso pure che la femmina si senta attratta dalla «bellezza» del maschio, questo sarebbe un gradimento solamente erotico che dovrebbe immediatamente sottrarre il terreno a ogni vera trattazione estetica, poiché non sarebbe soddisfatto il suo primo prerequisito, la disattivazione di tutto ciò che appartiene al desiderio [alles Begehrlichen]. Comunque un tale gradimento interessato-erotico, come mostra anche l’essere umano primitivo (e non soltanto lui) con gli ornamenti del corpo, può condurci sulla strada verso l’origine del senso del bello. Avremmo allora, anche per l’estetica, una linea evolutiva progressiva che modifica radicalmente la sua direzione nell’istante in cui l’interessamento si rovescia in «disinteressamento», cioè nella liberazione dal corpo. Se si volesse quindi, qui come altrove, riconoscere la partecipazione dell’animale agli «stadi preliminari», resta però ovunque decisivo che tra «stadio preliminare» e «stadio» si inserisce un principio essenzialmente estraneo all’animale. Lo «stadio preliminare» è infatti diverso «per essenza» dallo stadio autentico e, per esso, non è altro che un punto di raccordo e di partenza. Dovesse dunque partecipare agli stadi preliminari anche l’animale, seppur in misura insignificante, esso resterebbe però immancabilmente assoggettato al suo proprio principio evolutivo che non ammette alcun allentamento della costrizione del corpo. Nulla mi sembra più certo del fatto che un godimento puramente estetico, che fa perdere di vista la realtà, all’animale costerebbe presto la pelle.
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Capitolo 15
Ricapitolazione Concetto ed essenza dello strumento – Guida dell’evoluzione umana tramite lo strumento – Libertà corporea e spirituale – Successione e connessione degli strumenti – Unità del genere umano – Determinazione concettuale dell’essere umano – Diversità d’essenza tra essere umano e animale
Siamo ormai giunti al punto di poter apprezzare il risultato della nostra ricerca nel suo complesso. In primo luogo, è stato dimostrato un principio immanente che sta alla base dell’intera evoluzione dell’umanità. Se la vita umana nella sua attuale forma culturale è policroma e grandiosa, se le enormi creazioni della tecnica moderna ci riempiono di stupore, se toccati da un rispetto profondo seguiamo i sublimi pensieri d’eternità dei nostri grandi filosofi che sondano lo spirito universale, se le edificanti azioni di altissima abnegazione ci scuotono profondamente, se misteriosamente nel nostro intimo veniamo ammaliati dalla magica bellezza della natura e dell’arte: tutta questa ricca e formidabile vita culturale la dobbiamo al semplice e poco appariscente principio evolutivo della liberazione dal corpo. Abbiamo appreso i mezzi con cui il principio si è realizzato e dispiegato. Sono gli strumenti artificiali, nelle forme dello strumento tecnico, della parola e del concetto, ciò su cui si basa il patrimonio umano della tecnica, del linguaggio e della ragione. Per giungere a questa conoscenza è stato però prima necessario procedere a un’emendazione del concetto di strumento. Lo strumento non è, come comunemente si intende, un mezzo di potenziamento del corpo, bensì un mezzo per la sua disattivazione.
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Il tipo di prestazione di uno strumento dipende in primo luogo dal suo materiale; questo determina dunque la «specifica» prestazione dello strumento. Nulla sarebbe perciò più errato di voler mettere in dubbio in uno strumento la sua qualità di essere uno «strumento» sulla base del fatto che il suo materiale non è una sostanza «solida», come il metallo, la pietra, il legno, ma viene tratto, ad esempio, dalle forze della natura, come il fuoco, l’elettricità oppure dalle stesse forze spirituali umane. E il pregio inestimabile dell’utilizzo di strumenti artificiali sta proprio nel fatto che l’essere umano è libero nella scelta del loro materiale. D’altra parte, l’essere umano può mettere in conto tra i suoi meriti quello di aver saputo sfruttare per l’acquisizione di strumenti anche elementi spirituali. Il tipo di materiale, poiché condiziona la specificità della prestazione, deve naturalmente essere sempre conforme allo scopo dello strumento. Se, ad esempio come accade con la lente ottica, con lo strumento aspiro a interrompere in una determinata maniera i raggi di luce, allora come materiale scelgo il vetro o il quarzo; se voglio un effetto di incandescenza, allora prendo in maniera appropriata il fuoco o la corrente elettrica; ma se lo strumento deve effettuare «rappresentazioni mentali», allora questo deve essere adeguatamente costituito da associazioni, cioè deve essere di tipo «spirituale». Se in tal modo si è fatta chiarezza sul concetto e l’essenza dello strumento, allora la nuova dottrina esposta in questo trattato relativa alla natura di strumento del linguaggio e della ragione non creerà più sconcerto. Anche l’obiezione secondo la quale invece la parola viene «detta» e il concetto «pensato» ha ormai perso vigore dopo che abbiamo riconosciuto che, in questo caso, il dire e il pensare non sono altro che l’«azionamento» dei due strumenti. Non dobbiamo occuparci qui nuovamente di dimostrare in modo specifico l’artificialità e la realtà esosomatica della parola e del concetto. Lo sforzo che uno strumento richiede al corpo per il suo «azionamento» sarà in generale
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tanto più grande quanto più è grezzo lo strumento, e tanto più piccolo quanto più questo è perfezionato. Ciò vale non soltanto per la tecnica con i suoi macchinari altamente evoluti, ma analogamente anche per il linguaggio e la ragione. Come abbiamo visto, nella ragione è solamente la funzione cerebrale denominata «intelletto» a occuparsi dell’intera costruzione e dell’azionamento dei suoi strumenti concettuali. Ma come nella tecnica moderna il «macchinario» diviene sempre più indipendente dalla mano, producendo gli strumenti più complessi, per un verso con l’aiuto di altri strumenti più semplici, per l’altro richiedendo un azionamento proporzionalmente ridotto, così anche la ragione altamente evoluta si rende sempre più indipendente dall’intelletto, formando i concetti più elevati, per un verso a partire da altri concetti inferiori (senza ricorrere in misura peculiare alla facoltà intuitiva, cioè all’«intelletto»), per l’altro raggiungendo un alto grado di automazione. Così l’essere umano civilizzato colto capisce senza problemi il discorso più astratto, il matematico l’equazione più astratta, ecc. In questo caso, come giustamente osserva Schopenhauer, è «la ragione che parla alla ragione»1. Si indica spesso lo strumento come un mezzo di compensazione per l’indigenza del corpo dell’essere umano. Sotto molti aspetti questo può anche essere vero per l’umanità civilizzata. Questa mediazione compensatrice dello strumento ha quindi condotto all’idea che in essa si dovessero cercare anche il senso autentico e il fine dell’uso di strumenti. Di conseguenza l’inabilità corporea dell’essere umano sarebbe dunque uno stato originario e l’accoglimento dello strumento un processo soltanto 1. Il riferimento è al § 9 del primo libro di A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung [1818], Arthur Schopenhauer’s Sämmtliche Werke, a cura di J. Frauenstädt, 2, vol. 1., Brockhaus, Leipzig 1919, p. 46 e ss. Per l’edizione italiana si veda Id., Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di S. Giametta, Bompiani, Milano 2006, pp. 108 ss. [N.d.C.]
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secondario, esercitato dall’essere umano per compensare le sue carenze corporee. Il rigore della logica esigerebbe che questa assunzione non fosse limitata solamente all’umanità civilizzata, ma che venisse invece applicata anche ai primissimi stadi dell’umano, considerate le prove a favore del fatto che l’essere umano si trova già sin dai primordi in possesso di strumenti. Così si è stati incastrati dalla logica nell’avventurosa ipotesi che già l’essere umano delle origini, poiché usava strumenti, dovesse possedere un corpo di scarso valore, per la compensazione del quale avrebbe «inventato» lo strumento. Abbiamo potuto mostrare che la relazione causale tra l’uso dello strumento e l’arretramento del corpo viene qui completamente ribaltata. Non si può ipotizzare altrimenti se non che l’essere umano delle origini, nell’istante in cui è emerso dai suoi predecessori animali, aveva ancora a disposizione un corpo intatto, completamente adattato alla natura. Soltanto con l’accoglimento dello strumento egli aprì una breccia nell’integrità del corpo, poiché gli organi disattivati si abbandonarono a una regressione fisiologica. A quel punto però, incrinata l’unità dell’adattamento corporeo alla natura, l’essere umano non poté più, in seguito, fare a meno degli strumenti. In essi si esprime proprio il carattere progressivo-dinamico del principio evolutivo dell’essere umano, secondo il quale il principio non conosce un tornare indietro, ma soltanto un andare avanti, e lo impone in modo inesorabile. La necessità dell’uso di strumenti discesa in maniera costrittiva sugli esseri umani, in seguito fa certamente apparire lo strumento come un mezzo «compensativo». Ciononostante la sua determinazione originaria non è cambiata in nulla. Se la parte del corpo disattivata viene colta ancora nel pieno del suo valore oppure già in regressione, lo scopo della liberazione dal corpo rimane lo stesso. Se lo strumento, nella sua determinazione, fosse semplicemente un mezzo per la «compensazione», rimarrebbe ancora assolutamente incomprensibile che l’arretramento del corpo, nel corso dell’evolu-
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zione umana, abbia fatto progressi così significativi. Se invece riconosciamo lo strumento come un mezzo per la «liberazione dal corpo», allora è una esigenza puramente logica il fatto che le regressioni del corpo siano andate di pari passo con il perfezionamento nella produzione di strumenti e il conseguente incremento della disattivazione del corpo. Quindi lo strumento nella sua evoluzione non è rimasto indietro rispetto alla crescente indigenza del corpo umano, ma, all’inverso, è il corpo nella sua evoluzione ad aver seguito lo strumento. Perciò il corpo si è ulteriormente evoluto progredendo ovunque, anche lì dove lo strumento ha richiesto la funzione corporea per essere fabbricato e azionato. Proprio questo duplice retroeffetto dell’uso dello strumento sull’evoluzione del corpo, che ha luogo in direzioni opposte, ha conferito alla figura del corpo umano un conio molto caratteristico nel quale si legge il «principio della liberazione dal corpo» con la stessa chiara certezza con cui nella figura del corpo animale si legge il «principio dell’adattamento del corpo». Perciò l’essere umano non è affatto un «tipo fisso», come ritiene invece Spencer sostenendo il principio sociale del «superorganico». Il confronto dello «scimmiatico» Trinil con il moderno essere umano civilizzato indica in maniera convincente le notevoli trasformazioni compiute dalla costituzione del corpo umano. Nel principio della liberazione dal corpo troviamo invece una spiegazione semplice e convincente, tanto per le acquisizioni culturali «esosomatiche» quanto per i mutamenti «organici» dell’essere umano. Così il fatto storicamente attestato della produzione di strumenti, iniziata dal basso e rivolta verso l’alto da una spinta destinale al perfezionamento, si ricollega con la specifica configurazione del corpo umano, ugualmente condizionata dallo strumento, come testimonianza infallibile a favore della nostra assunzione che questo principio sia, in verità, il «principio evolutivo» dell’umano.
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Abbandonando il principio animale dell’adattamento del corpo, l’essere umano, staccandosi dalla costrizione del corpo all’adattamento, si liberò al contempo anche dalla limitatezza naturale di questo. Gli strumenti artificiali sono infatti ampiamente superiori agli organi corporei ai quali subentrano e rendono gli esseri umani capaci di prestazioni straordinarie, irraggiungibili con il solo corpo e che perciò agli animali risultano completamente impossibili, nonostante la perfezione del corpo. Questa inestimabile superiorità materiale degli strumenti artificiali sugli organi del corpo altamente evoluti diviene evidente non soltanto nella tecnica, ma con la stessa intensità anche nel lin guaggio e nella ragione. Qualunque cosa accada sulla terra, con la mediazione della lingua e della scrittura essa diviene patrimonio esperienziale condiviso di tutti gli esseri umani. Appropriandosi in questo modo dei vissuti dell’intera umanità, il singolo essere umano può porre la sua condotta di vita, liberata ora dalla costrizione del proprio vissuto limitato, su un ampio fondamento sino a quel momento sconosciuto. Essendo inoltre in grado, attraverso il pensiero astratto, affrancato dalla costrizione della limitata modalità della rappresentazione «intuitiva», di ricomprendere il caso singolo nell’ampia organicità del tutto, nella sua condotta di vita prende posto una «avvedutezza» che non è più ristretta da impressioni sensoriali istantanee ed effetti emotivi, ma, indipendentemente da questi, determina il suo comportamento da una prospettiva più elevata e contrappone alla coattiva vita pulsionale del corpo una tensione ideale. Il possesso di questa inestimabile libertà di cui l’essere umano gode grazie alla liberazione dal corpo, limitato dalla natura, è il regalo più prezioso del suo principio evolutivo e ci dischiude quello che è il suo significato più profondo. Secondo il tipo di liberazione dal corpo, è possibile distinguere due forme di libertà: la libertà corporea e la libertà spirituale. La prima si riferisce alla liberazione dei singoli organi, la seconda alla liberazione dalla vita pulsionale del corpo. All’ambito
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della libertà «corporea» appartengono dunque anche i casi in cui l’essere umano con lo strumento tecnico si svincola dalla limitatezza naturale degli organi corporei, in cui con la «parola» si eleva sulla ristrettezza della propria percezione e in cui, con il «concetto», dalla limitatezza dell’unità intuitiva giunge alla pienezza del tutto. Nell’ambito della sua libertà «spirituale», l’essere umano, affrancato dalla costrizione delle pulsioni, si innalza sulla sua esistenza terrena ricca di affanni e miserie verso gli spazi puri del vero, del buono e del bello. Il pensiero scientifico gli permette di trovare la regolarità nella natura e i principi superiori a cui questa è sottoposta. La morale, in quanto realizzatrice del bene, porta un senso di nobiltà e di purificazione nel cuore dell’essere umano e mitiga le asperità della lotta per l’esistenza. In un altro senso la contemplazione estetica, introducendo gli esseri umani nel regno ideale della bellezza, li distoglie delle necessità della vita e dalle fatiche del quotidiano. Che l’essere umano nella sua libertà, e con essa, rimanga al contempo assolutamente soggetto al generale or dine della natura non riduce affatto la sua libertà, ma traccia attorno a essa una netta linea di confine. Questa viene poi trascurata nel momento in cui non si intende più rigorosamente la libertà come una liberazione dal «corpo», ma anche come una liberazione dalla «natura». Su questa questione torneremo nella parte conclusiva del trattato. Per valutare correttamente il rapporto che intercorre tra le singole forme di strumento occorre considerare la sequenza temporale, confermata dalla storia dell’evoluzione, con la quale gli strumenti entrano nel processo evolutivo dell’essere umano. E ciò con ancora più fermezza in quanto la ragione, nella moderna condotta di vita, si spinge così poderosamente in primo piano su tutto ciò che accade da mettere in ombra le altre due facoltà dello strumento. Se per questo si è voluto vedere nella ragione l’autentico fondamento essenziale dell’umano, tale determinazione mostra invece soltanto che
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non si conosceva o non si è compreso correttamente il divenire storico della cultura. Grazie alla testimonianza di tutti i documenti provenienti dai primordi dell’essere umano, oggi non possiamo più dubitare che sia stato lo strumento tecnico il primo a divenire proprietà dell’umanità. È stato dunque lo strumento tecnico a porre il fondamento dell’umano. A partire da esso ha preso le mosse l’evoluzione del genere umano e di ogni successiva tecnica. Soltanto molto più tardi è sopraggiunta la parola come nuova forma di strumento. Quando precisamente l’essere umano sia approdato al linguaggio è tuttavia solo presumibile. Dai segni distintivi anatomici del teschio del Neandertal si crede di poter dedurre che questo essere umano vissuto nell’era glaciale, ossia nella prima età della pietra, fosse già in possesso di un linguaggio primitivo. Per quanto riguarda la ragione, considerato che i concetti si ancorano al linguaggio per condizione evolutiva, può essere sostenuto con estrema certezza che questa sia comparsa soltanto dopo l’acquisizione del linguaggio. Certo, l’osservazione che ancor oggi in alcune lingue primitive i termini concettuali mancano oppure vengono scrupolosamente evitati depone a favore della assunzione che l’umanità abbia maturato relativamente tardi la capacità di formazione dei concetti. La creazione del linguaggio e della ragione come tipi di strumento «spirituali» a un primo sguardo sembra essere molto lontana dalla tecnica. Al contempo, già solo il semplice fatto che tutte e tre le forme siano germogliate dallo stesso principio rinvia al loro essere originariamente collegate. La stessa relazione causale tra linguaggio e ragione, che viene alla luce in modo evidente, deve essere logicamente presunta anche tra questi e la tecnica. Vediamo certo ancor oggi che le tre forme di strumento operano l’una con l’altra e l’una per l’altra, per rafforzare e arricchire insieme, ciascuna con il proprio peculiare contributo, il loro comune principio madre. Questo intrecciarsi e questo cooperare armonicamente di tecnica, linguaggio e ra-
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gione possono essere compresi soltanto se li esaminiamo dalla prospettiva univoca del principio dell’umano. Le tre forme di strumento ci appaiono allora certamente differenti nella loro tipologia, ma nel loro obiettivo indirizzate unanimemente in quanto emanazioni dello stesso principio. Il principio fa il suo ingresso nel mondo per la prima volta con il più grezzo strumento tecnico. Subito spinge a un dispiegamento che faccia diventare lo strumento più maneggevole e che configuri in modo più intensivo e con maggiore abilità l’uso di strumenti. Con il lento e progressivo miglioramento dello strumento tecnico si presenta poi la necessità pratica di nominare singoli, determinati oggetti e pratiche connessi all’utilizzo di strumenti. Così viene fruttuosamente dato avvio alla formazione di una nuova forma di strumento, quella della «parola», e il principio può ora ampliare e approfondire notevolmente la sua base di dispiegamento. Perché non soltanto la nuova lingua appena sorta serve immediatamente e mediatamente come sostegno efficace per lo strumento tecnico, ma ottiene subito, con un’evoluzione autonoma, un proprio campo d’azione nella liberazione dal corpo, allargando sempre più i suoi confini, sino a che si raggiunge infine il punto in cui viene percepita la nuova esigenza di una sintesi unificatrice delle singole cose concrete. Su un terreno così ben preparato, come terza forma di strumento, può germogliare il «concetto» che, grazie alla sua capacità di rilevare le ampie connessioni di tutte le cose, fa saltare la cornice evolutiva sino a quel momento ancora pur sempre ristretta e fa oramai scattare il principio verso un suo più alto e libero dispiegamento. Come il linguaggio si fa strumento completo dello scambio di esperienze e di pensieri soltanto attraverso l’introduzione della parola astratta, così anche la tecnica viene condotta a una più elevata evoluzione e riceve uno slancio inaspettato soltanto attraverso la comprensione astratta – ora possibile – delle regolarità, delle relazioni e delle connessioni nella natura. Al contempo anche il nuovo strumento concet-
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tuale si conquista un proprio campo d’azione che si spinge in spazi sino a quel momento preclusi all’esistenza terrena e nei quali viene messo a tacere il naturale egoismo. Se è certo che con la creazione della ragione si inaugura una nuova era nella condotta di vita degli esseri umani, falso sarebbe fare della ragione l’autentico principio essenziale e lo spi ritus rector dell’evoluzione dell’umano. La ragione sta invece su un unico livello con le altre facoltà dello strumento che le sono sorelle e tutte e tre conservano il loro proprio rango e campo d’azione, pur compenetrandosi e arricchendosi vicendevolmente in profondità. Il fatto che soltanto la ragione, l’ultima a crearsi, abbia innalzato l’evoluzione da una bassezza angusta e desolata ad altezze ampie e ricche non le dà alcuna preminenza di principio, rimanendo invece nella cornice di una evoluzione naturale che, da un avvio primitivo, si spinge con mezzi sempre più efficaci verso la perfezione. È il comune principio madre della liberazione dal corpo ciò che ha prodotto, a partire da sé, tutte e tre le forme di strumento per portarsi, con il loro aiuto, alla più alta efficacia e al più alto dispiegamento. L’uniformità del principio evolutivo umano condiziona inoltre il fatto che tra i singoli stadi evolutivi dell’umano non possa essere costruita alcuna differenza di principio. Perché l’emergere di nuove forme di strumento serve semplicemente alla diffusione e all’approfondimento della base d’azione dello stesso principio e significa quindi soltanto il progredire dell’evoluzione sullo stesso binario. Il principio come tale non cambia e così anche l’essere umano, prodotto e al contempo portatore del principio, deve rimanere sempre uguale nella sua essenza in quanto «essere umano». Come però il principio è progredito dai suoi primi abbrivi al suo ricco dispiegamento attuale, così assieme a esso anche l’essere umano è salito stadio per stadio. Allo stadio più basso si trova l’essere umano delle origini. È il fondatore dell’ambito dell’umano [Menschentum]. Facendo
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balenare per la prima volta con la sua grezza arma di pietra il principio dell’umano, esso diede inizio alle danze dell’umano e aprì la porta al successivo brillante cammino del genere. Per quanto profondo possa essere ancora oggi l’abisso che divide l’essere umano delle origini da quello civilizzato è solamente il grado, l’altezza dell’evoluzione a differenziarli l’uno dall’altro. Ciò a cui il primo aspirava con mezzi ancora miseri, il secondo lo conquista con grande sfoggio dei moderni mezzi culturali. Lo stesso principio evolutivo tiene ambedue insieme tra le sue braccia materne. Perché entrambi effettuano secondo la loro essenza lo stesso, in breve si comportano e si mostrano come «esseri umani». Questa è una cognizione che dobbiamo tener ferma: Nella loro evoluzione tutti gli esseri umani sottostanno allo stes so principio della liberazione dal corpo, sono differenti tra loro soltanto per il grado dell’evoluzione, ma identici per essenza. La rilevanza di principio di questa considerazione è messa in piena luce solamente dimostrando l’esclusione assoluta dell’animale dal principio evolutivo umano, ossia col secondo risultato fondamentale del nostro trattato. L’animale è radicato sempre e ovunque nel principio fondamentale dell’adattamento del corpo. Anche dove nel regno animale è possibile osservare accenni occasionali di uso di strumenti, questi non vengono però mai assunti nel processo evolutivo, non spezzano mai l’integrità del principio dell’adattamento del corpo. Il principio evolutivo umano e quello animale stanno invece in stridente opposizione l’uno con l’altro ed è proprio questa loro opposizione che impedisce ogni tentativo di avvicinarli o confonderli. Perciò tutte quelle ipotesi che vogliono gettare un ponte che medi tra l’essenza umana e quella animale sono di per sé destinate sin dall’inizio al fallimento. Perciò anche se non vengono affatto contestati i «passaggi fluidi», in quanto premessa logica per ogni evoluzione naturale, un principio non trapassa mai
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nell’altro. Per poter propriamente entrare in vigore, il nuovo principio dell’umano si ricollega sempre, infatti, nelle sue forme effettive, agli stadi precedenti, ma essendo in opposizione traccia subito il confine netto con l’animale. Dedurre dalla continuità dell’evoluzione l’analogia della stessa è stato perciò un grande abbaglio della scuola darwiniana. Romanes, sostenitore solerte dell’analogia tra l’evoluzione spirituale umana e quella animale, parla in questo caso della «precipua differenza nell’evoluzione, all’inizio ravvicinata quanto lo spazio tra due rotaie, in seguito dilatata quanto un ampio crepaccio, per poi concludersi infine quasi agli opposti poli»2. Se dalla proposizione si espunge la parolina «quasi» non ci sarebbe migliore formulazione di questa per esprimere il vero stato delle cose, proprio contro le intenzioni dell’autore. Il principio dell’umano si avvia in maniera assolutamente impercettibile per virare subito però il corso dell’evoluzione nella direzione inversa e concluderla al polo opposto. La nuova cognizione che siano soltanto gli esseri umani nella loro evoluzione a sottostare al principio della liberazione dal corpo da una parte indica questo principio come il principio dell’umano, dall’altra, in relazione con la cognizione precedente, ossia che tutti gli esseri umani nella loro evoluzione stanno sotto questo principio, conduce a una determinazione concet tuale dell’essere umano: «Umano» è ogni essere che nella sua evoluzione sottostà al prin cipio dell’umano. Se l’essere umano è radicato nel principio dell’umano, allora è lecito cercare l’essenza dell’essere umano (per quanto in questo trattato vogliamo ragionare in termini biologici e non me2. Alsberg cita qui G.J. Romanes, Mental Evolution in Man, cit., p. 22. Per l’edizione italiana si veda Id., Evoluzione mentale nell’uomo, cit., p. 21. [N.d.C.]
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tafisici) soltanto lì dove opera il principio dell’umano: negli atti della liberazione dal corpo, i cui simboli positivi e tangibili sono gli strumenti artificiali. Dobbiamo attenerci a questa postulazione in maniera tanto più rigorosa in quanto l’essere umano, sebbene non sia affatto un animale, certamente dall’animale discende e questa sua provenienza continua ad avere un effetto vincolante, in quanto si annida ancora in esso un’eredità ani male. Abbiamo visto che il principio dell’umano ha utilizzato, asservendola, proprio questa eredità animale, il corpo e le sue funzioni, per costruire su di essa, in quanto base d’appoggio, un piano ulteriore. Accanto a ciò però il corpo difende ancora il suo proprio campo d’azione. La respirazione, la circolazione del sangue, l’assimilazione, la riproduzione, il movimento, la sensazione, ecc., tutte queste pratiche – che vengono indicate sinteticamente come processi vegetativo-animali [vegetativ- animalisch] – appartengono ai doveri del corpo necessari per la vita, nell’essere umano proprio come nell’animale. Così l’organizzazione umana si rivela come un singolare amalgama di pratiche puramente umane, legate all’uso di strumenti, e di quei meccanismi funzionali che servono alla conservazione della vita e che l’essere umano ha in comune con l’animale. Questo significa forse ora che l’essere umano è soltanto in parte «umano» e in parte ancora «animale»? Certamente no. Perché come una statua di marmo non sarà mai in parte marmo, in parte figura, ma solo e soltanto «figura», così anche l’essere umano è totalmente e completamente «umano». Lì è l’«idea» artistica, qui il «principio» creatore a piegare e a dar forma agli elementi materiali, i quali servono soltanto alla costruzione. Se però si seziona il corpo umano artificialmente nelle sue singole parti costitutive, dalla distruzione della sua forma e della sua unità ideale non resta nient’altro che il materiale da costruzione, l’eredità animale. Non è diverso se mandiamo in pezzi una figura di marmo tenendo poi tra le mani solo quest’ultimo, la mera materia.
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Poiché è un principio evolutivo, il principio dell’umano può imporsi all’essere umano soltanto gradualmente. Perciò all’inizio questi era ancora «grezzo», prevalentemente «eredità animale». Con il progressivo dispiegamento del principio l’essere umano è diventato sempre «più perfetto». Naturalmente sin dall’esordio, dopo essere entrato nel principio dell’umano, questi era già «completamente» umano, soltanto non ancora «perfetto» in quanto essere umano. Riprendiamo il paragone con la figura di marmo: quanto più grezza è una scultura, tanto più appare in primo piano la materia di partenza, la pietra. Ma, ciononostante, in quanto «scultura», anche se ancora soltanto grezza incarnazione di un’«idea» artistica, è uguale nella sua essenza alla più perfetta figura di marmo. Così anche l’essere umano delle origini, nonostante incarni in maniera ancora soltanto primitiva l’ambito dell’umano, è già nel vero senso della parola un «essere umano», solo che è un essere umano ancora altamente «imperfetto» nel quale dunque il «materiale» emerge in modo ancora eccessivo. Come l’essere umano è completamente «umano» in ogni fase della sua evoluzione, così l’animale è sempre e ovunque completamente «animale». Decisivo rimane, in un caso come nell’altro, il principio evolutivo plasmante che piega la materia e provoca una comune unità. Poiché i due principi evolutivi sono fondamentalmente diversi l’uno dall’altro, anche i loro prodotti, essere umano e animale, devono essere fondamentalmente diversi l’uno dall’altro per essenza. Così la nostra ricerca è giunta a un ulteriore risultato estremamente significativo: L’essere umano e l’animale sono diversi l’uno dall’altro per essenza. Così la dottrina, già data per morta, della peculiarità della spe cie umana celebra qui la sua splendida rinascita. Tanto più che ora questa dottrina non poggia più sulla discutibile separazione dell’essere umano in corpo e spirito, ma sulla verità dei fatti
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descritti attraverso il principio dell’umano. Nell’antica concezione dualistica il «corpo [Leib]» («animale») veniva severamente separato dall’«anima» («umana»), nel senso che l’anima veniva considerata come essenza dell’essere umano e il corpo [Leib], in quanto supporto inevitabile e di scarso valore, come una sorta di «prigione dell’anima». Ciò che le moderne scienze naturali hanno sollevato contro una tale insinuazione era in sostanza anche troppo legittimo. Il loro errore è stato però, nella difesa dello «spirituale» nell’animale, quello di non aver considerato nello spirito umano gli elementi distintivi puramente umani. Dall’elevato punto d’osservazione fornito dal principio dell’umano, il corpo umano sembra, in tutti i suoi aspetti, il fondamento dell’essenza dell’essere umano, condizionato dalla storia dell’evoluzione (per discendenza); dall’altro lato, l’essenza umana si basa sull’atto della liberazione dal corpo, ossia sui suoi mezzi simbolici, gli strumenti, e precisamente sullo strumento tecnico, come sul linguaggio e sulla ragione. Lo strumento libera gli esseri umani dalla costrizione del corpo. Anche da questo punto di vista, quello della libertà, è possibile determinare l’essenza degli esseri umani e al contempo esprimere il significato più profondo del principio dell’umano. Contraddistinguendo chiaramente l’essere umano e l’animale, il possesso della libertà è un fenomeno talmente unico che da lungo tempo si è tentato di spiegare a partire da esso l’essenza umana. Specialmente il fatto, unico in natura, che l’essere umano, in quanto «personalità», con il suo pensare, il suo volere e il suo sentire possa staccarsi dalla concatenazione naturale dell’esistente aveva attirato prepotentemente su di sé l’attenzione dei filosofi. Si era qui assolutamente sulla giusta strada senza che si fosse però riusciti a trovare il principio autentico dal quale provengono tutte le libertà. Così il concetto di libertà in sé era rimasto in balia delle opinioni e la soluzione definitiva doveva rimanere inevasa.
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Come abbiamo visto, ogni libertà umana trae origine dalla liberazione dal corpo e dalla sua limitatezza naturale. Ciò vale per la libertà corporea tanto quanto per la libertà spirituale. Solo così il problema della libertà diventa risolvibile. Il principio evolutivo della liberazione dal corpo rimane sempre il fattore superiore. Guidando l’essere umano nell’elevazione verso la sua stessa destinazione [Bestimmung] naturale, esso permette di riconoscere entrambe le forme di libertà come effetti ugualmente immanenti al regolare processo vitale dell’umano. Per i dettagli si rimanda alla parte conclusiva del trattato.
Parte Terza
L’ominazione
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Capitolo 16
Teoria e realtà La mancanza di evidenza materiale dell’età dell’ominazione – Valore della teoria – Inadeguatezza del concetto zoologico di genere – Babele di opinioni – Determinazione concettuale dell’essere umano delle origini
La nascita dell’umano, l’«ominazione [Menschwerdung]», può essere descritta come l’evento epocale fondamentale nella storia dell’umanità. Prima di tutto l’essere umano deve nascere per potere poi continuare a evolversi in quanto «essere umano» e giungere a completa maturazione nella sua destinazione [Be stimmung] naturale. L’ominazione è anche l’evento epocale più misterioso. Perché se riusciamo a immaginarci che l’evoluzione, come una sfera che ha già iniziato a rotolare, possa proseguire sul binario tracciato, tuttavia al momento continua assolutamente a sfuggirci come abbia iniziato a rotolare, come, in altre parole, l’essere umano sia improvvisamente divenuto tale a partire dall’animale. Di quest’epoca decisiva ci manca proprio ogni tipo di evidenza materiale positiva adatta a mettere in scena intuitivamente per noi lo spettacolo storico [welthistorisch] dell’insorgere dell’esse re umano dalla scimmia o, quantomeno, a farcelo intravedere con una certa determinatezza. Non conosciamo né lo scheletro del fondatore dell’umano né i suoi strumenti, né il luogo e l’ora della sua nascita, né i predecessori animali dai quali è spuntato. L’unico appiglio e appoggio positivo può fornircelo
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qui soltanto la certezza incrollabile che, in ogni caso, un tempo, nella grigia preistoria, l’essere umano è «fuoriuscito [her vorgegangen]» dalla scimmia nel senso letterale del termine. La nostra convinzione si fonda su un’evidenza materiale storico-evolutiva che non potrebbe parlare in maniera più chiara e persuasiva, evidenza che non può che risultare convincente per chiunque sia disposto a vedere. Non di meno, la completa mancanza di documenti «tangibili» proprio del «periodo di nascita» di ciò che è umano rappresenta un punto di notevole debolezza per la ricerca esatta. Anche se ci si può aspettare che un giorno anche questa lacuna verrà colmata, non possiamo certo dissimulare le grosse difficoltà che sono d’intralcio alla scoperta di scheletri umani così antichi. Le ossa di coloro che sono morti a cielo aperto si sono da tempo decomposte e se, grazie a delle condizioni favorevoli, alcune si sono fossilizzate e conservate, è comunque necessario un colpo di fortuna per disseppellirle dal terreno. Il Trinil è sino a oggi l’avamposto più remoto dell’umano che possiamo accertare con sicurezza. Si suppone che sia vissuto un centinaio di migliaia di anni prima del Neandertal. Con il suo essere esteriormente «simile alla scimmia» è diventato un inestimabile testimone chiave per la dottrina secondo la quale l’essere umano discende dalla scimmia. Ma anche questi è così lontano dall’autentico inizio dell’umano che non riesce a spiegare sufficientemente il passaggio biologico dalla scimmia all’essere umano. In relazione al reale procedimento di nascita dell’umano possiamo ricorrere per ora soltanto a mere congetture e in esse deve esserci ancora molta più fantasia speculativa di quanta vorremmo attribuire loro. Per quanto problematico sia ancor oggi dare una spiegazione del processo di ominazione, il nostro spirito desideroso di conoscere non vuole arrestarsi soltanto al semplice fatto che l’essere umano discenda dalla scimmia, ma esige una spiegazione accettabile che gli renda finalmente comprensibile questo fatto. Perciò coglie tutte le
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informazioni che facciano riconoscere o presupporre una possibile relazione con i primordi dell’essere umano, per ricomporle in una teoria attendibile. E laddove nella teoria restano ancora delle lacune, per riempirle si chiede aiuto all’ipotesi, la quale per il momento deve sostituire l’anello di congiunzione ancora sconosciuto, ma logicamente presumibile. Naturalmente la scienza ufficiale oppone un netto rifiuto a queste costruzioni. Richiede che vengano procurati nuovi fatti e al loro posto non vuole nessun prodotto di fantasia che un giorno potrebbe scoppiare come una bolla di sapone. Tuttavia neppure la scienza può mai fare a meno del pensiero speculativo. Perché soltanto la spiegazione sensata e la connessione tra le singole osservazioni ci permette di raggiungere unità superiori e arrivare alla comprensione del tutto. Se Linné allineava ancora con severa oggettività le singole specie animali immediatamente una accanto all’altra, senza al contempo ricollegarle anche in un’unità, fu proprio soltanto lo spirito ricco di fantasia di Lamarck a comporre sensatamente i singoli mattoncini in un edificio a tutto tondo che si sorregge da sé. Certamente la fantasia può giocarci un brutto tiro quando ci induce a false combinazioni e spiegazioni dei fatti. Ma a ogni teoria appartiene pur sempre soltanto un valore di provvisorie tà fintanto che questa non viene o confermata da nuovi fatti o sostituita da una migliore teoria. Se dunque in questo volume viene presentata una nuova teoria dell’ominazione, si tenga sempre presente che questa non è altro che una costruzione puramente speculativa, la cui correttezza deve ancora essere provata. Per prevenire ogni incomprensione, vengano qui ancora una volta esplicitamente messe in rilievo queste riserve. Rispetto alle tante altre teorie, la nostra ha perlomeno il vantaggio di riuscire a poggiare su una determinazione concettuale dell’essere umano delle origini che permette di circoscriverlo con precisione rispetto all’animale. In questo modo traccia
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relazioni chiare dove sino a ora dominavano solamente confusione e oscurità. Il concetto zoologico di genere dell’essere umano, al quale si richiama la scienza attuale, deve essere assolutamente escluso nel caso della più antica umanità. Se già il Neandertal per quanto concerne la sua configurazione esterna e la sua formazione spirituale non era affatto un «Homo sapiens», tantomeno lo era l’umanità che ha vissuto prima di lui, men che meno l’essere umano delle origini. Anzi, lo scheletro dell’essere umano delle origini non poteva che assomigliare ancora in toto a quello del suo predecessore animale per poi plasmarsi soltanto gradualmente, in un arco di tempo molto lungo, in una direzione specificatamente umana. Quindi anche se al naturalista capitassero tra le mani i frammenti dello scheletro del primo essere umano, non sarebbe affatto in grado di identificarli soltanto in base al modo in cui sono fatti. Persino con scheletri di epoche parecchio successive, quando già doveva essersi avviata la foggia specifica, il naturalista sarebbe ancora in dubbio di trovarsi davanti a uno scheletro «già» umano o «ancora» animale, poiché gli mancherebbero completamente i criteri concettuali. Il migliore esempio di questa incertezza nella valutazione delle primissime forme dell’essere umano è dato dalla nota disputa relativa all’appartenenza del cosiddetto Pithecanthropus erectus, il Trinil. Difficilmente infatti possiamo pensare a un’argomentazione che non sia già stata qui tirata in ballo. Alcuni considerano l’essere di Trinil un essere umano, altri una scimmia, altri ancora una cosa intermedia tra essere umano e scimmia. E altri pensano a una forma parallela all’essere umano, a una sorta di «tentativo non riuscito dell’ominazione», ecc. Per uscire da questa babele di opinioni, infine, se ne è voluta fare una questione meramente di gusto, se considerare l’essere di Trinil soltanto come la «scimmia più simile all’essere umano» oppure come l’«essere umano più simile alla scimmia». Questa però non è affatto una soluzione al problema, ma al massimo una conferma del fatto che nei
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primordi dell’umano, dove le forme dell’essere umano e dell’animale si perdono ancora per molti aspetti l’una nell’altra, l’orientarsi secondo il concetto zoologico di genere dell’«Homo sapiens» è uno sforzo senza prospettive. Però è proprio qui che la separazione concettuale tra essere umano e animale si fa una richiesta particolarmente urgente. Come si può mai spiegare l’insorgere dell’essere umano dalla scimmia se non si sa neppure dove finisce l’animale e dove comincia l’essere umano? Non ci si sorprenderà dunque che qui la stessa scienza si sia necessariamente trovata in una difficile situazione. Nel suo imbarazzo non le rimase nient’altro che far precedere all’«autentico» Homo sapiens una forma umana «inautentica», i cosiddetti pre-umani, mezzi-umani, uomini-scimmia, ecc., tutti «stadi preliminari» dell’ambito dell’umano, sulla cui appartenenza o non appartenenza alla classe degli esseri umani c’è il buio più completo. Con il patetico fallimento del concetto zoologico di genere alcuni ricercatori hanno poi voluto tirare in ballo il segno distintivo della «fabbricazione di strumenti». Fintanto però che si è messo questo segno distintivo, l’unico adatto a definire concettualmente l’essere umano, soltanto in una relazione puramente esterna con quest’ultimo, non si poteva ricavarne molto, soprattutto perché altri ricercatori ribattevano che anche le scimmie sarebbero dovute essere prese in considerazione per la loro lavorazione molto grezza delle pietre. D’altronde non ogni ritrovamento di uno scheletro (soprattutto non di quello di Trinil) era collegato a un ritrovamento di strumenti e, infine, andava anche considerato che l’essere umano delle origini, come l’animale, sicuramente raccoglieva ancora le pietre da terra allo stato grezzo e, nelle epoche evolutive immediatamente successive, la lavorazione era ancora così primitiva che oggi difficilmente potrebbe essere distinta dalle scheggiature «naturali» delle pietre. Data la situazione di difficoltà, si è fatto ricorso anche al segno distintivo della «preparazione del fuoco»
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artificiale. La preparazione del fuoco è certamente una facoltà dello strumento esclusiva dell’essere umano. Resta però la domanda cardinale se l’essere umano delle origini già la conoscesse. Gli insediamenti dotati di fuoco fino a oggi accertati con sicurezza non superano in ogni caso l’epoca del Neandertal e non offrono quindi alcun appiglio per quella dell’ominazione. Se dunque per l’epoca dell’ominazione mancano i chiari segni concettuali di riconoscimento non ci stupirà più il fatto che sui primi esseri umani e i loro precursori animali circolino le idee più confuse. Darwin riteneva che «i primi antenati dell’essere umano dovevano essere coperti di peli; entrambi i sessi erano barbuti, le loro orecchie probabilmente appuntite e orientabili, il corpo dotato di una coda, il piede un piede prensile e, senza dubbio, i nostri antenati vivevano sugli alberi; i maschi avevano grandi canini che servivano loro da armi tremende»1. Così però è difficile immaginarsi come da una tale creatura, così simile al babbuino, sarebbe potuto fuoriuscire l’essere umano. Ancor oggi la questione essenziale della dentatura non è ancora stata definita. Quei «grandi canini» che con il loro uso sempre più sporadico non possono che essere gradualmente regrediti sino alla loro dimensione ridotta attuale trovano ancor oggi i loro convinti sostenitori. Ricercatori competenti, come Adloff, ritengono invece «molto incerto» o perfino «assolutamente da escludere» che il precursore dell’essere umano e il primo essere umano abbiano posseduto una tale dentatura2. 1. Alsberg cita qui in maniera imprecisa e apportando parecchi tagli un passo del sesto capitolo intitolato «Affinità e genealogia dell’essere umano» di Ch. Darwin, The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex, John Murray, London 1871, in particolare pp. 206-207. Per l’edizione italiana si veda Id., L’origine dell’uomo e la scelta sessuale, tr. it. di M. Lessona, a cura e con introduzione di B. Chiarelli, BUR, Milano 1982, p. 209. [N.d.C.] 2. Il riferimento è a P. Adloff, Das Gebiss des Menschen und der Anthro pomorphen. Vergleichend-anatomische Untersuchungen, Verlag von Julius Springer, Berlin 1908, in particolare i capitoli «I rapporti dell’essere umano
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Come nella questione dirimente della dentatura, anche per le questioni altrettanto importanti per il processo di ominazione relative alla grandezza e alla forza dell’essere umano delle origini c’è una estrema varietà di opinioni. Darwin, impressionato dagli effetti sociali favorevoli di un’originaria organizzazione comunitaria [Genossenschaftsverbandes], immaginava un essere umano delle origini piccolo e debole e ancor oggi viene sostenuta questa concezione. Certo, in relazione ad alcune razze nane a noi contemporanee, rimaste primitive, si è giunti a vincolare l’essere umano delle origini a un nanismo e a farlo discendere quindi da un «piccolo» tipo di scimmia. Altri ricercatori, come Schwalbe, ritengono invece che ci si debba immaginare l’essere umano delle origini attraverso il modello massiccio del Neandertal, dunque come un essere umano forte e piuttosto alto. Ci porterebbe qui troppo lontano riportare, anche solo per accenni, tutti i singoli pareri e contropareri sulla condizione e la vita dell’essere umano delle origini e del suo predecessore animale. Anche senza fare ciò diviene chiaro che, con questa grande confusione sulle questioni essenziali, per il problema fondamentale dell’ominazione c’è poco da sperare. La maggior parte delle teorie partono dall’assunzione che l’essere umano delle origini in carenza di armi «naturali» si sia affidato al suo spirito, il quale gli avrebbe ispirato l’invenzione di armi «artificiali». Abbiamo già mostrato in precedenza l’insostenibilità di questa «teoria dell’intelligenza [Intelligenztheorie]». A prescindere dal fatto che, in essa, la relazione causale tra lo strumento e l’essere inerme del corpo è stata invertita, anche i fatti testimoniano contro di essa. Tutti i ritrovamenti fossili risalenti agli strati dell’antico pleistocene permettono di comprendere con le antropomorfe» (pp. 101-112) e «Le caratteristiche pitecoidi della dentatura umana» (pp. 112-118) della seconda sezione «Risultati e conseguenze». [N.d.C.]
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che, negli ipotetici abbrivi dell’umano, proprio il cervello non può essersi distinto per un notevole sviluppo. La formazione terribilmente modesta della fronte del cranio di Trinil e ancora di quello di Neandertal non può essere ritenuta certo il pezzo forte di un’«elevata» evoluzione spirituale. Allo stesso modo, la primitività dei più antichi strumenti di pietra e, soprattutto, la mostruosa flemma della prima evoluzione degli strumenti protrattasi molte centinaia di migliaia di anni respingono la teoria dell’intelligenza. L’essere umano delle origini un «inventore»! Perfino se, come una teoria di supporto ci vuole far credere, fosse vissuto inizialmente in una zona priva di predatori, sottratta alla lotta per l’esistenza, il suo modo di andare oltre l’animale, di prodursi oltre l’animale, sarebbe definibile soltanto come genialità. Paragonato all’animale l’essere umano delle origini dovrebbe dunque essere stato un «inventore», un genio. Nella teoria di Metschnikoff viene presentato in maniera completamente conseguente come il geniale «bambino prodigio» di una scimmia. La teoria dell’intelligenza può essere stata costruita per far piacere all’essere umano «superiore», ma è stata ideata male. Contro di essa Verworn ha legittimamente fatto valere che lo stadio spirituale dell’umanità delle origini difficilmente avrebbe potuto essere essenzialmente diverso da quello del suo più prossimo parente animale. Distanziandosi intenzionalmente dall’insostenibile teoria dell’intelligenza, alcuni ricercatori hanno dunque cercato di rendere responsabili per l’insorgere dell’essere umano le circostanze esterne che avrebbero implicato un cambiamento delle condizioni di vita. Nota è la teoria dell’ominazione di Steinmann che può essere qui fornita come esempio: «ci si può immaginare molto bene la trasformazione di un protoumano scimmiesco [affenartig Vormensch] mentre muta il suo modo di vivere sostituendo la locomozione a quattro zampe, da brachiatore, con quella eretta, bipede. Se ad esempio una zona boscosa abitata da protoumani scimmie-
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schi avesse subito un graduale cambiamento climatico del tipo che le precipitazioni fossero divenute più scarse e, a seguito di ciò, il bosco compatto si fosse dissolto in un paesaggio a parco e, infine, fosse diventato una savana, quegli esseri non avrebbero potuto mantenere l’abitudine di spostarsi tramite la brachiazione. Avrebbero dovuto o, come fanno i babbuini, procedere a quattro zampe oppure, nel caso la loro alimentazione fosse consistita principalmente di bacche, germogli e foglie, avrebbero dovuto assumere una posizione e una locomozione sempre più erette, specialmente se, come le scimmie antropomorfe, già occasionalmente si muovevano su due zampe. In questo cambiamento risiedeva al contempo il seme dell’ulteriore evoluzione dei suoi sensi e del suo intelletto»3. La teoria di Steinmann è assolutamente considerevole poiché intraprende almeno l’onesto tentativo di spiegare il procedimento dell’ominazione in maniera puramente meccanicistica. Tuttavia anch’essa non è convincente. In essa si perdono degli stringenti motivi interni che permetterebbero di cogliere l’ineludibile entrata dell’evoluzione nel binario dell’essere umano. Per questa teoria l’essere umano, che certo allora nell’alimentazione si differenziava ben poco dal babbuino, sarebbe potuto diventare con altrettanta facilità una creatura appunto simile al babbuino, cosa che invece gli doveva essere assolutamente preclusa per motivi interni, riguardanti il principio evolutivo. Dati gli inutili sforzi intrapresi dalla scienza per chiarire il processo dell’ominazione, è comprensibile che qualche ricercatore creda di doversi rassegnare a un inesorabile «ignorabimus», a un «mai lo sapremo». Ma non ci vogliamo consegnare a una tale scoraggiante sfiducia. Secondo noi è in primo luogo la ca3. Alsberg cita qui in maniera imprecisa un passo di G. Steinmann, Die Eis zeit und der vorgeschichtliche Mensch, B.G. Teubner, Leipzig 1910, pp. 7879. [N.d.C.]
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renza di una determinazione concettuale dell’essere umano ad aver causato tutta questa insicurezza, confusione e inadeguatezza nella ricerca sull’umano. Così, inutilmente si sono cercate le direttive per una valutazione di principio dei primi stadi dell’umano. Riguardo a ciò certamente si è partiti dall’idea corretta che gli strumenti artificiali e l’andatura eretta abbiano giocato un ruolo significativo nel processo dell’ominazione, tuttavia non si è riusciti a individuare i principi che stanno alla base dell’ominazione e del suo corso meccanico. Perciò ogni sforzo si è basato, in definitiva, su grossolane congetture, talvolta presentate persino in maniera molto avventurosa. Rivolgendoci ora alla nostra nuova teoria dell’ominazione, poniamo al vertice della nostra esposizione la determinazione concettuale dell’essere umano delle origini: L’essere umano delle origini fu quell’essere che, per primo, sot topose la sua evoluzione al principio dell’umano, cioè al princi pio della liberazione dal corpo per mezzo di strumenti artificiali. Con questa determinazione il primo essere umano viene concettualmente separato, in maniera netta, dall’ultimo animale. Accidentalmente si noti che oggi con «essere umano delle origini» (Homo primigenius) spesso viene inteso il Neandertal, poiché appartiene alla più antica razza umana sinora conosciuta in tutte le sue caratteristiche. Anche se per un lungo periodo di tempo può aver avuto i suoi vantaggi pratici, ciò è tuttavia illogico e oggi, sapendo che il Trinil proviene da un periodo molto precedente, è ormai fuori luogo. Seguiamo quindi semplicemente un precetto della logica se vogliamo assicurarci che l’«essere umano delle origini» venga inteso semplicemente come il «primo essere umano», ossia come l’autentico proge nitore dell’umanità.
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Capitolo 17
Metapiteco, l’ipotetica forma dell’antenato comune Il rapporto di parentela tra essere umano e scimmia – Metapiteco come nome per designare la radice comune dell’essere umano e delle scimmie antropomorfe – Posizione del Metapiteco nel sistema zoologico
Condividiamo con le moderne scienze naturali l’opinione che un comune circolo di forme unisce gli esseri umani alle scimmie simil-umane. L’assunzione di una parentela filetica dell’essere umano con le scimmie risale già a Lamarck. Darwin restrinse ancora il circolo di parentela, collegando filogeneticamente [stammes geschichtlich] gli esseri umani con lo specifico gruppo delle scimmie antropomorfe. Ed è proprio questa concezione che, sostenuta essenzialmente dai risultati delle ricerche più recenti e a prescindere da alcune sporadiche contestazioni, è diventata patrimonio comune della scienza. Prima si eliminano per principio le «proscimmie» dal più stretto circolo di parentela, poiché soltanto nelle «vere» scimmie si trova una pronunciata chiusura ossea delle orbite contro le fosse temporali e dunque, corrispondentemente a questa formazione anatomica, anche un posizionamento frontale degli occhi. Anche altre particolarità che l’essere umano condivide solo con le «vere» scimmie indicano la sua stretta relazione filogenetica con questi animali. Tra le vere scimmie sono nuovamente le «scimmie del vecchio mondo» o le «scimmie orientali» che vivono in Africa e in Asia, dette anche «catarrine», quelle che devono essere messe
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in stretta relazione con l’essere umano prima delle «scimmie del nuovo mondo» che popolano l’America, le «scimmie occidentali» o «platirrini». Perché le scimmie del vecchio mondo hanno, tra le altre cose, una dentatura uguale a quella dell’essere umano; hanno anche un lungo condotto uditivo stretto e d’osso, mentre nelle scimmie americane, con il loro condotto uditivo corto e largo, il timpano si trova ancora in una posizione piuttosto superficiale. Le caratteristiche simil-umane si moltiplicano però considerevolmente se tra le scimmie del vecchio mondo chiamiamo in causa quel piccolo gruppo delle «scimmie antropoidi», il quale comprende gli scimpanzé, i gorilla e gli oranghi. Tra le più grossolane concordanze con gli esseri umani si possono qui menzionare l’assenza di coda, la composizione e la disposizione dello scheletro complessivamente analogo, la somiglianza nella dentatura, in particolare di quella decidua. Concordanze più sottili sono state documentate anche nell’apparato riproduttivo, nella reazione del sangue e in molte altre caratteristiche proprietà. Consultando le forme preistoriche dell’umano si potrebbe poi procurare altro cogente materiale per provare la stretta parentela filetica dell’essere umano con le scimmie antropomorfe. Tuttavia non è lecito immaginare il rapporto di discendenza come se l’essere umano discendesse da una delle forme assunte dalle scimmie antropomorfe attuali. È una mossa cara agli avversari della dottrina della discendenza quella di alludere con un gesto ironico alle braccia e alle mani enormemente lunghe degli scimpanzé oppure alla dentatura da predatore del gorilla per provare così drasticamente l’impossibilità che l’essere umano venga fatto derivare da queste forme. Ai tempi di Lamarck e ancora ai tempi di Darwin questa obiezione poteva avere una certa legittimità. Allora la scienza non era ancora così avanzata da potersi fare una chiara idea sull’immediato rapporto di discendenza. Considerate le conoscenze paleontologiche ancora limitate relativamente all’essere umano, bisognava acconten-
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tarsi di uno schema di discendenza generale. Al giorno d’oggi invece questa obiezione non è più plausibile. Perché da lungo tempo la scienza moderna è giunta a comprendere che, come l’essere umano, anche le scimmie antropomorfe hanno alle spalle un drastico processo evolutivo, attraverso il quale si sono poi «specializzate» nelle loro forme attuali, spesso fortemente divergenti rispetto alla foggia dell’essere umano. Perciò la loro comune forma di partenza era ancora libera da queste specializzazioni e in tale primitività ancora molto più simile all’essere umano di quanto non lo siano le attuali scimmie antropomorfe. Questa forma filetica [Stammform] ancora non specializzata, e dunque molto più simile all’essere umano, è stata quella dalla quale, secondo la convinzione della scienza, sarebbe fuoriuscito anche l’essere umano. Diciamo dunque: essere umano e scimmie antropomorfe sono uniti alla radice. Per l’ipotetico comune punto originario dal quale si sarebbero dunque diramati evolutivamente da una parte le scimmie antropomorfe, dall’altra l’essere umano, nei miei precedenti scritti avevo scelto la denominazione «Pithecanthropogoneus», cioè «scimmia che genera l’umano [menschengebärende Affe]»1. Sebbene questo nome colga magnificamente il punto cruciale vorrei metterlo da parte per via della sua lunghezza, ma anche per via del pe-
1. Se nell’edizione inglese del 1967 Alsberg rinuncia anche alla denominazione «Metapiteco» riferendosi semplicemente a un «Common Ancestor», a un antenato comune (p. 119 e ss.), nell’edizione del 1922 si legge: «Per venire a capo di tutte le esigenze logiche propongo di chiamare il precursore animale dell’essere umano “Pithecantropogoneus” in quanto contrazione di Pithecus anthropogonëus = scimmia che genera l’umano. Con questa denominazione quest’essere viene prima di tutto caratterizzato in quanto “scimmia” e viene così mantenuta aperta la possibilità che da esso possano provenire (oltre all’essere umano) anche degli animali (scimmie). Accanto alla caratterizzazione come scimmia, nel nome si trova anche quell’aspetto che identifica e contraddistingue maggiormente quest’essere tra le altre scimmie, ossia il fatto di generare l’essere umano» (p. 287). [N.d.C.]
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ricolo di confonderlo con il «Pithecanthropus erectus» e al suo posto propongo la denominazione «Metapiteco». Anche questo nome, analogamente derivato dal greco (pithekos = scimmia), deve indicare esplicitamente che qui si ha a che fare con una scimmia nel senso stretto del termine, quindi con un animale, che però si contraddistingue rispetto alle altre scimmie per il fatto che con uno dei suoi discendenti, con l’essere umano, è andata «oltre se stessa» (meta!). Si è tentato di risalire l’albero filogenetico [Stammbaum] del l’essere umano (sebbene questo di per sé sarebbe dovuto terminare con il Metapiteco) ancora più all’indietro nella serie delle scimmie, lasciandosi guidare nuovamente anche qui dal numero di punti di somiglianza. Come animali più originari vengono considerate le proscimmie; a esse, nell’evoluzione filetica, dovrebbero ricollegarsi le scimmie americane. Seguono poi le scimmie del vecchio mondo e da esse ancora i cercopitecidi che dovrebbero essere più antiche delle scimmie antropomorfe. Contro uno schema evolutivo così rigido, messo in circolazione soprattutto da Haeckel, ha già sollevato un’obiezione il lungimirante antropologo tedesco Klaatsch. Riscontrando anche nell’essere umano caratteristiche altamente primitive, Klaatsch ne ha tratto la conclusione che questi non stia affatto alla fine, ma all’inizio della serie delle scimmie. Ciò però ha nuovamente oltrepassato il segno e giustamente è stata mossa a Klaatsch l’obiezione di non tener conto arbitrariamente di tutte le convincenti concordanze che l’essere umano presenterebbe proprio con le scimmie antropomorfe. La sua teoria ha avuto comunque il pregio di sollecitarci seriamente a non soffermarci unilateralmente sulle scimmie antropomorfe nella valutazione filogenetica dell’essere umano, ma di inserire nell’ambito della nostra trattazione comparativa, insieme a esse, anche tutte le altre restanti scimmie. Soltanto una regolare considerazione del complesso del ceppo delle scimmie [Affenstamm] riesce a darci quell’ampio fondamento necessario per indagare
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le particolari relazioni filogenetiche dell’essere umano con le scimmie antropomorfe. Perché proprio come l’essere umano anche le scimmie antropomorfe possono essere comprese soltanto a partire dalla loro evoluzione, cioè nei loro nessi filogenetici con le restanti scimmie. Rimane dunque merito di Klaatsch l’aver tenuto debitamente in conto il fatto innegabile che le scimmie abbiano percorso un’evoluzione e l’aver avanzato l’esigenza che nell’indagine della discendenza dell’essere umano si debba risalire all’indietro sino a un primo periodo evolutivo, tale che le specializzazioni delle scimmie antropomorfe non fossero ancora entrate in gioco. Su quest’esigenza essenziale per l’indagine sugli antenati dell’essere umano ha insistito con forza soprattutto il famoso ricercatore americano Henry F. Osborn. Io sono completamente d’accordo quando egli formula i seguenti principi: «Non disconosco le forti prove a favore dell’assunzione che i nostri antenati eocenici abbiano vissuto sugli alberi, né nego le straordinarie testimonianze di una prima discendenza comune tra essere umano e scimmie antropomorfe; contesto però la specifica assunzione della teoria lamarckiano-darwiniana secondo la quale l’essere umano un tempo avrebbe attraversato uno stadio di adattamento altamente specializzato nella brachiazione, come mostrano le scimmie mioceniche; infine sono propenso a individuare la deviazione della filogenesi umana dalle scimmie antropomorfe già nel periodo geologico del primo pre-miocene»2.
2. Alsberg riprende un passo di H.F. Osborn, The Discovery of Tertiary Man, in «Science», LXXI, n. 1827, 1930, pp. 1-7, qui p. 6. [N.d.C.]
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Capitolo 18
Metapiteco, una «scimmia da fuga» con una «formazione del cranio simil-umana» Le forme del cranio delle scimmie antropomorfe – Originarietà della formazione del cranio simil-umana – Principio del combattimento e principio della fuga
L’assunzione, basata sulla dottrina dell’evoluzione, che l’essere umano e le scimmie antropomorfe discendano dalla stessa radice ci spinge ad andare oltre e farci un’idea più chiara relativamente a questa forma ipotetica di antenato comune (che abbiamo chiamato Metapiteco). Perché sembra evidente che riusciremo a spiegarci l’inizio dell’evoluzione dell’essere umano, specialmente dello stesso atto dell’ominazione, solamente quando saremo in grado di delineare una figura approssimativa di quella forma iniziale. Tuttavia non sappiamo assolutamente nulla dell’era del Metapiteco. Non possiamo neppure affermare con sicurezza che una scimmia del genere sia veramente esistita. Se però non vogliamo precluderci la logica della dottrina dell’evoluzione e, conformemente a questa dottrina, presupponiamo come certa l’esistenza, nel passato, del Metapiteco, allora ci torna utile il fatto di ritrovare nei suoi diretti discendenti, l’essere umano e le scimmie antropomorfe, così come nei suoi lontani parenti, l’intero ceppo delle scimmie [Affenstamm], un eccezionale materiale di comparazione da usare per delle deduzioni adeguate sul Metapiteco. Se gettiamo uno sguardo orientativo d’insieme sull’intero ordine delle scimmie, verremo sorpresi dal singolare fenomeno
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che tra le scimmie americane, collocate ben lontano dall’essere umano, ce ne sono molti tipi che si distinguono per una somiglianza con l’essere umano particolarmente evidente nella formazione della testa, mentre tra le scimmie del vecchio mondo e perfino nel gruppo delle scimmie antropomorfe, così strettamente imparentato con l’essere umano, la formazione del cranio si allontana invece di molto da quella umana, non di rado a favore di un tratto da predatore. Guardiamo il cranio di un gorilla maschio adulto! È grande e pesante, al centro ha un’alta cresta ossea che lo percorre per il lungo e sembra comprimere l’osso frontale, incontrandosi nell’osso occipitale con un’identica cresta ossea trasversale. Entrambe queste creste ossee sono destinate a servire da appoggio a potenti masse muscolari. Anche le arcate zigomatiche sono allo stesso scopo grosse e sporgenti. La potente muscolatura della masticazione corrisponde a un apparato altrettanto massiccio della mandibola prominente tipo muso. In questo generale dispiegamento di forze anche la stessa dentatura è a sua volta allestita in maniera estremamente vigorosa; l’aspetto più impressionante sono però i canini lunghi, forti, ricurvi, come li conosciamo nei predatori. Il cranio di un giovane gorilla appare invece completamente diverso. Accostando i due crani difficilmente si potrebbe credere che appartengano alla stessa specie animale. Il cranio del cucciolo si caratterizza infatti per un grado particolarmente alto di somiglianza all’essere umano: la calotta cranica mostra una bella curvatura liscia, rotonda e piuttosto alta, la mandibola sporge in maniera soltanto irrilevante e i denti mostrano grande somiglianza con la dentizione decidua umana. Anche i crani delle femmine adulte contrastano fortemente con i crani maschili, poiché anch’essi sono privi del carattere da predatore e rimangono in tutto molto vicini alla forma giovanile. Nell’orango le proporzioni del cranio sono simili a quelle della famiglia del gorilla. Solo la terza scimmia antropomorfa, lo
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scimpanzé, costituisce un’eccezione in questo schema evolutivo, poiché qui anche gli esemplari maschi adulti sono caratterizzati da una stupefacente somiglianza con l’essere umano relativamente alla formazione del cranio. Solo negli scimpanzé maschi molto anziani i canini diventano un po’ più lunghi e si può anche sviluppare una bassa cresta trasversale sul cranio. Come dobbiamo spiegarci questa singolare divergenza relativa al cranio all’interno dello stesso genere? Prima di tutto partiamo da ciò che è comune, la costante conformazione simil-umana in tutti e tre i crani dei cuccioli! Per la legge secondo la quale nell’evoluzione del singolo si rispecchia la filogenesi abbreviata del genere, veniamo rimandati all’assunzione che nello stadio giovanile del cranio si presenti la forma di partenza, dalla quale ha preso le mosse ogni successiva evoluzione. Quindi la formazione cranica dell’età infantile simil-umana mostrerebbe lo stadio originario. A esso sono rimasti fermi soltanto gli scimpanzé e le femmine del gorilla e dell’orango, mentre i loro maschi hanno subito una completa riconfigurazione del cranio. L’assunzione che la conformazione del cranio simil-umana sia un’antichissima proprietà delle scimmie diviene così sempre più probabile per il fatto che non soltanto nelle scimmie antropomorfe, ma anche nelle altre scimmie del vecchio mondo, nei gibboni e nei cercopitecidi, il cranio dei cuccioli ha la stessa forma caratteristica e che questa, come già si è accennato, si ritrova anche nelle scimmie americane. Se dunque la formazione del cranio «simil-umana» appare effettivamente come un’antichissima proprietà delle scimmie, allora potremo attribuirla al Metapiteco con ancor più sicurezza dal momento che lo stesso essere umano si annovera certamente tra i suoi posteri. Tutta la progenie del Metapiteco mostra, quantomeno nel suo stadio giovanile, questa formazione del cranio. Perciò l’assunzione che anche la loro comune forma
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originaria l’abbia posseduta è la meno forzata possibile. La nostra prima deduzione sulle presunte fattezze del Metapiteco è dunque: Il Metapiteco aveva una forma del cranio «simil-umana», cioè il suo cranio mostrava una bella inarcatura tonda, era libero da creste ossee, aveva una mandibola moderatamente prominente e arrotondata e una dentatura nella quale i canini superavano solo di poco gli altri denti, pure non esageratamente evoluti. Se la formazione del cranio simil-umana è uno stadio originario, allora tutte le deviazioni da esso sono state ottenute solo successivamente attraverso una peculiare evoluzione. Da questo stato di cose risulta per noi il compito di andare alla ricerca dei fattori storico-evolutivi che hanno condotto a una deformazione del cranio quale la troviamo in numerose scimmie del vecchio mondo, specialmente nei maschi di gorilla e di orango. Già da molto tempo si è scoperto essere l’enorme dispiegamento della dentatura la causa della totale trasformazione del cranio (Selenka). I denti che crescevano in dimensione, specialmente i canini che aumentavano straordinariamente in potenza, furono costretti a farsi spazio e a spingere ben in avanti le mandibole che guadagnarono così massa. Quanto più la mandibola diventava imponente, tanto più la testa diventava pesante, tanto più era necessaria una grossa massa di muscoli per sorreggere le singole parti e portarle a dispiegarsi potentemente. Le arcate zigomatiche divennero dunque larghe e forti, la calotta cranica acquisì alte creste al centro e sul retro, le apofisi spinose della colonna cervicale crebbero in lunghezza e spessore per creare a loro volta le superfici di appoggio necessarie per la crescente massa muscolare. Se dunque è stata fondamentalmente la crescita dei canini a portare alla ristrutturazione dell’intero cranio, allora si pone la questione relativa al fine per il quale questa terribile dentatura sia stata acquisita. Poiché le scimmie non sono predatori che si servono di una
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tale dentatura per cacciare le prede, ma sono animali che si nutrono essenzialmente di vegetali, allora la sola risposta è: la dentatura è stata acquisita per difesa, è una dentatura da com battimento. A questo riguardo, Darwin pensava soprattutto alla lotta dei maschi per le femmine. Ma la potenza della dentatura mi sembra invece deporre a favore del fatto che questa non sia fatta apposta per il combattimento tra rivali della stessa specie, o quantomeno non solo, ma piuttosto per la difficile lotta per l’esistenza contro pericolosi predatori. Si riporta infatti che il gorilla, da solo, di notte, accoccolato sotto l’albero base della sua famiglia, tiene in scacco con la sua possente dentatura ogni nemico minaccioso. Ora si capisce perché non debbano presentare tali enormi canini anche le femmine. Poiché infatti i maschi si incaricano della difesa della loro famiglia, alle femmine è mancato il bisogno biologico di far crescere la dentatura. Esse sono dunque rimaste vicino allo stadio evolutivo originario della formazione del cranio simil-umana. La direzione evolutiva che spinse gorilla e oranghi, ma anche altre scimmie come i babbuini, all’acquisizione di una «dentatura da combattimento» ci fa vedere in azione in questi animali il principio dell’adattamento del corpo in direzione della difesa corporea attiva. Originariamente, quando la forma del cranio era ancora «simil-umana», quando non si erano ancora formati i forti canini, il principio non poteva dunque ancora aver il «carattere del combattimento», non era ancora un «principio del combattimento». Ma qual era allora il suo carattere originario? C’è da aspettarsi questa risposta: aveva il «carattere della fuga». Se osserviamo come si comportano di fronte al nemico quelle scimmie che ancora oggi hanno una formazione del cranio simil-umana e, in conformità a ciò, una dentatura piccola, allora l’esperienza ci insegna che si mettono in salvo attraverso la fuga e che in questo sforzo possono affidarsi a un’insuperabile facoltà della brachiazione. Da ciò possiamo dunque dedurre che il principio dell’adattamento del corpo originariamente era
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regolato sulla difesa passiva attraverso la fuga, cioè si caratterizzava in relazione alla difesa come un «principio della fuga [Fluchtprinzip]». Conformemente a ciò, l’ulteriore evoluzione portò sulla pista del perfezionamento nella brachiazione e in questo viene dimostrato che tutte le scimmie (con la formazione simil-umana del cranio) che rimangono ferme all’originario principio della fuga sono eccellenti brachiatrici. Se l’ingrandirsi dei canini, con la ristrutturazione secondaria del cranio, si rifà al principio del combattimento, la formazione simil-umana del cranio è invece collegata al principio della fuga. Da qui possiamo trarre una seconda deduzione sul Metapiteco: Nella sua evoluzione il Metapiteco sottostava al principio della fuga. A favore delle nostre due prime ipotesi relativamente al Metapiteco porteremo in seguito ulteriori dimostrazioni: da un «animale da combattimento» con «grandi» canini non sarebbe mai potuto risultare l’essere umano. Perciò contestiamo tutte quelle teorie che vogliono inserire i «grandi canini» nella preistoria dell’umano.
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Capitolo 19
Metapiteco, una scimmia che abita le rocce Assenza di coda nel Metapiteco – Connessione causale tra assenza di coda e permanenza sul terreno – I gibboni e la loro posizione filogenetica
Per farci un’idea chiara sulla fase iniziale dell’evoluzione del l’essere umano e delle scimmie antropomorfe sarebbe estremamente utile se potessimo conoscere qualcosa sull’ipotetico habitat [Aufenthaltsbereich] del loro comune predecessore. Il Metapiteco viveva sugli alberi o stava sul terreno? Questa è la questione decisiva, discussa già da molto tempo senza che tuttavia sinora sia stata trovata una risposta univoca. Alcuni ricercatori come Schwalbe indirizzano il Metapiteco sul terreno, altrimenti il processo di ominazione non sarebbe per loro comprensibile. Altri ricercatori rimandano invece la discesa dagli alberi fino al momento dell’ominazione e mettono quest’evento in connessione causale con l’accoglimento dell’andatura eretta. Dal fatto che nell’intero ceppo delle scimmie si ritrovino sia una mano prensile che un piede prensile, e quindi adatto alla brachiazione, può essere certamente tratta la conclusione che le prime forme abbiano tutte sicuramente abitato sugli albe ri. Ancor oggi la stragrande maggioranza delle scimmie vive sugli alberi, solo una piccola parte preferisce le zone rocciose. Nel corso della loro peculiare evoluzione queste ultime specie devono dunque a un certo punto esser migrate dagli alberi al suolo. Per rispondere alla nostra specifica domanda se il Meta-
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piteco fosse ancora una scimmia arboricola oppure fosse diventato anch’esso un abitante delle rocce, mi sembra ora dirimente una proprietà altamente caratteristica che dobbiamo presupporre in esso: l’assenza di coda. Non soltanto l’essere umano ma anche tutte e tre le scimmie antropomorfe sono completamente prive di coda. Poiché dunque la totalità della progenie condivide questa pur sempre rara caratteristica, possiamo attribuirla senza difficoltà alla loro comune forma iniziale. L’assenza di coda è senza dubbio uno stadio acquisito. Ancora oggi nello scheletro dell’essere umano e delle scimmie antropomorfe si attestano parti di ossa atrofizzate che testimoniano la precedente presenza di una coda. La coda è certamente una caratteristica appendice di tutti gli animali superiori e, specialmente nelle scimmie, compare in maniera magnificamente sviluppata. Tutte le scimmie americane possiedono un’appendice caudale ben evoluta e tra le scimmie del vecchio mondo l’intero ceppo dei cercopitecidi, con la sola eccezione della bertuccia, gode parimenti dei vantaggi di questa parte del corpo. Soltanto i due gruppi delle scimmie antropomorfe e dei gibboni sono interamente privi di coda. Devono dunque averla persa in particolari circostanze. A questo riguardo ci viene fatta notare con assoluta certezza una stretta connessione tra l’atrofizzazione della coda e la di scesa dagli alberi, cioè la permanenza su un terreno roccioso. Darwin per primo ha richiamato l’attenzione su questa connessione causale. Si rese conto che tutte le scimmie arboricole, come pure le grandi schiere delle scimmie americane, hanno da mostrare un’appendice caudale ben evoluta che serve loro in parte come organo per muoversi, bilanciarsi o perfino in parte per la brachiazione. Tra le scimmie del vecchio mondo, fatto salvo per le scimmie antropomorfe e i gibboni, sono proprio le specie che abitano le rocce a mostrare l’atrofizzazione della coda. A questo riguardo, particolarmente significativo risulta il comportamento dei macachi, i quali appartengono ai
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cercopitecidi. Infatti, tra questi, tutte le specie che vivono nel mondo arboreo possiedono una coda ben evoluta, mentre si è del tutto accorciata tra le specie che abitano le rocce, dove l’atrofizzazione (nella bertuccia) non è progredita sino alla completa perdita. Nei babbuini, seppur preferiscano anch’essi i suoli rocciosi, questa regolarità non si manifesta con la stessa precisione. Ugualmente anche in essi la coda può accorciarsi notevolmente in lunghezza e ridursi sino a un mozzicone. Se affianchiamo ora l’osservazione che in tutte le scimmie arboricole, senza eccezioni, la coda è divenuta per via evolutiva robusta e lunga all’osservazione che l’atrofizzazione della coda (a eccezione delle scimmie antropomorfe e dei gibboni) si trova solo in quelle che abitano le rocce, e qui accade in parte persino con una certa regolarità con la discesa dagli alberi, allora non si riesce a frenare l’impressione che la permanenza sul terreno sia in connessione causale con l’atrofizzazione della coda. Su come ci si debba immaginare nel dettaglio la causa scatenante Darwin ha già avanzato delle supposizioni che non è qui necessario prendere in considerazione. Ci basti la probabilità di un nesso causale in quanto tale. Perché a partire dalla nostra determinazione secondo la quale il Metapiteco era privo di coda, possiamo ora far derivare l’assunzione che abbia preferi to vivere su un terreno roccioso. Certamente però, in quanto scimmia, se la sarà cavata bene nella brachiazione, come anche il babbuino pur abitando tra le rocce è un ottimo brachiatore. Ma, e questo è il punto saliente, il suo habitat sarà stato prevalentemente il terreno roccioso. La nostra terza deduzione sul Metapiteco è dunque: era una scimmia delle rocce. Anche questa assunzione troverà successivamente la sua conferma in un altro contesto: l’essere umano non sarebbe mai potuto insorgere da una «scimmia arborico la». Ma, come vedremo più avanti, anche l’evoluzione dei suoi posteri animali diventerà comprensibile solamente a partire dallo stesso presupposto.
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*** L’essere privo di coda non è il solo spiccato segno distintivo che collega il gibbone proprio con le scimmie antropomorfe. Queste «scimmie dalle lunghe braccia» si distinguono soprattutto per la facoltà di procedere particolarmente bene in posizione eretta. È dunque comprensibile che si sia voluto mettere il gibbone in una relazione filogenetica più stretta con l’essere umano. Alcuni ricercatori, Haeckel prima di tutti, sono persino giunti a scommettere sui gibboni come diretti precursori dell’essere umano. Il «gibbone originario [Urgibbon]» coinciderebbe dunque con il nostro ipotetico Metapiteco. Dobbiamo però rifiutare fermamente una teoria di questo tipo. Certo non è facile collocare correttamente nel sistema genealogico questi piccoli animali schivi che si aggirano per lo più sulle alte chiome degli alberi, e relativamente a questa questione regna ancora tra gli zoologi un’assoluta divergenza d’opinione. In singole evidenti particolarità, come ad esempio nella differenziazione del sacco amniotico, i gibboni mostrano certamente una notevole coincidenza con le scimmie antropomorfe; in altre invece, come nelle piccole callosità ischiatiche, c’è una decisiva vicinanza con i cercopitecidi; nei gibboni incontriamo poi rapporti organizzativi così primitivi che non si può negare una stretta relazione con le scimmie americane. Con questa apparente non uniformità nell’impianto del corpo sarebbe uno sforzo inutile quello di contrapporre fra loro in maniera così netta i pro e i contro dei singoli segni distintivi divergenti per riuscire ad assegnare le scimmie dalle lunghe braccia esattamente a questo o a quel gruppo. Dobbiamo invece, qui come ovunque, interrogare l’evoluzione per giungere a comprendere la loro appartenenza filogenetica. Allora diviene subito evidente che le due peculiarità dell’assenza di coda e delle callosità ischiatiche corrispondono pienamente tra loro e, nella loro combinazione, portano una doppia testimonianza della precedente permanen za sul terreno dei gibboni. Oggi animali esclusivamente arbo-
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ricoli, dobbiamo supporre che un tempo i gibboni, o meglio, i loro predecessori fossero animali terricoli. Secondo questa assunzione avrebbero acquisito solo successivamente i loro arti anteriori grottescamente lunghi, risultato evolutivo del più perfetto adattamento alla brachiazione. Anche i canini sproporzionatamente grandi a forma di pugnale, ancora oggi posseduti da queste esili scimmie, permettono di dedurre che i gibboni abbiano intrapreso la direzione evolutiva dei cercopitecidi prima di tendere a specializzarsi nella brachiazione e di diventare le più abili «scimmie da fuga». La nostra concezione a favore di una evoluzione dei gibboni in due fasi viene sostenuta anche dalla pertinente osservazione di Selenka secondo la quale nel periodo embrionale i «canini crescono velocemente», mentre la crescita delle lunghe braccia incomincia relativamente tardi. Da questi due fatti possiamo al contempo avanzare la supposizione che i grandi canini rappresentino un patrimonio di lunga data, mentre le lunghe braccia siano un’acquisizione recente. Infine anche i reperti fossili indicano che i gibboni un tempo erano molto più grandi e forti di quanto non lo siano oggi. Il gibbone si arrampica, similmente agli ateli americani (ai quali sembra anche essere vicino), in modo da balzare da un ramo all’altro con le sue braccia enormemente lunghe, per così dire «volando» attraverso il bosco. Poiché in questa maniera di arrampicare gli arti inferiori sono ben poco necessari, questi sono deperiti anche per via di un mancato adattamento alla brachiazione. Con ciò si spiega senz’altro l’andatura eretta oggi ancora pienamente utilizzata dal gibbone, di per sé un’antica eredità in tutte le scimmie come giustamente nota Klaatsch, che però nella maggioranza di questi animali è andata più o meno perduta a seguito di una peculiare evoluzione indirizzatasi altrove. Viste in prospettiva evolutiva, né l’assenza di coda dei gibboni, né la loro particolare capacità di procedere con un’andatura eretta costituiscono un motivo cogente per porre queste scimmie nella serie delle scimmie antropomorfe. Certo sono
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parenti prossimi, come senza dubbio devono essere stati prossimi alla radice dei cercopitecidi. Valutiamo in maniera pienamente adeguata i particolari rapporti organizzativi dei gibboni nel loro significato filogenetico e storico-evolutivo se, seguendo l’esempio di altri ricercatori, facciamo loro formare un loro proprio gruppo e li ricolleghiamo immediatamente nella loro forma originaria alla radice ipotetica del ceppo delle scimmie orientali. Allora ci diverranno ben comprensibili le loro strette relazioni con le scimmie antropomorfe e i cercopitecidi, ma anche con le scimmie americane. Al contempo la vicinanza presupposta della loro forma originaria al Metapiteco permette alcune importanti deduzioni su di esso e indirettamente anche sugli esseri umani.
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Capitolo 20
I percorsi evolutivi delle scimmie antropomorfe I tre gradi dell’adattamento alla brachiazione e il rispettivo comportamento biologico degli esseri umani – Il principio del combattimento del gorilla e il principio della fuga dello scimpanzé – Evoluzione bifase dell’orango
Per tentare ora di chiarire il meccanismo evolutivo delle tre scimmie antropomorfe partiamo dalle determinazioni generali che abbiamo potuto trarre per via deduttiva sul loro ipotetico antenato comune: la formazione del cranio simil-umana, il carattere della fuga e il trattenersi prevalentemente al suolo del Metapiteco. Se oggi si è dell’idea che le scimmie antropomorfe nella loro peculiare evoluzione si siano adattate in gradi differenti alla vita arboricola, questa concezione concorda con la nostra ipotesi, ottenuta per un’altra via, che la loro forma iniziale abbia vissuto ancora prevalentemente al suolo. Nel mondo delle scimmie la specializzazione nella brachiazione non è proceduta in maniera uniforme. Tra le scimmie americane si trovano quei tipi la cui coda si è evoluta in un così eccellente «organo prensile» che possono utilizzarla nella brachiazione come una «quinta mano». In generale sono però specialmente gli arti che si sono dovuti prestare all’adattamento alla vita arboricola e in particolare sono qui nuovamente gli arti anteriori ad aver subito una riconfigurazione molto caratteristica. Il loro segno identificativo più vistoso è la straordinaria lunghezza. La crescita in lunghezza può essere così considerevole che le braccia diventano più lunghe delle gambe. Allo stesso tempo, con il procedere dell’adattamento alla brachiazione, l’originaria
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proporzione tra la lunghezza del (lungo) braccio e del (corto) avambraccio si inverte, poiché, nonostante l’allungamento di entrambe le parti, l’avambraccio supera poi in lunghezza il braccio. La tendenza ad allungarsi coinvolge anche le mani. Si estendono in organi lunghi e sottili da presa, curvati verso l’interno, nei quali le dita possono persino talvolta unirsi tra loro con una membrana. In che misura esagerata le mani possano allungarsi si mostra nel fatto che queste possono raggiungere quasi la lunghezza degli avambracci (fortemente allungati). Solo il pollice non prende parte alla crescita in lunghezza. Si indebolisce invece, restando in cima al metacarpo lungo e sottile, in una generale atrofizzazione che può arrivare sino alla sua completa scomparsa. Una tale figura di estremo adattamento alla brachiazione ci è offerta dal gibbone, il quale a corpo disteso tocca il terreno con la punta delle dita delle mani. Anche gli arti posteriori vengono coinvolti nell’adattamento alla brachiazione. In essi i mutamenti non sono però così forti perché questa ha luogo principalmente con le braccia. In particolare è il piede a essere coinvolto come sostegno nella brachiazione e, in conformità a ciò, in esso si trovano alcune caratteristiche modificazioni. Viene complessivamente allungato e arcuato. Ciò che gli conferisce uno specifico conio è la rotazione all’in terno rispetto alla caviglia. Seguendo il filo conduttore di questo schema evolutivo è possibile fissare per le tre scimmie antropomorfe altrettanti gradi nell’adattamento alla brachiazione. Il primo grado è occupato dal gorilla, il secondo dallo scimpanzé, il terzo dall’orango. Il gorilla impressiona proprio per le sue braccia davvero lunghe e potentemente evolute. Certamente, come vedremo, questo sviluppo delle braccia ha le sue motivazioni. Per comprendere in quale misura abbia avuto luogo l’adattamento alla brachiazione la relazione di lunghezza tra braccio e avambraccio resta decisiva. La maggiore lunghezza del braccio mostra chiaramente che l’adattamento alla brachiazione non può che essersi
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contenuto entro stretti limiti. Ciò si accorda anche al comportamento della mano e del piede. La mano è tozza nel suo insieme, le dita sono solo moderatamente lunghe e il pollice è ancora relativamente ben conservato. Nel piede è riscontrabile soltanto una debole torsione verso l’interno. Lo scimpanzé invece si è abbandonato molto di più alla specializzazione degli arti per la brachiazione. Nelle sue braccia smisuratamente lunghe è evidente l’eccessiva lunghezza dell’avambraccio. Per lo più l’avambraccio equivale al braccio, talvolta persino lo supera in lunghezza. Le mani sono diventate più lunghe e sottili e fortemente incurvate, i pollici più ridotti e il piede fortemente piegato verso l’interno. L’orango raggiunge un ulteriore grado di adattamento alla brachiazione. Braccia e mani sono in esso smisuratamente lunghe, l’avambraccio più lungo del braccio, le mani fortemente curve, il pollice «piccolissimo». Il piede è ormai completamente ruotato verso l’interno e arcuato a volta. Questa triplice gradazione nell’adattamento alla brachiazione corrisponde al comportamento biologico degli animali. Il go rilla è infatti un buon brachiatore, ma si trattiene parecchio anche al suolo dove talvolta persino si accampa. Nell’andatura eretta poggia a terra con la pianta del piede piatta, stendendo e dispiegando le dita. Di solito appoggiandosi anche sulle braccia come testimoniano le callosità sulle mani. Ma può anche fare completamente a meno dell’appoggio sulle braccia come nella posizione da combattimento. Lo scimpanzé è molto più abile del gorilla nella brachiazione e si incontra raramente al suolo. L’andatura eretta ha luogo poggiando più sulla parte esterna del piede con le dita ripiegate, rivolte all’indentro e il più possibile con l’aiuto delle lunghe braccia come appoggio. L’orango, che predilige vivere nella paludosa foresta primaria, non scende quasi mai dagli alberi. È un brachiatore brillante e instancabile. È invece assolutamente goffo nel camminare a causa della forte torsione dei piedi verso l’interno. Con le dita completamente accartocciate, soltanto il bordo esterno del piede riesce anco-
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ra a toccare il terreno e per camminare, solitamente, l’orango utilizza dunque le sue enormi braccia proprio come delle stampelle, oscillando con il corpo tra di esse. Il motivo profondo per l’adattamento soltanto moderato alla brachiazione da parte del gorilla è da individuare nel fatto che questa scimmia, nel corso della sua peculiare evoluzione, è entrata nel principio del combattimento. Il suo corpo si è sviluppato in un colosso potente e pesante, alto fino a due metri. L’inquietante dispiegamento di forza del gorilla si fa valere non soltanto nella sua terribile dentatura, ma si esprime con altrettanta efficacia nel potente tronco e nelle enormi braccia. Viene riportato che durante l’attacco il gorilla raddrizza il corpo e «a mani libere», battendo i pugni sul petto gonfio, si avventa sul nemico per strangolarlo con le braccia e, nel contempo, sbranarlo con i denti. Questa duplice maniera di condurre il combattimento deve aver influenzato l’evoluzione corporea del gorilla in maniera decisiva e ora si comprende che le lunghe e potenti braccia non devono tanto essere concepite come adattamento alla brachiazione quanto, invece, come «terribili organi da combattimento» (Klaatsch). In un animale da combattimento eccezionale come il gorilla, anche la brachiazione ha avuto necessità di essere curata e favorita soltanto nella misura in cui coincide con la permanenza abituale e alle condizioni di vita nella foresta primaria. Come le braccia, anche le gambe nella loro evoluzione sono state coinvolte nella peculiare modalità del metodo del combattimento. Così, diversamente che nelle altre due scimmie antropomorfe, in esse incontriamo delle proprietà che rimandano con estrema precisione a un con solidamento dell’andatura eretta in termini evolutivi: il bacino più ampio, la muscolatura del bacino e delle gambe più forte, la maggiore lunghezza e la corrispettiva ampiezza del tallone, ecc. A queste peculiarità, da ricondurre all’andatura eretta e che si trovano nella parte inferiore del corpo, corrispondono, in quella superiore, adeguati fenomeni che hanno un ulterio-
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re grande significato per l’evoluzione: la curva lombare della colonna vertebrale, vicina alle condizioni umane, e l’accenno a mastoidi sul cranio. Tutte queste sono nuove acquisizioni (gli scimpanzé e gli oranghi non le possiedono) sospinte dalla tendenza evolutiva al combattimento in posizione eretta. Così dall’angolazione del principio del combattimento il percorso evolutivo del gorilla si rivela un accadere unitario e non presenta alcuna difficoltà la comprensione dei denti da combattimento e della costituzione atletica del corpo, così come del ridotto adattamento alla brachiazione o, infine, del consolidamento della stazione eretta. Corrisponde all’energica esecuzione del principio del combattimento anche il fatto che il gorilla non compare in gruppo o in branco, ma, facendo affidamento soltanto sulla propria forza, vive in ridotti nuclei familiari. Lo scimpanzé è invece rimasto fedele al principio della fuga del suo precursore. Da ciò si spiega in maniera tanto più semplice quanto più chiara il suo percorso evolutivo. Il cranio conserva l’originaria foggia simil-umana, non si è formato nessun organo per combattere; la brachiazione, come mezzo per la fuga, è invece stata stimolata con gran vigore e il corpo adeguatamente rimodellato. Lo scimpanzé è significativamente più piccolo e debole del gorilla e, sempre al contrario di quest’ultimo, vive anche in grandi gruppi. La formazione di gruppi sociali è già di fondo un dispositivo adeguato al principio della fuga, perché l’avvicinarsi di un nemico viene notato più velocemente da un grande numero di animali piuttosto che da un animale solitario. Tanto le evoluzioni del gorilla e dello scimpanzé ci si presentano chiaramente e semplicemente, quanto intricata sembra la situazione nell’orango. In esso si deve constatare un coacervo di caratteri contraddittori, poiché da una parte l’adattamento alla vita da brachiatore ha raggiunto il più alto grado di sviluppo tra le scimmie antropomorfe, dall’altra però anche il cranio si è riconfigurato in maniera simile al gorilla. Il principio della fuga e del combattimento, i quali dovrebbero escludersi a vi-
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cenda, hanno qui dunque entrambi impresso nel corpo il loro inconfondibile marchio. Come si deve spiegare questa contraddizione nell’organizzazione dell’orango? Credo che questa si risolva in maniera molto semplice se partiamo dall’assunzione che i due processi evolutivi opposti si siano svolti non contemporaneamente, ma uno dopo l’altro. Prima l’orango, come lo scimpanzé, si è evoluto in direzione del principio della fuga, diventando così un eccezionale specialista nella brachiazione. Proprio la sua predilezione per la paludosa foresta primaria, molto intricata, ha permesso di raggiungere un grado particolarmente elevato di sviluppo nell’adattamento alla brachiazione. A questo primo periodo evolutivo sotto il segno del principio della fuga è seguita dunque una seconda fase di formazione sotto il principio del combattimento, che diede avvio alla crescita dei canini con la corrispettiva riconfigurazione di tutto il cranio. La nostra assunzione di un corso evolutivo bifase può poggiare sulla pertinente osservazione che il dispiegamento della dentatura e la riconfigurazione del cranio non procedono, come nel gorilla, velocemente durante la pubertà raggiungendo presto il loro punto più alto, ma incominciando con esitazione durano per tutta l’età adulta e si completano soltanto nella tarda senilità. Selenka, al quale dobbiamo studi approfonditi su questo processo evolutivo, descrive giustamente la dentatura da combattimento dell’orango come un’«acquisizione relativamente recente», a differenza dell’adattamento alla brachiazione che deve essere considerato un possesso più antico. Come motivo per il tardo passaggio al principio del combattimento potrebbe certo essere considerata una crescita generale della massa e della forza del corpo. Così anche nei maschi di scimpanzé molto anziani e forti, che possono essere alti fino a 170 cm, osserviamo una forte crescita dei canini e la formazione di creste trasversali, suscitando senz’altro l’impressione che anche qui ci sia un primissimo inizio di un’evoluzione nella direzione del principio
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del combattimento. Se la nostra concezione del corso evolutivo bifase dell’orango è corretta, la sua organizzazione in sé così contraddittoria perde in un solo colpo la sua enigmaticità.
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Capitolo 21
L’organizzazione del corpo del Metapiteco Distanza del Metapiteco dalle scimmie antropomorfe e dall’essere umano – Forma del cranio e capacità intellettiva – L’ossatura degli arti – Somiglianze umane del Metapiteco – Andatura eretta e lancio di pietre
Lo sguardo sui rapporti evolutivi che intercorrono tra le tre scimmie antropomorfe è molto significativo per rendere accessibile retrospettivamente la forma degli antenati dai quali l’evoluzione ha preso le mosse. Anche se oggi non siamo ancora nella condizione di dimostrare il percorso evolutivo fattuale attraverso l’esposizione positiva di reperti fossili risalenti al cenozoico, come ad esempio possiamo invece seguire bene l’evoluzione del cavallo attraverso i ritrovamenti di quell’era, le conoscenze ottenute dalla comparazione e dalla deduzione vanno certamente utilizzate per favorire la prosecuzione della nostra teoria, non perdendone affatto di vista il carattere puramente teoretico. Secondo la nostra concezione l’evoluzione delle scimmie antropomorfe si è diramata in tre differenti direzioni. Tutte e tre le scimmie hanno in comune un più o meno notevole adattamento alla vita sugli alberi. Meno di tutti ne è stato toccato il gorilla, il quale passò al combattimento e riconfigurò il cranio e altre parti del corpo in direzione di questo principio. Più forte si fece sentire nello scimpanzé, il quale rimase fedele al principio della fuga e di conseguenza lasciò essenzialmente immutata la forma del cranio. Si produsse nella maniera più forte tra tutti
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nell’orango come conseguenza dell’originario principio della fuga; l’aver abbracciato tardi il principio del combattimento provocò dunque in quest’animale ancora una considerevole deformazione del cranio. Da ciò possiamo dunque affermare che il gorilla è rimasto più vicino alla forma iniziale relativamente ai suoi arti, lo scimpanzé nella formazione del cranio, mentre l’orango si è allontanato dalla forma del Metapiteco sotto entrambi gli aspetti. Per via dell’accumulazione di caratteri peculiari si colloca spesso l’orango un po’ in disparte rispetto ai suoi due cugini filetici [Stammesvettern], anche se il suo proprio percorso evolutivo deve continuare a essere debitamente tenuto in considerazione in quanto di grande valore per lo studio della forma iniziale. Quelle peculiari formazioni, come il cranio a forma di torre o la formazione del sacco laringeo, sono (come le grandi orecchie dello scimpanzé) acquisizioni indipendenti che l’insorgere di una nuova specie porta con sé. Sulla questione di quanto si sia allontanato l’essere umano dalla comune forma iniziale le opinioni divergono. Alcuni ricercatori sono dell’idea che l’essere umano abbia conservato la maggior parte delle caratteristiche originarie; altri invece lo allontanano drasticamente dal Metapiteco. Certo è che anche il principio evolutivo dell’essere umano, anche se solo in maniera indiretta, ha prodotto profondi mutamenti corporei. Già le trasformazioni causate dall’andatura eretta hanno introdotto una loro propria impronta nella figura corporea dell’essere umano. Si pensi poi alla crescita del cervello, alla formazione della mano, del mento e delle labbra, per citare soltanto alcuni processi evidenti e progrediti in maniera peculiare. Nella stessa direzione riconfigurante agirono le pratiche di regressione tra cui devono qui essere citati l’accorciarsi della mandibola, la regressione della dentatura e del pelo. Vorrei dunque credere che l’essere umano attuale sia distante dalla forma originaria comune, il Metapiteco, almeno quanto lo sono le attuali scimmie antropomorfe. Queste ultime, essendo rimaste fedeli al principio
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animale, potrebbero sotto molti aspetti fungere molto meglio da guida di quanto non possa fare l’essere umano, il quale si è incamminato verso un principio completamente nuovo. Dall’altra parte, però, con una panoramica relativamente buona sugli stadi preistorici dell’essere umano, siamo sufficientemente informati in merito al suo primo percorso evolutivo da essere in grado, anche a partire da questo, di trarre deduzioni sicure sul Metapiteco. Volendo ora tentare di ricostruire la figura del corpo e della vita del Metapiteco continuiamo a essere consapevoli del fatto che, sinora, il Metapiteco non è testimoniato da nessun autentico reperto fossile. Tuttavia le nostre conoscenze in merito al cenozoico sono ancora troppo povere perché questa carenza possa essere addotta per contestare l’esistenza del Metapiteco. Poiché tutte le affermazioni che possiamo fare sul Metapiteco al momento non sono nient’altro che mere congetture, nel tracciare la sua figura non ci graveremo con dettagli inessenziali, ma ci limiteremo invece a delineare le caratteristiche più significative per il processo di ominazione. La forma del cranio è già stata fissata determinandola secondo uno schema grossolano come «simil-umana». In essa sono assenti i canini eccessivamente grandi, la mascella estremamente prominente, le creste ossee, ecc. Dalla curvatura ben rotonda nel cranio infantile delle scimmie antropomorfe si è voluto trarre la conclusione che originariamente la volta cranica fosse più inarcata di come ora si presenta negli adulti delle attuali scimmie antropomorfe. Poiché un «cranio alto e ben inarcato» ospita naturalmente un cervello proporzionatamente ben evoluto, risultò quasi da sé la constatazione desiderata, secondo la quale l’essere umano dovrebbe la sua esistenza a una specie di scimmia spiritualmente elevata, mentre nelle scimmie antropomorfe sarebbe subentrato un decadimento della formazione spirituale (originariamente presente). Sotto questo aspetto ci si richiama spesso al gorilla, il cui modo di vivere solitario
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e la radicale deformazione del cranio avrebbero avuto effetti sfavorevoli sul dispiegamento cerebrale. Infatti il cervello del giovane gorilla è meglio sviluppato rispetto alle altre scimmie antropomorfe, senza però che negli anni dell’evoluzione cresca in misura corrispondente. Invece nello scimpanzé, il quale non ha certo subito un enorme mutamento del cranio e che per di più, praticando la vita comunitaria, è rimasto in continuo «scambio spirituale» con i suoi simili, il cervello sta chiaramente facendo la sua «normale» evoluzione. Negli adulti si arricchisce infatti di un terzo del suo peso iniziale. Al contempo la grandezza complessiva del cervello si mantiene all’interno di confini ridotti e la calotta cranica degli scimpanzé adulti rimane piatta e bassa. La sua «intelligenza» non deve però essere sottovaluta. Lo scimpanzé è forse l’animale più intelligente sulla terra e non abbiamo alcun dubbio nell’attribuire al Metapiteco un così alto grado di intelligenza. Manca però qualsiasi tipo di sostegno alla tesi che la sua capacità intellettiva possa essere stata considerevolmente più elevata. Del Metapiteco, oltre alla formazione generale del cranio, ci interessa ancora, in particolare, l’ossatura degli arti. Per la sua ricostruzione diviene importante chiarire che le attuali forme di scimmie antropomorfe hanno subito grandi mutamenti agli arti per via dell’adattamento alla brachiazione o al combattimento. Così è fuori questione che nell’evoluzione i loro arti anteriori si siano fortemente allungati. Quale porzione della loro attuale lunghezza debba essere considerata una nuova acquisizione, per il momento sfugge completamente alla nostra valutazione. Dobbiamo invece accontentarci della definizione generale per la quale il Metapiteco ha avuto braccia e mani più piccole (con pollici meglio conservati) rispetto alle scimmie antropomorfe attuali. Se poi la relazione degli arti anteriori con quelli posteriori fosse corrisposta o meno a quella della maggior parte delle restanti scimmie, soprattutto dei cercopitecidi, ossia se le gambe fossero state più lunghe delle braccia, per
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il momento non si può determinare. In tutte e tre le scimmie antropomorfe, ma anche nel Neandertal, le gambe sono relativamente corte; nei neonati umani le braccia e le gambe sono quasi della stessa lunghezza. Forse nel Metapiteco c’era una relazione simile. La maggiore lunghezza delle gambe negli attuali esseri umani adulti sarebbe dunque una nuova acquisizione che potrebbe essere ricondotta, senza forzature, all’ipotesi della costante andatura eretta. Anche in merito all’originaria formazione del piede il neonato umano potrebbe servirci da modello. Il suo piede è infatti chiaramente girato verso l’interno e l’alluce è caratterizzato da una straordinaria mobilità. Queste sono evidentemente caratteristiche che rimandano a un precedente piede da brachiatore. Anche dalla diagnosi formulata sulle scimmie antropomorfe dobbiamo supporre che il Metapiteco possedesse un piede da brachiatore, non però nella forma avanzata dello scimpanzé, ma in quella simile al piede del gorilla. Ci sono ricercatori che ritengono il piede umano per alcuni aspetti più primitivo di quello delle scimmie; da qui traggono la conclusione che il piede umano non possa essere derivato da quello della scimmia e, come ulteriore conseguenza, che l’essere umano non possa essere derivato da un tipo di scimmia. A essi occorre ribattere che, date le evidenti coincidenze tra essere umano e scimmia antropomorfa, lo sforzo di rifiutare la loro comune appartenenza filetica [Stammesgemeinschaft] è uno sforzo vano; rispetto a ciò può sbagliarsi soltanto colui che si lascia sfuggire il fatto che non soltanto l’essere umano, ma anche le scimmie antropomorfe hanno dietro di sé un radicale processo evolutivo. Ci sono poi altrettante buone possibilità che le scimmie antropomorfe per alcuni aspetti abbiano deviato rispetto alla loro forma originaria, come che l’essere umano abbia conservato o recuperato alcuni segni distintivi originari. Del resto, non ci vogliamo soffermare qui sui dettagli. Solo il materiale fossile eventualmente disponibile potrebbe dirime-
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re tutte le questioni controverse. Il nostro schematico schizzo del Metapiteco ammette senz’altro delle correzioni; si potrebbero facilmente indicare ulteriori tratti caratteristici come ad esempio lo schiacciamento della gabbia toracica, significativo per la libera mobilità delle braccia (presente nelle scimmie antropomorfe e nell’essere umano). Alla fin fine, con il nostro ritratto del Metapiteco, ci troviamo di fronte in ogni caso una scimmia antropomorfa che deve essere stata molto più simile all’essere umano di quanto non lo siano oggi i membri di questi generi. Perché né il suo cranio era deformato da una dentatura da combattimento e dai suoi conseguenti mutamenti, come nel gorilla o nell’orango, né la sua ossatura degli arti era riconfigurata da un eccessivo adattamento alla brachiazione, come nello scimpanzé e nell’orango. Se pensiamo a una scimmia antropomorfa con la forma del cranio dello scimpanzé e l’ossatura degli arti del gorilla (riducendo la lunghezza delle braccia), otteniamo nel modo più facile una figura approssimativa del Metapiteco. Secondo la pratica delle scimmie da fuga, anche il Metapiteco avrà vissuto in grandi gruppi e in quanto animale sociale deve aver avuto sicuramente a disposizione un certo numero di vocalizzazioni degli affetti per potersi far capire dai suoi simili. Ma se anche fosse stato astuto e spiritualmente vivace come lo scimpanzé, sotto questo aspetto non sarebbe comunque mai uscito dal quadro dell’animale. Secondo la nostra assunzione il suo habitat abituale era il terreno roccioso. In quanto brachiatore relativamente abile deve aver certamente vagato molto anche sugli alberi, sui quali si ritirava in caso di pericolo e sui quali probabilmente trascorreva anche la notte. A giudicare dalla sua dentatura e dal modello delle altre scimmie, la sua alimentazione era esclusivamente o quantomeno prevalentemente vegetariana. Possiamo però presupporre nella sua organizzazione corporea soprattutto due facoltà, anch’esse condivise con le altre scimmie antropomorfe, ma che assumono un significato speciale proprio per l’ominazione.
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La prima facoltà è l’andatura eretta. Con essa non si deve intendere però l’andatura eretta ben verticalizzata dell’essere umano attuale, ma piuttosto un’andatura bipede con le ginocchia piegate e un raddrizzamento del tronco incompleto, ma – e questo è il punto saliente – senza il sostegno delle mani. Abbiamo già richiamato l’attenzione sul fatto che tale andatura eretta, libera dalle mani, è da considerarsi un’antica eredità delle scimmie. In alcune scimmie, i cui piedi sono stati risparmiati da un adattamento alla brachiazione troppo elevato, essa si è conservata eccellentemente sino ai giorni nostri, come nei gibboni o gli ateli americani. Per il Metapiteco questo presupposto sembra ancora più certo, tanto più che la facoltà dell’andatura eretta si ritrova in tutta la sua progenie con la sola eccezione dell’orango che a causa della notevole deformazione del piede l’ha persa quasi totalmente. Certo nel gorilla e ancor più nell’essere umano la successiva evoluzione ha mirato persino a un consolidamento dell’andatura eretta. Però, ciò che si può consolidare, deve essere già stato precedentemente predisposto. Non si intende qui sostenere che l’andatura eretta sia stata la modalità abituale di procedere del Metapiteco. Ci limitiamo invece semplicemente ad assumere che il Metapiteco ne possedesse la capacità e che, occasionalmente, procedesse in posizione eretta. La seconda facoltà che possiamo presupporre nel Metapiteco è la sua capacità di lanciare pietre. Poiché ancor oggi le scimmie, in particolare le «scimmie orientali» che vivono in gruppi sociali con un’indole vivace e litigiosa, fanno delle loro mani un uso di questo tipo, è ovvio presupporre che anche il Metapiteco con le mani non soltanto raccoglieva frutti, aprendoli e forse aiutandosi con delle pietre, ma, nel conflitto con i suoi simili o nella difesa dai nemici, molto spesso afferrava delle pietre per scaraventarle sull’aggressore. Anche questa è una supposizione che proprio in relazione al Metapiteco è assolutamente lineare. Perché da una parte, secondo le nostre ipotesi, questi viveva
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prevalentemente in una zona di rocce detritiche dove c’erano pietre a sufficienza, dall’altra aveva ancora una formazione originaria del braccio e della mano particolarmente adatta ad afferrare e lanciare pietre. Se prima di dedicarci al processo di ominazione in sé facciamo ora nuovamente una panoramica sulle nostre affermazioni teoretiche, possiamo stabilire che il loro risultato, la nostra ricostruzione del Metapiteco, coincide completamente con le ipotesi di Klaatsch e di altri naturalisti moderni: il Metapiteco era una scimmia antropomorfa che dobbiamo pensare ancora libera da tutte le specializzazioni successive e che, per molti aspetti, era più simile all’essere umano di quanto non lo siano gli attuali esponenti di questo genere. Su questo punto la nostra nuova teoria non dovrebbe dunque sollevare grandi perplessità.
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Capitolo 22
L’ominazione Il metodo di difesa tramite pietre e il «momento decisivo per l’evoluzione» – Il meccanismo dell’ominazione – La mano come leva per l’ominazione – L’essere umano delle origini come combattente
A un tipo di scimmia organizzata nel modo in cui abbiamo descritto la figura del Metapiteco si dischiudevano differenti percorsi per la sua ulteriore evoluzione. Poteva continuare ad attenersi al principio originario della fuga – così è sorto lo scimpanzé. Oppure poteva in un primo momento rimanere sotto il principio originario della fuga, ma in un periodo evolutivo successivo passare al combattimento – così è sorto l’oran go. Oppure poteva accogliere immediatamente il principio del combattimento. In questo caso si presentavano di nuovo due possibilità: o nel combattimento poteva fare affidamento sul suo corpo sviluppando in esso forti organi di difesa – così è sorto il gorilla; oppure poteva basare il combattimento difensivo sul metodo della difesa tramite pietre, un metodo che deve essere stato anche molto efficace, specialmente quando venne ulteriormente ampliato – così è sorto l’essere umano. L’essere umano! Ora viene pronunciato questo nome, ora se ne sta improvvisamente là, vero pargolo di una scimmia, il quale però nascendo si congeda dai suoi genitori, si sfila dal regno animale. Al momento, su come si possa essere svolto nel dettaglio il processo della nascita dell’essere umano, si possono esprime-
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re soltanto vaghe supposizioni. Mi pare però certo che l’essere umano sia scivolato con il suo binario evolutivo nella difesa «esosomatica» in maniera tanto cieca quanto certa e ineluttabile, come ad esempio il gorilla nella difesa «corporea». Perciò, oltre all’idoneità innata del corpo (possesso di una mano, capacità dell’andatura eretta), doveva essere soddisfatta l’ulteriore precondizione che le pietre, ossia probabilmente i primi strumenti, fossero capitate in un certo senso da sé in mano a colui che stava diventando un essere umano. Ciò significa: l’essere umano, per divenire «umano», non poteva vivere sugli alberi, ma doveva invece stare su un terreno di rocce detritiche, dove c’erano pietre a volontà e dove l’occasione di cacciare con le pietre e difendersi tramite esse si fosse presentata da sé diventando, altrettanto meccanicamente, un’abitudine. Klaatsch ha sostenuto che nella foresta primaria l’essere umano sarebbe diventato inevitabilmente una scimmia. Non posso affatto approvare la proposizione in questa forma. Se però la riformuliamo sostenendo che nella foresta primaria dal Metapiteco non sarebbe mai risultato un essere umano, ma sempre e solo una scimmia antropomorfa, allora la si può approvare completamente. Nella foresta primaria la difesa mediante le pietre, ossia il metodo esosomatico, sarebbe rimasta infatti sempre soltanto una misura occasionale e non sarebbe mai stata acquisita come principio evolutivo dinamico. Soltanto al suolo, su un terreno roccioso, fu possibile l’ominazione e questo presupposto logico ci riporta indietro nuovamente alla stessa supposizione, già resa accessibile a partire da altri fondamenti, che il Metapiteco abbia vissuto prevalentemente in una zona di rocce detritiche. Come accade in ogni stadio evolutivo iniziale, anche qui deve essere stato soltanto il successo a sospingere continuamente gli esseri umani verso il metodo della difesa tramite pietre, sino a che questo è diventato infine, per così dire, una «seconda natura». In questo modo però il binario evolutivo dell’essere
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umano è stato fissato in maniera definitiva. Perché come questo metodo venne seguito da tutti i membri dello stesso ceppo [Stammesgenossen], venne anche automaticamente adottato e ulteriormente evoluto dalle generazioni successive. In questa pratica della trasmissione ereditaria e del perfezionamento si manifesta proprio il momento determinante per l’evoluzione che sta a fondamento dell’atto dell’ominazione. Poiché l’evoluzione spinge in maniera mirata nella direzione dello «strumento», il corpo e la sua funzione vengono posti da quel momento in avanti al servizio dello strumento. Lo strumento conduce, il corpo lo segue. Così il corpo subisce delle trasformazioni che servono all’uso degli strumenti (ad esempio la formazione del piede d’appoggio), portando al contempo a far traballare precedenti capacità che assicuravano l’esistenza (ad esempio l’arte della brachiazione). L’adeguamento del corpo allo strumento deve a sua volta incuneare sempre più l’essere umano nella sua nuova direzione evolutiva. Così con l’elevazione dello strumento a principio dinamico dell’evoluzione viene suggellato l’ambito dell’umano e quello dell’animale viene abbandonato introducendo una differenza fondamentale nei confronti delle scimmie. Infatti, anche se queste possono conoscere lo stesso metodo della difesa tramite pietre e all’occorrenza esercitarlo, in esse la difesa «corporea» rimane il principio portante per ogni ulteriore evoluzione. Soltanto l’essere umano ha fatto dell’uso di strumenti il proprio destino. Perciò la primitiva modalità di conflitto del primo essere umano nella sua portata storico-evolutiva si manifesta come il primissimo inizio di quel binario evolutivo che abbiamo riconosciuto come il binario della «liberazione dal corpo». Se è stato il successo a rendere fedele l’essere umano ai suoi «strumenti», allora anche la nostra altra presupposizione, secondo la quale per il principio della fuga il Metapiteco viveva all’interno di un’ampia struttura sociale, guadagna un nuovo significato. Sarebbe improbabile che un singolo essere umano
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con alcuni, oltretutto maldestri, lanci abbia potuto respingere un avversario pericoloso. Differente sarebbe stato però se l’essere umano fosse avanzato contro il nemico insieme a molti suoi simili per coprirlo con una grandinata di pietre e scacciarlo o persino ucciderlo. Con il tempo l’essere umano delle origini avrà poi imparato a lanciare le pietre con maggiore forza e migliore precisione nel tiro. Con questo si appoggiò saldamente sulle gambe, che così da parte loro si rafforzarono e facilitarono notevolmente la stazione e l’andatura erette, che inizialmente potrebbero aver richiesto un grande sforzo corporeo. Accanto al rafforzamento delle gambe e della schiena, anche l’apparato degli arti superiori impiegato nell’operazione del lanciare deve aver guadagnato forza e agilità. Dopo che il metodo era diventato di uso comune, a questo primissimo perfezionamento nell’uso di strumenti deve essere probabilmente seguita, come tappa successiva dell’evoluzione, la scelta di pietre particolarmente appropriate e la loro preparazione per l’eventualità di un combattimento. Prima di tutto l’essere umano delle origini deve aver fatto attenzione al fatto che nel suo habitat di volta in volta scelto fosse presente una grande quantità di pietre. Poi si sarà ricordato di immagazzinare sin da principio attorno a sé pietre adatte e anche di portarle con sé nei suoi spostamenti, per essere al sicuro in ogni momento da un attacco del nemico. Come ogni animale impara dall’esperienza e diviene più scaltro specialmente se subisce dei danni, così sicuramente anche l’essere umano delle origini sarà gradualmente progredito da sé verso una migliore configurazione del suo metodo di difesa che gli assicurasse l’esistenza. Una volta giunto al punto di aver pronti in ogni momento i suoi mezzi di combattimento, portandoli sempre con sé, aveva già raggiunto la prima tappa del suo cammino evolutivo. Perché aveva ormai compensato il vantaggio dell’animale di portare le proprie armi sempre con sé, nel suo proprio corpo. Per raggiungere questa prima tappa evolutiva non aveva affatto biso-
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gno di una «elevata formazione spirituale», superiore al livello animale. Fin qui sarebbe stata anzi sufficiente l’intelligenza dell’animale. Si è infatti osservato che scimmie che si vogliono dilettare con le ostriche scelgono tra le pietre della riva quelle più adatte per rompere le conchiglie e le portano con sé sino al banco di ostriche piuttosto distante. Anche qui dunque accade che pietre appropriate vengano portate con sé per uno scopo preciso. Un tale affresco del procedimento di ominazione, come è stato tracciato qui giocando liberamente con la fantasia, è certamente ancora gravato da una serie di problematiche. Probabilmente sono intervenuti anche fattori climatici e geologici (come li intende Steinmann) in quanto ulteriori momenti scatenanti. Infatti, anche se abbiamo posizionato il Metapiteco su un terreno roccioso, deve aver vissuto non tanto in un paesaggio montano desertico, ma in una regione rocciosa con presenza di boschi. Già il principio della fuga richiedeva la vicinanza di alberi sui quali potersi ritirare in caso di pericolo in qualsiasi momento. Degno di nota è anche il fatto che le sue tre progenie animali si siano di nuovo rivolte completamente al mondo arboreo contrapponendosi così compattamente, sotto questo aspetto, all’essere umano, il solo ad aver scelto il suolo come suo habitat esclusivo. Se non si vuole affrontare questa sostanziale differenza in maniera casuale occorre metterla in relazione con il processo di ominazione. Si giunge dunque a un’idea di questo tipo: le forme che conducono alle attuali scimmie antropomorfe preferivano zone in cui la foresta primaria cresceva in maniera più folta, mentre la forma dalla quale proviene l’essere umano viveva – o si fermò – in una zona in cui gli alberi crescevano più radi oppure lo diventarono. Non dobbiamo affatto immaginare la distribuzione della specie Metapiteco come se fosse avvenuta nella stessa zona, per così dire sotto gli occhi dei singoli attori coinvolti. Dobbiamo invece supporre che il circolo di forme del Metapiteco fosse distribuito su un
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ampio territorio e che i suoi quattro germogli abbiano vissuto in zone differenti e che dunque si siano sviluppati in condizioni ambientali differenti. L’assunzione più agevole sarebbe senza dubbio quella che l’essere umano si sia formato nel periodo di passaggio tra il caldo cenozoico e il freddo pleistocene, quando dunque con il sopraggiungere del freddo la foresta primaria tropicale si ritrasse. Ma, come vedremo, questo tipo di assunzione non può essere confermata per altri motivi. In qualsiasi modo si voglia pensare l’interazione dei vari momenti scatenanti, per lo stesso processo di ominazione l’unico fattore essenziale a restare definitorio è l’uso di strumenti. Forse, accanto alla pietra, anche il ramo d’albero spezzato ha giocato sin dall’inizio un ruolo in quanto mezzo di difesa. Prescindendo da tutti i dettagli e mirando soltanto al tutto e all’essenziale, l’ominazione ci si presenta come un processo evolutivo assolutamente semplice, svoltosi in una maniera meccanico-naturale. Tutte le precondizioni per l’ominazione erano soddisfatte; la porta verso l’umano era ben aperta. Il primo essere umano non dovette fare nient’altro che dedicarsi, unilateralmente e conseguentemente, a una specifica modalità di difesa che gli era già nota grazie ai membri vicini e lontani della sua stessa specie. Aderendo così consapevolmente, incoraggiato dal successo, al metodo di combattimento scelto, pose inconsapevolmente la sua propria evoluzione e l’intera successiva evoluzione del suo ceppo sotto il principio evolutivo della liberazione dal corpo, sotto il principio dell’umano, mostrando dunque se stesso già come «essere umano». Per noi posteri, che riusciamo a valutare retrospettivamente il significato profondo di questo processo poco appariscente, la nascita del primo essere umano fa comparire nel nostro animo come per magia uno strano spettacolo. Tra gli animali emerge un essere, discendente da un animale e calco fedele del suo predecessore animale, che ancora vive e prova sensazioni sotto
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ogni aspetto come un animale tra animali, ma che invece non è più un animale. L’essere umano delle origini esercitava un metodo di difesa che gli era stato lasciato in eredità dal suo antenato. Era e rimase però l’unico a fare di questo metodo la stella polare della sua evoluzione. Il successo di questo metodo gli fu al contempo destino e maestro. Ciò che per l’essere umano di allora non era altro che un mezzo messogli in mano dalla natura per la conservazione della sua vita, per noi brilla come il primo pallido raggio dell’alba dell’umano. Ci si è accuratamente occupati della questione di quale sia stato l’organo a dare propriamente l’ultimo impulso all’ominazione. Seppur venga continuamente sostenuta l’opinione che sia stato il cervello ad aver reso «umano» l’essere umano, dopo tutto ciò che è stato detto sin qui una tale opinione non può trovare alcuna risonanza. Ben lontano dall’assunzione che il primo essere umano grazie a una più elevata dotazione spirituale potesse aver agito in maniera in qualche modo autonoma o perfino ingegnosa, credo invece che per sospingere l’essere umano in maniera completamente automatica all’interno del binario dell’umano sia stata la natura a fare e a dover fare tutto. Dal punto di vista corporeo e spirituale il primo essere umano era ancora un calco assolutamente fedele del suo precursore animale. Quantomeno io non saprei comprendere per quale motivo il suo cervello dovrebbe essere stato maggiormente evoluto rispetto a quello del Metapiteco, così come non mi pare si possa dare alcun fondamento all’assunzione che il cervello di quest’ultimo fosse maggiormente evoluto rispetto a quello delle scimmie antropomorfe attuali. Come l’essere umano non deve il suo insorgere al cervello, non lo deve neppure (come sostengono altri) alle sue gambe. La concezione secondo la quale la mano deve «essersi liberata» soltanto come conseguenza dell’andatura eretta non si concilia con la constatazione che l’erigersi del corpo e dunque anche
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la libertà delle mani siano un antichissimo lascito di tutte le scimmie. Certamente senza la capacità dell’andatura eretta non sarebbe mai sorto un umano in grado di evolversi. Ma l’andatura eretta come tale non ha ancora creato l’umano. Questo ce lo insegna chiaramente l’evoluzione del gorilla, che parimenti si è connessa alla facoltà dell’andatura eretta e ha creato invece soltanto il gorilla. Secondo noi il procedimento di ominazione risiede solo e soltanto nel passaggio dal principio evolutivo animale a quello umano e trova la sua espressione evidente nell’uso dello strumento, evolutivamente determinante. Se vogliamo poi proprio rendere responsabile un organo su tutti per l’insorgere dell’umano, allora dobbiamo concedere questo prestigio alla mano. È questa che conduce gli strumenti e rende così in pri mis possibile adottare il principio dell’umano. L’andatura eretta sta solo al secondo posto per il valido ausilio nel perfezionamento dell’uso di strumenti; e successivamente, con l’ampliamento della produzione di strumenti, anche il cervello diviene un fattore ausiliario essenziale, per poi innalzare con il suo crescente dispiegamento il principio dell’umano a una notevole altezza. Se dunque anche lo spirito può essere designato come il creatore della moderna cultura, nei primi abbrivi dell’umano questo non aveva ancora un significato a tal punto decisivo da riuscire a generare l’essere umano soltanto con le sue forze. Ci si immagina spesso l’essere umano delle origini come un cacciatore, pensando così però più al Neandertal, tecnicamente già avanzato, che al reale «essere umano delle origini». Perché come abbiamo in fine compreso, questi non era un cacciatore, ma, all’inverso, la preda braccata. Nella dura lotta per l’esistenza la difesa tramite pietre venne scelta, praticata e portata a una primitiva lavorazione. Senza la costrizione ferrea della necessità, l’utilizzo di strumenti non sarebbe certamente mai giunto a essere un dispositivo e ad avere un’evoluzione di tipo
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duraturo. Sin dall’inizio dunque l’essere umano fu un com battente e inoltre, con la comparsa sul suo corpo delle prime manifestazioni di atrofizzazione, condannato coercitivamente al combattimento. Era la maledizione del principio dell’umano, il quale però si sarebbe poi rivelato una benedizione per l’umanità, poiché il sentiero evolutivo iniziale così spinoso sfociò nel prospero giardino dell’alta cultura. Soltanto dopo un periodo di tempo molto lungo, durato decine di migliaia di anni, quando la tecnica degli strumenti aveva già raggiunto un certo perfezionamento, nella lotta per l’esistenza l’essere umano riuscì a dominare con sicurezza la situazione e a diventare cacciatore del mondo animale grazie alla superiorità materiale dello strumento esosomatico.
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Capitolo 23
La teoria del Metapiteco Parallelismo nell’evoluzione dell’essere umano e del gorilla – Determinazione della parentela delle scimmie antropomorfe – Monofiletismo del genere umano – Rifiuto della teoria dei «grandi canini» e della teoria dei pigmei – L’età dell’umanità
Il passaggio dal principio della fuga alla difesa attiva, che abbiamo assunto per il gorilla, ma anche per l’essere umano in immediata connessione con il Metapiteco, non è affatto un evento straordinario per le scimmie del vecchio mondo (alle quali apparteneva il Metapiteco), a differenza che per le timide scimmie americane. Anche i cercopitecidi hanno infatti prodotto quei pericolosi animali da combattimento che sono i babbuini e i mandrilli, armati di enormi canini. Le scimmie del vecchio mondo sono mediamente più grosse e forti delle loro cugine filetiche americane e può certo essere stata questa loro costituzione corporea più robusta a favorire un animo litigioso e la loro evoluzione ad animali da combattimento. I posteri del Metapiteco procedettero tuttavia sotto quest’aspetto in maniera non omogenea. Lo scimpanzé e in un primo momento anche l’orango non si risolsero ad accogliere il principio del combattimento. Questo diverso comportamento rende evidente l’assunzione che i due combattenti, essere umano e gorilla, provengano da un tipo [Form] più grosso e forte della specie del Metapiteco, i due fuggitori, scimpanzé e orango, da un tipo più piccolo e debole. Il primo tipo avrà vissuto in una zona nella quale prevalevano condizioni di vita più favorevoli,
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dove dunque l’evoluzione del corpo tendeva all’aumento della forza e della massa. Se, di conseguenza, abbiamo considerato di connettere più strettamente tra loro l’essere umano e il gorilla già nella loro comune forma iniziale, ciò si accorda con il fatto che entrambi, anche nella loro successiva evoluzione, sebbene questa abbia intrapreso binari differenti, mostrano ancora alcuni caratteristici punti di contatto. Così il gorilla, con il suo scarso adattamento alla vita arboricola, è rimasto il più prossimo all’essere umano. Soprattutto, però, anch’esso ha fondato in parte la sua specifica modalità di condurre il combattimento sulle due stesse facoltà (ereditate) dell’andatura eretta e della libera mobilità delle mani, che crearono la base del metodo di combattimento, seppur completamente distinto, dell’essere umano. In questo modo nel corpo del gorilla si sono poi formate delle proprietà che permettono di riconoscere un’ulteriore vicinanza con la costituzione del corpo dell’essere umano. Abbiamo già accennato all’allungamento del tallone, l’allargamento del bacino, il rafforzamento della muscolatura delle gambe, la curvatura lombare della colonna vertebrale, l’accenno di mastoidi sul cranio. Anche la struttura atletica del gorilla trova un indicativo riscontro nel Neandertal. Ci sono poi ancora ulteriori corrispondenze significative nella costituzione del corpo dell’essere umano e del gorilla, ad esempio nella struttura cerebrale, che sembrano connettere strettamente tra loro questi due cugini filetici. Se ci si volesse semplicemente lasciar guidare dalla somma dei punti di somiglianza, sarebbe già pronta l’assunzione di un grado di parentela particolarmente stretto tra essere umano e gorilla. Giungeremmo dunque a enunciare una cosiddetta teo ria del gorilla originario [Urgorillatheorie], secondo la quale solamente l’essere umano e il gorilla sarebbero accomunati dalla stessa radice. Questa comune forma iniziale tra essere umano e gorilla sarebbe dunque il vero Metapiteco, sempre imparentata molto da vicino con le forme originarie dello scim-
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panzé e dell’orango, ma non completamente identica. Questa teoria del gorilla originario ha certamente alcuni punti di forza; tuttavia nella valutazione dei rapporti filogenetici occorre al momento imporsi ancora il massimo riserbo. Come abbiamo visto, è stato sufficiente un certo parallelismo nell’evoluzione per influenzare in maniera simile la formazione del corpo nell’essere umano e nel gorilla. Tuttavia è stata soltanto un’affinità esteriore a connetterli tra loro (in binari evolutivi rimasti altrimenti separati) nell’accoglimento della difesa attiva e ancorata alle stesse facoltà ereditate. Se ci sia stata un’intima connessione tra di essi, cioè se entrambi prima della loro definitiva separazione per un periodo di tempo siano stati uniti in una forma comune, è difficile da intravedere, in ogni caso la possibilità non è da escludere. Per determinare il più stretto grado di parentela delle singole scimmie antropomorfe con l’essere umano, il ricercatore inglese Nuttal ha fatto una lunga serie di esperimenti sulla reazione del sangue. Inequivocabilmente il sangue delle scimmie antropomorfe ha reagito con il sangue umano in maniera più forte rispetto al sangue delle altre scimmie. Da ciò in generale risultò la stretta parentela filetica delle tre scimmie antropomorfe con l’essere umano. In particolare, la reazione del sangue dell’orango fu a quanto pare un po’ più debole, fatto che potrebbe portare a formulare l’ipotesi che l’orango non sarebbe poi così vicino all’essere umano come lo sono il gorilla e lo scimpanzé. Tuttavia, nel loro complesso, le reazioni non risultarono con una evidenza così convincente da trarre da esse già oggi un giudizio conclusivo. Per completezza potrebbe essere qui posta l’attenzione sull’assenza nell’orango della formazione dei seni paranasali frontali recentemente sottolineata da Weinert. Solo il gorilla e lo scimpanzé condividono con l’essere umano il possesso dei seni paranasali. Sembrano dunque accumularsi proprio gli indizi per escludere l’orango dagli ascendenti diretti dell’essere umano. A quel punto sol-
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tanto il gorilla e lo scimpanzé rientrerebbero ancora nel più stretto circolo di parentela dell’essere umano e, conformemente a ciò, sarebbe lecito individuare nel Metapiteco soltanto la loro comune forma iniziale con l’essere umano. Se soltanto il gorilla oppure – posizione verso la quale c’è oggi una grande propensione – soltanto lo scimpanzé dovessero essere presi in considerazione per la speciale discendenza dell’essere umano, allora il Metapiteco metterebbe in connessione anche soltanto una di queste due scimmie antropomorfe con l’essere umano in veste di immediato precursore. Si presenta infine anche la possibilità teoretica che l’essere umano debba riconoscere la sua più stretta parentela di sangue non tanto con le attuali scimmie antropomorfe, ma con una specie di scimmia antropomorfa già estinta da lungo tempo. Ma anche in questo caso, quantomeno fintantoché non sappiamo nulla di questa specie estinta, le attuali scimmie antropomorfe rimangono le uniche garanti tangibili in grado di fornirci al contempo un gran numero di informazioni, poiché appartengono allo stesso circolo di forme. In qualsiasi modo si voglia pensare una più stretta appartenenza dell’essere umano a questo o a quel tipo di scimmia antropomorfa, una limitazione più stringente dei suoi precursori più prossimi in linea di massima non cambia nulla relativamente alla determinazione decisiva per la quale, in ogni caso, l’origine dell’essere umano va cercata nel circo lo di forme delle scimmie antropomorfe. Con la nostra teo ria del Metapiteco non vogliamo dire nient’altro che questo. A seconda dunque che tutte e tre le scimmie antropomorfe (come abbiamo sostenuto seppur provvisoriamente nella nostra teoria) oppure soltanto due scimmie antropomorfe, gorilla e scimpanzé, oppure anche soltanto una di queste due vengano messe in stretta connessione con l’essere umano, si può certo modificare l’esatta determinazione del grado di parentela delle singole scimmie con l’essere umano, ma non cambia nulla relativamente alla determinazione di fondo secondo la quale
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tutte e tre le scimmie appartengono a un circolo comune e possiedono una stretta parentela filetica con l’essere umano. L’indubitabile stretta parentela di tutte e tre le scimmie antropomorfe con l’essere umano venne perfino presa come pretesto da alcuni autori per sostenere il polifiletismo del genere umano, innalzando ciascuna delle tre scimmie a progenitore filetico [Stammvater] dell’essere umano. Certo, ci sono teorici della razza che vogliono immediatamente presupporre un’ori gine quadruplice dell’umano, assegnando anche al gibbone il privilegio della progenitorialità filetica. Ma questi schemi sull’origine non vanno mai oltre nessi analogici assolutamente superficiali. Già ai tempi di Darwin si giocava con l’idea avventata di mettere in stretta relazione filetica l’orango asiatico giallo-rosso con i malesi e i gorilla e scimpanzé neri africani con i neri. La superficialità di questa comparazione, se ciò è possibile, viene oggi addirittura esacerbata. Così un autore mette in stretta parentela il gibbone con i mongoli, lo scimpanzé con i neri di bassa statura, il gorilla con i neri di alta statura e l’orango con la parte restante dell’umanità. Un’altra teoria costruisce una razza scimpanzoide (bianca!!) per l’Europa e l’Asia occidentale, una razza orangoide (gialla) per l’Asia orientale e una razza gorilloide (nera) per l’Asia meridionale e l’Africa. E quali altre teorie ci vengono ancora propinate! Anche Klaatsch, il quale vuole mettere in collegamento il gorilla massiccio con il tozzo Neandertal e l’orango più leggero con lo snello Aurignac, si lascia guidare essenzialmente dalla mera esteriorità della foggia, nonostante la presunta fondatezza anatomico-scientifica della sua teoria. Perché la disomogeneità nella massa corporea dell’umanità preistorica, come si presenta nello scheletro di Neandertal e di Aurignac, non è stata ereditata dagli antenati animali, ma è motivata in senso storico-evolutivo dal grado raggiunto nella tecnica degli strumenti.
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Chi, evitando superficiali nessi analogici, è seriamente impegnato a inoltrarsi nella profondità della questione della discendenza dell’essere umano si chiederà prima di tutto se, in generale, un’origine molteplice dell’umano sia anche solo probabile e, quasi neanche il tempo di porre la domanda, risponderà immediatamente con una negazione. Prima di tutto espungerà il gibbone dall’ampia lista delle possibili origini, nella quale, come è stato spiegato in precedenza, questa scimmia oramai non rientra. Così per l’origine molteplice dell’essere umano resterebbero soltanto il gorilla, lo scimpanzé e l’orango. Si giungerebbe quindi all’idea strampalata che ognuno di questi tipi di scimmia [Affenformen] dovrebbe aver prodotto accanto a sé anche un suo proprio tipo di essere umano [Menschenform]. Poiché l’essere umano, in quanto essere immediatamente convertitosi al combattimento, può provenire soltanto da un tipo di scimmia grosso e forte, la faccenda si complicherebbe ancora considerabilmente per il fatto che tanto lo scimpanzé quanto l’orango (oltre al gorilla) sarebbero dovuti comparire in due sottospecie, delle quali ogni volta il tipo più forte sarebbe sfociato senza eccezione negli esseri umani, il tipo più debole, ugualmente senza eccezione, nelle forme attuali di scimpanzé e orango. Non vale la pena soffermarsi qui ancora su queste false congetture. Queste vengono già confutate soprattutto dalla fondamentale analogia nella costituzione corporea specifica dell’intera umanità attuale. Proprio una tale regolarità sin nei più piccoli dettagli permette di presupporre fin dall’inizio l’unità del genere umano. Questa viene perciò appoggiata pure dalla maggioranza dei ricercatori. Anche dalla nostra prospettiva di principio, basata fondamentalmente sulla teoria del Metapiteco, la scelta provvisoria può soltanto andare a favore di un monofiletismo dell’umano, in quanto assunzione meno forzata e dunque più probabile. La costrittività, propria di ogni evoluzione, risalta in maniera particolarmente evidente nell’evoluzione umana. Con ogni
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impercettibile progresso che provocava la trasformazione del l’originario piede da brachiazione in un piede d’appoggio si erodeva un pezzo della precedente facoltà della brachiazione e l’essere umano veniva sempre più relegato al suolo. E quanto più veniva ridotta la possibilità di una eventuale fuga, tanto più stretto diventava il legame dell’essere umano con il principio del combattimento. Questo sempre crescente vincolo al metodo esosomatico dell’evoluzione umana doveva esercitare il più potente stimolo che si possa pensare proprio in direzione di un suo perfezionamento. Così il principio dell’umano accerchiò sempre più l’essere umano. Questi rimase subito definitivamente bloccato nel binario evolutivo intrapreso, nel vivere usando strumenti o morire. Anche per l’animale la linea evolutiva è strettamente dettata dalla crescente specializzazione del suo corpo. Poiché il corpo si costruisce da sé i mezzi di sussistenza necessari nella lotta per l’esistenza, con il tempo assume un conio talmente specifico che l’animale non può più, per così dire, «uscire dal suo stesso abito». L’animale può comunque conservare ancora un certo margine nell’impiego del suo corpo. Ma tutte le altre possibilità vengono limitate entro confini ristretti dalla specializzazione unilaterale, restando così conseguentemente secondarie nella lotta per l’esistenza. Se dunque anche il gibbone possiede ancora la facoltà dell’andatura eretta, nell’economia complessiva della sua formazione corporea questa non ha più alcun peso in quanto mezzo di fuga che assicura l’esistenza ed è resa possibile soltanto dal fatto che le braccia enormemente lunghe vengono tenute distese lateralmente oppure incrociate sopra la testa. In ogni animale è possibile riconoscere subito il tipo di specializzazione del corpo in cui risiede la sua autentica «forza». Ma ciò che si presenta obbiettivamente come evoluzione, cioè come specializzazione evolutivamente condizionata, esprime soggettivamente la più intima pulsione vitale dell’animale. Il gibbone intuisce la sua salvezza solamente nella brachiazione. Perciò la
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brachiazione viene esercitata e favorita con tutte le sue forze, e come conseguenza reattiva si manifesta il mostruoso allungamento dell’apparato degli arti superiori. Se il gibbone viene attaccato da un nemico al suolo, allora tenterà certamente in primo luogo di scappare con le sue gambe, ma solo finché non avrà raggiunto il primo albero utile. Scappare sul terreno piano per lui è una misura d’emergenza assolutamente inadeguata e forzata. Se la brachiazione non fosse il mezzo di sopravvivenza più intimamente sentito, non avrebbe mai raggiunto il più alto grado di adattamento a essa. Così anche la dentatura da combattimento del babbuino o del gorilla è l’evidente segno di riconoscimento di questi animali. Se anche il babbuino talvolta afferra una pietra per allontanare con essa un nemico, questo è, come la corsa del gibbone, un mezzo di sussistenza certamente ancora possibile, ma assolutamente insufficiente. Già il fatto storico-evolutivo dell’acquisizione di una tale dentatura da combattimento mostra che il babbuino in un vero caso di emergenza, quando il nemico lo affronta minaccioso, istintivamente si affida solo e soltanto alla sua dentatura. Anche qui la dentatura da combattimento deve essere nuovamente interpretata come l’espressione esterna e visibile dell’intima pulsione evolutiva. Per questo venne sviluppata in maniera sempre più potente, e questa tendenza intimamente condizionata venne tramandata a ogni successiva generazione e continuerà a essere ulteriormente tramandata per via ereditaria. Decisivo per l’evento dell’insorgere dell’essere umano è questo vincolarsi dell’animale a una specifica modalità di difesa, vincolarsi condizionato in senso storico-evolutivo e tracciato da una pulsione interiore e da una specializzazione esterna. Un animale con una dentatura da combattimento completa, del tipo del gorilla o del babbuino, non è più adatto a fare da precursore all’essere umano. Tutta la progenie di un animale attrezzato in questo modo sarebbe rimasta inevitabilmente legata alla difesa tramite il morso indicatagli dalla sua denta-
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tura e dalla sua intima vita pulsionale. Anche se eravamo già arrivati per un’altra strada alla determinata assunzione che il Metapiteco fosse una scimmia da fuga con la formazione del cranio simil-umana, ora questa assunzione non soltanto viene confermata, ma riconosciamo anche che il Metapiteco doveva possedere necessariamente il carattere della fuga per soddisfare le precondizioni dell’ominazione. Poiché non è possibile cambiare il principio del combattimento una volta scelto e stabilito in senso evolutivo, l’opzione del combattimento difensivo poteva essere ancora disponibile soltanto alla progenie di un «animale da fuga», nel caso in cui questa fosse passata al combattimento. L’essere umano non sarebbe dunque mai potuto fuoriuscire da una scimmia combattente armata di una denta tura come quella del gorilla. L’essere umano per poter divenire «umano» dovette invece prima di tutto e dall’inizio passare al principio del combattimento e precisamente alla forma peculiare della difesa attiva con mezzi esosomatici. In questo modo viene liquidata la concezione espressa da Darwin e poi ancora da ricercatori moderni secondo la quale l’essere umano delle origini, o meglio, i suoi immediati precursori avrebbero posseduto «grandi canini». Certamente i canini, e con essi l’intera dentatura, nell’essere umano delle origini erano ancora molto più potenti di quanto non siano nell’essere umano di oggi. Ma alla domanda decisiva se avesse esibito una dentatura da combattimento come quella del babbuino o del gorilla, la risposta risulta negativa. La teoria sostenuta già dal poeta latino Lucrezio, di per sé completamente antiquata ma continuamente riproposta, secondo la quale l’essere umano si sarebbe attrezzato per difendersi prima di tutto con denti, pugni e artigli prima di afferrare lo strumento, per la nostra concezione del procedimento dell’ominazione non merita più di essere considerata e dovrebbe finalmente essere relegata nel mondo delle favole. La riconosciuta necessità per il processo di ominazione di adottare originariamente e primariamente il principio del combatti-
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mento nella forma della difesa tramite pietre conferisce nuovo peso alla nostra precedente assunzione secondo la quale l’essere umano proverrebbe da un tipo di Metapiteco evoluto, gran de e forte. Nel caso in cui, sin dall’inizio, l’essere umano avesse realizzato con successo e coerenza il principio di difesa esosomatica con mezzi ancora assolutamente grezzi, allora avrebbe dovuto disporre di una certa altezza e forza corporea con cui già era venuto al mondo, anche se la difesa fosse stata esercitata all’inizio ancora collettivamente con i suoi simili. Da un Me tapiteco piccolo e debole non sarebbe dunque mai nato l’essere umano. Questo risultato deve contrapporsi a quella teoria che in riferimento ad alcune razze umane nane restate molto primitive, i cosiddetti pigmei, vuole fare della stessa umanità delle origini una razza nana derivata quindi da un piccolo tipo di scimmia. Per quanto interessanti possano essere i popoli nani per via dei loro segni distintivi primordiali e per quanto possano essere perciò strettamente legati all’umanità preistorica, con i loro strumenti di pietra molto grezzi e la loro tecnica di uso ugualmente incompleta non appartengono affatto ai primordi dell’essere umano. Soltanto attraverso l’ulteriore formazione della tecnica, quando la mera forza corporea è stata compensata dal perfezionamento degli strumenti, quando, in altre parole, l’azionamento degli strumenti migliorati non richiedeva più una così notevole fatica alla forza del corpo, si sono dati i presupposti per la diminuzione della massa corporea. Perciò, come fa giustamente notare Schwalbe nella sua polemica contro Kollmann, il nanismo dei pigmei deve essere concepito come il risultato di un intenso processo di regressione. Infatti è possibile ricostruire fino nei tempi più remoti soltanto il percorso delle razze umane grandi e non di quelle piccole. L’introduzione dello strumento come arma per il combattimento deve aver inizialmente portato persino a un ulteriore rafforzamento e aumento della massa del corpo. Le fattezze massicce e tozze dello scheletro di Trinil, Heidelberg e Ne-
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andertal si armonizzano perfettamente con questa assunzione logica. L’umanità delle origini e le generazioni seguenti diventarono atletiche perché lo richiedeva la rozzezza della loro produzione di strumenti. La tendenza ad aumentare la massa creò inizialmente masse muscolari grosse e carnose che poggiavano grandi sullo scheletro e già per questo motivo avevano bisogno di una massiccia formazione ossea. Soltanto in tempi successivi, quando la produzione di strumenti andava migliorando più in direzione dell’abilità che in quella della mera forza del corpo dell’essere umano, i singoli muscoli poterono contenersi fortemente e con fasci di tendini più snelli applicarsi alle creste ossee che andavano gradualmente formandosi, come si può constatare dagli scheletri della razza di Aurignac. Dobbiamo però mettere da parte l’iniziale aumento di massa dovuto all’uso di strumenti se ci vogliamo fare un’idea della grandezza e della forza del corpo del Metapiteco, e quindi della primissima umanità. Significherebbe infatti passare di nuovo il segno se volessimo attribuire all’essere umano delle origini già la statura della razza di Neandertal. Con una tale grandezza e potenza al suo predecessore sarebbe appartenuto già da lungo tempo il principio del combattimento. Poiché negli scimpanzé maschi adulti con l’ingrandirsi dei canini e l’accenno alla cresta cranica osserviamo una prima svolta nel binario del combattimento difensivo, mi sembra che la natura ci abbia dato in mano un buon punto di riferimento per determinare la statura del Metapiteco e dell’essere umano delle origini. In linea con la nostra concezione di una radice semplice dell’umano giungiamo alla assunzione che l’atto dell’ominazione probabilmente sia stato un evento puramente locale. Quale specifico luogo della terra sia stato la culla dell’umano oggi non è possibile nemmeno presumerlo. Tutte quelle teorie che collocano l’essere umano delle origini in questa o quella zona (ultimamente l’Asia va per la maggiore) sono prive di ogni documentazione fattuale. Rispetto invece all’età dell’umanità,
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si può tentare una determinazione approssimativa. Come in tutte le questioni sull’insorgere dell’essere umano, anche su questo punto a dire il vero le opinioni divergono ampiamente. L’essere umano viveva già nel cenozoico, quell’era geologica che si estende per milioni di anni prima del pleistocene, oppure è stato un frutto soltanto dell’era glaciale? Questa è la domanda chiave attorno alla quale si accende la disputa. Alcuni autori rifiutano nettamente «l’essere umano del cenozoico». «L’homme tertiaire n’existe pas!» Così un moderno ricercatore fa la parodia a quella famosa espressione di Cuvier (cfr. p. 47)1. Ma temo che a coloro che rifiutano l’essere umano del cenozoico accadrà ciò che è accaduto a Cuvier con la sua negazione dell’essere umano dell’era glaciale. Già in merito al Trinil, Dubois sostiene con fermezza ancor oggi la sua appartenenza al tardo cenozoico tenendo presenti anche i resti animali che accompagnano i reperti. Così il progenitore umano del Trinil deve aver vissuto già molto tempo prima di lui. Ora negli strati del terreno risalenti con certezza al cenozoico sono state scoperte delle pietre nella cui forma si vogliono riconoscere le tipiche scheggiature suoi bordi. Se questa concezione è corretta, avremmo davanti a noi indubbi «strumenti artificiali» che a loro volta fungono da «testimone chiave» per la presenza dell’essere umano nel cenozoico. L’affermazione che questi strumenti potrebbero essere stati prodotti anche dalle scim mie è fuorviante. Queste amigdale non vengono mai prodotte da un giorno all’altro, per così dire «incidentalmente». Per la perizia con cui sono state elaborate le scheggiature dei bordi sono invece l’espressione e il prodotto di una direzione evolutiva regolata intensamente sull’uso di strumenti e animata dalla 1. Alsberg sembra qui fare riferimento a Emil Werth e all’espressione da questi introdotta nella sua conferenza alla Berliner Gesellschaft für Anthropologie nella seduta del luglio 1917 e poi pubblicata in E. Werth, Der tertiäre Mensch (die Eolithen- und Vormenschenfrage), in «Praehistorische Zeitschrift», vol. X, 1918, pp. 1-40, qui p. 39. [N.d.C.]
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tendenza al perfezionamento degli stessi. Ma questa, come abbiamo visto, è proprio la direzione umana. Il miglior modo per misurare quanto deve essere risultata difficoltosa per i primi esseri umani l’arte di scheggiare i bordi delle pietre con l’aiuto di altre pietre è osservare gli esigui progressi che quest’arte ha fatto sino all’epoca del Neandertal. Se poi teniamo in considerazione che riusciamo a riconoscere come strumenti «artificiali», distinguendoli dalle scheggiature «naturali», soltanto quei tipi di pietra che sono già affilati secondo determinate «regole d’arte», allora possiamo farci facilmente un’idea della lunghezza del periodo evolutivo necessario per progredire dalle pietre naturali completamente grezze a questa primitiva arte degli eoliti del cenozoico. Colui che qui ha pensato a delle scimmie non ha preso coscienza del più essenziale momento dell’evoluzione, dell’unità e della costrittività del suo principio dinamico. Nella loro organizzazione complessiva, le scimmie mostrano di non aver mai virato in una direzione evolutiva che mira alla lavorazione delle pietre, cioè al perfezionamento di strumenti, con effetti regressivi sulla formazione della mano e del piede, ma di aver invece intrapreso il cammino opposto dell’adattamento corporeo. Questo fatto è così innegabile che l’idea della produzione di amigdale da parte delle scimmie non può che apparire addirittura assurda. I presunti strumenti del cenozoico possono essere stati prodotti soltanto da esseri umani – non ci si può immaginare nulla di diverso – e precisamente da una generazione di esseri umani già avanzata sino alla lavorazione a regola d’arte della selce che, a vele spiegate, procedeva nella direzione tracciata dal cammino evolutivo. L’assunzione che l’umano sia insorto nel cenozoico, avanzata da Klaatsch, Sir Arthur Keith, H. F. Osborn e da altri rinomati ricercatori, viene appoggiata anche dalla nostra teoria dell’ominazione. A partire da essa infatti l’essere umano e le attuali scimmie antropomorfe, germinate nello stesso circolo
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di forme, si sono evolute non tanto l’uno dopo le altre, ma contemporaneamente. Il vero essere umano delle origini si colloca dunque temporalmente vicino alle forme primitive delle attuali scimmie antropomorfe o in ogni caso accanto alla forma originaria di una di queste scimmie. Con il driopiteco del miocene abbiamo ora notizia di un’antica specie di scimmia antropomorfa che viene messa in relazione con l’attuale gorilla. Sembrerebbe dunque che il Metapiteco, sia che in esso si voglia riconoscere la forma filetica comune a tutte le scimmie antropomorfe o soltanto quella comune a una singola scimmia antropomorfa e all’essere umano, abbia vissuto, se non già prima, quantomeno nel periodo centrale dell’era cenozoica e, conformemente a ciò, andremo poi anche a indicare il momento della nascita dell’essere umano. Come esprimere l’età dell’umano in cifre dipende dalla stima temporale delle grandi ere geologiche. Il geologo tedesco Penck, autorevole in queste questioni, calcola che l’intera era glaciale sia durata almeno mezzo milione di anni, il terziario parecchi milioni. Se supponiamo dunque che il Neandertal abbia vissuto circa 100.000 anni fa, l’insorgere dell’umano risalirebbe già a oltre un milione di anni. Questi sono numeri formidabili, della cui correttezza devono rispondere i geologi. Attenendosi all’Eoanthropus di Piltdown, Osborn ha proposto di denominare l’intera umanità del cenozoico gli «esseri umani degli albori». Questa proposta dovrebbe essere unanimemente accettata poiché si contrappone alla diffusa, falsa denominazione degli esseri umani del cenozoico come «uomini-scimmia». Gli esseri umani del cenozoico non sono affatto «uomini-scimmia», ma «esseri umani» nel senso stretto del termine.
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Capitolo 24
La successione evolutiva dell’umano I segni di riconoscimento degli scheletri fossili dell’essere umano – Il Trinil – Il bambino di Taung – L’«essere umano degli albori» – I gradi dell’evoluzione umana
Abbiamo tentato di rendere comprensibile l’atto dell’ominazione. A tal fine era necessario prima di tutto procurarsi una figura del predecessore animale dell’essere umano. Ma poiché il Metapiteco, così lo abbiamo chiamato, è ancora completamente sconosciuto e non è nient’altro che una creatura ipotetica richiesta dalla logica, la sua ricostruzione è stata a sua volta possibile soltanto attraverso ipotesi da cercare tramite deduzioni logiche. Non è qui necessario ripetere nuovamente che queste non sono ancora dimostrazioni. Il procedimento di ominazione oggi può essere soltanto spiegato o persino solo immaginato, ma non può certo essere dimostrato, e lo stesso Metapiteco potrebbe essere dimostrato soltanto dall’esistenza del suo scheletro e se questo venisse riconosciuto in quanto tale. Se dalle alte vette del pensiero speculativo torniamo sul terreno reale dei fatti certi, troviamo un bottino di resti ossei molto scarso, ma che aumenta di anno in anno e, con esso, la difficoltà di mettere in ordine genealogico i singoli frammenti fossili. L’essere umano è documentato e riconosciuto attraverso numerosi ritrovamenti solamente sino alla classe di Neandertal, quindi circa fino a metà dell’era glaciale. Ciò che è giunto sino a noi da strati di terreno più antichi, specialmente cenozoici, è
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tanto povero quanto controverso. In questi «casi limite», in cui la linea di demarcazione tra essere umano e animale svanisce, la trattazione «morfologica», limitata a una precisa comparazione e determinazione della «forma anatomica», non può più condurci da sola ad alcun risultato. Qui dove occorre decidere se un singolo pezzo d’osso, a seconda della sua grandezza e della sua forma, appartiene ancora all’ambito dell’animalità oppure già a quello dell’umano, il metodo «biologico» da noi individuato, fondato sui principi dell’evoluzione, può certo essere impiegato in modo vantaggioso. Per comprovare che un pezzo di scheletro fossile appartiene all’umano, questo deve portare il marchio dell’«umano», cioè deve riflettere nella sua foggia il principio dell’umano. Per l’essere umano delle origini una richiesta così severa certamente non può ancora essere soddisfatta. Perché l’essere umano delle origini, considerato solamente dal punto di vista della sua configurazione, era ancora un fedele calco dei suoi predecessori animali. In ogni caso per il suo riconoscimento sono in questione solo quegli scheletri che corrispondono al Metapiteco – in quanto scimmia da fuga con una formazione del cranio simil-umana e solo un minimo adattamento alla brachiazione. Forme del cranio con grossi canini, con creste ossee, ecc., vengono dunque escluse sin dall’inizio. Anche una costituzione corporea troppo piccola e debole, che sotto questo aspetto risulti al di sotto all’incirca della massa di uno scimpanzé robusto, non si può accordare con la nostra concezione dell’essere umano delle origini. Dobbiamo invece aspettarci un aumento della massa del corpo che inizia precocemente. La «somiglianza con l’umano» di un cranio non è di per sé un criterio decisivo per determinare l’appartenenza del suo portatore all’ambito dell’umano. Questa somiglianza spetta certo anche al Metapiteco e a una parte dei suoi discendenti animali. Occorre però qui fare la constatazione fondamentale che un cranio così caratterizzato può essere appartenuto, se non a un
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essere umano, soltanto a una «scimmia da fuga». Questa constatazione è così importante perché con una certa grandezza del cranio (e con una forte costituzione corporea corrispondente), quale dobbiamo presupporre per gli esseri umani già in tempi davvero remoti, una scimmia da fuga probabilmente non può più essere presa in considerazione. Perché una scimmia a cui si possano attribuire quel tipo di grandezza e forza del corpo non sarà più rimasta sotto il principio della fuga, ma già da lungo tempo sarà passata alla difesa attiva. Infatti sul cranio delle grosse scimmie troveremo sempre «caratteri da combattimento». In ogni caso solo sui crani degli animali maschi adulti, mentre i crani delle femmine, anche di una specie di scimmia da combattimento, possono conservare la loro somiglianza all’essere umano. Accanto alla forma generale del cranio, anche la grandezza del suo spazio interno può fornirci precisi punti di riferimento. Per il primo periodo successivo all’ominazione non possiamo ancora aspettarci un grande volume del cranio umano e dunque la sua assoluta piattezza non forma ancora un argomento contrario all’assunzione della sua appartenenza all’umano, se questa invece è offerta sulla base di altre motivazioni. Se però il volume della cavità cranica supera in maniera considerevole la massa osservata nelle attuali scimmie antropomorfe, diventa sempre più probabile l’ipotesi che si tratti di un cranio umano con crescente ampiezza della capacità cranica. Anche se l’andatura eretta, di per sé, non costituisce ancora un criterio assoluto per identificare l’essere umano, i suoi segni identificativi, nella misura in cui sono già riscontrabili nello scheletro, possono essere addotti per riconoscere i primi esseri umani. Abbiamo visto che anche il gorilla nel corso della sua evoluzione ha assunto la tendenza all’andatura eretta. Qui però acquista un valore decisivo anche un’altra constatazione fondamentale, quella secondo la quale uno scheletro che porta i segni dell’andatura eretta, se non proprio a un essere
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umano, può essere appartenuto solamente a una «scimmia da combattimento». Perché soltanto una scimmia, come il gorilla, capace di difendersi avrebbe potuto permettersi un’andatura eretta costante, rinunciando completamente alla brachiazione, e in questo caso anche le femmine sarebbero dovute essere altrettanto ben attrezzate per il combattimento, essendo loro stata preclusa la possibilità della fuga dall’inevitabile trasformazione dei piedi. La dimostrazione dell’appartenenza di un cranio a un essere umano si conclude positivamente con una certezza solamente quando entrambe le caratteristiche – somiglianza con l’essere umano e andatura eretta – compaiono abbinate. Negli animali, infatti, un tratto caratteristico esclude l’altro. Ma anche l’essere umano doveva essersi dotato di armi potenti per poter assumere la stazione eretta in maniera costante; questi soltanto però conservò l’originarietà della formazione del cranio poiché si era procurato le armi al di fuori del corpo. Se ci lasciamo condurre da queste linee guida basate sul principio evolutivo, allora in molti casi saremo in grado di prendere una decisione in merito al tipo di scheletro fossile quando la trattazione puramente morfologica fallisce. Questo non può essere il luogo in cui ci confrontiamo con tutti quei ritrovamenti preistorici che entrano in una relazione più o meno stretta con il problema dell’umano. Quanto più risaliamo in direzione del cenozoico, tanto più poveri diventano i ritrovamenti. Per lo più lì si tratta di singoli denti o di singoli frammenti ossei che ci si sforza di ricondurre alle attuali scimmie antropomorfe. Vogliamo qui citare soltanto alcuni oggetti di controversia che ruotano proprio attorno all’essere umano per applicare a essi il metodo biologico. Il maggior scalpore e la più grande discussione sono stati suscitati dal noto ritrovamento di Trinil a Giava: il Pithecanthropus erectus, l’«uomo-scimmia dall’andatura eretta». Seppur
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nel frattempo la maggior parte dei ricercatori si sia convinta che l’antico detentore dello scheletro di Trinil debba essere ricondotto alla classe degli esseri umani o, quantomeno, a un suo stadio preliminare, anche l’altra opinione, per la quale questi sarebbe stato semplicemente una scimmia, ha però ancor oggi i suoi ostinati difensori. L’intero ritrovamento consiste in realtà solamente in una calotta cranica. Ma nei sui dintorni vennero ritrovati anche un paio di molari e un femore che sarebbero potuti certamente appartenere allo stesso individuo. La calotta cranica, l’essenziale che più conta, mostra nella sua foggia esterna forse maggiori vicinanze con il cranio della scimmia che con quello dell’essere umano attuale. Da ciò anche le grandi divergenze di opinione che con il metodo morfologico non possono mai essere completamente chiarite e superate. Differente è se sottoponiamo il cranio anche a criteri biologici. A giudicare dalla grandezza e dalle concrescenze delle suture delle lamine del cranio, constatiamo prima di tutto che si deve essere trattato di un individuo anziano con una discreta statura. Poiché però la calotta cranica è completamente liscia e non mostra alcun accenno a creste ossee, l’individuo non può aver posseduto una «dentatura da combattimento», cioè canini troppo grandi. Sotto questo aspetto il cranio nel suo complesso era dunque certamente «simil-umano». Ora dalla profonda curvatura dell’occipite, in connessione con la posizione fortemente avanzata del foro occipitale, è possibile trarre la conclusione certa che l’individuo possedesse l’andatura eretta. La statura considerevole, come l’andatura eretta, della creatura di Trinil viene confermata anche dal femore, sebbene di per sé la dimostrazione non avrebbe nemmeno necessitato di questo ritrovamento associato. Se perciò possiamo constatare nel cranio di Trinil i due segni identificativi strettamente connessi della formazione simil-umana e dell’andatura eretta, la conclusione della sua appartenenza all’essere umano è inevitabile. Qui il metodo biologico conduce dunque a un verdetto defi-
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nitivo. Una volta constatata l’appartenenza del Trinil alla sfera dell’umano, potremo offrire la corretta interpretazione anche di un’ulteriore caratteristica umana del cranio: la grandezza del suo spazio cerebrale. Poiché la capacità cranica è stimata almeno 850 cc, essa supera considerevolmente quella media di una scimmia della stessa stazza (500-600 cc al massimo). Chi ha dunque considerato il cranio di Trinil un cranio di scimmia ha trasposto senza esitazione sulle scimmie la sua notevole crescita cerebrale. E avrebbe pure dovuto ammettere che un’evoluzione così significativa del cervello non sarebbe mai potuta accadere «incidentalmente», ma deve aver avuto le sue profonde cause biologiche, come quelle che il principio dell’umano porta con sé. Se Dubois dovesse aver ragione nell’affermare che nell’impronta del cranio spicca già chiaramente la cosiddetta torsione linguistica, allora dovremmo assumere persino che il Trinil si fosse già trovato in possesso di una lingua primitiva. Tra l’altro oggi il Trinil non è più così isolato come al tempo della sua scoperta, dopo che in Cina, vicino a Pechino, sono stati recentemente trovati resti scheletrici sicuramente attribuibili a esseri umani. Questi non sembrano più così primitivi come lo stadio di Trinil e mostrano uno spazio cerebrale già di oltre 1000 cc, ma tuttavia nella loro foggia complessiva permettono di riconoscere una straordinaria somiglianza con il tipo di Trinil. Anche attraverso questa nuova scoperta dell’«uomo di Pechino», il Trinil viene accreditato come «umano». Per la primissima preistoria dell’essere umano un ulteriore ritrovamento di grande importanza è quello che è stato fatto alcuni anni fa a Taung nel Bechuanaland sudafricano. Qui sono stati estratti da una miniera di calcare il viso completo di un cranio fossile e il calco della cavità cranica con esso compatibile. A partire dai resti animali che lo accompagnavano, il ritrovamento venne stimato attorno al pliocene (antico cenozoico), senza che questa datazione possa rivendicare una precisione assoluta. Dart, che per primo analizzò il cranio, lo attribuì a
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una creatura preumana tra il gorilla e l’essere umano, mentre Broom attraverso successive ricerche giunse alla conclusione che si potesse trattare solamente di una scimmia antropomorfa. Se, insieme a Dart, vogliamo assumere che il massiccio facciale e il calco endocranico vadano veramente combinati, certamente la domanda decisiva «essere umano o scimmia?» si complica non soltanto per la datazione imprecisa del ritrovamento, ma anche per l’ulteriore difficoltà dovuta al fatto che il cranio apparteneva a un individuo molto giovane. Le mandibole hanno ancora una dentizione decidua nella quale sono già stati intagliati i primi molari permanenti. Così non potremo mai dire con certezza quale sarebbe stato l’aspetto del bambino di Taung se fosse stato un adulto. In ogni caso il cranio permette di riconoscere già ora una serie di quelle caratteristiche che non si trovano in nessuna scimmia, ma solamente nell’essere umano, come la forma allungata, la prominenza della fronte, la disposizione dello sfenoide, l’esiguità del cervelletto in relazione al cervello. Chi pensa qui dunque a una scimmia dovrebbe mettere in conto un tipo di scimmia antropomorfa sinora sconosciuto. Dal punto di vista biologico, in primo luogo ci interessa nuovamente la grandezza del cranio e constatiamo che questa si avvicina a quella del cranio di un gorilla coetaneo. Perciò il bambino di Taung sembra essere appartenuto a una razza grande e forte e in quanto scimmia avrebbe dovuto evolversi in un carattere da combattimento. Per ora però il cranio non mostra nulla del genere. La lunghezza della mandibola rimane invece considerevolmente ridotta rispetto a quella del gorilla coetaneo e non raggiunge nemmeno le dimensioni di quella del giovane scimpanzé. A esso corrisponde anche il comportamento dei canini. Mentre nel gorilla di questa età, come ha ben dimostrato Sir Arthur Keith, i canini decidui sono fortemente evoluti e rivelano già la successiva dentatura da combattimento, nel bambino di Taung sembrano persino più deboli che nel coetaneo scimpanzé. Questo è ancora più rilevante dal momento
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che i molari del bambino di Taung mostrano una grandezza tale che Keith, nonostante le loro evidenti fattezze simil-umane, li ha potuti confrontare con quelli del gorilla traendo da qui la corretta conseguenza che la creatura di Taung adulta doveva essere stata attrezzata con una mandibola e un palato massicci. Questo si concilia completamente con la nostra precedente assunzione per la quale occorra vedere nel bambino di Taung il rappresentante di una razza grande e robusta e, inoltre, la formazione ossea massiccia è assolutamente comune già a partire dall’umanità preistorica. Se volessimo paragonare il bambino di Taung con l’essere umano attuale andremmo a cozzare naturalmente contro il prognatismo mandibolare pur sempre forte e il potente evolversi della dentatura. Se però risaliamo indietro all’inizio dell’ambito dell’umano ci potremo aspettare queste formazioni fintanto che, come nel caso del bambino di Taung, rimangono ridotte rispetto a quelle delle scimmie. Perciò anche il fatto che nella sua mandibola superiore si trovi uno spazio fra due denti (diastema), che certamente fa pensare a una successiva potente evoluzione del canino, non è una dimostrazione contro l’appartenenza all’umanità [Menschlichkeit] del bambino di Taung. Anche qui persiste infatti una differenza con le scimmie antropomorfe dove lo spazio fra i due denti è molto ristretto e persino assente nella mandibola inferiore. Mentre a quest’età nelle scimmie antropomorfe il massiccio facciale comincia già a prevalere sulla scatola cranica, nel bambino di Taung è il contrario. Da una parte la grandezza della mandibola e dei canini si mantiene al di sotto perfino di quella dello scimpanzé, dall’altra il cervello si è evoluto in un modo che non si incontra mai nelle scimmie antropomorfe di quest’età. Sulla base del calco di gesso della cavità cranica, il volume cerebrale è stato stimato circa 600 cc. Questa è una cifra che viene raggiunta solamente dagli anziani gorilla maschi. Naturalmente non dobbiamo neppure qui cadere nell’errore di comparare la capacità cranica del bambino di Taung con quella
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di un bambino umano attuale. Tra i due ci sono molte centinaia di migliaia di anni di evoluzione spirituale. Deve però restare per noi decisivo il fatto che la circonferenza cerebrale del bambino di Taung supera notevolmente quella del cucciolo di scimmia. La forte sporgenza della calotta cranica corrisponde al fatto che il foro occipitale nel cranio di Taung è posto molto in avanti. Da qui Dart e Broom deducono conseguentemente la posizione eretta del corpo del bambino di Taung. L’obiezione avanzata da alcuni ricercatori che questa localizzazione del foro occipitale sia la regola nelle giovani scimmie antropomorfe, non va ancora a confutare questa deduzione. Essere umano e scimmia offrono qui semplicemente la stessa figura. Occorre ancora tenere in considerazione che una ripartizione del peso come quella che mostra il cranio di Taung non si trova affatto nelle scimmie. Perciò la postura eretta del corpo della creatura di Taung è probabile anche solo per motivi statistici, ancor più per via della corrispondente ulteriore evoluzione del cervello. Il retrocedere della mascella, la relativa esiguità dei canini, la circonferenza del cervello costituiscono con l’andatura eretta un complesso biologico che indica chiaramente nella direzione dell’essere umano. Se potessimo affermare con assoluta certezza che la razza di Taung aveva un’andatura eretta, allora non ci sarebbero più dubbi relativamente alla sua appartenenza all’ambito dell’umano. In quanto scimmia, il bambino di Taung sarebbe dovuto diventare una «scimmia da combattimento», ma questa assunzione viene contraddetta dalla struttura complessiva del cranio. Supponiamo però che il cranio sia appartenuto a un individuo femmina, allora la circonferenza cerebrale rientrerebbe ancor meno nel quadro scimmiatico perché le scimmie femmine mostrano un cervello notevolmente più piccolo di quello dei maschi. Nella misura in cui quindi il cranio infantile di Taung permette delle deduzioni, queste parlano a favore della sua appartenenza all’ambito dell’umano. Con questa supposizione verrebbero
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spiegati in maniera convincente anche quei numerosi segni distintivi propri esclusivamente dell’essere umano che Dart e Keith hanno potuto constatare nel cranio di Taung. Il rifiuto categorico della sua appartenenza all’essere umano non è dunque più legittimato; quantomeno dovrebbe essere ammessa la possibilità che il bambino di Taung rappresenti comunque uno stadio evolutivo umano estremamente antico. La datazione del ritrovamento al pliocene – recentemente Broom ha pensato addirittura al basso pliocene – sarebbe in perfetta armonia con questa possibilità. Si consideri infine anche un ulteriore controverso ritrovamento, anch’esso apparentemente del tardo cenozoico: l’«Eoan thropus», «l’essere umano degli albori», scoperto nei sedimenti del fiume Piltdown nell’Inghilterra meridionale. Lì furono trovate, a tappe, diverse ossa molto spesse della calotta cranica, configurate in maniera assolutamente umana, assieme a un pezzo di mandibola inferiore che dà l’impressione di appartenere a uno scimpanzé. Nella combinazione di un cranio già umano con una mandibola inferiore dalla forma ancora scimmiatica si vuole ora scorgere proprio il segno identificativo dell’«ominazione», poiché negli «uomini-scimmia» si sarebbe evoluto innanzitutto il cervello, prima che la faccia acquistasse i tratti specifici umani attraverso la trasformazione della mandibola. Tuttavia le opinioni in merito ai frammenti della mandibola inferiore divergono ampiamente. I ricercatori inglesi difendono compatti la loro appartenenza al cranio, mentre altri ricercatori, nello specifico sul versante tedesco e americano, ritengono la mandibola inferiore un osso di scimpanzé. Dal nostro punto di vista principalmente evolutivo, in merito a questa questione occorre dire che con l’utilizzo di strumenti il principio dell’umano ha in ogni caso cominciato ad agire prima sulla mano e sul braccio, sul piede e sulla gamba. Infatti l’accoglimento dell’andatura eretta ha condotto a una nuova foggia, caratteristica per gli esseri umani, e questo non
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soltanto nello scheletro degli arti inferiori. Nel massiccio frontale solamente molto tardi si è potuto invece formare un conio specificatamente umano, quando cioè l’utilizzo di strumenti e il sopraggiungere del linguaggio stimolarono la crescita del cervello, influendo al contempo anche sulla formazione della mandibola e della dentatura. Da ciò si spiega che nei crani fossili «viene mantenuto a lungo e con tenacia il livello più basso» (Klaatsch) oppure, come nota Schwalbe, che «la differenza tra il Neandertal e l’essere umano d’oggi è impressa molto più forte nella costituzione del cranio e nella formazione della mandibola che nella conformazione dello scheletro appendicolare»1. Di per sé una mandibola inferiore ancora simile a quella dello scimpanzé non sarebbe perciò in contraddizione con il resto del cranio dell’Eoanthropus nel caso in cui questo soddisfi fattualmente i presupposti dell’era tardo cenozoica e di una capacità cerebrale conseguentemente ridotta. Entrambi gli aspetti non sono però ancora stati sufficientemente chiariti2. Per farsi un’idea più precisa sulle condizioni dello scheletro della primissima umanità e dei suoi predecessori animali restano ancora da considerare altri reperti. A tal proposito questo deve però esserci chiaro: più ci avviciniamo al confine tra essere umano e animale, maggiore è la certezza con cui le prime forme umane rientrano nello spazio delle variazioni della foggia 1. Alsberg cita qui in maniera imprecisa il resoconto della conferenza tenuta da Schwalbe a Kassel il 23 settembre 1903 di fronte alla settantacinquesima assemblea dei naturalisti e medici tedeschi e pubblicato in G. Schwalbe, Die Vorgeschichte des Menschen, in «Naturwissenschaftliche Rundschau», XVIII, n. 43, 1903, p. 557. [N.d.C.] 2. Nel 1953, grazie al metodo della fluorina, Kenneth Oklay mostrò che cranio e mandibola del cosiddetto Eoanthropus non potevano essere contemporanei e divenne sempre più evidente che il ritrovamento era da considerarsi una frode: mentre la mandibola doveva appartenere a un orango moderno, il cranio sarebbe invece appartenuto a un essere umano vissuto nel XIV secolo. [N.d.C.]
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scimmiatica. Qui può dunque aiutarci solamente il metodo biologico di indagine. Provvisoriamente sono sufficienti le nostre conoscenze sicure, ma certamente ancora molto frammentarie che arrivano sino al Trinil che ha vissuto nell’ultima parte del cenozoico oppure soltanto all’inizio del pleistocene. Possiamo accostargli l’uomo di Pechino recentemente scoperto, ma questi è un po’ più recente e non più così primitivo. Siamo ben informati solamente sul Neandertal, il quale è documentato da tutta una serie di reperti scheletrici analoghi e da un’industria di strumenti che lo caratterizza. Dopo che anche in Palestina e nella Rodesia sudafricana sono stati trovati crani umani fossili che presentano uno stadio di formazione primitivo simile, può essere preso per certo che la razza di Neandertal non era limitata all’Europa. Certamente però si limitò al periodo del medio pleistocene, del quale rappresenta l’unica forma umana conosciuta. Possiamo dunque presupporre che il Neandertal sia stato il tipo rappresentativo dell’umanità a metà dell’era glaciale. Una mandibola inferiore ritrovata nei dintorni di Heidelberg, che impressiona per la sua enorme grandezza e potenza, geologicamente è un po’ più antica, ma potrebbe essere appartenuta anch’essa a un essere umano simile a quello di Neandertal. È stata posta la questione se il Neandertal debba essere interpretato come diretta progenie del Trinil. Molti autori vorrebbero negare completamente una parentela tra i due. Per il momento la questione non è ancora matura per essere risolta. Ma neppure mi sembra molto importante dal momento che il Neandertal deve essere passato in ogni caso attraverso uno stadio evolutivo protoumano [frühmenschlich] simile a quello che mostra il Trinil. Ai Neandertal segue temporalmente (nell’era glaciale più recente) l’Aurignac. Anche per lui la questione sulla sua diretta discendenza è controversa perché sinora non si è riusciti a scoprire nessun chiaro membro intermedio che avrebbe preparato il passaggio, totalmente inaspettato, dallo stadio di Neandertal
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a quello di Aurignac. L’Aurignac era un individuo longilineo con le arcate sopraccigliari alte, il mento pronunciato e una corporatura slanciata. A differenza del massiccio Neandertal, la sua forma scheletrica appare già molto moderna; o quantomeno dalla forma di Aurignac si può dedurre facilmente quella attuale. Anche l’industria dello strumento non mostra più il basso livello dello stadio di Neandertal, nonostante il principio della lavorazione dei margini delle pietre non sia in un primo momento essenzialmente mutato. A crescere notevolmente è stata specialmente la ricchezza di forme degli strumenti. In sintesi l’era dell’Aurignac si presenta come un periodo di progressi eminenti. Se all’inizio di quest’era nella produzione di strumenti si imponevano ancora pienamente le forme dell’antico pleistocene, alla fine, quando già si lavoravano anche le ossa e le corna degli animali, c’erano già strumenti così moderni come pugnali, punte di freccia, arpioni, aghi. Dal tipo di sepoltura dei morti si è tratta la conclusione che con l’Aurignac cominciarono a destarsi anche le prime idee religiose. Degno di attenzione è inoltre anche il suo grande talento artistico. Non soltanto le sue opere d’intaglio, ma soprattutto le sue pitture dai colori variopinti sulle pareti delle caverne suscitano ancora oggi la nostra ammirazione. La valutazione dello stadio di Aurignac non è facile perché l’Aurignac, a giudicare dai ritrovamenti scheletrici, non compare come quello di Neandertal in una razza unica, ma sin dall’inizio in due forme nitidamente separate, di cui una, la cosiddetta razza di Grimaldi, mostra un tratto «negroide». Più tardi a queste due razze si è aggiunta una terza forma umana con una corporatura particolarmente slanciata e alte arcate sopraccigliari, la cosiddetta razza di Cro-Magnon. Soltanto questa, «la stirpe dei cacciatori di renne», condusse l’evoluzione al suo punto massimo. Ma tutte e tre le razze, tanto nella loro costituzione scheletrica, quanto nella loro industria di strumenti, mostrano così tanti tratti di parentela che la loro
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provvisoria unione in un unico stadio deve sembrare legittima. L’improvvisa comparsa del nuovo stadio di Aurignac, morfologicamente e culturalmente superiore, ha portato a ritenere che questi, da zone con condizioni di vita favorevoli, dove si era potuto evolvere più velocemente e meglio, sia migrato nei territori del Neandertal, sterminando così questa razza rimasta indietro nell’evoluzione. Ancor oggi assistiamo a simili pratiche di estinzione di razze aborigene inferiori in seguito al sopraggiungere di culture superiori. Una tale concezione può essere corretta; ma non è affatto dimostrata e anch’essa ha incontrato opposizione. Fondamentalmente occorre anche qui attenersi al fatto che l’Aurignac, nella sua precedente fase evolutiva, ha in ogni caso attraversato uno stadio simile a quello tipicamente mostrato dal Neandertal. Accanto ai reperti ossei, anche gli strumenti ritrovati possono essere interrogati in merito alla scala degli stadi dell’evoluzione umana. Proprio il materiale durevole con cui sono fatti gli strumenti ci permette di seguirli con sicurezza risalendo fino al cenozoico, dove essi testimoniano in modo convincente l’attività del genere umano già in quest’era. Generalmente i progressi nella produzione di strumenti avanzano parallelamente con l’«umanizzazione» del profilo scheletrico. Qui come in precedenza dobbiamo però rinunciare ai dettagli nell’esposizione di questa condizione «paleolitica», perché ci si deve limitare all’essenziale. Occorre nominare ancora la fase evolutiva «neolitica» dell’umanità dell’olocene, successiva a quella di Aurignac e già contraddistinta da «raffinati» strumenti di pietra, arte ceramica e tessile, palafitte, ecc. Con l’introduzione del bronzo e poi del ferro a essa segue l’ultima fase evolutiva, la nostra epoca attuale.
Parte Quarta
La destinazione naturale dell’essere umano
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Capitolo 25
La posizione dell’essere umano nella natura Essere umano e scimmia – La teoria della discendenza della scimmia dall’essere umano – Formazione umana o simil-umana – La posizione peculiare dell’essere umano – I compiti «naturali» del principio dell’umano – Il problema della libertà – L’essere umano come specie «superiore»
Riconoscendo una differenza d’essenza tra l’essere umano e l’animale, la «famigerata» faccenda della discendenza dell’es sere umano dalla scimmia ha perso quella sua nota imbarazzante. L’essere umano può invece sentirsi valorizzato perché, in se stesso, ha superato l’animale. Questa autostima legittima non deve però indurci a un declassamento privo di senso critico della nostra antica parentela animale. Chi fa delle scimmie una «grottesca caricatura dell’essere umano» o persino «un essere umano degenerato» non ha ancora capito la differenza fondamentale tra essere umano e animale. La scimmia è un animale. E soltanto come tale va giudicata, non cavandosela poi affatto male per via della sua elevata capacità intellettiva. L’unica più stretta relazione con l’essere umano che, rispetto agli altri animali, proprio la scimmia presenta è la comune discendenza. Certamente questo legame è stato definitivamente reciso dall’essere umano delle origini nel momento in cui si è sottoposto al principio dell’umano. Il pensiero che anche le scimmie antropomorfe sarebbero potute diventare «umane» potrebbe forse muoverci a compassione di questi animali, in quanto «danneggiati dall’occasione persa», se non fosse un fatto assolutamente naturale che le strade dischiuse dall’evoluzione siano state invece percorse tutte.
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L’essere umano è diventato «umano», le scimmie antropomorfe sono rimaste «animali»: questa è la chiave per comprendere tanto l’essere umano quanto la scimmia. Benché intuitivamente riconosciuto in maniera senz’altro cor retta da Lamarck e Darwin, fintanto che mancava la determinazione concettuale dell’essere umano e con essa una delimitazione esatta dall’animale, lo schema di discendenza era ancora necessariamente esposto all’oscillazione e all’errore. Questo tanto più quando si fece strada l’idea inedita che la presupposta forma comune iniziale, il nostro Metapiteco, doveva essere stato molto più simile all’essere umano di quanto non lo siano le scimmie antropomorfe attuali. Klaatsch è certamente stato il primo studioso a invertire di punto in bianco la relazione di discendenza tra essere umano e scimmia sulla base di questa importante cognizione. Egli sosteneva che se la forma «similumana» era quella originaria, allora l’essere umano si era ulteriormente evoluto a partire da essa in maniera lineare, mentre le scimmie antropomorfe, perdendo una parte considerevole dell’originaria somiglianza all’essere umano, avevano deviato dal binario evolutivo «centrale» e erano ricadute nell’«animale [ins Tierische]»1. Ricadute nell’animale! – Cos’altro significa se non che le scimmie antropomorfe inizialmente, nella forma del loro precorritore simil-umano, stavano nel binario dell’u mano per poi successivamente, a seguito dalla loro peculiare evoluzione «animale», perdere la loro originaria appartenenza all’ambito dell’umano! Lo schema darwiniano della «discendenza dell’essere umano dalla scimmia» veniva dunque completamente capovolto. Si era tornati alle superstiziose rappresentazioni dei primitivi es1. Questa ipotesi viene esposta in H. Klaatsch, Entstehung und Entwicklung des Menschengeschlechts, in H. Kraemer (a cura di), Weltall und Mensch heit, vol. 2, Metzger & Wittig, Leipzig 1902-1904, pp. 3-332, in particolare pp. 159-206. [N.d.C.]
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seri umani della foresta, nelle quali le scimmie antropomorfe comparivano come «esseri umani trasmutati». La nuova teoria della «discendenza della scimmia dall’essere umano» incontrò una notevole opposizione nei circoli dei naturalisti, tuttavia una reale confutazione non era possibile fintantoché non si fosse riusciti a cogliere concettualmente a quale specie fosse appartenuto il Metapiteco. Così in un primo momento la teoria rimase «all’ordine del giorno» ed entrò presto indisturbata negli scritti a carattere divulgativo. Da qui non può stupire che la teoria sia stata ripresa da altri come gradito supporto per speculazioni metafisiche preconcette. Dacqué e la sua scuola si spingono persino al punto di far fuoriscire dall’ambito dell’umano non soltanto le scimmie, ma proprio tutto il regno animale. Ma anche prescindendo da tutti gli eccessi, la teoria di Klaatsch della «discendenza della scimmia dall’essere umano» è di per sé insostenibile. Non è stato l’essere umano a evolversi ulteriormente in maniera «lineare» dal Metapiteco. Se a un certo punto della creazione naturale è stata spezzata la cornice evolutiva unitaria, ciò è evidentemente accaduto sulla scena dell’omi nazione. Le scimmie antropomorfe proseguirono il cammino evolutivo lineare («animale»); l’essere umano invece, con il suo nuovo principio evolutivo, deviò per una strada secondaria. È stata una svista di Klaatsch considerare una formazione «simil- umana» come l’inizio storico-evolutivo della formazione «umana» e, di conseguenza, la formazione «umana» come il poten ziamento di una formazione «simil-umano». In questo modo il Metapiteco doveva essersi ritrovato nell’«umanità delle origini» completamente da sé. Come se uno scimpanzé, poiché è molto «più simil-umano» di quanto non lo sia ad esempio un cane, fosse soltanto un pizzico «più umano» di questo! Avrebbe dovuto suscitare qualche sospetto il fatto che anche l’essere umano si è discostato a sua volta dalla foggia «simil-umana» del Metapiteco certamente tanto quanto se ne è discostato, ad esempio, il gorilla con la sua configurazione del corpo «grottesco-animalesca».
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Seguendo il filo conduttore del principio evolutivo è subito rintracciabile la differenza fondamentale fra formazione «similumana» e «umana». La formazione «umana» presuppone l’evo luzione sotto il principio dell’umano; si limita dunque, senza eccezioni, agli esseri umani. Essa è il risultato dei retroeffetti dell’uso degli strumenti e – in confronto alla forma animale – è caratterizzata principalmente dall’essere dal punto di vista corporeo «disarmata», cioè dalla carenza di organi per fuggire e per combattere, oppure, in termini positivi, dalla compresenza di una dentatura debole e dell’andatura eretta. La formazione «simil-umana» invece assomiglia solamente alla conformazione «umana» e ciò anche solo nella foggia dei singoli organi. Le manca sempre la manifestazione coerente dell’uso degli strumenti che si svela nel progetto fondamentale del corpo. La formazione «simil-umana» è quindi un attributo esclusivamente animale. Anche l’animale più simil-umano resta ancora un «animale»; soltanto il principio dell’umano rimodella la formazione «simil-umana» nella forma «umana». Inoltre, con formazione «umana» non si può semplicemente intendere l’attuale specifica effige dell’«Homo sapiens» che si deve invece soltanto al corrispondente progredire del principio evolutivo umano. All’inizio della sua evoluzione l’essere umano poteva ancora mostrare numerosi singoli tratti che «assomigliavano» soltanto alla foggia attuale «specificamente umana» e per questo motivo venivano opportunamente denominati caratteri «scimmiatici»: la mandibola inferiore rotonda e senza mento, la mandibola superiore prognata, la fronte «sfuggente», ecc. Nulla però sarebbe più sbagliato del dedurre dal generale progredire dell’attuale foggia umana che la formazione «umana» sia un «incremento» della formazione «simil-umana». Perché da un punto di vista sostanziale già il Trinil aveva una formazione «puramente umana», soltanto non ancora nella forma «specifica» progredita dell’essere umano attuale. Il Metapiteco invece, in quanto si trovava ancora sotto il principio evolutivo
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animale, non aveva una formazione del corpo «umana», ma «simil-umana». Era un «animale» e nient’altro. L’alto grado di somiglianza con l’essere umano non cambia questa considerazione, anche se avrà un significato decisivo per la successiva ominazione di uno dei suoi discendenti (grazie alle particolari ripercussioni funzionali). La teoria della «discendenza della scimmia dall’essere umano» si rivela così un grande equivoco che deve far spazio il più rapidamente possibile a un’ipotesi migliore. Le scimmie non sono affatto esseri umani degenerati («animalizzati»), ma sono ciò che sono state e sono rimaste: animali. D’altra parte, anche gli esseri umani non sono affatto scimmie «maggiormente» evolute («trasmutate»). Certamente l’essere umano è disceso dalla scimmia; ma con la sua nascita il mondo organico è stato attraversato da una profonda spaccatura che ha diviso per sempre l’essere umano dall’animale. Così l’essere umano sta di fronte alla totalità degli animali in quanto forma essenziale sua propria, nuova. Questa cognizione richiede ora urgentemente il superamento della collocazione (zoologica) dell’essere umano nel regno animale operata dalla scienza. Nel «caso» dell’essere umano il principio di classificazione «genealogico» non è praticabile e su questa impossibilità, come abbiamo visto (cfr. p. 69), sono falliti tutti gli sforzi, anche i più arguti. In quanto creatura unica nella natura l’essere umano può invece pretendere per sé un regno peculiare. La «posizione peculiare dell’essere umano nella natura» sino a qualche decennio fa era ancora un dogma inconcusso. Sembrava oltre ogni dubbio evidente: l’essere umano che governa a piacimento sul mondo inorganico e organico, che indaga le leggi del moto delle sfere celesti e intuisce l’armonia dell’infinito, che sacrifica la sua volontà al dovere e che si entusiasma per la bellezza, non ha pari sulla terra, è una «creatura eccezionale», occupa una propria posizione peculiare nella natura. Ma un posto peculiare non gli spetta certo per il fatto di essere in grado
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di fare di più dell’animale, ma perché nel suo intero modo di pensare e di agire si differenzia dall’animale per la sua essen za. La scuola darwiniana aveva messo al bando questo antico dogma, ma, come si è visto, ingiustamente. Perché in relazione all’animale l’essere umano occupa in ogni caso una posizione eccezionale nella natura. Se dunque la relativa posizione peculiare dell’essere umano è in dubbio, va assolutamente confermata. Tuttavia l’antico dogma afferma dell’altro. Fa dell’essere umano una creatura del tutto, ossia in senso assoluto, peculiare. Perciò anche l’affermazione che l’animale stia «dentro e sotto» la natura, l’essere umano invece «al di fuori e al di sopra» della natura, deve essere intesa in maniera senz’altro letterale tenendo conto del potere e della libertà che l’umano possiede. Ci si chiederà però se il dogma può oggi ancora essere mantenuto in questa dimensione allargata, dopo che si è scoperto che l’essere umano deve la sua appartenenza all’ambito dell’umano solo e soltanto alla peculiarità del suo principio evolutivo. In quale relazione con la natura si pone l’essere umano per via del suo nuovo principio evolutivo? La risposta a questa domanda è stata già anticipata quando lo abbiamo definito come un principio dell’«adattamento esosomatico». Con ciò veniva già espresso che l’essere umano, come l’animale, ubbidisce al costrittivo precetto naturale dell’a dattamento, anche se in una maniera sostanzialmente diversa rispetto all’animale. E come potrebbe un principio evolutivo germogliato dal grembo della natura lasciare il terreno materno? Già l’assunzione che sia stata la necessità, ovvero la costrizione delle condizioni esterne, a spingere il primo «strumento» nella mano dell’essere umano porta a concludere che l’essere umano non si possa mai e poi mai sottrarre al precetto naturale dell’adattamento. Posto in mezzo alla natura con il suo corpo e i suoi bisogni vitali, deve stare alle condizioni di ciò che lo circonda se questi e il suo genere vogliono sopravvivere. Così anche
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l’essere umano si rivela una creatura evolutasi secondo principi naturali, sottoposta alle leggi generali della natura, radicata nella natura e da essa circondata. Certamente il suo principio evolutivo lo libera dalla costrizione del corpo all’adattamento e gli dischiude, grazie a questo distacco dalla limitatezza naturale del corpo, un ampio campo per una nuova efficacia – ma questa differenza di essenza dall’animale non cambia nulla nel determinare che, pur nella sua libertà, l’essere umano rimane sempre sottomesso alle generali leggi della natura. Per quanto riguarda qui la «libertà» corporea, le nostre precedenti considerazioni sull’essenza della tecnica, del linguaggio e della ragione hanno mostrato come tutte e tre le forme dello strumento intervengono «al posto» delle parti del corpo disattivate e al posto di queste si fanno carico del compito d’importanza vitale dell’adattamento alle condizioni della natura. Gli effetti «naturali» della «libertà» spirituale nella liberazione dell’essere umano dalla costrizione del corpo dettata dalla vita pulsionale non sono poi così superficiali. A un primo sguardo potrebbe sembrare che con una consapevole repressione del proprio «egoismo» al servizio dei bisogni vitali l’essere umano vada contro le leggi della conservazione. In realtà qui non si tratta di nient’altro che dell’intervento dei mezzi di disattivazione «al posto» del corpo: l’inconsapevole vita pulsionale del corpo viene sostituita, nel suo adattamento alla natura, da motivazioni consapevoli. Infatti anche se la scienza «pura», esercitata solamente per se stessa e non per fini pratici, nella sua sfera ideale è ancora molto lontana dal vigente ambito di interesse della vita quotidiana, resta comunque strettamente intrecciata con esso. Ogni arricchimento teoretico del nostro sapere deve infine acquisire una relazione pratica con la vita pulsante. La tecnica offre esempi a bizzeffe di queste scoperte e invenzioni nate dal puro spirito di ricerca che hanno poi influito in maniera sconvolgente
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sul nostro modo di vivere. Sì, senza gli sforzi ideali rivolti da secoli ai fondamenti teorici della matematica, della chimica e della fisica, la tecnica non avrebbe mai potuto giungere all’enorme espansione dei nostri giorni. Anche il più nobile fiore dello spirito puramente scientifico, la filosofia, che si sottrae a tutto ciò che c’è di terreno, è inaspettatamente intrecciata alla verde ghirlanda della vita. Con lo sforzo di penetrare nell’essenza di tutte le cose può fornire al contempo all’essere umano preziose linee guida per un’ideale condotta di vita. D’altra parte, in questo modo, l’umano diviene capace di prendere in mano la gestione della sua forma esistenziale e la direzione della sua ulteriore evoluzione. Allora, nonostante il suo «sottrarsi al mondo», il «puro» pensiero sfocia infine nuovamente nella reale sfera degli interessi dell’umano, fornendo con ciò un prezioso appoggio alla scienza «pratica», dalla quale proviene in senso storico-evolutivo. Allo stesso modo, neppure la morale può rinnegare i suoi compiti «naturali» e anche qui, nuovamente, il principio dell’umano e il principio dell’animale divergono qualitativamente in senso pieno, ma coincidono nei loro intenti naturali. Nell’animale la conservazione del genere è assicurata in maniera costrittiva dall’impulso all’accoppiamento e alla maternità e, quando vive in società, dall’impulso «sociale». Nell’essere umano moralmente maturo lo stesso compito naturale si è spostato nella sfera etica della morale, l’azione libera della coscienza interviene «al posto» dell’azione costretta dall’istinto, la cui pulsione istintuale viene sostituita dall’idea etica. Quindi anche nella sua libertà morale l’essere umano abbandona solo apparentemente la sfera dell’adattamento; anche dietro al consapevole sacrificio del proprio Io corporeo [eigenen leiblichen Ichs] c’è la vita imponente, eternamente spumeggiante, con le sue esigenze naturali, solo che qui l’adattamento corporeo (istinto) viene abbandonato a favore dell’adattamento esosomatico, il precetto etico. Perciò la morale, essendo cresciuta in senso storico-
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evolutivo prima di tutto sul fondamento della vita istintuale, resta al servizio delle leggi naturali in una maniera tanto salda quanto lo è la costrizione istintuale nell’animale: i matrimoni «benedetti dal cielo», l’amore genitoriale che avvolge i figli e i nipoti, il comportamento nei confronti dei propri simili animato dall’idea di «amore per il prossimo» si realizzano alla fine come compiti «naturali». Ma compiti «naturali» spettano anche all’estetica, poiché an ch’essa è sbocciata nel giardino del principio dell’umano e si mostra così come un elemento integrante del suo processo evolutivo. Rispetto a dove questi compiti, o quantomeno una parte di essi, vadano cercati, un’indicazione proficua ci è fornita dalla stretta relazione tra il senso del colore e del suono degli animali e il loro accoppiamento. Tanto più che adornamento e musica giocano ancora un ruolo significativo nell’erotismo degli esseri umani primitivi. Se questi elementi di piacere erotico («interessato») si possono intendere come i primi passi verso la vera estetica «disinteressata», è necessario assumere che anche l’estetica stia in una relazione «naturale» con la scelta del partner. La quale va forse spiegata così: l’essere umano esteticamente maturo non sceglie più istintivamente il suo partner, ma consapevole di un ideale di bellezza che ha in mente. In questo caso dunque l’estetica prenderebbe in consegna il compito di una consapevole coltura della natura [Naturzüchtung]. Lo vediamo: ciò che nell’animale viene indotto con la forza attraverso l’istinto il principio dell’umano lo induce con ideali consapevoli. Poiché perciò il fine dell’adattamento rimane il precetto ultimo anche nelle libere azioni dell’essere umano, tutte le infrazioni delle leggi naturali costano care. Un velivolo artificiale che non sia completamente adattato alle vigenti condizioni dell’aria, come invece la struttura alare del corpo degli uccelli, non potrà che schiantarsi al suolo; una morale che non sia conforme alla salvaguardia istintiva del genere non potrà che metter seriamente in pericolo la sopravvivenza dell’umani-
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tà. D’altra parte, però, anche un intellettualismo, un moralismo e un estetismo portati all’estremo non possono che danneggiare l’umanità, se cioè per un’alienazione esagerata della volontà fosse la vita con le sue esigenze essenziali a rimetterci. Ugualmente un generale indebolimento e un’atrofizzazione degli organi, dovuti a un’eccessiva disattivazione del corpo con rischi per la loro abilità alla vita, avrebbero conseguenze fatali. Così al dispiegamento espansivo del principio dell’umano sono posti certi limiti nell’ambito tanto della libertà corporea quanto di quella spirituale. Non è differente per il principio evolutivo animale. Anche qui, ogni sua esagerata specializzazione tornerà a svantaggio dell’animale. Così, ad esempio, si è messa in relazione la crescita esagerata dei dinosauri con l’estinzione di questo genere animale. Certo sarebbe sbagliato voler giudicare il principio evolutivo dell’essere umano e dell’animale basandosi su questi eccessi. Grazie al suo principio evolutivo l’essere umano è inoltre in grado di esaminare a fondo scientificamente i «danni della cultura» e, da quel momento, di contrastarli praticamente. In questo senso può essere attribuito all’estetica un ulteriore campo d’azione «naturale», nella misura in cui porta davanti agli occhi degli esseri umani un’ideale di bellezza corporea e con esso indirizza verso un corpo «vigoroso». Attraverso la limitazione, condizionata dalla natura, del possesso della libertà, la grandezza dell’essere umano e il suo primato sull’animale non vengono affatto sminuiti: solamente l’essere umano adempie con libertà e coscienza il precetto naturale dell’adattamento, soltanto questi ha la responsabilità del proprio destino. È stata dunque in passato un’intuizione assolutamente giusta quella di scegliere il fenomeno della «libertà», così unico e completamente estraneo all’animale, per esaminare a fondo e determinare attraverso di esso l’essenza dell’essere umano. L’osservazione che l’essere umano possa svincolarsi dalla naturale concatenazione della sua esistenza, svincolando il suo pensiero e la sua azione dalla costrittiva vita
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pulsionale del corpo, ha di per sé necessariamente suscitato speculazioni metafisiche. Oggi però le antiche soluzioni al problema della libertà, per quanto possano essere state preziose per quel tempo, non possono più soddisfarci. Invece di lasciar disciogliere organicamente nell’armonia delle leggi naturali l’apparente contraddizione tra la libera azione etica dell’essere umano, sottoposta solamente alla propria responsabilità, e la legge causale che di solito governa illimitatamente nella natura, si rimase intrappolati nell’idea errata che l’essere umano con il suo modo di essere essenzialmente etico-libero infran gesse la legge della natura. Giustamente la moderna scienza naturale si è schierata contro un tale pervertimento del concetto di libertà. L’essere umano non può mai porsi fuori dalle leggi naturali. Ma che ne è allora della sua «libertà» così tanto elogiata? Ci siamo già occupati di questo problema: ogni libertà dell’essere umano proviene dalla sua liberazione dal corpo. Perciò il tipo di libertà e la quantità di libertà di cui il singolo essere umano può godere dipende solo dal modo in cui si libera dalla costrizione del corpo. Il possesso della libertà pone l’essere umano al di fuori dell’animale e al contempo al di sopra di esso. Il principio evolutivo animale è vincolato al «corporeo» e implica che il modo di vivere dell’animale sia fortemente predelineato dal corpo. Grazie alla sua liberazione dal corporeo, l’essere umano gode invece di una libertà di muoversi quasi illimitata e di un’autonoma configurazione delle sue condizioni di vita. Mari, fiumi, monti, clima, ecc. non possono più ostacolarlo nella sua libertà di movimento, lo spazio e il tempo non gli pongono più alcun limite. In breve, la ristrettezza e la limitatezza della condotta di vita che il legame con il corpo comporta fa spazio a un dispiegamento vitale grandioso e libero, la cui forza di espansione cresce sino all’incalcolabile perché gli strumenti artificiali, i mezzi della libertà, nelle loro possibili prestazioni, sono a loro volta inestimabili. Diversamente dalla libertà «corporea», la libertà «spirituale»
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eleva l’essere umano al di sopra dell’animale. Al posto della costrizione dell’istinto subentra qui un agire guidato da motivi ideali e determinato da leggi proprie. Così, nuovamente, chi è libero è superiore allo schiavo. Quanto l’essere umano con la sua libertà spirituale riesca a elevarsi sull’animale è possibile valutarlo al meglio in quel processo evolutivo che nell’animale si svolge istintivamente e di cui invece l’essere umano è regista e responsabile. L’essere umano sta «al di fuori e al di sopra» dell’animale, ma «dentro e sotto» la natura: questa è la nostra decisione in quella incresciosa «disputa sulla corretta visione del mondo». Nell’essere umano il «naturale» appare come versato in un’alta forma e al contempo elevato a un gradino superiore. Quando dunque il vecchio dogma contrapponeva l’essere umano «libero» all’animale «non libero» e deduceva da questa opposizione una differenza di essenza, in questo non si può che concordare pienamente con esso. Perché qui, come abbiamo visto, un principio evolutivo si oppone all’altro. D’altra parte, la moderna scienza naturale è nel giusto quando rimanda l’essere umano come l’animale nei confini della natura. Perché anche il suo principio evolutivo è radicato nello stesso fecondo terreno della natura. L’essere umano resta dunque «nella e sotto» la natura, eppure, in quanto connesso alla «libertà», rappresenta una nuo va forma essenziale di specie superiore [eine neue Wesensform von höherer Art].
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Capitolo 26
La destinazione «naturale» dell’essere umano Unità di cultura e natura – Il principio della cultura – Il movimento della cultura – La conduzione autonoma [Selbsleitung] dell’evoluzione – Eticità come fenomeno della consapevolezza – Il principio dell’umano come principio «etico»
Poiché il principio dell’umano pratica la liberazione dal corpo e dalla sua vita istintiva naturale, questo conduce l’evoluzione dell’essere umano fuori dal buio pozzo dell’ineluttabile verso la chiara luce della consapevolezza [Bewußtheit]. L’essere umano può dunque ora dettarsi da sé le leggi carpite alla natura e rispettarle per una libera decisione. Già molto prima che l’essere umano fosse venuto scientificamente a conoscenza della sua «evoluzione», quando soltanto il suo sentimento visionario gli indicava la sua «superiore» destinazione, la spinta a un compimento consapevole era potente. Tutti i grandi filosofi o fondatori di religioni, istituendo peculiari linee guida per il comportamento degli esseri umani nella forma di precetti etici, avevano in mente elevati stadi ideali per la futura comunità umana. Anche se il pensiero di un’«evoluzione» dell’essere umano era loro ancora estraneo, i loro precetti, tendenti alla realizzazione degli ideali, esercitarono però già un influsso determinante per l’ulteriore evoluzione naturale dell’umanità. Il grande filosofo tedesco Kant, che già aveva scritto una «storia naturale» dei corpi celesti, giunse sino alla lungimirante concezione secondo la quale il punto di partenza dell’ambito dell’umano sarebbe da individuare nel passaggio «dal girello per bambini dell’istinto alla guida della ragione; in una parola:
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dalla tutela della natura allo stato di libertà»1. Qui viene già intuita l’unità di cultura e natura. Perché tentando di trovare una soluzione al suo problema «più grande», quello «di una società civile che faccia valere universalmente il diritto», l’essere umano agisce nel senso della natura, prosegue consapevolmente la sua evoluzione naturale. Così i fini ideali del genere umano, come espressione filosofica di un bisogno profondamente «biologico», coincidono con i fini naturali della sua evoluzione. Con il sorgere della dottrina evoluzionistica, quando emersero più chiaramente le grandi connessioni organiche, la stessa concezione di fondo acquisì necessariamente un significato più penetrante. Fondata da Comte, promossa da Spencer nella direzione indicata da Darwin, entrò in gioco la dottrina della «società» umana, la sociologia. Questa dottrina si convinse sin dal principio che l’essere umano, come l’animale, è sottoposto alle generali leggi di natura, seguendo anche nella sua fase evolutiva «culturale» attuale le leggi naturali dell’evoluzione. Tutti i nostri dispositivi civili, come la comunità statale, il diritto e il commercio, vengono perciò considerati come prodotti necessari di un’evoluzione «naturale». «Cultura» e «natura» non sono affatto in contraddizione, come si credeva un tempo; la cultura si caratterizza invece come l’ultima propaggine della natura e ciò che chiamiamo «storia della cultura» o, compiacendoci, «storia del mondo» non è altro che la «storia naturale» dell’umano. 1. Alsberg cita qui, in maniera imprecisa, un passo dall’Inizio congetturale della storia degli uomini, cfr. I. Kant, Mutmaßlicher Anfang der Menschen geschichte [1786], in Kant’s Gesammelte Schriften, Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, vol. VIII, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1923, pp. 107-123, qui p. 115. Per l’edizione italiana si veda Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Bari 1995, p. 109. Immediatamente sotto, il riferimento è al massimo problema del genere umano esposto nella quinta tesi dell’Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (ivi, rispettivamente p. 22 e p. 34). [N.d.C.]
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Quando Darwin rese pubblici i suoi principi evolutivi, molti credettero di poter riconoscere nella «lotta per l’esistenza» anche il «principio della cultura» che avevano cercato. Si traspose dunque senza esitazione il presunto principio evolutivo animale sul piano dell’essere umano e, conformemente a ciò, lo si mise in connessione con un’ulteriore evoluzione «organica» dell’umano. La maggior parte dei sociologi attuali non vuole più saperne di un tale prolungamento dell’evoluzione animale nell’essere umano e rifiuta così di interpretare il «superuomo» di Nietzsche in senso «organico». Per loro, sotto la guida di Spencer, il centro dell’evoluzione dell’essere umano si sposta piuttosto dall’ambito dell’organico a quello dei dispositivi e delle organizzazioni umani. Lo stesso essere umano sarebbe una specie di «tipo fisso» che rimarrebbe costante; soltanto il suo ambiente culturalizzato si «evolverebbe». Ma, come già abbiamo visto, questa è un’affermazione errata. Una comparazione dello scheletro di Trinil con lo scheletro degli «esseri umani civilizzati» attuali ci mostra quanto elevato sia il grado con il quale l’essere umano si è evoluto anche in senso «organico». Secondo la nostra concezione, l’intera evoluzione umana, anche nelle sue manifestazioni culturali più elevate, è radicata nel «principio dell’umano». Perciò non abbiamo più bisogno di cercare il «principio della cultura». Se il principio dell’umano è infatti il solo latore e detentore di tutto ciò che è culturale, si rivela da sé come il misterioso principio della cultura. In altre parole: cultura è essere-umani [Menschsein], è liberazione dal corpo e i mezzi culturali sono gli strumenti artificiali che l’essere umano ha creato nell’ambito della tecnica, del linguaggio e della ragione. Se il concetto di «Kulturmenschheit» al giorno d’oggi viene riferito solamente al gradino più alto dell’evoluzione dell’umanità, con un tale uso della lingua si occulta il reale stato di cose. La cultura è tanto antica quanto l’umanità ed è solamente il livello della cultura a essere diverso e a dipendere dal grado dell’evoluzione del principio dell’umano.
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Riconoscere l’identità tra il principio dell’umano e il principio della cultura non può che acquisire un significato fondamentale per la ricerca sociologica. Ciò che in precedenza era un presagire, una possibilità, diviene ora certezza. Non soltanto ora viene svelata l’idea essenziale della cultura, ma riusciamo anche a vedere all’interno e dietro il complicato ingranaggio del movimento della cultura e a dedurre, dal modo e dalla direzione del suo corso, i tratti delle sue future configurazioni. Se dall’alto della prospettiva del principio dell’umano gettiamo uno sguardo d’insieme sul corso evolutivo del processo culturale percepiamo che questo si perde in migliaia di viottoli, dipanandosi tanto per alture scoscese quanto in profonde vallate. Questo imprevedibile su e giù, qua e là, del movimento della cultura ci stordisce in maniera tanto più violenta quanto più ci avviciniamo alla scena attuale della pulsante vita culturale. Se ci poniamo al centro della fortissima corrente vorticosa degli avvenimenti, veniamo circondati così possentemente dai suoi flutti fragorosi che non avremo più occhi o orecchie per nient’altro che per l’incessante fluttuare e mugghiare dell’onda della cultura. Così accadde a Schopenhauer quando nella sua trattazione della cultura si limitò allo stretto segmento evolutivo dell’epoca culturale «storica», tenendo così conto soltanto dei suoi errori e tribolazioni [Irrungen und Wirrungen]. Non c’è da stupirsi che l’intero processo culturale gli sia apparso come il vano gioco dei flutti, stancante ed estenuante, dell’alta e della bassa marea, giungendo addirittura alla sconsolante e disperante concezione che l’umano non sarebbe capace di alcuna evoluzione. Ma se ci allontaniamo un po’ dalla scena movimentata degli eventi culturali che sono a noi più vicini e raggiungiamo un punto di osservazione sufficientemente elevato e ampio da permettere una libera panoramica sull’intero percorso dell’evoluzione culturale, anche qui non si nascondono le numerose anse e asperità del cammino, ma veniamo al contempo catturati dall’impressione di una tendenza di fondo fortemente rivolta
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verso l’alto. Laggiù nella valle, vicino alle dimore dei generi animali superiori, il movimento culturale muove i suoi primi timidi passi. Con il grezzo strumento di pietra dell’essere umano delle origini ci si fa incontro il primo documento culturale. Quasi impercettibilmente, e seguendo linee sfocate, il sentiero sale e raggiunge già nello stadio culturale della lavorazione a regola d’arte e della scheggiatura dei bordi degli strumenti in pietra una certa altezza dalla quale il Neandertal, l’essere umano dell’antica età della pietra, può guardare con superiorità l’essere umano delle origini che combatte con la mera pietra. Se volessimo seguire nei dettagli l’ulteriore ascesa dell’evoluzione culturale, ciò significherebbe scrivere una storia culturale universale dell’umano: come lo strumento tecnico si sia perfezionato e arricchito sempre più, come con il linguaggio e la ragione siano sopraggiunti nuovi mezzi culturali, come soprattutto, attraverso gli effetti della ragione, il movimento culturale abbia fatto negli ultimi millenni rapidi balzi verso l’alto. Proprio nei tardi gradi evolutivi dell’umano l’impronta del movimento ascensionale diviene così imponente che in confronto il procedere a zig zag sembra semplicemente una proprietà del tracciato, vale a dire il modo peculiare in cui la cultura si spiana la strada verso l’alto. Il riconoscimento di un’immanente tendenza ascensionale dell’evoluzione culturale, ottenuta con la prospettiva del principio dell’umano, dimostra al pessimismo filosofico come le sue premesse e i suoi fondamenti siano errati, facendo spazio a un ottimismo fiducioso nel futuro. La nostra epoca attuale è stata chiamata l’epoca della tecnica, volendo esprimere spesso con ciò il fatto che solo la tecnica, non però la «cultura» in quanto tale, possa registrare un progresso evolutivo. Tecnica «a parte», così si dice, la nostra cultura non starebbe né a un grado superiore né a un grado inferiore rispetto all’età classica. Già a metà del secolo scorso lo storico dell’arte inglese Th. Buckle ha sostenuto che la tecnica, attraverso il miglioramento della mobilità, avrebbe contributo alla
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nobilitazione dei costumi più di tutte le moralizzazioni. Questa può essere un’affermazione unilaterale; ma certamente si può concordare che la tecnica, con le sue creazioni che superano lo spazio e il tempo, con la macchina da stampa, le ferrovie, la navigazione, il telegrafo, la radio, ecc., ha portato gli esseri umani straordinariamente vicini gli uni agli altri, dal punto di vista corporeo e spirituale. A partire da un avvicinamento iniziale superficiale-disimpegnato si è giunti a un’unione sempre più stretta e non soltanto in ambito economico, ma anche spirituale. Così, infine, dobbiamo ringraziare soltanto la tecnica se l’umanità si è ritrovata in un fare comune, compenetrato, costruttivo, se l’intero globo terrestre è stato trasformato in un campo di attività collettiva e solidale. Da un’osservazione superficiale delle attuali circostanze potrebbe però sembrare che, con l’ampliamento delle aree di attrito, la complicazione della materia di conflitto e con l’aumento dei mezzi atti al combattimento, la tecnica ostacoli proprio la condizione ideale dell’umano. Per quanto sia vero che l’associarsi dell’umano inizialmente non possa che portare con sé un aumento delle tensioni e un’intensificazione degli attacchi, è altrettanto evidente che il nuovo impulso ad avvolgere e abbracciare tutta l’umanità, che la tecnica porta nella storia del mondo, è favorevole e indirizzato verso l’idea di umanità. Se dopo l’ultima grande guerra nell’orizzonte umano è balenata l’idea di una generale unione dei popoli, questo primo passo fondamentale in direzione di un regno di tutti gli esseri umani [Allmenschentum] è prima di tutto un successo della tecnica. Poiché la guerra è oggi diventata un evento sconvolgente per l’intero corpo dell’umanità e, con una continua escalation degli strumenti bellici sino all’impossibilità di combattere, alla fine possono esserci soltanto distruzione e annientamento reciproci, soltanto sconfitti e mutilati, ma nessun vero vincitore. Così è la tecnica stessa a sospingere l’umanità – volente o nolente – nelle braccia del regno di tutti gli esseri umani.
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Gli effetti della tecnica sull’eticizzazione dell’umanità vanno anche in un’altra direzione. Convertendo il globo terrestre in un unico spazio economico, essa mette tutti gli esseri umani al servizio dell’universalità. Le prestazioni dei singoli esseri umani traggono perciò il loro valore soltanto dal significato per il tutto; d’altra parte, queste identificano l’essere umano, che con le sue prestazioni si pone «al servizio del tutto» come membro integrato della società umana e, in quanto tale, può far valere il diritto al libero dispiegamento e rivendicare una piena parità di diritti. È l’idea del «regno compiuto dell’umano [Voll menschentum]» che con la sua seconda e grandiosa prestazione culturale è fuoriuscita dal grembo della tecnica. Il fatto che la politica economica degli ultimi decenni non sia riuscita a stare al passo dei rapidi ritmi evolutivi della tecnica, infilandosi così in un periodo di profonda depressione, non può essere imputato alla tecnica. Nulla sarebbe più assurdo che sostenere che il macchinario sia il «nemico» dell’essere umano perché gli «sottrae il lavoro». È invece proprio del corso e del senso dell’intera evoluzione umana che l’essere umano venga esonerato dalla corvée del corpo guadagnando così una sempre maggiore quantità di libertà. Una volta riconosciuta la singolare relazione tra la tecnica e il compimento dell’umano, verrà resa giustizia al nostro secolo e dovrà finalmente essere riconosciuto alla tecnica il valore culturale che le spetta. Porre il nostro secolo allo stesso livello dell’antichità significa tralasciare con noncuranza il solenne atto di nascita dell’idea di regno compiuto di tutti gli esseri umani [All- und Vollmenschentum]. Ora riconosciamo quanto sia superiore in termini spirituali-etici un Kant, con il suo annunciare l’idea dell’umanità e della libera personalità, rispetto al filosofo greco Platone, al quale il concetto di umanità era ancora assolutamente precluso mentre l’ilotismo gli appariva un dispositivo naturale e sensato. La tendenza ascensionale nel movimento culturale si documenta soprattutto nel fatto che con la creazione della «liber-
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tà spirituale» la ragione ha posto il fondamento per una nuova forma dell’adattamento esosomatico, nella quale i processi di adattamento sono elevati nella sfera della consapevolezza. Il pensiero ideale, indirizzato all’indagine della pura verità, nell’epoca della dottrina evoluzionistica è giunto al punto critico di dischiudere all’essere umano il suo proprio essere e divenire, dove il movimento culturale varca «la soglia della consapevolezza». Poiché questo evento destinale del «divenire consapevole del movimento culturale» introduce necessariamente la fase del «dominio culturale», cioè della gestione autonoma dell’evo luzione, questo viene spesso accolto con plauso dai sociologi in quanto grande «punto di svolta» nel processo dell’umanità, nel quale questa «si desta dal millenario sopore dell’esistenza animale pulsionale» per dettarsi ora da sé, in sintonia con la natura, le leggi dell’evoluzione (Mueller-Lyer). Invero non si può parlare qui in senso stretto di un «punto di svolta». Perché l’uniformità del processo evolutivo umano non viene in nessun caso spezzata. Una volta che l’essere umano delle origini ebbe imboccato il binario evolutivo della liberazione dal corpo, progredendo dritto su questo binario un giorno doveva arrivare l’istante in cui lo stato di inconsapevolezza si sarebbe rovesciato in quello di consapevolezza. Il fenomeno della conduzione autonoma dell’evoluzione appare dunque così come una modalità condizionata dinamicamente e integrata dell’adempimento del principio dell’umano. In altre parole: il dominio culturale [Kulturbeherrschung] è la destinazione naturale dell’essere umano. Con il farsi carico della conduzione dell’evoluzione, come si è detto, la direzione evolutiva non cambia affatto. Anche se consapevolmente, in possesso della sua libertà, l’essere umano non agisce in fondo in maniera diversa da come agiva precedentemente, inconsapevole, nella costrizione degli istinti. Invero, beneficiando della propria libertà, potrebbe anche agire diversamente e spesso lo fa; ma allora non agisce più secondo natura, non più nella direzione del suo principio evolutivo e
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perciò non può che portare danno alla sua evoluzione. Poiché dunque la natura libera l’essere umano dalla protezione della sua mano (istinto), lo carica al contempo del peso della propria responsabilità. Se l’agire istintivo porta ancora il marchio della minorità, all’agire consapevole libero è invece legata una di chiarazione di maggiore età da parte della natura nei confronti degli esseri umani. Se occorre che l’elevazione allo stadio della maggiore età appaia nel naturale processo evolutivo dell’umano come un momento integrante, non può essere pensato che così: con il progredire della cultura a un certo punto l’essere umano raggiunge anche la «maturità» necessaria per il vero dominio culturale e si innalza poi a una altezza culturale a partire dalla quale l’adattamento esosomatico viene sospinto dalla ragione al maggior compimento possibile. Fino a lì però il cammino dell’evoluzione, proprio come nei tratti precedenti ancora sottomessi all’istinto, sarà naturalmente caratterizzato da linee ondulate e a zig zag, che si annunciano come l’espressione tangibile della ricerca e della sperimentazione della retta via, del burrascoso spingersi in avanti e ricadere indietro, della rivoluzione e della reazione, dell’errore nel progresso e dell’errore nel regresso. Ma in questa oscillazione e con essa l’umanità viene irresistibilmente e inarrestabilmente sospinta verso l’alto sul filo del destino del principio dell’umano. Precedentemente, al tempo del dominio dell’istinto, fu semplicemente il bisogno dell’utile [Nützlichkeitsbedürfnis] finalizzato al miglioramento delle condizioni di vita e, di conseguenza, al perfezionamento della produzione di strumenti a tenere dritta la rotta del movimento della cultura in senso ascensionale. Ora è il «divenire consapevoli» del processo culturale a ravvivare nuovamente la sua spinta. Essendo infatti l’essere umano ormai a conoscenza della sua «evoluzione» e vedendo davanti ai suoi occhi la possibilità di un armonico stadio finale dell’evoluzione, in sé equilibrato, non può più rimanere a lungo indifferente di fronte a tale attuale cognizione. Poiché però aderisce alla figura
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ideale del futuro dell’umanità e tende a essa, il suo precedente bisogno puramente egoistico di ampliamento della sfera di adattamento esosomatico ha acquisito un carattere etico. Associamo il concetto di «etico» a ogni agire guidato da motivi ideali, disinteressato, «sovra-individuale». Quindi l’«etico» non si limita soltanto alle virtù «morali», ma abbraccia l’intero ambito della libertà «spirituale». Visto dalla prospettiva complessiva del principio dell’umano, l’etico si rivela come strettamente appartenente al fenomeno del «consapevole». È sempre una motivazione consapevole a porsi al servizio dell’evoluzione naturale al posto dell’istinto inconsapevole che agisce sotto costrizione, innalzando così la stessa evoluzione nella zona della consapevolezza. Colto in maniera storico-evolutiva, l’etico è dunque interpretabile come istinto divenuto consapevole. Detto in maniera più incisiva: il principio spirituale, che nella sua forma inconsapevole si presenta come istinto, assume nell’am bito della consapevolezza la forma dell’etico. Se la libertà spirituale poggia su basi «etiche», allora dovremo accordare un carattere «etico» allo stesso principio dell’umano, quantomeno nell’ambito della sua libertà «spirituale». Ciò significa: all’interno dell’ambito della consapevolezza, in particolare nelle forme della libertà spirituale, il principio dell’umano si erige a principio etico. Con ciò siamo giunti ai motivi più profondi del movimento della cultura, cogliamo la sua prodigiosa ascesa, intravediamo il suo fine elevato. Il principio evolutivo umano, nonostante dia l’impressione di ingarbugliarsi ogni giorno di più e di aggrovigliarsi sempre più in profondità, rimane un evento rigorosamente unitario della natura. Il principio creativo su cui si basa rimane lo stesso principio originario della «liberazione dal corpo», il quale si estende su ambiti sempre maggiori della condotta di vita umana guadagnando così sempre più terreno su ciò che resta dell’adattamento «del corpo» ereditato, finché non si eleva infine a essere un prin-
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cipio della consapevolezza, nel senso dell’eticità. Motivazioni etiche subentrano alla pulsione istintuale, alla quale sino a quel momento toccava occuparsi della costruzione del genere, e così la precedente costrizione dell’evoluzione fa spazio a una sua conduzione consapevole ed etica. L’essere umano consapevole ed etico, ponendosi al servizio della sua evoluzione, prosegue sempre più verso la «maggiore età» che costituisce il fine promettente delle sue aspirazioni. In quest’ultimo stadio evolutivo dell’umanità, nella sua costante ascesa, la liberazione dal corporeo ha raggiunto l’apice; qui l’intera conduzione della vita poggia sulla consapevolezza etica; qui l’essere umano è anche completamente adattato alla natura in maniera «esosomatica», come l’animale lo è in maniera «corporea»; qui si acquieta il grande processo naturale che ha linearmente fatto divenire l’essere umano da un essere irragionevole un essere dotato di ragione, da un essere istintivo un essere etico; qui il tipo «umano» è compiuto.
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Capitolo 27
L’essere umano in quanto «senso della terra» Obiezioni contro il metodo biologistico – Limiti del metodo – Il problema dell’avanzamento dell’evoluzione – Principi di causalità e casualità – Il principio esplicativo vitalistico – Scienze naturali e metafisica
Proiettare l’essere umano sulla sua «idea più elevata» in un tempo in cui il mondo sta andando «in frantumi» potrebbe essere percepito come pura utopia. Questa proiezione è tuttavia giustificata. Perché – come possiamo constatare nell’animale – ogni evoluzione tende al proprio compimento. Ogni animale ci appare come il perfetto rappresentante della sua idea più elevata. «Gli animali sono sempre perfetti, sono sempre tutto ciò che potrebbero essere; sono un’esaustiva espressione della loro possibilità», nota in maniera assolutamente corretta il conte Keyserling nel suo Diario di viaggio di un filosofo1. Tanto per il nesso analogico con il regno animale, quanto per l’intero corso sino a oggi ascensionale dell’evoluzione dell’umanità, diviene impossibile negare l’idea che anche il principio dell’umano proceda, sempre e ininterrottamente, verso la perfezione. Ma una volta raggiunta la meta finale sino ad allora perseguita, in particolare con la completa realizzazione di un ambito ideale dell’umano, vengono soddisfatte anche le aspirazioni 1. Alsberg cita qui H. Keyserling, Das Reisetagebuch eines Philosophen, Verlag von Duncker & Humblot, München-Leipzig 1919, p. 59. Per l’edizione italiana si veda Id., Diario di viaggio di un filosofo. L’India, tr. it. e cura di G. Gurisatti, Neri Pozza Editore, Vicenza 1997, p. 95. [N.d.C.]
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ultime e le speranze dell’umanità? La filosofia moderna, alla quale dovrebbe competere questa domanda, non è affatto di quest’idea. Rifiutando anche solo l’audacia di voler misurare l’ambito dell’umano con criteri biologici, predice come «unica conseguenza etica del biologismo un assoluto quietismo» (Rickert), dunque una stagnazione desolata dell’umanità. Lo spauracchio della noia profonda indicato da Schopenhauer, il «peggiore di tutti i mali», ricompare minaccioso sulla scena, l’ironizzazione nietzschiana dell’«ultimo uomo» che «tutto rimpicciolisce» risuona come ammonimento. Le osservazioni sollevate sul versante filosofico contro il «biologismo» sono legittime? Lo sarebbero di certo se con il raggiungimento del fine biologistico dell’umanità veramente si insediasse «la bassa marea del flusso della vita», se dunque poi l’essere umano ci vegetasse dentro in una quiete banale, monotona, appagata, se non conoscesse più nessuna volizione o nessuna aspirazione «oltre se stesso». Ma la più elevata idea biologistica potrebbe davvero contrapporsi ai moti e alle esigenze ideali dell’umanità, ai suoi «insopprimibili bisogni metafisici»? L’idea di regno compiuto dell’umano non comprende già di per sé una costante aspirazione al completamento, in quanto la forte autostima sprona l’essere umano a compiti sempre più elevati e pone i propri fini sempre più in là? Considerando l’animale, il quale conclusa l’evoluzione gode già da lungo tempo di una «ideale situazione d’equilibro» (ancora sconosciuta all’essere umano), possiamo certamente stabilire che, malgrado il suo «stato ideale», certo non «poltrisce nell’ozio», ma anzi continua incessantemente a formare il suo corpo per una più elevata prestazione e deve comunque rivolgere ogni sforzo al mantenimento di un alto livello performativo per continuare ad avere successo nella lotta per l’esistenza. L’animale si porta al mondo soltanto gli apparati, ma non ancora l’autocompimento che deve invece essere prima di tutto «elaborato». Secondo questo schema naturale dovremmo aspettarci che
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anche l’essere umano del futuro impiegherà grande energia nello sviluppo e nel compimento della propria «personalità», tanto più che per questo essere umano la competizione generale, oltre che sul successo «evidente», si basa ancora su valori ideali come la maestria, l’onore, la fama. Al contempo però non dovremmo gettare semplicemente al vento le obiezioni dei filosofi. Perché mi sembra che il metodo biologistico abbia certamente i suoi limiti visibili e occorrerebbe correggerlo in modo che nella determinazione biologistica della più elevata idea di essere umano rimanga un resto che non viene ricompreso in essa. Così con questo metodo siamo in grado solamente di dedurre l’ultimo grado del perfezionamento del principio dell’umano, proseguendo in linea retta il suo precedente corso evolutivo. Ma sono qui già contenute tutte le possibilità di dispiegamento del principio? Non potrebbero darsi ancora ulteriori possibilità future che l’umanità attuale non riesce neppure a sognare? Inoltre: il principio dell’umano ci si è presentato come un principio dell’adattamento esosomatico. Ma si esaurisce, senza re sto, nel servizio dell’adattamento oppure va oltre questa semplice finalità in alcuni suoi effetti, con i quali potrebbe poi giungere a prestazioni maggiori rispetto alla mera «coscienza della propria condotta di vita»? Non si può infatti evitare l’impressione che l’ambito della cultura si estenda ben oltre ciò che pertiene alla mera sfera dell’adattamento. Così nella natura l’essere umano non sta accanto all’animale in maniera omogenea, ma il suo divenire diventa a poco a poco fatale per ogni altra evoluzione. Si può tranquillamente sostenere che tra non molto l’essere umano avrà mutato la terra intera nel suo giardino, nel suo allevamento, nel suo laboratorio chimico-fisico. Anche nell’ambito dell’animo incontriamo fenomeni che risvegliano l’impressione di una «eccedenza»: l’immersione solenne dello spirito nel regno dell’assoluto, l’edificazione religiosa nella morale, l’estasi festosa nell’arte, specialmente nella musica,
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ecc. Ma sulle sole «impressioni» non è possibile costruire nessuna visione del mondo e queste non riusciranno a dissuadere il materialista giurato dalla concezione per la quale anche l’ambito «superiore» dell’umano si lascia spiegare semplicemente a partire dalla «consapevolezza della condotta di vita». Nel sottolineare con forza i compiti «naturali» del principio dell’umano noi stessi siamo giunti molto vicini al moderno «pragmatismo», una dottrina che sostiene l’«utilità» di tutti i valori culturali. Al contempo, mi sembra però rimanere aperta la questione se in alcune prestazioni apicali del culturale non venga superato il raggio d’azione indicato dalla mera utilità e dall’adattamento. Infine il metodo biologistico non è in grado di darci una spiegazione sufficiente per il movimento ascensionale nella scala [Stufengang] degli organismi. Secondo la dottrina evoluzionistica l’evoluzione del mondo organico delle forme spinge a una più ricca varietà della costituzione del corpo e, in particolare, a un incremento della capacità intellettiva. Conosciamo i singoli gradi che portano dalle monadi unicellulari su verso il mammifero altamente differenziato, dai più semplici elementi senzienti ai più complicati meccanismi di coscienza dell’essere umano. Questo carattere «ascensionale» dell’evoluzione, già di per sé problematico, acquisisce ulteriore problematicità se anche l’animale meno organizzato si rivela «perfetto» nella sua specie, cioè nella misura in cui è completamente adatto alle condizioni naturali che lo circondano. Un’organizzazione «più elevata» non implica dunque anche un maggior grado di «perfezione». In altre parole: il movimento ascensionale non ha prodotto nell’evoluzione specie «più perfette», ma semplicemente nuove forme «di un più ricco grado di varietà». Come si deve spiegare la proficua ascesa evolutiva? Notoriamente la scuola darwiniana ha respinto in modo radicale il «principio esplicativo teleologico», generalmente valido in precedenza, il quale si interroga sul fine dei dispositivi organizzativi. Ciò che ci sembra «conforme a un fine», obbietta, sarebbe
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il risultato conforme alla legge della selezione «naturale» che nella lotta per l’esistenza elimina ciò che «non è conforme al fine», lasciando sopravvivere e coltivando ulteriormente in questo modo ciò che invece «è conforme al fine». Al posto del presunto principio finalistico dovrebbe invece subentrare solo e soltanto il principio meccanicista di causa ed effetto, il cosiddetto «principio di causalità». Secondo questo principio, che per ogni stadio successivo in quanto effetto pone una data causa in uno stadio precedente, l’intera evoluzione avrebbe avuto luogo in maniera puramente meccanica, proprio come un orologio. Ora non può più sorgere alcun dubbio sulla generale validità del principio di causalità. Ogni effetto deve avere una causa e così, per coloro che non vogliono credere nell’intervento arbitrario di poteri ultraterreni nel processo evolutivo, lo svolgimento meccanico del processo è saldamente assodato. Nondimeno cerchiamo, inutilmente, una spiegazione per l’essenziale dato di fatto che, all’interno del corso meccanico, sorge qualcosa di nuovo, un tipo «superiore». Se, ad esempio, secondo il principio di causalità riusciamo a farci un’idea di come l’essere umano sia risultato in maniera puramente meccanica dalla scimmia, rimane per noi pur sempre inconcepibile che questi – una creatura nuova e superiore– improvvisamente esista. Proprio l’avanzamento dell’evoluzione resta inesplicato dal principio di causalità. Neppure la scuola darwiniana ha voluto rinunciare a comprendere questa questione e così è ricorsa a un ulteriore principio esplicativo, il caso. L’avanzamento dell’evoluzione accadrebbe dunque in maniera completamente «casuale» poiché «casuale» è la coincidenza delle differenti cause, alla quale segue poi un determinato effetto «necessario». Che si debba obbiettare a questa teoria anche solo che un processo così ampio, come quello dell’evoluzione dell’intero mondo organico, non sia riducibile al semplice caso, è il calcolo delle probabilità a confermarlo. Sarebbero state necessarie milioni e milioni di casualità per condurre l’evoluzione dal primo pro-
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toplasma vivente su fino all’essere umano, una creatura che riesce a rispecchiare nel suo spirito sé e il mondo. Consideriamo per un attimo quella speciale pratica evolutiva che è l’ominazione nella prospettiva della costellazione «casuale». Qui percepiamo ovunque soltanto una necessità stringente, da nessuna parte il caso. L’evoluzione in direzione della scimmia antropomorfa preparò necessariamente l’essere umano con il marcato spostamento delle orbite e la conseguente capacità di vedere in modo stereoscopico, la regressione del «rinocefalo» e la conseguente possibilità favorevole all’ulteriore formazione del prosencefalo, così come con la peculiare idoneità degli arti all’andatura eretta, lo sviluppo della mano prensile e molte altre formazioni proprie. L’essere umano delle origini era già «idealmente» abbozzato nel Metapiteco e, perciò, un suo prodotto necessario. Al contempo, perché insorgesse, era necessaria ancora una specifica condizione che questi soltanto poteva soddisfare: l’accogliere il principio dell’umano. Altrimenti l’intero ceppo del Metapiteco avrebbe dovuto logicamente assumere la forma dell’essere umano, il che non è accaduto, poiché tutti gli altri suoi discendenti sono rimasti scimmie. Ciò che qui, come spiegazione, è stato affermato in merito all’essere umano delle origini non è un «caso particolare», ma un fenomeno che attraversa l’intero processo evolutivo: sono sempre soltanto singole forme ad «avanzare», la maggior parte del ceppo «rimane indietro». Perciò ancor oggi pressoché ogni singolo grado evolutivo originario, a partire dalla monade unicellulare, si presenta in numerose forme. Se dunque l’«avanzare» è sempre da ricollegare a una peculiare condizione soddisfatta solamente da singoli animali, quella che ha finalmente permesso di conoscere il «principio di casualità» deve forse essere stata a sua volta casuale? Io penso che anche questo vada negato con fermezza. Tuttavia non deve esser contestata la possibilità che a un animale capiti «casualmente» di trovarsi in una nuova situazione di vita. Ma
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da una tale variazione improvvisa dell’ambiente può sì insorgere una variazione della specie precedente, ma non certo una nuova specie. Da un animale con le branchie che vive nel fondo del mare non potrà mai discendere un «animale terrestre», se venisse posto improvvisamente sul terreno. Si troverebbe invece inerme ad affrontare la nuova situazione e in essa morirebbe. Altra cosa sarebbe invece per un animale acquatico che vivesse ai «limiti» dell’acqua o in acque basse, facilmente esposte al prosciugamento. Verrebbe spesso in contatto con l’aria in maniera volontaria o involontaria e si adatterebbe gradualmente a stare fuori dall’acqua convertendo adeguatamente il corpo. Allora una «catastrofe» potrebbe dunque effettuare la stabilizzazione o l’accelerazione di un’evoluzione già avviata. Ma anche in quel caso rimarrebbe solamente la spinta esterna; l’autentica condizione di fondo per l’«avanzamento» è sempre nell’animale stesso. Difficilmente si possono ancora far valere fattori «esterni» per il presunto inizio dell’evoluzione organica ascendente, il passaggio decisivo da un essere vivente unicellulare a un organismo pluricellulare e differenziato. Dobbiamo supporre che l’impulso a questo primo «progresso» sia partito dall’animale stesso. Con questo però non deve affatto essere disconosciuta l’importanza degli influssi del mondo esterno. Così, ad esempio, la superficie di pigmento sensibile alla luce degli animali inferiori, che precorre in senso storico-evolutivo l’occhio, è concepibile soltanto come una reazione del tessuto del corpo ai raggi luminosi. Ma anche una «reazione», benché scatenata dall’«esterno», in fondo non è altro che un processo «interiore». Se la condizione fondamentale dell’ulteriore evoluzione va cercata nel corpo stesso, il problema dell’avanzamento dell’evoluzione viene dunque ricondotto al problema originario della sostanza vivente. Sin dall’inizio la vita deve aver contenuto in sé queste potenze dal momento che hanno reso possibile e hanno provocato la successiva costruzione differenziata degli organi-
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smi. Visto dal principio di causalità, l’essere umano dovrebbe essere stato «potenzialmente» abbozzato già nel plasma originario. Ma non lo era affatto «realmente», come invece ci vorrebbero far credere. Tra l’animale primigenio e l’essere umano si frappone invece l’intero grande processo dell’«evoluzione creatrice». Ed è proprio questo momento creativo dell’evoluzione che abita la sostanza vitale a non poter essere colto dal principio di causalità e che dunque il vitalismo moderno legittimamente mette in rilievo rispetto al consueto schema meccanicistico. Sul versante tedesco è stato soprattutto il naturalista e filosofo Hans Driesch a spendersi per il principio «vitalistico» e perciò può essere considerato l’autentico fondatore del «neovitalismo». L’antica concezione vitalistica (accanitamente combattuta) di una peculiare «forza vitale [Lebenskraft]» come forma energetica autonoma, sottratta all’ambito chimico-fisico, non viene più sostenuta dai neovitalisti. I quali suppongono però una peculiare qualità della sostanza vitale, rispetto alla materia inorganica. Evidentemente la vita si fonda su un suo proprio principio dinamico, estraneo alla materia inorganica, che si esprime chiaramente in quelle precipue pratiche essenziali come il metabolismo, la crescita, la rigenerazione, la riproduzione, la trasmissione ereditaria, l’evoluzione, ecc., in breve nella sua tendenza «creatrice», nel suo foggiante impulso al dispiegamento. Tutto ciò che chiamiamo «adattamento» appartiene alla facoltà, qualitativamente unica, di foggiare propria della sostanza vivente. Certamente con la semplice formulazione di un principio morfogenetico [Formbildungsprinzip] vitalistico non viene affatto spiegata la vita nella sua essenzialità. Per lo meno, però, questo racchiude in sé lo specifico rifiuto di considerare sufficiente la spiegazione puramente meccanicistica (chimico-fisica) delle pratiche vitali. La «teoria meccanicistica della vita» può infatti riferirsi sempre soltanto a un aspetto della realtà, al corso meccanico di tutte le pratiche; glissa invece con
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assoluta indifferenza sulla «vitalità» (essenzialmente estranea alla materia inorganica) delle funzioni vitali. Si è obbiettato al neovitalismo di avere semplicemente rivangato il vecchio vitalismo, il quale però sarebbe stato definitivamente abbandonato poiché contravverrebbe tanto al principio causale, ovunque imperante, quanto al principio della «determinazione univoca» di tutto ciò che accade nella natura. Se fosse così, questa posizione sarebbe invero inammissibile per i moderni naturalisti, educati al pensiero meccanicistico. Perché anche la vita, malgrado la sua qualità propria, deve inserirsi nelle generali relazioni naturali, determinate causalmente. Ora, Driesch ha potuto però mostrare, attraverso ottimi esperimenti, che sulle pratiche vitali governa una destinalità a loro propria. Se la struttura embrionale degli organismi, di norma, procede regolarmente da sé attraverso la peculiare produzione di elementi di tessuto predeterminati, in caso di perdita di cellule che svolgono una funzione importante il loro posto nella costruzione viene ricoperto da altre cellule (di per sé predeterminate per altri ruoli strutturali), preservando o ripristinando così comunque la «totalità» dell’organismo. Da questa «potenza prospettica» delle cellule Driesch ha dedotto un carattere «entelechiale» delle pratiche vitali. Con l’espressione «entelechia», coniata da Aristotele e ripresa da Goethe, si caratterizza qualcosa che «porta in sé il proprio fine». Ma allora l’entelechia è forse un principio «antimeccanicistico» che si oppone alla legge causale? Certamente non per chi non si lascia sfuggire che le singole parti degli organismi convergono in una loro unità [Geschlossenheit] che ha in sé la propria ragion d’essere, in una loro «to talità [Ganzheit]». L’organismo vivente non è né un aggregato «addizionabile» di singole cellule, né una «repubblica di cellule [Zellenstaat]», come invece spesso si sente dire, ma è invece un tutto biologico, cresciuto in maniera storico-evolutiva. Le sin-
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gole cellule o aggregati di cellule (organi) non «compongono» dunque l’organismo, ma formano la sua unità naturale, con la quale si spiegano facilmente le reciproche correlazioni e operazioni di sostegno. La struttura chimico-fisica delle pratiche vitali, sinora ben poco conosciuta ma da presupporre come certa, non viene affatto sfiorata dall’entelechia, la quale mira solamente alla totalità di ogni organismo. Se non vogliamo limitare arbitrariamente alla singola creatura e al suo corso evolutivo questa tensione alla totalità che si è mostrata negli esperimenti in laboratorio, allora dobbiamo giungere all’assunzione che la stessa tensione verso la totalità abiti anche il grande processo evolutivo dell’intero mondo organico. Come la singola creatura è sospinta destinalmente, ma per una necessità interna, dalla cellula uovo allo sviluppo maturo della sua forma, così secondo questa assunzione la vita, nella sua ampia totalità altrettanto destinalmente e con altrettanta necessità, dal primo protoplasma, passando per numerosi stadi intermedi, tende verso la creazione dell’essere umano in quanto suo compimento. Solo così diviene comprensibile il fatto che l’essere umano era già stato perfettamente predisposto nell’animale. Credo dunque che il movimento ascensionale nel grande processo evolutivo organico si sia svolto in maniera puramente meccanica, secondo la legge causale, ma che la vita che avanza secondo il proprio destino tenda però al contempo a una forma «superiore», al compimento. Chi eludendo l’assunzione di una «entelechia», come fattore «irrazionale», in questo impulso al dispiegamento creativo e ben diretto della vita vuole vedere una mera «caratteristica», ossia il regolare effetto della «tipica struttura chimico-fisica» della sostanza vivente, sposta solamente l’impianto problematico, senza avvicinarsi minimamente al problema stesso. Del resto, anche in questo caso, con l’«essere diretto» della sostanza vitale, ammetterebbe una componente finalistica (tendente a un fine).
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Nel processo evolutivo il concetto di «superiore» indica, prima di tutto, solamente un «più ricco grado di varietà» e non implica necessariamente un «giudizio di valore». Anche nel regno delle piante l’evoluzione è progredita dal livello «inferiore» a quello «superiore», senza che per questo venissero applicati alle piante criteri «etici». Allo stesso modo, anche una «più elevata» organizzazione animale è priva di carattere «etico», tanto più che, come si è detto, già l’animale di «inferiore» livello possiede una propria «perfezione». L’avanzamento evolutivo come tale non può dunque rappresentare alcun «valore» né nel regno vegetale, né in quello animale. Soltanto la creazione dell’essere umano fa emergere la domanda sul senso del processo evolutivo e ci pone di fronte a un problema «etico». A chi volesse obiettare che non è mai possibile accertare un «senso» nella natura con i mezzi dell’«esperienza», occorre sempre ricordare che la frammentazione dei fenomeni naturali nelle loro unità costitutive ultime, il ricondurre causalmente tutti gli eventi naturali ai «concetti fondamentali» ultimi – certamente un compito e una prestazione inestimabili delle scienze «esatte» – può costituire solamente un aspetto della conoscenza della natura. L’altro aspetto resta la considerazione del tutto che si occupa della «qualità» del tutto andata perduta nell’atto di scomposizione e tenta di ricollegare i singoli fenomeni «secondo il senso». Soltanto quando al calcolo della quantità si aggiunge la determinazione della qualità, la natura può rivelarsi a noi. Chi dunque chiude gli occhi di fronte alle «intensità» dei fenomeni naturali per via del loro carattere «irrazionale» si ferma con il pensiero proprio nel punto più importante per la spiegazione della natura, cioè lì dove si tratta di acquisire una comprensione della forma del tutto, della «struttura ordinata» dei fenomeni. La spiegazione causale inoltre non esaurisce completamente ciò che l’esperienza ci dice del processo evolutivo. «Con l’esperienza» constatiamo che l’evoluzione è indirizzata in maniera «ascensionale»; che il suo avanzamento
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rimane inessenziale per l’animale che in sé è già perfetto nel grado «più basso», mentre è il presupposto necessario per la creazione dell’essere umano; che infine l’essere umano costituisce la splendida conclusione del movimento ascensionale. Se vogliamo mettere sensatamente in relazione questi istruttivi fatti dell’esperienza (dove la relazione appartiene a loro in maniera evidente), possiamo farlo solo assumendo che il processo evolutivo sia indirizzato verso l’essere umano in quanto suo fine. Non può essere compito nostro quello di addentrarci più a fondo nella metafisica dell’essenza umana. L’intento del trattato si limita invece semplicemente a indagare la destinazione dell’essere umano secondo principi fondamentali biologistici [nach biologistischen Grundsätzen]2. Certo dovevano quantomeno essere indicati i confini del biologismo per mantenere lo sguardo aperto sulla profonda problematica della vita. Solamente la trattazione della totalità che porta alla metafisica può rendere giustizia tanto alla struttura «misurabile» quanto alla struttura «ordinata» dei fenomeni naturali e ripristinare, nella pienezza del suo senso, quella relazione tra tutte le cose e tra tutti gli avvenimenti, che non poteva che andare perduta nella frammentazione scientifica. Come qui dunque il naturalista sconfina nella metafisica, così da parte sua il metafisico deve rifarsi alle scienze naturali. I tempi in cui, arbitrariamente, non ci si curava dell’«esperienza» e si creavano «fatti» speculativi a partire da principi puramente astratti sono definitivamente superati, quanto lo è l’epoca del materialismo, durante la quale si pretendeva di far valere solamente la mera esperienza. Esperienza e metafisica devono invece completarsi reciprocamente, 2. È curioso che Alsberg si riferisca qui al suo trattato con l’aggettivo «biologistico [biologistich]», mentre nel titolo e in tutto il resto del lavoro aveva optato per «biologico [biologisch]». Il riduzionismo implicato dall’orizzonte biologistico non sembra infatti appartenere al discorso di Alsberg. [N.d.C.]
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ma in modo che il materiale dell’esperienza costituisca sempre la base per ogni metafisica. In riferimento alla dottrina evoluzionistica ciò significa che i fatti dell’esperienza della vita che avanza non si possono cambiare per farli rientrare forzatamente in un sistema filosofico. Tutto è in primo luogo «divenuto» e l’essere umano è comparso per ultimo tra tutti gli esseri nel piano della natura. Solamente una metafisica che prende le mosse da questi fatti è attuale e può avanzare la pretesa di essere riconosciuta. E il suo tema significativo sarà l’essere umano in quanto «fine dell’evoluzione», in quanto «senso della terra [Sinn der Erde]».
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Capitolo 28
Appendice: L’essere umano può tornare «animale»? L’animale può divenire nuovamente un «essere umano»?
In appendice vengano sottoposte a una breve tematizzazione ancora due domande strettamente connesse al processo dell’umano. Una è la domanda se l’essere umano possa ricadere nell’animalità, l’altra è se l’animale possa mai un giorno divenire un essere umano. A partire dalla prospettiva contenuta nel nostro trattato non si può che rispondere in maniera negativa a entrambe le domande. La destinalità [Schicksalhaf tigkeit] del principio dell’umano è in contrasto con qualsiasi ricaduta dell’umano nell’animale. Il principio evolutivo umano si contrappone a quello dell’animale. In questo modo l’essere umano con la sua forma di vita è finito al polo opposto dell’animale, dal quale non si dà più alcun ritorno. Nonostante il carattere esosomatico del principio dell’umano, il retroeffetto sul corpo umano è stato infatti talmente elevato che questo, a seguito della sua forte specializzazione, è diventato completamente inadatto al principio evolutivo animale. Certamente l’evoluzione umana all’interno del principio dell’umano può farsi involutiva in modo tale che l’essere umano retroceda a stati evolutivi precedenti, già superati. Ma questo non sarebbe affatto un «animalizzarsi», una ricaduta nel principio evolutivo animale. L’essere umano ricadrebbe soltanto in stati uma-
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ni precedenti, dai quali il principio dell’umano non potrebbe allora che subito ripartire per elevarsi nuovamente. Ebbene la medesima questione è stata sollevata dal punto di vista della «degenerazione». Attribuendo al processo culturale un effetto degenerativo si è evocato per l’umanità un «ritorno alla natura». Ma qui si è caduti nell’errore di estendere all’intero processo culturale singoli fenomeni degenerativi, che senza dubbio devono invece essere imputati a una cultura ancora immatura, al posto di accogliere il processo e combatterne solamente le degenerazioni. Un «ritorno alla natura», dal momento che qui «natura» deve essere intesa come l’opposto di «cultura», non può significare altro che un «ritorno all’animale». La cultura è il principio dell’umano che si affaccia alla vita. Chi dunque vuole sottrarre all’essere umano la sua cultura attacca in verità la sua appartenenza all’ambito dell’umano. Ci sono state persone che hanno preso alla lettera questo «ritorno alla natura» e si sono ritirate in una qualche isola sperduta nel mezzo dell’oceano. Questo ritirarsi dalla vita civilizzata non ha nulla a che vedere con un vero soddisfacimento dell’ambito dell’umano. Poggia invece su un’errata deduzione logica, in conseguenza della quale la vita civilizzata viene valutata come una vita «anormale», mentre la vita semicivilizzata dei popoli selvaggi come uno stato «normale» e desiderabile. Una logica migliore è quella di fronteggiare energicamente gli eccessi del processo culturale e di conservare il benessere del corpo e dello spirito. Come è già stato accennato, questa esigenza rientra perfettamente all’interno della cornice del principio dell’umano. Sono dunque certamente sulla giusta strada i riformisti moderni, i biologi e gli sportivi quando parlano di uno stile di vita «naturale» e del prendersi cura della salute. L’altra domanda, se per l’animale sarebbe nuovamente possibile il passo verso l’essere umano, poteva sorgere solamente nell’epoca della dottrina della discendenza [Deszendenzlehre]. Occorre rispondere negativamente perché, per un verso, la di-
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stanza tra l’essere umano e l’animale è diventata troppo grande, per l’altro le specie di scimmie in questione sono troppo specializzate. Si è dunque giocato con l’ipotesi se non fosse forse possibile creare nuovi esseri umani per via artificiale. Infatti se si riuscisse ad addomesticare le scimmie antropomorfe e a educarle per una lunga serie di generazioni, si dovrebbe certo riuscire ad addestrarle come serve e domestiche che portino legna e acqua in cucina, girino gli spiedi, sistemino le sedie, portino in tavola le pietanze e, quando le si chiama, accorrano con il piatto per ricevere il loro pasto. Ma anche qui potrebbe trattarsi sempre di animali addestrati e mai di esseri umani. Ma che cosa accadrebbe, ammesso che sia possibile, se si riuscisse a ottenere un’ibridazione tra l’essere umano e le scimmie antropomorfe, come propone Rohleder? Anche in quel caso il problema dell’umano non ne guadagnerebbe nulla se non, probabilmente, la migliore dimostrazione possibile della parentela di sangue tra i due. Perché – ammesso che ciò riuscisse per via della stretta parentela filetica tra essere umano e scimmia – ciò che uscirebbe da un tale esperimento non sarebbe altro che un essere deforme contro natura, al quale necessariamente mancherebbe la legittimazione della sua esistenza. Qui risulta chiaro dove si giunge se si prova a trovare risposta alle questioni sollevate senza partire da posizioni di principio. Non è possibile mettere in comunicazione l’uno con l’altro il principio evolutivo animale e quello umano, neppure attraverso innesti forzati di singoli caratteri sulla strada dell’ibridazione. Una seconda ominazione sarebbe possibile solamente imboccando la stessa strada percorsa con successo dalla prima. Questa strada però è già sbarrata da lungo tempo. Poiché per il procedimento dell’ominazione è stato decisivo il passaggio dal principio della fuga alla particolare forma (umana) del principio del combattimento, per una nuova ominazione potrebbe venir preso in considerazione solamente lo scimpanzé, il quale però a causa dell’elevata specializzazione raggiunta nel frattempo
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all’interno del principio evolutivo animale non è più adatto a questo scopo. Soltanto nel caso in cui da qualche parte dovesse ancora vivere una specie di scimmia sconosciuta che avesse conservato la sua originarietà, lo stadio del Metapiteco, una nuova ominazione sarebbe teoricamente possibile. Nei fatti però non potrebbe mai aver luogo. La sua evoluzione verrebbe prematuramente impedita dalla supremazia dell’attuale essere umano civilizzato, dal quale le stesse razze umane meno evolute d’oggi a lungo andare non riescono a preservarsi. Siamo così di fronte al fatto innegabile che il procedimento dell’ominazione non si ripeterà più. Di questo fatto nella sua unicità e singolarità l’umanità dovrebbe essere sempre consapevole, non accontentandosi di questa mera constatazione, ma traendone le necessarie conseguenze. La massima del poeta greco Pindaro «diventa ciò che sei!» acquista oggi un nuovo significato, se siamo in grado di cogliere il processo dell’umano in maniera storico-evolutiva. Siamo esseri umani, ma ancora incompiuti nel nostro cammino in divenire. A questa compiutezza destinale dobbiamo tendere con tutte le nostre forze per realizzare ciò che balena all’orizzonte, la nostra destinazione sulla terra.
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Indice dei nomi
Alsberg P. 9-11 e n., 12-15, 15 e n., 16, 17, 18 e n., 19, 20, 2127 e n., 33 n., 35, 39 n., 58 n., 59 n., 63 n., 67 n., 80 n., 83 n., 87 n., 92 n., 136 n., 139 n., 144 n., 145 n., 149 n., 150 n., 164 n., 178 n., 181 n., 185 n., 187 n., 238 n., 251 n., 272 n., 283 n., 294 n. Adloff P. 178 e n. Aristotele 291. Bergson H. 87 e n. Blumenberg H. 14 e n., 25, 26 e n. Bolzano B. 113 n. Bonaiuti G. 27 n. Borsari A. 25 n. Brehm A. 151. Broom R. 247, 249, 250. Buckle Th. 275. Calligaris A. 26 n. Carus J.V. 63 n.
Cattaneo G. 85 n. Claessens D. 10 n., 19, 25 e n., 26 e n. Colli G. 20 n. Comte A. 272. Cremaschi S. 23 n. Crosara S. 26 n. Cusinato G. 27 n. Cuvier G. 47 e n., 238. Dacqué E. 261. Dart R. 246, 247, 249, 250. Darwin Ch. 39, 43, 53, 67, 69, 77, 144, 152, 178 e n., 179, 183, 184, 193, 196, 197, 231, 235, 260, 272, 273. Dalmasso G. 18 n. Derrida J. 18 n. Descartes R. 58. Di Martino C. 15 n. Driesch H. 67, 290, 291. Dubois E. 48 e n., 238, 246. Du Bois-Reymond E. 11 e n.
304 Eucken R.Ch. 57, 58 n. Fadini U. 23 n. Ferrarotti F. 86 n. Freud S. 21. Frauenstädt J. 155 n. Friedrich E. 86, 87 e n. Frings M.S. 21 n. Garner R.L. 136, 141. Gehlen A. 22, 23-24 e n., 25 n. Geiger L. 117 e n., 137. Giacobini G. 63 n. Giametta S. 155 n. Giordano Bruno 123. Goethe J.W. 291. Gonnelli F. 272 n. Graeser K. 149 e n. Grimm Th. 23 n. Gruevska J. 23 n. Gualandi A. 15 n. Gurisatti G. 283 n. Haeckel E. 11 n., 43, 50, 59 e n., 67 e n., 69, 186, 198. Harich W. 15 n., 23 e n. von Hartmann E. 150 e n. Heidegger M. 28 n. Herlitzka A. 11 n., 68 n. Huxley Th. 43, 63 e n. Kant I. 123, 124, 271, 272 n., 277. Kapp E. 85, 88 e n. Keith A. 239, 247, 248, 250. Keyserling H. 20, 283 e n. Klaatsch H. 186, 187, 199, 204, 216, 218, 231, 239, 251, 260 e n., 261.
Kleinschmidt O. 41 n. Koehler W. 145. Kollmann J. 26 n., 236. Kraemer H. 260 n. Kraepelin K. 150 e n. Lamarck J.-B. 34, 39, 42, 43, 45, 46, 47, 175, 183, 184, 260. Leroi-Gourhan A. 16. Lessing H.-U. 23 n. Liggieri K. 23 n. Linné C. 42, 175. Lombardi-Vallauri E. 23 n. Lucrezio 235. Lukács G. 15 n. Mach E. 117 e n., 138, 149. Mainoldi C. 23 n. Mancuso G. 21 n. Marino M. 25 n. Masi G. 28 n. Mayr E. 41 n. McLuhan M. 26 n. Metschnikoff E. 80 e n., 180. Montinari M. 20 n. Mueller-Lyer F. 278. Nietzsche F. 20 n., 273. Noiré L. 139. Nuttal G. 229. Oklay K. 251 n. Ortega y Gasset J. 24. Osborn H.F. 187 e n., 239, 240. Padellaro R. 21 n. Pansera M.T. 21 n., 24 n. Penck A. 240.
305 Pindaro 300. Platone 277. Plessner H. 22, 23 n. Polidori F. 87 n. Rasini V. 23 n. Rehberg K.-S. 15 n., 23 e n. Rickert H. 284. Rohleder H. 299. Romanes G.J. 144 e n., 145, 164 e n. Rosa D. 59 n. Rötting H. 10 n. Rötting I. 10 n. Sacchi M. 85 n. Scheler M. 21 e n., 22, 24, 25. Schopenhauer A. 21-22 e n., 108, 115, 155 e n., 274, 284. Schwalbe G. 179, 195, 236, 251 e n. Scoccianti G. 144 n. Scopes J.Th. 62 n. Selenka E. 192, 199, 206. Sloterdijk P. 26-27 e n. Socrate 123. Sombart W. 24. Spencer H. 43, 85 e n., 86, 88 e n., 157, 272, 273. Steinmann G. 180, 181 e n., 221. Tugnoli C. 145 n. Vattimo G. 28 n. Verworn M. 180. Ward J. 139 e n. Weinert H. 229.
Werth E. 238 n. Wundt W. 135, 136 n., 144, 145 n.
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Glossario
adeguato: tüchtig, inadeguato: untüchtig ambito dell’umano: Menschentum analogia: Gleichartigkeit arretramento: Rückgang atrofizzazione: Verkümmerung avvedutezza: Besonnenheit azionamento: Bedienung capacità: Fähigkeit capacità intellettiva: Intellekt caratteristica: Eigenschaft carenza: Mangel/Ermangelung cenozoico: Tertiär, Tertiärzeit ceppo: Stamm compensazione: Ausgleich compiutezza: Vollendung configurazione: Gestaltung, migliore configurazione: Ausgestaltung, riconfigurazione: Umgestaltung conio: Gepräge corpo: Körper, Leib (dove segnalato) corporeo: körperlich, leiblich (dove segnalato) costituzione del corpo: Körperbau costrizione: Zwang
308 desiderio: Begehren destinazione: Bestimmung destino: Schicksal, destinale: schicksalhaft determinazione: Bestimmung differenza: Unterschied discendenza: Abstammung dispiegamento: Entfaltung dispositivo: Einrichtung diversità: Verschiedenheit effige: Formprägung esosomatico: außerkörperlich essere umano delle origini: Urmensch estrarre: herausgreifen evoluzione: Entwicklung facoltà: Vermögen filogeneticamente: stammgeschichtlich figura: Bild foggia: Formgebung forma filetica: Stammform formare: bilden, formazione: Bildung habitat: Aufenthaltsbereich/Aufenthaltsort incremento: Steigerung insorgere: Entstehung intelletto: Verstand intelligenza: Intelligenz meccanismo: Verrichtung metamorfosi: Formveränderung mutamento: Veränderung nesso analogico: Analogie operazione: Vorrichtung origine: Ursprung
309 paleozoico: Primär, Primärzeit parentela filetica: Stammverwandtschaft/Stammesverwandtschaft peculiare: sonder/besonder perfezionamento: Vervollkommnung, perfetto/perfettamente: voll kommen pleistocene: Diluvium posizione peculiare: Sonderstellung pratica: Vorgang precipuo: eigentümlich prestazione: Leistung, performatività: Leistungsfähigkeit progresso: Fortschritt, progredire: fortschreiten proprietà: Eigentümlichkeit provenienza: Herkunft pulsione: Trieb regno di tutti gli esseri umani: Allmenschentum regno compiuto dell’umano: Vollmenschentum regressione: Rückbildung regresso: Rückschritt, regressivo: rückschrittlich retroeffetto: Rückwirkung selezione: Auslese segno distintivo: Merkmal sensazione: Empfindung separare: absondern simil-umano: menschenähnlich singolare: eigenartig straordinario: außergewöhnlich strumento: Werkzeug superiorità: Überlegenheit sviluppo: Ausbildung trasformazione: Umbildung trasmissione ereditaria: Vererbung umanità: Menschheit, Menschlichkeit umano: Menschheit unico: einzigartig
310 uso: Gebrauch utilizzo: Benützung vissuto: Erlebnis
Indice
Paul Alsberg o l’altra faccia dell’antropologia filosofica Saggio introduttivo di Elena Nardelli
p. 9
L’enigma dell’umano Per una soluzione biologica
Prefazione dell’autore alla seconda edizione
p. 33
Parte Prima La disputa sull’essere umano Capitolo 1 La disputa sulla dottrina evoluzionistica
p. 39
Capitolo 2 La discendenza dell’essere umano
p. 47
Capitolo 3 La disputa per la corretta visione del mondo
p. 53
Capitolo 4 Il problema dell’umano: un problema insoluto
p. 61
Capitolo 5 Il nuovo percorso della ricerca
p. 71
Parte Seconda Il principio evolutivo dell’essere umano Capitolo 6 Enunciazione del principio
p. 77
Capitolo 7 Fondazione del principio
p. 85
Capitolo 8 La tecnica dell’essere umano
p. 95
Capitolo 9 Il linguaggio dell’essere umano
p. 99
Capitolo 10 La ragione dell’essere umano
p. 107
Capitolo 11 Scienza, morale ed estetica
p. 121
Capitolo 12 L’utilizzo animale degli strumenti
p. 127
Capitolo 13 La fonazione animale
p. 135
Capitolo 14 La capacità intellettiva animale
p. 143
Capitolo 15 Ricapitolazione
p. 153
Parte Terza L’ominazione Capitolo 16 Teoria e realtà
p. 173
Capitolo 17 Metapiteco, l’ipotetica forma dell’antenato comune
p. 183
Capitolo 18 Metapiteco, una «scimmia da fuga» con una «formazione del cranio simil-umana»
p. 189
Capitolo 19 Metapiteco, una scimmia che abita le rocce
p. 195
Capitolo 20 I percorsi evolutivi delle scimmie antropomorfe
p. 201
Capitolo 21 L’organizzazione del corpo del Metapiteco
p. 209
Capitolo 22 L’ominazione
p. 217
Capitolo 23 La teoria del Metapiteco
p. 227
Capitolo 24 La successione evolutiva dell’umano
p. 241
Parte Quarta La destinazione naturale dell’essere umano Capitolo 25 La posizione dell’essere umano nella natura
p. 259
Capitolo 26 La destinazione «naturale» dell’essere umano
p. 271
Capitolo 27 L’essere umano in quanto «senso della terra»
p. 283
Capitolo 28 Appendice: L’essere umano può tornare «animale»? L’animale può divenire nuovamente un «essere umano»?
p. 297
Indice dei nomi
p. 303
Glossario
p. 307
Anthropos Collana diretta da Carmine Di Martino
1. Carmine Di Martino (a cura di), I diritti umani e il “pro prio” dell’uomo nell’età globale. Diritto Etica Politica. 2. Paul Alsberg, L’enigma dell’umano. Per una soluzione biologica.
Anthropos | 2 Collana diretta da Carmine Di Martino
A partire da un’interpretazione eterodossa dell’evoluzionismo, Paul Alsberg avanza nel 1922 una originale proposta che, per quanto spesso fraintesa e misconosciuta, risulta cruciale per il pensiero antropologico tedesco: la differenza tra esseri umani e animali è per Alsberg di tipo essenziale e non di grado, poiché la loro evoluzione poggia su due principi diversi, anzi opposti. Se l’animale perfeziona il corpo, secondo il principio dell’adattamento, l’essere umano al contrario se ne libera grazie all’utilizzo di strumenti esosomatici (tra i quali rientrano anche la parola e i concetti), secondo il principio della disattivazione del corpo (Körperausschaltung). L’essere umano non è affatto un essere originariamente carente e la conformazione del suo corpo è invece, di volta in volta, il risultato di un graduale processo di disattivazione. L’opera fornisce così una spiegazione bio-culturale dell’ominazione in cui la natura umana si rivela essenzialmente tecnica, collocandosi al di qua dell’opposizione classica tra natura e cultura. L’edizione proposta è la seconda, pubblicata nel 1937, in una versione ridotta dall'autore stesso, a vantaggio di una maggiore coerenza speculativa e di una più incisiva formulazione di tesi e principi.
ISBN ebook 9788855290708
€ 13,00