Le imperdonabili. Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo 8857513912, 9788857513911

Il libro è dedicato a cinque grandi figure femminili del '900, che hanno scelto la poesia e la scrittura come mezzo

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Italian Pages 183 [186] Year 2013

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Le imperdonabili. Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo
 8857513912, 9788857513911

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GLI IMPERDONABILI

L’Antigone di Sofocle e forse anche l’Antigone moderna si identificano in questo: escono dalla folla silenziosa e spaventata, si mettono da parte e, stando così isolate, oltre le schiere, diventano personaggi straordinari. Escono dalla linea dritta della fila per parlare e agire contro quello che considerano il malo-ordine K. Kosik

Collana diretta da Laura Boella N. 1

COMITATO SCIENTIFICO

Elio Franzini (Università di Milano), Amedeo Vigorelli (Università di Milano), Francesco Tava (Università di Milano), Gabriella Fusi, James R. Mensch (Saint Francis Xavier University, Canada), Karel Novotny (Università Carlo, Praga)

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LAURA BOELLA

LE IMPERDONABILI Milena Jesenská Etty Hillesum Marina Cvetaeva Ingeborg Bachmann Cristina Campo Nuova edizione ampliata

MIMESIS Gli Imperdonabili

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© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Gli Imperdonabili n. 1 Isbn 9788857513911 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

IN CAMPO APERTO Le imperdonabili La non-contemporaneità al presente Scrivere sempre MILENA JESENSKÁ 1896-1944 L̓imperdonabile Milena Jesenská La vita in presa diretta Il coraggio di stare fermi

p.

9 18 28 32 37 41 48 57

ETTY HILLESUM 1914-1943 Passività Compassione e immaginazione Perdonare Dio

71 74 83 100

MARINA CVETAEVA 1892-1941 Lʼimperdonabile Marina Cvetaeva Contemporaneità non contemporanea

107 107 115

INGEBORG BACHMANN 1926-1973 L’esperienza, unica maestra L’imperdonabile Segreto epistolare

127 127 140 148

CRISTINA CAMPO 1923-1977 L’imperdonabile Cristina Campo La percezione sottile Il libro delle amiche

159 159 171 178

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Accade qualcosa: “Non ho mai dubitato che ci dovesse essere qualcuno come Lei, ma ora Lei c’è realmente, e la mia gioia straordinaria per questo durerà sempre”. Lettera di Ingeborg Bachmann a Hannah Arendt, 16 agosto 1962

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IN CAMPO APERTO

I cuori pensanti sono anche imperdonabili. Etty Hillesum, Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva hanno spesso suggerito le parole o hanno spinto oltre, rendendola più radicale e ardente, la mia lettura di Hannah Arendt, di Simone Weil, di Edith Stein, di Maria Zambrano. C’è una relazione a cui non si può sfuggire tra le pensatrici, le scrittrici, le poete, le mistiche. Oggi questo può apparire un luogo comune, figlio della contaminazione e dell’incertezza dei confini tra filosofia, poesia, esperienza spirituale. In realtà, ogni ricerca appassionata della parola, ogni gusto per la scrittura e per il pensiero, ogni attenzione per lo sforzo di comprensione di ciò che accade crea comunicazione, scambio, dà forma a un universo di corrispondenze, di affinità, di contatti, in cui circolano liberamente differenze, divergenze, cose nuove, incomparabili, ogni volta uniche. Ciò che a volte manca è la volontà, o il coraggio, di superare lo scarto segreto – che si protegge come un piccolo tesoro personale – tra l’oggetto di studio o di ricerca che ci definisce professionalmente, e ciò che lo ispira. Accade che teniamo per noi ciò che ci ispira, pagando anche, con l’impersonalità e il distacco, il prezzo di lasciarlo nell’ombra. Le ragioni non mancano: diamo retta allo specialismo, che invita a non invadere i confini di territori in cui non ci sentiamo autorizzate a parlare, oppure, andando più in profondità, preferiamo non dare un nome a ciò che cerchiamo. Infine, gli amori segreti intimano il silenzio. Ritornerà spesso in queste pagine la domanda: come è stato possibile? Essa riassume la consapevolezza infine raggiunta che quella segreta ispirazione ha dato legittimità al mio sentire, e forse definitiva sproporzione, tremore alla mia identità. Dopo anni in cui letture private e spazi pubblici non gravati dalla misura istituzionale, come i seminari, hanno accolto con un certo riserbo il mio amore per Etty Hillesum, Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, credo di poter infine dar conto dell’universo di significati e di esperienze

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Le Imperdonabili

che si è creato in me, leggendole, interpretandole, scrutando le loro esistenze. Gratitudine e abbandono mi hanno permesso di intraprendere questa via di conoscenza nella forma di una partecipazione, di un’attrazione, o più semplicemente, di un credere intensamente a qualcosa di non familiare, perché imprevisto e fuori dell’ordine.

Così scrivevo nell’introduzione alla prima edizione di questo libro, pubblicato nel 2000 presso l’editore Tre Lune di Mantova. “I cuori pensanti sono anche imperdonabili” perché Le imperdonabili seguiva Cuori pensanti, dedicato a Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano, Edith Stein, uscito sempre da Tre Lune nel 1998. I due libri avevano avuto una storia simile, essendo nati, il primo da un ciclo di lezioni organizzate, nel 1997-1998, dalla sindaca del Comune di Asola, Gisella Perini, nell’ambito dell’iniziativa Fuori casa1, il secondo da un successivo ciclo, ideato nel 1999 da Annarosa Buttarelli per la Scuola di Cultura Contemporanea di Mantova.2 Due piccoli libri, impaginati con eleganza, rappresentavano per me l’esperimento di una nuova forma di scrittura filosofica, in cui era maturato il frutto di un decennio che aveva segnato una svolta profonda nel mio rapporto con la filosofia. Parlare delle filosofe aveva un collegamento diretto con i miei studi e con i corsi universitari, che si erano rivolti alla “tradizione nascosta” del pensiero femminile del ‘900 nell’anno della pubblicazione in italiano di La vita della mente (1987) di Hannah Arendt e, in rapida successione, erano stati dedicati a Simone Weil, a Maria Zambrano e a Edith Stein. Le lezioni di Asola non furono solo un’occasione per far uscire di casa dopo cena gli abitanti di un piccolo centro del mantovano, ma significarono anche aprire una porta e guardare fuori verso altri modi di essere. Le pensatrici non erano semplicemente riunite in una galleria di ritratti, ma venivano

1 2

Sempre a Asola, per iniziativa di Gisella Perini, nel 1999 tenni quattro lezioni sull’etica, dedicate a: Le virtù, La responsabilità, Il giudizio, Dire la verità. Presso la Scuola di Cultura Contemporanea curata da A. Buttarelli, avevo tenuto un ciclo di lezioni nel 1993. Vedi L. Boella, Le parole-chiave della politica, Mantova 1993.

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In campo aperto

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presentate le loro esperienze di pensiero, che traevano alimento dalla politica, dall’amicizia, dalla fede, dalla poesia, dall’amore. L’onda di rifrazione del pensiero femminile si era ampiamente propagata negli anni ’90, grazie all’impulso proveniente dagli scritti di Luisa Muraro, dall’attività della Libreria delle donne di Milano e della Comunità filosofica di Diotima di Verona. Dalla fine degli anni ’80, avevo partecipato ad alcuni incontri della Libreria delle Donne di Milano,3 a due “grandi seminari” di Diotima a Verona,4 agli “esercizi spirituali per donne guerriere” di Angela Putino (1992-1993-1994), alle iniziative dell’Università delle donne “Simone de Beauvoir” di Brescia, invitata da Delfina Lusiardi.5 Divenni amica della “politica delle donne” per la via dell’amicizia con Chiara Zamboni, con Angela Putino, con Annarosa Buttarelli, con Delfina Lusiardi. E l’amicizia produsse altre amiche, Laura Balestrini, Marina Salacrist e Anna Fistolera, Bruna Colombo, Mia Mendini, Shara Ponti, Francesca De Vecchi, che parteciparono a iniziative che accompagnavano il mio insegnamento universitario. Nel corso degli anni ‘90 avevo infatti preso l’abitudine di organizzare seminari che si svolgevano nella sede dell’Università con la partecipazione di studenti, di laureande e di laureandi, e di chi fosse interessato. Frequentarono i seminari alcune insegnanti della scuola materna, della media e del liceo, giovani laureati che desideravano continuare a fare filosofia, e infine alcune donne impiegate nella scuola e attive in gruppi femministi. 3

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5

Vedi Ipazia (a cura di), Quattro giovedì e un venerdì per la filosofia, Milano 1988, con contributi di L. Boella, L. Conti, A. Putino, W. Tommasi, C. Zamboni, commentati da A. Alioli, L. Balestrini, V. Cosentino, C. Jordan, L. Muraro, D. Sartori. Il 13 ottobre 1995 feci un intervento al seminario “Essere del nostro tempo” dal titolo: “La non contemporaneità”. Il 12 febbraio 1999 trattai con Luisa Muraro il tema L̓“altra” nell̓ambito del seminario “C’è altro”. Vedi D. Lusiardi (a cura di), Parlare di Hannah Arendt. Due conversazioni di Laura Boella, Brescia 1991. La collaborazione con Delfina Lusiardi e l’Università delle donne di Brescia fu ricca e costante per tutti gli anni ’90. Cito solo le iniziative in cui presi la parola: ”L’amicizia politica” (1993), “Leggere scrivere” (1994), “Verso un sapere del sentire” (2000).

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Le Imperdonabili

Il primo seminario (1986-87) fu dedicato a Jankélévitch, Lévinas e Ricoeur.6 Nel 1989 si lavorò sulle “radici in aria di Rahel (Varnhagen)”, ossia sullo scritto giovanile di Hannah Arendt appena tradotto in italiano.7 Ciò che mi spingeva ogni anno a proseguire il corso con un seminario era, prima di tutto, il desiderio di creare un luogo in cui chi mi seguiva e mi conosceva potesse incontrarsi, avere un’occasione di scambio di idee, e insieme di offrire agli studenti la possibilità di fare esperienza della filosofia vivente. Il fatto che i seminari si tenessero nella sede del Dipartimento di Filosofia in cui insegnavo impegnava anche chi non aveva vincoli istituzionali con l’Università a tener conto del luogo che li rendeva possibili, e a viverlo come un contesto in cui lavorare con serietà, prendendo posizione sul posto che la filosofia occupava nella vita, sulle energie che ciascuno era disposto a dedicarle. In cambio, ne riceveva la possibilità di approfondire alcune letture, di pubblicare riflessioni o anche prime prove di scrittura. Si producevano così spostamenti, dai testi scritti alla voce e al volto, alle parole di chi si era impegnato nello studio e nella trasmissione del pensiero dell’una o dell’altra filosofa. La filosofia “prendeva bene”8 perché era viva, era fatta spesso di scoperte. Nel 1990 un seminario fu dedicato a leggere il testo, tradotto da una neolaureata, Eliana Nobili, di “La tomba di Antigone” di Maria Zambrano, ancora inedito in italiano. Poco dopo la morte della filosofa, la ascoltammo parlare e la vedemmo fumare in una video-intervista, quindi fu invitato a presentare gli scritti di Zambrano il curatore delle sue prime edizioni italiane, Franco Ferrucci. Lo stesso sarebbe avvenuto nel 1992 con Gabriella Fiori, che venne a parlare del suo libro su Simone Weil.

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Vedi L. Boella (a cura di), Seminario. Letture e discussioni intorno a Lévinas, Jankélévitch, Ricoeur, UNICOPLI, Milano 1988, con contributi di G. Berto, P. Cainarca, V. Costa, P. Ferri, E. Franzini, A. Guetta, C. Migliaccio, P. Necchi, L. Palazzetti, M. Peroggi, C. Rolfini. Vedi L. Boella (a cura di), Seminario. Le radici in aria di Rahel, CUEM, Milano 1989, che contiene scritti di L. Balestrini, F. Mariani Zini, P. Conca, A. Fistolera, M. Gualzetti, M. Salacrist, N. Salacrist. Uso l’espressione di Anna Fistolera, in una lettera scritta alle amiche di Sondrio nel febbraio 1989, di cui mi è stata data gentilmente una copia.

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In campo aperto

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Nel tempo divenne sempre più difficile propormi nei seminari solo come studiosa che offre un sapere maturo e strutturato. Non rinunciavo a farlo, certo, ma volevo adottare un’altra prospettiva, che si tradusse nella scelta di temi e di autori che aiutassero a legare il fare filosofia con l’onestà intellettuale, con l’apertura mentale, con la ricerca di un nuovo linguaggio, e anche con il mettersi in gioco in prima persona. Iniziò così la lettura di testi letterari e di epistolari (i due volumi delle lettere di Marina Cvetaeva, Malina di Ingeborg Bachmann). Nel 1993 invitai Fleur Jaeggy a tenere in Statale alcuni “monologhi erratici” sulla sua amica Ingeborg.9 Diventò sempre più importante la libertà di far circolare tra pensatori, pensatrici, poeti e registi le domande che nascevano dentro e fuori di noi: Blumenberg, Lévinas, Derrida e Deleuze venivano letti o riletti in risonanza con le pagine di Brodskij su Marina Cvetaeva o con i film di Kieslowski, Simone Weil con Cristina Campo,10 Etty Hillesum con Rilke, Christa Wolf era nell’aria.11 Un universo di corrispondenze, non solo epistolari e amorose, di intrecci che alimentavano relazioni, di cui ognuno poteva fare quello che voleva: semplicemente goderle, assaporarle, oppure trarne ispirazione, orientamento sul come vivere, come agire. La presenza attiva di giovani donne e di altre che avevano già una collocazione professionale, venivano da Sondrio, da Verona, da Brescia e da Milano, e vivevano l’esperienza del femminismo 9

Fleur Jaeggy parlò di Ingeborg Bachmann, io lessi alcune pagine di Malina e un brano di Walter Benjamin. Ascoltammo anche la registrazione di alcune poesie lette dalla Bachmann medesima. Alla conferenza in Statale è collegabile F. Jaeggy, “Reise am Meer”, in Du, 9, 1994, pp. 63-4. Nel 2005, in collegamento con il corso di quell’anno, dedicato a “Filosofia e vita”, Fleur Jaeggy accettò il mio invito a tenere quattro lezioni sul tema: “La vita che accade”. 10 Nel marzo del 2001 Margherita Pieracci e Gianfranco Draghi accolsero il mio invito a venire a parlare in Statale con la loro viva voce dell’amica. 11 Vedi L. Boella, Fare filosofia. Seminario, CUEM, Milano 1997, che raccoglie i contributi al seminario svoltosi nel 1996 di G. Berto, S. Chinelli, B. Colombo, F. De Vecchi, P. Ferraris, L. Fisauli, D. Lusiardi, S. Ravasio. Il seminario fu dedicato idealmente a Gilles Deleuze, Hans Blumenberg, Kristof Kieslowski, Emanuel Lévinas, scomparsi tra il ’95 e il ’96.

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Le Imperdonabili

nella forma della ricerca di un luogo di pensiero e di scambio, fu fondamentale nel creare la possibilità, allora, di una comunicazione tra “dentro” e “fuori” l’Università. Il suo significato era strettamente connesso alla capacità del pensiero femminile di irradiarsi in direzioni impreviste, di abbandonare i binari morti e di avventurarsi in campo aperto. L’idea di filosofia che per me riassume quel decennio impegnava le inquietudini della mente e del cuore, più che gli oggetti culturali e filosofici, e metteva al centro la questione dell’agire e del vivere, la loro imprevedibilità, i loro rischi e i loro miracoli, e insieme il ruolo del soggetto, la sua innocenza, indifferenza, responsabilità. Con le parole di Ingeborg Bachmann: “La nostra parte di coinvolgimento nell’errore è sicura, ma dove ha inizio il coinvolgimento che ci lega a una verità nuova?”12 Oggi, l’Università è diventata un luogo di “servizio”, in cui si fanno molte ore di didattica e si adempie a molteplici”compiti istituzionali”. Tutto ciò che viene restituito al buon funzionamento dell’istituzione e alla formazione degli studenti viene però tolto a chi sta fuori, perché non corrisponde per età e professione alla figura dello studente. Non è che io non esca più dall’Università, andando a parlare nelle scuole o in iniziative organizzate da enti locali o da associazioni, ma è ormai difficile immaginare uno spazio come i seminari degli anni ’90, che accolga “dentro” l’Università giovani che non si definiscono solo come studenti, ma anche come chi cerca di elaborare e di sperimentare la propria idea di che cosa sia “fare filosofia”, o persone che hanno già una formazione alle spalle, un posto nel mondo del lavoro e, come accade in particolare per le donne, nutrono il desiderio di esplorare, leggendo, parlando, pensando, quel “resto” che non viene assorbito dalle occupazioni quotidiane. Il fatto che in Statale a Milano potesse avvenire qualcosa che traeva ispirazione dai “grandi seminari” di Diotima a Verona o dalle iniziative dell’Università delle donne di Brescia, dice che la forza dell’esempio di attività a loro modo uniche sta anche nella capacità di propagarsi in maniera libera e fuori dai recinti. 12 I. Bachmann, “Sulle poesie”, in Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, tr. it. a cura di R. Colorni, Adelphi, Milano 1993, p. 45.

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Tornare a Le imperdonabili non significa però rievocare un tempo ormai finito. Quella che per me fu una scoperta, un ampliamento e un sommovimento della mia esperienza di filosofa, ha messo solide radici, nutrendosi di un terreno che ho sempre più difficoltà a chiamare con un nome unico e inglobante,“filosofia”, mentre mi viene più spontaneo usare molti nomi: coraggio di pensare e di agire, responsabilità per l’altro, immaginazione morale, sforzo, scarto, dire di no, amicizia, amore, pazienza. Questi nomi appartengono a un vocabolario che ha molto a che vedere con la vita vissuta e ispirata da movimenti del corpo e della mente, da azioni e da passioni, dal senso del bene, del vero e del bello, e esprimono la necessità di sottrarsi al servilismo e al potere, di entrare in sintonia con un ideale, un desiderio, una speranza. Soprattutto intimano di rifiutare un discorso generale, d’orizzonte, e spingono a un’ostinata ricerca di figure, parole, esperienze, pensieri che scuotano la banalità, l’automatismo, la subalternità dominanti sulla scena dell’economia, della politica e della storia del nostro tempo. Un distacco dalla filosofia era sicuramente implicito nel bisogno di invenzione teorica, di una nuova creatività di pensiero che aveva animato l’incontro tra filosofia e pubblico femminile, avvenuto all’insegna della scoperta delle grandi pensatrici del ‘900. Meno scontata, forse, la rinuncia, per quanto mi riguarda sempre più consapevole, a cercare un punto d’avvistamento – si chiami ontologia o filosofia di… nelle sue innumerevoli varianti – capace di dare la formula della ricerca del senso dell’esistere. L’ultimo decennio ha segnato un notevole successo del discorso filosofico, che è sembrato riuscire, con scelte narrative felici, a recuperare il tono di una saggezza quotidiana lievemente stupita. Sono nati un genere letterario e una pratica filosofica – la “cura di sé” – che non si limita a divulgare la filosofia, ma la riporta a un contatto con i grandi interrogativi della vita.13 La recente fortuna della filosofia, con tutto quanto può avere di maggiore scioltezza nel valicare i confini della ricerca accademica, e ormai anche di pieno riconoscimento di figure non conven13 È ormai vasta la letteratura sulle pratiche filosofiche di counseling. Vedi per un recente esame critico, M. Montanari, La filosofia come cura, Mursia, Milano 2012.

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Le Imperdonabili

zionali, come le pensatrici, ha provocato in me un forte contraccolpo. Mai come adesso si spalancano vuoti colpevoli tra il dire e il fare, tra il pensiero e la vita, colmati da promesse non mantenute o da frivoli giochi di parole. Ciò non vuol dire affatto che le idee si misurino sui loro risultati, bensì che usiamo convenzionalmente parole e concetti, non ci rendiamo conto di che cosa stiamo facendo, di che cosa facciamo o non facciamo accadere negli altri, nel mondo che ci circonda, quando diciamo una cosa o decidiamo di agire o non agire. Dobbiamo sapere che, mentre la chiacchiera protegge un contesto omogeneo, le parole vere sono in grado di distruggere un senso scontato, di segnalare l’indecidibilità di un conflitto, di rompere un patto convenzionale, di salvare ciò che è disprezzato, di far dialogare ciò che è inconciliabile. Dato l’uso e abuso corrente del termine, è difficile, almeno per me, chiamare ancora “filosofia” ciò che ho imparato da Arendt e da Weil, ossia vivere e pensare stando nel punto in cui la promessa di verità, di bene e di bellezza, che ricevo da scritti e da parole altrui, urta, tocca, trova una misura vivente nella speranza di verità, di bene e di bellezza che mi sforzo in molti modi di esprimere, e che costituisce il fondo delle mie inquietudini. La filosofia per me ha sempre avuto inizio, non nel regno dell’origine, ma nel mezzo, nel centro delle cose, della vita mia e degli altri, degli avvenimenti storici e politici. Ciò vuol dire che chiunque si indirizzi verso il pensiero, l’azione politica, la scrittura poetica e letteraria, il lavoro, la cura della vita, deve fare una scelta preliminare, riguardante il tipo di uomo o di donna, di filosofo, di poeta, di economista, di commerciante, di insegnante, di politico, di operaio o di artigiano intende essere e manifestare agli altri. Questa scelta viene prima della filosofia, della poesia, del romanzo, della politica, dell’economia, ed è essenziale per la riuscita e la qualità umana di qualsiasi opera o attività.14 Essa ha a che fare con la vita, ma non riguarda la biografia individuale, il vissuto sogget14 Riprendo la distinzione tra il “chi” e il “che cosa” di una persona, corrispondente a due profili distinti dell’agire, quello della rivelazione di sé sulla scena pubblica plurale e quello dell’oggettivazione sul piano produttivo, da H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. a cura di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1988, pp. 132-137.

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tivo, preferenze o decisioni volontaristiche, bensì colloca ogni fare e non fare, ogni forma di vita sull’asse di una necessità che inchioda i movimenti del corpo e della mente al riconoscimento e all’ anticipazione della mappa di ciò che stiamo diventando, al discernimento di quel resto di incompiutezza, di attesa, di “meglio” ancora da scoprire che traluce nel fragile e intricato disegno di ogni fatto reale, si tratti di un’opera letteraria o di una pratica politica, di un evento storico, di una norma giuridica, di un avvenimento di cronaca. Il che non è molto diverso dal dire che qualunque attività e opera umana non è “fatta bene”, e non “fa bene” a chi ne è il destinatario, se non ha l’urgenza del “qui, ora, seduta stante, sul campo”, del sentire irripetibile della singolarità che spera ancora, e va avanti e magari si oppone, e non lascia che “la canna infranta” venga spezzata, o che si spenga “il lucignolo che fuma”.15 In questo punto, stanno oggi, con sempre più forza, le imperdonabili. Per questo motivo, mi sono messa a lavorare a una nuova edizione del libro, in un clima mutato, non solo dal punto di vista personale. Ho riscritto l’introduzione, aggiornato e ampliato alcune parti, e ho aggiunto una nuova imperdonabile, Milena Jesenská. Nella stesura originaria non ambivo a fornire un’esposizione documentata e completa degli scritti e della vita delle autrici trattate, perché avevo di mira il loro essere”imperdonabili”. I nuovi approfondimenti riguardano direttamente questo tema. Ecco perché, prima di tutto, devo rispondere alla domanda: che cosa significa essere imperdonabili, oggi?

15 Parafrasi del passo del Vangelo di Matteo, 12, 20: “la canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo che fuma”, che rinvia a Isaia, 42, 3, sulla protezione di chi soffre.

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Le Imperdonabili

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Le imperdonabili L’espressione, declinata al plurale maschile, è di Cristina Campo, dà il titolo a un saggio raccolto nel volume Gli imperdonabili,16 ed è riferita a Marianne Moore, a Gottfried Benn e a Hugo von Hoffmanstahl. Imperdonabile è l’estraneità al contesto, l’inclassificabilità, la dissidenza dal gioco delle forze, è “professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile”.17 Imperdonabile è l’atteggiamento del cinese che, nella fila dei condannati alla ghigliottina in seguito alla rivolta dei Boxers, rimane assorto nella lettura di un libro. Quell’uomo si salverà: l’ufficiale tedesco, che faceva da scorta ai condannati, “non resse alla sua compostezza e gli fece grazia”. Il cinese scompare tra la folla dopo aver pronunciato parole enigmatiche: “io so che ogni rigo letto è profitto”. Cristina Campo ne deduce che il libro che egli teneva in mano fosse il “libro perfetto”. Quale perfezione? Sicuramente quella che traluce nell’assoluto del sacro e del divino, ma anche la perfezione tutta terrena di un “luminoso trattato sulla vita dei funghi o sui nodi del tappeto persiano, [del]la descrizione accurata di un grande schermitore, [di] una raccolta di lettere dal bel numero di parole in bel rapporto tra loro. O addirittura [di] quel Saggio sui coltelli”, che Marianne Moore stava scrivendo.18 Imperdonabile è stare in attesa della ghigliottina – la scena del mondo massificato e privo di pensiero – con contegno e culto della forma, dello stile, della parola. Cristina Campo ha dischiuso il mondo degli imperdonabili, mettendo al suo centro la passione della perfezione. Essa riassume un intero catalogo di virtù legate alla verità, alla bellezza, all’aristocrazia, e insieme inscindibili dai gesti, dalle posture del corpo, dal suono della voce, dai modi di parlare: silenzio, attesa, grazia, leggerezza, ironia, sensi fini, occhio fermo, chiarezza, sottigliezza, 16 C. Campo, “Gli imperdonabili”, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, pp.73-88. 17 C. Campo, “Della fiaba”, in Gli imperdonabili, cit., p.32. 18 C. Campo,”Gli imperdonabili”, cit., pp.73-74.

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agilità, impassibilità. Si tratta di una perfezione rubata a un mondo che la disconosce o non sa che farsene, scovata nei luoghi e nei generi più diversi, in un grande scrittore o nella mossa di una ballerina, nella rilegatura di un libro o in antiche stoffe preziose. Essa dunque non ha nulla dell’ambizione a raggiungere una vetta, mentre ha molto della speranza, nonostante tutto. […] m’è riuscito di leggere Il Dr. Zivago in chiave di malgré tout (perché non dire: speranza). Quell’isola tra i marosi quell’occhio nella tempesta che è la dacia di Pasternak – se c’è una promessa per il futuro non mi sembra da cercare altrove (ricorda come dice? «così i primi cristiani si ritirarono dalla vita del loro tempo per fondare in silenzio una nuova vita»). Potessimo noi creare molte dacie, molti piccoli occhi nella tempesta (le dighe del castoro, i pranzi senza convitati della Signora Pasternak) e preservare là dentro l’attenzione, la risposta alla vita. Nient’altro che questa è la grandezza di Pasternak, l’appassionata, disperata risposta al di là di ogni orrore e desolazione. E nella nostra impotenza che altro possiamo fare noi tutti, se non gridare dai tetti che qualcuno ancora risponde – per noi, per gli sradicati, per questo tempo di orrore e desolazione.19

La perfezione degli imperdonabili nasce in una posizione eccentrica rispetto al proprio tempo, avanti o indietro rispetto a esso, nel punto di quiete che sta nell’occhio del ciclone, oppure sull’esile fronte dell’onda, che sta per scagliarsi e infrangersi sugli scogli. L’imperdonabile ha infatti un tratto di assolutezza, che è contrasto con la forza inesorabile e distruttiva della storia, spazio di un altrove nel cuore stesso del presente. Imperdonabile è vivere il proprio tempo scontrandosi con il XX secolo, prima, durante e dopo guerre, rivoluzioni, regimi totalitari e ricostruzioni, senza adeguarsi allo “spirito del tempo”, senza sfidarlo nelle forme prescritte dalle battaglie politiche e culturali, ma lasciandosene sconvolgere fino in fondo per continuare a scoprire i messaggi di colpa, di decadenza, di fede, di cinismo, di stanchezza, di innocenza e di amore, con cui il tempo si rivolge a ogni essere umano. 19 C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino, a cura di M. Pieracci Harwell, Adelphi, Milano 2011, p. 73 (lettera a Gianfranco Draghi, marzo 1958).

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Le Imperdonabili

Questa è la cifra di molte esistenze femminili, in qualunque forma si esprimano, filosofica, poetica, religiosa, che trova e crea risonanze anche in alcuni pensatori, poeti, scrittori e uomini di fede. Cristina Campo declinava al maschile plurale l’imperdonabile che era innanzitutto lei stessa, e probabilmente non le interessavano le differenze tra donne e uomini imperdonabili. Non dimenticava però l’altro lato della perfezione e dell’assoluto, la folla anonima in cui scompare e si perde il cinese. Gli imperdonabili sono infatti carne dell’imperdonabile, la condizione di un’epoca gravata da perdite irrimediabili. Campo, lo pseudonimo eletto da Vittoria Guerrini, pare alludesse all’imperdonabile nella sua massima distruttività: il lager.20 In questo punto, nell’intreccio tra gli imperdonabili e la condizione dell’epoca, è diventato necessario per me fissare innanzitutto l’essere imperdonabile nell’esistenza di alcune donne, che hanno scelto la scrittura come mezzo espressivo e come modo di vivere il proprio tempo. Le imperdonabili Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo attribuiscono tutte un valore primario alla scrittura, che tuttavia non si traduce necessariamente nel predominio della vocazione poetica e letteraria. Le imperdonabili si sono espresse anche nella forma del giudizio politico, dell’amore, del gesto che va controcorrente. Ciò rende tanto più importante, e sorprendente, il posto che lo scrivere ha occupato nella loro vita. Imperdonabile non è infatti solo la passione della purezza, della bellezza, della perfezione. Imperdonabile è, in una situazione di catastrofe, il concentrarsi del tempo storico in tempo personale, il travasarsi diretto dell’imperdonabile nelle imperdonabili. Le imperdonabili non vivono il loro tempo come ideologia, sapere codificato, o accadere fatale: lo vivono come esperienza – del dolore, della distruttività, della perfezione impossibile, dell’aridità, della parola indurita. Esse rifiutano di piegare, di sciogliere nelle forme convenzionali ciò che si è irrigidito, di governare il fuoco distruttore, perché ciò avrebbe significato negare o rimuovere il fondo ardente dell’esperien-

20 Vedi il cap. 5.

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za o conservarlo come “viscere rubate”, mero residuo di sofferenza, di passività.21 Qui sta il tratto che risalta maggiormente nelle imperdonabili: il loro essere estreme, indecifrabili e ispirate, impossibili, distruttive e creative, sofferenti e sempre (o quasi) innamorate. Non si può eludere il nesso strettissimo tra le imperdonabili e l’imperdonabile, l’essere estreme in un’epoca di estremi. Tantomeno si può evitare di confrontarsi con l’esito spesso tragico della loro vita: sono state avventuriere dell’assoluto, vittime passive, predestinate al disastro? La domanda – che cosa significa essere imperdonabili oggi – ha forse un tono inquietante e persino inattuale? “Il perdono” – è stato scritto – “è morto nei campi della morte”,22 e l’imperdonabile è stato fissato come il connotato di eventi che hanno segnato la catastrofe dell’umano, e sono apparsi irriducibili a ogni criterio usuale di giustizia, di pena, di ragion di Stato. Anche nel linguaggio quotidiano l’aggettivo imperdonabile viene usato frequentemente come qualità soggettiva che indica il limite estremo di un comportamento, di un carattere. Essere imperdonabile significa aver rotto i fili che legano a regole di condotta comunemente accettate, essersi sottratti ai principi etici fondamentali, o aver improvvisamente ribaltato l’immagine che gli altri hanno di noi. Nell’imperdonabilità sembra esserci una definitività senza appello, quasi un’impossibilità di tornare sui propri passi, un ribaldo tirarsi fuori dalle regole, che diventa sinonimo di protervia, di ostinazione, di un assolutismo che non si cura degli altri e della realtà. L’imperdonabilità come tratto del carattere o della condotta è l’altra faccia della formula di cortesia di uso corrente, dei “mi perdoni”, “chiedo perdono”, che ritmano le corrispondenze epistolari, gli scambi con l’impiegato in un ufficio, il sistema delle precedenze nell’entrare in ascensore o in un negozio, nell’aprire o chiudere una porta. Una richiesta di perdono che è segno di educazione, ma vale come scusa anticipata, preventiva assolu21 Vedi G. Mistral, “La otra”, in Antologia poètica, Classicos Castalda, Madrid 1977. 22 V. Jankélévitch, Perdonare?, tr. it. La Giuntina, Firenze 1987, p. 40.

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zione da una mancanza o da un eccesso, dall’ipotetica violazione della procedura che regola rapporti in cui c’è sempre un forte e un debole, un ignorante e un esperto. Al fondo del “mi perdoni” c’é qualcosa di inconfessabile e di imperdonabile, corrispondente alla sproporzione, all’inadeguatezza del rapporto tra sé e gli altri, tra sé e le pretese della realtà, in una parola, allo stare al confine dell’impossibile. Accade che il “mi perdoni” rasenti il rifiuto, la ricusazione. Questo fondo oscuro viene allo scoperto più spesso di quanto si pensi, in circostanze in cui estremo e quotidiano si mescolano in maniera perturbante. Ne è un esempio un brano di Ingeborg Bachmann: Arretrò davanti a lui. Non era necessario, non si sentiva neppure minacciata, non c’era nulla di inquietante. In quella stanza c’era solo un cattivo odore di marcio che veniva dal Nilo, non c’era odore di delitto. Il dottor Kurt Körner, Hauptsturmführer delle SS, non emanava odori particolari. Mi perdoni, disse lei. Erano in piedi tutt’e due, ora lui non le faceva più premura, e neanche lei si muoveva. Tutt’a un tratto si accorse di avergli detto: Mi perdoni. E anche sull’ultimo foglio che aveva posato sul tavolo di Jordan, in fondo a quel foglio c’era scritto: Perdonami. Senza neanche il suo nome. Nel rapporto sul processo di Norimberga aveva dovuto interrompere la lettura quando era venuto il turno del testimone B., castrato, ustioni, poi ancora un’operazione ai testicoli, ma non era questo che lei aveva visto ogni volta a quel punto [**], aveva ormai letto troppi verbali e troppe anamnesi, quasi null’altro negli ultimi anni. Il testimone B. si era bloccato, no, era piuttosto come se in quella pagina fosse inghiottito improvvisamente dalla carta e dai caratteri stampati. Il pubblico ministero Mac-Haney, non avendo avuto risposta alle sue domande: testimone, non abbia paura! Ma poi, messa a verbale questa riga, ci fu di nuovo il silenzio. E il testimone B., dopo che la Terra aveva compiuto una rotazione intorno al proprio asse, perché si potesse scrivere qualcosa su quella pagina: Mi perdoni se piango…

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Era l’unico punto in tutti i verbali in cui comparisse l’espressione «Mi perdoni» […] Si parlava sempre di modi di vedere, mai che all’improvviso esplodesse un silenzio, mai che qualcosa s’inceppasse.23

Una lettera di Cristina Campo a Gianfranco Draghi é dominata da una sorprendente ricorrenza di “mi perdoni, caro amico”. Cristina ha “lavorato di gran lena” per comporre un numero della “Posta Letteraria” interamente dedicato a Mario Luzi. L’inane lotta con gli spazi e il conseguente “non posso farcela un’altra volta”, l’aver “tentato il possibile” alle prese con la suscettibilità degli autori di alcuni contributi, l’“impossibile stile” sono oggetto della richiesta di perdono, tanto più insistente perché “Lei sa che se posso un miracolo lo faccio […] Naturalmente non lascerò passare inavvertito un momento di grazia”.24 L’imperdonabile sembra dunque stretto da entrambi i lati, quello di avvenimenti storico-politici estremi, senza precedenti, e quello soggettivo e quotidiano, in una morsa da cui è difficile districarsi: da un lato, la legge, il diritto, la buona educazione, il regno del possibile, l’autorità e il potere, il principio di realtà, dall’altro, tentare l’impossibile, rompere l’ingranaggio. Le imperdonabili non si sono sempre sottratte alla morsa, ma spesso l’hanno scardinata. Al cuore dell’essere imperdonabili nell’epoca dell’imperdonabile c’è infatti il “perdono”, non quello formalmente cortese, intriso di timore e di spirito servile, ma il perdono “impossibile”, che ha rappresentato uno dei frutti più arrischiati della riflessione morale nel secolo dell’imperdonabile.25 Il perdono “impossibile” del23 I. Bachmann, Il libro Franza, tr. it. a cura di L. Reitani, Adelphi, Milano 2009, pp. 344-345. Vedi J. Kasper, “Il perdono delle lacrime”, in J. Kasper-E. Manfredotti (a cura di), Perdonare, le tragedie mancate, Marietti 1820, Genova 2007, pp. 75-85. 24 C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia, cit., pp. 27-28 (28/12/1953). 25 Vedi H. Arendt, Vita activa, cit., pp. 177-179. Le tesi arendtiane sul perdono sono state ampiamente recepite e discusse nel contesto della riflessione sul perdono svolta soprattutto nell’ambito della filosofia francese. Vedi V. Jankélévitch, Il perdono, tr. it. a cura di L. Aurigemma, IPL, Milano 1969; Perdonare?, cit.; P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, tr. it., Cortina, Milano 2003, pp. 649-717, in part. pp. 691-696. Vedi la discussione critica di J. Derrida, Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, tr. it. a cura di L. Odello, Cortina, Milano 2004; “Il

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Le Imperdonabili

le imperdonabili è il rifiuto delle misure, delle riconciliazioni e dei compromessi comuni, e insieme la purezza, l’incondizionato del perdono inteso come dono d’amore senza scambio, come esigenza di un altro ordine, di un’altra necessità. Etty Hillesum, che “perdona” Dio per l’accadere dell’inumano ne è la più alta espressione. Questo pezzo di epoca in cui viviamo posso sopportarlo, riesco a prendermelo sulle spalle senza crollare sotto il suo peso immane, e posso già perdonare Dio per il fatto che permette che le cose siano come probabilmente devono essere. Avere abbastanza amore in sé da riuscire a perdonare Dio!26

All’altro estremo, la scarpa di Marina Cvetaeva, lanciata in aria “con un impassibile gesto regale del piede”, è l’indizio terrestre del sistema di opposti che lega il vero perdono con l’imperdonabile, e mette entrambi fuori delle antitesi convenzionali. Tutto può, o meglio, deve essere perdonato sulla terra, a condizione che si tenga ferma la passione per ciò che non è terrestre, che si coltivi il presentimento della sua presenza accanto, dentro le cose e le parole quotidiane. Mi è sempre piaciuto in lui [Stachovič], uomo di teatro, questo interesse per altri mondi: in un uomo di spettacolo – la passione per l’invisibile. Gli perdonavo il teatro. Al suo spettacolo Diario dello studio (un frammento di Leskov, La storia del luogotenente Ergunov e Le notti bianche) sono stata tre o quattro volte, – mi piaceva così tanto! […] E la stanza – un tugurio! – una tana! – dove una giovane persiana seduce il luogotenente! Questo ciarpame, cenciame, bottigliate. Occhi negli angoli, fagotti negli angoli. Questi sputi, zacchere, rosicchi. Questa stanza, il cui centro è una scarpa. Questa scarpa in mezzo al pavimento, che se ne vola al soffitto con un impassibile gesto regale del piede! Quest’assenza di buon senso della stanza! Assenza della secolo e il perdono”, tr. it. in J. Kasper-E. Manfredotti (a cura di), Perdonare. Le tragedie mancate, cit., pp. 17-45. 26 Vedi E. Hillesum, Etty. The Letters and Diaries of Etty Hillesum 19411943, a cura di K.A.D. Smelik, Erdmanns, Michigan-Cambridge U.K. 2002, p. 565 (lettera a Julius Spier del luglio 1942). Vedi il cap. 2.

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stanza nella stanza! Il mio vicolo di Boris e Gleb dal vivo! Il mio arredamento. Il mio ordine. Tutte le mie sette stanze in una. Lo scheletro della mia vita quotidiana. La mia casa. Ricordo la giovane persiana (una strega): i sussurri. Sussurri – mormorii – brontolii. Accanto alle parole. Incantesimi, chiacchiere, tintinni. Gli amuleti – i braccialetti. Sotto i braccialetti – le spalline del luogotenente. Mormorii – e collane, trilli d’usignolo – e mani. Mani, ruscelli.27

Il disagio e l’inquietudine provocati dall’imperdonabile hanno preso la forma della “leggenda” e della “tragedia” delle vite straordinarie delle imperdonabili. Una vernice dai colori ora troppo brillanti ora troppo cupi si è depositata su biografie segnate dal fallimento, dalla sofferenza, da perdite, fatiche, abbandoni, di cui si è data un’interpretazione convenzionale. C’è infatti ancora chi si ostina a pensare che i poeti, e le poete in particolare, paghino a caro prezzo la loro passione, che le loro vicissitudini, gli amori falliti, il difficile rapporto con la vita quotidiana, siano conseguenza dell’aver scelto una vocazione assoluta. È vero che il poeta spesso paga di persona, ma questo non è un motivo per decretare che ogni verso richieda il sacrificio di relazioni, l’isolamento, la sofferenza propria e altrui, scelte politiche e esistenziali sbagliate.28

27 M. Cvetaeva, Indizi terrestri, tr. it. a cura di S. Vitale, Guanda, Parma 1980, pp. 120-121. 28 Vedi T. Todorov, La bellezza salverà il mondo. Wilde, Rilke, Cvetaeva, tr. it. Garzanti, Milano 2010. Il libro, che nell’edizione originale (2006) aveva un titolo meno abusato e più conforme al suo contenuto, Les aventuriers de l’absolu, prosegue il lavoro dell’autore, impegnato da anni nella critica dell’assolutismo politico e ideologico, incarnatosi nei totalitarismi nazista e comunista, e nella rivendicazione di un’etica relazionale e quotidiana. Lo stesso schema è ora applicato ai poeti, nei quali la rottura tra arte, bellezza e mondo comune produrrebbe una catastrofe esistenziale, il fallimento e la desolazione. “Il mondo si vendica crudelmente di quelli che lo disprezzano. Questo culto esclusivo dell’assoluto è letale ed è giusto che sia così: […] pur continuando ad ammirare e amare gli uomini che hanno incarnato questa maniera di vivere, siamo comunque portati a compatirli” (p. 239). Dubito fortemente che questo sia il modo per rendere convincente il messaggio dell’autore, ossia la proposta di un’”arte di vivere” alla Montaigne, in cui si

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In realtà, nella vita delle imperdonabili si manifesta una delle modificazioni più profonde vissute dall’io nel ‘900, “quella per cui l’Io non è più nella storia, ma è la storia, oggi, a essere nell’Io”.29 Il loro modo di vivere il presente ha in effetti rovesciato l’esperienza che il filosofo hegelo-marxista György Lukács all’indomani della rivoluzione sovietica aveva chiamato “il presente come storia”.30 Con questa espressione, egli indicava un presente, quello rivoluzionario, che avrebbe dovuto concentrare in sé e dare senso a tutto quanto si muove nelle vicende dei singoli e dei gruppi. Ciò significava chiedere al presente di restituire in forma mondana e concreta (come liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come società più giusta e ugualitaria) ciò che un tempo promettevano il regno dei cieli e l’idea di immortalità dell’anima. Un presente storico identificato con l’evento rivoluzionario ebbe purtroppo bisogno di molta violenza per proporsi come realizzazione del desiderio di paradiso terrestre, e di una quantità di favole (la società senza classi, l’estinzione dello Stato) che non furono a lieto fine, come sappiamo. Le imperdonabili, insieme, occorre notarlo, alla maggioranza dei loro contemporanei, vissero il presente in maniera radicalmente opposta, nella forma della stessa storia (guerre mondiali, rivoluzioni, persecuzioni), che tuttavia prende la mira e colpisce un essere nel corpo e nell’anima, lo priva di terreno sotto i piedi, lo rende puro luogo di scontro tra passato e futuro. Un essere di questo tipo sembra che non abbia che due alternative: soccombere o fuggire dalla croce del presente, per esempio, nel mondo della poesia, dell’assoluto. A volte, e questa pare la regola per le imperdonabili, scopra la “bellezza del quotidiano” e “il senso della vita all’interno della vita stessa” (p. 258). 29 I. Bachmann, “L’Io che scrive”, in Letteratura come utopia, cit., p. 71. 30 Vedi G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. a cura di G. Piana, Sugar, Milano 1968, pp. 207-210, in cui ricorrono le espressioni: “il problema del presente come problema storico”, “siamo interessati alla storia proprio per comprendere il presente”, “il problema del presente come problema della storia, come problema non differibile per la praxis”. L’espressione è stata resa celebre da P.M. Sweezy, Il presente come storia. Saggi sul capitalismo e sul socialismo, tr. it. Einaudi, Torino 1962.

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alcuni soccombono lo stesso, pur avendo fatto di tutto per abitare un altro mondo, inaccessibile alla politica dei vincitori di turno, ma non fuori da ogni tempo e da ogni luogo. Non bisogna cadere nella trappola del carattere “tragico” di queste esistenze, perché ciò significherebbe non solo isolarle dal tempo e dalla vita concreta che hanno vissuto, ma renderle anche irrimediabilmente lontane, esempi unici e irripetibili per tutti coloro il cui destino appare meno maledettamente “interessante”, perché destinato a restare muto e invisibile. Le imperdonabili hanno molto da dirci nel nuovo millennio, innanzitutto perché sul carattere “straordinario” delle loro biografie si è innestato lo sforzo di dare voce all’esperienza attraverso l’affabulazione, la narrazione, l’espressione poetica, la descrizione arrischiata in infinite variazioni dell’incontro personale con la bellezza, con il divino, con il dolore, con la banalità, con il tremendo. Scrivere fu per loro una pratica quotidiana, come lavare i pavimenti o guadagnarsi da vivere o investire energie nel reggere il bisogno vitale e la fatica delle relazioni di amore e di amicizia. È peraltro innegabile che lo “sforzo della voce”,31 in grandi scrittrici e poete, in donne di alta spiritualità, sia ricerca di un altrove, vagheggiamento, desiderio, speranza di “altro” nelle relazioni umane, nel rapporto con Dio, con i luoghi, con le parole. Tale ricerca può diventare trasfigurazione del presente in un’altra realtà, che guarda al di là del tempo, ma non può e non deve in alcun modo essere scambiata per la riproposizione del dualismo tra assoluto e relativo, tra tempo e eterno, tra quotidianità e ideale. Lo “sforzo della voce” nelle imperdonabili si è esplicato in molte forme di scrittura. Esse hanno scritto – alcune pochissimo, altre molto – usando i generi più diversi: il diario, la lettera, il racconto, il romanzo, il poema, il libretto d’opera, testi per il teatro o la radio, traduzioni, saggi, articoli per giornali e riviste, recensioni. Il passaggio dalla poesia alla prosa, da una lingua all’altra, la rinuncia a scrivere poesie, o l’alternanza delle varie forme di espressione, non sono stati mai casuali, anzi hanno sempre rappresentato un profilo decisivo del loro percorso. Solo superficialmente si può at31 Vedi F. Rosso Chioso, Mechtild von Magdeburg. Poesia e scrittura, CLUEB, Bologna 1998, pp. 59-69.

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Le Imperdonabili

tribuire questa caratteristica della loro opera a un’epoca di sperimentazione letteraria e di commistione dei generi: perlopiù esse furono indifferenti o apertamente ostili alle avanguardie. Il trapasso, il “drenaggio”32 dall’una forma all’altra, dal quaderno alla lettera alla poesia, la pratica costante della traduzione e del plurilinguismo, non possono nemmeno essere ricondotti semplicemente al processo di incubazione della creazione letteraria. Il rapporto tra la scrittura e l’essere imperdonabili non deve soprattutto essere inteso come il riscatto del carattere “tragico” di quelle esistenze mediante l’opera di genio (cosa che peraltro non è avvenuta sempre e comunque). Esso è stato piuttosto un modo di vivere il presente, che apre dimensioni decisive per chiunque oggi si interroghi sul come vivere. Le imperdonabili offrono infatti, con i loro sacrifici, le loro gioie, le loro brusche impennate, le avventure e i precipizi in cui sono cadute, una serie di modelli di formazione di sé, di vie originali di maturazione e di cambiamento generate dall’imperdonabilità, non dalla sua sconfessione. La non-contemporaneità al presente L’intreccio dell’imperdonabile con la “vita” delle imperdonabili non vuol dire semplicemente inquadrarle nelle tragedie e nelle farse storico-politiche del ‘900. Tratto fondamentale della loro esperienza è stata infatti la non-contemporaneità.33 A volte nelle imperdonabili risuona un odio per l’oggi, analogo a quello espresso nel film di István Szabo del 1992, Cara Emma, dolce Dobe, da una delle due protagoniste che vende il giornale “Oggi” nella metropolitana, urlando con una rabbia che oltrepassa ampiamente il titolo: “oggi, oggi, oggi, oggi!” 32 M. Cvetaeva, Il paese dell’anima. Lettere 1909-1925, tr. it. a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1988, p. 152 (lettera a B.L. Pasternak dell’11 febbraio 1923). 33 Per la nozione di “non contemporaneità”, rinvio alle pagine fondamentali di E. Bloch, Eredità del nostro tempo, tr. it. a cura di L. Boella, Il Saggiatore, Milano 1992, pp. 82-102. Vedi anche J. Derrida, Spettri di Marx, tr. it. a cura di G. Berto, Cortina, Milano 1993, e L. Boella, La non-contemporaneità, in “aut aut”, 271-2, 1996, pp. 12-21.

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Per capire che cosa significhi questa insofferenza, bisogna chiedere anche a noi stessi: che cos’è il presente, che cosa vogliamo dire quando affermiamo che siamo contemporanei del nostro tempo? Il presente attuale è ritmato dai “dopo” (l’industrialismo, la modernità, il Muro di Berlino), dai “mai più” (Auschwitz), dalle varie “fini” (del comunismo, del marxismo, dell’idea di progresso). In realtà, la storia non ha fatto punto, ciò che è finito continua a finire, quelle che sembravano svolte, punti di chiusura definitivi, si rivelano fenomeni evanescenti, in dissolvenza. Il presente si rivela una trappola, in cui la storia gioca con il nostro desiderio di scioglimento, di risoluzione (che per molti è stata viva esperienza generazionale: la Resistenza, il ’68) come il gatto con il topo. Un movimento vorticoso si rivela un surplace, il nuovo diventa immediatamente vecchio, il futuro passato. Spesso sentirsi contemporanei è stare sulla superficie visibile, a volte drammatica del presente, vedendone solo la facciata, anche quando questa è piena di crepe. Crediamo di essere contemporanei solo perché ordiniamo frettolosamente il presente in una contiguità di fenomeni attuali, sia pur disparati. Lasciamo che coesistano le carestie in Africa con la sovrapproduzione e lo spreco di cibo in Occidente, i controlli di polizia, gli atti terroristici con raffinate mostre d’arte nelle grandi metropoli, il fondamentalismo religioso con il politeismo dei devoti dell’immagine. Fenomeni struggentemente attuali non dialogano e, quando si scontrano materialmente, diventano questione di ordine interno o internazionale. La contemporaneità spesso si riduce ai muri che si ergono tra i quartieri abitati da extracomunitari, le gated communities dei ricchi e il centro votato allo shopping delle metropoli. O anche alla frattura sociale che divide occupati da disoccupati, giovani da adulti, donne dei paesi extraeuropei e donne europee, piccola borghesia impoverita e proprietari di grandi patrimoni. Si tratta di un modo di guardare al presente, che descrive le sue contraddizioni, in parte può anche spiegarle, ma non lo smuove dalla sua fissità, conferendogli un profilo di instabilità confusa, di sabbie mobili, di zona di indifferenza e di impotenza.

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Le Imperdonabili

Christa Wolf vi ha riconosciuto l’”orribile segreto” degli uomini e delle donne della nostra epoca: “essere presenti e contemporaneamente non esserci”.34 Il presente e la sua sfuggente attualità sono tuttavia abitati anche da altri tempi: brandelli di passato che ritornano o restano in sospeso e si manifestano nella forma di ossessioni, paure, angosce, di debiti non pagati, di crediti non riscossi, di gesti non compiuti, di parole non ascoltate, di pensieri non pensati. C’è qualcosa che segretamente disaggiusta il presente e lo rende a un tempo ardente e miserabile. C’è qualcosa di non-contemporaneo al presente, che si innesta sulla stessa materia delle vicende economiche e politiche, ma corrisponde a un modo di viverle e di interpretarle nella forma delle emozioni e dell’immaginario, del presagio e della nostalgia, dell’invocazione poetica e del disagio esistenziale, del dubbio, della collera, della resistenza. Il presente contiene ideali non realizzati, sogni traditi, immagini di un passato scomparso o mai esistito (come l’infanzia o l’idea mitica di natura) che dicono che qualcosa manca, che qualcosa non funziona, che qualcosa è in bilico ai margini del presente, sui labili confini che lo dividono dal passato e dal futuro. Sbagliato sarebbe considerare questo tipo di esperienza del presente il semplice rovescio della medaglia, il vissuto soggettivo della realtà economico-sociale, o l’interpretazione spirituale o filosofica che possiamo darne. Si tratta al contrario di una componente decisiva del presente, corrispondente alle potenti forze di contrasto che operano al suo interno, e che sono la memoria, l’aspirazione all’assoluto, il sogno, ma anche l’inconfessabile, l’oscuro. La non-contemporaneità permette di leggere meglio quanto nelle imperdonabili potrebbe essere considerata un’esperienza bruciante di estraneità al presente, di collera repressa, di rifiuto o di fuga. Esse vivono un presente scardinato, che non coincide con il loro sé, che le distrugge, ma le prepara anche a esperienze ulteriori, a conoscenze insperate. L’abisso, che a volte si apre tra le im-

34 C. Wolf, Trame d’infanzia, tr. it. a cura di A. Raja, Edizioni e/o, Roma 1992, p. 52.

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perdonabili e l’epoca, le ha messe in condizione di seguire “il montante frastuono”, “il rumore e il germogliare del tempo”.35 È lecito chiedersi quante fantasie, spettri, chimere, ansie, nostalgie, frustrazioni e risentimenti sia in grado di contenere il presente senza perdere la sua concretezza e il suo impegno esistenziale e responsabile, senza svuotarsi in luogo di avventura estetica o politica, che ignora la distinzione del bene dal male, del vero dal falso, o senza trasfigurarsi in regno dell’invisibile, dell’ideale. In che misura la non-contemporaneità può essere vissuta e pensata senza tratti eroici, aristocratici o avventurieri, senza richiedere una vocazione per l’estremo o un’inclinazione per tutto ciò che rimane irrealizzato? Le imperdonabili non si sottraggono a queste domande, ma continuano a ricordarci che la non-contemporaneità è il luogo della logica tormentata, meditabonda, inappagata e inappagabile dell’immaginario, dell’ansia di salvezza e delle pulsioni distruttive, ma anche della ricerca del significato, dello sforzo di rendere comprensibile ciò che avviene, facendo un lavoro di ricerca di nuove parole e sentimenti, anche per coloro che non possono o non vogliono farlo. Senza un’esperienza della non-contemporaneità è impossibile decifrare l’impurità e la confusione del presente, smuoverlo dalla sua fissità inespressiva e brutale, animarlo, anche di ombre e di drammatiche ambiguità, restituendogli in ogni caso la voce della memoria e dell’attesa. Nelle imperdonabili la non-contemporaneità è esperienza vissuta del presente, contraddittoria e inquietante, costellata di ferite e di lutti, ma in ogni caso lucidamente consapevole della condizione contemporanea di sproporzione tra i singoli e i processi storico-politici. Donne assolute, ma nemiche di ogni assolutizzazione (ideologica, politica, teorica), le imperdonabili non si sono soltanto esposte allo squilibrio, ma hanno offerto la loro vocazione e attività poetica e spirituale come forma di elaborazione del rapporto con un tempo sconvolto nelle fondamenta.

35 O. Mandel’štam, “Il rumore del tempo” (1923), in Il rumore del tempo e altri scritti, tr. it. a cura di D. Rizzi, Adelphi, Milano 2012, pp. 68-69.

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Le Imperdonabili

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Scrivere sempre La non-contemporaneità delle imperdonabili si traduce nello scrivere sempre, ogni giorno, annotando, ricordando, partendo dalla vita vissuta, dalle infinite occasioni dell’esperienza. Qui hanno origine le lettere, i diari, i quaderni, i saggi, le traduzioni e le interviste delle imperdonabili che, nonostante gli apparati filologici e i commenti, continuano a presentarsi come un continente tutto da esplorare. Solo iniziando a esplorarlo è possibile toccare il punto in cui scrivere, nelle sue multiformi espressioni, non si mostra solo come un compito assoluto da adempiere strappandosi a forza da un mondo in cui non si è al proprio posto. Scrivere è il farsi attività della passione dell’assoluto, è ridisegnare i confini dell’esperienza, ampliandola, ”drenandola” o travasandola, prolungandola verso il suo mistero. Come se la perfezione rimettesse in moto ciò che perfetto non é. Scrivere diventa accoglienza, ospitalità, incontro, relazione, amicizia e niente più lo separa dal vivere la vita. Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi «riconobbe». Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): - Ma questo lei può descriverlo? - E io dissi: - Posso. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.36

Per esercitare una vocazione poetica all’altezza del compito di “descrivere questo” era indispensabile una pratica della scrittura, che si propagasse in tutte le direzioni, prendesse posizione, e “rispondesse” alle richieste di altri e di altre con la stessa forza con cui rispondeva alla vocazione interiore. 36 A. Achmatova, “Requiem” (1935-1940), “In luogo di prefazione” (Leningrado, 1 aprile 1957), tr. it. in La corsa del tempo. Liriche e poemi, a cura di M. Colucci, Einaudi, Torino 1992, p. 139.

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Il voler chiamarsi “campo” di Vittoria Guerrini non evocava solo i campi di sterminio, ma anche il campo aperto, suggerito dal desiderio di Etty Hillesum di essere “campo di battaglia”37 dei problemi del suo tempo, grembo e custodia dei dolori e delle inquietudini, delle ansie e dei tormenti di altre e di altri. Nello “sforzo della voce” delle imperdonabili è riconoscibile una creatività specifica e autonoma (per quanto strettamente intrecciata) rispetto a quella della produzione poetica e letteraria in senso stretto. Anche quando non dà luogo alla poesia, la scrittura entra infatti direttamente nei loro gesti e nel loro destino. Ciò accade perché essa diventa un “campo aperto” o un “campo di battaglia”, in cui la lettura a caro prezzo del tempo presente, l’ascolto tremante delle sue pulsazioni, subiscono una metamorfosi. Tutte le cose dolorose e inquietanti vengono serbate meditando nel cuore, messe in relazione l’una con l’altra, e tutte con il mistero dell’essenziale. Qui le patite della perfezione mostrano la massima e la più impura ricettività, un affinamento dei sensi, un’immensa “pazienza” (Rilke-Hillesum),38 che permette loro di dare ospitalità a tutto, a pensieri e a emozioni proprie e altrui, a avvenimenti storici catastrofici e a lievi dettagli di grazia. Anche le imperdonabili desiderano prendere fiato, fare una pausa, offerta o imposta dalla vita, per esempio, dall’esigenza di avere un pubblico con cui affrontare questioni di poetica o di politica culturale, o dal desiderio di avere vicina un’amica. Le lettere e le prose sono questo, un attimo di respiro, un mettere i piedi per terra, a volte un atterraggio brusco, l’urto con i nudi steccati della vita, e insieme una preparazione, un annuncio di altro. In particolare, le lettere, per quanto non diano sempre gioia, fanno palpitare la vita, che dà la voce. Gli epistolari, i diari, i quaderni, i saggi hanno regole diverse da quelle della creazione poetica e letteraria, anche quando contengono frammenti puri di poesia e di pensiero. Essi preparano, ispirano, accompagnano, a volte contengono una verità più libera di quella espressa dalla creazione poetica, ma in ogni caso parlano di un altro livello di esperienza. La voce e la scrittura che in essi si 37 Vedi cap. 2. 38 Vedi cap.2.

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Le Imperdonabili

manifestano sono segno dell’ospitalità tenera e furente, della capacità di accogliere tutto, e disegnano il profilo di uno scambio tra vita e poesia, tra gioia e dolore, comunemente consegnato ai segreti del cuore o considerato contrastante con la passione per l’assoluto. Nello spazio di quello scambio, invece, stanno insieme la fedeltà a ciò che è – spesso un crudo realismo, i cui organi sono occhi, orecchi, gambe, piedi e mani – e i movimenti di caduta in picchiata, di impennata verso l’alto, di scatto verso un altro mondo: “ogni caduto ha le ali”.39 È così che s’instaura una relazione tra l’imperdonabile del tempo e della storia – il totalitarismo, la guerra, la distruttività, l’omologazione, che le imperdonabili vivono e scrivono dal vivo, in presa diretta, cioè innanzitutto a partire dai loro corpi e dalle loro menti, libere da vincoli ideologici, dottrinari o dogmatici – e ciò che viene offerto come luce e forza, forse anche come gioia e speranza. Gli scritti delle imperdonabili offrono quindi la possibilità di fare un’esperienza che non è solo estetica, né solo di conoscenza spirituale, ma svela un profilo essenziale di ogni passione per l’assoluto. L’amicizia, l’ospitalità, l’accoglienza per tutto ciò che accade, espressa nelle prose e in particolare nelle lettere, è il punto in cui le impennate, le perfezioni delle imperdonabili, talune loro fosche, drammatiche cupezze, e la fragilità che le fa precipitare, si umanizzano, trovano una misura irriducibile al successo o al fallimento. Farsi “campo”, ospiti di tutto, per la tragica risonanza di questa espressione nella storia del ‘900 e nell’esistenza delle imperdonabili, è vivere dal vivo il dolore più atroce, quello che porta al mutismo, all’inespressività. Farsi “campo” comporta però anche il separarsi da sé, dall’ingombro di un io invaso dall’inaccettabile, diventare ospite e amica. In questo passaggio l’ansia di perfezione e di assoluto assume a criterio di verità la relazione vivente, lo scambio di parole e di esperienza con un’amica o con un amico, la partecipazione e il giudizio su ciò che accade nella storia e nella 39 I. Bachmann, “Invocazione all’Orsa maggiore”, tr. it. in Poesie, a cura di M.T. Mandalari, Guanda, Parma 1978, p. 141 (la poesia è “Il gioco è finito”).

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politica, o semplicemente nelle vite delle persone. La creazione poetica e letteraria cambia così di posto rispetto al modo usuale di intenderla. Invece di essere il centro luminoso che risplende tra le fosche ombre della vita, diventa il frutto di una vita che non è bastata a se stessa, ma ha avuto bisogno di amori, dolori, speranze, illusioni. La vita è il ponte che non diventa casa, se si vuole usare l’espressione di Simone Weil relativa al rapporto tra umano e divino.40 Le imperdonabili, che diedero ospitalità a tutto, non presero mai dimora nella vita di tutti i giorni, ma la attraversarono in tutte le direzioni. Fu questo il modo in cui ciò che cercavano – la verità, la giustizia, la bellezza, Dio – mantenne la sua forma umana, la traccia di un cammino imperdonabilmente comune a tutti.

40 Vedi S. Weil, Quaderni, III, tr. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 23: “I ponti dei Greci. Li abbiamo ereditati. Ma non ne conosciamo l’uso. Abbiamo creduto che fossero fatti per costruirci case. Vi abbiamo elevato grattacieli ai quali aggiungiamo costantemente piani. Non sappiamo che sono ponti, cose fatte per passarci e che per essi si va a Dio”.

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MILENA JESENSKÁ 1896-1944

È stato solo un brutto momento, Willi? […] Non so se splendeva il sole o se attorno le piante fiorivano. Ero cieca, sorda e muta, così povera come mai nella vita. Poi mi sono ricordata che tempo fa, quando mi sembrava di vedere davanti e dietro a me soltanto la fine, usavo un antidoto: camminare per la strada maestra. Camminare svelta, regolare e da sola. Un metodo che per tanti anni non mi è più tornato in mente. Ora l’ho ripescato dal passato: ho camminato all’infinito, ho camminato per anni interi, non ho fatto che camminare, per trovare il ritmo giusto e scacciare la tua faccia cattiva.1 In questi giorni mi sono resa conto che la politica nella vita umana è altrettanto importante quanto l’amore. Essa penetra sotto la pelle, si appiccica al corpo come una camicia troppo stretta e si annida nel cuore come i sentimenti più intimi. […] Finché individui completamente apolitici non considereranno “la politica”, ossia ciò che accade, non meno importante per se stessi delle faccende private, la grande massa si lascerà trascinare indifferente dagli avvenimenti, senza tener presente che questi avanzeranno nel loro appartamento e prenderanno posto alla stessa tavola davanti alla zuppiera che viene riempita a mezzogiorno.2

1 2

M. Jesenská, Milena di Praga. Lettere di Milena Jesenská 1912-1940, tr. it. a cura di C. Canal, Città Aperta, Troina 2002, pp. 201-203 (lettera a Willi Schlamm, luglio 1938) [traduzione modificata. L.B.] M. Jesenská, “Adieu, Jules Romain!”, Přítomnost, 1 febbraio 1939, tr. ted. in «Alles ist Leben». Feuilletons und Reportagen 1919-1939, a cura di D. Rein, Verlag Neue Kritik, Frankfurt a.M. 1984, pp. 200-201.

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Le Imperdonabili

Milena Jesenská ha camminato molto nella sua vita, anche quando la sua gamba semiparalizzata le dava un’andatura da Melusina. Riuscì a camminare persino con Kafka, precedendolo correndo “mentre lui camminava adagio” sulle colline di Vienna, nei quattro giorni passati insieme nell’estate del 1920. Non si trattò di un esercizio fisico a suo modo terapeutico, né del dono di quattro giorni di benessere da parte di una creatura vitale a un individuo tormentato e malato. Milena aveva precocemente capito che nessun sanatorio avrebbe potuto guarire l’angoscia sua e di altri. L’unica cosa da fare era metterla in presa diretta con il mondo. E a questo servono gambe e braccia, respirare, vedere, sentire. Il cuore esita, soffre, combatte con il corpo, ma i piedi gli danno una pulsazione regolare, lo placano, lo fanno ancora ridere, restituiscono il dolore alla realtà. So fino all’ultimo nervo in che consista la sua angoscia. Questa c’era anche prima di me, quando egli ancora non mi conosceva. Ho conosciuto la sua angoscia prima di conoscere lui. Comprendendola, mi sono corazzata contro di essa. Nei quattro giorni nei quali fu con me Frank l’aveva perduta. Ne abbiamo riso. So con certezza che nessun sanatorio riuscirà a guarirlo[…] Quando sentiva quell’angoscia egli mi guardava negli occhi, aspettavamo un momento come se non riuscissimo a tirare il fiato o i piedi ci facessero male e dopo un poco tutto passava. Non c’era bisogno di nessuno sforzo, tutto era semplice e chiaro, lo trascinai per i colli presso Vienna, lo precedevo correndo mentre lui camminava adagio e veniva pestando i piedi dietro a me, e se chiudo gli occhi mi pare ancora di vedere la sua camicia bianca e il collo scottato dal sole e lo vedo affaticarsi. Camminò per tutta la giornata, in salita, in discesa, esposto al sole, non tossì neanche una volta, mangiò tanto da far paura e dormì come un ghiro, era semplicemente sano e in quei giorni la sua malattia ci parve qualcosa come un piccolo raffreddore. 3

Milena Jesenská è stata scrittrice e giornalista: cominciò a collaborare da Vienna, dove era arrivata nel 1918 dopo un’adolescenza turbolenta e forti conflitti con il padre, alle riviste praghesi Tribu3

Lettera a Max Brod, gennaio-febbraio 1921, in Lettere di Milena a Max Brod, a cura di E. Pocar, in appendice a F. Kafka, Lettere a Milena, tr. it. a cura di F. Masini, Mondadori, Milano 1988, p. 236.

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Milena Jesenská 1896-1944

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na, Národní Listy (Pagine nazionali) e Lidové Noviny (Giornale popolare), scrivendo di moda, arredamento e cucina. Aveva bisogno di guadagnare per vivere, in una città sopraffatta dalla miseria in cui si sentiva straniera. Frequentava le strade più che i caffè letterari, guardando le vetrine, i mendicanti, i bambini senza tetto né legge, i rapaci “compratori di tutto”. Continuò con sempre maggiore intensità a scrivere e a tradurre dal tedesco (sua è la prima traduzione in ceco di un racconto di Kafka, Il fuochista4), dal francese, dall’inglese. Ritornò a Praga intorno al 1925, nel momento in cui, strappata al ruolo di provincia dell’impero asburgico, la nuova capitale della repubblica cecoslovacca viveva una grande fioritura intellettuale, si poneva come crocevia delle idee di emancipazione della donna, del funzionalismo in architettura e delle correnti più innovative nella grafica, accoglieva i profughi della Russia sovietica (tra i quali dal 1923 al 1925 Marina Cvetaeva), comunisti e ebrei. Milena diventa una giornalista di successo e nel 1927 si incarica della redazione di Pestrý Týden (Settimana illustrata), una nuova rivista di avanguardia, ricca di illustrazioni. Nel 1928 ha una figlia:5 una malattia insorta durante la gravidanza la costringe a un anno di ricovero e all’uso di morfina per attenuare i dolori alla gamba, che resterà paralizzata. I suoi vivaci interessi sociali la portano ad aderire al partito comunista ceco. Scrive per diversi giornali militanti, diventando presto critica dell’atteggiamento tenuto dall’Unione Sovietica in occasione della guerra di Spagna e dei processi moscoviti. Nel 1937 inizia la collaborazione con Přítomnost (Presente), settimanale di orientamento liberal-democratico, che le dà la possibilità di esprimere pienamente il suo talento per il reportage su questioni di politica attuale, sui rifugiati, gli ebrei, la situazione dei Sudeti e la rivendicazione di autonomia della popolazione tedesca, il Patto di Monaco, l’Anschluss, infine l’ingresso delle truppe hitleriane a Praga la mattina del 15 marzo 4 5

Apparsa sulla rivista Kmen il 22 aprile 1920. Seguirono altre traduzioni. Kafka consegnò a Milena i diari del periodo 1910-1920, poi pubblicati da Max Brod. Jana “Honza” Krejkarová, figlia del secondo marito, Jaromír Krejkar, esponente di rilievo del funzionalismo in architettura. Fu scrittrice, poeta e biografa della madre. Vedi J. Cerna, Vita di Milena, tr. it. Garzanti, Milano 1986.

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Le Imperdonabili

1939. I suoi scritti sono il frutto di viaggi per il paese, in cui interroga le persone, descrive ciò che vede e sente. Scrive per il giornale clandestino V Boj (In lotta) e fa parte di un gruppo che svolge un’intensa attività per favorire l’espatrio di ebrei e comunisti perseguitati. Anche dopo l’invasione della Polonia, rifiuta di mettersi in salvo: nel novembre 1939 viene arrestata e successivamente internata nel campo di Ravensbrück, dove morirà il 17 maggio 1944. Milena Jesenská scrisse più di mille articoli, utilizzando diversi pseudonimi. Molti di essi sono andati perduti a causa della guerra e della successiva situazione politica in Cecoslovacchia. Il suo nome è inciso sul muro di Yad Vashem tra i “Giusti tra i popoli” che hanno rischiato la vita per salvare gli ebrei perseguitati. La pubblicazione nel 1952 delle Lettere a Milena6 è all’origine del mito di Milena, il “fuoco ardente” descritto da Franz Kafka. Un epistolario divenuto celebre, ma che si può leggere solo come uno spartito per voce sola: le lettere spedite al grande scrittore sono andate perdute. Biografie e raccolte di scritti e di lettere hanno riempito i contorni del mito, anche se la ricostruzione della vita di Milena Jesenská resta piena di lacune. 7 La sua personalità 6 7

F. Kafka, Lettere a Milena, cit.. Negli anni venti escono alcune scelte di articoli curate dalla stessa autrice, ma senza indicazione delle fonti e delle date. Vedi M. Jesenská, Mileniny recepty (Le ricette di Milena), Praga 1925; Cesta k jednoduchosti (La via verso la semplicità), Praga 1926; Člověk dělá šaty (Il monaco fa l’abito), Praga 1927. M. Buber Neumann, Milena l’amica di Kafka, tr. it. Adelphi, Milano 1986, cita ampi brani da La via verso la semplicità, senza tuttavia indicare la pagina. Per le raccolte recenti vedi M. Jesenská, «Alles ist Leben», cit. (tr. it., «Tutto é vita», a cura di D. Rein, Guanda, Parma 1988); K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská. A Critical Voice in Interwar Central Europe, Berghahn Books, New York-Oxford 2003. Si tratta delle uniche fonti, per chi non legga il ceco, per la conoscenza degli scritti di Milena. La scelta degli articoli è diversa, e la raccolta del 2003 segue criteri più filologici. Farò riferimento a entrambe le raccolte, citando la prima dall’edizione tedesca, perché quella italiana è ormai introvabile. Si può consultare all’indirizzo http://www.iwm.at il sito Milena Jesenská Fellowships for Journalists, Institute of Human Sciences – Vienna. Per le lettere, vedi M. Jesenská, «Ich hätte zu antworten tage-und nächte lang». Die Briefe von Milena, a cura di A. Wagnerová, Bollmann,

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Milena Jesenská 1896-1944

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affascinante, la sua forza e il suo coraggio hanno persino fatto sì che dal lager di Ravensbrück uscisse, non il racconto autobiografico di una sopravvissuta, ma la storia di un’amica.8 Ne è venuto fuori il ritratto di una donna non comune, la cui vita fu emblematica di una generazione che diventò adulta alla fine della prima guerra mondiale, e vide i suoi ideali distrutti dalla seconda guerra mondiale. Lʼimperdonabile Milena Jesenská Fissiamo l’ultima immagine di Milena a Ravensbrück: Non marciava mai esattamente in fila per cinque, il suo atteggiamento durante l’appello non era mai conforme alle disposizioni, non si affrettava mai a eseguire un ordine, non adulava i superiori. Non una sola parola che uscisse dalla sua bocca si uniformava allo stile del campo.9

Nel lager Milena era fuori dell’ordine: si metteva un buffo berretto sulle ventitré, quando le detenute venivano messe in riga, se ne usciva fischiettando una canzonetta, agitava un fazzoletto. Una volta attraversò tutto il campo, cosa proibita, per portare una tazza di caffè a un’amica. Gesti spavaldi, anche un po’ arroganti, che suscitavano la riprovazione non solo delle guardie, ma anche delle prigioniere che avevano interiorizzato l’ordine del lager. Pagava a

8 9

Mannheim 1996 (tr.it. Lettere di Milena Jesenská 1912-1940, cit.). Per le biografie, vedi M. Marková-Kotiková, Mýtus Milena. Milena Jesenská jinak (Il mito di Milena. Un’altra prospettiva su Milena Jesenská), Primus, Praga 1993; M. Hockaday, Kafka, Love and Courage. The Life of Milena Jesenská, Woodstock, New York 1995; A. Wagnerova, Milena Jesenská. «Alle meine Artikel sind Liebesbriefe». Biographie, Bollmann, Mannheim 1996 (tr. it. di C. Mainoldi, Milena Jesenská, Archinto, Milano 2004); M. Jirásková, Kurzer Bericht über drei Entscheidungen. Die Gestapo-Akte Milena Jesenská, Verlag Neue Kritik, Frankfurt a.M. 1996 (tr. it., Una scelta tradita. Milena Jesenská e la vigilia della guerra, Forum, Udine 2007). Vedi M. Buber-Neumann, Milena l’amica di Kafka, cit. Ibidem, p. 23. Vedi anche ibidem, p. 24.

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caro prezzo questi comportamenti, che potrebbero apparire incongrui, adolescenziali, e francamente irresponsabili. Milena nel campo faceva il contrario, per esempio, organizzando una “cerimonia del the” in un luogo di denutrizione. Dobbiamo essere riconoscenti a Margaret Buber-Neumann che ci ha trasmesso quest’immagine dell’amica con l’intenzione di restituirle per intero il suo profilo di donna e di scrittrice.10 La sua figura è stata ricomposta, proponendo un modello di coraggio e di libertà femminile incentrato sull’altruismo, sul donarsi agli altri a fondo perduto.11 Milena avrebbe duramente lottato contro lo spirito ribelle, anticonformista e trasgressivo della sua giovinezza, riuscendo nel corso di una vita difficile a raggiungere un senso di responsabilità sociale e politica. Passando attraverso la malattia, la tossicodipendenza, la fatica del vivere, passioni e amicizie, avrebbe addomesticato la sua forza, incanalando il suo slancio nell’agire eticamente e politicamente giusto. L’altruismo è una virtù molto apprezzata da uomini e donne, ma siamo sicuri che dal lager sia uscita solo la lezione del sacrificio di sé? La grandezza di Milena sta certo nell’offrire una via di formazione di sé in un mondo sconvolto, ma non la si può leggere in maniera meno convenzionale? Il modo in cui Milena trasformava una situazione di costrizione in un’occasione di libertà, e viveva l’amicizia, la dignità e l’altruismo, può e deve essere approfondito. A Praga è vissuto il filosofo ceco Karel Kosík (1927-2003), autore della Dialettica del concreto,12 uno dei testi più significativi 10 Vedi ibidem, p. 16: “Ringraziai la sorte che mi aveva portato a Ravensbrück perché lì avevo incontrato Milena”. È molto difficile condividere una frase del genere, sincera, ma del tutto priva di senso tragico. 11 La testimonianza di Margaret Buber-Neumann è stata ripresa da T. Todorov, Di fronte all’estremo, tr. it. Garzanti, Milano 1992, pp. 66-67, 75-76, 89-90, 94-95. A differenza di Etty Hillesum (vedi il cap. 2), Milena è accolta nell’universo di Todorov come esempio di un altruismo che non è da santi o da eroi, ma si modula sulle relazioni concrete di prossimità. Todorov ricorda che Milena falsificava le analisi di prostitute affette da malattie veneree e considerate “asociali”, provenienti da un ambiente del tutto diverso dal suo. 12 K. Kosík, La dialettica del concreto, tr. it. a cura di G. Pacini, Bompiani 1965.

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del rinnovamento del marxismo degli anni ’60. Schieratosi con l’opposizione al socialismo burocratico, non volle abbandonare la sua città, pur non avendo più la possibilità di pubblicare e di insegnare. Kosík ha fissato il tratto “imperdonabile” del destino di Milena Jesenská, riportandolo all’”imperdonabile” dell’epoca con tanta forza e novità di pensiero da renderlo un momento essenziale dell’essere imperdonabili oggi. In uno dei suoi rari interventi pubblici, una conferenza pronunciata nel 1993,13 Kosík formula il problema che è al centro dell’imperdonabile: è possibile il tragico nel secolo che ebbe inizio nel 1914 con lo scoppio della prima guerra mondiale, iniziò a finire con la disgregazione dell’impero sovietico, e fu descritto da Kafka come il secolo del grottesco? Per possibilità del tragico Kosík intende la passione per l’assoluto, che presuppone la distinzione, anche il conflitto, mai tuttavia l’estraneità, di banale e elevato, di mondo terrestre e mondo “altro”. Tale domanda segna i momenti cruciali in cui la modernità scopre che il cielo si è irrimediabilmente svuotato e la relazione tra il tempo e l’eterno, il cielo e la terra, l’umano e il divino è andata definitivamente perduta. Per un filosofo che passò vari anni della sua vita sepolto vivo14 nella Praga comunista e postcomunista, la domanda sulla possibilità del tragico si declina con la figura di una sepolta viva, Antigone, la fanciulla pietosa simbolo della purezza dell’assoluto, che vuole dare sepoltura al corpo abbandonato del fratello e obbedire così alle leggi non scritte degli dei, disobbedendo a quelle della città. Kosík non si chiede soltanto, come fecero Hegel, Kierkegaard e il giovane Lukács, se sia pensabile un’Antigone moderna, ma si 13 K. Kosík, “Il secolo di Grete Samsa”, tr. it. in aut aut, 316-317, 2003, pp. 164-172. 14 Vedi “Le philosophe tchécoslovaque Karel Kosík écrit à J.P. Sartre”, Le Monde, 29 giugno 1975 (tr. it., “Sono morto e tuttavia vivo”, in AA. VV., La scienza assediata, Marsilio, Venezia 1977, p. 29). Nel 1975, in seguito a una perquisizione di polizia, a Kosík furono sequestrati tutti i manoscritti. Dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, Kosík fu reintegrato nell’insegnamento all’Università Carlo di Praga, ma pochi mesi dopo ne venne allontanato in quanto nei primi anni ’50 era stato iscritto al Partito Comunista Cecoslovacco.

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interroga su quali ostacoli rendano impossibile l᾿esistenza di un’Antigone reale.15 L’ostacolo principale sta nel fatto che il Novecento è il secolo nemico del tragico e il suo simbolo è stato fissato da Kafka in Grete Samsa, la sorella di Gregor, protagonista di La metamorfosi, che può essere considerata l’anti-Antigone del xx secolo. L’essenza del carattere antitragico della nostra epoca è per Kosík la “banalità”, che produce il grottesco e la caricatura. Si tratta della banalità dello spirito servile, dell’invidia nascosta, del sospettare, dello spiare propri della società di massa. Una delle sue massime manifestazioni è la banalità della morte: la morte di un’altra persona, la morte del prossimo non è più una scossa che fa deragliare l’uomo, la morte è diventata banale ed è scesa al livello dell’insignificanza delle cose, degli artefatti, della ridda delle informazioni, delle sensazioni futili che si producono sulla catena di montaggio, passano attraverso la realtà e spariscono senza lasciare traccia.16

Grete Samsa, la sorella di Gregor, è l’emblema della banalità, è l’anti-Antigone perché cessa di considerare il fratello un essere umano, non si domanda più se sia un uomo o un animale, la sola presenza di quel mostro le risulta intollerabile. Rientra così nella logica delle cose che Grete Samsa non seppellisca suo fratello, ma lasci alla cameriera il compito di spazzarne via i resti con la scopa, lo straccio, come se fosse spazzatura. Non è morto un essere umano, ma è crepato un insetto ributtante. Grete é giovane e piena di aspettative rivolte al futuro e rappresenta la calma imperturbabile di un’epoca che va avanti verso i suoi obiettivi senza riguardo per nessuno.17 Kosík non si ferma a questa terribile constatazione e si chiede se il potere della banalità non troverà qualcosa o qualcuno che lo contrasti. Chi avrà la forza di opporsi a Grete Samsa come moderna Antigone?

15 K. Kosík,, “Il secolo di Grete Samsa”, cit., p. 171. 16 Ibidem, p. 168. 17 Ibidem, pp. 168-169.

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La risposta di Kosík è per molti versi imprevista. L’Antigone moderna è per lui Milena Jesenská, che merita infine di essere liberata dall’ombra di Kafka come accessorio della sua biografia. Milena è diversa da Kafka, non ha lasciato un’opera scritta, è stata una presenza vivente. Il destino, il modo di essere di Milena e la creazione letteraria di Kafka non si contrappongono tuttavia come la vita all’opera, l’azione al pensiero, ma stanno in una relazione importante e significativa. Si tratta di una relazione di “rispondenza”, di pari grandezza e importanza, e insieme di polemica, di controversia. Il nostro tempo, dice Kafka con la sua opera, esclude il tragico, è un periodo fondamentalmente sfavorevole e nemico del tragico. Lo si potrà salvare, ossia sollevare dalla banalità del male, solo con un sacrificio tragico: Milena risponde allo scetticismo di Kafka non con le parole, ma con il suo atteggiamento e il suo destino.18

Il destino di Milena fu certo un destino tragico: morì in un campo di concentramento tedesco. Avrebbe però potuto morire indifferentemente in un lager staliniano. Ma non fu solo questo. Il suo destino, che salva dalla banalità del male, consiste nell’essersi opposta contemporaneamente, nel breve periodo tra l’autunno del 1938 e l’autunno del 1939, alle tre forme del male allora presenti: il male del nazismo, il male dello stalinismo, il male della viltà europea di Monaco. L’Antigone di Sofocle e forse anche l’Antigone moderna si identificano in questo: escono dalla folla silenziosa e spaventata, si mettono da parte e, stando così isolate, oltre le schiere, diventano personaggi straordinari. Escono dalla linea diritta della fila per parlare e agire contro quello che considerano il malo-ordine.19

18 Ibidem, p. 170. 19 Ibidem.

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Si tratta, aggiunge Kosík, di avere un “occhio in più”,20 di non socchiudere uno o tutti e due gli occhi come fanno le persone perbene, ma di vedere più lontano, non solo il male in tutte le sue forme, ma anche il che cosa fare, il come agire opponendosi a tutte le forme del male. Le considerazioni di Kosík aderiscono profondamente all’immagine di Milena Jesenská che oggi possediamo, ma hanno il grande pregio di offrire un contributo fondamentale per sottrarla alla mitizzazione, e insieme per approfondire il significato dell’imperdonabile. È importante notare che per Kosík Milena Jesenská non rappresenta affatto l’Antigone moderna. Nell’epoca attuale nessuna giovinetta pietosa potrà mai sfidare il tiranno per amore del fratello. Il potere onnipresente e anonimo non ha più il volto di Creonte, bensì quello di forze che sopraffanno inevitabilmente l’individuo. Come si deve intendere allora il “sacrificio tragico” di Milena Jesenská, che è al tempo stesso un modo di agire, un “uscire dalla fila”? Kosík ha il coraggio di ammettere che il “destino” di Milena fu, analogamente a quello di Antigone, quello di soccombere. Egli suggerisce però che per pensare una nuova Antigone occorre sottrarsi all’interpretazione corrente della tragedia di Sofocle come conflitto tra due “mondi”, quello terreno del potere dello Stato e della Legge, che deve punire i traditori, e quello in cui vige la pietà delle leggi non scritte, che intimano di seppellire i defunti e di non lasciarli agli uccelli rapaci. Siamo abituati a pensare, visto che nel nostro mondo ha preso il sopravvento la dimensione di ciò che è fuggevole, in continuo mutamento, che la poesia e la letteratura, o magari la filosofia, siano il luogo più appropriato di questo scontro, oppure che esso venga preservato nel nostro animo come silenziosa sofferenza, segreta ricerca. Scartiamo a priori la possibilità che esso si svolga nella realtà, nel mondo in cui viviamo insieme 20 Vedi anche F. Kafka, Lettere a Milena, cit., p. 54: “tu hai lo sguardo penetrante, ma ciò non sarebbe molto, tanto è vero che la gente gira per la strada e tira a sé lo sguardo, ma tu possiedi il coraggio di questo sguardo e soprattutto la forza di guardare più avanti, oltre questo sguardo; questo guardare avanti è ciò che conta, e tu lo sai fare” (lettera del 23/6/1920).

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agli altri, e in cui dovrebbe rinnovarsi ogni giorno il conflitto tra l’umano e il divino, tra la violenza e la distruzione e il bisogno di coesistenza, di amore. Milena morì in campo di concentramento, e si potrebbe pensare che il suo sacrificio dia l’esatta misura dell’epoca che ha negato l’umano nella forma più estrema. Il suo sacrificio non fu però quello di una vittima, immolata sull’altare dello scontro tra due forze opposte. Non solo la parola, ma lo stesso atto rituale del sacrificio rinviano all’offerta, a un gesto che getta un ponte tra imperfezione umana e infinito.21 I sepolti vivi, gli invisibili, tutti coloro che non si riconoscono nei linguaggi e nelle azioni della maggioranza, che parlano la lingua dell’amore e della poesia, e non quella delle armi, della violenza e della menzogna, non devono essere considerati abitanti di mondi a parte, ai margini di quello brutale e inquietante dell’oggi, oppure protagonisti di inutili gesti di orgoglio. Essi sono piuttosto elementi fondanti della comunità politica. Il “destino” di Milena Jesenská, che con tanta esattezza Kosík individua nell’uscire dalla fila, nell’essere fuori dal coro, non è semplicemente l’altra faccia della violenza e della distruttività. Il suo “sacrificio” è “tragico” perché si alimenta della comprensione esatta della natura del male contemporaneo, ed è simbolo dell’imperdonabile perché è forza di contrasto, è una “passione” opposta al frenetico attivismo di chi presume di “fare” la storia, trasgredendo ogni limite e misura. Si tratta di un’energia altrettanto attiva, che si manifesta come forza di relazione che tiene aperto il varco con il “sottosuolo” e il cielo della storia e della politica, ne conosce le forze oscure e tenebrose che rendono impossibile l’azione, ma continua a credere nelle riserve di ispirazione che all’agire possono venire dall’idea del Bene, dalla purezza di esseri che non nu21 Vedi K. Kosík, “Il giovane e la morte”, tr. it. in Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia. Saggi di pensiero critico 1964-2000, a cura di G. Fusi e F. Tava, Mimesis, Milano 2013, che ricorda l’Offerta musicale di Bach, composta in onore di un sovrano, come emblema del profilo di offerta del sacrificio, della sua capacità di interrompere processi puramente materiali, di subalternità e di potere, per aprire a una nuova comunità politica. Nel testo è centrale il riferimento alla morte di Jan Palach a Praga, nell’agosto 1968.

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trono l’accadere con le loro imprese e realizzazioni, ma con le loro angosce, i loro rifiuti, le loro fedeltà, in una parola, con la loro imperdonabilità. La vita in presa diretta Milena Jesenská aveva compreso quello che aveva compreso Kafka, ossia che la società uscita dalla prima guerra mondiale era un “labirinto di possibilità pietrificate”,22 di rapporti alienati che assumono per l’individuo l’aspetto di un “mostruoso apparato”, in cui nessuno può vivere e sentire in maniera personale e unica, ma sempre e solo come massa, allineati l’uno accanto all’altro come merce di magazzino e con lo stesso sentimento di rassegnata impotenza. Queste espressioni sono contenute in un articolo del 13 novembre 1920, che ritrae la desolazione dei sobborghi di Vienna nel pomeriggio di una domenica estiva, e descrive la condizione di una vita monotona, meschina, vuota a cui “mancano il dramma, la gioia, la speranza”. Tragedia del non tragico! Incapacità del tragico! Che orrore, che sofferenza, che malinconia! Gli uomini qui si sono rassegnati, senza essere coscienti di essersi rassegnati senza lotta, con una naturalezza sconvolgente. La maledizione dell’imperfezione, dell’incompiutezza, della mediocrità artefatta è impressa sui vestiti, sull’atteggiamento del corpo, sui mobili, sui posti a teatro, sulle vetrine. L’eterna infelicità dell’essere l’uno vicino all’altro, l’eco di ogni lacrima e di ogni sospiro nella stanza accanto, altrettanto stipata di esseri umani, il destino inchiodato a quanto è stato osservato di tutti gli altri, ognuno è al tempo stesso spettatore, attore e suggeritore! 23

22 Vedi K. Kosík, “Kafka e Hašek”, tr. it. in Il filo rosso, 1963, I, 4, pp. 7584. Si tratta dell’intervento al Simposio internazionale sulla vita e sulle opere di Kafka, fino a quel momento all’indice in Cecoslovacchia, che si tenne nel 1963. Nella stessa occasione, Milena Jesenská uscì per la prima volta dall’ombra nella qualità di amica di Kafka. 23 M. Jesenská, “Vorstadt”, in Tribuna, 13 novembre 1920, in «Alles ist Leben», cit., pp. 24-26, in part. p. 25.

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Milena Jesenská sapeva altrettanto bene quanto Kafka che in un mondo del genere era impossibile vivere, impossibile agire e fare esperienza. Con altrettanta lucidità riconobbe l’illusorietà della posizione degli intellettuali, “capitalisti dello spirito”,24 che credettero alla pace e alla stabilità seguite alla guerra, si illusero di vivere in un mondo nuovo e si lasciarono trasportare dagli avvenimenti, senza fare nulla per trasformarli. Essi sfuggono alla vita quotidiana “anche senza domenica”, appagandosi delle contraddizioni dell’intelletto e dei drammi dell’anima, altrettanto incapaci di agire e di arrestare la caduta quanto l’uomo comune. Anche i rivoluzionari diventano borghesi, “diventano grassi in senso intellettuale”, quando gestiscono le loro idee come una proprietà e vivono nel mondo a parte dei caffè completamente tagliato fuori dalla realtà. Intellettuali, borghesi impoveriti, ex-rivoluzionari e anche individui creativi sono sepolti in un mondo sotterraneo, spettrale, paralizzante, in cui non accade nulla. Da questa lucida constatazione nasce l’appello di Milena Jesenská alla naturalezza della vita reale, l’unico luogo in cui l’individuo tocca terra e ritrova la sua singolarità, nuda e inerme, i suoi bisogni elementari.

24 Vedi M. Jesenská, “Kavárna”, in Tribuna, 10 agosto 1920, pp. 1-2, tr. ingl. “The Café”, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 64-66. L’espressione “capitalisti dello spirito” richiama quella usata da Kafka, “capitalisti dell’atmosfera” a proposito degli uomini grassi, e in particolare di Franz Werfel a cui Milena rimproverava l’obesità, nella lettera del 30 maggio 1920. Vedi F. Kafka, Lettere a Milena, cit., p. 18. Vedi anche la lettera dell’11 agosto 1920, ibidem, p. 149, dove Kafka reagisce all’articolo di Milena nel suo tipico modo, considerando il riferimento agli intellettuali da caffè come rivolto direttamente a lui e segno della sua esclusione dal mondo di Milena: “Come ascoltando lo Stein, così all’incirca mi sentii leggendo la Kavárna, salvo che tu racconti molto meglio di lui; chi altro sa raccontare così bene? Ma perché racconti a chiunque acquisti la “Tribuna”? Mentre leggevo avevo l’impressione di passeggiare davanti al caffè giorno e notte per anni e anni; ogniqualvolta un cliente arrivava o andava via, guardavo dalla porta aperta per assicurarmi che tu fossi dentro ancora, poi ripigliavo la passeggiata e aspettavo. Non era né triste né faticoso. Quale tristezza o fatica aspettare davanti al caffè nel quale sei tu!”.

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Mi sembra che la vita possieda un valore autentico solo laddove c’è unicamente la terra e il cielo e in mezzo Dio, dove l’essere procede inosservato, in modo elementare.25

Non è facile aderire, senza cadere in equivoci retorici, a questa celebrazione della vita allo stadio più elementare, anche perché spesso essa si accompagna, negli articoli di Milena Jesenská degli anni ’20, a toni salutisti, a inni allo sport e alla vita all’aria aperta. La rivendicazione della vita comune, della vita di tutti, apre in realtà uno spazio di solitudine, di non appartenenza, di riduzione all’essenziale, in cui il singolo, attraverso il proprio corpo, attraverso la natura, attira verso di sé ciò che ferisce e provoca dolore, e arriva così a un contatto diretto, disarmato ma reale, con ciò che lo sovrasta e lo opprime, e insieme con ciò che può nutrire la sua speranza e il suo desiderio di verità. La persona creativa è sola. La persona non creativa cerca distrazioni.26

La vita è un punto zero, ma non un luogo di paralisi dell’azione. Nasce qui infatti il giornalismo di Milena Jesenská, praticato come gesto indipendente e critico di una donna che vuole contrastare la malia del mondo sotterraneo, dice ad alta voce e a chiare lettere ciò che è necessario, dice sempre la verità, anche se si tratta di cruda realtà. La prosa di Milena Jesenská è brillante, vivace, a volte enfatica e sentimentale, ma la tessitura dei suoi articoli trae il suo maggior pregio dall’essere fatta di contrasti. Milena fu un donna di contrasti e i suoi articoli sono frutto di una grande capacità di vedere e descrivere i contrasti. Fu giornalista di moda, ma non le interessavano i vestiti, bensì chi li indossa, celebrava lo stile di vita moderno, sportivo, semplice e funzionale, il cinema e la pubblicità, arrivando peraltro a scoprire che anche un mendicante cieco, che chiede l’elemosina strimpellando uno strano strumento con la bocca e il braccio, può rovesciare genial25 M. Jesenská, “Vorstadt”, cit., p. 26. 26 M. Jesenská, “The Café”, cit., p. 66.

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mente lo spirito capitalistico della reclame, offrendo un’insegna accattivante della propria miseria.27 Si inoltrò nel mondo dei non sani e dei non ricchi, fu attratta e respinta dal comunismo. La formula del suo giornalismo negli anni ’20, quando sotto i temi della moda, del ruolo della donna nel matrimonio, dell’igiene personale, vibrava spesso una forte vena autobiografica, fu la seguente: Voglio deliberatamente abbassare il “tono profondo”. (Posso regolarlo altrettanto bene quanto chiunque altro). Cercherò di parlare superficialmente. Probabilmente suonerà più profondo.28

Leggiamo questa dichiarazione d’intenti in un articolo sul matrimonio moderno, e sulla sua natura sorprendentemente breve, infelice e problematica. L’autrice ne riscontra la causa nel mito del piacere e della felicità, “terribile eredità della guerra”, reazione sbagliata alla disperazione di quegli anni, e conclude che la crisi del matrimonio deriva dall’incapacità di prendere decisioni. Cioè la gente vive la vita come viene. Sarebbe invece necessario che ognuno, in un momento determinato, identificasse il suo cammino, la sua chiamata interiore per regolarsi su di essa e assumere su di sé tutte le conseguenze senza eccezioni. Addossarsi le conseguenze delle proprie azioni: ecco ciò che manca all’epoca attuale.29 Ci sono due possibilità nella vita: accettare il proprio destino, decidere e agire di conseguenza, saperlo e restare vincolati ai vantaggi e agli svantaggi, alla felicità e infelicità, coraggiosamente, onorevolmente, senza lesinare sui centesimi, generosamente e umilmente. Oppure cercare il proprio destino: nella ricerca però non perderete solo forza, tempo, illusioni, appropriata e buona cecità, istinto; nella ricerca perderete anche la vostra dignità. Diventerete sempre più poveri e poveri per sempre. Ciò che verrà sarà sempre peggio di ciò che c’era prima.

27 Vedi M. Jesenská, “Reklame des Elends”, in Tribuna, 29 aprile 1921, in «Alles ist Leben», cit., pp. 42-44. 28 M. Jesenská, “Superficial Small Talk about a Serious Subject”, in Tribuna, 17 giugno 1922, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 98-100, in part. p. 99. 29 Ibidem, p. 100.

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Ebbene, per cercare c’è bisogno di fede e per la fede si ha bisogno di più forza che per la vita.30

Il richiamo alla responsabilità individuale appare chiaramente in tensione con qualcosa che va oltre il limite dell’esistenza comune, ma ne rappresenta la misura reale. Si capisce meglio perché esso si esprima attraverso l’esaltazione della vita, dell’eros, del nuoto, del camminare, dell’andare in bicicletta (con i pantaloni, non con le gonne svolazzanti, come le donne di allora) e del ballo. Milena Jesenská propone infatti un movimento molto concreto e preciso, quello di chi contrasta una forza che lo sovrasta, dandole la misura del suo corpo, del suo respiro, della propria energia. Si tratta del movimento che ricorre frequentemente nei suoi scritti e nelle lettere: nuotare a larghe bracciate senza avere paura dell’acqua,31 analogamente al camminare, é un modo di portare l’oppressione dell’anima alla luce del mondo reale, di non abbandonarsi agli eventi, ma di fenderli con il proprio corpo come si fa con l’aria o con l’acqua. Come se si aprisse una finestra e si guardasse fuori. Vedere qualcosa da una finestra – dal finestrino di un treno, di un tram, di un carcere, di un ospedale – significa non appartenervi, esserne al di fuori, ma in questo modo acquistare una doppia vista, quella degli occhi e quella dei desideri, o anche quella che si spinge nell’ignoto:

30 M. Jesenská, “Devil at the Hearth”, in Národní listy, 18 gennaio 1923, in K. Hayes ( a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 107-111, che parla sempre del matrimonio. A questo articolo fa riferimento F. Kafka, Lettere a Milena, cit., p. 215-6 (lettera di gennaio/febbraio 1923): “cara signora Milena, ho letto il Diavolo e lo ritengo ammirevole e non tanto come lezione, come scoperta, ma come presenza di un essere umano incredibilmente coraggioso e per aumentare l’incredulità, di un essere umano che, come dimostra l’ultimo periodo, pur essendo a conoscenza anche di altre cose oltre al coraggio, è coraggioso”. 31 Vedi M. Jesenská, “Plavky”, in Tribuna,1 agosto 1920, tr. ingl. “Bathing Clothes”,in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 57-59. Vedi F. Kafka, Lettere a Milena, cit., pp. 121-122, che commenta l’articolo, riconoscendosi in coloro che nuotano tenendo fuori le spalle e la testa dall’acqua, “come se avessero un peso ai piedi”.

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Ricordate gli innumerevoli momenti in cui, esaurite le forze, avete guardato fuori della finestra? Quando, colti sul fatto nel mentire, offesi da uno che amavate, presi dal rimpianto di un morto, in spasmodica attesa di una lettera, tormentati da preoccupazioni e dispiaceri, dopo un commiato, presi da vergogna dolorosa, avete guardato fuori della finestra. Non avete visto i muri delle facciate delle case di fronte, né un pezzo di cielo o la cima di un albero, ma la finestra che porta nel mondo è stata l’unica possibilità umana di scaricare il peso. Una porta non è una via d’uscita, mentre lo è una finestra. Lo sguardo dalla finestra mi tranquillizza sempre e mi fa tornare a me stessa. No, non solo a me stessa, ma ai mille, ai milioni.32

L’elogio della vita nasce dunque dall’esperienza, vissuta in prima persona, del contrasto più stridente. I toni bassi avvertono che nella quotidianità non tutto è noto e conosciuto e che l’autenticità sta nell’imperfezione.33 I “miracoli” o le “redenzioni misteriose”,34 che costituiscono spesso il colpo di teatro degli articoli di Milena Jesenská, e sono accessibili a tutti, anche ai poveri, come la casseruola di Robinson Crusoe, scampata al naufragio,35 sono la contromossa della vita ordinaria, ma anche dell’orrore ordinario. In un articolo intitolato “Al mercato”, si legge: Qui si incontra la vita della quale nessuno parla perché è ovvia e necessaria e comune a tutti. La vita nella sua prosaica nudità, nella sua crudele salute e insaziabilità. Se andassi a fare la spesa tutti i gior32 M. Jesenská, “Fenster”, in Národní Listy, 27 settembre 1921, tr. ted., in «Alles ist Leben», cit., pp. 55-58, in part. p. 57. 33 Vedi M. Jesenská, “The Curse of Outstanding Qualities”, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 130-133. Sembra che questo articolo sia stato pubblicato per la prima volta in Cesta k jednoduchosti (La via verso la semplicità), cit., la raccolta di articoli scelti e pubblicati nel 1926 dalla stessa autrice, senza indicazione della data e del luogo di pubblicazione. 34 Vedi M. Jesenská, “Mysterious Redemption”, in Tribuna, 25 febbraio 1921, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 91-94. Questo articolo è spesso collegato alla crisi della relazione con Kafka e contiene una parafrasi della descrizione della sua malattia fatta da Kafka in una delle prime lettere. Vedi F. Kafka, Lettere a Milena, cit., p. 6 (lettera dell’aprile 1920). 35 Ibidem, p. 55.

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ni, le mie faccende domestiche ne soffrirebbero. Resterei fuori casa per ore. Non c’è niente di più bello dell’aggirarsi in un mercato alla mattina presto quando splende il sole.36

“Tutto è vita”, ossia l’inflazione, la miseria, l’arrangiarsi, l’accompagnare qualcuno alla stazione, lavorare e avere fame sono realtà vitali, ma la “crudele salute” della vita quotidiana non è tutto per Milena Jesenská. Lo testimonia il comico Karl Valentin, il cui umorismo è descritto così: la comicità di una persona senza difese nei confronti della sobrietà degli oggetti, della praticità del mondo, di una persona alla mercé dell’astuzia delle cose inanimate (un scala che gli cade sul naso, un sasso che non si può spostare, l’acqua calda che scotta). È l’abbandono della gente triste, debole fino all’infermità, coerente fino all’ostinazione malata, incurabile nella sua ansietà, paura e timidezza, gente che non andrà mai da nessuna parte e non vincerà mai, ma solo perché sono sensibili come piante e sentono il freddo del mondo ancora più intensamente, trovandosi nel lato sotterraneo dell’anima slava. Forse si deve ridere di loro perché non sanno vivere. Ma la loro “incapacità di vivere” proviene da sorgenti del cuore tanto preziose che si soffoca di vergogna per il proprio riso.37

Esaltare la vita e la gioia di vivere in Milena Jesenská ha dunque il significato dello sforzo di sottrarre la vita comune al chiaroscuro, alla pallida ovvietà del perbenismo, dell’esecuzione dei compiti prescritti, per restituirle, anche al prezzo di sovvertire le regole usuali del comportamento, la forza della distinzione di bene e di male, di gioia e di dolore, il senso della misura e del limite. I ritratti sono tra gli scritti più riusciti di Milena Jesenská. Le piacevano molto i volti ed era una grande decifratrice delle espressioni e della mimica dei gesti. Tra di essi spicca quello della Signora Kohler, portinaia e donna delle pulizie nella casa di Vienna, che Milena Jesenská definisce la sua migliore “amica”, amica di un’a36 M. Jesenská, “Do trhu”, Národní listy, 28 febbraio 1924, p. 5; cit. in K. Hayes, “Introduction”, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., p. 22. 37 M. Jesenská, “Neznámi známi” (Conoscenze ignote), in Národní listy, 20 maggio 1924, p. 1, cit. in K. Hayes, “Introduction”, cit., p. 23.

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micizia “strana”, donata dalla vita, come quella leggendaria di Beethoven per un vecchio, ampio armadio scolpito che stava nell’angolo della sua camera. La signora Kohler non è una caricatura, precisa Milena Jesenská, bensì una donna del popolo, che non è esattamente al suo posto nel mondo. Essa viene descritta con una fine attenzione al suo corpo, alla sua faccia, alle sue gambe. “Eternamente sudata per una sorta di singolare imbarazzo di fronte al mondo”, esprime felicità e tristezza sporgendo il labbro superiore, con gli occhi rossi e il naso che cola, agitandosi, impallidendo e assumendo la postura di chi ha ricevuto una martellata in testa. Ciò che la contraddistingue è comunque la singolare “regolarità” delle sue azioni: fa tutto con un’ora precisa di ritardo, e ruba il numero di calze o di cucchiaini di latte condensato o la fettina di burro esattamente corrispondente ai suoi bisogni. Un anno fa, ispirata da nobili idee di amicizia e di uguaglianza, le suggerii di non rubare più, avrei preferito darle ciò che prendeva regolarmente. La spaventai a morte, povera anima. Dato che il mio volto non celava alcun inganno, non osava ribattere che non aveva rubato e non sapeva come reagire. I suoi occhi mi guardarono, dapprima con rimprovero, quindi con indignazione. Riconobbi che era completamente nel giusto, e da allora tutto è andato come prima.38

La regolarità fuori dell’ordine della Signora Kohler si estende al suo fidanzato che, regolarmente ogni sei settimane, la domenica sera si ubriaca e la picchia, e per il resto del tempo le regala mazzolini di fiori e pezzetti di cioccolato. Sembra quasi che Milena Jesenská presenti la Signora Kohler come una sorta di controfigura della vita sua e di altri, inseparabile (“Così quando mi incontrate, incontrerete anche la signora Kohler e quando la vedrete, io non sarò lontana”),39 altrettanto sopraffatta dalla miseria quotidiana, e insieme contraltare dei suoi smarrimenti in virtù dell’“ottusa convinzione che si deve vivere”, 38 M. Jesenská, “My Friend”, in Tribuna, 27 gennaio 1921, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 86-90, in part., p. 87. Nelle Lettere a Milena, Kafka fa frequenti riferimenti alla Signora Kohler. 39 Ibidem, p. 90.

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e quindi capace di miracoli, come procurare il cibo con transazioni degne di un agente di borsa.40 Tra i vari movimenti che fanno vivere la vita, su cui Milena Jesenská ha portato la nostra attenzione, vale la pena ricordare il movimento della mano di un morente, che si sdraia nel letto solo poco prima di morire, e saluta il ritratto di Tomáš Masaryk, fondatore e primo Presidente della Repubblica Cecoslovacca, come fanno le persone che agitano la mano dal finestrino di un treno che lascia la stazione. Forse fu solo un movimento involontario della mano. Ma nessuno può dire in base a quale criterio i moribondi pervengano a un’espressione di verità, la quale, sia negli uomini che negli animali, risulta con più forza nel gesto che nella parola.41

La mano era quella di Karel Čapek, lo scrittore ceco morto nel dicembre del 1938, il quale aveva elaborato con cura e sottigliezza una propria gerarchia di valori morali e impresso nel cuore e nella mente un ben preciso ordine del mondo.42

Il Patto di Monaco,43 il tradimento da parte della Francia e dei suoi ideali di libertà e democrazia, il mutamento dei confini nella 40 Ibidem, p. 88. 41 M. Jesenská, “Gli ultimi giorni di vita di Karel Čapek”, in Přítomnost, 11 gennaio 1939, cit. in M. Buber-Neumann, Milena l’amica di Kafka, cit. pp. 185-188, che riporta l’articolo quasi per intero. Vedi in part. p. 186. L’articolo è stato pubblicato in ceco, “Posledni dny Karel Čapek”, in Nad naše síli. Češi, Židé a Němci 1937-1939 (Al di sopra delle nostre forze. Cechi, Ebrei e Tedeschi 1937-1939), a cura di V. Burian, Olomouc, Votobia 1997, pp. 160-165. Sulla morte di Karel Čapek vedi anche la lettera a Willi Schlamm del gennaio 1939, in M. Jesenská, Lettere 1912-1940, cit., p. 267. Poco prima di morire, Karel Čapek era stato oggetto di una campagna di diffamazione. Ai suoi funerali ci fu una grande partecipazione di folla e Milena li descrive come “una manifestazione, una confessione di fede”, analoga al tributo reso a Masaryk. 42 Ibidem, p. 187. 43 La conferenza di Monaco del 20 settembre 1938 suggellò il tradimento di Francia e Inghilterra nei confronti della Cecoslovacchia. Hitler, in

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regione di montagna che Čapek amava, e dove curava una casa di pietra e il terreno circostante con zelo e tenacia, l’impotenza dell’uomo di lettere e “gli scricchiolii della casa che si stava spaccando sull’orlo dell’abisso”, furono una devastazione troppo grande per un uomo, “che amava i giardini ben curati, i fiori in boccio, le case ospitali e le cose semplici della vita”.44 Morì di una banale polmonite, senza opporsi, continuando a chiedere notizie sulle strade ghiacciate e sul tempo. Il coraggio di stare fermi Il Patto di Monaco e le sue conseguenze per la Cecoslovacchia, che verrà occupata dall’esercito nazista la mattina del 15 marzo 1939, sono al centro del giornalismo di Milena Jesenská negli ultimi anni ’30. Nei suoi articoli la visione della vita formulata negli anni precedenti diventa una chiave di lettura politica degli avvenimenti. Parlar chiaro, dire la verità implacabilmente, guardare in faccia ciò che accade, conseguono direttamente al modo in cui Milena Jesenská per tutti gli anni ’20 aveva guardato alla grande città, alle strade, ai tram e ai treni, alle pareti delle stanze nei grandi condomini attraverso le quali si sente tutto, ai portinai, lattai, commercianti, affittuari, ognuno dei quali trova uno più debole di lui,

presenza di Mussolini e con l’approvazione di Daladier e di Chamberlain, impose che quest’ultima consegnasse alla Germania i territori della Boemia, della Moravia e della Slesia abitati dai Tedeschi. La popolazione francese e inglese esultò credendo che in questo modo si sarebbe evitata la guerra, ma le conseguenze per la Cecoslovacchia furono disastrose. Il territorio fu notevolmente ridotto, iniziò l’emigrazione di migliaia di persone, ebrei cechi e tedeschi democratici abbandonarono i Sudeti. Il 4 ottobre il presidente della Repubblica Cecoslovacca, Edvard Beneš, diede le dimissioni e al suo posto fu eletto Emil Hacha. Sebbene questi si fosse opposto a molte delle richieste di Hitler, iniziò la propaganda antisemita, fu autorizzata la costituzione di un partito nazionalsocialista e fu introdotta una rigida censura sulla stampa. Era chiaro che la dichiarazione di non aggressione in difesa della Cecoslovacchia, siglata a Monaco, da Chamberlain e Hitler, era solo un pezzo di carta. 44 Ibidem.

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che sia un’ebrea, o il figlio di un comunista, a cui rivolgersi con una smorfia o da cui esigere un omaggio superfluo. Il suo senso del grottesco e delle conseguenze psicologiche e sociali della miseria, la critica dell’abbandonarsi alla corrente degli intellettuali, appaiono ora l’indispensabile premessa alla considerazione che sta alla base dei suoi interventi sulla situazione politica: la vita ordinaria è politica, come lo é la rivalsa del debole sul debole e, viceversa, la politica è vitale, comporta vedere e sentire le sofferenze altrui, prendere posizione, giudicare. Si tratta di un rovesciamento radicale del modo comune (e ideologico) di guardare agli avvenimenti: non è il precipitare di eventi politici a sconvolgere la vita, è la vita quotidiana che deve mettersi in gioco con la stessa febbrile impazienza, con la serietà e la sincera intimità che si usa nelle faccende private. Questa convinzione rende particolarmente lungimiranti gli articoli pubblicati su Přítomnost (Presente), e conferisce loro il tono di una voce totalmente indipendente, una voce che continua a sconvolgere per la sua forza, per la capacità di risuonare nel vuoto delle coscienze assuefatte anche al peggio. La presa diretta con la vita nella sua nudità, vulnerabilità e a volte orrore, che negli anni ’20 ispirava gli articoli spesso autobiografici di Milena Jesenská, le permette di individuare esattamente, alla luce dei tragici avvenimenti del 1938-1939, il “fenomeno politico centrale”45 a cui nessuna grande potenza seppe opporsi, e che divenne di conseguenza il teatro dell’ipocrisia e dell’incapacità di prevedere la catastrofe di tutti i governi europei. L’attenzione di Milena Jesenská va infatti alla “vita che non vive”,46 alla condizione degli esseri umani a cui progressivamente vengono negate le condizioni elementari di esistenza, ossia alle centinaia di migliaia di profughi, innanzitutto Tedeschi democratici, che avevano dovuto abbandonare i territori di confine in seguito alla fondazione nel 1933 del Partito dei Tedeschi dei Sudeti, capeggiato da Konrad Heinlein, che rivendicava l’autonomia dalla 45 Vedi H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. a cura di A. Martinelli, Comunità, Torino 1999, pp. 373-419. 46 Vedi Th.W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. it. di S. Solmi, Einaudi, Torino 2004, p. 9.

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Cecoslovacchia e l’annessione al Terzo Reich, consacrata dal Patto di Monaco. Il suo forte senso dei contrasti la porta a vedere con estrema lucidità il modo in cui la falsa pace, concordata tra l’altro all’insegna dei grandi valori del diritto, dell’umanità e della morale, e la guerra possano scambiarsi le parti, come la pace possa essere priva del barlume di giustizia che la guerra mantiene, e come infine le vittime della pace siano una sorta di morti viventi. Sono una testimone ceca del fatto che questi uomini hanno resistito per cinque lunghi anni nel nord del nostro paese. Con incredibile coraggio e decisione si sono schierati dalla parte della Repubblica Cecoslovacca. Lottavano già da cinque anni, e nessuno di noi dovrà mai dimenticarlo. Gli uomini non possono però vivere di gratitudine e di stima addolorata. Se adesso fossimo in guerra, oggi avremmo verosimilmente alcune centinaia di migliaia di morti. In questa pace abbiamo alcune centinaia di migliaia di vittime – vittime in vita. L’uomo che vive vuole mangiare e vivere. E noi, sul cui fronte della pace questi uomini sono caduti, senza morire, non siamo evidentemente in grado di dare loro durevolmente il necessario per vivere.[…] Non siamo però stati noi a volere questa pace. Essa ci è stata imposta. Permettetemi di osservare che “imposta” è una parola troppo debole. Nei giornali si legge del grande riconoscimento tributato alla Cecoslovacchia per il sacrificio che ha fatto in nome della pace mondiale. È un errore. Non abbiamo fatto alcun sacrificio, perché un sacrificio lo si fa solo volontariamente. La verità è un’altra: siamo stati sacrificati e adesso si ammassano da noi alcune migliaia di vittime in vita, nonché gli emigranti tedeschi e austriaci, a cui abbiamo dato asilo. La responsabilità di tutti questi uomini non ricade su di noi, ma sui governi inglese e francese che hanno voluto questa pace.47 47 M. Jesenská, „Beyond our Strength“, in Přítomnost, 12 ottobre 1938, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 178182, in part. p. 180. L’articolo é raccolto anche in «Alles ist Leben», cit., pp. 187-192. Come farò anche per altri articoli compresi in entrambe le raccolte, preferisco citare da quella inglese più recente, che peraltro in alcuni punti diverge dalla traduzione tedesca. Vedi anche „Adieu, Jules Romain“, cit., p. 204. In questa lettera, in cui all’intellettuale francese Milena Jesenská rimprovera la giustificazione del Patto di Monaco, ritorna con toni molto forti il tema del sacrificio volontario:”Quando tuttavia abbiamo ripiegato senza combattere, voi avete riso e esultato – noi abbiamo pianto. Voi avete esultato perché vi era concesso vivere […]

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Milena Jesenská dedicherà altri articoli alle masse di emigrati ebrei che vagavano da una frontiera all’altra senza trovare nessuno che li accogliesse, si accampavano in una “terra di nessuno”, mentre gli stati chiudevano le loro frontiere e, anche nella (per poco ancora) democratica Cecoslovacchia, gli esseri umani iniziavano a essere suddivisi in categorie, i “negri bianchi” (gli emigrati) e i “bianchi”.48 “Terra di nessuno” era il nome assegnato dopo la prima guerra mondiale alla zona tra due fronti. È anche il titolo di un film pacifista di Victor Trivas del 1931, citato da Milena Jesenská. Il film ha quattro protagonisti, un inglese, un tedesco, un nero e un ebreo russo, “quattro animali umani terrorizzati” provenienti dai quattro angoli del pianeta, con lingue, destini e classe sociali diverse. “Profetico” è l’ebreo russo, impersonato dall’attore Vladimir Sokolov: un piccolo ebreo sgualcito che viene dalla terra di nessuno, un uomo muto tra quelli che parlano, emarginato anche tra gli esiliati, con un sorriso e occhi in cui c’è la tristezza di innumerevoli migliaia che passano da un secolo all’altro. Sebbene abbiano una mente, un cuore e un’anima, non possiedono una patria, una casa, non hanno una lingua. Sono, di fatto, muti. […] Anni fa abbiamo visto la terra di nessuno al cinema e, dato che il film si svolgeva nel 1918, pensavamo, stupidamente, che fosse il passato. Allora, tornavamo a casa orgogliosi che la gente stesse camminando mano nella mano verso un radioso e libero futuro. Allora non avevamo ancora sperimentato le strane curve e le deviazioni, gli scambi e i binari morti creati dalla storia.49 Noi piangevamo perché ci era proibito morire – per la nostra causa comune, la causa dei cechi e dei francesi, […]”. La Cecoslovacchia aveva mobilitato l’esercito, in risposta alla concentrazione di truppe tedesche sul confine bavarese e sassone, ma decise di cedere i Sudeti dopo la conferenza di Monaco. 48 Vedi M. Jesenská, “Judge Linch in Europe”, in Přítomnost, 30 marzo 1938, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 149-156, in part. 150-154. Vedi anche «Alles ist Leben», cit., pp. 144-151; „In No-Man’s-Land“, in Přítomnost, 29 dicembre 1938, ibidem, pp. 193-197. Vedi anche «Alles ist Leben», cit, pp. 193-199. 49 M. Jesenská, “In No-Man’s-Land”, cit., pp. 195-196.

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Milena si reca di persona nella “terra di nessuno” ormai a un passo da casa, al confine ceco-tedesco, e si chiede a che cosa assomigli un gruppo di trecento persone che vivono in un campo d’inverno, hanno sulla testa un tetto di grano secco e di foglie e si siedono sulla terra gelata. Che cosa significa questo, nel secolo del progresso tecnologico e di elevati standards di vita? Insieme a lei c’é Marie Schmolková, dirigente della Commissione per i rifugiati, che si occupava in quel momento soprattutto di procurare agli ebrei il visto per Parigi, Londra e Ginevra. Ecco un nuovo ritratto, in cui riemerge la giornalista di moda, che osserva che una donna, impegnata nel suo lavoro giorno e notte, non può essere “carina”, ma di sicuro è “molto bella”. Riemerge anche l’idea di rimettere in movimento umilmente le cose che sembrano senza rimedio. Marie Schmolková conosce uno per uno tutti coloro che hanno valicato il confine negli ultimi cinque anni, conosce i loro destini e i pericoli che hanno affrontato, si muove incessantemente tra malattia, vita e morte, nonché tra autorità di tutti i generi, non vede praticamente altro che disperazione, ma “in seguito a un terribile esercizio”, “opera per estrarre una piccola speranza”. Di qui nascono la sua calma, il suo “umile orgoglio – o la sua umiltà orgogliosa”: non è un funzionario, che fa un lavoro sociale che potrebbe essere descritto in termini di “sacrificio di sé”. Essa traghetta con calma la sua infelice nazione sull’altra riva di un’epoca che l’ha colpita più duramente di altri popoli e nazioni.50

Il punto di osservazione di Milena Jesenská è una piccola nazione al centro dell’Europa, “su un pezzettino di terra, con le mani nude e con una terribile povertà”,51 condannata ormai senza appello. Questa situazione senza vie d’uscita non è solo il luogo in cui si pone la giornalista, ma è la prospettiva adottata per comprendere ciò che sta accadendo. Nel cuore degli avvenimenti, al centro dello scontro, quando si possono difendere “solo due centimetri”,52 non ci sono più schermi o veli che impediscano di guardare in fac50 Ibidem, pp. 193-194. 51 Lettera a Willi Schlamm del gennaio 1939, in M. Jesenská, Lettere 1912-1940, cit., p. 267. 52 Ibidem, p. 268.

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cia il problema etico e politico del presente, quello di chi è completamente fuori gioco, degli individui che non hanno altro modo di incidere sugli avvenimenti se non con il peso delle loro convinzioni di fondo. L’idea di non contare nulla è sbagliata. La più grave malattia dell’individuo europeo è la facilità con cui si ritrae, non offre alcuna resistenza, si arrende e si uniforma “perché bisogna pur vivere!”53

Sta ad ognuno, e non solo ai politici di professione, trovare una via opposta a quella della resa. È necessario tenere presente che Milena Jesenská ha una visione “tragica” della situazione, la considera senza vie d’uscita. Lo documentano le lettere a Willi Schlamm, scritte in tedesco, la lingua del sarcasmo, e in ceco, la lingua del cuore, della fragilità. Non c’è possibilità di equivoco sulla sua consapevolezza di vivere in una “trappola per topi […] finiremo per morire tutti”, sulla conseguente “stanchezza” nei confronti di un futuro ignoto, sul fatto che l’assuefazione al peggio subentra senza accorgersene.54 Nei suoi articoli più vibranti, Milena Jesenská non fa appelli generici o retorici alla resistenza, tantomeno all’eroismo, ma dal punto zero dell’impotenza propone una figura di umanità viva, una postura del corpo che esprime il gesto perentorio, ma calmo, di chi afferma la sua presenza sulla scena degli avvenimenti, e così si interpone, si ritaglia il piccolo spazio della voce, del dire la verità. Si tratta dello “stare fermi”, gesto descritto come quello in cui un individuo sta dritto in piedi, saldo sulle gambe, con le braccia aderenti al corpo. Si potrebbe pensare a un’affermazione, a volte rigida, della propria dignità o delle proprie convinzioni. Nello sviluppo di questa postura, in cui un individuo si espone a viso aperto al cospetto del mondo, interviene invece, quasi imprevedibilmente, il movi-

53 M. Jesenská, “Judge Linch in Europe”, cit., p. 156. 54 Vedi le lettere a Willi Schlamm del 12 agosto 1938, del 18 agosto 1938 e del 17 novembre 1938, in M. Jesenská, Lettere 1912-1940, cit., p. 227, p. 232, pp. 259-265.

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mento contrario, il chinarsi in aiuto, preoccupati per la sorte degli altri.55 Milena Jesenská sa bene che, quando nella vita quotidiana irrompe un evento straordinario, la reazione più comune è la paura e l’insicurezza. Ecco allora che gli individui si mettono in movimento, iniziano ad agitarsi fisicamente e mentalmente, in preda al bisogno di fare qualcosa. Si tratta in realtà del bisogno di allontanarsi da ciò che accade, indietreggiando o fuggendo in avanti. Le persone possedute dal panico, dalla solitudine e dall’assenza di terreno sotto i piedi, compiono atti folli o giocano tiri codardi, agiscono come martiri sebbene nessuno li stia torturando, o fuggono benché nessuno li stia inseguendo. I primi diranno “sono un eroe”, i secondi “sono stato costretto”. Entrambi si mettono al centro degli avvenimenti e danno estrema importanza ai loro comportamenti e ai loro affari personali. L’essenza della paura sta appunto nell’impedire a una persona di stare ferma. Stare fermi significa essere calmi, guardare dritto in faccia qualcosa di non familiare e farvi fronte.56

Stare fermi vuol dire stare nel punto di incrocio e di scontro tra la propria singolarità e ciò che accade. Si tratta del contrario della solitudine. Dal rifiuto di osservare l’accadere solo dalla propria prospettiva, eludendo la contraddizione tra sé e il mondo, nasce il sentimento di non essere soli, ossia di condividere il destino della propria nazione, di appartenere a una comunità. Gli appelli alla di55 Disponendo delle traduzioni inglese e tedesca, posso solo far riferimento ai verbi in esse usati: to stand still e Stehenbleiben e aufrechtstehen. Soprattutto la duplice espressione tedesca restituisce il doppio profilo dello “stare fermi” e dello “stare dritti in piedi”. Il verbo ceco stát, come mi dice l’amico Francesco Tava, racchiude entrambi i significati, con l’importante aggiunta del “sostenere qualcuno”, “prendere le parti”, “stare accanto”. Vedi M. Jesenská, “The Art of Standing Still”, in Přítomnost, 5 aprile 1939, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 210-213. Vedi anche “Die Kunst stehenzubleiben”, in M. Jirásková, Kurzer Bericht über drei Entscheidungen, cit., pp. 99-105. 56 M. Jesenská, “The Art of Standing Still”, cit., p. 210.

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gnità e al coraggio, alla fermezza e alla rettitudine, che riempiono gli articoli del 1938-1939 e esprimono la difesa della fragilissima e minacciata nazionalità ceca, devono essere letti alla luce dello stare eretti, della postura che rappresenta uno dei tratti antropologici fondamentali della specie umana. Fermarsi non significa non agire, essere passivi, inerti: per stare fermi occorre forza, bisogna voler stare fermi, ci vuole coraggio e dignità. Chi sta fermo guarda davanti a sé senza esitazione, non ricorre a sotterfugi, è saldo sulle proprie gambe e non perde di vista l’essenziale. Milena Jesenská scrive di aver appreso nell’infanzia quanto sia difficile non fuggire quando tutti scappano, quanto incredibilmente arduo sia stare fermi quando qualcosa accade. Ciò avvenne il giorno in cui il padre, durante uno scontro tra studenti cechi e studenti austriaci in cui la polizia sparò sulla folla, uccidendo un giovane, restò da solo vicino al cadavere, fermo davanti ai poliziotti armati: Stava lì calmo con le braccia sui fianchi, sul selciato vicino a lui qualcosa di terribilmente strano [...]. Mio padre restò in quella posizione più di un minuto. A me e a mia madre sembrarono anni. Poi si chinò e iniziò a ricomporre il relitto umano accanto a lui sul selciato.57

Per agire occorre dunque che un singolo faccia il contrario di ciò che fanno gli altri. Stare fermi è un gesto di coraggio, ma non è temerario, soprattutto perché non è ispirato dall’essere “contro qualcuno”, bensì dall’essere “per qualcuno e per qualcosa”. Esso genera condivisione, come in un altro esempio citato da Milena Jesenská, quello di una rappresentazione teatrale in tempo di guerra, quando i Cechi non rivendicavano ancora l’indipendenza, ma serbavano in cuore l’orgoglio del carattere ceco. Nel corso di una piéce popolare, viene intonata l’aria, “Dov’è la mia patria?”, che diventerà l’inno nazionale della Repubblica. Allora era solo una vecchia canzone ceca, ma improvvisamente qualcuno si alzò in 57 Ibidem, pp. 210-212. La relazione di Milena con il padre, medico autoritario, libertino e di sentimenti antisemiti, fu molto contrastata. Questo episodio ne mette in luce la complessità.

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Milena Jesenská 1896-1944

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piedi, un signore tranquillo con le braccia vicine ai fianchi. Poco dopo un altro si alzò, quindi altri ancora. La canzone fu ripetuta molte volte “con entusiasmo e ardore, come una preghiera”. Non si trattava di un inno dettato dall’odio, non era un canto militante, bensì del canto di amore per il mite paesaggio ceco, con le sue colline, i campi e le fattorie, le betulle, i salici e i tigli frondosi, un paese di placidi corsi d’acqua e di fragranti ruscelli tra i campi.58 Ben presto Milena Jesenská dovrà affrontare il tema della nazione ceca occupata dalle truppe hitleriane. In vari modi, ne presenterà un’immagine fondata sul senso di una comunità non rassegnata, ma nemmeno impegnata in una lotta inutile, che trova la sua unità in atteggiamenti di dignitosa fermezza, continuando ad andare a lavorare e a mandare i bambini a scuola, adottando silenzi molto eloquenti, e esprimendo gesti di omaggio e di pietà, come deporre un mazzolino di bucaneve sulla tomba del Milite Ignoto nel giorno dell̓ingresso dei nazisti a Praga. E anche questo è inconfondibilmente ceco: non si sentono lamenti, né si avvertono paura o disperazione o lo scatenarsi di sentimenti violenti. Soltanto dolore. In qualche modo deve esprimersi, centinaia di occhi versano lacrime per esso. È senza dubbio così che nascono le tradizioni nazionali, che si pongono le prime pietre di usanze che si tramandano per anni e anni. Ogni 15 marzo le madri ceche andranno con i loro figli a deporre un mazzolino di bucaneve alla tomba del Milite Ignoto. E questo gesto si scolpisce nella coscienza dell’uomo come un grande atto sacrificale.59

È importante notare che l’atteggiamento di sobrietà e dignità di cui sta parlando Milena Jesenská non ha niente a che vedere con la distinzione tra “buoni” e “cattivi”, tra oppressi e oppressori. Può avvenire che anche un soldato tedesco si fermi e saluti, avendo capito che quella gente piangeva perché “lui” era lì, o che un ufficiale tedesco reagisca al fanatismo o all’eccesso di zelo dei cechi che si affrettano a salire sul carro del vincitore.60 Quando le persone si 58 Ibidem, pp. 212-213. 59 M. Jesenská, “Prag, am Morgen des 15. März 1939“, in Přítomnost, 22 marzo 1939, in «Alles ist Leben», cit., pp. 213-217, in part. p. 217. 60 Vedi ibidem, pp. 215-216.

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trovano faccia a faccia, non ci sono più veli, né dichiarazioni come “non potevamo farci niente”, che nascondano la scelta per il servilismo o per la dignità.61 Il coraggio di stare fermi può anche essere “naturale”, come quello del contadino ceco Franta Slezák a cui Milena Jesenská in uno dei suoi reportage chiede che cosa stia facendo: Bene, sto raccogliendo le patate e le rape. È stata una fredda primavera, ma sono cresciute per non so quale miracolo. Devo abbattere due vecchi alberi di mele e piantarne di nuovi.

Alla domanda su cosa avrebbe fatto di fronte ai tedeschi, risponde tranquillamente: Cosa dice, essi vanno per la loro strada e io per la mia. […] Ho i miei campi, i polli, le oche, i miei figli devono andare a scuola, e la fattoria da gestire. Questo sono io.

E ancora alla domanda se non avesse paura: “Di che cosa dovrei aver paura”, e continuò con quel suo meraviglioso umorismo ceco: “In fondo un uomo muore una volta sola, e se anticipa la sua morte, vorrà dire che sarà morto un po’ più a lungo”.62

Anche il contadino sta fermo quando tutti si muovono, non è un eroe né un temerario, il suo coraggio si manifesta nella forma della paziente perseveranza, dell’infaticabile resistenza, del salvare la regolarità del ciclo naturale dalla furia distruttiva senza limiti. È sorprendente come negli ultimi scritti di Milena Jesenská risuonino temi che la letteratura ceca, in particolare Milan Kundera, 61 Quando il giornalismo di Milena Jesenská assumerà la funzione di infondere speranza alla nazione ceca sotto l’occupazione tedesca, non avrà mai toni nazionalistici. Vedi M. Jesenská, “Am I, First and Foremost, Czech?”, in Přítomnost, 10 maggio 1939, in K. Hayes (a cura di), The Journalism of Milena Jesenská, cit., pp. 214-217. 62 M. Jesenská, “Co ocekává Cech od Cecha?”, in Přítomnost, 3 maggio 1939, in Nad naše síli. Češi, Židé a Němci 1937-1939 (Al di sopra delle nostre forze. Cechi, Ebrei e Tedeschi 1937-1939), a cura di V. Burian, Olomouc, Votobia 1997, pp. 208-214.

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Milena Jesenská 1896-1944

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riproporrà dopo l’invasione sovietica dell’agosto 1968.63 Il gesto di interposizione di un singolo, che esce dall’ingranaggio e resta saldo, fu sicuramente alla radice della scelta di restare a Praga, che segnò il destino di Milena. La storia, apparentemente liberata dall’estremo, ha ripresentato la figura sacrificale del singolo che si oppone, come Jan Palach, che si diede fuoco nell’agosto del 1968 sulla piazza San Venceslao davanti ai carri armati sovietici, e come lo studente solo contro altri carri armati in Piazza Tienamen nel 2001. Il carattere “imperdonabile” di ogni gesto di interposizione, ci insegna Milena Jesenská, non sta nel puro e semplice sacrificio di sé, bensì nell’essere una possibilità del corpo e della mente di ogni uomo e di ogni donna, quella di esercitare una forza di contrasto con la “presenza” derivante dal difendere fino in fondo ciò in cui si crede, restando saldi sulle proprie gambe.

63 Vedi M. Kundera, Le livre du rire et de l’oubli, Gallimard, Paris 1979, pp. 37-38, dove si parla di una vecchia signora irritata per il fatto che, a causa dell’invasione del suo paese da parte dei carri armati, il suo vicino non aveva potuto venire a raccogliere le pere. L’autore commenta. “Eppure i carri sono veramente più importanti delle pere? Man mano che il tempo passava, Karel capiva che la risposta a questa domanda non era così evidente come lui aveva sempre pensato, e cominciava a provare una simpatia segreta per la prospettiva della mamma, in cui c’era una grande pera in primo piano e da qualche parte, sullo sfondo, un carro non più grande di un moscerino che da un momento all’altro si alza in volo e si nasconde allo sguardo. Ebbene, sì: mamma ha ragione: il tank é perituro e la pera é eterna”.

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ETTY HILLESUM 1914-1943

Il mio dottore si arrabbia tutte le volte che arrivo da lui con un gran sorriso sulla faccia, secondo lui é imperdonabile che si rida di questi tempi.1

Sabato 14 giugno 1941 Ieri, per un momento, ho pensato che non avrei potuto continuare a vivere, che avevo bisogno d’aiuto. La vita e il dolore avevano perso il loro significato, avevo la sensazione di «sfasciarmi» sotto un peso enorme, ma anche questa volta ho combattuto una battaglia che poi all’improvviso mi ha permesso di andare avanti, con maggiore forza. Ho provato a guardare in faccia il «dolore» dell’umanità, coraggiosamente e onestamente, ho affrontato questo dolore o piuttosto lo ha fatto qualcosa in me stessa, molti interrogativi disperati hanno trovato risposta, l’assurdità completa ha ceduto il posto a un po’ più di ordine e di coerenza: ora posso andare avanti di nuovo. È stata un’altra breve, ma violenta battaglia, ne sono uscita con un pezzo di maturità in più. Ho scritto che mi sono confrontata col «dolore dell’Umanità» (questi paroloni mi fanno ancora paura), ma non è del tutto esatto. Mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno alcuni problemi del nostro tempo. L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire. Forse, su questo punto, io sono davvero molto ospitale, a volte sono davvero come un campo di battaglia insanguinato e poi lo pago con un gran sfinimento e un forte mal di capo. Ma ora sono semplice1

E. Hillesum, Lettere1942-1943, tr. it. a cura di C. Passanti, Adelphi, Milano 1990, p. 53 (lettera a Osias Kormann, 24 marzo 1943).

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mente me stessa: Etty Hillesum, una laboriosa studentessa in una camera ospitale con dei libri e un vaso di margherite. Scorro di nuovo nel mio stretto alveo e il contatto con «Umanità», «Storia Universale» e «Dolore» si è interrotto un’altra volta. Così deve essere, del resto, altrimenti una persona impazzirebbe. Non ci si può sempre perdere nei grandi problemi, non si può essere sempre come un campo di battaglia; dobbiamo poter recuperare i nostri stretti confini e continuare dentro di essi – scrupolosamente e coscienziosamente – la nostra vita limitata, mentre quei momenti di contatto quasi «impersonale» con tutta l’umanità ci rendono ogni volta più maturi e più profondi. Forse, in futuro, saprò esprimermi meglio, o farò dire queste cose a un personaggio di una novella o di un romanzo, ma sarà solo tra molto tempo.2 3 ottobre 1942 Certo, è il nostro totale annientamento! Ma sopportiamolo con grazia. In me non c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poeta. In un campo deve pur esserci un poeta, che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare. Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, circondata da donne e ragazze che russavano piano, o sognavano ad alta voce, o piangevano silenziosamente, o si giravano e rigiravano – donne e ragazze che dicevano così spesso durante il giorno: «non vogliamo pensare», «non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze» -, a volte provavo un’infinita tenerezza, me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe impressioni di un giorno fin troppo lungo, e pensavo: «Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca». Ora voglio esserlo un’altra volta. Vorrei essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento. Sono coricata qui con tanta pazienza e di nuovo calma e già mi sento assai meglio; leggo le lettere di Rilke Su Dio e ogni sua parola è carica di significato per me, avrei potuto scriverle io stessa, se le avessi scritte io le avrei scritte così e non diversamente. 2

E.Hillesum, Diario 1941-1943. Edizione integrale, tr it. a cura di J.G. Gaarlandt, Adelphi, Milano 2012, pp.112-113. Vedi E. Hillesum, Etty. De nagelaten geschriften van Etty Hillesum 1941-1943, a cura di K.A.D. Smelik, Uitgeverij Balans, Amsterdam 1986 (tr. ingl. di A.J. Pomerans, Etty. The Letters and Diaries of EttyHillesum 1941-1943, W. Erdmans, Michigan-Cambridge 2002). L’edizione integrale é suddivisa secondo gli undici quaderni lasciati da Etty Hillesum.

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Mi sento anche la forza di partire, non penso più a far progetti e a correre rischi, andrà come andrà e sarà per il meglio.3

Etty Hillesum volle farsi “campo di battaglia”, volle ospitare dentro di sé i problemi del tempo per non rendere ancora più inospitale il mondo, aggiungendogli anche solo un atomo di odio. Era una donna giovane alla ricerca del suo equilibrio nel mezzo della persecuzione antiebraica in Olanda. Tutto accade molto velocemente: a ventisette anni incontra Julius Spier, carismatico terapeuta, si innamora di lui, vivendo il desiderio di possesso e la paura della perdita. Spier la libera presto dalla “costipazione spirituale”. Etty Hillesum parte infatti dall’aridità, da qualcosa che è coperto di pietre e di sabbia, e che bisogna dissotterrare. Come per molte donne, è l’amore che smuove la sabbia. Come per molti ebrei, il sommovimento è generato anche dal cartello “vietato agli ebrei”, che compare improvvisamente su un albero, insieme a restrizioni sempre più pesanti della libertà di movimento. Nel marzo 1941 Etty Hillesum, su consiglio di Spier, inizia a scrivere un diario, e insieme un lavoro su di sé. La guerra è in corso, il destino del lager incombe sugli ebrei anche nella tollerante Olanda, la formazione di sé avviene in condizioni estreme, il quaderno è “campo di battaglia” delle parole,4 scrivere si pone sulla stessa lunghezza d’onda dell’agire, del capire che cosa sta succedendo, dell’occuparsi degli altri. Il diario non ha nulla di introspettivo, né è la scena di un conflitto tra le inclinazioni soggettive e gli obblighi imposti dall’esterno. È un’educazione al sentire, una vigilanza sui propri sentimenti, mossa interamente dagli avvenimenti, che passerà attraverso molte cose: raccogliersi su di sé nella scrittura del diario, tenere una corrispondenza, stare con gli altri – come farà nel campo di Westerbork, andando di qua e di là, spesso senza fare niente di speciale, ascoltando, sedendosi accanto, scambiando una parola, mettendo una mano sulla spalla – anticipare con l’immaginazione i dolori altrui, infine dialogare direttamente con Dio e pregare. L’io che compie la me3 4

Ibidem, pp. 787-788. Ibidem, p. 761.

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ditazione interiore si rivolge sempre ad altro: l’altra se stessa, ciò che altri provano e sentono, il futuro, un tu che è Dio. Un’educazione interiore in condizioni estreme non ha soluzione di continuità con il leggere le emozioni altrui, comprendere gli avvenimenti politici, scrivere. Ecco perché il segno più sconvolgente lasciatoci in eredità da Etty Hillesum, la tenacia di amare nonostante tutto, l’accettazione paziente della sofferenza, assumono un valore di conoscenza della realtà e di trasformazione del sentire e del pensare, che va molto oltre un edificante esempio di altruismo. Vita privata, amori, inquietudini di una giovane donna libera, ben poco preoccupata della morale convenzionale, storia e politica, la guerra e lo sterminio degli ebrei: tutto si somma nella sua esistenza, vissuta nella forma di una strenua ricerca di ampliamento dell’esperienza, di affinamento della capacità di sentire – dalla sensibilità corporea (gesti, cose, movimenti, odori, colori, compresi i malanni fisici) alle emozioni (aver paura, sperare, gioire, amare, odiare). È così che, nell’ospitare tutto ciò che lei stessa e la storia fanno accadere e che accade agli altri, Etty Hillesum si prende cura delle anime, pensa al tragico futuro del suo popolo e insieme al futuro dell’Europa. Ogni brano del diario, ogni lettera contiene tutto ciò che lei ha vissuto, sentito, pensato, fatto. Ecco perché gli scritti di Etty Hillesum, inclassificabili rispetto ai generi della poesia, del racconto, della cronaca o della meditazione spirituale, mantengono, in ogni citazione, in ogni lettura, il suono della sua viva voce. Passività Imperdonabile in Etty Hillesum è l’atteggiamento assunto di fronte alla persecuzione. Alcuni non le perdonano il rifiuto di cercare una via di salvezza, il fatalismo e la passività. Altri vi hanno colto invece una forma di “resistenza esistenziale”.5 5

Vedi T. Todorov, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio?, tr. it. Garzanti, Milano 1992, pp. 211-214, 216-222; per la tesi opposta, vedi La resistenza esistenziale di Etty Hillesum, numero monografico della rivista Alfazeta 60,VI,10-11, 1996.

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Fu Etty Hillesum a scegliere di lavorare presso il Consiglio ebraico di Amsterdam, di cui denunciò gli intrighi e le complicità con i nazisti. Fu lei a decidere di andare nel campo di Westerbork, che serviva da tappa di smistamento prima di Auschwitz. Fu lei a rifiutare le opportunità di nascondersi e di fuggire che erano a portata di mano di molti ebrei con buone relazioni sociali. Passività in Etty Hillesum, è chiaro, non fu rinuncia a resistere, a indignarsi, a giudicare. Fu rifiuto di combattere la persecuzione nella forma della rivolta, dell’odio, del disprezzo, della scelta di campo, ideologica o combattente. Fu non prendere iniziative contro il destino della deportazione, stare nel lager e di lì guardare alla persecuzione antiebraica e allo sterminio, mettendo al centro le questioni fondamentali dell’esistenza: l’umanità, il dolore, la morte, la vita, il futuro. Qui sta il paradosso di Etty Hillesum, facile da santificare, ma altrettanto difficile da comprendere. Le lettere che scrive da Westerbork non parlano dell’esperienza di perdita dell’umanità, che ci è stata consegnata dalla letteratura sulla Shoah. Forse sono reticenti per non turbare gli amici e i parenti. Il loro tema di fondo sono i sentimenti di odio, di rancore, di paura, e insieme la persistente fiducia nell’umano, nella bellezza, nella verità e nell’amicizia. 14 luglio 1942 Ognuno deve vivere con lo stile suo. Io non so farmi avanti per garantirmi quella che può sembrare la mia salvezza, mi pare una cosa assurda e divento irrequieta e infelice. Quella lettera in cui faccio domanda al Consiglio Ebraico, scritta su insistenza di Jaap, per un po’ mi ha fatto perdere l’equilibrio – lieto e insieme serissimo – che avevo oggi. Quasi fosse un’azione indegna – questo star tutti addosso a quell’unico pezzetto di legno che va alla deriva sull’oceano infinito dopo il naufragio, questo salvare il salvabile, spingersi a forza di gomiti, provocare l’annegamento altrui, tutto così indegno: e poi, questo spingere non mi piace. Io appartengo piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un po’ sull’oceano, stese sul dorso e con gli occhi rivolti al cielo, finché – con un gesto rassegnato e devoto – vanno a fondo per sempre. Io non posso fare diversamente. Le mie battaglie le combatto dentro di me, contro i miei demoni; ma combattere in mezzo a migliaia di persone impaurite, contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine, no, questo non è proprio il

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mio genere. Non ho neppure paura, non so, mi sento così tranquilla, talvolta mi sembra di trovarmi in alto sui merli del palazzo della storia e di far correre lo sguardo su territori lontani. Mi sento in grado di sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo, senza soccombere. So tutto quel che capita e la mia testa rimane lucida. Talvolta è come se sul mio cuore venisse sparso uno strato di cenere. O come se sotto i miei occhi il mio viso appassisse e si dissolvesse, e nei suoi lineamenti grigi i secoli si inabissassero uno dopo l’altro, e tutto si disfacesse, e il mio cuore lasciasse andare tutto. Sono solo brevi momenti, dopo di che ritrovo ogni cosa e la mia testa ridiventa lucida, e sono di nuovo in grado di sopportare benissimo questo pezzo di storia. Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare, e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata. Com’è singolare tutto ciò. Riesco a capire un pezzetto di storia e di umanità, ma per ora preferisco non scrivere, avrei l’impressione che ogni parola sbiadirebbe e invecchierebbe all’istante, come se la parola nuova capace di sostituire quella vecchia abbia ancora da nascere. Se io fossi in grado di registrare molte cose che penso e che sento e che talvolta mi si chiariscono in un baleno – cose che riguardano questa vita, gli uomini, e Dio – sono sicura che ne potrebbe venir fuori qualcosa di molto bello. Continuerò ad avere pazienza e lascerò maturare ogni cosa dentro di me. Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro povero corpo. Lo spirito viene dimenticato, s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in modo sbagliato, senza dignità e anche senza coscienza storica. Con un vero senso della storia si può anche soccombere. Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito. Se sapessero come sento e come penso, molte persone mi considererebbero una pazza che vive fuori dalla realtà. Invece vivo proprio nella realtà che ogni giorno porta con sé. L’uomo occidentale non accetta il «dolore» come parte di questa vita: per questo non riesce mai a cavarne fuori delle forze positive. Bisogna che cerchi quelle due o tre frasi che avevo già trascritto da una lettera di Rathenau. Eccola qui. Ecco cosa mi mancherà: qui basta che allunghi una mano, e subito ritrovo le parole e i frammenti di cui il mio spirito ha bisogno in un determinato momento. Bisogna invece che abbia tutto in me stessa. Si deve anche essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur

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sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera.6

La passività di Etty Hillesum non può essere letta nei termini dell’antitesi di interiorità e storia, morale e politica. Certo, è patire in senso letterale, perché è sprofondamento dentro di sé, nell’intensità del sentire, è essere colpita, contro la propria volontà, dagli avvenimenti del mondo. Sconcertante è il fatto che quel patire sia stato trasformato in energia di vita, di autoformazione, di scrittura, di relazione, di interpretazione della realtà. Come è stato possibile? La passività di Etty Hillesum ha la capacità di contenere l’interezza della condizione umana. È un sentire provocato da avvenimenti gravissimi, e insieme è il sentirsi di una giovane donna. È il fondo immobile eppure ardente, la crosta dura che può essere temprata, ma non deve essere ammorbidita, pena la sua distruzione. Passività, è meglio ricordarlo perché ciò riguarda la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne che hanno a che fare con gli avvenimenti economici, storici e politici dell’epoca attuale, e si sentono sopraffatti da forze più grandi di loro, non significa stare fuori della storia, in un mondo a parte, bensì essere a contatto diretto con ciò che accade, essere attraversati, spesso inchiodati da forze incommensurabili alla fragilità del singolo individuo. In Etty Hillesum questa condizione assunse una forma strettamente singolare – lo sconvolgimento esistenziale, la difficoltà e la necessità di capire, l’accelerazione della propria maturazione – e insieme impersonale, quella dell’amore e del dolore, che le faranno incontrare l’essenza di sé, degli altri, del proprio tempo e di Dio. Certo, si tratta di uno stare nella croce del tempo, che mette fuori gioco l’impegno politico o ideologico. Etty Hillesum sta nel centro di avvenimenti tragici con la semplicità di un cammino di educazione allo studio, all’amore, all’amicizia, in una parola, preparandosi a vivere la vita, come qualsiasi giovane donna della sua età. È così che arriva al punto in cui tutto può avere inizio: la scrittura, la fede, la vita quotidiana. In quel punto, tuttavia, prima di realizzare opere, azioni, accadrà qualcosa di decisivo. Etty Hil-

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E. Hillesum, Diario, cit., pp. 717-718.

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lesum diventerà semplicemente “balsamo per le ferite”, si preoccuperà di ospitare la vita degli altri nella propria vita. Etty Hillesum voleva diventare una scrittrice, più precisamente, una “cronista di tanti fatti di questo tempo”.7 All’inizio, scrivere è un compito personale, che deve aiutarla a sciogliere i garbugli interiori. Rapidamente si trasforma nel bisogno di trovare le parole per descrivere ciò che accade. Scrivere implica scavare all’interno della propria vita uno spazio di concentrazione, evitando che tutte le energie vengano consumate nel fare.8 È il raccoglimento, il ritorno presso di sé nel tranquillo interno nordico – il tavolo, la luce della lampada, il cielo fuori con le veloci nubi, l’albero di fronte – piazzato al centro della battaglia. È difficile trovare le parole, forse è un problema di immaturità personale. In realtà, c’è una novità talmente radicale in ciò che accade che quanto è scritto sui libri si rivela inutilizzabile: i discorsi circolanti sono solo confusione e equivoco. È necessario tacere, aspettare che le parole vengano, che ciò che adesso sembra incomprensibile diventi più chiaro, più semplice. L’attesa non è quiete, ma esercizio, ricerca.9 Torna il paradosso della passività: da un lato, Etty Hillesum si sente blocco di granito modellato dalle intemperie, dall’altro, officina in cui ci si affatica senza sosta.10 Inizia così a disegnarsi un ritmo di passività e di attività nell’ambito del quale si profilano i caratteri della parola necessaria per descrivere ciò che accade. La lettera del 24 agosto 1943, che può essere letta come un compiuto reportage da Westerbork, è scandita dal “non ci sono parole” – “eppure devo”.11 Il suo pensiero va a una parola essenziale, semplice come la poesia – “rade pennellate su un ampio, muto sfondo fatto di Dio, Morte, Dolore, Eternità” – che rappresenta quanto resta di indicibile e di incomprensibile, e che la parola deve rendere percepibile attraverso il suo carattere di mistero.12 Occorre però

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Vedi ibidem, p. 145, p. 554, p. 707, p. 743. Vedi ibidem, pp. 760-761. Vedi ibidem, pp. 705-706. Ibidem, p. 591. Vedi E. Hillesum, Lettere, cit., pp. 128-144. E. Hillesum, Diario, cit., p. 579, p. 706, pp. 766-767.

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anche la “spietatezza” delle parole che sanno entrare nella carne, e la penna stilografica deve essere usata come un “martello”.13 La parola trovata dovrà essere usata solo nel momento in cui assume significato vitale per gli esseri umani, quando diventerà “di sua competenza”, ossia intessuta di esperienza.14 Sarà inoltre importante scrivere, non solo del crollo e della distruzione, ma anche del nuovo inizio, della preparazione di ciò che verrà. Occorrerà mettere a confronto diverse voci e diverse esperienze. Lo spazio che Etty Hillesum voleva lasciare intorno alle parole, il silenzio che le parole non devono coprire o velare, ma accentuare, non è un vuoto, è piuttosto quanto lei sta pensando e vivendo, guardando sempre più a fondo, con occhi e orecchi ben aperti. Scrivere è addossarsi il peso, non sgravarsi di esso, ma purificarlo, essenzializzarlo, renderlo importante. È quindi un compito che va di pari passo con l’affinamento della sensibilità, con l’educazione del sentire. È ormai chiaro che la “passività” di Etty Hillesum esprime interamente le coordinate del suo essere. Raccoglimento su di sé, concentrazione e silenzio, nutrimento spirituale attinto dai libri, dallo studio, dalle persone, da sentimenti di riconoscenza e di gratitudine – “la vita bella e ricca di significato” – e da un lucido senso di realtà – stare “saldamente piantata sulla terra più dura della realtà più dura”.15 Una delle sue prime reazioni, quando è ancora una giovane donna libera di andare in bicicletta e di frequentare il suo amante, di fronte alle notizie sulla guerra e sulle privazioni che le erano ancora risparmiate, è il complesso di colpa: dovrà sacrificare la stanza grande tutta per sé, rinunciare allo studio, alla propria coltivazione spirituale? La risposta non è la scelta di vita, l’inversione di rotta: è la fedeltà a se stessa, alla propria vita interiore, vista sotto il profilo di ciò che sta germogliando. Da questo punto, che non si maschera dietro imperativi generali e astratti ( la lotta politica, il sacrificio), diventa possibile ospitare i duri fatti nella propria testa e nel proprio cuore. Diventa anche possibile assumere un atteggia13 Ibidem, p. 31, p. 707. 14 Ibidem, p. 575. 15 Ibidem, p. 711.

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mento che va nella direzione opposta rispetto all’agitazione sterile e al pensare solo a se stessi. In quel manicomio [l’ufficio del Consiglio ebraico in cui lavora] io ascolto la mia voce interiore, e tiro dritto per la mia strada.[…] In quel luogo io mi do le mie norme di comportamento e vado e vengo a parer mio. In mezzo a quel caos e a quella miseria vivo talmente con un ritmo mio che a ogni istante, mentre batto a macchina quelle lettere, posso rituffarmi nelle cose che trovo importanti. Non è un isolarmi dal dolore che ho intorno, non è neppure una forma di apatia. Sopporto e custodisco tutto dentro di me, ma tiro dritto per la mia strada.16

Inizia così il lavoro sui sentimenti, teso a eliminare ogni odio, amarezza, paura, disperazione, perché troppo legati all’io singolo, sproporzionati rispetto alla “fatalità” degli avvenimenti.17 Il grande odio per i tedeschi avvelena l’animo, è anch’esso una forma di generalizzazione, di linguaggio stereotipato che, oltretutto, rivendica una falsa purezza e innocenza per sé. Etty Hillesum si sforza di guardare all’individualità dei singoli uomini e donne, proprio ciò che la guerra impedisce di vedere, e legge nel comportamento dell’aguzzino e del kapò un tratto che può comparire anche sul volto della vittima. La paura per sé, l’odio devono essere rimpiazzati dall’esperienza del dolore che, come l’amore, fa parte della vita.18 Il dolore diventa allora pietas, lucida constatazione del male, rifiuto di erigersi a giudice dei cattivi, perché le malattie dell’anima riguardano tutti. L’educazione al sentire è un passaggio dai sentimenti centrati sull’io – ribellione, avversione, conflitto, speranza, paura – al sentire inteso come amore, passione che non si misura sul possesso, ma sul rispetto di ciò che esiste in sé, indipendentemente dall’intervento del soggetto. È questa la “fatalità” degli avvenimenti, che in Etty Hillesum non ha nulla a che vedere con un destino accettato passivamente, ma ha la grandezza tragica di ciò che sovrasta l’iniziativa individuale, e deve essere guardato in faccia, rinunciando a vedere gli avvenimenti nella prospettiva ristretta del proprio io. 16 Ibidem, pp. 732-733. 17 Ibidem, pp. 733-734. 18 Ibidem, pp. 385-386.

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Il sentire, che non è effusione o ingombro del sé, ma spazio purificato, lasciato aperto per altro, consente anche di essere buoni senza preoccuparsi del successo della bontà, ossia, nel caso concreto, della vittoria sulla persecuzione antiebraica. Ma stanotte aiuterò a vestire tutti i bambini piccoli e tenterò di calmare le madri e chiamo questo «aiutare». Potrei quasi maledirmi da sola: sappiamo bene che abbandoneremo le persone indifese e malate del campo alla fame, al caldo e al freddo, alla vulnerabilità e alla distruzione, eppure le vestiamo noi stessi e le accompagniamo ai nudi carri di bestiame, e se non sono in grado di camminare le portiamo sulle barelle. Che avviene qui, che misteri sono questi, in quale meccanismo funesto siamo impigliati? Non possiamo liquidare il problema dicendo che siamo tutti dei vili. E poi, non siamo così cattivi. Ci troviamo di fronte a interrogativi più profondi.19

Si può considerare passività o irenismo o presa di posizione puramente morale questa convinzione della necessità di mutare innanzitutto se stessi come premessa di un mondo diverso? Si tratta certo di una proposta non politica, ma essa ha il valore di un’interpretazione generale del mondo e dell’esistenza umana. È vero che pensarla in questo modo vuol dire sentirsi come “un palo ritto in un mare infuriato, fra le onde che lo battono da ogni parte”.20 Ciò significa tuttavia non affidarsi eroicamente alle proprie forze, ma combattere facendosi attraversare dall’infecondità della violenza e della sofferenza che gli uomini infliggono a sé e agli altri. E implica infine esercitare una vigilanza severa sui propri sentimenti, e insieme umanizzare la sofferenza, toglierle l’aspetto puramente fisico e materiale, che disumanizza, e reintegrarla nella condizione umana. Etty Hillesum, in una parola, ha la forza di sopportare tutto, e la attinge innanzitutto al ruolo fondamentale attribuito alla sensibilità: la vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innu-

19 E. Hillesum, Lettere, cit., pp. 130-131. 20 E. Hillesum, Diario, cit., p. 145.

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merevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio [...].21

L’accostamento di tanti aspetti del reale dà vita a un universo molteplice: i campi di concentramento e le poesie di Rilke, il tramonto nel cielo di Westerbork, il pianto di un bambino e la carezza di sua madre. Invece di ottundere i propri sensi – non voler pensare e non voler sentire, illudendosi di espellere la sofferenza fuori di sé – il dolore e la morte, accettati come parte della vita, accrescono l’ampiezza della realtà, mostrano che essa non ha un’unica dimensione, ma è molteplice e contraddittoria. Ciò crea dolore e stridore, e probabilmente qui si consuma la vicenda di Etty Hillesum. Il suo altruismo, la capacità di assumere su di sé il dolore degli altri rivelano la durezza di un’esperienza concretamente vissuta nel momento in cui il suo desiderio di essere poeta, scrittrice, di tenere qualcosa per sé, di avere, molto semplicemente, un futuro, viene completamente travolto dall’urgenza di vivere tutto, di ospitare tutto, di sopportare tutto. Non volle fuggire, non volle nascondersi a ogni costo, perché non voleva essere strappata al fondamento della sua esistenza: aveva capito che la sofferenza era già dentro di lei, faceva parte di lei, era già da sempre lì. Il problema diventava allora soffrire in profondità, non in superficie, allargare l’orizzonte della propria anima, non inaridirsi, non avvizzire. Si è visto che Etty Hillesum accetta il silenzio, il margine di ciò che ha bisogno di una “lingua nuova”22 per essere espresso. Il silenzio è il luogo in cui stanno i “duri fatti”, ed è anche lo spazio enigmatico che riassume il suo destino. Non si tratta però di uno spazio vuoto, muto, senza espressione. Nel vuoto, nell’assenza di parole e di pensiero, Etty Hillesun vede infatti il “rischio morale” della sua epoca. Il silenzio è piuttosto uno spazio di attesa, di orientamento verso il futuro. Sta qui la chiave per capire fino in fondo il significato della sua accettazione della realtà del lager.

21 Ibidem, p. 675. 22 Ibidem, p. 743.

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Certo che non è così semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione -, allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza, oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena, e in circostanze quasi altrettanto difficili. E forse allora, sulla base di una comune e onesta ricerca di chiarezza su questi oscuri avvenimenti, la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti. Per questo mi sembrava così pericoloso sentir ripetere: «non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa miseria». Come se il dolore – in qualunque forma ci tocchi incontrarlo – non facesse veramente parte dell’esistenza umana.23

Il movimento fondamentale, al centro dell’esperienza estrema di Etty Hillesum, l’“ospitare nelle nostre teste e nei nostri cuori” i “duri fatti”, è dunque volgersi verso ciò che non è ancora, prefigurare, anticipare il futuro. Compassione e immaginazione Etty Hillesum aveva studiato e insegnava il russo, la lingua di sua madre. Amava e conosceva bene anche il tedesco. Il russo era probabilmente la lingua delle origini, il tedesco la lingua del futuro, delle cose importanti da pensare. Due lingue “straniere”, che concorrono a disegnare le radici e il progetto di vita, l’idea di sé e della maturità di scrittrice che avrebbe voluto raggiungere se la persecuzione non le avesse precocemente tolto la vita. Nel diario e nelle lettere compaiono alcune parole tedesche – che rimangono tali perché “difficili da tradurre in olandese”, o perché usate in maniera colloquiale: hineinhorschen, hineinhören (ascoltare dentro), vorwegnehmen (anticipare), Bedeutungsschwere (carica di signifi23 E. Hillesum, Lettere, cit., pp. 34-51, in part. 44-6. Si tratta della lettera del dicembre 1942 a “due sorelle dell’ Aia”, pubblicata dalla Resistenza olandese nel 1943. In essa si trova un ampio resoconto della situazione nel campo di Westerbork.

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cato), Spielerei (passatempo), ausklingen (smorzare). Queste parole segnano punti cruciali del suo percorso spirituale: appaiono familiari, come è normale presso una giovane colta, e insieme rappresentano porte che si spalancano verso un altrove, il futuro, la vocazione letteraria, ma anche un mondo che oltrepassa di molto i confini della sua persona. Come avviene spesso negli scritti che ci ha lasciato, una pagina di diario contiene tutto, è un’espressione compiuta del suo mondo spirituale. Ecco infatti che in un lungo brano datato 4 aprile 1942, al progetto di un viaggio in Russia, che avrebbe compiuto come “inviata dell’Europa”, per poi tornare “in Europa come inviata della Russia”, si accompagnano due lunghe citazioni da una lettera di Rilke a Lou Andreas Salomé dell’8 agosto 1903. Il sogno di andare in Russia, e le considerazioni sull’arte del poeta boemo di lingua tedesca, da lei amatissimo, che aveva già narrato il proprio viaggio in Russia, compiuto nel 1900 in compagnia di Lou Andreas Salomé, si collegano strettamente in una pagina che dà con estrema vivezza la tensione verso il futuro, la progettualità di Etty Hillesum. L’Europa sono io stessa, risiede in me; in futuro userò tutta la mia coscienza, il mio sapere e la mia intuizione per esplorare la Russia e raccontare poi come è all̓Europa. Credo che a lungo andare il mio percorso sfocerà lì, che tutto quello che io raccolgo in me stessa e le cose attorno a cui raggrumo me stessa, tutto contribuirà a creare le condizioni perché io possa comprendere quel paese, assorbirlo in me e dare forma alle esperienze che farò là. Kto znayet [chi sa?].24

Nel momento in cui si pensa intermediaria tra la Russia e l’Europa, Etty Hillesum propone lo schema della formazione di sé, che attraversa i suoi scritti, e costituisce il miracolo della sua esperienza di giovane ebrea perita nella Shoah. La concentrazione su di sé, la maturazione della sua persona – un sé che è l’Europa – innescano un doppio movimento: trampolino di lancio verso il lontano, verso la Russia da “esplorare” – la Russia di Tolstoj e di Dostoevskij, ma anche quella del socialismo – e ritorno presso di sé, in Europa, nella forma di un “assorbimento”, di un “dare forma alle 24 E. Hillesum, Diario, cit., p. 480.

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esperienze” vissute là, raccontandole. Il programma della sua futura attività di scrittrice si precisa come scelta di una forma da conferire alla sua vita intera attraverso la citazione dalla lettera di Rilke all’amica: “Questo cercavo già quando andai da Rodin; perché, presago, sapevo da anni dell’infinito esempio e modello della sua opera. Ora che vengo da lui, so che anch’io non potrei volere e cercare altre realizzazioni se non quelle della mia opera; là è la mia casa, là sono le figure a me veramente vicine, là sono le donne di cui ho veramente bisogno, là i figli che cresceranno e vivranno a lungo. Ma come cominciare a percorrere questo cammino – dov’è nella mia arte il mestiere, il suo punto più profondo e più umile dal quale mi sia concesso iniziare a operare? Voglio percorrere a ritroso ogni cammino fino a quell’inizio, e tutto ciò che ho fatto non sarà stato nulla, meno ancora dello spazzare una soglia su cui il prossimo ospite lascerà di nuovo l’orma della via. Ho in me pazienza per secoli e voglio vivere come se il mio tempo fosse lunghissimo. Voglio concentrarmi al riparo da tutte le distrazioni, voglio recuperare quanto di mio ho troppo rapidamente prodigato e risparmiare. […] Ma pur sempre mi mancano ancora la disciplina, la capacità e la volontà di lavorare che bramo da anni. Mi manca la forza? La mia volontà è malata? È il sogno che in me ostacola tutto l’agire? I giorni passano e talvolta sento la vita passare. E ancora non è accaduto nulla, ancora non c’è nulla di reale attorno a me; e io continuo a dividermi e scorro divaricandomi, – e desidererei scorrere in un letto e diventare ampio. Perché, Lou, non è forse vero che così deve essere? Dobbiamo essere come un fiume e non dividerci in canali per portare acqua ai pascoli. Non è forse vero che dobbiamo tenerci uniti e mormorare? Forse potremo, quando saremo molto vecchi, una volta, proprio alla fine, cedere, ampliarci e sfociare in un delta, cara Lou […]”.25

Etty Hillesum trasferisce spesso direttamente nelle riflessioni del diario le espressioni di Rilke, il poeta di cui annota e trascrive interi brani tratti da poesie e da lettere, come se fossero le parole, le frasi infine trovate per esprimere ciò che urge dentro di lei. Di25 Ibidem, p. 479. Vedi R. M. Rilke- L. Andreas-Salomé, tr. it. Epistolario, a cura di E. Pfeiffer, La Tartaruga, Milano 1984, p. 69.

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venta così perfettamente riconoscibile il modello di formazione a cui Etty Hillesum si ispirava. Un modello di sviluppo armonico e unitario, spesso paragonato alla crescita di una pianta o alla maturazione di un frutto, fondato sulla necessità di ciò che si vuole essere, sul non poterne fare a meno. Armonia e compiutezza da conquistare senza fretta e impazienza, assecondando un tempo più naturale che soggettivo, un tempo soprattutto che, come l’eterno, non conosce misura. “Pazienza è tutto” e “vivere tutto” sono le massime erette da Etty Hillesum a caposaldo della propria formazione. Esse derivano direttamente dalle Lettere a un giovane poeta (1929) di Rilke: Tutto è portare a termine e poi generare. Lasciar compiersi ogni impressione e ogni germe d’un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto di una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere da artista: nel comprendere come nel creare. Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni sono nulla. Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senz’apprensione che l’estate non possa venire. Ché l’estate viene. Ma viene solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri di ogni ansia. Io l’imparo ogni giorno, l’imparo tra dolori, cui sono riconoscente: pazienza è tutto!26

Nei brani di diario del febbraio 1942 la citazione delle ultime righe del passo di Rilke diventa il motto di Etty Hillesum.27 E ancora il 20 febbraio del 1942: Riesco a infuriarmi talmente tanto con quelli che dicono che Rilke è «debole». Non è affatto così. In lui c̓è una forza dura come il diamante. Vedi, per il momento mi manca la pazienza di trovare le parole giuste, grazie alle quali attestare la forza che sento il lui. Ma prima o poi ci riuscirò. 26 R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1980, pp. 256. 27 E. Hillesum, Diario, cit., p. 363.

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In realà, è così triste che persino una donna come Ilse Blumenthal, che ha avuto con lui una lunga corrispondenza, dica di lui a posteriori: «già, in realtà è debole». Da Rilke «non si torna indietro», una volta che lo si è letto bene. Se non lo si porta con sé per tutta la vita, non ha neanche senso leggerlo. Non riuscendo a offrire i miei personali commenti, sono ancora in una fase in cui trascrivo con grande piacere i suoi brani. Ebbene, ora devo trascrivere passi come il seguente: “Voi siete così giovane, così al di qua di ogni inizio, e io vi vorrei pregare quanto posso, caro signore, di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel vostro cuore, e tentare di aver care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercate ora risposte che non possono venirvi date perché non le potreste vivere. E di questo si tratta, di vivere tutto. Vivete ora le domande. Forse v’insinuate così a poco a poco, senz’avvertirlo, a vivere un giorno lontano la risposta”. Ora mi sento vicina a colui che sta parlando al giovane poeta. E solo ora, ora che comincio a «vivere le domande», capisco quelle parole. Nel periodo in cui dovevo ancora «viverle», non ero assolutamente in grado di capire. Devo regalare questo libricino a persone molto giovani per aiutarle a capire. Si può aiutare solo quando si vive in sintonia con ciò che si desidera chiarire agli altri; [...].28

La fine percezione di sé, il lavoro intimo condotto in solitudine, completano il modello di autoformazione che Etty Hillesum prende dalle Lettere a un giovane poeta. Certo, quello di Rilke è un breviario spirituale, e come tale ebbe grande successo, in cui le questioni della vocazione poetica e della creazione artistica diventano questioni di dar forma compiuta alla propria esistenza. Viene da chiedersi se non ci sia uno stacco, uno scarto tra il modello, a cui la sua cultura e la sua formazione la portavano a ispirarsi, e le vicende concrete della vita nell’Olanda degli anni di guerra, in cui la persecuzione antiebraica si stava facendo ogni giorno più minacciosa. Non interviene forse un’accelerazione brusca nel tempo senza tempo della maturazione di una giovane che vuole diventare scrittrice? E la necessità che deve informare lo sviluppo della propria vocazione non diventa forse brutale coazione 28 Ibidem, pp. 368-369. Vedi R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, cit., p. 30.

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da parte degli avvenimenti esterni? E quel Rilke che, “seduta in un angolino”, nelle condizioni più difficili, Etty Hillesum continua pervicacemente a leggere e a trascrivere, non sarà forse un rifugio, una fuga dall’oppressione delle circostanze esterne? È compatibile il modello di uno sviluppo organico verso la propria compiutezza con i tragici eventi che colpiscono Etty Hillesum, e che mandano in frantumi la cultura europea? Il paradosso di Etty Hillesum, che ha suscitato non solo ammirazione, ma anche sconcerto, sta in questi interrogativi, a cui peraltro lei stessa aveva già trovato una risposta. La sua mente e il suo cuore erano abbastanza ampi da tenere insieme una poesia di Rilke e un ragazzo che cade da un aereoplano,29 da capire che l’ipersensibilità del poeta era la forza della sua esperienza.30 Ed è nel segno della “buona economia” che Etty Hillesum sa quanto sia importante la parola poetica anche in tempi bui: Finisco sempre per tornare a Rilke. È così strano, Rilke era un uomo fragile e ha scritto gran parte della sua opera tra le mura di castelli ospitali, e magari sarebbe stato distrutto dalle circostanze in cui ci troviamo a vivere noi. Ma non è proprio questo un segno di buona economia – il fatto che, in circostanze tranquille e favorevoli, artisti sensibili possano cercare indisturbati la forma più giusta e più bella per le loro intuizioni più profonde; e che poi, in tempi più agitati e debilitanti, queste stesse forme possano offrire appoggio e protezione agli uomini smarriti? Ai turbamenti e ai problemi che non trovano forma o soluzione, perché ogni energia è consumata dalle necessità quotidiane? In tempi difficili si tende a disprezzare le acquisizioni spirituali di artisti vissuti in epoche cosiddette più facili (ma essere artista non è di per sé abbastanza difficile?), e si dice: tanto, cosa ce ne facciamo?

29 Vedi E. Hillesum, Diario, cit., p. 146. 30 Vedi ibidem, p. 656 : “Ed è proprio vero quanto Lou Andreas dice del suo amico: «Per certi aspetti questo poeta della delicatezza estrema era anche vigoroso». Delicatezza che non può mai diventare indebolimento (cosa di cui è stato tacciato), quando la base è fatta di forza. E lui è forte e coraggioso, quest̓uomo delicato”.

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È un atteggiamento comprensibile, ma miope. E rende infinitamente poveri.31

Non c’è pertanto sfasatura o contrasto tra la vocazione letteraria, vissuta da Etty Hillesum come maturazione completa della sua persona, e il suo atroce destino. Eppure i “tempi difficili” fanno la differenza, e di grande rilievo. L’ospitalità dell’esperienza, di cui parla Rilke, in Etty Hillesum ha luogo in un “campo di battaglia”, costituito dalle parole, dalla sua interiorità, e dalla scena tragica dell’Europa durante la guerra e la persecuzione. Etty Hillesum si troverà di fronte al compito di essere la “cronista”, di trovare le parole per un evento storico-politico di cui innanzitutto doveva reggere la sproporzione rispetto a se stessa e ai confini della sua esperienza, sapendo benissimo che la “cronaca” non avrebbe potuto limitarsi a “resoconti pittoreschi” e a monotoni “fatti nudi e crudi”: “le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute […] filo spinato e […] pasticcio di patate”. “Simili, amare esperienze” avrebbero avuto bisogno di un poeta.32 Con queste parole, fa capire che il “poeta” delle “amare esperienze” non avrà più nessun riparo, e che la sua maturazione spirituale sarà qualcosa di molto diverso e di più rispetto alla realizzazione del progetto di vita, in cui pure sperava con tutta se stessa. Al “vivere tutto”, al lavoro su di sé compiuto in solitudine, che Rilke consigliava al giovane poeta, viene quindi attribuito un significato che, ben lungi dal rivelarsi improprio o inadeguato rispetto ai tempi, indica la via per l’accoglimento di una realtà intrisa di contraddizioni e per una trasformazione interiore all’altezza della situazione estrema della persecuzione. La giovane donna, che si limitava a “trascrivere” i brani di Rilke, ne coglie con estrema lucidità l’intensità problematica, e compie una profonda rielaborazione del suo modello. È importante seguirla in questo straordinario percorso, perché solo così diventa possibile dare un’interpretazione non edificante e non banalmente sentimentale della compassione, chiarire con precisione in che cosa consista l’atteggiamento invocato da quasi tutti i lettori e let31 E. Hillesum, Diario, cit., p. 797. 32 E. Hillesum, Lettere, cit., pp. 36-37.

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trici di Etty Hillesum come la cifra della sua vicenda esistenziale, rendersi conto di che cosa effettivamente sia stata la sua accettazione del dolore e la sua condivisione del dolore altrui.33 La compassione in Etty Hillesum è leggera, ampia, non perché si renda impersonale o generica, ma perché scioglie il suo vincolo esclusivo con la sofferenza, e si mette in relazione con il mondo, con la storia, con Dio. Nelle Lettere a un giovane poeta, in particolare nella lettera del 12 agosto 1904, Rilke parla della tristezza, e al giovane che lamenta la difficoltà di superarla ne offre un’interessante fenomenologia. Le tristezze non sono turbamenti da scacciare o da trattare superficialmente. Esse fanno accadere qualcosa in noi, producono dei mutamenti, perché sono i momenti, in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qualcosa di sconosciuto; i nostri sentimenti ammutoliscono in casta timidezza, tutto in noi indietreggia, sorge una calma, e il nuovo, che nessuno conosce, vi sta nel mezzo e tace.34

La tristezza è descritta da Rilke con tratti molto affini all’angoscia heideggeriana. L’ammutolire dei sentimenti, l’apparente blocco e la paralisi della vita interiore, il cessare della familiarità e della confidenza con se stessi, che essa produce, rappresentano l’irruzione del nuovo, dell’ignoto, della “cosa straniera”, l’ingresso in una fase di trapasso, come se un ospite entrasse in casa nostra. Non sappiamo chi sia, forse non lo sapremo mai, ma è già entrato, il nostro mondo è cambiato. È questo il modo in cui “il futuro entra in noi […] per trasformarsi in noi, molto prima che accada.”35

33 Vedi N. Neri, Un’estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Bruno Mondadori, Milano 1999. Questo studio, la cui autrice è una psicanalista junghiana, è basato su un’ampia documentazione, e presta grande attenzione agli autori citati da Etty Hillesum, in particolare a Rilke. Non si discosta tuttavia da un’immagine di Etty Hillesum incentrata sulla compassione e sul sacrificio. 34 R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, cit., p. 56. 35 Ibidem.

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Ecco perché quando si è tristi è indispensabile essere “soli e attenti”, “calmi, pazienti e aperti”.36 Perché quel “vuoto in apparenza e fisso”, che precede l’accadere “sonoro e casuale”, è la via attraverso la quale possiamo far sì che ciò che un giorno accadrà già ci appartenga, ci sia affine e prossimo, diventi il “destino” che proviene da noi, invece di esserci imposto dall’esterno. L’esperienza della tristezza mette di fronte alla solitudine perché strappa dal contesto abituale, allontana tutto ciò che è vicino, fa perdere i punti di orientamento consueti, consegna all’ignoto e all’indeterminato, sovverte distanze e misure al punto da provocare vertigine e folle paura di precipitare, come dalla cima di una montagna, schiantandosi in mille pezzi. È un’alterazione della percezione che fa nascere “straordinarie immaginazioni e strani sensi”, che tuttavia occorre accogliere, “quanto più ampiamente ci riesca”, anche se si tratta dell’inaudito, dell’inesplicabile.37 Certo, ci vuole una dote morale, il “coraggio”, per consumare questo tipo di esperienza, per quanto inquietante, per attivare i sensi ad essa adeguati. Solo così, tuttavia, l’esistenza diventa ricca. Gli esempi di Rilke alludono a una sfera che va oltre il consueto e il quotidiano, anzi segna il cessare delle certezze proprie del familiare mondo dei sensi: le cosiddette “apparizioni”, il “mondo degli spiriti”, la morte e Dio. E aggiunge che l’angoscia davanti all’inesplicabile non solo ha impoverito l’esistenza del singolo, anche le relazioni da uomo a uomo ne sono state ristrette, come trasportate da un alveo di infinite possibilità su un argine incolto, a cui nulla accade. Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni umane si ripetono così indicibilmente monotone e senza novità da caso a caso, ma alla paura di un’esperienza nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica, vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo della propria esistenza.38

36 Ibidem, pp. 56-7. 37 Ibidem, pp. 58-9. 38 Ibidem, p. 59.

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La tristezza come esperienza della perdita del centro, dell’estraneità e incertezza, che incute angoscia e tormento, comporta pertanto un’esposizione di sé, della propria inermità, ma è la modalità attraverso cui “qualcosa accade” in noi, e si apre il varco per la trasformazione di sé. È probabile che queste pagine di Rilke abbiano profondamente influito su Etty Hillesum, anche se non ne troviamo traccia nelle sue trascrizioni. Esse ci permettono infatti di capire il tipo di lavoro su di sé, che Etty Hillesum chiama, sempre con Rilke, concentrazione e raccoglimento in solitudine, ascolto interiore, disciplina e sforzo di dare un ordine al disordine dei sentimenti, delle emozioni e delle angosce. Tale lavoro avviene infatti nella forma di una progettualità che si estende all’intera vita, e di un bisogno di significazione che non è sforzo prometeico o volontarismo o trasfigurazione della realtà. È un’apertura al futuro, una dimensione di tempi e spazi più ampi di quelli del presente vissuto, perché coinvolgono e riguardano anche altri esseri umani, oltreché altre realtà. La qualità di tale futuro è sostanzialmente quella dell’imprevisto e dell’ignoto, non dell’attesa o della speranza, della pazienza, non dell’impazienza, perché il futuro non si apre in virtù di un’idea o di un progetto dell’io, bensì in seguito all’irruzione di qualcosa di estraneo, di doloroso, che scalza il soggetto dalle proprie certezze, e esercita una sorta di contraccolpo sulla soggettività. La spiazza, la mette di fronte all’estraneo, a ciò che incute angoscia, e insieme la amplia, le dà la dimensione dell’oltre, della trascendenza. Etty Hillesum trova dunque in Rilke lo schema dell’avventura spirituale che le tocca di vivere in condizioni estreme. Nel diario e nelle lettere gli conferisce però una forma del tutto personale, legata al modo in cui viveva se stessa: l’alleggerimento del peso. L’impegno rispetto alla situazione tragica della persecuzione si condensa in uno strenuo sforzo di elaborazione interiore di avvenimenti del tutto privi di senso e sproporzionati rispetto alla sua esperienza. Etty Hillesum arriva a compiere questo personalissimo processo di significazione, partendo da un vissuto di sé incentrato sulla Schwere, sulla sovrabbondanza emotiva e oblativa, sull’eccesso di empatia, di immedesimazione, di compassione.

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L’eroina della compassione è la prima a mettere in questione la compassione come reazione naturale, e il conseguente peso della partecipazione spirituale ai dolori e alle gioie degli altri, che si trasmette anche all’entusiasmo empatico per la poesia. Il problema viene collegato direttamente al rapporto con uno spazio interiore limitato all’orizzonte delle proprie paure e desideri, o del proprio rapporto di amore, di compassione, con una persona sola, nonché al desiderio di realizzazione, di soddisfacimento e di possesso. Questa consapevolezza riguarda innanzitutto il rapporto con Julius Spier, l’uomo amato, l’ispiratore delle sue trasformazioni interiori: «Carico di significato»: devo avere il coraggio di vivere la vita con la «carica di significato» (Bedeutungsschwere) che essa pretende, senza per questo considerarmi pesante, o sentimentale, o innaturale.39

Riflettendo sulla tendenza femminile a porre il proprio centro di gravità nell’uomo, Etty Hillesum arriva a capire che la personalità di Spier, il suo calore e bontà infiniti minacciano di seppellirla sotto il loro peso. È il suo modo di fronteggiare il desiderio di possesso e di rapporto esclusivo con quell’uomo, riconoscendo l’implicazione di eccessiva vicinanza e di distanza, che nutre tutti sentimenti eccessivi. Come se lui, a volte, fosse “troppo” per lei. Come se, dirà in un altro contesto a proposito della bellezza di un paesaggio o di un’opera letteraria, l’identificazione, l’unicità, il possesso, la totalità, la profondità, insomma, tutto il repertorio dell’anima, fossero forze distruttive, devastanti. Non a caso, la prima poesia di Rilke riportata nel diario è Il rapimento, in particolare gli ultimi due versi: E udì estranea un estraneo che diceva: Iosonoaccantoate.40

39 E. Hillesum, Diario, cit., p. 137. 40 Ibidem, p. 90. Vedi R. M. Rilke, “Il rapimento”, tr. it. in Poesie, I, a cura di G. Baioni, Einaudi-Gallimard, Torino 1994, p. 683.

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[…] le cose che dice lui, anche le più semplici, sembrano più impressionanti, significative, vorrei quasi dire più «cariche», che se le dicesse un altro [...].41 «[…] vivere la vita con il carico di significato che essa richiede per essere completamente vissuta […]». Questo è esattamente il modo in cui vive S.: la sua esistenza è un esempio per noi e perciò quest̓uomo può insegnarci a vivere, dato che lui per primo si attiene ai suoi stessi insegnamenti. «Carico di significato»: a volte ho avuto un̓impressione di pesantezza riguardo a lui, come se vivesse con enfasi eccessiva, e gli mancasse un tocco di leggerezza. Ma questo dipendeva da me. È la nostra codardia e incompletezza a impedirci di vivere «con il carico di significato che la vita richiede». Il pensiero non può essere riformulato in maniera migliore, e S. è dipinto al meglio in queste parole. Non sono tanto le sue parole ad avermi cambiata quanto il suo modo di vivere; con molta generosità e magnanimità, lui regala agli altri la possibilità di lanciare uno sguardo nel suo modo di vivere. Si deve sempre «allargare» il proprio cuore così che ci sia spazio per molti. Le persone hanno in genere poco spazio nel cuore: se vi ammettono una persona nuova, le altre ne devono uscire. Bisogna fare in modo che nessuno si arricchisca a danno di un altro. Per riuscirci è necessario avere proprio tanto amore dentro di sé.42

C’è molta finezza in queste osservazioni e molto di inconsueto, se si pensa alla cultura dei sentimenti più diffusa. Etty Hillesum vede esattamente la qualità empatica di ogni pienezza, intensità e capacità di donazione di senso, l’entrare dentro le cose e le persone, il farle innamorare, l’ispirarle. Intuisce tuttavia anche l’eccesso e il peso che ciò può comportare, se si mantiene la misura convenzionale dei rapporti, l’esclusione dell’uno in favore dell’altro, la paura dell’abbandono. D’altra parte, non indica la via d’uscita di un generico altruismo o 41 Ibidem, pp. 330-331. 42 Ibidem, pp. 107-108. La fonte è un brano di C. G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, tr. it. di A. Vita e G. Bollea, Einaudi, Torino 1964, pp. 230-231. Qui si trova una traduzione di Bedeutungsschwere come “ricchezza di significati” (“vivere la vita con quella ricchezza di significati che essa richiede per essere completamente vissuta”).

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amore universale a fondo perduto, bensì allude molto chiaramente in numerosi passi del diario a un momento di non partecipazione, a un alleggerimento del vincolo, a un’imparzialità, e forse anche a una parte di irrealizzazione e di incompiutezza che, invece di separare, creano il vero contatto tra gli esseri umani. Etty Hillesum sente che i sentimenti possono essere “pesanti”,43 e il cuore diventare di piombo, che in lei c’è un eccesso di immedesimazione con quello che legge e studia, troppa avidità di “conoscere tutto della vita e di penetrare dappertutto”.44 Chiama tutto questo “baccanali dello spirito”, “sfrenatezze”, 45 pur rendendosi conto che la logica dei sentimenti non può essere che questa: Pensare è una bella, una superba occupazione quando studi, ma non puoi «pensarti fuori» da uno stato d’animo penoso. Allora devi fare altro, farti passiva e ascoltare, riprender contatto con un frammento di eternità.46

È molto lucida nel riconoscere che “i sentimenti umani, una sorta di amore e compassione elementari che provo per le persone, per tutte le persone”, sono in lei “cose veramente primordiali”,47 che si mescolano, per esempio, al “complicato amore” verso il padre.48 Da questo vissuto, che affronta con estrema onestà il garbuglio della vita emotiva, scaturisce la percezione dei sentimenti di vendetta e di odio come sentimenti “a buon prezzo”.49 In particolare, ciò le permette di capire il modo in cui il male, la violenza della persecuzione diventano malattie dell’anima, prendono possesso dell’interiorità, riducendosi al suo formato, assumendo la forma della paura per sé e delle fantasie, perden43 44 45 46 47 48 49

Vedi ibidem, p. 320. Ibidem, p. 162. Vedi anche ibidem, p. 227, pp. 438-439. Vedi ibidem, p. 155. Ibidem, p. 156. Ibidem, p. 196, p. 249. Ibidem, pp. 243-244, pp. 247-248. Vedi ibidem, p. 366.

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do l’ esatta sproporzione che permette di mantenere il senso di realtà e di non farsi avvelenare e contaminare. Il peso, l’eccesso, che fa tutt’uno con la difficoltà di vivere se stessi e il mondo, devono essere alleggeriti. E la via è un movimento di andar oltre, di uscir fuori: “tanto, quel che conta è altrove”.50 Anche questo è un punto in cui il mondo spirituale di Rilke ha un ruolo decisivo. In una pagina di diario del 10 giugno 1942, viene riportato il brano di una lettera di Rilke: «... alcuni giorni fa mi son capitate fra le mani le traduzioni di meravigliose poesie cinesi. Li Tai Pe e altri. Che grandi poeti erano! Essi fanno un cenno, ed ecco qualcosa che va e che viene; dopo un millennio lo si sente attraverso quella lingua straniera sopraggiunta così tardi; com̓era lieve ciò che essi evocavano, andava e veniva; e come ogni gravità si trasformava in assenza di peso, così da permanervi...».

Etty Hillesum commenta: In molti modi ciò mi è familiare e mi tocca nell’intimo, e potrebbe costituire una sorta di motto di ciò che io spero di realizzare un giorno, un giorno ancora lontano – und wie alle Schwere ins Gewichtslose kam, um dort zu dauern.51

La “semplicità” perseguita da Etty Hillesum, fuori dagli ingorghi e dagli ingombri dell’interiorità, ha il carattere della lievità a cui accenna Rilke, la lievità con cui lo stesso poeta aveva risposto all’impeto drammatico di una diretta corrispondente, Marina Cvetaeva, cantando al suo dolore e passione una specie di ninna nanna tenera e cosmica.52 Si tratta infatti di una riduzione all’essenziale, che si produce per effetto di una dila50 Ibidem, p. 321. 51 Ibidem, p. 590. Vedi R. M. Rilke, Briefe aus den Jahren 1906-1907, a cura di C. Sieber-Rilke e C. Sieber, Insel Verlag, Leipzig 1930, p. 315 (lettera a Clara Rilke del 30 agosto 1907). 52 Vedi R.M. Rilke, “Elegia per Marina”, riportata nelle note alla lettera del 14 giugno 1926, in M. Cvetaeva, Deserti luoghi. Lettere 1925-1941, tr. it. a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1989, pp. 40-43, pp. 397-398. Vedi cap.3.

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tazione e di una distensione del tempo, e fa tutt’uno con l’allontanamento (la lingua antica e straniera) di ciò che è vicino, con la rinuncia all’attaccamento, al possesso. Il movimento dell’alleggerimento avviene nella forma di un’apertura dello spazio e del tempo, che permette all’infinito, all’eterno di circolare in essi, di filtrare dalle più piccole azioni e percezioni quotidiane. Il 21 luglio 1942, Etty Hillesum scrive: In mezzo alle mille petizioni (non «urgenti») che ho battuto a macchina, in quell̓ambiente che sta a metà tra l̓inferno e un manicomio, ho ancora letto un po̓ di Rilke e mi ha dato di nuovo così tanto, come se l̓avessi letto nel ritiro della mia camera silenziosa. «... Ma almeno ho scoperto in me stesso il gesto con cui si accosta il grande al grande in tutto ciò ch'è grande, e infinito in tutto ciò ch'è incomprensibile: ma per poterlo ritrovare sempre in quel luogo elevato, dove la sua vita continua a svolgersi indipendentemente dal nostro dolore e dal nostro smarrimento, che sono così limitati al confronto». E volevo ancora dire questo: credo di essere arrivata pian piano a quella semplicità che ho sempre desiderato.53

L’altrove, che ha permesso di aprire il vissuto dell’eccesso, della sovrabbondanza e dell’estraneo, appare ora generatore di metamorfosi e di fluidità: l’esercizio del vuoto e dell’estraneità diventa messa in relazione, transito, passaggio, contatto. La “pesantezza” di ogni cosa grande, che allude alla sua incomprensibilità e sproporzione rispetto alla piccolezza della vita reale, diventa messa in relazione del grande con il grande, e si trasforma in capacità di durare, in costanza e impermeabilità rispetto agli stati d’animo soggettivi. Etty Hillesum può infine far sua l’idea rilkiana del Weltinneraum:

53 E. Hillesum, Diario, cit., p. 727. Vedi R. M. Rilke, Briefe aus den Jahren 1907-1914, a cura di C. Sieber-Rilke e C. Sieber, Insel Verlag, Leipzig 1933, p. 33 (lettera alla principessa Cathia von Schöaich-Carolath del 7 maggio 1908).

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Un solo spazio compenetra ogni essere: spazio interiore del mondo. Uccelli taciti ci attraversano. Oh, io che voglio crescere, guardo fuori ed in me ecco cresce l’albero. Io sono in ansia e in me sorge la casa. Cerco riparo ed ecco in me il riparo. L’Amato, io divenni; e su me la bella immagine Del mondo posa e si libera in lacrime.54

Etty Hillesum é infine arrivata alla “transitività originaria”,55 che consente di istituire pesi e contrappesi, di decantare l’esperienza per darle forma e immagine – parola. Il suo “la vita è bella e piena di significato”, che riempie di stupore incredulo molti dei lettori e delle lettrici dei suoi scritti, non è pertanto un’estrema ipotesi di riconciliazione con l’inaccettabile, bensì corrisponde all’infinito gusto per il sensibile che, dalle pagine di Rilke, passa nelle pagine del diario come capacità di farsi attraversare, reciproco riconoscimento tra interiore e esteriore, contatto che agisce in virtù dell’estraneità. Si tratta certo di qualcosa che va molto oltre la percezione comune, e si avvicina all’esperimento di sé nell’alterità, in cui deve essere riconosciuto l’autentico significato dell’empatia.56 È possibile ora dare una risposta alla domanda, suscitata dal paradosso di Etty Hillesum, dal vivere tutto in una spasmodica tensione verso l’esterno, in una dedizione e partecipazione al dolore altrui, puntando sulla trasformazione interiore, su un modello di formazione classico, di compiutezza, di armonia, di disciplina e di ricerca del significato delle proprie azioni. Etty Hillesum è arrivata al punto in cui la compassione, ben lungi dall’essere una “reazione morale spontanea”, come vorrebbe uno dei suoi critici, Zvetan Todorov, è costituita da un 54 R. M. Rilke, “Quasi ogni cosa al contatto si tende”, in Poesie, II, cit., p. 237. 55 Vedi P. De Luca, Il cuore dello spazio. Considerazioni su Rilke, La Città del Sole, Napoli 2000, p. 147. 56 Vedi L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano 2006.

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fondamentale movimento di anticipazione nell’immaginazione, costitutivo dell’empatia, e senza il quale la condivisione della sofferenza altrui risulta spesso inautentica, o semplice travaso di stati d’animo da un individuo all’altro. L’immaginazione è infatti una capacità della mente in grado di porsi di fronte a ciò a cui la ragione o l’intelletto non riesce a dare senso. Essa è l’organo dell’alterità radicale, che permette di porsi in rapporto con ciò che è incomprensibile, inumano, non nella forma del contro, bensì del con, del contatto, della messa in relazione degli opposti.57 L’ampliamento dell’orizzonte interiore prodotto dall’immaginazione inizia appunto dal superamento del punto di vista in cui il proprio io è al centro. La differenza tra amore e odio, che attraversa tutta l’esperienza di Etty Hillesum, si riassume, come si è visto, nel movimento di abbandono della preoccupazione per la propria “piccola persona” o il proprio “piccolo impiego”.58 Probabilmente Etty Hillesum pensa alla misteriosa facoltà, affondata nella profondità dell’animo umano, quando scrive: Certo accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili: ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante.59

Il suo rivolgersi agli altri, il suo partecipare il doloroso destino altrui, avviene in virtù della creazione di una rete di rapporti spirituali, della capacità di intuire le implicazioni riguardanti la civiltà, la cultura (dei sentimenti), la concezione della morte e del-

57 Vedi L. Boella, Il coraggio dell’etica. Per una nuova immaginazione morale, Raffaello Cortina, Milano 2012, cap. 5. 58 E. Hillesum, Diario, cit., p. 729. 59 E. Hillesum, Lettere, cit., p. 45. Vedi anche Diario, cit., p. 728, dove Etty Hillesum sostituisce alla parola “riflettere” l’espressione “cercare di approfondire le cose con un nuovo organo o senso”, e lo spiega come “sensazione di vedere questo tempo in prospettiva, come una fase della storia di cui conosco già l’inizio e la fine e che posso inquadrare nel tutto”.

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la vita, il futuro dell’Europa, la stessa idea di Dio, che scaturiscono dagli avvenimenti che sta vivendo. Nell’ultima pagina del diario (12 ottobre 1942), si legge: Vorwegnehmen [«anticipare»]: non conosco una buona traduzione olandese di questa parola. Sono distesa qui da ieri sera, e intanto comincio ad assorbire una piccola parte del gran dolore che deve essere assorbito su tutta la terra. Comincio a mettere al coperto un po’ del dolore che patiremo quest’inverno. Non si può farlo in una volta sola. Oggi sarà una giornata molto pesante. Rimarrò a letto con calma, e «anticiperò» una piccola parte dei duri giorni che verranno.60

Il futuro si è concentrato in un’anima che vuole “essere un balsamo per molte ferite”, e portarsi dentro le persone “come boccioli […] che lascio sbocciare”, o “come ulcere finché si aprono e suppurano (la signo Bierenhack)”.61 Il futuro della giovane che progettava un viaggio un Russia si è concentrato nella branda di una baracca del campo di transito di Westerbork. La formazione di sé in vista di uno sviluppo armonioso si è compiuta, creando (anche a costo di spezzare e frantumare il proprio sé) le condizioni perché l’anima diventasse lo spazio ampio in cui l’immaginazione consente di vedere, sentire, pensare oltre e di più rispetto al cerchio dell’esperienza soggettiva, ma anche rispetto alle coordinate del presente attuale. Con l’immaginazione Etty Hillesum arriva a pensare il futuro (suo e dell’Europa dopo la Shoah), gli altri e Dio. Perdonare Dio Questo pezzo di epoca in cui viviamo posso sopportarlo, posso prendermelo sulle spalle senza crollare sotto il suo peso immane, e posso già perdonare Dio per il fatto che permetta che le cose siano 60 E. Hillesum, Diario, cit., pp. 796-797. 61 Ibidem.

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come probabilmente devono essere. Avere abbastanza amore in sé da riuscire a perdonare Dio!62

Etty Hillesum giunge a Dio, come lei stessa riconosce, attraverso l’esperienza dell’amore per Julius Spier: è lui che fa da trampolino, che libera le sue forze per l’incontro con Dio. Dio è il nome per tutto ciò che Etty Hillesum leggeva nell’universo, è il nome dato all’anima degli altri, anche quando è avvizzita o nascosta, è il nome dato a se stessa, quando si ascolta dentro. Dio è sopportare tutto e trovare la vita bella e piena di significato.63 Hineinhorschen, vorrei trovare una buona traduzione olandese di questa parola. In fondo la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che presta ascolto alla parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio. 64

Dio diventa l’interlocutore quasi esclusivo nelle parti finali del diario. Lo diventa nella forma di un tu a cui Etty Hillesum si rivolge nel suo dialogo interiore. Preghiera e raccoglimento sono le forme del rapporto con Dio. La “ragazza che non sapeva inginocchiarsi” ha infatti imparato a pregare.65 Il lavoro per liberarsi dall’ingombro del sé, da tutto ciò che ristagna interiormente, mostra infine in suo vero obiettivo: non soffocare l’altro da sé che parla al fondo della sua anima. La formazione interiore si compie in un gesto del corpo – due mani giunte e un ginocchio piegato – che rappresenta la volontà di non cacciare Dio dal proprio territorio, di ospitarlo e di farlo sentire a casa, di trattarlo bene.66 Dio è la spaziosa pianu62 E. Hillesum, Etty, cit., p. 565 (lettera a Julius Spier del luglio 1942). 63 Sull’atteggiamento religioso di Etty Hillesum molto è stato scritto. Per una visione d‘insieme, vedi W. Tommasi, Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, Edizioni Messaggero di Padova, Padova 2002, pp. 87-107. 64 E. Hillesum, Diario, cit., p. 756-757. Vedi anche ibidem, pp. 721-722. 65 Ibidem, pp.793-794. 66 Ibidem, p. 714.

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ra, la vastità che Etty Hillesum sente di avere dentro di sé. La preghiera, la ricerca, l’inginocchiarsi – un gesto in cui il corpo accompagna con semplicità lo spirito – riassumono l’istante in cui ogni distrazione e dissipazione di sé hanno fine. Dio per molto tempo coincide per Etty Hillesum con la richiesta di raggiungere unità e pienezza interiore, salda energia spirituale, di trovare il proprio centro. In seguito, Etty Hillesum chiede aiuto a Dio, e mostra che nel suo rapporto con Dio è essenziale la fiducia nella sua bontà, l’abbandono alla sua volontà, l̓accettare tutto come se venisse dalle sue mani. Si sente tra le braccia della vita e tra le braccia di Dio.67 Questa dimensione di tenerezza, di protezione e di rifugio, diventa anche desiderio di aiutare Dio al cospetto dei terribili avvenimenti che porteranno molti a dubitare del suo amore per gli uomini e a interrogarsi sulla sua bontà infinita. Dio per Etty Hillesum non è responsabile del male commesso dagli uomini, anzi è stato impotente verso di esso. Ecco perché bisogna “aiutarlo”,68 “salvarne” l’esistenza nel mondo, “dissotterrarlo” dall’animo delle persone. Dio dunque non è soccorso, consolazione o semplicemente messa in relazione con il mistero, il paradosso. In Dio si compie piuttosto l’aspetto più sconvolgente dell’esperienza di Etty Hillesum. Dio è il culmine di un cammino spirituale e di vita, in cui la capacità empatica di sentire gli altri, di aprire la propria esperienza a ciò che vivono gli altri, si nutre e si completa con l’attesa e la prefigurazione del futuro fino al senso ultimo del tutto. “Aiutare Dio” è un sublime modo di essere ospite, amica, è l’estrema possibilità di pensare diversamente la catastrofe, di pensare oltre ciò che è stato distrutto. L’imperdonabile che è stata Etty Hillesum sperimenta così l’estrema possibilità di “perdonare Dio” per un tempo che fa soccombere gli esseri umani sotto il suo peso. Gli perdona l’imperdonabile, toccando il punto fondamentale ed estremo in cui umano e divino, finito e infinito si incontrano. Etty Hillesum ritrova Dio nel fondo della tragedia e nel fondo del fragile cuore umano, 67 Ibidem, p. 756. 68 Ibidem, p. 707, pp. 713-714.

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Etty Hillesum 1914-1943

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non nell’alto dei cieli, nel pieno della sua onnipotenza e sovranità, ma nella debolezza che ha scelto di condividere con gli altri.

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MARINA CVETAEVA 1892-1941

L̓imperdonabile Marina Cvetaeva Ella non nasce dai poeti precedenti, ma quasi direttamente da sotto il selciato dell’Arbat.1 […] io volevo essere. E lui mi perdonava la mia esistenza! Questo è il contrasto di fondo […] Nella vita lui non mi perdonava nulla – proprio là dove invece bisognava perdonare!2

Marina Cvetaeva è l’imperdonabile e insieme l’impunibile, c’è in lei – nella sua vita, nella sua poesia, nella sua leggenda – la cifra di un impossibile, di uno straripamento, di un eccesso. Anarchica, inquieta, frenetica, sempre allo sbaraglio, controcorrente, è ribelle e classica, esagerata e composta, calvinista, voltairiana e sovranamente libera dalle convenzioni sociali e morali. Nelle lettere e negli scritti di Marina Cvetaeva ricorre un modo di atteggiare il corpo: “la testa rovesciata, verso l’alto” e la postura eretta.3 La mia, di fronte, era rovesciata all’indietro, mentre scrivevo di voi, era rovesciata all’indietro – ed è naturale che vi abbia visto.4 Raccogliere, in ginocchio, i pezzi della coppa rotta? No, no e no. Le mani dietro la schiena. E le spalle diritte.5 1 2 3 4 5

Si tratta di un giudizio dello storico della letteratura russa D. Mirskij, cit. da A. Zveteremich, “Nota introduttiva alla nuova edizione”, in M. Cvetaeva, Poesie, tr. it. a cura di P.A. Zveteremich, Feltrinelli, Milano 1992, p. 16. M. Cvetaeva, Il paese dell’anima. Lettere 1909-1925, tr. it. a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1988, p. 190 (lettera a A.V. Bachrach del 20 luglio 1923). Ibidem, p.79 (si tratta di una successione di lettere a E.L. Lann, iniziate il 6 dicembre 1920). Ibidem, p. 139 (lettera a B.L. Pasternak del 19 novembre 1922). Ibidem, p. 128 (lettera a A.G. Višnjak del 9 luglio 1922).

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Le Imperdonabili

Ma c’è un altro mondo dove la Vostra criptografia è come un sillabario per bambini […] Vi leggono alla leggera. Rovesciate all’insù la testa – verso l’alto!6 Ma una cosa, Boris: IO NON AMO IL MARE. Non ci riesco. Tanto spazio e non ci si può camminare […] Il mare è dittatura, Boris. La montagna – divinità […] La montagna è prima di tutto le mie gambe, Boris. La mia precisione di creatura eretta.7 Gončarova, questo nome allora suonava come una vittoria. In questo nome mi è parso di sentire – e di vedere – una testa gettata indietro. (In alto la testa, indietro i capelli!) Questo nome – annunciava. Una rivoluzione prima della rivoluzione, come Guerra e pace di Majakovskji, come il libro di Pasternak, Al di sopra delle barriere, che nessuno allora notò. E quando io – nel passato ormai! – nell’estate del 1928 – vidi per la prima volta la Gončarova con la testa per niente gettata all’indietro, capii quanto ella era cresciuta. Tutte le teste sono gettate all’indietro – agli inizi. Le getta all’indietro la forza della giovinezza (il fervore!), la forza matura fa piuttosto – chinare la testa. Ma una cosa è rimasta – i capelli all’indietro.8

Lo stare eretti, che esprime rigore, dignità, in Marina Cvetaeva è l’impennata, che sfida la legge di gravità, e consegue ai movimenti che caratterizzano lo spazio dell’anima e della poesia, infinito come l’aria e come l’acqua, da respirare e da inghiottire, senza confini e traboccante. Espansione, sfondamento, straripamento, travaso, drenaggio, dilatazione sono le leggi della scrittura di Marina Cvetaeva. Esse producono un esautoramento della pesantezza dell’essere, e danno luogo a una verticale che raddrizza, mette in piedi, sulle proprie gambe, ogni piattezza, orizzontalità, accomodamento.

6 7 8

Ibidem, p. 148 (lettera a B.L. Pasternak del 10 febbraio 1923). M. Cvetaeva, Deserti luoghi. Lettere 1925-1941, tr. it. a cura di S. Vitale, Adelphi 1989, pp. 29-30 (lettera a B.L. Pasternak del 23 maggio 1926). M. Cvetaeva, Natal’ja Gončarova. Vita e creazione, tr. it. a cura di L. Montagnani, Einaudi, Torino 1995, pp. 18-19.

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Marina Cvetaeva 1892-1941

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Alla postura eretta è complementare il “a viso aperto”, che si contrappone al “di sbieco tutto è più semplice”.9 No, scriverò, solo che a tratti è difficile non soggiacere alla tentazione di parlare dritto in faccia, nel vuoto. Allora la penna cade dalle mani.10 Ricordo il suo sguardo infuriato – di sbieco, come seguendo il volo di una lancia – contro il dragone.11 Siete stato il primo – dopo anni, credo – a chiamarmi a viso aperto (nell’aperto degli spazi!).12

“A viso aperto” si oppone a sbattere la fronte, vuol dire non avere di mezzo un muro, è arco al di sopra, unica forma di incontro: Non amo gli incontri nella vita: si sbatte la fronte. Due muri. Così non si passa. L’incontro deve essere un arco: al di sopra. Fronti rovesciate – all’indietro!13

In Marina Cvetaeva la fisica coincide direttamente con la metafisica, il corpo ha esclusivamente movimenti spirituali, l’anima è incarnata: […] l’anima, che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’uomo spirituale è quasi carne.14

Ogni movimento vitale ha bisogno di un’energia che lo intensifichi, lo porti oltre e lo renda capace, come l’arte, di andare infinitamente più lontano della realtà. Ciò non toglie, semmai accresce, il valore origina9

10 11 12 13 14

Vedi M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, cit., p. 156: “Voi lo sapete bene: di sbieco tutto è molto più semplice, il mio ‘a viso aperto’ ha sempre incontrato sguardi di sbieco, la pavida sbiechità umana. E quando invece bisognava ascoltare, mi tenevano gli occhi addosso, facendomi perdere il filo” (lettera a B.L. Pasternak del 14 febbraio 1923). Ibidem, p. 193 (lettera a A.V. Bachrach del 20 luglio 1923). Ibidem, p. 206 (lettera a A.V. Bachrach del 25 luglio 1923) Ibidem, p. 242 (lettera a A.V. Bachrach del 10 settembre 1923). Ibidem, p. 137 (lettera a B.L. Pasternak del 19 novembre 1922). M. Cvetaeva, “L’arte alla luce della coscienza”, tr. it. in Il poeta e il tempo, a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1984, p. 97.

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Le Imperdonabili

rio e protervo di un realismo che tra sé e le cose, i fatti, gli avvenimenti, mette il “ripido salto – il rifiuto – dell’altezza”.15 Quanto più la realtà è afferrata nel dettaglio, vissuta e sentita con occhi, orecchi, mani e piedi, tanto più trabocca oltre se stessa, verso il vero. Mosca 1917-1919 – cosa crede, che mi sia dondolata in una culla? Avevo ventiquattro-ventisei anni, avevo occhi, orecchi, piedi, mani: con questi occhi ho visto, con queste orecchie ho sentito, e con queste mani ho spaccato legna (e scritto i diari!), con queste gambe da mattina a sera sono andata per mercati e posti di blocco – dovunque mi portassero! […] Nel libro non c’è politica: c’è la cocente verità: la cocentissima verità del gelo, della fame, della rabbia, dell’Anno! […] Ah, Gelikon e Co.! Esteti! Che non si vogliono sporcare le manine! […] Non è un libro politico, neanche per un attimo. È un’anima vera: in un cappio mortale – eppure viva. Lo sfondo è tetro, ma non sono stata certo io a inventarlo!16

In questi primi elementi di etica e di estetica assolute – il linguaggio è la forma più alta di esistenza, il poeta è “senza poesie”, come scrisse a Pasternak, poiché “non contempla, agisce, vuole il dire”17 – si incontrano alcuni tratti della relazione di Marina Cvetaeva con il mondo. Il suo cuore conteneva tutto, i suoi versi erano oltremodo spaziosi, eppure viveva di un continuo, a volte tragico, a volte ironico o beffardo, sforzo di scartare il superfluo, di cancellare il vissuto, di scorticarsi a nudo. Fu sperimentatrice e inventrice di suoni, ritmi, stili, e il suo io poetico assunse le maschere più diverse: regina delle bettole, devota pellegrina, peccatrice orgogliosa e collerica, teppista, apprendista stregone, principessa, dama delle lettere. Probabilmente avrebbe voluto essere un’amazzone libera e indipendente, un’eroina guerriera, e fu madre – di figli, marito e amanti, nonché dell’eroe e del poeta, messi al mondo soprattutto nelle lettere – sapendo benissimo quanta ambivalenza ci fosse nell’accoglienza materna: rinuncia, privazione, solitudine. 15 Ibidem. 16 Lettera a R. B. Gul’ del 5-6 marzo 1923, conseguente al rifiuto dell’editore praghese A. G. Visniak di pubblicare Indizi terrestri, cit. da S. Vitale, “Una malattia inguaribile (pagine su Marina)”, in M. Cvetaeva, Indizi terrestri, tr. it. a cura di S. Vitale, Guanda, Milano 1980, pp. 5-6. 17 M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, cit., p. 152 (lettera a B.L. Pasternak dell’11 febbraio 1923).

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Marina Cvetaeva 1892-1941

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Amo le donne che in battaglia erano ardite, che sapevano impugnare spada e lancia, ma so che solo nella prigione di una culla è la mia feriale – femminile – gioia!18

Pensava che gli esseri devono attraversarsi, straripare l’uno nell’altro, recipienti senza fondo che non trattengono nulla, volte sonore, orecchi assoluti. L’identificazione fu totale, quando si trattò di poeti, il Puskin dell’infanzia (il mio Puskin),19 e di Rilke e Pasternak, gli interlocutori di lettere fiammeggianti. In realtà, il destinatario si confonde con colei che scrive, perché è lontano e assente, e la corrispondenza si svolge all’insegna del mancato incontro. La lettera è una prosecuzione desta del sogno,20 ma non è diretta a pure creature di sogno. Negli appassionati scambi con i due grandi poeti, Marina Cvetaeva si rivolge a due “contemporanei”,21 a due esseri che vivono la vocazione poetica con la sua stessa necessità. L’apparente, totale identificazione è piuttosto un’intima estraneità: le relazioni tra i poeti non si misurano con la vicinanza o la lontananza, bensì nella prospettiva essenziale della poesia. L’ultima lettera a Rilke, la poesia Per l’anno nuovo, scritta il 7 febbraio 1927, dopo la morte del poeta, parla da un’altezza infinita, e intraprende un viaggio che porta

18 M. Cvetaeva, Lettera all’amazzone, tr. it. a cura di S. Vitale, Guanda, Milano 1981, p. 23. 19 Vedi M. Cvetaeva, “Il mio Puskin”, tr. it. di G. Ansaldo in L’armadio segreto, Marcos y Marcos, Milano 1991, pp. 7-91. 20 Vedi M.Cvetaeva, Il paese dell’anima, cit., p. 135: “Il tipo di rapporto che io preferisco è ultraterreno: il sogno: vedere in sogno. E il secondo: la corrispondenza. La lettera: una forma del rapporto ultraterreno, meno perfetta del sogno, ma le leggi sono le stesse” (lettera a B.L. Pasternak del 19 novembre 1922). 21 Vedi ibidem, p. 145: “Voi, Pasternak, in assoluta purezza di cuore, siete il primo poeta della mia vita. […] Siete l’unico poeta di cui io possa definirmi contemporanea – e con gioia! – pubblicamente!” (lettera a B.L. Pasternak del 10 febbraio 1923).

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Le Imperdonabili

molto più lontano di quanto farebbe l’esperienza della perdita in se stessa: forse addirittura più lontano di dove può spingersi l’anima dello stesso Rilke nelle sue peregrinazioni post mortem.22

Marina Cvetaeva si dilata, si dissolve, sfonda il proprio petto, per diventare mondo. Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla.23 Questo mi ha sempre soffocato, questa ristrettezza. Amate il mondo – in me, non me – nel mondo! Perché Marina significhi «mondo» e non il mondo – «Marina».24

La libertà del sogno apre a un altro mondo.25 Vivere vuol dire tagliare e infallibilmente sbagliare e poi ricucire insieme i pezzi – e nulla tiene (nulla ti appartiene e non si tiene più a nulla – perdonatemi questo triste, grave gioco di parole). Ogni volta che tento di vivere mi sento una miserabile, piccola sartina che non farà mai niente di bello, che sa soltanto far guasti e ferirsi e che, lasciando là tutto: forbici, pezze, rocchetti – si mette a cantare. Davanti a una finestra dove piove per sempre. Sono ancora tutta piena di quel cielo vuoto. Lui passava, io restavo e sapevo che, pur così inchiodata, io sarei passata, mentre lui, passando, restava, resisteva, esisteva. Il cielo passa eternamente, costantemente – su me che passo continuamente, eternamente. Io sono tutte quelle che sono restate e hanno guardato in questo modo, resteranno e guarderanno in questo modo. Lo vedete, anch’io sono ‘eterna’. La me di questa mattina? Non la conosco neanche. Posso forse tergiversare, giocare d’astuzia? Quello che posso, io, è gridare – sì! 22 J. Brodskji, “Nota in calce a una poesia”, tr. it. in Il canto del pendolo, tr. it. a cura di G. Forti, Adelphi, Milano 1987, p. 205. Vedi M. Cvetaeva, “Lettera per l’anno nuovo”, tr. it. in Rainer Maria Rilke nelle sue mani, a cura di M. Rea, Passigli, Firenze 2012, pp. 43-57. 23 M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, cit., p. 49 (lettera a P.I. Jurkevič del 21 luglio 1916). 24 Ibidem, p. 196 (lettera a A.V.Bachrach del 25 luglio 1923). 25 Vedi ibidem, p. 185: “Amico caro, è la libertà del sogno. Voi sognate? L’impunibilità, l’irresponsabilità e la totale assenza di riserve del sogno” (lettera a A.V. Bachrach del 14-15 luglio 1923).

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Marina Cvetaeva 1892-1941

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Come grida un bambino: verso di te! – e lanciare le mie braccia una a Oriente l’altra a Occidente, ma più… ma meno… È la vita, questa formatrice d’anime, che mi forza a recitare questa farsa.26 L’essere umano che è in me io lo tratto come un cane: quando mi è venuto a noia lo lego alla catena.27

L’universo di Marina Cvetaeva è composto di due mondi, strutturato in due piani radicalmente eterogenei, ma non è spaccato in due, bensì tiene tutto insieme in un nesso di stretta contiguità. Il dissidio con l’esistente si travasa direttamente nello sforzo del dire, nelle rigorose leggi di suono, stile e ritmo della poesia. Non è un caso che gli epistolari siano gli scritti più affascinanti di Marina Cvetaeva. In essi c’è già tutto, il verso che si forma da un gioco di assonanze, la poesia donata in lettura, il prima e il dopo, la vita materiale e la vita spirituale, le amicizie, gli amori, gli uomini, le donne, la fama e l’abbandono. Le lettere esprimono le molteplici forme assunte dall’insaziabile immaginazione di Marina Cvetaeva: la vita vera “senza eventi casuali, tutta fatale, dove tutto si avvera”,28 il poeta che in ogni “ultima” poesia vuol dire l’impossibile e simbolicamente muore come un antico eroe, la poesia e l’amicizia come azione oltre le parole, comunione spirituale.29 Le turbinose manifestazioni della sua esistenza, tesa costantemente tra l’amour passion, lo spirito di sacrificio, l’autodistruzione, la protervia, la rivolta, l’impersonalità, mettono in gioco, volta a volta, la sua anima romantica, la sua mente voltairiana, lucida e spietata, l’esagerazione di una tempra vitale e robusta, e il senso di disciplina calvinista ereditato dalla madre. Gli epistolari rappresentano la scena, lo spazio interiore della sua opera poetica, perché non costruiscono la biografia di Marina Cvetaeva, ma la sua esistenza\essenza di poeta mediante un costante lavoro di perdita e riconquista, di dispendio e guadagno: il vuoto diventa pieno, la dismisura misura, l’emozione viene prosciugata dalla parola.

26 27 28 29

Ibidem, pp. 128-129 (lettera a A.G. Višnjak del 9 luglio 1922). Ibidem, p. 155 (lettera a B.L. Pasternak dell’11 febbraio 1923) Ibidem, pp. 242-243 (lettera a A.V. Bachrach del 10 settembre 1923). Vedi ibidem, p. 114 (lettera a M.A. Vološin del 7 novembre 1921)

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Le Imperdonabili

Questo regime paradossale di scambio tra quanto è più distante e eterogeneo, compiuto in forma perfetta e estrema, diventa in Marina Cvetaeva la condizione etica della sua poesia, espressa in mille modi e riassunta nel “non riesco a vivere”.30 Siamo di fronte all’impossibile – l’imperdonabile – che non trova posto nemmeno nella forma spaziosissima dei suoi versi e delle sue prose, e assume la cifra grafica di tutti i suoi scritti : il trattino. Tra i trattini, a volte dopo il punto, e in molte delle acrobazie ritmiche e sonore di cui è maestra, si apre il precipizio, uno spazio senz’aria. Di qui le impennate, il respiro ansimante, il saltare le staccionate della punteggiatura. Di qui il suo essere poeta, come superbamente ha osservato Brodskij,31 nel senso più autentico del termine: concisione, laconismo, eliminazione del superfluo, rifiuto di avere altro giudice delle proprie emozioni che non sia la parola, sete di precisione. Per Brodskij la verità, anche biografica, di Marina Cvetaeva sta nella tonalità tragica, da compianto o lamento funebre, che essa attribuiva all’essenza del linguaggio. Sentimento tragico che è tutto il contrario del lirismo – e nessuna più di Marina Cvetaeva, egli aggiunge, ha sottratto la poesia russa alla consolazione, alla melodia, per riportarla vicina ai fenomeni reali, alle cose banali e a quelle straordinarie, saltando oltre l’ovvio. Il “registro alto” della voce cvetaeviana farebbe parte dell’esercizio di purificazione, scarto, essenzializzazione, che è, ad un tempo, affermazione del linguaggio come giudice supremo, e coscienza tragica, assunzione della negazione come legge del reale. Brodskji non manca di suggerire che la scelta della prosa – dopo il 1921 Marina Cvetaeva, per ragioni immediatamente pratiche, le difficoltà dell’emigrazione, l’isolamento, pubblicò un’unica raccolta di poesie, Dopo la Russia,32 uscita a Parigi nel 1928, e contenente versi del 1922-25 – fu come dilatare la sfera in cui si era isolata, sfuggire un po’ all’assolutezza della poesia, pensare al proprio pubblico. Chi scrive in prosa sente maggiormente il rapporto empatico con il lettore, sa che questi è suo complice e giudice: 30 Vedi ibidem, pp. 242-243 (lettera a A.V. Bachrach del 10 settembre 1923). 31 Vedi J. Brodskij, “Un poeta e la prosa”, in Il canto del pendolo, tr. it. a cura di G. Forti, Adelphi, Milano 1987, pp. 177-196. 32 Vedi M. Cvetaeva, Dopo la Russia e altri versi, tr. it. a cura di S. Vitale, Mondatori, Milano 1988.

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Marina Cvetaeva 1892-1941

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la lettura è prima di tutto con-creazione […] La mia poesia lo ha stancato: vuol dire che l’ha letta bene – e quello che ha letto è buono. La stanchezza del lettore è creativa, non distruttiva. Con-creativa. Fa onore al lettore e a me.33

Dietro questa affermazione c’è l’esperienza della lontananza, che nell’epoca moderna, e in quella tragica di Marina Cvetaeva, separa il poeta dal suo pubblico. Si spiega così perché nella prosa, per quanto rigorosamente vincolata alle leggi della sua poesia, Marina Cvetaeva metta a parte del suo laboratorio poetico, smonti e sveli ciò di cui sono fatti una parola, un pensiero, una frase. Prendendosi una pausa, un po’ di respiro, scrivendo saggi, lettere, Marina Cvetaeva permette di guardare meglio all’essenza di quel dissidio con la realtà, di quel “io non sono fatta per la vita”, che è la condizione etica della sua estetica, della sua dedizione assoluta al linguaggio. Scrivendo in prosa, Marina Cvetaeva lavorava su se stessa, mettendo in luce come il suo isolamento non avesse nulla di programmatico, non fosse il prodotto del mito del poeta che, in perfetta solitudine, ascolta l’eterno, ma le fosse imposto dal linguaggio corrente, dalle circostanze storiche, dal livello culturale dei suoi contemporanei. Non a caso, rifiuto dell’esistente (responsabilità etica, ricerca della verità) e primato dell’estetica (lingua come giudice supremo dell’esistenza) si sfidano a duello negli scritti in cui Marina Cvetaeva parla del poeta e del suo tempo, la rivoluzione. Contemporaneità non contemporanea Comprendetemi nella mia posizione solitaria (alcuni mi considerano ‘bolscevica’, altri ‘monarchica’, altri ancora – l’una e l’altra cosa – e tutti – fuori bersaglio) – il mondo va avanti e deve andare avanti: io invece non voglio, non MI PIACE, ho il diritto di non essere contemporanea a me stessa, giacché se Gumilev dice: Sono cortese con la vita d’oggi… Io con lei sono sgarbata, non le faccio oltrepassare la mia soglia, la getto giù – semplicemente – dalle scale.34

33 M. Cvetaeva,” Il poeta e la critica”, tr. it. in Il poeta e il tempo, cit., pp. 39-41. 34 M. Cvetaeva, Deserti luoghi, cit., p. 182 (lettera a V.N. Bunina del 19 agosto 1933).

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Le Imperdonabili

La poesia di Marina Cvetaeva non fu mai consolazione o fuga dall’epoca o dalla società: contro l’epoca e contro la società fu immersione e sfida nell’immensa e terribile contemporaneità della Russia del ‘900. Contemporaneità per Marina Cvetaeva fu la rivoluzione. L’evento storico peraltro si espande e si dilata nel suo universo: la rivoluzione comprende infatti il “prima”, il rivolgimento sociale e culturale, annunciatosi già all’inizio del ‘900 con l’abbandono dello stile di vita borghese aristocratico e il rinnovamento della tradizione letteraria, e il “dopo”, che significò “dopo la Russia”, ovvero la povertà e l’esilio. Nessuna più di Marina Cvetaeva poteva prendere sul serio la rivoluzione. Il suo modo di sentirsi poeta aveva molto a che fare con le forze barbariche, eroiche della rivoluzione, con il suo irrompere nella vita dei singoli con la furia distruttiva, carica di novità e di ignoto, che Kleist, all’epoca della rivoluzione francese, rappresentò nella Pentesilea che irrompe nel campo degli Achei.35 Eppure Marina Cvetaeva si sentì non contemporanea rispetto alla sua epoca, fu in disaccordo sia con i rivoluzionari in politica, sia con i rivoluzionari in letteratura. L’interesse della sua posizione sta nel fatto che non è riducibile all’antitesi tra vita storico-politica e vita poetica. Sappiamo che la tensione tra il vivere e la vita, tra il quotidiano e l’eterno, tra banalità e ispirazione, nutre la sua poesia: “la vita quotidiana (cioè la Rivoluzione) e l’Esistenza (io)”.36 Tale tensione diventa tuttavia una forza di straordinaria efficacia per entrare dentro il suo tempo, il tempo della rivoluzione, per esserne la cronista che dice tutto, cioè dice la verità: E ancora una preghiera: trovatemi un editore per un libro di prose: Indizi terrestri – appunti moscoviti del 1917-fine 1919. C’è Mosca, la Rivoluzione, la vita quotidiana, mia figlia Aljia, i miei sogni, pensieri, osservazioni, incontri – una sorta di diario dell’anima e degli oc35 Vedi H. Kleist, Pentesilea, tr. it. a cura di A. Chiarloni, Einaudi, Torino 1989. 36 M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, cit., p. 165 (lettera a R.B. Gul’ deell’11 marzo 1923). L’antitesi tra byt e bytie, tra esistenza quotidiana e Esistenza, è messa in risalto da S. Vitale, “Introduzione” a M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, cit., pp. XIII-XIV.

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Marina Cvetaeva 1892-1941

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chi. È un grosso libro: quasi 450 pagine dattiloscritte, di formato grande. (Quanti fogli di stampa?) Gli scogli di questo libro: la controrivoluzione, l’odio per gli ebrei, l’amore per gli ebrei, l’esaltazione dei ricchi, la vituperazione dei ricchi, e, malgrado le evidenti simpatie per i Bianchi, un pieno tributo di ammirazione per alcuni irreprensibili comunisti vivi. E ancora: il feroce amore per la Germania, la derisione del patriottismo bovino (dei russi!) nel primo anno di guerra. In poche parole: l’editore, come la mia gabbia toracica, deve riuscire a contenere TUTTO. Qui sono tutti offesi, tutti incolpati e tutti giustificati. È il libro della VERITA’. È così.37

Più che un divario, quella tensione produce movimenti sismici e ampi spostamenti nei diversi, solidissimi strati che costituiscono le vaste coordinate del mondo di Marina Cvetaeva. In primo luogo c’è la Russia, il mito esotico degli intellettuali europei e in particolare tedeschi degli anni ’10 e ’20, che vedevano il paese di Tolstoi e di Dostoevskji come un’India avvolta nella nebbia, un Oriente non segnato sulle carte geografiche. La stessa Marina Cvetaeva vive il suo paese natale come estremo confine terrestre, il cui volto viene definitivamente mutato dalla guerra e dalla rivoluzione. Quindi c’è la Germania di Kant e di Goethe, amata da una donna di formazione classica, di vasta e eccellente cultura (parlava e leggeva correntemente il tedesco e il francese). Ci sono ancora le leggende e la Bibbia, il folclore popolare e infine la natura, le selve boeme, la montagna, capace di ricomparire persino nel mezzo della metropoli, a Parigi durante l’esilio, nella vecchia casa “non costruita, bensì scavata”, con le scale “ammonticchiate”,38 in cui abita la pittrice Natal’ja Gončarova. L’essere poeta di Marina Cvetaeva ha l’ampiezza e la molteplicità di espressioni del suo rapporto con il mondo storico, culturale e spirituale. Forse solo il termine tedesco dichten – poetare, ma anche accumulare, condensare – aiuta a cogliere il carattere di una poesia che era attorniata, preceduta e seguita, nasceva per “drenaggio”39 da un’attività multiforme di scrittura, iniziava nel 37 Ibidem, p. 172 (lettera a A.V. Bachrach del 9 giugno 1923). 38 M. Cvetaeva, Natalia Gončarova, cit., p. 7. 39 Vedi M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, cit., p. 152 (lettera a B.L. Pasternak dell’11 febbraio 1923).

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Le Imperdonabili

quaderno, si modellava nelle lettere, e prendeva infine la forma di un saggio o di un poema o di una lirica. La poeta\scrittrice compone testi che sono, volta a volta, ghiaia o materia compatta, esigono drenaggio o scomposizione, sono grumi di pensiero da sciogliere o massa informe e fluttuante da prosciugare e rendere petrosa e risonante come una caverna. Solo in questa prospettiva è possibile capire in che modo la rivoluzione\contemporaneità, ben lungi dall’essere vissuta come un disgraziato incidente individuale e collettivo, acquisti per Marina Cvetaeva significati molteplici, non riducibili all̓ambito politicosociale, e spesso di indice rovesciato rispetto a quelli comunemente accettati. Si può essere rivoluzionari in molti modi. Chateaubriand si schierò contro la rivoluzione francese, ma iniziò la rivoluzione del Romanticismo.40 Il poeta è contemporaneo non perché proclama il proprio tempo il migliore di tutti, e neanche perché semplicemente lo accetta – anche il no è una risposta! – e neanche perché risponde in questo o quel modo agli avvenimenti (il poeta stesso è un avvenimento del suo tempo, e ogni risposta a questo avvenimento – singolo e singolare – ogni autorisposta sarà immediatamente risposta a tutto); la contemporaneità di un poeta non è nel contenuto (- Che cosa volevi dire in quella poesia? – Esattamente quello che in questa poesia ho fatto), non lo è a tal punto che a chi scrive queste righe è accaduto di sentire con le proprie orecchie (avevo appena recitato il mio Prode): – È sulla rivoluzione? (Dire semplicemente che l’ascoltatore non aveva capito sarebbe non capire noi stessi giacché: non sulla rivoluzione, la rivoluzione – il suo passo). Dirò di più: la contemporaneità (nella variante russa: rivoluzionarietà) di un’opera non soltanto non è nel contenuto ma talvolta è malgrado il contenuto, quasi a suo dispetto.41

Il problema posto da Marina Cvetaeva è storico e reale, perché ha al centro le vicende e le scelte del poeta e dell’intellettuale di fronte alla rivoluzione. Per citare due figure a lei molto vicine: 40 M. Cvetaeva, “Il poeta e il tempo”, cit., p.61. 41 Ibidem, p. 54.

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Marina Cvetaeva 1892-1941

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Majakovskji si schierò platealmente con la classe operaia, Pasternak, in una posizione più solitaria e complicata, si sentì comunque in dovere di confrontarsi con le questioni economiche e sociali del regime sovietico. Marina Cvetaeva, si è detto, prende sul serio il nesso di rivoluzione e contemporaneità, che aveva invaso a tal punto la sua esistenza e la sua epoca da finire per condurre a una totale identità dei due termini. Lo prende sul serio e lo dilata per far sì che esso accolga tutto quanto spumeggia sulla superficie dell’epoca, ma anche il suo contrario. La rivoluzione appare allora nella sua accezione più vasta e solenne: attività creatrice di un’epoca. Questa fu l’opera (e il destino) dei grandi poeti come Goethe e Puskin – crescere organicamente con e dentro il proprio tempo. Lo stesso rapporto sembra si riproponga per la pittrice a cui Marina Cvetaeva dedicò uno splendido ritratto in prosa: Natal’ja Gončarova. Emigrata già prima della rivoluzione e radicata a Parigi senza perdere nulla delle sue origini nella campagna russa, è una creatura che si muove liberamente nello spazio, non è soffocata né oppressa da nulla. Appare subito chiaro che questo tipo di contemporaneità, capace di creare un’epoca, ha molto della vittoriosa sovranità sul tempo dei classici: essa non contempla infatti né avanguardie né retroguardie, se non come fanalini di coda, attraversa liberamente il passato e il presente. È un’attualità che è profonda autenticità. L’arte, quando è vera, è sempre rivelatrice e creatrice di un’epoca e pertanto è sempre contemporanea. Rivoluzione per Marina Cvetaeva designava tuttavia anche la condizione del poeta contemporaneo, che non cresce più organicamente, anzi è in dissidio con la propria epoca. A differenza di Puskin e di Goethe, ci sono poeti sfasati rispetto al loro tempo: anche loro sono contemporanei, ma di un’epoca a venire, oppure, come nel caso di Hölderlin, contemporanei della grecità, quindi in ritardo di molti secoli, ritardo che poi miracolosamente viene colmato, nel momento in cui, nel XX secolo, vengono sentiti vicini e attuali. L’accadere di tale “miracolo” significa che la contemporaneità\ rivoluzionarietà dell’arte non è la dimensione di un tempo scandito da unità fisse e ordinate (passato-presente-futuro), bensì appar-

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Le Imperdonabili

tiene a un tempo intermittente e discontinuo, dotato di una mobilità veloce, concentrata in punti\eventi, che riuniscono in sé il vivo intreccio dei tempi, l’inizio e la fine, il passato e il futuro. Tali punti/eventi non stanno sempre al centro, anzi spesso si collocano in zone di confine, di periferia, quelle, per esempio, della Russia trasformata dalla rivoluzione, in cui le città non sono più città, e la campagna non è più campagna. Quello del poeta è un tempo in trasformazione, in fermento, in movimento accelerato. È il tempo dell’accelerazione rivoluzionaria, ma con una differenza fondamentale: non aspetta palingenesi o rigenerazioni globali, né ha bisogno della conferma o della sanzione del presente. Il suo presente è sempre altrove. Ecco allora profilarsi il difficile e aspro rapporto del poeta con il presente. C’è un lato di dipendenza, di servitù e di violenza nel rapporto del poeta con il suo tempo, che si trasforma in una “personale sfida”. Il poeta diventa infatti la voce del tempo contro se stesso, maledizione e invocazione, perché contende al tempo qualcosa che non appartiene né all’uno né all’altro: l’eterno. Come ben sapeva Marina Cvetaeva, sul poeta incombe, soprattutto nelle epoche rivoluzionarie, il rischio del tradimento, dell’abiura della propria vocazione: Dalla storia non si può uscire con un salto. Se Esenin lo avesse capito, avrebbe tranquillamente cantato, non solo il suo villaggio, ma anche l’albero che fioriva nella sua isba, e quell’albero non lo avrebbero tolto dalla poesia del XX secolo neanche a colpi d’ascia.42 [...] che tu accetti la Rivoluzione o che non ti curi di lei, o che la rifiuti, essa è comunque in te – da sempre (l’elemento naturale) e da quel 1918 russo che, ti piaccia o no, c’è stato.43

Il poeta, dunque, è trafitto dal suo tempo. Ben lungi dal restarne indenne o indifferente, si trova nel suo punto più doloroso: non può rappresentarlo, né, probabilmente, imparare alcunché dalla sofferenza che esso gli procura. Piuttosto, sente che fa parte della sua carne, che gli entra dentro come attraverso una ferita. 42 Ibidem. 43 Ibidem, p. 61.

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Marina Cvetaeva 1892-1941

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Marina Cvetaeva ha i suoi buoni motivi per disdegnare il problema dell’applauso, dell’accettazione o del contenzioso con il proprio tempo. Il poeta, si è visto, è un “avvenimento del suo tempo”, allo stesso titolo della rivoluzione bolscevica, perché, analogamente ad essa, sia pure in forma diversa, contribuisce a costituirlo. Ciò è possibile però a condizione che la storia venga considerata una forza naturale che agisce allo stesso modo dei salici, delle isbe e della pioggia, energia che nutre, ma è anche d’ostacolo.44 Vengono a illuminarci stupefacenti inversioni. La poesia di Marina Cvetaeva, Perekop, scritta nel 1920 a Mosca e dedicata agli ufficiali Bianchi, “suona” molto di più per i Rossi, celebrati, se ne dovrebbe concludere, con la lingua del nemico. E ancora: poemi scritti in solitudine da Marina Cvetaeva, che non fece mai parte di gruppi o scuole, in Russia avevano un pubblico, per quanto anonimo, mentre gli ascoltatori di una serata letteraria parigina, il pubblico dell’emigrazione che magari la ammirava e pubblicava i suoi libri, non rappresentavano in alcun modo una rottura del suo isolamento. Si annuncia un’accezione di tempo e di storia molto più ampia del segmento di epoca sul cui altare molti scrittori sacrificarono la propria vocazione. Tempo e storia vengono intesi come contesto spirituale, geografico e culturale, che comprende la Russia, certo, ma anche un passato, considerato eredità e tradizione, che aiuta a capire perché Rossi e Bianchi vibrino sugli stessi toni epico-cavallereschi. La contemporaneità del poeta è dunque un andare al passo con il tempo nel senso più intimo e intenso, muovendosi liberamente tra i suoi margini dimenticati e i punti in cui è possibile sopravanzarlo. Il poeta è quindi rivoluzionario, quando assume il “ritmo” bellicoso della rivoluzione, la sua pulsazione intesa come forza vitale dello stesso tipo dell’albero di Esenin o degli acquazzoni di Pasternak. Se il poeta è il suo tempo, prenderà ordini direttamente da esso, non certo dal partito. La contemporaneità intesa in questo modo comporta allora distillare i fenomeni del tempo, non solo ri44 Vedi M. Cvetaeva, “Poeti con storia e poeti senza storia”, in Il poeta e il tempo, cit., p. 187, a proposito degli acquazzoni di Pasternak.

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Le Imperdonabili

echeggiarli, a volte tacerli, ma cercare dei contrappesi – la solitudine eroica che fronteggia il mito collettivista –, degli antidoti. Marina Cvetaeva può così mostrare la sua grande apertura mentale: riconosce la grandezza tragica di Majakovskji e insieme, raggiungendo per vie imprevedibili un’altra imperdonabile, Etty Hillesum, ritiene Rilke indispensabile al nostro tempo come un sacerdote sul campo di battaglia: per pregare, per chiedere – per gli uni e per gli altri, per loro e per noi – la luce sugli ancora vivi e il perdono per i caduti.45

Come se il più rivoluzionario dei poeti e il più appartato, refrattario e sognante, segretamente si alleassero per prendere la storia a contropelo, e svelarne gli abissi nascosti o l’indecifrabile amarezza che accomuna il destino dei vinti e dei vincitori: Pasternak, appena nato, è subito scomparso dalla superficie degli avvenimenti: svanito nel nulla. E per quanto poi, dieci anni dopo, si sia sforzato di divenire, non foss’altro che l’ultima ruota nel corso della storia, della storia degli uomini – non foss’altro che un granello di sabbia sotto le sue enormi macine, è il rovescio della storia che, nel paese delle quercie e dei salici, diventa ineluttabilmente, nel senso letterale della parola, il volto della storia.46

Occorre tuttavia chiarire che la storia di Marina Cveateva, che ha l’intensità e l’intimità del battito cardiaco, il “passo” e l’impulso dell’evento rivoluzionario e, d’altra parte, parla, si manifesta attraverso la solidità di una fortezza, l’inutilità di un’isba abbandonata, l’inesorabilità di un uragano, più che attraverso ambigue azioni umane, non è una storia naturale o originaria più vera di quella combattuta e sofferta sui campi di battaglia, nelle piazze o nei parlamenti. È piuttosto una storia che raccoglie dalla rivoluzione la spinta simbolica ideale all’autenticità, alla rivelazione e creazione di un’epoca, ma ne respinge la fiducia nella felicità, nell’abolizione del negativo e del doloroso.

45 M. Cvetaeva, “Il poeta e il tempo”, cit., p. 67. 46 M. Cvetaeva, “Poeti con storia e poeti senza storia”, cit., pp. 171-2.

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Marina Cvetaeva 1892-1941

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Marina Cvetaeva si sottomise, come tutti i grandi poeti, alla maledizione di una vita sempre sull’orlo della catastrofe. La vulnerabilità nelle sue svariate forme, dalla tortuosità dei desideri alle infedeltà del cuore alle ingiustizie del mondo, furono il prezzo da lei testardamente, non certo passivamente, pagato per il dono poetico e per la probità intellettuale ad esso immancabilmente legata. Marina Cvetaeva non si sottrasse alla maledizione del poeta – quella che già faceva dire agli antichi che gli dei mandano in rovina alcuni “eletti”, perché ci sia materia di canto e di ricordo – ben sapendo che essa è l’unico scandaglio sull’epoca in grado di farci sentire, insieme, l’irrimediabile infelicità, oltre ogni sogno di trasformazione economico-sociale, e la forza rigeneratrice insita nella catastrofe. Molti poeti a lei contemporanei – Majakovskji, Pasternak, Brecht – furono travolti dalla volontà di rendere migliore un mondo malvagio, e ciò li portò in irrimediabile rotta di collisione con la vocazione poetica. L’eroica assunzione su di sé di una contemporaneità non contemporanea protesse sempre Marina Cvetaeva da questo pericolo. Mai il “dolore” della sua esistenza fu interamente trasfigurato dalla benedizione della parola poetica, perché, da poeta qual’era, sapeva che si trasfigura ciò che si ama, e riservò sempre a sé l’aspro diritto di odiare alcune, molte cose. Mai le sue metafore ambirono a esprimere totalmente l’infelicità storica reale, perché sapeva che la poesia può succhiare l’energia dalla ferita, può trovare il momento augurale della sciagura, “accade” essa stessa, e lenisce alcune pene con il canto, ma non potrà mai far sì che il male non sia accaduto.

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INGEBORG BACHMANN 1926-1973

L’esperienza, unica maestra Io: (forte) Cosa c’è nel mio Io di peggiore che in altri? Malina: Niente. Tutto. Perché tu puoi fare solo cose vane. Questo è l’imperdonabile. Io: (piano) Anche se è l’imperdonabile, mi voglio sempre sperperare, smarrire, perdere. Malina: Quello che vuoi non conta più. Nel tuo posto giusto non potrai volere più niente. Là sarai talmente te stessa che abbandonerai il tuo Io. Sarà il primo posto in cui il mondo verrà guarito da qualcuno.1 Solo sulla data ho dovuto riflettere a lungo, perché è quasi impossibile per me dire ‘oggi’, sebbene ogni giorno si dica, anzi, si debba dire ‘oggi’, ma se qualcuno mi comunica quel che si propone di fare oggi – per non dire domani – non assumo, come di solito dicono, uno sguardo assente, ma uno molto attento, per l’imbarazzo, tanto è privo di speranza il mio rapporto con l’’oggi’, perché questo Oggi lo posso passare solo con una tremenda angoscia e una fretta pazzesca, e scrivere, o solo dire, in questa tremenda angoscia, ciò che succede, perché si dovrebbe distruggere subito quello che viene scritto sull’Oggi, come si strappano, si spiegazzano, non si finiscono, non si spediscono le lettere vere, perché sono di oggi e perché non arriveranno più in nessun Oggi… Solo io temo sia l’ ‘oggi’, che è per me troppo eccitante, troppo enorme, troppo commovente, e in questa eccitazione patologica sarà per me ‘oggi’ fino all’ultimo momento.2 Sto parlando della paura. Chiudete tutti i vostri libri, chiudete l’abracadabra dei filosofi, di questi satiri della paura che scomodano la metafisica e non sanno che cosa sia la paura. La paura non è un mistero, non è un termine tecnico, non è un

1 2

I. Bachmann, Malina, tr. it. di M.G. Manucci, Adelphi, Milano 1973, p. 272. Ibidem, pp. 12-13.

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Le Imperdonabili

dato esistenziale, nulla di sublime, non è un concetto. Dio ne guardi, non è sistematizzabile. Sulla paura non c’è da discutere, è l’aggressione, è il terrore, l’attacco massiccio sferrato alla vita.3

La figura di Ingeborg Bachmann concentra in sé quanto di più vivo e ardente il Novecento abbia mostrato. Formatasi in tempo di avanguardie, di sperimentazione linguistica e di speranze nel mutamento sociale, di interrogazione sul compito e sulla possibilità della poesia “dopo” Auschwitz,4 sulla crisi del romanzo e della metafisica, non ha perseguito obiettivi di innovazione tecnico-formale o contenutistica, né ha professato fedi ideologiche. È stata piuttosto una scrittrice dotata di un fortissimo senso della storia – non era una lettrice assidua di poesie, ma leggeva testi di economia, storia, politica.5 Il contesto fondamentale della sua opera è costituito dalla storia europea, austriaca e tedesca in particolare, dal nazismo e dalla guerra, dallo smarrimento e dalla confusione spirituale di un’epoca priva di riferimenti, abbandonata alle frasi fatte, ai ruoli burocratici e agli stereotipi della cultura massificata. Ingeborg Bachmann corrisponde solo in modo molto approssimativo alla leggenda, alimentata dall’indiscrezione del mondo letterario, della poeta assoluta, esistenzialmente fragile e cerebrale, indifesa e sofferente. Il processo spirituale che sta alla base della sua 3 4

5

I. Bachmann, Il libro Franza, cit., p. 231. Vedi l’osservazione, variamente ripresa e interpretata, di Th.W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, tr. it. Einaudi, Torino 1972, p. 22: “La critica della cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie: scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere poesie oggi”. Vedi I. Bachmann, In cerca di frasi vere, tr. it. a cura di C. Köschel e I. von Weidenbaum, Laterza, Bari 1989, p. 74: “Cosa leggo? Molti libri che trattano materie specifiche, documentazioni che riguardano l’ultima guerra e la storia più recente; tutto tende principalmente alla comprensione della storia, alla filosofia della storia e alla scrittura della storia” (intervista del gennaio 1963). Vedi anche ibidem, p. 85: “Io, per esempio, non amo particolarmente le poesie, o per meglio dire, non ne leggo volentieri. Tra le mie letture prendono poco posto” (intervista del 25\11\1964).

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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opera poetico-letteraria è piuttosto quello di un’intellettuale che occupò un ruolo di primo piano nel mondo culturale tedesco degli anni ’50 e ’60, interrogò la cultura e la società del suo tempo e tematizzò il proprio coinvolgimento in esse, portando dentro la scrittura poetica la questione etico-politica, sui cui scogli si infransero le esistenze di Walter Benjamin e di Paul Celan, per fare i nomi di figure che la ispirarono, e che segnarono anche la sua esistenza. La questione della possibilità o impossibilità della poesia, per molti della sua generazione squisitamente tecnico-formale, si concentrò e si espresse per Ingeborg Bachmann nel “dovere di aggiungere alla somma di esperienza che vi è nel mondo, schiettamente la propria”, nel “compito di far scaturire da se stessa il sempre nuovo coraggio della propria esperienza”.6 Solo così si spiega l’impegno teorico, lo sforzo di pensiero e di conoscenza, di comprensione della realtà, che presiede alla sua opera, la responsabilità morale attribuita alla scrittura, la serietà con cui affermò che l’espressione poetica necessita di un “pensiero nuovo”, il che non voleva dire altro se non l’espressione di un nuovo, per quanto doloroso, rapporto con la realtà. La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. […] Si è parlato della necessità di una spinta che per ora non saprei definire se non come spinta morale che precorre ogni morale, forza d’urto per un pensiero che agli inizi non si preoccupa della propria direzione, un pensiero che tende alla conoscenza e che vuole raggiungere qualcosa attraverso il linguaggio. Questo qualcosa potremmo chiamarlo provvisoriamente realtà.7

6 7

C. Wolf, “Pretesa di verità. La prosa di Ingeborg Bachmann” (1966), tr. it. in Pini e sabbia del Brandeburgo. Saggi e colloqui, a cura di M.T. Mandalari, edizioni e/o, Roma 1990, p. 51. I. Bachmann, “Domande e pseudodomande”, in Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, tr. it. di V. Perretta, Adelphi, Milano 1993, pp. 23-24.

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Le Imperdonabili

Ingeborg Bachmann frequentò l’università a Vienna nell’ambiente in cui era fiorito il neopositivismo logico, si laureò con una tesi su Heidegger,8 fu una delle prime lettrici di Simone Weil all’indomani della traduzione tedesca dei suoi scritti, diede impulso all’edizione delle opere di Wittgenstein, completamente ignorato nel primo dopoguerra, si nutrì dell’opera di Musil.9 Ingeborg Bachmann fu un’intellettuale critica con una forte tempra filosofica. Eppure, così come è riduttivo farla oggetto di rarefatte indagini poetologiche, oppure leggerla nella chiave esclusiva dei problemi di filosofia del linguaggio à la Wittgenstein o à la Heidegger, è impossibile risolvere la sua grandezza nel ruolo giocato sulla scena della letteratura tedesca del dopoguerra, che si interrogava sulla lingua tedesca andata in frantumi insieme alle rovine del nazismo. È noto che si trattò di una scena molto tormentata, spesso dominata da giochi di potere, da rivalità ideologiche e di gruppo, i cui protagonisti furono intellettuali ebrei e scrittori ritornati dall’esilio, come gli esponenti della Scuola di Francoforte, nonché la generazione dei giovani, tra i quali la stessa Bachmann e Uwe Johnson, per fare il nome di un autore a lei molto legato, che si trovavano ad affrontare il passato della Germania e la tragedia dell’Europa, presto divisa dal muro di Berlino, in un contesto già di normalizzazione e di oblio.10 8

Vedi I. Bachmann, La ricezione critica della filosofia esistenziale diMartin Heidegger (1950), tr. it. a cura di E. Mazzarella. Guida, Napoli 1992. 9 Lo documentano i radio-saggi, scritti nella prima metà degli anni ’50 e dedicati a Wittgenstein, a Musil, a Simone Weil. Vedi I. Bachmann, Il dicibile e l’indicibile, tr. it. Adelphi, Milano 1998. Per le vicende biografiche, vedi H. Höller, La follia del’assoluto. Vita di IngeborgBachmann, tr. it. di S. Albesano e C. Cappelli, Guanda, Parma 2010. Il libro, pubblicato nel 1999, era intitolato: Ingeborg Bachmann. Il titolo scelto per l’edizione italiana fornisce una prova, se ce ne fosse bisogno, della diffusione del luogo comune a cui sopra ho fatto riferimento. 10 Affronta con decisione questo problema lo studio di S. Weigel, Ingeborg Bachmann. Hinterlassenschaften unter Wahrung des Briefgeheimnisses, Paul Czolnay Verlag, Wien 1999. L’importanza di questo libro è soprattutto di metodo, in quanto dà un’energica spallata alla vasta letteratura bachmanniana intrisa di rigore germanistico, oppure fondata su una più che discutibile e improduttiva rincorsa all’inedito, alla testimonianza sulla vita ecc. Di forte rilievo per la ricezione dell’opera bach-

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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La grandezza di Ingeborg Bachmann – e probabilmente anche la vera chiave della sua indipendenza da correnti, mode, ideologie – sta nel fatto che volle essere poeta e scrittrice nel senso più alto, classico, assoluto del termine. Riuscì a esserlo, e come tale fu ed è riconosciuta, indipendentemente dalle polemiche sul suo precoce abbandono della poesia per la prosa, o anche dalle facili mitizzazioni. In Ingeborg Bachmann c’è travaglio creativo, ci sono momenti di blocco e di silenzio, c’è un’incessante interrogazione sul dicibile e sull’indicibile, ma non ci fu mai alcuna incertezza sull’importanza del rapporto tra funzione intellettuale e parola poetica: “L’importante è continuare a scrivere”.11 La sua risposta alla domanda sulla possibilità della poesia, che inquietò la generazione del dopoguerra, furono i libri del “dopo” (Auschwitz), gli imponenti progetti incompiuti, Cause di morte e Il libro Franza, a cui lavorò negli anni ’60, accumulando un vasto materiale di abbozzi e frammenti, e il romanzo Malina, l’unico e l’ultimo a essere pubblicato nel 1971. Questo lungo e tormentato processo di scrittura persegue infatti l’intento di ritrarre la società contemporanea in una nuova commedia umana, sul modello di Balzac, di Proust e di Musil.12 Ingeborg Bachmann volle dunque essere poeta e scrittrice nel senso classico del termine, e ci riuscì, ma portando dentro questa pretesa, ossia dentro una ricerca linguistica e espressiva tesa fino all’estremo, la ricerca del proprio posto nella storia dell’Europa uscita dal nazismo e dalla guerra mondiale. Ciò ha un’immediata ripercussione sul modo del tutto originale in cui intese il rapporto tra singolarità e storia, tra esperienza vissuta e scrittura. La sua fu manniana è anche il problema dei criteri usati nella prima edizione delle opere (Piper, 1978) a cura di C. Koschel e Inge von Weidenbaum, insieme a Clemens Münster, in particolare nel riordino dell’imponente materiale di inediti, manoscritti e frammenti legati al progetto di Cause di morte e al romanzo Il libro Franza. Le più recenti edizioni degli scritti bachmanniani non sembrano però riuscite a risolvere in maniera soddisfacente l’arduo compito di ricomporre testi incompiuti la cui gestazione occupa un arco temporale molto ampio. Vedi L. Reitani, “La nostalgia di Iside”, in I. Bachmann, Il libro Franza, cit., pp. 20-26. 11 I. Bachmann, “Letteratura come utopia”, in Letteratura come utopia, cit., p. 123. 12 Vedi L. Reitani, “La nostalgia di Iside”, cit.

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infatti una via solitaria, del tutto autonoma, non solo nei confronti delle sperimentazioni formali dell’avanguardia, ma anche rispetto alle teorie marxiste della letteratura, convinte negli stessi anni che la poesia potesse essere difesa solo facendo appello a un mutamento sociale. Ingeborg Bachmann ripete spesso nelle interviste che lo scritto le pare una forma di espressione più precisa e definitiva del parlato: parlando si resta un po’ dietro lo scritto e si brancola qua e là, in modo goffo, negli stessi dintorni nei quali scrivendo ci si era trovati a proprio agio.13

Queste parole mirano esplicitamente a rintuzzare i reiterati tentativi di estorcerle il “che cosa voleva dire” nei suoi racconti e poesie, e affermano con particolare forza la differenza tra l’opera e le dichiarazioni di poetica, le testimonianze sulla vita, i diari, i taccuini, i carteggi e gli scritti teorici dei poeti e degli scrittori. Chi insegue questo genere di documenti è mosso dal “desiderio di qualcosa di flebile”, di molto più flebile delle opere d’arte, la cui esistenza dovrebbe bastare.14 Ingeborg Bachmann sperimentò generi diversi di scrittura: poesia, racconto, romanzo, saggio, libretto d’opera, trasmissioni radiofoniche, articoli di cronaca, conferenze, discorsi. Non li considerò tuttavia puri esperimenti, ma esplorazione di diverse possibilità di esperienza e di scrittura, “attacchi e spedizioni che si muovono in quell’unica direzione, da diversi lati, con mezzi differenti”.15 Nella polifonia e nell’intertestualità, che rappresentano uno dei tratti distintivi dell’opera bachmanniana, non viene mai meno un’idea di scrittura, che è forma specifica di esperienza e di conoscenza del mondo. Sta qui il nucleo più profondo e originale della sua attività letteraria. La pretesa classica, assoluta, rivolta all’espressio13 I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., p. 110 (intervista del 15\9\1965). 14 I. Bachmann, “Domande e pseudo domande”, cit., p. 13. 15 I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., p. 67, p. 72, p. 101 (interviste del 31\10\1962, del gennaio 1963, del 1\5\1965).

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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ne poetica, invece di rinchiudere Ingeborg Bachmann in un’eletta cerchia di poeti e di scrittori d’impronta genericamente modernistica e drammaticamente eccentrici (valga per tutti il riferimento al suo amico Celan), trasforma la sua scrittura, da confronto esclusivo e diretto con i limiti e con le possibilità della lingua e delle forme, in appello, colloquio (spesso disperato) con ciò che accade, con chi viene incontro – l’altro, il tutt’altro – in dissidio, come si vedrà costantemente tematizzato, con le pratiche del discorso e della relazione intersoggettiva nell’epoca contemporanea. La scrittura poetica diventa così una forma di conoscenza e di esperienza del mondo che trae la sua specificità dalla tensione con la conoscenza di ciò che attiene all’ordine del fattuale. Essa non si distingue infatti solo dal parlato e dal suo andamento dialogico-discorsivo, ma anche dalla filosofia: Un’opera d’arte non argomenta. La metafisica, invece, argomenta e insiste nel voler trasmettere conoscenze.16

La lingua poetica non esplora la realtà intesa come mondo dei fatti, bensì apre a punti di irruzione in cui diventa riconoscibile ciò che non é fattuale. Traggono di qui il loro senso i principi fondamentali della poetica bachmanniana. Innanzitutto il “vedere” improvvisamente ciò che non è visibile, il passato nel presente, i desideri smisurati e sempre repressi, le relazioni e i significati dietro episodi slegati e insignificanti. In un discorso tenuto nel 1959 in occasione del conferimento del premio dei ciechi di guerra, Ingeborg Bachmann afferma che tutti desideriamo diventare “vedenti” e accenna all’”orgoglio di colui che nell’oscurità del mondo non rinuncia e non cessa di mirare a ciò che è giusto”.17 Si tratta di “vedere” oltre la superficie del visibile, rivolgendo lo sguardo a ciò che è “perfetto, compiuto, impossibile, irraggiungibile, sia pure amore, libertà, 16 I. Bachmann, “Il dicibile e l’indicibile. La filosofia di Ludwig Wittgenstein”, in Il dicibile e l’indicibile, cit., p. 58. 17 Vedi I. Bachmann, „Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar. Rede zur Verleihung des Hörspielpreises der Kriegsblinden“, in Werke, IV, a cura di C. Koschel-I. von Weidenbaum-C. Münster, Piper, Munchen 1993, p. 277.

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pura grandezza”.18 Questo tipo di “vedere”, che apre gli occhi e fa toccare ciò che non si può vedere, ha un diretto collegamento con la poesia e con la sua lotta con le parole per dire la verità.19 Esperienza e parola si sono drammaticamente separate nel mondo contemporaneo, ma il loro destino rimane per sempre intrecciato e la lingua diventa una sorta di organo di percezione intensificato. La parola deve essere “vera” perché deve dire le cose, farle essere in piena evidenza. Il compito assoluto del poeta, che ritroviamo ancora una volta nella formulazione del poeta assoluto, Rilke, assume in Ingeborg Bachmann la qualità di un impossibile che conferisce alla letteratura il suo carattere utopico. Mostragli, invece, solo le cose semplici, plasmate di progenie in progenie, che ci stanno presso le mani e dentro gli occhi, ormai siccome un nostro posseduto bene. Digli le cose: e indugerà stupito, come ti avvenne d’indugiare a Roma per rimirar l’industria del cordaio; o lungo il Nilo, l’arte prodigiosa che traduce nell’anfora l’argilla.20 La parola non farà che tirarsi dietro altre parole, le frasi altre frasi. Così il mondo intende definitivamente Imporsi, esser già detto. Non lo dite… Lasciate adesso per un poco 18 Ibidem, p. 276. 19 Vedi I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., p. 44: “vorrei anche poter sfidare le parole, poterle spingere ad arrivare alla loro verità” (Intervista del 1961?). 20 R. M. Rilke, “Elegie di Duino. La nona Elegia”, in Liriche e prose, tr. it. a cura di V. Errante, Sansoni, Firenze 1951, pp. 412-13.

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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Ammutolire ogni sentimento: che il muscolo cuore si eserciti altrimenti. Lasciate, vi dico, lasciate.21

Questi versi sono espressione di un contrasto teso all’estremo, ma del tutto reale. Apostrofano le parole – “A voi parole, orsù, seguitemi” – rivolgono loro l’appello di “non dirlo”. L’invito a “lasciare, lasciare”, a non dire, è paradossalmente formulato in forma di interlocuzione. Ingeborg Bachmann affida alle parole un altissimo compito di sperimentazione metafisica, per quanto rovesciata: non oltre l’esperienza, ma nel suo cuore, un compito che non va incontro alla teoria (la retorica dell’indicibile), bensì alla pratica (la scrittura), come se si fosse “catapultati in una traiettoria per la vita e per la morte, il cui accesso è vietato a ogni cosa e parola casuale”.22 La sua scrittura poetica si tende infatti verso l’estremo, l’impossibile per metterlo a contrasto con ciò che finge di essere possibile dietro il velo protettivo delle frasi fatte, dei ruoli e delle convenzioni. Inizia qui a profilarsi la fonte dei mille equivoci cresciuti intorno all’opera bachmanniana, e che insistono sull’impossibilità (a vivere, a scrivere, a amare) come cifra del suo mondo poetico. È vero che Ingeborg Bachmann ha esplicitamente posto il dolore come mediatore tra esperienza e verità.23 Si trattava del suo dolore di donna, ma anche di tutt’altro, e questo tutt’altro abita e viene ospitato nel suo dolore. In Ingeborg Bachmann c’è tutto. La disperazione e l’autonomia di pensiero, la solitudine e la resistenza eroica, la critica distruttiva e la ricerca della verità, l’impotenza della parola e il compimento dello sforzo linguistico.24 La scrittura nasce dunque dal bisogno di esperienza, dalla sua povertà nel senso benjaminiano:

21 I. Bachmann, “A voi, parole” (1961), in Poesie, tr. it. a cura di M.T. Mandalari, Guanda, Parma 1978, p. 155. 22 I. Bachmann,”Domande e pseudodomande”, cit., p. 25. 23 Vedi I. Bachmann, „Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar“, cit. 24 Vedi I. Bachmann, „Rede zur Verleihung des Anton-Wildgans-Preises“, in Werke, IV, cit., pp. 294-7.

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[…] le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo. Ogni occhiata al giornale ci rivela che essa è caduta ancora più in basso, che non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili. Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo.25

L’unica condizione perché si dia poesia autentica sono pertanto “esperienze nuove che vengono fatte, non respirate con l’aria”.26 Due riferimenti giocano qui dando vita a una nuova struttura di contrasto: le “poesie campate in aria” di una conversazione di Goethe con Eckermann e l’”aver bisogno della poesia come del pane” di Simone Weil: Il mondo è così grande e ricco, e la vita così varia, che non mancheranno mai soggetti di poesie. Ma devono essere tutte poesie di occasione: vale a dire, la realtà deve offrire il motivo e la materia… Tutte le mie poesie sono poesie d’occasione: la realtà le ha ispirate, e nella realtà hanno fondamento e sustrato. Di poesie campate in aria io non ne ho.27

25 W. Benjamin, “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov”, tr. it. in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 235-6. Vedi anche I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., p. 228 (intervista del maggio 1973), in cui si legge un commento del brano benjaminiano citato. 26 I. Bachmann, “Domande e pseudodomande”, cit., p. 22. 27 G. P. Eckermann, Colloqui con Goethe, I, tr. it. a cura di F. Donadoni, Laterza, Bari 1912, pp. 53-4 (18\9\1823).

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Il popolo ha bisogno di poesia come del pane.28

L’aria in cui non c’è nulla, e che forse per Goethe era il semplice rovescio di un “mondo grande e ricco”, è in realtà l’”aria che ci tocca respirare”,29 il mondo in cui è dato vivere, con tutto quanto in esso è accaduto, accade e s’impone brutalmente, sconvolgendo il pacificante esercizio dell’attività artistica. Ecco perché il pane di Simone Weil “dovrebbe stridere tra i denti come sabbia e risvegliare la fame piuttosto che placarla”.30 Per Ingeborg Bachmann l’esperienza “è l’unica maestra”.31 Se il disagio del poeta è lo stesso di tutti in un mondo fuori dei cardini, bisognoso di vigilanza e di risveglio, di occhi ben aperti, ciò significa che occorre riattivare la capacità di percepire, di fare esperienza, usandone tutte le possibilità per liberare forze che il presente non è in grado di sfruttare. A questo punto è chiaro che i temi del pensiero e della scrittura di Ingeborg Bachmann – dolore, orrore, mutismo, annichilimento, disperazione, colpa – non possono essere considerati semplicemente cifre di una critica della civiltà e della cultura moderna, o di una condizione esistenziale. Il poeta e lo scrittore contemporaneo, è vero, fanno esperienza della “malattia dell’epoca”, che è malattia del linguaggio, babele delle lingue, continuo rischio di ammutolire. Non si può però pensare che, dando ospitalità a quel mutismo, a quel silenzio, a quell’impossibilità, essi sperimentino la possibilità, l’utopia di una nuova voce, di una nuova lingua? 28 Vedi S. Weil, Quaderni, III, tr. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 321: “I lavoratori hanno bisogno più di poesia che di pane. Bisogna che la loro vita sia una poesia. Bisogno di una luce di eternità”. La formulazione citata nel testo compare in I. Bachmann, “Domande e pseudomande”, cit., p. 29. Vedi anche I. Bachmann, “La sventura e l’amore di Dio. Il cammino di Simone Weilˮ, tr. it. in Il dicibile e l’indicibile, cit., p. 102. 29 Vedi P. Celan, “Il meridiano. Discorso in occasione del conferimento del Premio Georg Büchner. Darmstadt, 22 ottobre 1960”, tr. it in La verità della poesia. Il Meridiano e altre prose, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p. 9. Si tratta di un testo che citerò ancora perché è un decisivo punto di riferimento per Ingeborg Bachmann. 30 I. Bachmann, “Domande e pseudo domande”, cit., p. 29-30. 31 Ibidem, p. 15.

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Le Imperdonabili

Quando parla di esperienza, occorre sempre ricordarlo, Ingeborg Bachmann si riferisce al “processo spirituale” di una creatura in carne e ossa, che vede, sente, pensa, spesso è travolta dagli avvenimenti e dalle emozioni, e parte da sé, nel senso più letterale del termine. Così parlava di se stessa, pur essendo refrattaria nei confronti dell’autobiografia. Di se stessa lettrice: “utilizzo solo frasi che avrei voluto scrivere io stessa”. Di se stessa scrittrice: “Perché chi prima non si è bruciato la mano, non può scriverne”. Si tratta di una prospettiva “in prima persona”, che è tuttavia il prodotto di una metamorfosi interna all’esperienza singolare, di per sé sempre dubbia, opaca, mancante.32 “Quel che si accumula nel visto, nel vissuto, quel che si designa con l’inadeguata parola ‘esperienza’”,33 l’esperienza vivente dell’io, riesce a mantenere il suo carattere bruciante solo se si riversa nella globalità dell’esperienza di un’epoca, se si trasmette per così dire all’oggettività, e diventa così fonte di conoscenza e di parola. L’idea che l’esperienza debba essere “fatta” è la spinta morale della scrittura di Ingeborg Bachmann, l’inserzione diretta della “propria” esperienza in quella del mondo, il suo Madame Bovary c’est moi. Nella forza di questo pensiero sta uno dei più ardui problemi per una scrittrice che ebbe sempre presenti le abiure, i silenzi, i blocchi creativi che investono i poeti nel nostro tempo. Da un lato, infatti, sapeva bene che l’esperienza ha una violenza, e una grazia, che vanno molto oltre le parole. Come si vedrà, spesso esige il segreto. Dall’altro, Ingeborg Bachmann ingaggia una lotta con le parole, fa dell’esperienza, delle sue lacune, dei suoi abissi un esperimento linguistico. Mette cioè al centro del suo sforzo di dire, di narrare, sia l’opacità delle frasi, l’orrore muto delle esistenze, sia l’attimo estatico ( la clausola di stile ricorrente “verrà un giorno”) e la lode: Ho visto dove le strade di Roma finiscono, insinuarsi in città il cielo trionfante, che non si chinava sotto nessun portone e si estendeva sopra i sette colli, azzurro dopo le scorrerie sulle coste della Sicilia e 32 Vedi I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., p.123 (intervista del 22\3\1971). 33 Ibidem, p. 133 (intervista del 23\3\1971).

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pieno dei frutti delle isole del mar Tirreno, illeso dopo gli assalti nel paese dei briganti d’Abruzzo e nero di grappoli di rondini, salvo sopra l’Appennino. Ho visto il lodato cielo d’ermellino e il cielo misero di tela di sacco, e ho visto nei suoi momenti migliori la sua mano tracciare rilassata la sezione aurea sopra i tetti.34

L’esperienza è l’unica maestra. È allora possibile non abusare dell’esperienza di Ingeborg Bachmann, soprattutto della sua intensità, è possibile assumere la sua grande, originaria esperienza di dolore, senza ridurla a uno dei tanti choc sentimentali elargiti dal cinema, dalla cronaca, dalla letteratura, o senza intellettualizzarla a destino esistenziale? Forse sì, se si afferra il filo che sporge dalla richiesta elevatissima che Ingeborg Bachmann ha rivolto alla scrittura: quella di essere il teatro dell’esperienza spirituale della sua epoca, di ridare vita alla perturbata situazione culturale europea, nel momento in cui questa restava prossima alla catastrofe, dopo aver soffocato nel vuoto le contraddizioni storiche e politiche. Il respiro classico, splendidamente installato nella cultura europea, di una scrittrice attraversata dalle lacerazioni del mondo contemporaneo, non può essere infatti considerato superficialmente la ragione ultima della sua riuscita poetica, una sorta di salvezza, bensì annuncia la fine e elegante ospitalità da lei offerta ai dilemmi del suo tempo, il pensiero e la forza creativa che le consentiranno di essere tragica, ma anche ironica, infelice, ma anche lieve e mondana, di mostrare, in fondo, la serenità un po’ svagata che le appariva il contrassegno dello spirito austriaco.35

34 I. Bachmann, „Quel che ho visto e udito a Roma“, tr. it. di A. Raja, in Quel che ho visto e udito a Roma, a cura di G. Agamben e J.D. Kogel, Quodlibet, Roma 2002, p. 121. 35 Vedi I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit. p. 18 (intervista dell’inizio 1955), in cui parla della „sublime serenità“ austriaca, a cui si uniscono però „tristezza e tratti inquietanti“. Vedi ancora ibidem, p. 57 (intervista del 5\1\1962) dove si parla della “dolcezza “ austriaca.

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L’imperdonabile In Ingeborg Bachmann si è stretto fortemente il nesso tra l’imperdonabile che lei è stata e l’imperdonabile della storia del ‘900. Si potrebbe dire che essere un’imperdonabile esprima esattamente chi è stata sul piano da lei stessa indicato nell’affermazione che “l’Io non è più nella storia, ma è la storia, oggi, a essere nell’Io”.36 È inevitabile partire dal semplice fatto che alcune date della biografia di Ingeborg Bachmann coincidono con fondamentali cesure storiche. Nata nella capitale di una provincia austriaca nel 1926, la fine della sua infanzia corrisponde all’annessione dell’Austria alla Germania, il primo, precoce dolore è segnato dall’ingresso delle truppe naziste a Klagenfurt, la fine della guerra avviene un anno dopo la maturità, l’inizio degli studi universitari e della formazione intellettuale va insieme alla “ricostruzione” e riorganizzazione della vita culturale austriaca, analogamente all’ ingresso sulla scena letteraria tedesca alla metà degli anni ’50. C’è dunque innanzitutto qualcosa che scava dal di dentro – svuota e spezzetta, distrugge – la biografia, la storia di una vita: l’imperdonabile, la colpa storica che grava sull’Austria e sulla Germania invade l’io e lo rende imperdonabile. Questa è la struttura fondamentale dell’esperienza individuale per Ingeborg Bachmann: essere esposti alla storia “senza ombrello”, come aveva scritto la pensatrice che aveva avuto la fortuna di conoscere di persona, Hannah Arendt.37 Il suo libro giovanile, dedicato a Rahel 36 I. Bachmann, „L’Io che scrive“, cit., p. 71. 37 Vedi H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, tr. it. a cura di L. Ritter Santini, Il Saggiatore, Milano 1989, p. 5: “Importante era esporsi alla vita tanto da esserne colpita ‘come il cattivo tempo chi è senza ombrello’ (‘Lei che cosa fa? Nulla. Lascio che la vita piova su di me’); e non usare, per ripararsi in qualche modo, né le qualità né le opinioni sulle persone che incontrava, sulle circostanze, sulle condizioni del mondo, sulla vita stessa”. Hannah Arendt e Ingeborg Bachmann si conobbero a New York nel giugno 1962. Fu un incontro molto significativo: Hannah Arendt propose poco dopo al suo editore tedesco Piper di affidare la traduzione di La banalità del male a Ingeborg Bachmann, che non se la sentì di accettare a causa dell̓insufficiente padronanza dell’inglese. Nella sua biblioteca c’erano alcuni libri arendtiani, Vita activa (1958) e Rahel Varnhagen (1959). Una lettera del 16\8\1962

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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Varnhagen, l’ebrea berlinese vissuta tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800, insegnava infatti a Ingeborg Bachmann che, a differenza delle rare eccezioni di esseri per cui sussiste un rapporto organico tra esistenza individuale e storia – “la Germania aveva diciotto anni quando Goethe aveva diciotto anni”38 – nell’epoca moderna la storia non rende significativo un destino individuale, al contrario, lo rende nudo emblema di ciò che fa violenza e spesso distrugge. Le “date” – la fatale coincidenza tra biografia individuale e avvenimenti storici – costituiscono la struttura dell’io, la sua coscienza interna dello spazio e del tempo, all’insegna di una privazione di esperienza, dell̓annullamento della possibilità di sottrarsi ai processi impersonali. L’importanza attribuita da Ingeborg Bachmann all’inizio impercettibile di tante storie catastrofiche tra uomo e donna, al primo sguardo dell’infanzia, è pertanto il contrario di un convenzionale interesse narrativo, tantomeno biografico. È piuttosto indizio di un’attenzione rivolta alla prospettiva cava, sospesa propria di ogni cominciamento. L’unità temporale dell’esperienza individuale risulta il presente vuoto, magari riempito da una vita emotiva puntiforme, in cui domina la coazione a ripetere, l’eterno ritorno dell’identico, una velocissima immobilità. Il tempo è lacerato tra l’”oggi” permanente delle angosce e degli amori, in cui non accade nulla di reale, e il terribile, impersonale “qualcosa accade” della Storia.39 In mezzo esprime l’importanza attribuita da Ingeborg Bachmann all’incontro con Hannah Arendt: “La grande apatia estiva a Roma è responsabile del fatto che non ce l’ho ancora fatta a mettermi a scrivere delle lettere, sebbene, nel pensiero, Le abbia spesso inviato oltre Atlantico un biglietto, sul quale non c’è molto, ma almeno dovrebbe esserci scritto: che sono stata molto felice di incontrarLa e di poter recarmi da Lei. Non ho mai dubitato che ci dovesse essere qualcuno come Lei, ma ora c’è Lei realmente, e la mia gioia straordinaria per questo durerà sempre”. Per la citazione e le altre notizie, vedi S. Weigel, Ingeborg Bachmann, cit., pp. 463-4. 38 Ibidem, p. 12. 39 Vedi P. Celan, “Il meridiano”, cit., p. 3: “L’Arte, Loro ricorderanno, è un essere marionettesco, giambico-pentapodale e – proprietà che è attestata anche nel mito, con Pigmalione e la sua creatura – senza prole. Configurata in questo modo essa forma l’oggetto di una conversazione che ha luogo, non nella Conciergerie, ma in una stanza; una conversa-

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non c’è nulla, c’è il vuoto, molto rumoroso, a dire il vero, perché riempito dagli infiniti discorsi sull’arte, sulla vita, sulla politica. La guerra inaugura per Ingeborg Bachmann il computo del tempo.40 Si tratta di una data che non misura il tempo che scorre, lineare e continuo, ma funge da compendio, da momento di una coscienza storica. In questo nuovo calendario vige un tempo “dilazionato”, come suona il titolo della sua prima raccolta di poesie, pubblicata nel 1953,41 spezzettato in tante particelle, che procede per discontinuità, a intervalli, in ritardo o in anticipo. È stato notato che le liriche bachmanniane sono piene di avverbi temporali: ancora, già, non ancora, prima di, da molto tempo, non più.42 Essi indicano un tempo in scadenza, scandito dall’inizio e dalla fine, tempo in urgenza, in stato di sospensione, di indeterminatezza, non di quiete. Questo è il modo in cui la storia “segna” – si dice anche di una data che è “segnata” – si inscrive nell’esperienza singolare.43 Qualcosa di analogo accade in città come Roma, con le sue stratificazioni di storia e di stile, e Vienna, capitale di un paese immobile, uscito dalla storia, con un passato rimosso e un presen-

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zione, la quale, lo si avverte, potrebbe essere continuata all’infinito; se non accadesse qualcosa. Qualcosa accade”. Vedi I. Bachmann, “Tra pazzi e assassini”, in Il trentesimo anno, tr. it. di M. Olivetti, Adelphi, Milano 1985, p. 89: “«Dopo la fine della guerra» – ecco come datiamo gli eventi”. Vedi I. Bachmann, Die gestundete Zeit, Frankfurter Verlagsanstalt, Frankfurt a.M. 1953 . Vedi H. Höller, “Die gestundete Zeit und Anrufung des Grossen Baren. Vorschläge zu einem neuen Verständnis”, in H. Höller (a cura di), Der dunkle Schatten, dem ich schon seit Anfang folge. Ingeborg Bachmann, Vorschläge zu einer neuen Lektüre des Werkes, LockerVerlag, WienMunchen 1982, p. 131. Si tratta degli avverbi: noch, schon wieder, noch nicht, ehe, wie lange schon, nicht mehr, nicht weiter. Anche qui è molto diretto il riferimento a Celan. Vedi P. Celan,” Il meridiano”, cit., pp. 13-4: “Forse si può dire che a ogni poema rimane inscritto il suo «20 gennaio»? Forse la cosa nuova nelle poesie che oggi si scrivono è precisamente questa: che si tenta con la massima possibile chiarezza di non smarrire il senso di tali date? Ma non è forse da queste date che noi deduciamo la nostra sorte? E a quali date la votiamo?”.

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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te vuoto. Nelle città della “vita doppia” di Ingeborg Bachmann, che viveva a Roma, come se fosse a Vienna,44 il tempo è diventato spazio archeologico, poroso, solcato da crepe trasversali, sotterranee. Quando l’esperienza dei singoli si costituisce nel modo appena descritto, come schiacciamento su un presente vuoto e spezzettato e invasione da parte di un accadere impersonale, avviene una catastrofe individuale e collettiva, quella che Ingeborg Bachmann chiama la “malattia dell’epoca”. Le persone si ammalano nella mente e nell’anima, si ammalano di epoca, di relazioni (per esempio, l’amore perde la sua grazia e diventa un’esperienza estrema e mortale), la loro lingua e i loro gesti impazziscono, diventano brutali o stereotipati,45 vengono commessi crimini e misfatti appena velati dall’opacità del quotidiano. Siamo di nuovo di fronte all’aspetto dell’opera bachmanniana che più ha sofferto di una lettura “letterale”, in realtà improntata a pregiudizi estetici e culturali. La descrizione delle atrocità di un mondo immemore e superficiale non si risolve infatti nello stereotipo della critica della cultura e dei valori dominanti. Ricordiamo che, in antitesi alle spiegazioni razionali, alla ricerca delle “cause”, alla denuncia ideologica, la storia “vive” nelle pieghe più profonde dell’esperienza e della psiche individuale, ed è articolata, come si è visto, in modo molto diverso dallo scorrere lineare del tempo e dal compiersi di eventi che si legano gli uni agli altri. A livello individuale, non si ha sviluppo, biografia, bensì accumulo di punti ciechi, di corrispondenze nascoste, di tracce confuse o cancellate, che nessuna narrazione potrà mai restituire o spiegare senza incorrere nella menzogna e nell’artificio. La sua verità si mostra soltanto all’io atterrito nel sogno, come avviene nel secondo capitolo di Malina. Il passato sprofondato, che riemerge traumaticamente, ha un’unica parola per esprimersi: no.

44 Vedi I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., p. 113 (intervista del 29\5\1969) e p. 178 (intervista del 5\5\1971). 45 Ibidem, p. 119 (intervista del 22\3\1971).

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Le Imperdonabili

Non riesco a dire niente, perché debbo andare via da mio padre e superare la muraglia di marmo, ma dico in un’altra lingua. Ne! Ne! E in molte lingue: No! No! Non! Non! Njet! Njet! No! Ném! Nein! Perché anche nella nostra lingua riesco a dire solo no, non riesco a trovare altre parole.46

A livello collettivo, la storia rimossa si cristallizza nella topografia delle città, diventa memoria pietrificata, come appare nello straordinario scritto del 1955, Che cosa ho visto e sentito a Roma.47 Il fatto che il tempo dell’esperienza e della scrittura sia sempre unicamente l’oggi, l’aria che ci è dato respirare, il presente puntuale, irripetibile, di un accadere che non ci appartiene, anche quando ha le stigmate eccitate della vita emotiva, o le sue “date” sono l’emblema di un destino storico per tanti versi indicibile e paralizzante, produce un effetto distruttivo, ma necessario. Solo in questo modo, infatti, il tempo dell’epoca si profila nella sua alterità irrimediabile, come spazio aperto di un’origine e di una destinazione in sospeso. Altrettanto forte quanto l’impulso distruttivo, in Ingeborg Bachmann è l’impulso alla salvazione. Occorre fare il vuoto, innanzitutto per far scomparire gli stereotipi dell’epoca, per portare l’accadere a una nudità che permetta di aprire lo spazio per qualcosa d’altro. Ciò che viene strappato a forza all’orrore e al disprezzo, ciò che è spezzato ha infatti una dimensione di realtà che non contiene solo l’esistente, ma anche l’utopia. Negli anni giovanili Ingeborg Bachmann aveva respirato l’aria del “principio speranza” di Ernst Bloch,48 che fa la sua apparizione, con un timbro del tutto personale, e un tratto molto sincopato e sospeso, nel brano di Che 46 I. Bachmann, Malina, cit., p. 157. 47 Vedi I. Bachmann, „Quel che ho visto e udito a Roma“, cit., pp. 117124. Questo scritto compare nel febbraio 1955 sulla rivista Akzente e viene considerato dall’autrice “non un racconto, bensì un’opera un po’ strana dal punto di vista formale, cui non saprei dare nessun nome”. Vedi I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., p. 19. 48 Vedi E. Bloch, Spirito dell’utopia, tr. it. a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti, Sansoni, Milano 2004; Il Principio speranza, tr. it. di T. Cavallo e E. De Angelis, Garzanti, Milano 1994.

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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cosa ho visto e sentito a Roma, che inizia con una citazione blochiana: A Roma ho visto nel ghetto che non bisogna lodare il giorno prima della sera. Ma nel giorno dell’espiazione a ciascuno sarà perdonato in anticipo per un anno. In una trattoria vicino alla sinagoga la tavola è apparecchiata, e i pesciolini rossastri del Mediterraneo sono serviti con uva passa e pinoli. I vecchi si ricordano degli amici che furono pagati a peso d’oro; quando furono riscattati, i camion partirono lo stesso, e loro non tornarono più. Ma i nipoti, due ragazzine in gonne rosso acceso e un bambino grasso e biondo, ballano in mezzo ai tavoli e non staccano lo sguardo dai suonatori. “Suonate ancora!” grida il bambino grasso e sventola il berretto. Sua nonna accenna un sorriso, e quello che suona il violino diventa molto pallido e salta una battuta.49

Il passato continua ad accadere nel presente e le sue atrocità prendono la forma dell’angoscia che fluttua nel vuoto di emozioni e di memorie devastate, e dell’immemore “ancora” dei bambini. Il presente non è affatto nuovo, e in esso può persino transitare qualcosa che è fuori del tempo. Dall’antica ricorrenza della religione ebraica risuona il precetto: “nel giorno dell’espiazione a ciascuno sarà perdonato in anticipo per un anno”. Il passato e il presente che si scambiano le parti, vanno e vengono l’uno nell’altro, producono stridenti contrasti. Siamo nello spazio degli estremi che si toccano, il perdono incondizionato e l’imperdonabile. In questo spazio vive in permanenza lo “spirito dell’utopia”: “non bisogna lodare il giorno prima della sera”. Storia della cultura, storia dell’epoca e storia del soggetto si incontrano in punti di fuga: non smarrire il senso delle “date” vuol dire concentrarsi su ciò che accade, esercitando una facoltà della mente e del cuore che Ingeborg Bachmann doveva aver appreso da 49 Ibidem, p. 120. Questo brano ebbe una replica in forma di poesia da parte di Gershom Scholem, che conobbe e frequentò Ingeborg Bachmann a Roma nel 1967. Allo ”spirito dell’utopia” che aleggia sulle parole di Bachmann Scholem contrappone un malinconico sguardo postmessianico. Per un’analisi dell’incontro a distanza di dodici anni del testo della Bachmann e di quello di Scholem, vedi S. Weigel, Ingeborg Bachmann, cit., pp. 5-15.

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Le Imperdonabili

Simone Weil, l’attenzione, e ponendosi nel punto focale dato dall’angolo di incidenza della propria esistenza individuale con il presente, la sua origine (il passato) e la sua direzione (il futuro). In questo spazio, che è un luogo di coinvolgimento totale di sé, diventa tuttavia chiaro che nessun racconto, nessuna comprensione saranno mai compiuti, ma lasceranno sempre un resto, un senso in sospeso. Diventa così possibile gettare nuova luce sul dramma dell’io, che sta alla base della concezione dell’arte e dell’artista di Ingeborg Bachmann. L’io delle figure della narrazione bachmanniana è spezzettato o doppio: vittima e carnefice, maschile e femminile. Su questa ambiguità campeggia l’io maschile, che è l’io propriamente letterario, incarnazione dell’ideale impersonale dell’arte e della letteratura, del mito del “bel libro”. Solo in Malina risulta chiaro che la presenza di un soggetto narrante femminile, dotato di un alter ego maschile, a cui si aggiunge un altro soggetto maschile reale, equivale all’assunzione di una voce narrante sostanzialmente impersonale, non perché sdoppiata tra ragione e sentimento, ma perché la sua fonte è innanzitutto il silenzio dell’io, che non può dire tutto. Già nel racconto che dà il titolo alla prima raccolta di prosa, Il trentesimo anno (1961), il soggetto è un “egli”, più impersonale che maschile.50 La strategia di annientamento, che sembra caratterizzare la vicenda dell’io femminile in Malina, non ha quindi niente a che vedere con il dramma patetico della distruzione di una donna reale. Se di distruzione si vuole parlare, a essere distrutto è un io “costruito”, artificiale. Ingeborg Bachmann sente la necessità di mettere fuori gioco l’io che la storia, la politica e le sue rimozioni, la cultura e le sue convenzioni, il disordine della società così com’è, e l’ordine irrigidito della tradizione letteraria, hanno completamente invaso. La violenza autodistruttiva con cui sembra perseguire questo obiettivo, la sofferenza che riempie molte delle pagine del libro, e che deriva direttamente dalla spinta morale a cui la sua scrittura non venne mai meno (“chi prima non si è bruciato la mano, non può scriverne”), possono rendere difficile cogliere ciò che sta facendo in realtà. Solo denunciando\uccidendo l’io della letteratura, della società, della po50 Vedi I. Bachmann, “Il trentesimo anno”, in Il trentesimo anno, cit., pp. 23-66.

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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litica, della psicoanalisi, e probabilmente del maschile e del femminile intesi in senso convenzionale, Ingeborg Bachmann riusciva a non schiacciare se stessa sull’immagine, sul ruolo, sul mito letterario e, certo, anche sulle proprie angosce: Potevo raccontare solo da una posizione maschile. Ma spesso mi sono chiesta: perché poi? Non ho capito, neanche nei miei racconti, perché dovessi assumere così spesso l’io maschile. Ora, per me era come ritrovare la mia persona, cioè non rinnegare questo io femminile e ciononostante mettere l’accento sull’io maschile.51

Verrà il momento, negli intervalli della stesura di Malina, di scrivere racconti con protagoniste femminili, le “viennesi” eleganti, ironiche, padrone del proprio destino, della raccolta Simultan.52 Il tempo, la vita accadono infatti in forme disparate, e l’esperienza non si traduce in un unico tipo di scrittura. In simultanea con il lavoro di scrittura del romanzo nel quale, come si è visto, si incanalano altri ambiziosi progetti, c’è un tempo che fa capitare le cose “incidentalmente” (zufällig), un resto che offre la possibilità di una pausa, di “riposarsi”, e di scrivere racconti pieni di straussiana leggerezza.53 Le “viennesi” abitano un tempo di vita non contemporaneo a quello dedicato al lavoro su Malina, sono indice di un altro rapporto con il presente e con la realtà sociale. La scrittrice é “capitata” in loro compagnia, le si sono presentate un giorno perché “volevano vivere”.54 Non siamo di fronte a un’improbabile, e soprattutto indimostrabile, svolta nella visione del mondo dell’ultima Bachmann, dall’attenzione 51 I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., pp. 164-5. 52 I. Bachmann, Simultan. Neue Erzählungen, Piper, München 1972 (tr. it. di A. Pandolfi e I. Pizzetti, Tre sentieri per il lago, Adelphi, Milano 1980). Sulla composizione di questi racconti, vedi I. Bachmann, Poetologische Entwürfe zum “Simultan”-Band, in “Todesarten”-Projekt. Kritische Ausgabe, IV, a cura di M. Albrecht e D. Göttsche, Piper, München-Zürich 1995, pp. 3-20. 53 Vedi I. Bachmann, In cerca di frasi vere, cit., p. 172: “Insieme al romanzo ho scritto dei racconti, anche per riposarmi del libro, perché il lavoro era tremendamente faticoso…Diciamo che i racconti sono scaturiti da tutto ciò che mi è capitato incidentalmente e che non ha trovato nessuna collocazione nel romanzo”. 54 I. Bachmann, Poetologische Entwürfe, cit., p. 16.

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ossessiva per le idee, le controversie e le nefandezze del mondo maschile alla libertà del mondo femminile.55 Nella quasi contemporanea stesura di testi diversi, emerge invece la profondità conquistata da Ingeborg Bachmann nella riflessione sulla narrazione, e in particolare sulla possibilità di un “controtempo”, corrispondente alla vita che accade, alle cose che “capitano”, e che trova nella pluralità di significati del termine tedesco Zufall la sua autentica espressione. Zufall, una parola importante nel lessico bachmanniano, vuol dire infatti caso, accidente, incidente, coincidenza, eventualità, e al plurale anche crisi, esperienza perturbante. Zufälle sono i turbamenti del poeta Lenz nel racconto omonimo di Georg Büchner, gli stati che lo precipitano in un’indicibile paura del nulla, ma indicano anche l’avvento dell’imprevedibile, dell’eventualità impensata.56 Le “viennesi” sono meno impersonali e meno “costruite” dell’io che viene “distrutto” in Malina e in altri scritti. Rappresentano in ogni caso una delle prospettive per descrivere l’orizzonte complessivo di una società, i suoi “costumi”,57 per approfondire il compito che designa nella forma più precisa la posizione che Ingeborg Bachmann assegnava a se stessa come scrittrice: la posizione di chi sta nel mondo, e di lì, dalla prigione e dalla falsità, ma anche dalla molteplicità delle esperienze, cerca di arrivare alla realtà. Segreto epistolare Vorrei conservare il segreto epistolare, ma vorrei anche lasciare qualcosa dietro di me.58

55 Vedi M. L. Wandruska, “«Die Geschlechter, da es sie gibt»– Ingeborg Bachmann andere Poetik”, in Literatur und Kritik, 1997, pp. 68-77, che sottolinea il contrasto tra il progetto Todesarten e i racconti Die Wienerinnen, e parla di “contro-creazione”, “contro-canto”, “contrappunto” della scrittura bachmanniana. Vedi anche H. Höller, La follia dell’assoluto, cit., pp. 159-161, che fa ampi riferimenti al saggio di M.L. Wandruska. 56 Vedi I. Bachmann, Luogo eventuale (1964), tr. it. di Bruna Bianchi, SE, Milano 1992. Si tratta del discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Georg Büchner, il cui titolo originale è Deutsche Zufälle. 57 Vedi I. Bachmann, Poetologische Entwürfe, cit., pp. 7-11. 58 I. Bachmann, Malina, cit., p. 284.

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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Fino al 2025 gli epistolari di Ingeborg Bachmann non potranno essere né consultati né pubblicati.59 La scrittrice che, in vita e dopo la morte, fu spesso vittima dell’indiscrezione, aveva un grande culto della riservatezza. Coltivava le numerose amicizie, anche simultanee, con rituali che creavano intorno a ognuna di esse un’aura di esclusività. Spesso non apriva le lettere che riceveva, e le lasciava a riempire i cassetti o a ingombrare i tavoli. Al di là del difficile rapporto pubblico-privato, che rappresenta uno degli aspetti più complessi della biografia bachmanniana,60 e getta un’ombra di arbitrio sulla gestione della sua eredità letteraria, il segreto epistolare pone uno dei problemi decisivi della sua opera e del suo pensiero. Che rapporto c’è tra quel segreto – che sembra considerare la lettera indiscreta e imbarazzante come un brano di diario intimo – e l’importanza dell’interlocuzione, della relazione intersoggettiva nel pensiero e nella scrittura di Ingeborg Bachmann? Di che cosa si muoia non lo so, ma ognuno muore degli altri, e quindi anche uno dell’altro. Allo stesso modo in cui uno rivive dell’altro, e sempre in pochi secondi.61

Si è visto che ci si si ammala di epoca e di relazioni, e che il tempo e la storia entrano nella costituzione dell’io attraverso le cose, le immagini, le città, i paesaggi e la lingua, le parole che scambia-

59 Vedi in ogni caso le recenti pubblicazioni: I. Bachmann, Lettere a Felician (1945-1946), tr. it. Nottetempo, Milano 2008; I. Bachmann-H.W. Henze, Lettere da un’amicizia, tr. it. a cura di H. Höller, EDT, Roma 2008; P. Celan-I. Bachmann, Troviamo le parole. Lettere 1948-1973, a cura di F. Maione, Nottetempo, Milano 2010. 60 Della “traduzione” della vita in storia raccontata da altri Ingeborg Bachmann aveva fatto dura esperienza. Vedi H. Weigel, Unvollendete Symphonie (1951), Styria Verlag, Graz-Wien-Köln 1992. In questa edizione rivista dall’autore, viene detto esplicitamente che la protagonista è la „giovane Bachmann“ . Lo stesso vale per M. Frisch, Il mio nome sia Gantenbein, tr. it. Feltrinelli, Milano 1988; Montauk, tr. it., Einaudi, Torino 1978. 61 I. Bachmann, Poetologische Entwürfe, cit., p. 18.

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mo con altri. Tutto questo costituisce il confine di ciò che per noi è realtà. Le poesie di Ingeborg Bachmann hanno di frequente il carattere di apostrofe, di appello, ed é certo che il suo discusso passaggio alla prosa fu l’esito della riflessione sul rapporto tra intellettuale e pubblico. La scrittrice austriaca volle uscire da una forma espressiva la cui assolutezza poteva diventare maniera, nella quale il rapporto verticale con il linguaggio poteva separarsi dall’esperienza, e soprattutto c’era solo l’applauso.62 I suoi scritti in prosa non rappresentano in alcun modo una forma di espressione più fluida e comunicativa di quella poetica, bensì portano coraggiosamente avanti una ricerca sul linguaggio come forma di esperienza. In essi le forme di comunicazione tipiche di una società di massa – telefono, lettere, interviste, dialoghi, stereotipi linguistici – hanno un posto centrale come forme problematiche della narrazione. C’è un rapporto diretto tra le telefonate che si svolgono per “frasi” convenzionali, tanto che rimangono perlopiù mozze, soffocate, le lettere di risposta, quasi mai spedite, a editori, a inviti, a intervistatori, il magnetofono che restituisce una voce che sembra sempre estranea, e la questione della narrazione intesa nel senso radicale di perforazione dei falsi problemi, dell’attualità imposta per attingere la realtà vera. Scrivere, raccontare vuol dire parlare a qualcuno. Il tema della lingua, della parola come massimo organo di percezione, si confronta sempre più chiaramente in Ingeborg Bachmann con gli incontri, i dialoghi, le forme della relazione intersoggettiva. Il linguaggio presuppone degli interlocutori, ma lo scambio che avviene tra di loro non è la rappresentazione dell’uno attraverso l’altro, né una partecipazione al piano universale della lingua. Tale relazione è immediatamente etica, è l’accadere di una frattura, il riconoscimento di una distanza insanabile, ma può essere anche lo stupore, la meraviglia dell’incontro. Come se il fatto, miracoloso e inspiegabile, di cui Ingeborg Bachmann era ben consapevole, che la po62 Vedi I. Bachmann, “Domande e pseudomande”, cit., p. 29: “Nulla si muove, solo questo atroce applauso”. Vedi anche In cerca di frasi vere, cit., p.43 (intervista forse del 1961), p. 72 –3 (intervista del gennaio 1963).

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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esia, nell’epoca contemporanea che ne sancisce per tanti versi l’impossibilità, pure parla a qualcuno, la spingesse a una ricerca nei territori antipoetici della vita quotidiana, dove la parola è sprecata e non è più capace di risuonare, ma dove è ancor più necessaria per “fare” esperienza. Certo, ci sono dei punti ciechi dell’esperienza, che si sottraggono alla narrazione. Ne è simbolo il segreto epistolare che trova in Malina la sua verità nei “monologhi erratici” propri della notte, le riflessioni solitarie di chi rientra in sé dopo l’affaccendarsi del giorno e si mette a pensare veramente. Ma la notte e da soli nascono i monologhi erratici che rimangono, perché l’uomo è un essere oscuro, è padrone di sé solo nelle tenebre e di giorno ritorna alla schiavitù.63

Le lettere sfuggono all’indiscrezione solo sullo sfondo dell’oscurità, dell’ignoto dell’io, ma anche del rispetto – forse della pietas – per quanto in quella zona d’ombra allude alle “cose ultime”. Il terzo capitolo di Malina tratta del segreto postale con un tocco che tiene insieme Musil e la passione per i francobolli di Benjamin.64 Parla infatti della sorte dei postini, figure investite di una funzione metafisica soprattutto in relazione alla posta che perdono o non recapitano. Ministri del recapito di annunci funebri, inviti, pubblicità, assegni, vaglia, si trovano direttamente a contatto con il tremendum dell’esistenza umana. Lo prova la vicenda del “famoso postino Kranewitzer di Klagenfurt”, processato e condannato per malversazione e abuso di potere in seguito a una sua singolare iniziativa. Un giorno decise di non consegnare più la posta. Da un certo giorno in avanti, senza che fosse in grado di dichiararne i motivi, Otto Kranewitzer non ha più distribuito la posta, e per settimane, per mesi, l’aveva ammucchiata fino al soffitto nella vecchia casa di tre stanze in cui abitava solo, aveva venduto quasi tutti i mobili per dare spazio alla crescente montagna di posta. Non ha aperto lettere né pacchi, non ha preso per sé valori né assegni, non ha trafu63 I. Bachmann, Malina, cit., p. 91. 64 Vedi W. Benjamin, Strada a senso unico, in Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1983, pp. 55-58.

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gato banconote di madri ai loro figli, niente di simile si poteva dimostrare a suo carico. Solo che all’improvviso non poté più distribuire la posta, quell’uomo alto, delicato, sensibile, a cui si era rivelata tutta la portata della sua missione, e proprio per questo il piccolo impiegato Kranewitzer doveva lasciare ignominiosamente le poste austriache, che si vantano di impiegare solo postini fidati, operosi e perseveranti. In ogni professione tuttavia ci deve essere almeno un uomo che vive in un dubbio profondo, vittima di un conflitto. Per distribuire lettere ci vorrebbe appunto una paura latente, una registrazione sismografica di emozioni, che peraltro è concessa solo alle professioni superiori, come se non dovesse esistere anche una crisi della posta, non dovesse esistere per essa un tema Pensiero-Volontà-Esistenza, una scrupolosa e sublime rinuncia, la quale però viene concessa a gente di ogni sorta che, pagata meglio e andata in cattedra, può meditare sulle prove dell’esistenza divina, può meditare sull’Ontos On, sulla Aletheia o, che so, sull’origine della terra e sull’origine del tutto! Ma nei confronti di uno sconosciuto malpagato Otto Kranewitzer si parlò solo di bassezza e di proprio dovere. Non ci si accorse che era giunto alla meditazione, che lo aveva preso la meraviglia, che è il principio di ogni filosofare e dell’ominazione, e considerando le cose che lo avevano turbato, non gli si poteva negare la competenza, perché nessuno più di lui, che aveva distribuito per trent’anni la posta a Klagenfurt, era capace di comprendere il problema della posta, la sua problematicità.65

Nella posta, nei dettagli delle affrancature e delle intestazioni, nelle strane vicende dei sacchi pieni di lettere in transito, nei francobolli dai bordi sgualciti, Ingeborg Bachmann scorge un microcosmo dei conflitti e degli enigmi di una società più rivelativo di cento libri di sociologia o di psichiatria o di metafisica. Il postino Kranewitzer assume su di sé la croce del proprio tempo, nel momento in cui si rende conto delle “indicibili pene” di cui sono latori lettere e telegrammi, degli sterminati enigmi celati dalla pubblicità di un’agenzia di viaggi, del “valore morale” di una crisi postale rispetto a una crisi politica o finanziaria. Nel paradosso delle lettere scritte sempre “con una tremenda angoscia e una fretta pazzesca”, firmate “una sconosciuta”,66 mai spedite o mai aper65 I. Bachmann, Malina, cit., p .210-1. 66 Vedi ibidem, p. 73.

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te, sta dunque la consapevolezza altamente filosofica del segreto che deve investire il “dire tutto”: Ma per me contano solo quelle lettere che non ho mai spedito. In questi quattro, cinque anni debbo aver scritto circa diecimila lettere, per me sola, dove c’era tutto.67

Nel segreto epistolare, Ingeborg Bachmann tocca il punto in cui vita e scrittura più fortemente si incrociano. Ne rovescia tuttavia, come non notarlo, l’accezione convenzionale. Intanto, perché si tratta di un segreto manifesto, superficiale: spesso in Malina,68 ma anche in altri scritti, le lettere vengono lasciate aperte, abbandonate in giro alla portata di chiunque, o tenute in mano distrattamente come un fazzoletto. Sarebbe facile trasporre queste elementari osservazioni al falso pathos, che è pura e semplice curiosità, che investe la parte ancora inedita del lascito letterario bachmanniano. Probabilmente, quando tutto sarà reso noto, si scoprirà di sapere già molto, o che alcuni enigmi rimarranno tali. Nel momento però in cui, come nel brano sul postino Kranewitzer, l’ontologia dei filosofi si rovescia in crimine postale, il segreto diventa questione, non tanto di indiscrezione degli altri, quanto piuttosto di indiscrezione dell’io verso se stesso. Malina è il romanzo di una narrazione di sé che non riesce, non può riuscire, perché deve rimanere un resto, non traducibile in forma di racconto. Anzi, poiché solitudine e angoscia, sottili inettitudini al vivere sono fin troppo palesi, narrare la propria storia, mettere tutto in vista, cancellare i confini tra pubblico e privato – l’umano, troppo umano desiderio dell’io femminile protagonista del romanzo – non sono altro che un disperato tentativo di rendere comprensibile e conoscibile, “traducibile” ciò che non può esserlo. Uno dei ritratti più “veri” di Ingeborg Bachmann ( non perché dica una presunta “verità”, ma perché usa parole “vere”), quello tracciato da Fleur Jaeggy, restituisce l’intuizione del segreto di una donna e di una scrittrice nell’immagine senza prima né poi di un’estate in Versilia – molto simile alla magia di una fotografia “ani67 Ibidem, p. 212. 68 Ibidem.

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mata” dal desiderio di vedere, di avere un’esperienza vissuta dell’originale. Fleur Jaeggy narra di un mese al mare in cui non accade quasi nulla, regnano il silenzio, la quiete e la regola di un’esistenza molto riservata. Le lunghe conversazioni notturne tra le due amiche restano fuori del racconto. La “naturale enigmaticità” di Ingeborg Bachmann, la sua “forza ultraterrena”, la sua “divina arditezza”, nelle asciutte parole dell’amica scrittrice appaiono momenti di un’esperienza reale, di cui può essere tracciato solo il rarefatto profilo.69 Appare chiaro che il segreto non avrà “illuminazioni”. Non potrà averle, perché è l’ombra gettata dal vissuto, dall’assoggettamento di ogni creatura al proprio destino. Il segreto non è questione di svelamento di sé, ma di presenza individuale e concreta di un altro, di un’altra, di quell’altro, di quell’altra, che in molte lettere e dialoghi che si presumono intimi è già quasi di troppo. Non si può mettere l’intera propria vita nelle mani di un parrucchiere, ma nemmeno della storia del mondo.70

La complessa opera di Ingeborg Bachmann ci consegna, quasi imprevedibilmente, un forte, oscuro sentimento della vita. Ogni domanda sulle cose ultime, ogni dolore si arresta, tocca terra, anche solo per un istante, nello scambio tra due individui. Accade persino che il controtempo utopico della letteratura, la sua capacità di anticipare la vita, ceda il passo alla vita, che fa cenno all’esistenza di momenti di grazia, di intesa, di tenerezza.71 Nel racconto Simultaneo, leggiamo alcune frasi della conversazione della protagonista, di professione traduttrice simultanea, con un uomo: 69 Vedi F. Jaeggy, Reise an Meer, in „Du“, Heft 9, 1994 (numero monografico dedicato a „Ingeborg Bachmann. Das Lächeln der Sphinx“), pp. 63-65. 70 I. Bachmann, Poetologische Entwürfe, cit., p. 19. 71 Vedi ibidem, p. 14: “La maggior parte delle volte è la letteratura a precorrere la vita, ma con le Viennesi sono io che arranco dietro la vita, perché conosco donne migliori, più tenere e più belle, che sfilano nella parata dei miei ricordi, ed è a loro e a una in particolare che in segreto devo questo libro che non è finito”.

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Ingeborg Bachmann 1926-1973

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Ogni volta la causa di qualcosa – qualcosa di tremendo – la si cerca in un tempo molto remoto, e però non si riesce a cavarsela perché, guarda caso, la strada che si vuole percorrere è già stata battuta da molti, perché altri hanno intenzionalmente confuso le tracce, perché ciascuno dice la sua mezza verità per mettersi con le spalle al coperto, e così fra dissensi e discordanze si cerca e si indaga, ma non si trova niente, ci vorrebbe un’illuminazione, allora sì che di colpo la situazione si chiarirebbe e si potrebbe davvero capire quel che bisogna fare. Già, disse lui distrattamente, un’illuminazione. Prendi della frutta?72

Negli appunti che accompagnano la stesura del racconto, Ingeborg Bachmann scrive: Io non ho mai avuto un’illuminazione, come l’uomo che nella storia del titolo dice, già, un’illuminazione. Prendi della frutta? Io prendo della frutta, ognuno prende della frutta, nessuno ha un’illuminazione. Che non ce l’abbia nessuno, non è tanto triste, è molto comprensibile, è la nostra vita, in cui nessuno ne ha. Si può solo «chiedere» amichevolmente, vuoi del caffè, vuoi della frutta?73

Siamo di fronte a un livello di esperienza che non ha nessuna estaticità o purezza, accade incidentalmente, nel tessuto della vita quotidiana, senza d’altra parte coincidere con essa. Qui, dove si forma un rapporto amichevole con la vita così com’è, sta l’unica, vera utopia e trova posto l’avventura ignota di ciò il cui tempo non è ancora venuto.

72 I. Bachmann, “Simultaneo”, in Tre sentieri per il lago, cit., pp. 35-36. 73 I. Bachmann, Poetologische Entwürfe, cit., pp. 18-19.

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CRISTINA CAMPO 1923-1977

L’imperdonabile Cristina Campo Sogno a volte un salotto complicato, come quello della zarina Alessandra (l’eroina di Elemir), con un angolo simile a quelli dedicati alle icone. Vorrei riuniti là, sopra un qualche velluto azzurro, i più bei volti del mondo. Questo dagherrotipo; la fotografia di Simone Weil bambina, il collo e le spalle nudi; il ritratto di Cekov che guarda giocare i cani (lo ricorda? Abbottonato fino al mento in un cappotto chiaro a doppio petto, cappello nero all’europea, bastone, pince nez – dietro una bianca panchina, in primo piano due code a ciuffo, una bianca una nera), poi Hoffmanstahl col mento sulla mano, simile a Yaya Barmakid, all’ Emiro Musa; Pasternak con i suoi occhi di freccia; e nella stessa cornice di Chopin (come sulla tomba di due coniugi morti prestissimo) Emily Dickinson a 17 anni, il collo esile cinto da un velluto, la vita snella, i grandissimi occhi divergenti… Poi altri, che nessuno conosce.1 Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere, inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa; ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni, riconduca la vita a mezzanotte. E la mia valle rosata dagli uliveti E la città intricata dei miei amori Siano rinchiuse come breve palmo, il mio palmo segnato da tutte le mie morti. O Medio Oriente disteso dalla sua voce, voglio destarmi sulla via di Damasco – né mai lo sguardo aver levato a un cielo altro dal suo, da tanta gioia in croce.2 Una lettera è una gioia terrestre negata agli dei.3

1 2 3

C. Campo, Lettere a un amico lontano, Scheiwiller, Milano 1998, pp. 85-7 ( lettera a Alessandro Spina, 14 ottobre 1963). C. Campo, “Passo d’addio”, in La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991, p. 28. E. Dickinson, n. 130, tr. it. in Le stanze di alabastro, a cura di N.Campana, Feltrinelli, Milano 1983, p. 135.

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Le Imperdonabili

Tra i tanti pseudonimi usati in pubblico e in privato, Vittoria Guerrini elesse quello di Cristina Campo. Univa in questo modo due simboli: Cristo e la tragedia del nostro tempo, il lager.4 Per Vittoria Guerrini essere Cristina Campo corrispondeva alla ricerca del sacrificio, a un attraversamento del deserto, a una crocefissione alle sofferenze umane e sociali. Pensava a un “ lavoro ‘retribuito’ in un ospedale psichiatrico, oppure in un riformatorio femminile, dove che sia…”.5 Anche in lei, come in altre imperdonabili, il voler essere “campo” contiene un forte tratto di “ospitalità intellettuale”,6 il desiderio di “vivere tutto”.7 L’autrice di pochi, densissimi saggi, eternamente in lotta con la vocazione poetica, travasava letture, esperienze, passioni, in mirabili conversazioni, e scriveva moltissime lettere. I suoi numerosi epistolari, oggi in gran parte pubblicati,8 possono essere considerati i suoi libri, scritti spesso nella dimensione dell’assenza e della lontananza. In essi, però, è come se si abbattesse un muro, si rovesciasse il disperato antagonismo che spacca il cuore della bellezza e della poesia. Nelle lettere – e probabilmente nelle conversazioni, per chi ne ebbe in 4 5 6 7 8

Vedi C. Campo, Lettere a un amico lontano, cit., p. 20: “ Che ne direbbe se mi firmassi Campo? Non trova che dir così è già il principio di Auschwitz? “ ( lettera a Alessandro Spina del 6\2\1962 ). C. Campo, Lettere a Mita, a cura di M. Pieracci Harwell, Adelphi, Milano 1999, p. 41 ( lettera del 18\10\1956 ). Vedi A. Spina, Conversazione in Piazza Sant’ Anselmo. Per un ritratto di Cristina Campo, Scheiwiller, Milano 1993, p. 66. Vedi C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 63: “’E si tratta precisamente di vivere tutto’ disse Rilke, che qualche volta era molto grande anche lui” ( lettera dell’11\6\1957 ). Vedi C. Campo, Lettere a un amico lontano, cit.; “L’infinito nel finito”. Lettere a Piero Pòlito, a cura di G. Fozzer, Via del Vento Edizioni, Pistoia 1998; Lettere a Mita, a cura di M. Pieracci Harwell, Adelphi, Milano 1999; W.C. Williams-C. Campo- V. Scheiwiller, Il fiore è il nostro segno. Carteggio e poesie, a cura di M. Pieracci Harwell, Libri Scheiwiller, Milano 2001; C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso 1953-1967, a cura di M. Pieracci Harwell, Adelphi, Milano 2007; Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-1975, a cura di M. Pertile, Archinto, Milano 2009; Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino, cit. Vedi anche A. Emo, Lettere a Cristina Campo. 1972-1976, a cura di G. Fozzer, In forma di parole, Quaderno Terzo, 2001.

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Cristina Campo 1923-1977

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dono la grazia – si apre la porta tra i due mondi che per Cristina Campo si contendono la realtà. “Due mondi – e io vengo dall’altro”:9 ma ecco arrivare la lettera di un’amica come “la part de Dieu”.10 E un’aggraziata cerimonia epistolare consacra l’amicizia con Margherita Pieracci: Mi chiedevo a quale Santo consacrare la nostra amicizia: è tempo di farlo, non è vero? Mi è risuonato nella mente, di colpo, un versetto del Magnificat. E allora ho ricordato che fu un divino discorso tra due Amiche. Sarà la Visitazione, dunque, il nostro Mistero. (La convince?).11

Vittoria Guerrini usò molti pseudonimi: Vie, la Pisana, Pisana Correr nelle lettere, Puccio Quaratesi, Bernardo Trevisano, Giusto Cabianca, Benedetto P. d’Angelo, e altri di cui si sono perse le tracce negli scritti d’occasione. A volte occultò la sua firma dietro quella di Rodolfo Wilcock, o di Elemir Zolla, con cui aveva collaborato in traduzioni e in vari lavori editoriali. Ogni pseudonimo è frutto di un piacere fabulistico, di un sapiente artificio o di una combinazione di vero e di falso. L’alchimista del ‘400, Bernardo Trevisano, è un personaggio storico, mentre del biblista dell’ 800, Filippo Quaratesi, viene sostituito il nome, e i pressoché sconosciuti Cabianca e D’Angelo ricevono anch’essi un nome derivante da altri amori segreti: san Benedetto, la giustizia.12 L’illusionismo dell’identità rinvia direttamente alla molteplicità di generi di scrittura in cui si provò Cristina Campo: pochi preziosi saggi, rare poesie, numerose traduzioni, recensioni, schede, risvolti di copertina, progetti di riviste, di raccolte di poesie (Il libro delle ottanta poetesse), note editoriali, appunti, introduzioni, trasmissioni radiofoniche. Il mascheramento ha un tocco di leggerezza e di eleganza, a volte è un’arma di combattimento contro le distrazioni e le indifferenze del mondo intellettuale, a volte è indice 9 C. Campo, “Diario bizantino”, in La Tigre Assenza, cit., p. 45. 10 Vedi M. Dalmati, “Il viso riflesso della luna”, in M. Farnetti-G. Fozzer ( a cura di), Per Cristina Campo, Scheiwiller, Milano 1998, p. 123. 11 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 245 ( lettera dell’8\9\1970 ). 12 Vedi M. Farnetti, “Le ricongiunte”, in C. Campo, Sotto falso nome, a cura di M. Farnetti, Adelphi, Milano 1998, pp. 207-225.

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Le Imperdonabili

di uno stare da un’altra parte, di un altrove incommensurabile rispetto alla definizione mondana dell’identità.13 Nella moltiplicazione dei nomi c’è un bisogno di invisibilità, di anonimato, che si accompagna a un forte impulso all’ immedesimazione. Quando parla del “mio” Williams, del “mio” Pasternak, e ancor più, come si vedrà, nella lunga decisiva frequentazione di Simone Weil, Cristina Campo legge, ama, si appropria di poeti, poete, scrittori, mistici, se ne nutre allo stesso modo in cui beve a grandi sorsate un cielo, una città, la svolta del muro di una villa. Afferrando così idee, parole, come se fossero pane e vino, mostra di non essere né astratta e cerebrale, né ispirata e appassionata senza misura. Il senso di realtà fu in ogni caso il suo più aspro campo di battaglia: Mia cara, grazie di aver scritto. È una serata durissima oggi. Bernhard dice che il più grande peccato non è disperarsi ma non voler accettare. Io non so se accetto o no la mia vita – disgregata, dispersa – da tanti anni la vivo così com’è, ma vi sono ore, momenti […] Come stasera questo andante di Mozart, che sa tutto e dice tutto – quello che non vorremmo fosse saputo e detto – e per avere meglio ragione di noi lo dice con la dolcezza di chi ha accettato per tutti […] Ho visto una strada meravigliosa, oggi. Tutta bruna – un silenzio come a San Leonardo – due alti muri musicali e oltre i muri (oltre i giardini, forse) leggere altane e campanili. A pochi passi ruggiva la città. A un tratto, in una curva del muro, s’è alzato un albero azzurro – grande come un castagno, ma tutto pieno, tutto limpido, di bocci color del mare. Come la musica, l’albero – una stupenda inesorabile rassegnazione. Che senso ha tutto questo? Un aeroplano traversò il cielo su quella strada – si lasciò dietro due scie bellissime – brillanti come la traccia della chiocciola – due frasi luminose che s’inarcarono sulla città – le rividi poi da Piazza di Spagna, lungamente – come un’ispirazione, la

13 Vedi C. Campo, Lettere a Mita, cit., pp. 21-22: “ Quanto alla firma di Fasani gli scriverò un biglietto. Se entro una settimana non mi dirà che non vuol saperne, prenderò su di me la responsabilità delle sue iniziali. In caso contrario non mi sarà difficile inventarmi un Ranuccio Falconieri ( o Renzo Fiamma ) che in seguito farò morire d’urgenza in qualche luogo del Tibet – perché non vale la pena continuare da soli” ( lettera del 7\6\1956 ). Le osservazioni riguardano le vicende del progetto di rivista L’attenzione.

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Cristina Campo 1923-1977

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traccia che uno lascia di sé, del suo passaggio sulla terra (talvolta). Ma ben presto anche quella si dissolse, perdendo forma, sfioccando. Ma Mozart ha detto tutto – e la gente urla e applaude («per non dover cambiar vita» diceva Rilke) e io riprendo il controllo delle mie parole. Mi scusi, cara, ma la testa mi duole tanto – al punto di congiunzione tra il corpo e l’anima – e il mio cuore è sempre più stanco. Il tempo passa e mi separa da tutto un lato del mondo – i contatti si fanno a poco a poco diversi – l’albero azzurro diventa un’idea azzurra – non più il mio tronco, i miei petali, mi capisce?14

Molti nomi, volti, recapiti, vite, forse incarnazioni. In Cristina Campo c’è la dispersione da un genere all’altro, da una forma di scrittura all’altra, alla ricerca di una patria originaria della lingua, di un’ “’era primaria’ del linguaggio”,15 e insieme la concentrazione di un’esistenza svoltasi in ambienti colti e raffinati, dalla Firenze di Mario Luzi alla Roma di Maria Zambrano in esilio e di Elsa Morante. Cristina Campo fu una donna fisicamente fragile e spiritualmente guerriera, con i tratti compassionevoli della figlia-moglie-infermiera e quelli autoritari della “semplice maestra delle novizie carmelitana“.16 Ebbe anche la raffinatezza della dama di epoche antiche, che sa di stoffe preziose e di porcellane orientali, sempre accompagnata da una certa nonchalance mondana (la “sprezzatura”) e dalla cortesia, che a molti, nell’epoca maleducata che fece in tempo a vivere, dovette sembrare una delle sue tante stranezze. Non la abbandonarono mai la sofferenza interiore, la difficoltà di vivere o il “vivere per pura cortesia”: la “tigre” che “giace nell’angolo”, “battendo ritmicamente la coda, ritmicamente”, o il “«bue che grava sulla lingua», come nel primo quadro dell’Agamennone”.17 Tutto in Cristina Campo pare essere esperienza di assolutezza nella forma del non stare a posto nel mondo, e insieme del volerlo guardare con fermezza e severo giudizio. Siamo nel cuore dell’“im14 C. Campo, Lettere a Mita, cit., pp. 108-9 (lettera del luglio agosto 1958). 15 Ibidem, p. 150 ( lettera, forse, del dicembre 1961). 16 Vedi C. Campo, “Introduzione a Simone Weil, Attesa di Dio”, in Sotto falso nome, cit., pp. 150-162. 17 Vedi C. Campo, Lettere a un amico lontano, cit., pp. 94-95, p. 96 ( lettere del 1964 ).

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Le Imperdonabili

perdonabile”, la cifra che per prima Cristina Campo ha attribuito ad alcune figure letterarie e che spinge a ricercare in lei stessa il nucleo dell’“imperdonabilità”. Innanzitutto si incontrano l’ossessione della purezza, della perfezione, e una concezione eroica dello stile e della forma come potenze isolatrici.18 La sua figura appare tesa a farsi ombra, spettro, poiché l’invisibilità che volle attribuire a se stessa, le maschere che dovevano permetterle di scomparire, il tacere o lo scrivere poco (“ha scritto così poco e le piacerebbe aver scritto meno”),19 avvolgono la sua strenua battaglia con le parole. Non si tratta però di una vicenda semplicemente eccentrica rispetto al suo tempo: il cinese che legge il libro davanti al plotone di esecuzione, per scomparire rapidamente nell’anonimato della folla, è tutt’altro, nel saggio Gli imperdonabili, da un’immagine estetizzante o banalmente ascetica. Negli anni ’60 e ’70, Cristina Campo non partecipò a nessuna protesta o rivolta sindacale, studentesca. Non protestò, ma tenacemente detestò molte cose del suo tempo: la messa in italiano, l’impegno dello scrittore, l’avanguardia in letteratura, l’educazione dei bambini come se fossero piccoli adulti. La sua presenza al mondo ha un tratto inconfondibile e perentorio, riassumibile nel fare il contrario di ciò che comunemente si ritiene debba fare lo scrittore: tacere, scrivere poco, offrire la propria penna ad altri, rifiutarsi al pubblico, essere indifferente al lettore, “scrivere per nessuno”. io non sono una scrittrice, ma una donna di casa che quando ha tempo scrive, come un’altra suonerebbe il pianoforte o farebbe (diceva Checov) de la broderie sur le canevas; Io sono Caia che vuole stare solo in casa a filare la lana – o le parole.20

18 È questo uno dei tratti della figura di Cristina Campo maggiormente sottolineato dagli studiosi . Vedi G. Ceronetti, “Cristina Campo o della perfezione”, in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., pp. 277-282. 19 C. Campo, “L’intervista: Cristina Campo”, in Sotto falso nome, cit., p. 179. 20 Vedi C. Campo, “L’infinito nel finito”. Lettere a Piero Polito, cit., p. 9 (lettera del 26\3\1963); Lettere a un amico lontano, cit., p.22 (lettera del 1962), p. 121 (lettera del 2\10\1967).

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Cristina Campo 1923-1977

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Ciò significò per Cristina Campo innanzitutto rifiutarsi al ruolo dell’intellettuale, ai riti delle cerchie romane e fiorentine, del mondo dell’editoria e delle riviste, con cui pure fu in contatto, insomma stare fuori dalla cultura italiana ufficiale, illusa dalla sociologia marxista e dalla psicoanalisi, o ancora rinchiusa nell’intimismo. Forse c’era civetteria e snobismo nel gusto per l’invisibilità. Di sicuro, Cristina Campo visse la passione per la perfezione in una forma che, se ebbe tratti di ascesi, li mise in pratica in senso letterale. Il lavoro intellettuale fu infatti per lei esercizio, continuo perfezionamento: io da molto tempo ho imparato, come gli acrobati da circo, a lavorare in qualsiasi condizione: con la febbre a quaranta gradi, alla vigilia o all’indomani di una catastrofe, della morte propria o altrui.21

Per essere una patita della perfezione si rivela molto concreta, quando parla del lavoro come di “una casa – brutta, sgangherata, piena di correnti d’aria e con pochi fiori – ma una casa”.22 Andando ancora più a fondo, la posizione eccentrica rispetto al suo tempo dell’imperdonabile Cristina Campo rivela un rapporto di estrema importanza tra il travestimento e la maschera, che permettono di scomparire o di parlare con la voce altrui, e un senso vivente della storia contemporanea – del tutto inconsueto in decenni di trionfo dell’impegno sociale e politico, quali furono in Europa, e particolarmente in Italia, gli anni ’50, ’60, ’70. Soprattutto nelle lettere, Cristina Campo ricorda spesso iniziative fuori dai canoni della sinistra ufficiale, come quella di Danilo Dolci, e avvenimenti di attualità più ampia di quella nazionale: la guerra, vista attraverso le Lettere da Stalingrado, la tragedia dei minatori periti a Marcinelle, la rivolta ungherese, il lancio dello Sputnik con la cagnetta Laika, l’invasione cinese del Tibet, lo sterminio dei Watussi.23

21 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 42 (lettera del 21\10\1956). 22 Ibidem, p. 81 (lettera del 3\11\1957). 23 Vedi ibidem, pp. 27-29, p. 31, p. 45, p. 82, p. 110. Vedi anche C. Campo, Lettere a un amico lontano, cit., p. 95; “Fuga e sopravvivenza”, in Sotto falso nome, cit., pp.130-144.

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Le Imperdonabili

Si tratta di un’attualità che si coagula nella modernità metropolitana – Los Angeles e, tranne rari momenti, Roma – e televisiva. La sua idea della storia non è quella di un processo, di un avanzamento verso il futuro o verso il meglio, di un mutare o di un perire. È piuttosto quella di un tempo compiuto, denso di ansia, di pericolo, e anche di miracolo, in cui i secoli precipitano e si accumulano gli uni sugli altri, come grandi macigni di pietra. In questo quadro, i fatti del mondo appaiono a Cristina Campo un incrocio stridente di male inaccettabile, di morte senza perché, a cui tutto in noi deve opporsi, al prezzo della vita, e di coraggiosa chiarezza, di possente dignità. Ciò che accade nel presente – la violenza, il non senso, la massificazione – costituisce una sorta di punto zero in cui tutto è perduto, un deserto dei Tartari, un luogo di nudità e di tabula rasa, che mette fine al gioco di specchi, al rinvio di immagini illusorie, distrugge le pareti o i muri che separano dalla vera realtà. L’atroce che accade serve da passaggio all’altro mondo, da definitivo contatto con l’essenziale. La fuga dal mondo di Cristina Campo fu dunque una forma di amore del mondo: Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba. E certo non intendo con questo l’era dei tappeti volanti e degli specchi magici, che l’uomo ha distrutto per sempre nell’atto di fabbricarli, ma l’era della bellezza in fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire, come le apparizioni e i segni arcani della fiaba: tutto quello cui certi uomini non rinunziano mai, che tanto più li appassiona quanto più sembra perduto e dimenticato. Tutto ciò che si parte per ritrovare, sia pure a rischio della vita, come la rosa di Belinda in pieno inverno. Tutto ciò che di volta in volta si nasconde sotto spoglie più impenetrabili, nel fondo di più orridi labirinti.24

Cristina Campo ebbe ben presente l’esperienza del suo tempo, non volle immaginarlo diverso e nemmeno banalizzarlo: volle, attraverso di esso, arrivare alla realtà vera. Il silenzio, il travestimento, l’invisibilità, l’anonimato, furono il modo, estremo, in cui si

24 C. Campo, “Parco dei cervi”, in Gli imperdonabili, cit., p. 151.

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Cristina Campo 1923-1977

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pose nella croce del suo tempo, nel punto di intersezione tra la nudità della condizione umana e la sua scintilla di assoluto. […] ieri sera guardavo quegli appunti per l’’Attenzione’, così come li abbiamo presentati alla gente, e pensavo quanto ci fosse di non detto, di travestito in quelle parole. Il vero appunto, quello segreto, dovrebbe essere scritto all’incirca così: «Partire dalla tabula rasa di un tempo “ou l’on a tout perdu”, dalla chiesa nuova e brutta di Cristo Re, o di Los Angeles, nel pomeriggio canicolare, e sia il più possibile anonima quella chiesa, come un ospedale, un planetario o una stazione, per ricordarci che veramente “l’on a tout perdu”, fuorché la verità che abita in quel luogo – e che mai potremo ritrovare senza esserci spogliati di ogni ornamento – senza aver accettato l’anonimo, la nudità di questo tempo che è la sola sua forza. Non altrimenti potremo compiere il cerchio, riallacciare la fine del nostro tempo al suo principio perduto…».25 Poi volevo parlare con lei di un’altra cosa che vorrei scrivere: una serie di considerazioni tragiche sulla bellezza. La bellezza come tremendo retaggio. La bellezza come spada a doppio taglio […] La bellezza come camicia di Nesso. Trenta, quarant’anni, sapendo di portare in sé, con sé quest’arma mortale […] E insieme la coscienza dell’elemento divino celato in quell’arma, nel suo doppio taglio, appunto. Si può ben capire come una creatura segnata da questo terribile privilegio sopprima i rapporti, le parole, le lettere, indossi ogni sorta di maschere, cammini a zig-zag, desideri scomparire nelle crepe dei muri, voglia essere ovunque, infine, «come un uomo che non esiste».26

Queste parole mettono a nudo la drammatica tensione che sta al fondo dell’imperdonabile Cristina Campo, e fanno sorgere una domanda. Perché, muovendo da un’intuizione esatta e profonda sul suo tempo, Cristina Campo volle scomparire, lei che era capace di vedere l’eterno in una tazza di the, lei che aveva imparato da Simone Weil – come si vedrà, la sua maestra di assolutezze – a aver bisogno sempre di “un simbolo concreto per afferrare un’idea come si afferra un pezzo di pane”?27 25 C. Campo, Lettere a Mita, cit., pp. 29-30 (lettera del 25\7\1956). 26 Ibidem, pp. 271-272 (lettera dell’agosto 1973). 27 Ibidem, p. 28 (lettera del 25\7\1956).

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Le Imperdonabili

Cristina Campo celebrò il sacrificio della sua vocazione poetica, si tagliò la lingua per dare voce ai “senza lingua”, inseguì cioè l’estremo obiettivo di fare della bellezza, della poesia lo strumento per l’avvento del mondo rovesciato, del mondo in cui si rivela la purezza della condizione umana.28 Io faccio ancora dell’oreficeria, mentre si deve lavorare la pietra.29

Il suo amore per la parola e per i simboli si spinse fino al punto da pretendere da essi un’aderenza totale alla cosa: il simbolo non poteva restare per lei mediazione, figura che fa da ponte tra la realtà e l’essenza. L’immagine poetica doveva adempiere a un compito di salvezza, quello di riscattare la sventura dei più, esorcizzata e rifiutata dal tempo presente. Si spiega così il suo timor sacro nei confronti della poesia, sempre lasciata e presa, considerata la sua “preghiera”, posta cioè, come il divino, in un’alterità assoluta, in costante pericolo di sfumare nell’impossibilità. Ma io non ho davvero che la poesia come preghiera – ma posso offrirla? E quando mai la sentirò così vera (non dico pura, ma è differente?) da poterla deporre a quell’altare – di cui non vedo e forse non vedrò mai che i gradini – come un cesto di pigne verdi, una conchiglia, un grappolo? Di giorno in giorno mi persuado sempre più che non ho altro rosario, altra spada, altro libro, altro cilizio che questo. E io non parto dall’amore di Dio – sto nel buio; ma vorrei fare qualche cosa che per gli altri sembrasse nato alla luce. Ma devo purificarmi, lei non ha idea dei miei peccati, dei miei crimini posso dire.30

Nell’inseguire l’ideale impossibile di un “Cantico dei Cantici rovesciato”, il “Cantico dei senza lingua”,31 Cristina Campo identificava l’esperienza dei sofferti silenzi, dei dolorosi mutismi, delle passioni silenti, di cui parlano molte delle sue lettere, con quella degli 28 Vedi ibidem, p. 48, p. 49, p.51 (lettere del dicembre 1956 e gennaio 1957). 29 Vedi M. Dalmati, “Il viso riflesso della luna”, cit.,p.124 (lettera del 23\6\1956). 30 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 107 (lettera del 24 luglio 1958). 31 Ibidem, p. 48 (lettera del 30 dicembre 1956).

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sventurati che nessuno ama, da cui la gente rifugge – i depressi, i malati, i folli, i condannati, i sepolti vivi nelle periferie metropolitane. Dare voce al “muto grido”32 degli esclusi dalla storia e dalla società non sarebbe più stato un compito estetico, ma una conversione morale e spirituale, corrispondente al diventare l’“idiota del villaggio”, il genio della povertà dello spirito e della purezza di cuore.33 Cristina Campo non era sola nella croce del presente intuita con tanto rigore. Una particolare sintonia la legava a María Zambrano, la pensatrice spagnola esule a Roma negli anni ’50, anch’essa presa dalle figure dei senza voce e senza storia.34 Le sembrò che tutto rimanesse sospeso, in equilibrio instabile.35 In realtà, l’incontro con Simone Weil, avvenuto nei primi anni ’50, diede vita a un sottile sistema di affinità, di somiglianze, di assolutezze. Esso svelò a Cristina Campo che l’orizzonte disteso, la qualità vera di ciò che andava cercando, potevano assumere una forma che non fosse soltanto quella di una perfezione irraggiungibile e 32 Ibidem, p. 49 (lettera del dicembre 1956) 33 Ibidem, pp. 49-50 (lettera del dicembre 1956), pp. 60 (lettera del 25\5\1957). 34 Vedi L. Boella, “La passione della storia”, in aut aut, 279, 1997, pp. 2538; “Maria Zambrano”, in Cuori pensanti, Tre Lune, Mantova 1998,pp. 65-92. Una testimonianza relativa a Maria Zambrano compare nella lettera del 9\10\1963 a Alessandro Spina. Vedi C. Campo, Lettere a un amico lontano, cit., p. 75: “ La questione di Aristotele e Zubyani non mi sembra importante. Shahrazad racconta storie che avverranno trecento anni dopo la sua morte. Non vedo nulla di men che naturale, alla vigilia di un viaggio alla città di rame ( che è qui e ovunque, prima e dopo), in una riunione dove un poeta non ancora nato cita un filosofo morto su un profeta che costui non conosceva o del quale, almeno, non sembra abbia mai trattato (sic María Zambrano)”. Il carteggio ora disponibile, Se tu fossi qui, cit., documenta una relazione profonda. Alla memoria di Cristina Campo, María Zambrano dedicherà nel 1987 le pagine, raccolte sotto il titolo “La fiamma”, in Aurora, tr. it. a cura di E. Laurenzi, Marietti, Genova 2000, pp. 110-119. 35 Vedi C. Campo,Lettere a Mita, cit., p. 217: “Per il resto, sospensione – la forma particolare di croce che Iddio (clementissimo!) ha voluto assegnare a me: sospensione, più che morale, sociale, fisica (sono stata abbastanza male tutti questi mesi, e non aver casa pesa enormemente quando si è malati), intellettuale. Non parliamo di quella religiosa” (lettera del 27\11\1967).

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impersonale. Simone Weil diede a Cristina Campo il senso della propria vocazione, le rese tangibile “tutto ciò che non os[ava] credere”.36 Cristina Campo inizia infatti a parlare, a pensare e a scrivere con le parole di Simone Weil, trova in lei il suo vocabolario interiore – attenzione, nudità, gioco delle forze, necessità, spada a doppio taglio, bellezza – lo accoglie e lo modula in infinite variazioni, così come in alcuni aspetti della sua esistenza sembra ripetere l’ascetismo, la volontà di sacrificio di Simone Weil.37 Cristina Campo e Simone Weil si incontrano nel punto che segna l’impossibile della prima: fare dell’esperienza letteraria e poetica la via verso il sacro, il mistero, il soprannaturale e il divino, il riscatto di un mondo che ha perduto tutto. Nella vita di Cristina Campo i due poli diventano sempre più visibili nella loro opposizione: da un lato, la poesia, la pratica assidua della lettura, della scrittura, dall’altro, la liturgia, l’adesione alla chiesa bizantino-ortodossa, motivata dallo splendore delle cerimonie e dei riti, dalla solenne aura di sacralità che li accompagna. L’ultima fase della vita di Cristina Campo sarà caratterizzata da una furiosa lotta per elidere il primo dei due opposti. Essi continueranno però a coesistere. La passione per la letteratura e per la poesia mantenne i caratteri di un’infinita lettura del reale in chiave simbolica, come trasparenza e apertura del finito sull’infinito, rinvio e proliferazione di immagini, ampliamento e moltiplicazione della realtà. Gli ultimi anni comportarono anche un distacco da Simone Weil, motivato dalla non accettazione del suo rimanere sulla soglia del cattolicesimo, del suo illuminismo e della sua modernità.38 Cristina 36 Ibidem, p. 49. 37 Vedi F. Negri, La passione della purezza. Simone Weil e Cristina Campo, Il Poligrafo, Padova 2005. Questo studio ricostruisce analiticamente, con esaurienti confronti testuali, la relazione tra Simone Weil e Cristina Campo. Vedi anche M. Pieracci Harwell, Cristina Campo e i suoi amici, Edizioni Studium, Roma 2005, in part. i capp. II-III, dove l’incontro con le opere weiliane e il lavoro comune di traduzione vengono descritti, sottolineando il distacco avvenuto negli ultimi anni di vita di Cristina Campo. 38 Vedi C. Campo, “Introduzione a Simone Weil, Attesa di Dio”, cit., pp., 152-153, dove risulta molto chiara la divergenza tra le due. Vedi anche Lettere a Mita, cit., pp. 179-180 (lettera del 29 aprile 1963), in cui Cri-

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Campo non diventerà mai semplice, nel senso della povertà di spirito dell’idiota dostoevskjiano e delle figure di Goya a cui pure si ispirava, rimarrà inquieta e sofferente, ma non arriverà a rifiutare fino in fondo la possibilità, che caratterizza in molti modi i suoi “imperdonabili”, di una dilatazione del finito nell’infinito. La percezione sottile L’esperienza che lacerò Cristina Campo percorre vie diverse – di pensiero, di scrittura, di vita vissuta. L’impossibile getta l’ombra del silenzio sulla poesia e sulla fede (la sua vocazione poetica rimase frenata e, analogamente, non si può parlare per lei di una vera e propria esperienza mistica),39 ma rende anche tanto più necessario l’intrecciarsi dei suoi percorsi. La ricchezza delle letture e la finezza straordinaria del gusto di Cristina Campo mostrano infatti, forse contro la sua volontà, che l’impossibilità della perfezione non comporta il sacrificio dell’assoluto, al contrario, è ponte, mediazione verso di esso. Nei suoi scritti è centrale il tema di una trasformazione dell’esperienza, di un suo capovolgimento interno, tale da condurre a una forma di “percezione sottile”,40 illustrata con l’esempio delle icone, che aprono la porta del visibile per fare apparire l’invisibile, della montagna rovesciata sulla cima, e dell’albero con le radistina Campo esprime con durezza il suo dissenso nei confronti della riscrittura weiliana dell’Antigone e dell’Elettra per renderle accessibile agli operai. Vedi S. Weil, Il racconto di Antigone e di Elettra, tr. it. Il Nuovo Melangolo, Genova 2009. 39 Su questo importante aspetto della figura di Cristina Campo le posizioni sono abbastanza diversificate, ma la tesi più convincente mi pare quella secondo cui estetica e poetica si sporgano in lei verso l’etica e la mistica, nel senso che il percorso mistico mantiene sempre i caratteri della ricerca espressiva, stilistica, anzi, come suggerisce Monica Farnetti, attenua i paradossi del linguaggio mistico in senso proprio. Vedi M. Farnetti, Cristina Campo, Luciana Tufani editrice, Ferrara 1996. 40 C. Campo, “In medio coelo”, in Gli imperdonabili, cit., p.14. Vedi anche “Una rosa”, in Gli imperdonabili, cit., p. 10: “amorosa rieducazione di un’anima – di una attenzione – affinché dalla vista si sollevi alla percezione”.

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ci in aria.41 Alla ricerca di questa diversa percezione, in cui riecheggia la nozione weiliana di attenzione,42 Cristina Campo percorre due vie: la via della fiaba e dei “sensi soprannaturali”, propri dei riti e delle cerimonie religiose non cancellati dalla modernità, e la via della “sprezzatura”. Al posto di un “mondo rovesciato”, i suoi scritti più ricchi di pensiero ci offrono dunque un albero sradicato che fa da ponte tra due rive, tra due mondi, e serve per salvarsi.43 La fiaba delinea un percorso iniziatico, è un’esperienza interiore e metafisica ad un tempo, di morte e rigenerazione, di caduta nel tempo – il “precipizio di Persefone”, attirata dal giacinto azzurro e dal suo profumo, simbolo di bellezza –,44 e miracolosa salvazione. La giustizia finale, il premio delle fiabe, spetta a colui che ha saputo affrontare la necessità, il dovere, il tempo presente, che ha dato prova di attenzione, di capacità di lettura del reale oltre le apparenze (i mostri delle fiabe nascondono spesso principi bellissimi), non si è lasciato sedurre e non è caduto in preda all’immaginazione. L’avventura della fiaba porta a “valicare d’un balzo il gioco delle forze”, a trasformarsi interiormente, distruggendo gli attaccamenti alle cose di questo mondo in un abbandono che ha i tratti dell’esperienza mistica: discesa agli inferi, salita al Carmelo. L’eroe della fiaba diventa così il folle in Cristo, l’idiota dostoevskjiano, il povero di spirito, che conquisterà il regno dei cieli, colui che assume un punto di orientamento fuori del mondo. La fiaba vive della relazione tra opposti, analogamente alla lingua di Cristina Campo, che accosta di preferenza i contrari: speranza e disperazione, bellezza e paura, carnali terrori e splendori irreali. È

41 Vedi C. Campo, “Della fiaba”, in Gli imperdonabili, cit., p.32. 42 Vedi C. Campo, “Attenzione e poesia”, in Gli imperdonabili, cit., pp. 165-170. 43 Vedi C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 171 (lettera del 3\11\1962) . Mi riferisco liberamente a un’immagine dell’Iliade citata da Cristina Campo (che stava traducendo Illiade poema della forza di Simone Weil): “Ricorda quella scena tra Achille e il fiume Xanto, quando l’albero sradicato si stende dall’una all’altra riva e Achille se ne serve per salvarsi?”. 44 Vedi C. Campo, “L’intervista”, in Sotto falso nome, cit., p.179.

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così che “l’amorosa rieducazione di un’anima” diventa capovolgimento dell’ordine sensibile: Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo? 45

Bambini, narratori vegliardi, poeti, santi sono i soggetti del nuovo tipo di esperienza, che Cristina Campo va scoprendo e ricomponendo. La loro è una particolare forma di ricettività, di dilatazione della capacità percettiva. Spazio e tempo escono dai cardini abituali, come se si assolutizzassero nella dimensione del rapimento estatico, dell’ascolto, della narrazione del passato, che è in realtà profezia, del viaggio per terre lontane e mari tempestosi, che riconduce alla calma del giardino di casa. Il frutto più proprio dell’attenzione si manifesta in una sorta di nuovo ordinamento del reale secondo leggi rigorose di collegamento e di separazione di piani – tutto il contrario della confusa contaminazione di prospettive e di dimensioni dell’immaginazione poetica moderna – che danno vita alle forme predilette da Cristina Campo: il cerchio, il labirinto, la spirale, la stella, il punto, il giglio, la corolla, il guerriero, la danza, la morte, un cespuglio di sorbo, una fronda sparsa.46 Nella muta alterezza delle figure geometriche, nei solidi volumi privi di ornamenti delle case toscane, nel profilo nascente di un ramo, di un cespuglio, nel cancello che chiude un parco, e in tanti altri simboli di storia e di paesaggio, si compie la sua ricerca di un’inserzione dell’eterno nel tempo. C’è una stretta analogia tra questi elementi di realtà, in cui il mistero, l’infinito dà una precisa misura di sé, e la vicenda fiabesca in cui “l’esperienza preziosa, caduta in sorte a un essere singolare […] L’evento irripetibile è storia universale”.47 Le porte, le soglie, i trabocchetti, che danno accesso ai precipizi, ai crepacci, alle cavità, ai cieli e agli orizzonti sconfinati delle 45 C. Campo, “Una rosa”, cit., p. 10. Vedi anche “Della fiaba”, ib., pp. 2942. 46 Vedi C. Campo, “Gli imperdonabili”, cit., p. 17, p. 56, p. 77, p. 88. 47 C. Campo, “Della fiaba”, cit., p.29.

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fiabe, attivano i “sensi soprannaturali”, al centro di uno scritto risonante di furore antimoderno, e non privo di bagliori barocchi.48 Padri del deserto, anacoreti, vescovi cristiani e poeti russi dal profondo afflato religioso imprecano nelle pagine di questo saggio contro la fastidiosa confusione di corpo e di spirito nel mondo moderno. Cristina Campo insegue una metamorfosi dei cinque sensi, un’”intimità con il divino” fatta di contatto carnale – il corpo di Gesù Cristo palpabile, visibile nei suoi gemiti, sforzi e sussurri – e di letterale farsi carne e sangue di Cristo. Intimità che ritorna negli unguenti e nei balsami, negli incensi, e si prolunga nel quotidiano, con imposizione di mani, somministrazione di cibo sacramentale. La progressiva spiritualizzazione del messaggio cristiano ha reso le verità religiose disincarnate, da contemplare, non più da toccare, da bere e da mangiare. Qualcosa dell’ “antica sensualità trascendente” si conservava ancora nelle superstizioni popolari: nelle reliquie, nei baci alle immagini sacre, nello strisciare per penitenza sulle ardite scale dei santuari. A Cristina Campo Dio si mostra nella carnalità del costato aperto. Si capisce meglio come l’acquisizione di sensi soprannaturali implichi l’offerta, l’assimilazione di quelli naturali, una sorta di travaso di questi in quelli: Eros non è che il fascetto di mirra – scrive un commentatore di Ignazio – che deve ardere e scomparire nel fuoco dell’agapé.49

Il mutamento radicale della sensibilità, a cui allude Cristina Campo, non ha nulla a che vedere con i fantasmi della repressione, della sublimazione o della mortificazione propri di un’epoca che ha banalizzato l’inconscio. In questione sono i sensi deboli, dotati di scarsa capacità percettiva, a cui si contrappongono i sensi dotati di chiarezza, di sottigliezza, di agilità, di imperturbabilità, capaci di attraversare i muri e le porte. Come se, al contatto con il divino, nuovi organi di senso fiorissero, sbocciassero: occhi che vedono l’invisibile e l’intimo delle coscienze, orecchi che ascoltano musiche celesti, narici che fiutano l’orrore e la grazia, papille 48 C. Campo, “Sensi soprannaturali”, in Gli imperdonabili, cit., pp. 231248. 49 Ibidem, p. 239.

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che gustano nell’ostia manna, miele, nettare. Una rigenerazione dei sensi comporta l’acquisizione di una sensibilità per tutto quanto è interiore, spirituale, non molto diversa dai movimenti delle labbra, dallo stringersi delle ginocchia, dal lento battito di ciglia del bambino che ascolta un vecchio raccontare una storia. Si tratta di una sensibilità intensificata, “forse simile agli usignoli in pieno canto che, si dice, hanno una forte temperatura e il fragile piumaggio tutto arruffato”.50 In questo modo, il cibo spirituale, la lettura, nutre come il pane, in un trapasso dalla natura al soprannaturale che fa dei sensi dimora di sublimi ospiti. Nella potente immaginazione di queste pagine emerge tutto il rifiuto della “ragione”, dell’astrazione incredula e moderna, della secolarizzazione come svuotamento di simboli e di significati. I cinque sensi vengono gettati con enfasi barocca oltre il mondo sensibile, si affinano e si trasformano, diventando organo dell’invisibile. Il soprasensibile, di cui sembra possibile esperire la presenza e la realtà, non è tuttavia una trascendenza ipostatizzata, bensì corrisponde a una correlazione armoniosa dei cinque sensi, a una condizione in cui il corpo ritrova in gesti, inchini, mani giunte, una sua postura trascendentale, e in particolare l’esperienza riscopre la dimensione dello “spreco delicato, più necessario dell’utile”, del dispendio incantevole dell’unguento prezioso versato da Maria Maddalena sui piedi e sul capo di Cristo: un gesto, un profumo che si spargono per l’intera dimora, capaci di ispirare il suo primo destinatario, colui che invero lo aveva ispirato, e che si trova a replicarlo, la sera, con le sue mani divine, lavando i piedi degli Apostoli.51 Il significato del rito e della liturgia per Cristina Campo fu questo: le fiamme, gli incensi, le tragiche vesti, la maestà dei moti e dei volti, il rubato di canti, passi, parole, silenzi, tutto quel vivido, fulgido, ritmico cosmo simbolico che senza tregua accenna, allude, rimanda a un suo doppio celeste, del quale non è che l’ombra stampata sulla terra.52 50 C. Campo, “In medio coeli”, cit., p.14. 51 Vedi C. Campo, “Note sopra la liturgia”, in Sotto falso nome, cit., p.127. 52 C. Campo, “Sensi soprannaturali”, cit., p.245.

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Non ci si lasci ingannare dagli splendori delle cerimonie e degli apparati liturgici: per Cristina Campo, che certo li amava, in essi avveniva la restituzione del reale al suo vero ordine, consistente nel suscitare dall’ombra, dalla tenebra, dall’anonimato, ciò che ognuno cerca e si attende. Cristina Campo ha offerto anche un altro modello di trasformazione della sensibilità, un modello più lieve della sensualità trascendente propria della liturgia rinnegata dall’epoca contemporanea: la sprezzatura.53 Difficile dire se le due vie rimangano divise, anzi opposte. In lei stavano insieme, nel suo spirito, nella sua sensibilità, nella sua intelligenza. Probabilmente anche nel suo tormento. Sprezzatura è un atteggiamento morale, perduto al giorno d’oggi, un “ritmo morale”, la “musica di una grazia interiore”. Gentile impenetrabilità all’altrui violenza o bassezza, libertà, distacco dai beni terreni, indifferenza alla morte, amore e riverenza per la bellezza, misura negli slanci dell’animo, nelle sue tenerezze e turbolenze, nella stessa estasi: “che nulla traspaia dell’intimo cuore, nulla sia noto di noi che il sorriso”.54 A dispetto della lievità e della grazia con cui viene presentata, la sprezzatura porta con sé più di un paradosso. In essa c’è un’aria di nulla che nasconde un artificio, non vuole apparire per sembrare più di ciò che appare, e che forse non è. Atteggiamento che si confronta costantemente con il senza misura, fatto di disinvoltura, e insieme di ferocia, la sprezzatura è un calcolo, una misura complicata, una perfezione sensibile, ma invisibile, una spontaneità studiata, presuppone una regola, che essa supera e adempie nell’oltrepassarla.55 In Cristina Campo la sprezzatura è figura concreta, sensibile – e di conseguenza misura umana – del mistero, dell’eccedente. Essa implica tuttavia un verdetto definitivo di condanna dell’ispirazione lirica, di tutto quanto è psicologia, estasi e commozione a buon mercato. La mano sinistra – “molto sottovoce” nelle Polacche di 53 Vedi C. Campo, “Con lievi mani”, in Gli imperdonabili, cit., pp. 97111. 54 Ibidem, p. 100, p. 104. 55 Vedi J-C. Lebensztejn, “Florilège de la nonchalance”, in Critique, 473, 1986, pp. 1025-1052.

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Chopin56 – è organo della sprezzatura, che è “messaggera dell’ineffabile e del tremendo”.57 Il suo regno è l’uso del linguaggio e delle buone maniere, e i suoi campioni sono gesuiti e cortigiani. La sprezzatura é grazia mondana che forma la materia prima della Grazia: […] e indubbiamente i santi avventurieri, i lucenti eroi di fiaba che con lieve cuore, con lievi mani gettarono la vita nell’Immutabile erano tagliati di quella stoffa.58

Nella naturalezza che sfiora l’impossibile, nello charme e nella nonchalance propri della sprezzatura,59 non si incontrano forse il quasi nulla dell’esistere, le sue ironie e le sue imprevedibilità, il suo incompiuto?60 Il celeste sorriso di Cristina Campo induce a pensare che la sprezzatura sia stata per lei il ponte tra assoluto e imperfezione umana. Indizio non tanto nascosto potrebbe esserne il fatto che la sprezzatura non ricompone, ma esplicita con tenerezza la tensione tra l’ideale maschile cavalleresco, eroico, forse anche il gusto per la parata e per il duello all’ultimo sangue, che Cristina Campo coltivò, e la realtà femminile, ironica e terrestre, che le fu altrettanto congeniale. La sprezzatura risponde allo stesso problema della “percezione sottile” – percepire, sentire, ossia assumere su di sé, trasformare in esperienza personale, in sensibilità, emozione, parola, la struttura essenziale della realtà, il suo ordine segreto, divino. Siamo però di fronte a un modello diverso rispetto ai “sensi soprannaturali”. Nella sprezzatura le porte del visibile non si spalancano all’invisibile 56 57 58 59

Vedi C. Campo, “Con lievi mani”, cit., p.105. Ibidem, p.105. Ibidem, pp. 108-9. Vedi le osservazioni di M.L. Wandruska, “Con lievi mani. Hoffmannstahl, Campo, Bachmann”, in M. Farnetti-G. Fozzer (a cura di), Per Cristina Campo, cit., pp. 159- 164. In questo saggio è sviluppato il riferimento all’aria del Cavaliere della rosa di Richard Strauss, in cui la Marescialla rinuncia con malinconica leggerezza all’amore del giovane Octavian lasciandolo andare “con lievi mani”. 60 Vedi le osservazioni di uno dei rari pensatori del “non-so-che”, V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi niente, a cura di C.A. Bonadies, Marietti, Genova 1987, pp. 3-75.

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con l’enfasi della presenza del sacro, dell’infinito, ma si mostra il “fine equivalente umano” dell’assoluto, una perfezione intrisa di ironia e di pietas, perché istantanea, fragile, incompiuta, in fondo incomprensibile. Nella sprezzatura Cristina Campo riesce a esprimere con estrema fedeltà a se stessa l’urgere di forze eccedenti, le passioni e l’ambiguità – quelli che a volte chiamava dostoevskjianamente i suoi “crimini” – e a trovare la mediazione con i divini incontri che pure popolarono la sua vita. Il libro delle amiche La scrittura epistolare di Cristina Campo è sempre stata considerata con molta attenzione,61 ma è innegabile che le Lettere a Mita, destinate a Margherita Pieracci Harwell, abbiano aperto nuove dimensioni di lettura e di interpretazione della sua figura e dei suoi scritti. In esse si ritrovano alcuni aspetti ricorrenti nelle vicende epistolari di Cristina Campo. Da un lato, il “rivoglio bianche tutte le mie lettere”, ossia la voluta distruzione delle lettere precedenti il 1956, dall’altro, l’orizzonte di assenza, di lontananza. Tra Mita e Cristina per molti anni ci sarà in mezzo l’Atlantico. Al di là delle eventuali spiegazioni contingenti, colpisce il fatto che i carteggi pubblicati abbiano spesso la forma del dialogo a una voce. Nel caso di Mita, è esplicita la volontà di eliminare quasi ogni traccia di sé:62 le note al testo, curato dalla destinataria delle lettere, sono scritte in terza persona. Margherita Pieracci ha voluto mettere al mondo un nuovo importante libro dell’amica, raccogliendo con finezza – e, da vera amica, mettendolo in pratica in prima persona – il senso autentico del “rivoglio bianche tutte le mie lettere”. Come emerge chiaramente a proposito della sprezzatura, uno dei momenti più significativi del percorso di Cristina Campo con61 La corrispondenza con Alessandro Spina è stata studiata nel contesto di una valorizzazione della forma epistolare e del vincolo di amicizia da M. Farnetti, Cristina Campo, cit., pp.65-76; quindi da G. Rimondi, “Lo sguardo senz’ombre”, in M. Farnetti- G. Fozzer (a cura di), Per Cristina Campo, cit., pp. 90-7. 62 Vedi M. Pieracci Harwell, “Nota al testo”, in C. Campo, Lettere a Mita, cit., pp. 293-96.

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siste nell’abbandono di tutto quanto può avere a che fare con una sorta di adolescenza intellettuale e spirituale, con il pathos delle emozioni e il lirismo dei sentimenti, il vapore e la ruggine che ingombrano il mondo di ombre dell’interiorità. L’incipit improvviso, come se la corrispondenza cominciasse già nel vivo, nel mezzo della storia di un’amicizia, preserva una parte di non detto, probabilmente anche un tesoro puro dell’esperienza che deve restare riservato a chi l’ha vissuta, e non può, non deve essere serbato in parole non necessarie. Questa scelta, che Cristina lascia in eredità a Mita, chiarisce definitivamente il lavoro su di sé compiuto da Cristina Campo, e insieme lo mostra nel suo farsi, nel suo essere la misura, ad un tempo, di un contenuto affettivo traboccante e di una distanza. Assenza, lontananza, sparizione del destinatario o della destinataria, impietosa – o pietosa? – distruzione di ogni traccia di turbamento interiore. Certo, le lettere scritte da Cristina Campo a amici e amiche rinviano in molti modi all’esperienza più fine dell’amicizia contemporanea, all’enigma della distanza e alla vertigine della singolarità che la abitano, insieme al desiderio amoroso di legame, di relazione con l’altro, con l’altra. Per una scrittrice, “che ha scritto poco e vorrebbe aver scritto ancora meno”, le lettere non sono solo un documento esistenziale e biografico, ma una parte essenziale della sua attività di scrittura e di pensiero. Il rapporto diretto che spesso le lega a saggi, a progetti in corso d’opera e a altri generi di lavoro editoriale e letterario, nonché la qualità poetica ne sono una prova evidente. Il fatto che le lettere di Vie, di Pisana, di V., di C., di Xtina, a Mita compongano uno dei “libri” più importanti di Cristina Campo non deve però indurre a leggere la relazione di amicizia, a cui esse danno voce, in chiave esclusivamente letteraria o intellettuale, né a mettere il “libro delle amiche” sullo stesso piano di una raccolta di saggi o di poesie. Da questo punto di vista, la pubblicazione delle Lettere a Mita ha introdotto una novità profonda nella conoscenza dell’universo di Cristina Campo. Le lettere a Margherita Pieracci presentano momenti essenziali della vita e del pensiero di Cristina Campo in un orizzonte espressivo specifico, quello del “divino discorso tra

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due amiche”.63 Non ne risulta semplicemente la preminenza della relazione, del parlarsi e parlare con, piuttosto che del parlare di. Si producono invece effetti di spostamento e qualche volta di rovesciamento, si aprono impreviste possibilità espressive, che non si limitano ad arricchire quanto gli scritti e le poesie ci consegnano, bensì presentano un’autonoma creatività di scrittura e di pensiero che scaturisce dall’esperienza dell’amicizia. Le Lettere a Mita sono il documento dell’amicizia tra due donne in mezzo alle quali c’è una terza: Simone Weil. Cristina Campo e Margherita Pieracci si incontrano infatti per la prima volta nel 1952 per parlare di Simone Weil, i cui scritti all’inizio degli anni ’50 conoscono in Francia, in Italia e in Germania una prima fase di diffusione in cerchie ristrette, ma di grande rilievo culturale.64 La presenza di Simone Weil tra le due amiche rappresenta l’ispirazione di lunghi anni di lavoro in comune: traduzioni di importanti testi, raccolti in La Grecia e le intuizioni precristiane e del dramma incompiuto Venezia salva, il progetto non realizzato di una rivista intitolata L’attenzione, un’antologia di scritti per il numero speciale di Letteratura del 1959.65 La condivisione del lavoro weiliano diventa anche, da parte di Cristina Campo, esercizio di un ruolo di orientamento, di fervida iniziativa, spesso anche di formazione intellettuale, nei confronti dell’amica più giovane. In questo non c’è quasi nulla di pedagogico o di materno, c’è piuttosto partecipazio63 Vedi C. Campo, Lettere a Mita, cit., p.245 (lettera dell’8 settembre 1970). 64 Nei primi anni ’50 alle edizioni di testi weiliani tratti dai Cahiers seguono rapidamente le traduzioni italiana e tedesca. Vedi S. Weil, La pesanteur et la grace, Plon, Paris 1948 (tr. it., L’ombra e la grazia, a cura di F. Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1951); La condition ouvrière, Gallimard, Paris 1951 ( tr.it., La condizione operaia, a cura di F. Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1952); L’Enracinement, Gallimard, Paris 1949 (tr.it., La prima radice, a cura di F. Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1954); Attente de Dieu, Fayard, Paris 1948 (tr. it., Attesa di Dio, a cura di N. D’Avanzo Puoti, Casini, Roma 1956). 65 Vedi S. Weil, Venezia salvata, tr. it. a cura di C. Campo, Morcelliana, Brescia 1963 (Venezia salva, Adelphi, Milano 1987); La Grecia e le intuizioni precristiane, a cura di C. Campo e M. Pieracci Harwell, Borla, Roma 1967. Per una ricostruzione particoleggiata, vedi M. PieracciHarwell, Gli amici di Cristina Campo, cit, in part. il cap. III.

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ne intensa, desiderio di donare la propria esperienza all’altra. Ne è testimonianza il primo viaggio di Mita a Parigi, nel 1958, per incontrare la madre di Simone Weil. Cristina vi partecipa con consigli e suggerimenti di ogni genere, dai luoghi alle strade alle persone, come se anche lei andasse a Parigi, vivendo insieme all’amica “un doppio etereo della [mia] estate”.66 Il fatto che Simone Weil sia la terza tra le due è la chiave dell’assoluto rilievo e novità del carteggio. L’incontro con Simone Weil è un evento di capitale importanza per il percorso intellettuale e spirituale di Cristina Campo. Come si è visto, esso si tende tra appropriazione, immedesimazione e distacco. Nelle Lettere a Mita, e nel vivo contorno di operosità intellettuale, di scambio di esperienze a cui i suoi scritti danno vita, Simone Weil rappresenta una sorta di impersonale incarnato, adempie alla funzione di quel “ne va di qualcosa d’altro”, che apre ogni relazione intersoggettiva al suo oltre, al suo assoluto, forse anche al suo eterno. Non è certo indifferente che a fare da terza tra le due amiche sia una pensatrice le cui parole e le cui idee hanno saputo risuonare e colpire la mente e il cuore con un rigore e una forza capaci di restituire a tutto ciò che toccavano purezza originaria. Tantomeno è indifferente che la figura di Simone Weil fosse già esattamente intuita come quella di una “donna assoluta”,67 e quindi provocasse un’ammirazione a volte dolorosa, difficile da sostenere. In realtà, l’amicizia tra Cristina Campo e Margherita Pieracci è un esercizio di ammirazione che si traduce costantemente in pratica di quello che è il perno dell’intero pensiero weiliano: l’attenzione.68 Sotto questo segno, l’amicizia faceva esistere il vero, il bello, l’infinito, in una forma nuova rispetto allo sguardo diretto verso l’essenziale, che Cristina Campo sapeva benissimo essere a doppio taglio, espressione di infinito orgoglio, terribile come ogni 66 Vedi C. Campo, Lettere a Mita, cit., p.115 (lettera del 24\8\1958). 67 Vedi G. Fiori, Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga, Milano 1991. 68 Cristina Campo esplicita il legame di attenzione e amicizia anche nella lettera a Piero Polito dell’11\12\1962. Vedi C. Campo, “L’infinito nel finito”, cit., p. 5: “Infine, caro amico,grazie ancora per la sua attenzione: lei sa che cosa significa questa parola per me. Equivale, come minimo, ad amicizia”.

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eroismo, e insieme di perfetta, infantile innocenza. Proprio per questo lo temeva, anche se ne era irrestibilmente attratta. Le Lettere a Mita contengono testimonianze di primaria importanza relativamente alla tensione di Cristina Campo verso la bellezza, verso la verità definitiva della parola poetica, così come, soprattutto negli ultimi anni, sono il documento della sua esperienza religiosa. In entrambi i casi, sorprende la diversità del tono, la mitezza ardente, che non toglie nulla all’assolutezza dell’aspirazione, ma è come se l’avesse spogliata di ogni pathos eroico, e la restituisse invece con i tratti amorosi della gratitudine. La presenza dell’altra, desiderata in molti modi, non appare mai il surrogato di qualcosa d’altro. Anche a me resta di lei tutto ciò che mi ha dato – ma vede, a me non importa niente, niente di tutto questo. A me importava lei personalmente, lei anima e corpo, i suoi occhi e le sue parole – come al Capitano importava Mitsushima mille volte più della sua musica, e del suo stesso eroismo.69

Nell’amicizia e nelle lettere attenzione diventa allora assumere l’esistenza, la presenza dell’altra come porta, via verso l’essenziale. E questo cambia molte cose. Cristina Campo, che avrebbe voluto bianche tutte le sue lettere, la distillatrice di parole che scriveva poco e avrebbe voluto scrivere ancor meno, usa nelle lettere un linguaggio contraddittorio, affabulante, a volte bruscamente interrotto, a volte ad accumulo infinito, il linguaggio del “suono della voce”, del “dire tutto”, del “balbettio”, dell’“avere infinite cose da dirLe”, del “Io Le parlo di continuo, lo sente?”, del “parlo così, come mi capita. Sono discorsi da ‘campo scoperto’, come direbbe Silone”.70 Questo linguaggio, il linguaggio dell’amicizia, viene eletto a primario veicolo di accoglienza di quell’infinito o di quell’eterno, di cui le amiche celebravano insieme, non la Rivelazione, bensì la Visitazione, che veniva a loro come ospite, invitato, interlocutore di “divini discor69 C. Campo, Lettere a Mita, cit., pp. 99-100 (lettera del 29\4\1958). 70 Le citazioni potrebbero essere numerose. Basti notare la ricorrenza delle espressioni citate. Per il “campo scoperto”, vedi ibidem, p. 44 (lettera del 31\10\1956).

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si”, non come ideale o valore oggettivo a cui tendere e, semmai, da possedere. Le ho già detto che posso accettare il suo silenzio. Comprenderlo mi è più difficile. Io le scrivevo dal fondo del mar Morto, del deserto Nitrico, del nero Tartaro. Parlavo di non so cosa, ma parlavo. Al suono della propria voce si riacquista il senso delle misure, la vastità del mondo in cui si muove la nostra piccola storia. Non le chiedo di parlarmi di sé: le chiedo di non perdere la voce (cioè il senso preciso delle cose: “et que le centre est ailleurs”).71

Il “campo” di Cristina Campo, da simbolo dell’imperdonabile, dell’atroce richiudersi della storia sugli sventurati, i non amati, i “senza lingua”, diventa nelle Lettere a Mita imperdonabile “campo scoperto”, fragile e imperfetto dono della voce, della propria scrittura e delle proprie parole.

71 Ibidem, p. 20 (lettera 7\6\1956).

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