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Italian Pages 164 Year 2007
TESTIMONI
DEL
NOSTRO
TEMPO
_ETTI HILLESUM Un cuore pensante Graziella Merlatti
Il 30 novembre 1943 in una camera a gas
di Auschwitz muore, a 29 anni, l’ebrea
olandese Etty Hillesum. Ci ha lasciato un diario e delle lettere: pagine di una intensità sconvolgente.
‘ Donna fragile e tormentata, intellettuale
inquieta, amante libera e appassionata, inguaribilmente ottimista, ebrea non praticante, solidale con la sofferenza del suo
popolo, sa opporre il suo smisurato e disarmato amore all’odio distruttore. Percorrendo un itinerario tortuoso e
misterioso raggiunge le vette della mistica.
Questo libro presenta il profilo biografico di Etty, collocandola nel suo contesto e offrendo preziose chiavi di lettura per chi vuol accostarsi ai suoi scritti o li ha già letti.
Graziella Merlatti
Nata a Mondovì (CN) nel 1952, insegnante e pubblicista, vive e opera a Genova. Laureata in Scienze Politiche, ha
conseguito il Baccellierato in Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana. Scrive per l’Osservatore Romano e il Settimanale Cattolico di Genova.
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collana
TESTIMONI DEL NOSTRO TEMPO
Graziella Merlatti
Riese eEsSÙM Un cuore pensante
ANCORA
Prima edizione: 1998
Ristampa: 1999
A Liana Millu n° A5384 di Auschwitz-Birkenau testimone del passato coscienza critica del presente
0°
Prefazione
Ritratto di famiglia: tutti nella posa classica. Il padre, professore Louis Hillesum, seduto, sguardo calmo e severo da signor preside di un liceo di provincia. Seduta anche la madre, Riva (Rebecca) Bernstein, imponente signora dall’aspetto di mater familias orgogliosa dei tre figli e della lunga collana che, come vuole la moda, le scende sul petto robusto. In piedi tra i due, un bel ragazzino biondo circonda con un braccio le spalle della genitrice: è certamente il cocco di mamma. Dietro, inappuntabilmente vestito di scuro, Mischa, musicista precoce e — tutti ne sono convinti — di grande avvenire. Infine c’è lei, Etty. Né seduta né in piedi, inerpicata sulla spalliera di una invisibile poltrona. Una brunetta graziosa come ce ne sono tante, ma singolare è l’espressione volitiva, intensissima dei begli occhi scuri. Un atteggiamento che è una sfida: vedrete; vedrete...
Nessuno sorride. Eppure, quel momento della loro esistenza è sereno: genitori realizzati, figli intelligentissimi, studiosissimi, con un bell’avvenire. MaJaap, il bel ragazzino biondo, guarda nel vuoto con una espressione malinconica, una espressione che sem-
bra prefigurare la tragica sorte di tutta la famiglia. Sorte che con lui sarà particolarmente malvagia. Infatti Jaap morirà nel viaggio di ritorno, a guerra finita, dopo avere inutilmente sopportato Auschwitz e le sue agonie. «Avanti, allora! ».
Etty lo scrisse domenica 9 marzo 1941, così comincia il suo Diario. Forse se lo sarà detto anche Graziella Merlatti riprendenre
do fiato dalle difficoltà di un percorso impervio. Il Diario di Etty Hillesum è documento esistenziale complicato, dove la dualità della protagonista produce, diciamo così, andirivieni su una strada tortuosa che s’inerpica verso l’alto. «Avanti, allora!».
Per procedere con chiarezza, efficacia e fedeltà, Graziella utilizza un filo rosso infallibile, inconfutabile: segue le vicende di Etty Hillesum soprattutto mediante le sue stesse parole, debitamente virgolettate. Spesso, in casi del genere, il desiderio d’interpretare e di commentare porta sovrapposizioni indesiderabili, quello che di sé ha scritto l’autrice del Diario 0 sbiadisce o assume una personalità indesiderata. Saggiamente, Graziella Merlatti ha saputo evitarlo. Dobbiamo esserle grati: scrivere di scritture altrui è lavoro arduo. La massima aspirazione di Etty Hillesum era di realizzarsi come scrittrice: lo stesso desiderio di Anna Frank. Che, pur essendo ancora poco più che bambina, aveva cominciato (e superato) le prime prove abbozzando qualche racconto. Tanto più grande ed esperta della vita, Etty ribadisce questo progetto-sogno, analizza il suo modo di scrivere, si critica o si loda. Nelle sue ipotesi di futuro, s'immagina, sempre e soltanto, scrittrice. «Quando sarò
una matrona, passerò lunghe nottate a scrivere...» Se ne sente la capacità e la forza. Nel Diario ci sono osservazioni, descrizioni di persone, di oggetti, di strade, letterariamente
belle. Descrive con tenerezza la rosa gialla sulla sua scrivania, le chiazze viola dei fiori di brughiera, un anemone che, umiliato dal-
la burrasca, giace a terra ma conserva un’ombra di profumo. E i colori? Nel Diario se ne trovano molti. Mancano, per forza di cose,
i colori drammaticissimi,
straordinari,
delle albe di
Auschwitz, e Etty visse ad Auschwitz due mesi e mezzo, dal giorno del suo arrivo. Fosse sopravvissuta, certamente avrebbe descritto
il passaggio dal cielo notturno a quel cielo che diventava un mare 8
di colori violenti, purpureo, viola, rosa acceso, quasi verdognolo. Etty li vide: non ha potuto scriverne. Di Etty Hillesum si è discusso molto. Le opinioni sono diverse,
certo è che in ogni manifestazione dei nonviolenti dovrebbe essere innalzato il suo ritratto. Come Gandhi, ebbe una fede assoluta nella forza vittoriosa della nonviolenza. Di più. Lei che, di famiglia ebraica, rimarrà sempre estranea alle religioni, aggiunge alla sua nonviolenza il dettato evangelico: «Amate i vostri nemici». Intorno a lei, il mondo è sempre più accerchiato, stretto dal-
l’odio. Anche chi combatte per la buona causa e resiste e soffre e muore, di fronte agli orrori provocati dall’odio inumano, sente sempre più il bisogno di contrapporre odio. Etty Hillesum, no. Lo ripete ossessivamente:
la vita è amore, la vita è bella, anche il
più bieco torturatore ha, nel suo animo, una capacità d’amore. Non si può dire che si rassegna al Male. Si può dire che, negandolo in se stessa mediante l’opposizione della dolcezza e della pietà, Etty si innalza col Bene e il Male dalla terra e si proietta in un cosmo dove questi, Bene e Male, formano un’unità mistica
cosmica.
Fu mistica? Questa ossessiva affermazione della bellezza e bontà della vita, l’avrà ripetuta anche ad Auschwitz? Non lo sappiamo. Purtroppo non sappiamo niente del suo vissuto in quei due
mesi e mezzo. Partendo dall’Olanda aveva messo nello zaino il viatico di una piccola Bibbia, poesie del suo amato Rilke, qualcosa di Dostoevskij. Immaginava (come tanti altri) che nella giornata di Auschwitz si potesse anche leggere. Non sapeva che lo zainetto con i suoi libri sarebbe stato scagliato sulla banchina, calpestato, distrutto. In quei due mesi, Etty dovette imparare anche la proibizione delle preghiere, dell’aiuto scambievole, della pietà, tutto verboten, tutto punibile.
Diversamente da Anna Frank, usa a dire ogni sera le sue preghiere, la Hillesum non aveva ricevuto nessuna educazione religiosa. Conosceva le religioni attraverso studi e letture vaste, ma visse il primo periodo della vita disordinatamente, sensualmente, anticipando di molto i costumi odierni. Poi, mentre anche sull’Olanda si stende la cupezza dell’ordine nazista, la ragazza incontra Julius Spier. E qui dovrei citare il maestro chassidico che insegnava: «Nessun incontro che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un significato segreto». Julius Spier, una strana, carismatica figura, non solo sarà l’ultimo, tormentato amore di Etty, ma diventerà come dice Etty,
«l’ostetrico della sua anima». Con lui, imparerà a inginocchiarsi, giungere le mani e pregare. Chi? All’inizio dice «la parte più profonda di me, che, per comodità, chiamo Dio». È il punto di partenza del suo cammino spirituale. Poi, man mano che il filo delle circostanze si svolge, questo punto ha mutazioni. Diviene sempre più il Dio dell’Antico Testamento e quello del Nuovo: come è inevitabile nei momenti di stanchezza disperata, è il «Padre nostro», l’Essere onnipotente e misericordioso da pregare in ginocchio. Per avvicinare la grandezza di questo Dio, Etty decide di diventare un balsamo per le ferite dei suoi simili. Distribuisce pietà: per chi soffre è sempre di sollievo ricevere pietà.
Su Etty Hillesum si è scritto e discusso molto, come è giusto. Le opinioni divergono: chi vede nella sua assoluta fede nella nonviolenza e nell’amore rivolto anche ai nemici la quintessenza del cristianesimo. Chi riconosce la quintessenza dell’ebraismo nell’indomito attaccamento alla vita, la fiducia che ogni piccolo bene operato dall’individuo contribuisce alla trasformazione del mondo: se partire dal sé è inevitabile, la meta deve essere al di fuori del sé. E i mistici? Anche i mistici possono ritrovarsi in un essere in cui Bene e Male formano, nel cosmo, una energia armo-
niosa e unica. 10
Etty anticipò la famiglia nel campo di attesa di Westerbork: padre, madre, fratello pianista, vi giunsero insieme. Jaap, il biondino della foto, divenuto medico, li raggiungerà più tardi. Stranamente, Etty fa in modo di non salire nel vagone dei genitori e delfratello. Sceglie il vagone numero 14, rifiuta una compagnia parentale che l’avrebbe, con lamenti e querimonie, distolta da quello che Soltgenitzin chiama «l’assetto della propria anima». Nei vagoni non c’era spazio. Ma credo che, una volta nella camera a gas, Etty sia riuscita a trovarne uno minimo per inginoc-
chiarsi, giungere le mani, pregare. Liana Millu
ll
Introduzione
Cammino lentamente sulla ghiaia del campo di sterminio. Mi sorprendo a pensare che qualcuno possa chiudere gli occhi di fronte a reperti urlanti ancora disperazione, dolore e implorazione perché il futuro scelga un sentiero migliore, conscio di un passato crudele fino all’orrore scientificamente programmato. Ricordare è un richiamare alla vita. Ricordare persone ed eventi di un tempo che alcuni vorrebbero oscurare negando la granitica chiarezza dei fatti, le ferite ancora visibili, le esperienze ancora ascoltabili dei testimoni, è solo riconoscere un’evi-
denza e accogliere un’imprescindibile richiesta della storia. In queste brevi pagine, che non hanno alcuna pretesa di originalità, si intende solo lasciar parlare o far parlare parole scritte o intuite o celebrate nel quotidiano sofferto di un tempo difficile da Esther Hillesum. Tutto rimanda a lei, in particolare agli undici quaderni del suo Diario e alle Lettere, pubblicate in Olanda dall'editore De Haan e in Italia da Adelphi'. E anche agli studi già apparsi su Etty in questi anni. Unica peculiarità vorrebbe essere proprio quella di presentare un profilo della Hillesum rivolto anzitutto a chi non può dedicare tanto tempo alla lettura e tuttavia vuole essere attento al nuovo che è passato 0 che passa accanto. E ciò nel contesto della scheggia di tempo in cui s'è trovata a vivere, dal di dentro del suo sentire,
facendo spazio il più spesso possibile alle sue stesse parole: E. HilLEsum, Diario (1941-1943), Adelphi, Milano 1996; Ip., Lettere (1942-1943), Adelphi, Milano 1990.
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vivissime, vere, efficaci, parlanti. Dalle quali affiora il vissuto di una giovane donna, per alcuni aspetti fragile dal punto di vista psicologico — i suoi fratelli più di lei, Mischa soprattutto — e purtuttavia forte della scoperta di un baricentro equilibratore nelle profondità inviolabili dello spirito. Cresciuta nel tessuto di una borghesia agiata, a un certo punto, provocata dalle circostanze, intraprende un cammino di chiarificazione di sé, che la porta piano piano a straripare oltre gli orizzonti dell'io per abbracciare il destino del suo popolo, e più in là, a cercare e abitare l'atmosfera di un'armonia cosmica. Lettrice accanita, e all’inizio disordinata, sincera fino
alle conseguenze ultime, attraverso gli autori frequentati cresce e pensa. Pensa e cresce. In una irreversibile spirale in salita.
La saggezza del patrimonio ebraico ove affondano le sue radici culturali, gli studi di giurisprudenza — in cui si laurea — prima, lo studio delle lingue slave dopo, quella russa in particolare, la portano a contatto con capolavori letterari che sono anche riflessioni di sapore teologico e soprattutto patrimoni di profonda spiritualità. Poi lo studio della psicologia, nel filone di Carl Gustav Jung, a cui la conduce il suo grande amore Julius Spier, la sospingono al lavorio personale e la portano ad affermare la responsabilità di ogni persona nel costruire e vigilare la propria interiorità, spazio vitale e riservato. All’ombra di grandi — da Rilke a Dostoevskij, da Seneca ad Agostino di Ippona, dagli autori biblici ad altri moderni e contemporanei — cresce in libertà e autodeterminazione e consolida la scelta di pensare in positivo, di non rispondere al male con il male per smorzare l’odio, per contestare e contrastare il nazismo non con il fare ma con l’essere. Pare ritrovarsi stupita e commossa di fronte al dolore di Dio, quasi reso vulnerabile dall’evenienza della guerra. Compagna delle donne e degli uomini che vorrebbe capaci di vivere e discernere e agire di più con l'intelligenza del cuore, con l’au19
silio di strumenti di autoliberazione come la psicologia, non ritiene neppure essi totalmente colpevoli per la tragedia in corso. Una parte di ciò che accade sembra far parte degli avvenimenti naturali del mondo, e pensa che nessuno potrebbe efficacemente opporvisi. Non c’è però accettazione supina o rasse-
gnazione
o assoluzione
dei genocidi
negli scritti di Etty,
conscia di essere rinserrata in un paese senza sbocchi com'è
l'Olanda occupata, che perderà circa il 75 per cento della sua popolazione ebraica (che contava allora 140.000 membri). Riconosce l’assurdo distruttivo del nazismo e vi si oppone con tutta la forza inerme di un’autorevolezza pensante. E scrivente, per noi. Sorride come massima espressione di umanità dove è vietato anche sorridere, tanto che un soldato imbelluito, urlando, le ordina di smettere.
Proprio allora riscopre e sottolinea il valore delle cose semplici, dei gesti minimi e pulsanti vita e solidarietà. Indica come meta l’altruismo, incarnandolo in situazioni estreme e propo-
nendone così la valenza politica, insieme silenziosa protesta e resistenza al male. Al «male assoluto» di una immane tragedia, «non
solo storica ma
addirittura metafisica, che ha vissuto
l'umanità con il nazismo»?. Opponendogli in anfratti infinitesimali un antidoto di amore umile e altissimo. Coltivando un pensiero altro, di persistente coraggiosa ominità, dove tutto sembra volerla ridurre a cosa. Salvaguardando nell'intimità profonda un’abitazione alla giustizia e alla verità. Un luogo ospitale per l’altro e per l'Altro. Per conservare un senso all’esistere, quando tutto attorno sembra prevalere una follia collettiva. Alla ribellione aperta — ebbe contatti con la Resistenza olandese — preferisce una «resistenza esistenziale»?. Come sottolinea Gerrit Van Oord, «l'identità personale di Etty Hillesum non le permise di inserirsi in una identità di gruppo preesisten25. ALBESANO, La resistenza morale della rosa bianca, in «AlfaZeta» 60 (1996) 73.
? Riprendo l’espressione da «AlfaZeta» (cf nota 1).
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te; anzi, la sua identità si sviluppa fino a diventare un punto di appoggio che è allo stesso momento il luogo dove viene accolto l'Altro: accolto, non consumato, ricevuto, non dominato, in-
contrato, non assoggettato»’. Una consegna emerge dall’esperienza di questa resistente
della scrittura: quella di gettare un fascio di luce sulla propria immagine di creature che riconoscono il fascino della semplicità e della schiettezza, della gioia e della dignità di essere quello che sono. Che, riscoperta la propria vera immagine, la riconducono alla somiglianza con l’Infinito. Accanto a questa indagatrice dei recessi umani quanto in-
guaribile sognatrice di stelle, ci si può legittimamente interrogare se sia tutto e solo una tragica commedia umana o se, anche
dentro la Shoah? ci sia qualcosa che ci viene offerto come un marchio di fuoco perché si operi verso un mai più. E una domanda sale ancora: si poteva evitare? Ma oggi certo si può evitare di far crescere germi di indifferenza, di rifiuto, di disprezzo — matrici di violenza, ripete di continuo Liana Millu, numero A 5384 di Auschwitz-Birkenau,
nei suoi incontri con gli studenti — verso popoli e persone che bussano alla porta della casa Europa, chiedendo ospitalità e rispetto, che ovviamente ha da essere reciproco. Si possono superare i confini delle Chiese e delle culture in obbedienza a una chiamata dall’Alto, e dal profondo. Vivendo come ospiti e transeunti nella tenda del villaggio globale. Per un mondo che non conosca oppressori e oppressi, dominatori e dominati.
*G.VAN OORD (a cura di), L'esperienza dell’Altro, Sant'Oreste (Roma) 1990, p. 15.
’ Con questo termine (letteralmente “catastrofe” o “desolazione”) gli ebrei indicano il genocidio del loro popolo.
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I Nella notte della barbarie
L'itinerario umano di Etty Hillesum, giovane donna olandese della borghesia intellettuale ebraica, si raccoglie fra due date fin troppo vicine: nata il 15 gennaio 1914 a Middelburg, cittadina nella regione di Zeeland, su una penisola che si protende nel Mare del Nord, abbracciata dagli estuari della Schelda Occidentale e Orientale, muore ad Auschwitz-Birkenau il 30 novembre 1943". Anche lei persa tra cielo e fumo, come migliaia, milioni di esseri umani — destinati da un progetto perverso e
dall’incoscienza colpevole di una moltitudine che non seppe o non volle incrociare le braccia di fronte alla violenza — dei quali assume coscientemente il destino. Il suo Diario, sopravvissuto all’annientamento della fami-
glia Hillesum, dopo essere passato di mano in mano, vede la luce nel 1981 presso l’editore De Haan di Amsterdam, riscuotendo fin dal suo apparire un successo pari a quello avuto dal Diario di Anna Frank. Affamata di amore, di bellezza, di verità,
Etty è personaggio a un tempo sconcertante e carico di fascino, mistica senza comunità e senza Chiesa, donna di relazioni an-
che discutibili che lega, facendoli amabilmente incontrare in se stessa, il cielo e la terra, il fuoco e il fumo dei forni crematori
con i cieli santi. Negli undici quaderni’ che racchiudono, in grafia minuta e al limite del leggibile, due anni di note che vanno dal 1942 al 1944, vi è il tesoro di una cifra da cogliere e da ' La data è desunta da un rapporto della Croce Rossa. 2 Uno di essi, il settimo, non è stato ritrovato.
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decodificare, per gustarne tutta la ricchezza e lasciarne fluire la forza dirompente. Sono, quelli, anni di ferocia senza pari nella storia dell’Eu| ropa, che ha per tragico scenario l’ombra cupa dello sterminio. Etty Hillesum affida alla carta un contro-dramma, come lo definisce Gaarlandt nell’introduzione all'edizione inglese del Diario. In esso, vertice del suo esistere, affiora una donna affasci-
nata da Dio, cui va non attraverso dogmi o sinagoghe, ma con l’afflato di un consegnarsi quotidiano in condizioni estreme. A poco a poco si trova ad abitare stabilmente la dimensione del mistero. E dentro un’attività stringente, talvolta faticosa, cresce una donna capace di sorprendere anche noi: un caso emblematico, come Simone Weil, entrambe figure tra le più importanti del pensiero femminile del Novecento. Si affina una scrittrice di razza, capace di interrogare guardando negli occhi l'essenziale: dei rapporti umani, della vita, della società, del-
l'Eterno che inquieta, che afferra, che pacifica, che continuamente rimanda a se stessi, alle radici della terra, alle profondità
di un cielo dalle iridescenze umane e divine a un tempo. Una mistica? Probabilmente sì. Ma con una caratteristica che ella stessa esplicita con definizione originale: «Il misticismo deve fondarsi su un’onestà cristallina: quindi prima bisogna aver ridotto le cose alla loro nuda realtà», sempre dentro lo spessore del vissuto contraddittorio e difficile. Di lì si è rimandati all’O1tre, all’Inafferrabile vicino che sollecita aperture inattese, crescite impensate, itinerari sconosciuti.
Sono pochi i dati biografici che possediamo di Esther Hillesum e della famiglia fino al 1941. Il babbo, Louis Hillesum, professore di greco e latino, è un ricercatore e studioso di valore. La mamma, Rebecca Bernstein, giunge nei Paesi Bassi nel
1907, per sfuggire ai pogrom russi. Si sposano nel 1912 e la loro relazione rimane sempre burrascosa per la diversità dei caratteri, diametralmente opposti: colto e pacato lui, passionale e 18
caotica lei. Il lavoro paterno comporta frequenti trasferimenti. Prima abitano a Tiel, poi a Winschoten; nel 1924 la famiglia Hillesum si stabilisce a Deventer, nell’Olanda orientale, dove il
padre è per quattro anni vicepreside e poi preside del ginnasio municipale. Qui Etty vive un’infanzia felice, insieme ai fratelli Mischa e Jaap. Il primo diviene in breve uno dei più promettenti pianisti olandesi: genio nato, a 6 anni già suona Beethoven in pubblico. Il secondo, ancora studente di medicina, a soli 17 anni, scopre un nuovo tipo di vitamina e si garan-
tisce un futuro nella professione medica. Han Wegerif e Julius Spier, gli uomini della sua vita Intelligente e precoce, amante della lettura e degli studi filosofici, Etty stacca di molto i suoi coetanei. Laureata in giurisprudenza nel 1939, nel 1940 inizia lo studio della lingua russa,
presto interrotta dallo scoppio della guerra e dall’occupazione tedesca. Dai primi mesi di guerra si dedica allo studio della psicologia. Già durante gli studi universitari, dopo essere stata per un periodo con il fratello Jaap, si trasferisce in Gabriel Metsu Straat, al numero 6, come coinquilina di Han Wegerif, di cui
presto diviene amante. Suo incarico è occuparsi dell’andamento della casa, un vasto appartamento al terzo piano, con vista sulla Museumplein. È alla scrivania della sua camera in questa grande casa vicino al Concertgebouw che inizia a stendere le pagine del suo Diario. La “famiglia” del contabile Han Wegerif è una piccola, variegata comunità, composta da Kathe, la cuoca tedesca, cristiana, di origini contadine, che è per lei «come una buona seconda madre»; da Maria Tuinzing, una studentessa ebrea di Amsterdam, poi infermiera, cui Etty è molto legata; da
Bernard, «un vecchio socialdemocratico equilibrato e piccolo borghese» e da Hans, figlio del padrone di casa, giovane studente di economia, «leale, buon cristiano».
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Il 3 febbraio 1941 incontra Julius Spier, che incide più di ogni altro nella sua vita adulta. Prende addirittura a festeggiare quella data come il suo compleanno, per l’importanza che attribuisce a tale relazione in ordine alla sua crescita umana e spirituale. L'uomo, di cui in breve è segretaria e amante e che
diventa cardine del suo universo di pensieri e di emozioni, è il fondatore della psicochirologia. Spier, ebreo nato a Francoforte il 25 aprile 1887 ed emigrato da Berlino, ex direttore di banca in pensione dal 1926, si è progressivamente scoperto la passione per lo studio e la classificazione delle linee della mano. Trasferitosi a Zurigo con lo scopo di fare il training analitico con Carl Gustav Jung, è da questi convinto a fare della psicochirologia il suo lavoro a tempo pieno. Studioso e uomo affascinante, ovunque si trova immerso
tra amici e discepoli. Rag-
giunge la sorella nei Paesi Bassi nel 1939, mentre i figli Ruth e Wolfgang restano in Germania con la madre, non ebrea, dalla quale Spier aveva divorziato nel 1935. Per definizione degli am-
miratori, è una personalità magica, abile nel coniugare la decodificazione di un vissuto attraverso le linee della mano con un'eccezionale
capacità di interpretazione e di introspezione
psicologica. Per Etty si rivela un vero catalizzatore di energie sommerse: la incammina alla ricerca dell’essenziale del proprium umano e le insegna così ad andare controcorrente. L’occupazione tedesca Il contesto degli anni cruciali e più alti di Etty è quello dell’occupazione tedesca. Quando scoppia la guerra tedesco-polacca nel 1939, i Paesi Bassi riaffermano la propria neutralità e si preparano come possono a salvaguardare i confini. Nella primavera del 1940 la situazione si aggrava e alla fine di aprile è proclamato lo stato di assedio. Il 10 maggio la 18° Armata al comando del generale von Kuchler sferra l’attacco sul fronte occidentale. Insufficiente e inefficace si rivela la difesa delle 20
otto divisioni olandesi, più le due di riserva, coordinate dal ge-
nerale Winkelmann, capo supremo delle forze armate. In caso di aggressione era previsto l’allagamento dei territori del triangolo della fortezza Olanda, costituita dalle città di Amsterdam, Rotterdam e l’Aja. Ma occorrerebbero almeno tre o quattro giorni per completare l’operazione e la sorpresa dei bombardamenti e del lancio di alianti e paracadutisti sull’Aja e su Rotterdam rende il piano superato dagli eventi. La resistenza del piccolo paese, nonostante il massiccio intervento delle forze del Reich, si protrae fino al 15 maggio. Il 14 dello stesso mese la famiglia reale e il governo si rifugiano in Gran Bretagna, dopo aver affidato i pieni poteri al generale Winkelmann. Quattro giorni sono sufficienti ai tedeschi per conquistare i Paesi Bassi e affidarli al comando di un commissario del Reich, Arthur Seyss-Inquart, coadiuvato dal coman-
dante generale delle SS e della polizia. Mentre il governo in esilio rifiuta ogni compromesso con gli occupanti e il parlamento viene sospeso, gli undici segretari generali dell’amministrazione di fatto si trovano costretti a collaborare con il commissario del Reich. Tra le loro prime disposizioni ci sono l'esclusione degli ebrei dagli impieghi pubblici e i provvedimenti sul lavoro obbligatorio in Germania. Si registrano però ripetute dimissioni, tanto che alla fine del 1943 sono rimasti in carica soltanto tre commissari. Il sistema giudiziario rimane attivo durante tutto il periodo del conflitto, senza porre in atto alcuna forma di resistenza, anche passiva. Allo stesso modo la corte suprema si adatta alla nuova situazione, tanto che nel 1944 è destituita dal governo in esilio. Intanto il disagio popolare e il distacco dei cittadini dalla direzione politico-amministrativa del paese si fanno via via più marcati. Fin dall’inizio dell'occupazione si verificano sporadiche iniziative antinaziste e anticollaborazioniste a favore degli ebrei. Il 29 giugno 1940 si svolge una manifestazione di prote21
sta, più reazione spontanea che espressione di opposizione or-
ganizzata. Il 25 e il 26 febbraio 1941 ad Amsterdam ha luogo il primo sciopero anti-pogrom della storia europea. La risposta è l’inasprimento della repressione: gli ebrei cominciano a essere internati nei campi di lavoro. Nel 1940 e nel 1942 si mobilitano le Chiese. Più durature, dal 1941 alla liberazione, sono le ma-
nifestazioni di lotta dei medici. Comunque non una diretta collaborazione, ma un silenzio accomodante dei più per salvaguardare una vita passabile si protrae fino al 1943, quando il favore dell’opinione pubblica si orienta verso gli alleati. Già dal 1942 il movimento di resistenza olandese trova consensi popo-
lari; l’attività di sabotaggio si fa intensa e provoca violente rappresaglie ed esecuzioni di esponenti della resistenza civile. Dall’altra parte c’è il collaborazionismo attivo, che conta da 50 a 80.000 sostenitori. A cavallo tra il 1942 e il 1943 sorgono altre due organizzazioni antitedesche: i Gruppi combattenti nazionali, Landelijke knoploegen (LPK) e il Consiglio della Resistenza, il Raad van
Verzet. Gli attacchi armati contro militari e collaborazionisti si fanno più frequenti e sempre più aspra è la reazione dei comandi
germanici,
che si traduce
in deportazioni
di massa,
come quella dei 600 studenti universitari dopo l’assassinio del generale filotedesco Seyffart. Ormai quasi a ridosso della liberazione, nel luglio 1944 le organizzazioni partigiane danno vita al Comitato supremo della Resistenza, il Grote Advies Commissie del Illegaliteit. Quando, il 1° novembre 1944, i tedeschi iniziano la ritirata
incalzati dallo sbarco sulle coste olandesi nell'isola di Walcheren, Etty è morta già da undici mesi. Sull'argomento cf J. SEMELIN, Senz'armi di fronte a Hitler. La resistenza civile in Europa 193943, Milano-Torino 1993; C.M. SHULTEN, Il collaborazionismo politico, militare e poliziesco con il nemico nei Paesi Bassi durante l'occupazione, in Una certa Europa, il collaborazionismo 1939-
1945, Annali della Fondazione Luigi Micheletti; H. FRIEDHOFF, Requiem for the resistence: the civilian struggle against nazism in Holland and Germany, in «European History Quarterly», January 1991.
L%
La deportazione degli ebrei olandesi I 140.000 membri della comunità ebraica olandese — e i 20.000 Mischlinge, coloro che hanno anche solo un nonno ebreo, cen-
siti in base al decreto dell’amministrazione tedesca del 10 gennaio 1941 — sono oggetto del processo di distruzione con un’inesorabilità e minuzia pari a quella che colpisce gli ebrei del Reich. Senza protezioni territoriali, con una frontiera in co-
mune con la Germania e una con il Belgio occupato, con il mare a nord e a ovest, gli ebrei olandesi si trovano senza vie di scampo. All’arrivo delle armate tedesche nel maggio 1940, Amsterdam conta da sola 80.000 ebrei. Già il 22 ottobre il Reichkommissar Seyss-Inquart avvia il processo di annientamento prendendo alla lettera le leggi razziali di Norimberga del 1935. Inizia l’arianizzazione forzata delle imprese ebraiche, con il blocco dei crediti e dei conti bancari, dei titoli e degli oggetti di valore finalizzati alla confisca. Il 9 febbraio 1941 alcune formazioni militari del Partito nazista olandese (NSB) fanno irruzione nel quartiere ebraico della città, incendiando le sinagoghe, ma trovano l’opposizione di squadre armate formate da giovani ebrei e gruppi di operai olandesi. Il quartiere viene chiuso e vuotato degli abitanti olandesi: diventa ghetto. Sempre in febbraio, un distaccamento della Polizia tedesca di sicurezza, che
pattuglia il quartiere, scopre una riunione clandestina in un alloggio privato. I partecipanti sparano sui poliziotti e gettano loro contro del vetriolo. Per rappresaglia i tedeschi ordinano la deportazione a Mauthausen di 430 giovani ebrei tra i 20 e i 35 anni. Uno sciopero massiccio e inatteso, cui aderiscono gli ad-
detti dei trasporti, dell'industria e dei cantieri navali, in un paio di giorni paralizza l'Olanda. Forse il motivo profondo della manifestazione è da cercare, più che nella protesta per la rappresaglia nel ghetto di Amsterdam, nella paura del trasferimento forzato degli operai dei cantieri navali nei campi di lavoro del Reich. È imposta la legge marziale e lo sciopero in meno di 23
tre giorni viene soffocato. Alle popolazioni di Amsterdam, Hilversum e Zaandam sono inflitte multe colossali. I giovani deportati a Mauthausen sono destinati al lavoro nelle cave di marmo e presto cominciano a morire, stroncati dallo sfinimento. Come disperata ed estrema protesta, un giorno i sopravvis-
suti si prendono per mano e insieme dall’alto si lanciano nel vuoto, sfracellandosi sul fondo della cava.
Di pari passo la macchina nazista predispone i piani per de-
portare tutta la popolazione ebraica nei campi di sterminio dell'Est. Viene fatto un censimento e in Amsterdam si creano tre
quartieri-ghetto nei quali viene rinchiusa quasi la metà degli ebrei del paese. Il 29 aprile 1942 è imposto l’obbligo di portare cucita sugli abiti la stella di David. Per esprimere solidarietà,
un certo numero di olandesi porta all’occhiello un fiore giallo; compaiono sui muri manifesti che sollecitano i passanti a fraternizzare con gli ebrei. Dal luglio 1942 iniziano con cadenza regolare le deportazioni di massa: alla data del 24 settembre ad Auschwitz sono già arrivati 20.000 ebrei olandesi e altri 85.000 stanno per essere convogliati verso altri campi’. A Mauthausen nel 1941 e 1942 ne sono internati 1.750: ne tornerà solo uno. Ad Auschwitz ne * Nella Polonia invasa dai tedeschi, a sud-est di Cracovia, nella zona di Oswiecim (più nota col
nome tedesco di Auschwitz), nel maggio 1940 viene aperto un nuovo lager, destinato agli inizi esclusivamente all’annientamento fisico degli ebrei, come altri campi in territorio polacco: Treblinka, Chelmno, Sobibor, Maidanek e Belzec. Il 20 gennaio 1942, durante la conferenza di
Wansee, i plenipotenziari nazisti decidono l’Endlosung, la cosiddetta soluzione finale della questione ebraica in Europa. E in molte altre parti del continente sorgono campi di concentramento in cui ebrei e non ebrei sono sottoalimentati, sottoposti ai lavori forzati e spesso crudelmente uccisi. Il comando di Auschwitz è affidato a Rudolph Hòss, proveniente da Sachsenhausen, dove già ricopriva la massima carica. Da quel lager si fa portare trenta criminali comuni per supportare le SS nella sorveglianza interna. Progettato inizialmente per accogliere 10.000 deportati, il campo cresce fino ad avere una-superficie di 40 chilometri quadrati. L'arrivo di 10.000 sovietici fa raddoppiare il numero dei deportati, che sale a oltre 36.000 agli inizi del 1942, nonostante siano già stati uccisi oltre 20.000 prigionieri. Nel marzo 1941 Himmler, il
capo delle SS, dispone l'ampliamento di Auschwitz I, per destinarvi altri 30.000 internati, e la costruzione di un nuovo complesso per altri 100.000: nasce Auschwitz II-Birkenau, in località Brzezinka, a tre chilometri circa da Auschwitz I. Questa città di baracche apre i cancelli nel gennaio 1942 e riceve anche un reparto femminile dislocato da Ravensbruck, dove nel 1944 si
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giungono 60.000: ne sopravviveranno poco più di 1.000. Dei
34.300 finiti a Sobibor ne rimarranno vivi solo 19. A Theresienstadt arrivano in 4.900 e a Bergen-Belsen 3.750: faranno ritorno a casa solo poco più di 4.000. Altre 350 persone sono deportate in altri campi, mentre 2.000 muoiono assassinate o suicide o sfinite dalle privazioni nei campi di smistamento olandesi.
Il campo di Westerbork Prima di essere smistati ai luoghi di sterminio, infatti, tutti gli
ebrei olandesi arrestati durante i rastrellamenti sono fatti confluire in due grandi campi di raccolta: Vught e Westerbork. Il primo fu costruito appositamente a Bois-le-Duc, il secondo —
da cui passò tutta la famiglia Hillesum — era sorto vicino ad Assen verso la fine del 1939 per ospitare 1.500 ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania prima della guerra. Venne posto alle immediate dipendenze del capo supremo delle SS e della polizia, Hans Albin Rauter. Insieme i due campi avrebbero dovuto conconteranno ancora oltre 43.000 deportate. La macchina della distruzione prevede anche giardini, orti, palestre, impianti sportivi, caserme per le SS e nuove fabbriche, come le officine chimiche Buna e gli impianti IG Farben ad Auschwitz III In tutta la regione sono istituiti campi esterni per garantire la manodopera alle imprese delle SS o per il noleggio dei prigionieri, dietro pagamento alle SS, a gruppi industriali privati, come Buna-Werke, Siemens, Gòring, Krupp. I quattro forni crematori entrano in attività nel gennaio 1942, quando Hòss dà il via allo sterminio di massa a Birkenau: le vittime vengono asfissiate con lo zyklon B, micidiale veleno per topi. Nel febbraio 1943 viene aperto un reparto riservato agli zingari: ne finiscono nelle camere a gas almeno 21.000. La speranza di vita di chi giunge ad Auschwitz, se non è subito eliminato, oscilla normalmente tra i 3 e i 6 mesi, inferiore a quella degli altri campi per la ferocia del trattamento. Le vittime sterminate con il gas, secondo calcoli attendibili, ammontano a 3.500.000 a Birkenau, più di 400.000 ad Auschwitz I, senza poter valutare quelle trasbordate direttamente dai treni ai crematori. Durante l’estate 1944, ogni giorno passano per
il gas e l'inceneritore almeno 120.000 persone. L’avanzata del fronte orientale verso il Reich costringe i tedeschi allo sgombero dei campi. A novembre Himmler ne ordina la chiusura e la distruzione per non lasciare tracce. Il 27 gennaio 1945 ai soldati dell’Armata Rossa che entrano in Auschwitz si presenta uno scenario spettrale: quello che resta di ottomila scheletri viventi, che nella precipitazione della fuga le SS hanno dovuto abbandonare sul posto. Sull'argomento cf W. LAQUER, Il terribile segreto. La congiura del silenzio sulla soluzione finale, Firenze 1983; R. Hi.8ERG, La distruzione degli Ebrei d'Europa, 2 voll., Torino 1995; L. Miu, Il fumo di Birkenau,
Firenze 1947; H. LanGBEIN, Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, prefazione di P. Levi, Milano 1984; H. RAUSCHING, Hitler m’a dit, Paris 1979; E. KLEE -
W. DRESSEN - V. Riess, “Bei tempi”. Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare, Firenze 1990.
po)
tenere circa 40.000 persone. Come descritto anche da Etty nel Diario, dal campo di smistamento — Durchgangslager — di Westerbork, situato su una striscia di brughiera di circa cinquecento metri quadrati nell’Olanda nordorientale, transitarono tutti i treni per la Polonia provenienti da Vught. Qui più di centomila ebrei olandesi fecero l’ultima fermata prima di Auschwitz. Qui Etty visse gli ultimi mesi della sua vita, continuando a scrivere le Lettere e il Diario,
e occupandosi senza
risparmio dei malati nelle baracche dell’ospedale. In ogni campo l’amministrazione tedesca utilizzò un servizio di direzione ebraico, la Kampleidung, che a Westerbork contava dodici divisioni, di cui tre affidate agli ebrei rifugiati venuti dalla Germania. Settimanalmente i suoi impiegati dovevano preparare una lista con 1.020 nomi, che il lunedì notte gli anziani del campo utilizzavano per l'appello in ordine alfabetico delle vittime designate. Ogni martedì alle ore 11, con precisione teutonica, un convoglio partiva per Auschwitz con il suo
carico destinato alla morte. Le diverse comunità ebraiche olandesi solo alla fine del 1940
avevano
dato vita a un
comitato
di coordinamento,
capeggiato da Lodewijk Ernts Visser, già presidente della corte suprema olandese, dimesso dalle sue funzioni. Qualche mese più tardi l'’amministrazione tedesca impose, come era già avvenuto per altre città dell'Europa occupata, la creazione di un Consiglio ebraico per Amsterdam, il Joodsche Raad, con l’incar-
ico ufficiale di stabilire chi era idoneo ai campi di lavoro e chi era necessario in patria. La vera funzione in realtà era di smor-
zare con l'inganno i sospetti delle vittime. Il Consiglio era presieduto da Asscher, capo degli ebrei askhenaziti, e dal sionista David Cohen, cui facevano capo gli affari correnti. Diversamente dal primo, questi tendeva ad approfittare per i propri
interessi della carica ricoperta, esigendo poi dalla comunità ebraica l'esecuzione di tutte le richieste tedesche. Nell'autunno 26
del 1941, la competenza del Consiglio ebraico di Amsterdam fu estesa dai tedeschi su tutto il paese, mentre il comitato di coordinamento venne sciolto perché ritenuto inutile. Gli ebrei che appoggiavano il Consiglio speravano in tal modo di poter evitare il peggio. Esso servì anche per discriminare tra gli ebrei stessi, favorendo i più illustri e i più ricchi, con “privilegi” che si rivelarono spesso un'illusione, e abbandonando tutti gli altri al loro destino. L'unica eccezione fu fatta per una piccola elite di intellettuali, artisti e banchieri che, grazie ad alcuni alti funzionari olandesi, si fecero inviare al castello De Schaffelaar, nella cittadi-
na di Barneveld. Essi furono poi trasferiti a Theresienstadt via Westerbork e quasi tutti sopravvissero. Mischa Hillesum, pianista già famoso, sarebbe rientrato nel gruppo, ma rifiutò perché non gli fu accordato il permesso anche per i suoi genitori.
Robusto ingranaggio di un perfido meccanismo di controllo, il Consiglio ebraico era formato da venti ebrei di elevata condizione sociale, coadiuvati da varie centinaia di impiegati. Su pressione degli amici e incoraggiata dal fratello Jaap, poiché i suoi membri parevano godere di particolari protezioni, il 7 gennaio 1942 Etty si presentò al Consiglio ebraico di Amsterdam per chiedere un impiego, che ottenne il 15 luglio come dattilografa. Lo stesso giorno partivano dal campo i primi deportati. Fino agli inizi dell’agosto 1942 gli ebrei sembrarono credere nel mito del “trasferimento” a Est, ma alla fine di ago-
sto era già crollato: nessuno tornava, nessuno scriveva, giunge-
va solo l’urlo di uno straziante silenzio.
Etty al Consiglio ebraico
Etty lavorò solo quattordici giorni presso l'Ufficio per gli affari culturali, descrivendolo come un «inferno». Il suo giudizio sui colleghi fu durissimo. Li trovò «ottusi e impermeabili di fronte alla tragicità estrema delle vicende che si consumano sotto i loro occhi, incapaci di soffrire neppure in profondità. Odiano 2h
e sono ciecamente ottimisti se si tratta della loro piccola persona, e sono ancora ambiziosi per il loro piccolo impiego; è una
gran porcheria». A fine luglio, nel corso della prima grande retata, si offrì spontaneamente per Westerbork. Assegnata alla Registratur, l’ufficio di registrazione degli arrivi, lavorò in qualità di assistente sociale, a servizio degli ebrei prigionieri presso l'ospedale, dall'agosto 1942 al settembre 1943. In questo lasso di tempo tornò una dozzina di volte ad Amsterdam, grazie a uno speciale permesso di viaggio del Consiglio ebraico. La prima fu il 5 settembre 1942, dopo cinque settimane trascorse nel campo e una breve visita ai genitori a Deventer. Rimase ad Amsterdam circa tre mesi, per lo più ammalata e con un’acuta no-
stalgia di Westerbork, dove fece ritorno il 20 novembre. Per un attacco di calcolosi biliare, dovette lasciare il campo per farsi ricoverare all’ospedale olandese-israelitico di Amsterdam. I primi di giugno 1943 rientrò a Westerbork, che lasciò solo quando fu deportata ad Auschwitz. Etty percepì con chiarezza che il Consiglio ebraico era un luogo ambiguo e un organo-tampone, contro il quale saliva l'ostilità dell'opinione pubblica ebraica, e che la sorte sarebbe stata uguale per tutti. Immersa in un mondo lontanissimo dal suo modo di concepire la vita, non si arrese al negativo: «Qui molti sentono languire il proprio amore per l'umanità perché questo amore non è nutrito dall’esterno. Dicono che la gente di Westerbork non ti offre molte occasioni di amarla. Ma ho do-
vuto ripetutamente constatare in me stessa che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita. Il prossimo in sé ha ben
poco a che farci. Maria’ cara, qui di amore non ce n'è molto, ’ Maria Tuinzing, l'amica e destinataria di molte lettere cui affiderà, nel giugno 1943, i quaderni del suo Diario con l'impegno di consegnarli, qualora fosse morta e a guerra finita, allo scrittore Klaas Smelik e alla figlia Johanna, per un'eventuale pubblicazione.
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eppure mi sento indicibilmente ricca, non saprei spiegarlo a nessuno». Così ancora sentiva e scriveva all’amica dal fondo dell’abisso, l'8 agosto 1943. Furono novantatré i convogli ferroviari partiti tra il 15 luglio 1942 e il 15 settembre 1944. Tutti gli ebrei che nei mesi precedenti erano stati concentrati nei tre quartieri del ghetto di Amsterdam giunsero a Westerbork, la maggior parte rastrellata per le strade o sradicata a forza dalle case. Tanti vi furono rinchiusi dopo essere passati per la prigione o altri lager, come Vught, Amerfoort, Ommen o Ellecom. Il campo è l’oggetto quasi esclusivo del suo epistolario. Etty via via scrive agli amici che restano: a loro sono indirizzate quasi tutte le lettere da Westerbork. «Personalità luminosa» per definizione dei sopravvissuti, era capace di calamitare amici e di farne una comunità solidale. Ne danno testimonianza le lettere a Osias Kormann, Hedwig e Josef Mahler, a Joseph Isidoor Vleeschouwer, Werner Stertzenbach, Philip Mechani-
cus, giornalista e autore di In depòt, un diario che divenne famoso nel dopoguerra, e anche antichi amici di Amsterdam, come Werner e Lies] Levie. Poco dopo il suo arrivo, giunsero al campo anche i genitori con Mischa, il fratello pianista, mentre Jaap, medico, ebbe il permesso di trattenersi ad Amsterdam ancora per un certo periodo. Gli amici fecero di tutto per convincere Etty a nascondersi, simularono perfino un rapimento. Quando fu proibito lasciare il campo, si offersero di coprirle la fuga. Rifiutò ogni proposta e portò a maturazione il proposito di assumere fino in fondo il destino del suo popolo. È nel girone infernale del campo che Etty, dopo il primo mese di prigionia, scrisse la parte conclusiva del Diario. Le Lettere invece coprono il periodo che va dall'agosto 1942 al 7 settembre 1943, quando salì con i genitori e il fratello Mischa sul treno per Auschwitz. Prima di lasciare il territorio olandese riuscì a gettare dal vagone una cartolina che alcuni contadini 29
raccolsero e spedirono. Era un breve messaggio indirizzato a Christine Van Nooten. Sapeva che Polonia era sinonimo di morte, anche se ignorava quale. Ma rassicurava l’amica, dal fondo di un cuore trasfigurato: «Abbiamo lasciato il campo cantando».
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Il
Il Diario: capolavoro letterario e testamento
Ha ventisette anni quando, la domenica 9 marzo
1941, seduta
alla scrivania della sua cameretta che dà sulla Museumplein di Amsterdam — la piazza principale della città, con la sala dei concerti da un lato, il Rijksmuseum dall’altro e al centro, nella
stagione invernale, una pista di pattinaggio — comincia a scrivere il Diario!; nelle ore più tenebrose della storia moderna,
concepisce e dà alla luce una testimonianza di amore e di fede che costituisce una delle opere più alte del nostro tempo. Le ultime parole vergate sono: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». Nel tempo della vita offesa, tra la piena dell’orrore per l'occupazione tedesca e il progetto di sterminio degli ebrei, cerca di far crescere in sé e di animare nei suoi amici la barriera nascosta di una indistruttibile resistenza interiore, là
dove, nel segreto dell’intimità più intima, nessuna intimidazione può entrare. Giovane donna molto insicura, affettivamente instabile e
soggetta a profonde depressioni, Etty decide di sottoporsi alla terapia analitica e, per questo, va da Julius Spier. L'importanza decisiva dell'incontro con lui appare fin dalla prima pagina: «Devo affidare il mio animo represso a uno stupido foglio di carta a righe». E tenta di decodificare pensieri che le paiono tersi a livello cerebrale e sentimenti profondi che non riesce a tradurre in parole. Attribuisce questa impossibilità più che altro a vergogna, all’incapacità di lasciarsi andare e avverte di do® Tutte le citazioni sono tratte dall’edizione Adelphi del 1985.
DI
ver fare chiarezza senza indugi. Sui problemi esistenziali può spesso apparire una persona «superiore»: ma, nel profondo di se stessa, si sente «prigioniera di un gomitolo aggrovigliato» e, a volte, «un povero diavolo impaurito». Spier è così strettamente entrato nella trama del suo quotidiano che lo pensa e ripensa, impressionata dal suo lavoro, «l’analisi dei conflitti profondi attraverso la lettura del secondo volto: le mani». Sa che è difficile penetrare con le parole fin nel fondo delle cose, ma quella mattina le pare per un istante di impadronirsi di lui, «i suoi occhi limpidi e puri, la grossa bocca sensuale, la statura massiccia quasi taurina,
i movimenti liberi e leggeri
come piuma», e del «conflitto tra corpo e anima, che in questuomo di cinquantaquattro anni è ancora vivissimo».
Alla visita successiva lo abborda senza diplomazia, dicendogli che può spendere solo 20 fiorini. Ne ha per risposta che può frequentare le sedute per due mesi e che anche dopo non sarà piantata in asso. Ed eccola aprirsi, per curare la sua costipazione spirituale, con la richiesta che sia curato il suo caos interiore. C'è tenerezza e abbandono nelle parole che Etty affida al Diario commentando quell’inizio di un’avventura così ricca di trasformazioni. «Per tutta la vita ho desiderato che qualcuno mi prendesse la mano e si occupasse di me — magari sembro una persona coraggiosa che fa tutto da sé, e invece mi abbandonerei così volentieri alle cure di un altro». Percepisce nitido il rischio che si crei una dipendenza, ma d’altra parte sa che esso Va corso, per un superamento atteso.
L'affascinante psicochirologo Il 14 marzo 1941, in piena bestemmia nazista, ripercorre insieme a Spier le note che egli le aveva precedentemente dato. Quando arriva alla frase: «Basta che esista una sola persona degna di esser chiamata tale per poter credere negli uomini, nell'umanità», le viene spontaneo buttargli le braccia al collo per57:
ché «è un problema attuale: il grande odio per i tedeschi ci avvelena l'animo». Etty si accorge che, in modo improvviso, da qualche settimana è germogliato in lei un pensiero liberatore: «Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest'unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero». Sullo stesso tema Sandro Pertini ricordava le parole dettegli da Leone Ginzburg, sanguinante per le torture dell’interrogatorio nel braccio del carcere romano di Regina Coeli controllato da forze germaniche: «Non bisognerà in avvenire avere odio per i tedeschi». È apparentemente strano che possano convivere nell'animo della stessa persona sentimenti, ricerche e pulsioni così contrastanti. Eppure la realtà del composto umano le vede convivere con naturalezza e fors'anche con frequenza. «Il mondo rotola melodiosamente dalla mano di Dio», annota una sera, ricono-
scendo di essere stata accompagnata per tutta la giornata da queste parole di Verwey. E aggiunge : «Anch'io vorrei rotolare melodiosamente dalla mano di Dio». Il Dio cui al momento Etty rinvia non appare il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e ancor meno il Dio di Gesù Cristo. È un Dio senza nome e
purtuttavia un Essere presente, cui parlare, dal quale ascoltare nelle profondità abissali del silenzio una risonanza per le drammatiche vicende dell’oggi. È un presentissimo Essere d’amore, che svela l’incongruenza delle discriminazioni, che ri-
vela quell’odio indifferenziato come la cosa peggiore che ci sia, anzi, «una malattia dell'anima».
Nel marzo 1941, quando si analizza con somma profondità nelle pagine del Diario, pare immersa in un mondo positivo e tranquillo, che le permette di scrivere di sé come se tutto attorno fosse in pace. Commenta le brevi passeggiate divenute abituali, i ritmi del lavoro, gli incontri significativi. Parla di Spier, dell’irresistibile attrazione che prova per lui, della capacità di da
non distrarsi più al suo pensiero, perché ora «il suo volto è diventato come un paesaggio amato e familiare». Prima le capitava di provare sempre un doloroso, insaziabile desiderio, un
senso di nostalgia per qualcosa di irraggiungibile. Su queste forti emozioni fondava la convinzione di essere nata per fare l’artista. Improvvisamente percepisce che non è più così, anche se non sa spiegare per quale processo interiore. Allora avvertiva un insop-
primibile impulso a scrivere poesie, mentre le parole opportune parevano sfuggirle. Si sentiva per questo profondamente infelice. Ora, una sera, passeggiando, si sente libera di godere intensamente di quel paesaggio quieto e misterioso del crepuscolo, senza la brama di possederlo: le basta contemplarlo. Ora che non voglio più possedere nulla, possiedo tutto
Cambia atteggiamento, con Spier e con tutti. Dall’ansia di possedere passa a lasciarsi toccare nel profondo dalla presenza delle persone più vicine. Poco tempo prima, un pomeriggio era rimasta seduta a fissare a lungo, rigida e incapace di aprir bocca, l'amico psicochirologo. Egli le aveva raccontato varie sue traversie: della moglie da cui era separato ma con la quale era rimasto in corrispondenza, dell'amica che avrebbe voluto sposare ma che abitava a Londra, e poi di un’altra amante che aveva avuto un tempo, una bellissima cantante con cui era rimasto in contatto epistolare. E più tardi, mentre durante la terapia facevano, come altre volte, la lotta, aveva sentito «la suggestio-
ne del seduta to una saggio
suo grosso corpo attraente». Subito dopo, quando si era di nuovo di fronte a lui ed era ammutolita, aveva provasensazione analoga a quella vissuta di fronte a un paestupendo: avrebbe desiderato possederlo, avrebbe volu-
to che Spier fosse anche suo. Per questo motivo provava odio o
gelosia per tutte le donne di cui le aveva accennato. Scrivendo si rende conto che «erano sentimenti piuttosto meschini» e però in quel momento
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si percepiva «infelicissima e sola»,
avrebbe voluto isolarsi e scrivere, che è poi «un altro modo di
“possedere”, di attirare a sé con parole e immagini». Avverte che si sono come spezzate delle catene, si sente carica di nuove
energie, capace di volgere intorno uno sguardo lieto. Un paesaggio inedito si apre per lei: «E ora che non voglio più possedere nulla e che sono libera, ora possiedo tutto». C'è nel Diario una commovente espressione di sentimenti contrastanti. Non vuole avere una relazione con lui, anche se
si accorge di andare in quella direzione. «Ma non voglio», si dice, «sua moglie’ è a Londra e l’aspetta». Si prefigge di avere un uomo per tutta la vita e di costruire qualcosa con lui. Tra-
scorrono pochi giorni ed ecco: «Nella mia fantasia avevo già deciso che sarebbe stato il mio uomo e che lo volevo conoscere come amante, punto e basta». Tutte le relazioni finora coltivate l'hanno resa «terribilmente infelice», anzi, l’hanno «straziata».
Ammette che è anche sua responsabilità, perché la curiosità aveva sempre avuto il sopravvento: «Ma ora che le mie forze interiori hanno potuto organizzarsi, esse hanno anche comin-
ciato a lottare contro il mio desiderio di avventure e contro la mia curiosità erotica, che s'interessa a molti uomini». È il ve-
nerdì 21 marzo 1941. Si avverte «così leggera e raggiante e contenta». Sente di essersi guadagnata la gioia interiore in cui si sente immersa, dopo aver lottato contro l’irrequietezza del cuore che batteva all'impazzata, adottando una tecnica personalissima: lavarsi in acqua gelida dalla testa ai piedi e rimanere sdraiata sul pavimento del bagno finché la calma non si impadronisce di lei.
Come botti vuote in cui si sciacqua la storia Un accenno a ciò che avviene nel suo paese, e fuori di esso, ai
molti che sono «in campo di concentramento» appare il 25
2 Hertha Levie.
[O
ca)
marzo. Descrive quello che si sarebbe rivelato l’ultimo incontro con un suo burbero insegnante, il professor Willem Adriaan Bonger, noto sociologo e criminologo di cui aveva se-
guito per un anno le lezioni e con il quale aveva sostenuto due esami. Una figura pesante, goffa, se ne andava lungo l’'Tjsclub, mentre mancavano poche ore alla capitolazione, guardando le nuvole che da lontano sovrastavano la città, provenienti dal porto delle petroliere dato alle fiamme. Egli non l’aveva riconosciuta, però aveva continuato con naturalezza a camminarle accanto. Era il pomeriggio in cui tutti cercavano di fuggire in
Inghilterra. Il «feroce Bonger» si rivelava «indifeso come un bambino». Aveva sentito il bisogno irresistibile di mettergli un braccio intorno alla vita e di guidarlo: così avevano camminato lungo il Club. Verso le diciannove allo Jan Willem Browersplein egli l'aveva salutata dicendole «quasi con comica solennità: mi ha fatto piacere!». Dovevano rivelarsi le ultime parole. La sera dopo apprende che alle venti si era suicidato sparandosi alla testa. Commenta: «Bonger non è l’unico. È tutto un mondo che va in pezzi». Tutti si sentono impoveriti, ma Etty può dire: «Mi sento ancora così ricca, che questo vuoto non m'è entrato veramente dentro». Per due mesi non scrive nulla. «La vita dentro di me era così limpida e serena e intensa, ero in contatto col mondo esterno come con quello interno, la mia vita si arricchiva, la mia personalità si ampliava». Gli avvenimenti che coinvolgono e sconvolgono l'Olanda entrano nel Diario con un secondo accenno sabato 14 giugno: «Di nuovo arresti, terrore, campi di concentramento, sequestri
di padri, sorelle e fratelli». Tutto le pare minaccioso e sinistro,
l'angoscia che attanaglia molti afferra anche lei. Forse, riflette a parola scritta, ogni parabola vitale ha il proprio senso, «forse ci vuole una vita intera per riuscire a trovarlo». Si percepisce in
balia di eventi incontrollati e incontrollabili: «Comunque, io ho smarrito qualsiasi rapporto con la vita e con le cose, mi 36
sembra che tutto avvenga per caso e che ci si debba staccare interiormente da ogni cosa». Delusione e amarezza sono al colmo: «Non siamo nient'altro che botti vuote in cui si sciacqua la storia del mondo». Ha la sensazione di sfasciarsi sotto un peso enorme, prova il bisogno di un aiuto per non soccombere: «O tutto è casuale o niente lo è», e se pensasse vera la prima affermazione
non potrebbe continuare
a vivere, ma, scrive, non è
ancora convinta della seconda. Vive in lei un altro breve quanto violento scontro, da cui esce «con un pezzetto di maturità in
più», che le viene dall’avere provato a guardare in faccia il «dolore dell'Umanità», coraggiosamente e onestamente, e «molti interrogativi disperati hanno trovato risposta», anche se non precisa quale. Si sorprende dei suoi stessi «paroloni», e pensa di ridimensionarsi: «Mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno alcuni problemi del nostro tempo», e l’unica cosa che le pare utile e possibile è proprio questo «offrirsi umilmente» come terreno perché «questi problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte», in cui possano esprimersi e placarsi. Ella si concede senza riserve, per finire talvolta «come un campo di battaglia insanguinato», che paga con un gran sfinimento e un forte mal di testa. Avverte l'urgenza di poter recuperare confini più stretti e protettivi, per continuare dentro di essi la dimensione feriale dell’esistenza. Desidera, in futuro, esprimersi con maggiore originalità, o, immagina, farà dire ciò che ora forma la trama dei suoi giorni a un personaggio di una novella o di un romanzo, «ma sarà solo fra molto tempo». Un tempo che le sarà impedito. Devo trovare io stessa la mia forma
È come immergersi nella freschissima sorgente d'una saggezza antica: «Chi riposa in se stesso non tiene conto del tempo; una
vera maturazione non tiene conto del tempo». Da un periodo 37
di irrequietezza, inaspettatamente sgorga da lei un’invocazione: «Mio Dio, prendimi nella tua grande mano e fammi tuo strumento, fa’ che io possa scrivere». Pensa alle ricchezze dell’interiorità, ai suoi amici Leonie e Joop, cui Spier con la sua
analisi ha aperto il cuore. Proprio questo la convince che non si può spiegare l’essere umano con nessuna formula psicologica, «solo l'artista è in grado di rendere ciò che resta d’irrazionale nell'uomo». Nel magma incandescente che la abita, avverte anche caos e poca fiducia in se stessa, e però sente che a suo
tempo sotto la penna «tutto verrà fuori spontaneamente e troverà una forma: prima, però, devo trovare io stessa una forma, la mia forma». La sua introspezione psicologica prosegue riandando al passato, a quand’era a Deventer, la cittadina dell'Olanda orientale dove vivevano i suoi genitori. Là le sue giornate si dipanavano «come grandi pianure illuminate dal sole, ogni giornata era un tutto ininterrotto», in cui si sentiva «in
contatto con Dio e con tutti gli uomini». Conclude argutamente e con un pizzico d’'ironia: «Probabilmente perché non vedevo quasi nessuno». Ricorda la natura lussureggiante, i campi di
grano in cui avrebbe avuto voglia di inginocchiarsi, l’Ijssel immerso in uno splendido scenario, con i parasole colorati, il tetto coperto di canne, i cavalli pazienti. E poi un sole smagliante, che assorbiva da tutti i pori. Il contrasto è durissimo: «Qui, invece, le giornate sono fatte di mille pezzetti, la grande pianura è sparita e così pure Dio». E si rivolge a se stessa: «Non ci
siamo proprio, mia cara, devi strappare ancora molto terreno alle onde arrabbiate, devi mettere ordine nel caos», ma quasi si
incoraggia benevolmente. Il suo filosofare si appoggia alle parole dell’amico psicochirologo, per il quale «l’amore per tutti gli uomini è superiore all’amore per un solo uomo: perché l’amore per il singolo è una forma di amore di sé». È serena di questo suo giudizio, poiché Spier — scrive quel 4 agosto 1941 — «è un uomo maturo di 55 38
anni, che ha raggiunto questo stadio di amore dopo aver amato molte persone singole»; di fronte c'è lei, «una donnetta di 27 anni», che porta dentro anch’essa un grande amore per tutta l'umanità. Ciò non le impedisce di domandarsi se non continuerà a cercarsi il suo «unico uomo» e se non sia anche questo un retaggio dei secoli, «da cui la donna si debba affrancare, oppure di una qualità talmente essenziale che una donna farebbe violenza a se stessa se desse il proprio amore a tutta l'umanità invece che a un unico uomo». Stupisce pensare al momento storico in cui vive e ai pensieri
che ininterrottamente e turbinosamente la abitano. Anche sulla «questione femminile». È nel corpo a corpo con Spier che Etty percepisce e riconosce il limite della sua libertà femminile. Quella che cercava all'estremo di raggiungere, paradossalmente, nella duplice relazione contemporanea, con lo psicochirologo e con Wegerif. A volte per strada, quando incontra una donna bella e ben curata, «assolutamente femminile e magari un po’ stupida» è capace di «perdere la testa». Ed è battaglia furiosa in lei: «Allora il mio cervello, le mie lotte e sofferenze mi
diventano un peso, li sento come qualcosa di brutto e di non femminile e vorrei essere solo bella e stupida, una specie di giocattolo desiderato da un uomo». Ma appena un passo oltre giudica il suo atteggiamento una «cosa quanto mai primitiva». Dobbiamo ancora nascere come persone Sente che si tratta di una questione infinitamente complicata, di cui è altrettanto importante venire a capo. Non si sbagliava
nel pensare che «forse la vera, la sostanziale emancipazione femminile deve ancora cominciare», perché «non siamo ancora diventate vere persone, siamo donnicciole» emarginate e costrette da tradizioni secolari. «Dobbiamo ancora nascere come persone, la donna ha questo grande compito davanti a sé». 39
È la terza volta nello stesso giorno che mette mano al diario. Sono le 23 di un imprecisato mercoledì nel cuore dell’agosto 1941. Sola con se stessa ripensa alla lettera di Spier ricevuta alle sei del pomeriggio, quand’era appena tornata da Gorssel fradicia di pioggia. «Comincio a credere che stia diventando un'amicizia importante», un legame nel senso più profondo del termine. Eppure alla prima lettura non aveva «sentito nessun contatto con le sue parole». Forse era dovuto solo al fatto che era «stanca morta, fisicamente e spiritualmente» e non sa-
peva bene che farsene in quel momento di un pezzo di carta. Quando, raggomitolata sul letto, prende a studiare con attenzione quella nota calligrafia, comprende quanto grande è, e più ancora sarà il suo peso e significato nella lievitazione ulteriore del suo spirito. Contemporaneamente si prefigge di non consi-
derare Spier «come un fine, ma come un mezzo per continuare a crescere e maturare», senza cercare di possederlo, tentazione di ogni innamorato. Riflette e s'interroga a partire dalla sua esperienza: «E vero che la donna cerca la concretezza del corpo e non l’astrattezza dello spirito. Per la donna il centro di gravità è l’uomo singolo, per l'uomo è il mondo: chissà se la donna è in grado di spostare questo centro senza violare se stessa, senza far violenza alla propria natura?». Riflessioni color raffreddore
Ora le pare di aver scoperto il suo compito: «Chiarire nella mia testa, e col tempo descrivere, tutto ciò che accade intorno a me», mentre si riconosce portatrice di «ricca testa e ricco cuore», messi a dura prova dal fatto che «qui è un inferno» e, «per
rappresentarlo, dovrei saper scrivere già molto bene». Ma l'umile consapevolezza di provenire «da questo caos» la fa sentire in dovere di portarsi più in alto. È quello che Spier chiama «costruire con nobile materiale». E indaga senza posa: «È in te che le cose devono venire in chiaro, non sei tu che devi perder40
ti nelle cose», evitando di affondare in futilità. Anche se, con il
carattere che si ritrova, «un’oggettività flemmatica e gelida è naturalmente impossibile». Etty ha una singolare capacità di introspezione. La sera del 23 agosto 1942, preda di un portentoso raffreddore, vede tutto nero. Dice a se stessa che è esagerata. Ricorda la piacevolissima sensazione provata al ritorno da Arnhem, il giovedì sera appena trascorso, con la notte che cresceva «quieta, ampia e maestosa» dietro i finestrini di un piccolo treno affollato di operai animati e briosi. Seduta in un angolo in penombra si godeva con un occhio la natura quieta che scorreva oltre i vetri e con
l’altro i volti espressivi e i gesti pittoreschi dei viaggiatori. Poi un lungo tratto a piedi dalla Amstelstation per la città quasi buia e come incantata. Completamente e dolcemente immersa in se stessa, d’un tratto aveva provato la strana percezione di essere come composta da due persone, «che si stringessero affettuosamente
e che stessero bene così, al caldo». Anche il
giorno dopo, mentre andava alla ricerca di un formaggio per conto di Spier, attraversando la suggestiva zona di Amsterdam Sud, si sentiva «come un vecchio ebreo avvolto in una nuvo-
la». Era la nuvola dei suoi pensieri e sentimenti ad avvolgerla e accompagnarla; in essa stava «ben calda, protetta e sicura». Ora per un meschino raffreddore di testa non sente altro che «svogliatezza e malessere e antipatia». Se ne dispiace e trova strano che tutto questo possa essere determinato da un semplice naso chiuso. Proprio quella sera dovrebbe tornare Hans, e la prospettiva la secca moltissimo. Perché, quando l’afferra questo sentimento di ripulsa nei confronti delle persone, il primo a farne le spese è proprio lui, che vive nelle sue immediate vicinanze. Ha coscienza di doversi educare a un maggiore autocontrollo e anche di dover riposare un po’ di più. Il suo sguardo alle radici del cuore si fa sempre più acuto. «Dentro di me c'è una sorgente molto A
profonda. E in quella sorgente c'è Dio». A volte riesce a raggiungerla, «più sovente è coperta di pietre e di sabbia: allora Dio è sepolto». Che fare? «Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo». Un anelito di semplicità abita il suo animo, mentre si contorce impercettibilmente negli spasmi della crescita. Si sente come uno che si sta rimettendo da una grave malattia. Le sembra di conoscersi abbastanza e di aver trovato la sua cura: accoccolarsi in un angolino e auscultare le germinazioni del cuore, ben raccolta in se stessa. L’intellettuale scopre che la ragione è impotente di fronte al mistero: «Pensare è una bella, una superba occupazione
quando
studi, ma
non
puoi “pensarti
fuori” da uno stato d’animo penoso. Allora devi fare altro, farti passiva e ascoltare, riprender contatto con un frammento d’eternità», per attingere a una fonte nascosta riflessi di Cielo, al cui calore far crescere una sempre più tenera e matura umanità.
Spier occupa pagine e pagine del diario, e un ampio spazio nel cuore. Egli «è il motore di moltissime donne», scrive. Una di esse; Henny Tideman, lo definisce in una sua lettera «la mia Mercedes, la mia grande, cara, buona Mercedes». «La sua voce
semplicemente cantava», mentre rispondeva al telefono alla diciottenne Rièt. Questo «intanto che con la destra mi accarezza-
va il viso, e sul tavolino c’era la lettera della ragazza che vuol sposare con le parole: Jul mio caro, io continuavo a guardarle». La sua stima per lo psicochirologo è grandissima: «Non ho mai incontrato una persona così ricca di amore, forza e incrollabile
fiducia in se stessa, come Spier». L’avidità di conoscere tutto della vita
L'ostinato indagare i meandri del suo intimo le regala mal di stomaco, senso di oppressione e un nodo dentro, con la sensazione di essere schiacciata da un grosso peso. Lo ritiene il prezzo da pagare ogni tanto per la sua «avidità di conoscere tutto 42,
della vita, e di penetrare dappertutto». Dal test di Taco Kuiper è emersa una persona che pretende di afferrare ogni cosa della vita e che sa poi integrarla. «Sarà così, sarà che gli ingorghi interiori fanno parte di questi processi: ma devono pur essere ri-
dotti al minimo, altrimenti la mia vita diventa impossibile». Tanto pesante che una sera, rincasando in bicicletta «così indicibilmente triste e col cuore di piombo», mentre si sentiva passare gli aeroplani sulla testa, ha provato «un senso di liberazione» al pensiero che una bomba avrebbe potuto metter fine alla sua vita. «Ultimamente — annota il 9 settembre 1941 — mi capita spesso di trovare che non vivere è più facile di vivere». Come un chiodo fisso, o un amore travolgente, il pensiero di Spier non l’abbandona. «Eh sì, noi donne, noi stupide, idiote, illogiche donne, noi cerchiamo il Paradiso e l'Assoluto. E col mio cervello, col mio eccellente cervello, io so bene che
| l'assoluto non esiste, che ogni cosa è relativa e infinitamente sfumata e in perpetuo movimento, e proprio per questo è così interessante e seducente ma anche così dolorosa». Si ribella al pensiero che «noi donne vogliamo eternarci nell'uomo». Anche lei vorrebbe che lui le dicesse: «Tesoro, tu sei l’unica per me e ti amerò in eterno. Ma questa è una favola». Sentimenti contraddittori si agitano in lei. Infatti fintanto che non glielo sussurra, «tutto il resto non ha senso e non esiste. E il buffo è
che non lo voglio affatto — non vorrei aver Spier come eterno e unico uomo — però pretendo il contrario da lui». Una sera le aveva detto tra l’altro: «Credo che per te sia un “primo passo” verso un amore veramente grande». E come riflettendo tra sé e
sé si era detto sorpreso di essere stato «un “primo passo” per
molte persone».
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Il Tra contraddizione e mistero
Diagnostica la sua «malattia»: «Pretendi di rinchiudere la vita nelle tue formule, di abbracciare tutti i fenomeni della vita con la tua mente, invece di lasciarti abbracciare dalla vita». Ha vo-
glia di occhieggiare in cielo, ma non le viene di «cacciare il cielo» nella sua testa. Si attribuisce un «atteggiamento alquanto dispotico» perché vorrebbe ogni volta «rifare il mondo, invece di goderlo com'è». Il domani chiarirà il suo futuro. Un giorno chiede a bruciapelo a Tide' se non si è sposata per scelta. Ha per risposta che Dio non le ha mai mandato un uomo. Che dire di se stessa? «Per vivere in armonia con le mie sorgenti più profonde, probabilmente non dovrei sposarmi». In ogni caso pensa che non si debba rompere il capo per questo. «Se ascolto onestamente la voce che mi porto dentro, a un certo punto saprò se un uomo mi è stato mandato da Dio, oppure no».
Ho ventisette anni e mi sento già vecchia Una sera, a letto, chiede ad Han se crede che una persona come
lei dovrebbe sposarsi. Si domanda se è una vera donna, perché ritiene che, a dispetto delle apparenze, il sesso non sia così importante per lei. Le sembra di non essere «il prototipo della donna» e che sia un modo di ingannare gli uomini lasciare che si avvicinino attratti da un'impressione che poi sarà insoddi' Henny Tideman, un’amica molto cara di Etty, che apparteneva alla cerchia di Spier.
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sfatta. «Non sono più una vera “femmina” e a volte ne provo un senso di inferiorità», scrive rammaricandosi. «Quel che ho
di veramente fisico è per molti versi incrinato e indebolito da un processo di spiritualizzazione». «E — commenta — quasi me
ne vergogno, a volte». Poi si inoltra nel suo labirinto interiore: «Le cose in me veramente primordiali sono i sentimenti uma-
ni, una sorta di amore e di compassione elementari che provo per le persone, per tutte le persone». Conclude: «Non credo di essere adatta ad un uomo solo. A volte mi sembra un amore quasi un po’ infantile. Non potrei essergli fedele, non per via di altri uomini, ma perché io stessa sono composta da tante persone diverse». E spiega: «Ho ventisette anni e mi sembra di aver già amato, o di essere già stata amata abbastanza. Mi sento già molto vecchia. Probabilmente non è un caso che l’uomo con cui convivo già da cinque anni abbia una età tale da rendere impossibile un futuro in comune, e che il mio miglior amico° conti di sposarsi con una ragazza che ora è a Londra». In quel fine ottobre 1941, si guarda dentro come non mai. E volgendo lo sguardo attorno nota sazietà e impigrimento, che porta ad attaccarsi «sempre più fortemente a questa solida terra». In se stessa scopre «una tendenza all’ascesi, alla lotta contro fame e sete, freddo e caldo». Teoria o realtà? «Non so che romanticismo sia questo», dice sinceramente, perché «non
appena comincia a fare un po’ freddo, vorrei solo infilarmi nel letto e non uscirne più». Intanto legge, divorando volumi con avidità, mentre fatica a «orientarsi» nelle cose più minute e nel dare un’intelaiatura alla sua giornata. Poiché se si alza come un qualunque cittadino, è «fiera di aver operato chissà quale miracolo». Da inconsapevole artista della parola scritta, affida al Diario: «Dentro di me c'è una melodia che a volte vorrebbe tanto essere tradotta in parole sue». Ma per sua «repressione» e mancanza di fiducia, «rimane soffocata e nascosta». Di più, a ? Julius Spier.
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volte essa la svuota completamente e poi la «colma di nuovo di una musica dolce e malinconica». Distilla essenze di parole, profumate da pensieri di freschezza sorgiva: «A volte vorrei rifugiarmi con tutto quel che ho dentro in un paio di parole. Ma non esistono ancora parole che mi vogliano ospitare. È proprio così». Si sente sicura: «Io sto cercando un tetto che mi ripari, ma dovrò costruirmi una casa, pietra su pietra. E così ognuno cerca una casa, un rifugio
per sé. E io cerco sempre un paio di parole». Poi torna a guardarsi vicino e attorno, dove c'è un letto da rifare e tazzine da
portare in cucina. Quindi «fa’ ciò che la tua mano e il tuo spirito si trovano a fare, tuffati in ogni ora e non metterti subito a ruminare coi tuoi pensieri, le tue parole e le tue preoccupazioni sulle ore successive».
Perché, annota
il 21 ottobre, dopo
pranzo: «La nascita di un’autentica autonomia interiore è un
lungo doloroso processo». Esso «è la presa di coscienza che per te non esiste alcun aiuto o appoggio o rifugio presso gli
altri, mai». È rendersi conto che «gli altri sono altrettanto insicuri, deboli e indifesi» e che «sei sempre e da capo rimandata a te stessa» poiché il resto è finzione. Ammette la difficoltà di doverlo riconoscere, soprattutto in quanto donna, dal momento che conserva pur sempre un grande desiderio di perdersi in un altro. Ma anche questa è una bella favola, perché «due vite non possono combaciare», perlomeno non per il suo modo di vedere. Può succedere in alcuni momenti, ma, si domanda, sono sufficienti per giustificare e tenere insieme una vita in comune? «Però è un sentimento forte anche quello, talora felice», ragiona. «Sola, Dio mio. È dura.
Perché il mondo è inospitale».
Autunno 1941: quando vorrebbe espandersi in una parola Vorrebbe espandersi «tutta in una parola, in parole colorate e estese». Si sente attratta ora da un «voler ritornare al buio, al
ne pe
di
grembo materno, al “collettivo”», ora dal desiderio di diventare autonoma. La sera del 24 ottobre 1941 una nuova ordinanza colpisce gli ebrei: è la seconda notizia negativa di quel giorno, insieme a un’altra più familiare. Si concede mezz'ora di depressione. Un tempo si sarebbe consolata rifugiandosi nella lettura
di un romanzo e dimenticando il suo lavoro. Quasi sì congratula con se stessa perché da due giorni lavora senza lasciarsi sopraffare dai suoi umori, dicendosi: «Brava ragazza!». Inoltre fa suo il detto: «Che uno trascorra la vita ridendo o piangendo, è sempre una vita».
È giovedì 10 novembre 1941. Qualcosa sembra crollare in lei: «Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa. Repulsione. Paura». Sul Diario scendono dieci giorni di silenzio. In essi evidentemente ha superato da sé lo sconforto. Quando riprende la penna è tornata la calma e ha ripreso vigore, si sente carica di istinto creativo tanto che potrebbe scrivere una novella, con un titolo quasi pronto: La ragazza che non voleva inginocchiarsi. Dentro preme un pungolo e incalza una domanda, anzi, «la domanda»: «Mentre sono piena di problemi di etica, di verità, e persino di Dio, ecco che spunta fuori un “problema col cibo”». Anche se già meno spesso di un tempo, nota che esagera nell’alimentazione, come afferrata da un’avidità contro cui non c’è ragionamento che tenga e «questo voler incamerare un’enorme quantità di cose, ogni tanto culmina in una pesante indigestione». Tenta di capire e di spiegare: forse esiste una relazione tra l’insaziabilità e sua madre, perché «parla sempre di cibo, per lei non esiste altro». La rivede come in flash back a una festa di casalinghe nella piccola sala del teatro di Deventer. Etty, seduta sulla balconata, la osservava dall'alto, mentre nella tavolata
con molte amiche era completamente assorbita dalle pietanze: «Mangiava con avidità e con abbandono», e «aveva qualcosa di toccante». Non riusciva a spiegarsi l'’amalgama di sentimenti: 48
«Mi disgustava e insieme mi faceva una pena enorme». In realtà, osserva subito, era solo una casalinga vestita con un abito
azzurro guarnito di pizzi che mangiava la minestra. Le sembra che «con quella paura che nella vita ti sfugga qualcosa, finisci per perdere tutto, per mancare la realtà». Un tappeto di cocco per la ragazza che non sapeva inginocchiarsi Desidera, e insieme teme, il momento
della sua vita in cui si
troverà sola con se stessa e con un pezzetto di carta. E scriverà senza più fermarsi. «La ragazza che non sapeva inginocchiarsi e che pure lo aveva imparato, sul ruvido tappeto di cocco di una disordinata camera da bagno», vive un processo interiore che vorrebbe rappresentare in tutte le sue sfumature. Ma, aggiunge, «sono faccende intime, quasi più intime di quelle del sesso». Una lunga pedalata per la buia e fredda Larissestraat le strappa pensieri, parole e borbottii che l'indomani cerca di inseguire. È una sorta di inedita lotta allo Iabbok, come avvenne a Giacobbe’.
«Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava,
non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi prenda per mano». Allora si sente pronta ad andare dappertutto, cercando di superare la paura. Dovunque si troverà, si ripromette, irraggerà un po’ di quel vero amore
che sente di avere in sé. Talvolta le sembra di desiderare l’iso? Cf Gn 32, 23-33.
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lamento del chiostro, poi è fuor di dubbio: «Dovrò realizzarmi tra gli uomini, in questo mondo», malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto l’afferrano. «Prometto di vivere questa vita sino in fondo, di andare avanti. Certe volte mi viene da pensare che la mia vita sia appena all’inizio e che le difficoltà debbano ancora cominciare, altre volte mi sembra di
aver già lottato abbastanza». Si invita a non farsi illusioni e ad avere misura: «E tu sola puoi essere misura a te stessa». È come se ogni giorno fosse scaraventata in un grande cro-
giolo, dice, e che ogni giorno riesca a superarlo. Le capita di pensare che la sua vita sia completamente sbagliata. Ma, si dice, questo capita solo quando si ha un'idea prefabbricata della vita. Qualcosa è improvvisamente mutato nel suo porsi nei confronti di Spier: «Come se io avessi capito nel profondo di me stessa che la mia vita sarà del tutto indipendente dalla sua». Ricorda che alcune settimane prima, mentre si parlava della probabilità che tutti gli ebrei fossero spediti in un campo di concentramento in Polonia, Spier le aveva detto che allora si sarebbero sposati, così avrebbero potuto restare insieme e «fare ancora un po’ di bene». Pur conoscendo la relatività delle parole, per qualche giorno si era sentita «piena di calore e di attaccamento per lui». Ora questo sentimento è scomparso ed
Etty va per la sua strada. Pedalando nel freddo, una sera, si rende «improvvisamente conto di quanta intensità, quanto impegno di tutta la persona» avesse messo «nell’assorbire Spier, il suo lavoro e la sua vita in quest'ultimo mezzo anno». Di fronte al dato di fatto, lo assume: «È diventato parte integrante di me». Così decide di proseguire da sola, nell'intimo si sente più libera, mentre all’esterno non cambia nulla, continua a es-
sere la sua segretaria e a interessarsi del suo lavoro.
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La preghiera liberatrice del per-dono «A volte, ultimamente, mi capita di vedere una singola frase della Bibbia in una luce nuova, ricca di significato e di vita», come
«Dio creò l’uomo a sua somiglianza» oppure «Amate il prossimo come voi stessi». La realtà la richiama a concretezza e a tradurre ì pensieri in gesti: «Mi toccherà finalmente affrontare i rapporti tra me e mio padre, con coraggio e amore». Una telefonata del fratello Mischa, che le annuncia il suo arrivo per il sabato sera,
suscita in prima battuta una reazione «orribile». Lo avverte come un invasore importuno, che minaccia la sua libertà. Invece di essere contenta che esca un po’ «da quella morta città di provincia in cui abita», lontano per qualche giorno «da quella sua moglie sempre agitata» e di chiedersi come possa rendergli il soggiorno il più piacevole possibile, si sente terribilmente urtata. Si giudica «delinquente, sciocca, egoista», che
prima pensa a se stessa e al suo tempo prezioso, finalizzato in ultima istanza a «pompare ancora un po’ di sapienza libresca nella tua testa già abbastanza confusa». «E a che mi serve tutto ciò se non ho l’amore», ricorda, e ragiona. Sa che «è una questione fondamentale, importante e difficile: nel proprio cuore voler bene ai propri genitori», che vuol dire poi «perdonarli per tutte le difficoltà che ti hanno creato semplicemente con la loro esistenza», nell’attaccamento come nella repulsione «e nel peso della loro vita complicata che s'aggiunge alla tua». È ora di rifare il letto a Pa’ Han' e di preparare la piccola lezione per l’allieva Levi. Però continua a pensare al suo programma per il fine settimana: «Nel mio cuore voler bene a mio padre, e perdonargli se mi sottrae alla mia comoda tranquillità». Non du-
bita: «Gli voglio in fondo molto bene ma è — o piuttosto era — un amore complicato: ricercato, spasmodico, e così mescolato
alla compassione che quasi mi aveva spezzato il cuore». * Han Wegerif.
FE
Senza mezze misure fruga nei suoi sentimenti, per svisce-
rarli: «Ma era una compassione masochista, un amore che aveva portato a grandi esplosioni di compassione e dolore, ma non a un semplice gesto; a grande cordialità e a darsi da fare ma in modo così intenso, che ogni giorno della sua permanenza qui mi era costato un intero tubetto di aspirine». Ciò accadeva
tempo prima, ora le cose si sono fatte più piane, anche se il sentirsi in qualche modo incalzata le provoca risentimento. Prende una decisione matura: «Ora devo perdonarglielo nel mio cuore». E per lui pensare e sentire: «Che bello che possa tirarsi via di là un pochino... questa era una buona preghiera mattutina», la preghiera liberatrice del dono del per-dono. Annota che dopo quella vigorosa orazione mattutina s’era sentita «liberata e felice e leggera». Le contraddizioni, avverte con chiarezza, sono molte: «Nel momento in cui ne riconosco una,
sono infedele all’altra». Si trova una sera testimone di un dialogo tra Spier e una sua paziente su Cristo e gli ebrei. Vi si incontrano e scontrano «due filosofie di vita, ambedue nettamente delineate, brillantemente documentate, compiute e armoniose,
difese con passione e aggressività». Riflette che in ogni filosofia che vuole difendersi si nasconde subdolamente l’inganno e «si finisce sempre per usar la violenza a spese della verità». «Eppure io devo e voglio cercare il mio pezzo di terreno cintato, prima dolorosamente conquistato, poi appassionatamente difeso»; questo s'accompagna alla sensazione di fare in tal modo «un torto alla vita» e alla paura «di sprofondare altrimenti nell’indeterminatezza e nel caos». Ancora racconta di un incontro difficile con suo padre, che pure apprezza, stima e ama, perché non sopporta intrusioni
nel suo mondo. Si sente paralizzata e smarrita, come se l’amore da poco provato fosse scomparso del tutto. E gradatamente la nebbia si dirada. «Allora mi sono resa conto di un rapporto che c'è tra noi due. Mio padre, a un’età avanzata, ha sfumato tutte
Da
Pai
le sue insicurezze, dubbi, probabilmente anche complessi d’inferiorità puramente fisici, difficoltà irrisolte nel suo matrimonio» e altro ancora, «grazie a un atteggiamento filosofico del tutto schietto, amabile, pieno di umorismo e molto acuto, ma
con tutta la sua acutezza, molto vago». Perché sotto questa filosofia giustifica tutto, guarda solo alle evidenze superficiali, mentre sa che esistono incommensurabili profondità e forse proprio per questo «rinuncia in partenza a trovare chiarezza».
Sotto la copertura di quel filosofare rassegnato — che dice sempre: «E chi lo può sapere» — si nasconde il caos, quello stesso che minaccia anche lei, quello da cui intende uscire e in cui
vede «il compito» della sua vita.
Angoscia per un figlio indesiderato Quasi che le difficoltà non fossero già troppe, nella notte del 7 dicembre 1941, si sveglia in preda a uno strano malessere. Si sente gonfia, con un senso di nausea e un po’ di vertigine. «Per cinque minuti ho vissuto l'angoscia di tutte quelle ragazze che s'accorgono con terrore di aspettare un figlio non desiderato». Si sente priva di quella strumentazione fondamentale per accoglierlo con la tenerezza di cui avrebbe bisogno: «Credo di essere affatto sprovvista d’istinto materno e me lo spiego così: trovo la vita sostanzialmente un gran calvario e che tutti gli esseri umani sono infelici». Perciò non vuole assumersi la responsabilità di accrescerne il numero. Scrive più tardi, in quella giornata convulsa, che pensa di aver «acquisito “qualche” merito eterno nei confronti dell'umanità», in quanto non ha mai scritto «un cattivo libro» e non ha «il rimorso di aver aggiunto un altro infelice a quelli che già vivono su questa terra». Ha già deciso di abortire. Una piena di sentimenti contraddittori la pervade. Il ruvido tappeto di cocco la rivede inginocchiata, con il viso tra le mani, a pregare: «Signore, fammi vivere di un unico, grande sentimento; fa’ che io compia amorevolmente
le
DA)
mille azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni a un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore». Sa che allora non avrà più importanza ciò che farà e dove porrà in essere le sue azioni, ma si sente molto distante da quella meta. Anzi, prevede di inghiottire in giornata venti pillole di chinino: «Non mi sento proprio bene a sud del mio diaframma». Camminando una mattina nella nebbia, riprova lo stato d’animo di chi non ha più nulla di nuovo da sperimentare. «In fondo ho già toccato i limiti, è già successo tutto, perché continuo a vivere?», si domanda con il senso di vuoto venato di ama-
rezza di chi nel cuore ha rifiutato una vita. «Ormai conosco tutto e non potrò più fare altri passi avanti, i confini diventano troppo stretti, e una volta che siano oltrepassati non mi rimarrà che il manicomio. Oppure la morte?». Quasi si stupisce di non aver pensato fino ad allora a questa «situazione estrema». Al momento le pare che la miglior medicina sia «un po’ di aridissima grammatica o il sonno», mentre «l’unica cosa che mi fa sentire realizzata in questa vita è perdermi in un pezzo di prosa, o in una poesia che io mi sia conquistata con fatica parola per
parola». Afferma tranquillamente: «Un uomo non è la cosa più importante per me. Forse perché ho sempre avuto tanti uomini intorno? A volte mi sento proprio come se fossi sazia in amo-
re». Prova un senso di pienezza: «La vita è stata davvero molto buona con me, sempre e anche ora». Non solo, «a volte è come se io fossi già passata dallo stadio dell’“Io” e del “Tu”». Dopo una notte intensissima di pensieri e di travaglio conclude: «Persino questo traffico con un bambino non nato è una cosa impossibile per me. Ma si farà, vedrai» e si autoincoraggia a non
soccombere sotto il peso di ciò che le sta succedendo. Intende dire che «non ci si dovrebbe mai lasciar paralizzare da una cosa sola, per quanto grave essa sia», poiché «la gran
corrente della vita deve continuare a scorrere». Si custodisce DI
con pazienza: «Mi prendo ogni volta per mano e mi dico: adesso hai da preparare quella lezione per domani e stasera devi cominciare l’Idiota di Dostoevskij, ma non come un capriccio, devi studiartelo pazientemente da cima a fondo». «Come se fossi un salariato», precisa. «Nel frattempo, farò i miei salti giù dalla scala e compirò quelle altre cerimonie con l’acqua». Nonostante la decisione di abortire sia irrevocabilmente presa, un’inquietudine la pervade: «Ho anche la sensazione che dentro di me si compia un mistero di cui nessuno sa nulla. Dopo tutto sto partecipando a un avvenimento elementare». E in questa situazione, senza dubbio tormentosa, constata in sé una
forte volontà di non lasciarsi abbattere e di fare in modo che tutto trovi una soluzione adeguata. Si invita a lavorare tranquilla e a non disperdere sprecandole le sue forze. Una passeggiata «frizzante» con Spier, che le ha portato dei crisantemi bianchi, reputandoli «così nuziali», le ridà energia. Si ritrova a
essere una persona popolata — e fors'anche divisa — da molte presenze significative, se può dire: «Nel mio cuore gli sono fedele. Sono fedele anche a Han. Sono fedele a tutti». L’esperienza dell’aborto e l'ossessione di avere sbagliato tutto Questa specie di donna sconvolgente, sessualmente scatenata e peraltro insoddisfatta, si ritrova a camminare per strada «accanto a un uomo con in mano dei fiori bianchi che paiono un mazzolino da sposa» e ne fissa il viso con uno sguardo raggiante. Eppure «solo dodici ore fa ero tra le braccia di un altro uomo e gli volevo, e gli voglio bene». Un nugolo di domande l’assale: «È mancanza di gusto? È decadente? Per me è tutto perfettamente in ordine: forse perché ciò che è fisico non m'importa, non m'importa più molto». Ora, afferma, «si tratta di un altro amore, che si estende più lontano». E subito incalza: «O mi sto illudendo? Sono troppo vaga, anche nei miei rapporti con gli altri? Non credo. Come mai quest’ossessione im-
pe a
pE)
provvisa che tutto sia sbagliato?». Il duplice legame con Spier e con Han, che perdura parallelo, forse genera in lei come un ripensamento assorto. Se davvero è in arrivo, di chi è la paternità e che fare di questo bambino? AI risveglio pensa al da farsi: «Innanzitutto mi fregherò sotto il mento, per farmi coraggio per questa giornata». Appena
aperti gli occhi, già aveva avuto «per un momento quell’oppressione di piombo, quell’irrequietezza nerissima senz’ombra di montatura. In fin dei conti, non è una piccolezza», commen-
ta tra sé e sé. «Mi sembra di salvar la vita a un essere umano. No, è ridicolo dire che io salvi la vita di una persona mentre cerco di eliminarla con tutte le mie forze. Voglio risparmiarle il dolore di percorrere questa valle di lacrime». Rivolgendosi direttamente al piccolo embrione, gli dice: «Rimarrai nella condizione protetta di chi non è ancora nato e sii riconoscente, essere in divenire. Provo quasi tenerezza per te».
Ma subito diventa durissima nei suoi confronti: «Ti attaccherò con acqua calda e con orribili strumenti, ti combatterò con pazienza e costanza fintanto che non ti sarai di nuovo dissolto nel nulla, e allora sentirò di aver compiuto un’azione buona e responsabile». Si sente oppressa da una triste eredità genetica: «Non ti posso certo trasmettere forze sufficienti, troppi germi di malattie ereditarie si aggirano per la mia famiglia». Subito chiarisce il motivo del suo rifiuto: «Ho assistito poco tempo fa alla scena di Mischa, che in uno stato di totale confusione era stato portato in una casa di cura, ho giurato allora che dal mio grembo non nascerà mai un essere altrettanto infelice». Nell’attesa dell'intervento abortivo la tensione si fa pesante: «Purché non duri troppo a lungo. Altrimenti mi verrà un’angoscia terribile». È però determinata: «Ma ti sbarrerò l’ingresso a questa vita, e non dovrai lamentartene». Poi torna alle sue attività di sempre: le lezioni di russo, le attività casalinghe, le corse quotidiane da Spier, l’attività culturale, la coltivazione 56
delle amicizie. L'aborto volontario, evento drammatico per la sua vita, pare vissuto con un’apparente superficialità. La sicurezza delle sorgenti che zampillano dal profondo Dopo giorni di ansia, improvvisamente si trova immersa in una
profonda tranquillità: «proprio come una tempesta che s'è calmata». Coglie un ritorno ciclico di tale situazione. «Dopo giorni di vita interiore terribilmente intensa, ricerca di chiarezza,
doglie patite per sentimenti e pensieri che non sono affatto pronti per nascere, enormi pretese da parte mia, e la ricerca di
una piccola forma propria che diventa di un'importanza capitale», di punto in bianco «quest’affanno scompare». Anzi, aggiunge, «sento quasi una dolcezza verso me stessa, e su di me cala un velo attraverso cui la vita filtra più mite, e spesso più ridente». Ancora avverte «di essere tutt'uno con la vita». Un'intuizione, o un'illuminazione potente la permea. Così «è proprio in questi momenti — e quanto ne sono riconoscente —
che ogni aspirazione personale mi abbandona, la mia ansia, per esempio, di conoscere e sapere si acquieta, e un piccolo pezzo
d’eternità scende su di me con un largo colpo d’ala». Talvolta dura solo mezz'ora, ma è sufficiente per attingervi nuova forza. Non ha molta importanza se questa inattesa quiete, «questo
senso di gran respiro e dolcezza sia dovuto alle sei aspirine prese ieri a causa del forte mal di testa, o alla musica suonata da Mischa, oppure al caldo corpo di Han nel quale mi sono completamente seppellita stanotte: chi lo può dire, e che importa?». E fa una scoperta da persona navigata della vita: «L'unica sicurezza su come tu ti debba comportare ti può venire dalle sorgenti che zampillano nel profondo di te stessa. E io lo dico ora con tutta umiltà e riconoscenza e sincerità, anche se so bene che tornerò a essere suscettibile e ribelle: Dio mio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, quella vastità che non
iaia ironia
DE
è poi nient'altro che il mio essere ricolma di te». Del resto, come scriverà in una delle ultime pagine del diario, il 12 ottobre 1942, «l'età dell’anima è diversa da quella registrata all’anagrafe», anzi, «credo che abbia una determinata età fin dalla nascita, e che questa età non cambi più; si può anche nascere con un’anima che ne ha mille». Spinta a terra da qualcosa più forte di me Sempre come afferrata da uno spirito «altro», continua:
«Ti
prometto che tutta la mia vita sarà un tendere verso quella bella armonia, e anche verso quell’umiltà e vero amore di cui sento la capacità in me stessa, nei momenti migliori». Dopo questi slanci oranti, va a sparecchiare la tavola della colazione, a preparare la lezione per Levi e a mettersi «un po’ di colore sulla bocca». Nel suo vissuto materialità e spiritualità si coniugano in modo singolarissimo. Etty abbraccia la vita nella sua vastità e completezza. Le sue esperienze, che non pensa certo di condividere con altri, rispecchiano i tratti essenziali della mistica di ogni popolo e di ogni tempo. Espressioni primordiali del rapporto della creatura col suo Dio, con qualunque nome lo chiami: il senso di una Presenza, la piccolezza che si traduce in uno spontaneo inginocchiarsi come soverchiati e travolti da un peso incombente e insieme dagli echi dolcissimi. Come non ricordare la coetanea ebrea Simone Weil (19091943)? Durante il periodo dell'esperienza in fabbrica «la parola “Dio” non aveva alcun-posto nei miei pensieri. L'ha avuto solo
dal giorno in cui, circa tre anni e mezzo fa, non ho più potuto negarglielo. Ho percepito (senza essere minimamente preparata,
dato che non avevo mai letto i mistici) una presenza più personale, più sicura, più reale di quella di un essere umano»?. ? S. WEIL, Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Paris 1962, p.3.
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«Ieri sera — traduceva Etty nei suoi mosaici d’inchiostro una domenica mattina, verso la metà di dicembre 1941 — subi-
to prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me». E spiega: «Tempo fa mi ero detta: mi esercito nell’inginocchiarmi. Esitavo ancora davanti a questo gesto così intimo come i gesti dell'amore, di cui pure non si può parlare se non si è poeti. Qualche volta ho la sensazione di avere Dio dentro di me, aveva detto un paziente a Spier, per esempio quando ascolto la Matthàaus-Passion®. E Spier aveva risposto all’incirca che in quei momenti lui era in contatto diretto con le forze creative cosmiche che operano in ogni persona»; e che questo principio creativo «era in definiti-
va una parte di Dio, si doveva avere solo il coraggio di dirlo». Queste parole l’accompagnavano già da settimane: «Si deve avere il coraggio di dirlo. Avere il coraggio di pronunciare il nome di Dio». Spier le aveva confidato di avere impiegato molto tempo per farlo, «come se ci avesse trovato sempre qualcosa di ridicolo» e che alla sera pregava «per delle persone», presumibilmente sue pazienti, con le quali cercava di dipanare i loro grovigli interiori. Alla domanda di Etty sul contenuto della preghiera, era rimasto «tutto imbarazzato — e poi quest'uomo che sa sempre rispondere in modo chiaro e trasparente alle mie domande più sottili e più intime, mi aveva risposto timidamente: questo non glielo dico. Per adesso no. Più tardi».
1941: il mio anno più felice Osserva, insieme interrogativa, curiosa e partecipe, il suo amante: «Conosco i suoi gesti intimi con le donne e ora vorrei
ancora conoscere i gesti che ha per Dio. Prega tutte le sere. ° La Passione secondo Matteo diJ.S. Bach.
x)
S'inginocchia nella cameretta?». Prosaicamente domanda: «Nasconde la testa pesante dietro le sue grandi, belle mani? E s'inginocchia prima di essersi tolto la dentiera, o dopo? Quella volta ad Arnhem: “Le farò vedere come sto senza denti. Ho un’aria così vecchia e così dotta”». Avviene che «la ragazza che non poteva inginocchiarsi» nell’alba grigia di un lunedì di fine dicembre 1941, «in un moto d’irrequietezza» si è «trovata improvvisamente per terra, in ginocchio tra il letto disfatto di Han e la sua macchina da scrivere, tutta rannicchiata e con la testa
che toccava il pavimento. Forse un gesto per estorcere pace». Proprio in quel momento Han irrompe nella camera, e a lui, sorpreso dell’insolita posizione, spiega che sta cercando un bottone. È un’esperienza mistica? Certo è un momento di svolta in salita, un passaggio di non ritorno, nell'incontro con la Presenza di un indefinibile, affascinante mistero. Ricorda anche che Tide,
«quella robusta donna di trentacinque anni dai capelli rossi, aveva detto una sera con voce chiara e sonora: vedi, in questo sono come un bambino, se ho delle difficoltà m’inginocchio nel mezzo della mia camera e chiedo a Dio cosa debbo fare. Bacia come una ragazzina — Spier me l'ha mostrato una volta —, ma i suoi gesti verso Dio sono maturi e sicuri». In ogni vita ci può essere
spazio per l’incontro con l'Altro. È l’ultimo giorno del 1941. A sera getta uno sguardo sull’anno che si conclude, che è stato per lei il più ricco e fruttuoso, e insieme «il più felice di tutti». Se dovesse spiegarne il perché, scrive, non le rimarrebbe che tornare con il pensiero al 3 febbraio, quando aveva suonato timidamente alla Courbenstraat «e un tipo da far paura» le aveva «esaminato le mani tenendo un’antenna sulla testa». E conclude che il motivo è la «grande presa di coscienza» che ne derivò. Questo «significa anche poter disporre delle mie forze più profonde», compreso l'aspetto religioso: «Ora mi capita di dovermi inginocchiare di
colpo davanti al mio letto, persino in una fredda notte d’inver60
no». Si rende conto che è solo un inizio, «ma non più vacillan-
te»: ha già basi in una profondità anch’essa «normale». I «semplici fatti» non esistono mai
Il 7 gennaio 1942 Etty si reca al Consiglio ebraico insieme a Spier, accanto al quale i «semplici fatti non esistono mai, perché l'atmosfera che emana da lui finisce sempre per influenzare le situazioni». Entrambi sono «ben poco entusiasti al pensiero
di interrogazioni e domande riguardanti la proprietà, “numero di emigrazione”,
Gestapo’ e amenità simili». Anche lì, come
spesso per strada, qualcuno si avvicina a Spier chiamandolo per nome, spesso un antico discepolo o un paziente. Stavolta non si tratta di un allievo, ma di un «tipo con una meravigliosa testa sarcastica da Mefistofele su un corpo piccolino», che ha una gran voglia di essere curato da lui. È un giovane mite, dal viso dolce, sensibile e intelligente, che dietro un tavolo allunga la mano destra perché Spier interpreti segni e attese. Alla fine, sconcertato, riconosce che in un paio di minuti lo psicochirologo lo ha scandagliato in profondità e in perfetta rispondenza a un test a cui si era precedentemente sottoposto. «Dopo di che ha preso un appuntamento con Spier, e gli ha dato mille consigli per compilare quei moduli». Il caso burocratico si trasforma in un appuntamento per un consulto e l'impiegato, pervaso da un moto di simpatia, sarebbe disposto a violare la legge in suo
favore, se potesse. Etty è confortata dalle parole di Spier, che la giudica «in un periodo di grande fioritura»: «Irradio luce in tutte le direzioni e lui ne gode insieme con me». Medita: «Un anno fa ero proprio moribonda», avendo bisogno di sieste di due ore e «mezzo chilo di aspirine al mese», una vera «situazione da far paura». ? Gestapo è l'acronimo di Geheime Staats Polizei, la polizia segreta di stato, istituita dal regime nazionalsocialista nel 1933 unificando le polizie dei vari Lander. Durante la guerra si servì dei collaborazionisti per operare anche nei paesi occupati.
musa PAST
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Si guarda con ironia: «ormai è “letteratura antica”». Tutto ciò le è costato «un cammino faticoso per ritrovare quel gesto in-
timo verso Dio, la sera alla finestra, per poter dire: ti ringrazio, Signore». Ora nel suo mondo interiore ci sono «tranquillità e pace». Comunque una cosa è certa: la sua tristezza ora «è diversa da quella di un tempo», in essa c’è già il germe della capacità di ripresa. Sono parte dell’alternanza del suo «ritmo vitale» e ha nuovamente ricuperato fiducia in sé: «Credo nella serietà del mio impegno, e so che col tempo riuscirò a amministrare bene la mia vita». Lo spartiacque sembra intravederlo nel fatto che un tempo, quand'era triste, pensava che lo sarebbe stata per tutta la vita. Il pensiero fisso resta Spier: «Però il suo corpo non lo voglio proprio, anche se certe volte sono pazzamente innamorata di lui: dipende dal fatto che gli voglio bene in modo così profondo, quasi “cosmico”, un modo che col corpo non si riesce nep-
pure a esprimere?». Le efferatezze del regime hitleriano s’affacciano tra le sue pagine a fine febbraio 1942. «La cosa che più mi ha impressionato oggi», scrive il 19 febbraio, «sono state le grosse mani piene di geloni di Jan Bool. Di nuovo qualcuno è stato torturato a morte: quel dolce ragazzo della Libreria Cultura», che amava la musica e suonava il mandolino, aveva una
ragazza simpatica che poi aveva sposato, e un bimbo. L’unica lezione di questa guerra
Tra gli studenti c'è grande sconforto. Ma una piccola luce inattesa brilla anche allora: «Una breve, inaspettata conversazione con Jan Bool mentre attraversavamo lo stretto e gelido Langebrugsteeg, e poi in attesa del tram. Jan, con le mani viola per i geloni e il mal di denti, chiedeva con amarezza: cosa spinge l’uomo a distruggere gli altri?» Etty ribatte: «Gli uomini, dici, ma ricordati che sei un uomo anche tu». E subito «quel testardo, brusco Jan era pronto a darmi ragione. Il marciume che c'è 62
negli altri c'è anche in noi, continuavo a predicare» e si dice
più che mai convinta che «non si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra». Anche Jan ha fatto passi da gigante, è divenuto «aperto e perplesso e non più attaccato alle durissime teorie sociali di un tempo», ora riconosce che i sentimenti di vendetta verso l’esterno sono troppo a buon prezzo. Nel freddo pungente, si scambiano le notizie dei loro professori imprigionati, di un amico diJan ucciso e di un elenco di violenze impossibile da scorrere tutto. È il 25 febbraio e accompagna Spier alla Gestapo. Rimugina, le pare presuntuoso dire che una persona possa determinare dall’interno il proprio futuro: «Quel che invece un uomo ha in mano è il proprio orientamento interiore verso il destino». Rivedendosi come alla moviola, quel mattino presto nel locale della Gestapo, nota che le vicende delle loro vite sono tutte
simili, «gli uomini dietro la scrivania come quelli che venivano interrogati» e «ciò che qualificava la vita di ciascuno era l’atteggiamento interiore verso quei fatti».
Dopo quella mattina diviene consapevole «di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l'ingiustizia che ci sono al mondo». Ciò che impaurisce invece «è il fatto che certi sistemi possano crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime». La ferialità, e l’indescrivibile bellezza, di vicende personali s'interseca con la ferocia della guerra, come l’imprevisto incontro con lo svizzero Max Geiger, un’antica conoscenza. Si trovano
a camminare a braccetto per la città oscurata, dopo aver sorbito una tazza di caffè e aver fumato una sigaretta scadente. Max intende sposarsi, ed è venuto da Etty: «Desiderava un consiglio da me: buffo, proprio da me». «E questo appunto era così bello: che uno riveda l’amico di gioventù e lo possa rispecchiare nella pro-
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pria accresciuta maturità». L’amico prima di lasciarla, le dice che forse, con il passare degli anni, potranno «ancora diventare veri amici». Aggiunge Etty: «E così nulla va perso. Le persone ritornano, e interiormente puoi continuare a vivere con loro finché,
qualche anno più tardi, sono di nuovo unite a te». Mi ero aggrappata a un corpo
A Spier, l’8 marzo, scrive delle sue esperienze più lontane: «Una volta la mia passionalità non era nient'altro che un aggrapparsi disperato a qualcosa a cui non ci si può affatto aggrappare col corpo». E si riferisce proprio al corpo di Max, «dell’uomo che questa sera camminava fraternamente accanto a me», al quale allora si era «aggrappata in una disperazione insopportabile». Proprio questo, in qualche modo, le dà gioia, «il fatto che sia rimasto tutto ciò, il buon scambio fiducioso dei nostri pensieri, il breve reciproco indugiare nell'atmosfera dell’altro, l’evocare ricordi che non facevano più male, mentre una volta ci eravamo letteralmente distrutti a forza di vivere intensamente». E anche il constatare con tutta tranquillità: «Eravamo proprio degli esaltati». Non è più la ragazza timida di un tempo: davvero si è fatta un’opinione della vita, e sa difenderla davanti agli altri. Ha una grande passione per la natura, che emerge da moltissime pagine. Ritiene si possa «fare amicizia anche con un
inverno, con una città o con una campagna». Ricorda il faggio rosso vino della sua adolescenza: «Avevo un rapporto speciale con quella pianta. Alla sera ero capace improvvisamente di provarne nostalgia e allora andavo a cercarla, facevo mezz'ora di bicicletta e poi le giravo intorno, presa e incantata da quell’albero rosso sangue. E la carezza di quell’aria era così tenera e così universale che le mani di un uomo, anche le sue, mi sem-
bravano ruvide al confronto». Arrivata a casa di Spier, entrando nella sua camera in penombra, si ferma a osservare il letto pronto per la notte, e un 64
ramo carico di orchidee profumate che vi s'incurva sopra. Sul comodino fanno mostra di sé dei narcisi «straordinariamente gialli e giovani». Una felice sensazione si impadronisce di Etty: «Era proprio come se avessi trascorso un’intera notte d’amo-
re». Lui, con la testa ingrigita, quasi fosse erede di un tempo antichissimo, era seduto allo scrittoio. Scorre nel pensiero le varie tappe che «devono pur essere state necessarie per arriva-
re a questo scivolare dolcemente l’uno verso l’altro, a questa intimità, a questo esserci reciprocamente cari e buoni», con «la
sensazione di possedere una piena e ricca vita amorosa». Il clima di restrizioni e di odio razziale pervade tutto. «Ci è stato proibito di passeggiare sul Wandelweg, ogni misero gruppetto di due o tre alberi è dichiarato bosco e allora sulle piante è inchiodato un cartello con la scritta: vietato agli ebrei. Questi cartelli diventano sempre più numerosi, dappertutto». Ma ciò non frena l’irresistibile voglia di vivere di Etty: ciò nonostante, dice, quanto spazio si può ancora trovare per incontrarsi «e essere lieti e far musica e volersi bene». Come quel giorno, quando un amico di Mischa aveva portato un sacchetto di carbone, Tide un po’ di legna, Spier zucchero e biscottini, Etty aveva del tè e un’amica svizzera, artista vegetariana, recava con sé un grosso dolce. Spier aveva esordito leggendo qualcosa su Hugo Wolf, commuovendosi. Nell’aprile 1942 ha occasione di incontrare ripetutamente Evaristos Glassner, amico di Mischa, che dopo la guerra sarà organista e docente di pianoforte ad Amsterdam. «Oggi pomeriggio gli ho detto di nascosto: ti accompagniamo nella tua crescita, silenzioso Glassner». È accanto a lui che matura la rifles-
sione, dai tratti fortemente autobiografici:
«Ci sono momenti
in cui d’un tratto, quasi fisicamente, capisco come
un artista
creativo possa cadere nel bere, abbandonarsi agli eccessi, smarrirsi completamente». Egli «ha veramente bisogno di un carattere molto forte per non sfasciarsi moralmente, per non cadere
BEeRreE
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in abissi senza limiti». Le pare di non trovare le parole giuste per descrivere la situazione. «A volte mi capita con molta intensità: tutta la mia tenerezza, le mie forti emozioni, quel mare dell'anima, oceano
dell'anima o come
dir si voglia, vorrei
poterli riversare in un’unica piccola poesia, ma sento pure che nel caso ci riuscissi, vorrei immediatamente buttarmi a rompicollo in un abisso, vorrei ubriacarmi». Si legge dentro: «Io lo sento in me, nei momenti interiori più fecondi e creativi, quando dentro di me si alzano dei demoni, e forze distruttive e au-
todistruttive si mettono in agguato». A un’analisi ancora più
approfondita rileva: «Non è neppure il normale desiderio che si ha dell’altro, dell’uomo, è qualcosa di più cosmico, universale, inarrestabile. Sento però che anche in quei momenti io comincio a controllarmi. Allora provo di colpo il bisogno di inginocchiarmi in un angolino tranquillo, di tenermi a freno e ben raccolta in me stessa, di vegliare a che le mie forze non si disperdano in una regione senza limiti».
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IV
La lunga marcia per un approdo di semplicità
Era il terzo anno della seconda guerra mondiale Etty sembra sfuggire ai disagi della guerra mentre fissa a futura memoria: «Era il terzo anno della seconda guerra mondiale, mangiavamo clandestinamente maccheroni e bevevamo caffè vero, eravamo tutti così allegri e ci chiedevamo a che punto sarebbe stata la guerra al prossimo compleanno». La festa per il genetliaco di Spier assorbe completamente tutti. Gli amici osservano Etty, con un anemone rosso tra i capelli, e c'è chi la definisce un miscuglio di russo e spagnolo, chi una Carmen russa. Un po’ sgualcito per aver festeggiato troppo, mette poi il fiore a seccare tra le pagine del diario. Quando fra qualche anno sarà «diventata una matrona», quel fiore dovrà ricordarle con un velo di nostalgia che esso le ornava i capelli in occasione del cinquantacinquesimo compleanno del «grande, indimenticabile amico della giovinezza». Ora il rumore della guerra si fa incombente e il 18 maggio annota: «Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più “raccolta”, concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa
cella della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande e anche un fatto sempre più oggettivo». Fuori, nei punti strategici, gli occupanti tedeschi montano la guardia, ma lei si sente fortificata e protetta nel suo rifugio interiore: «La concentrazione interna costruisce alti muri fra cui ritrovo me stessa e la mia unità, lontana da tutte le distra-
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vao-
zioni. Potrei immaginarmi un tempo in cui starò inginocchiata per giorni e giorni, sin quando non sentirò di avere intorno
questi muri, che m’impediranno di sfasciarmi, perdermi, rovinarmi». Un pensiero ritorna: «Un giorno scriverò. Le lunghe notti che passerò seduta a scrivere saranno le mie notti migliori. E allora verrà fuori tutto quel che accumulo dentro, scorrerà
pian piano come una corrente senza fine». Non si abbandona più «smodatamente alle proprie tristezze, sino all’autodistruzione» e anche nei giorni di grande stanchezza e tristezza non si lascia più «cadere così in basso». Nonostante le difficoltà crescenti,
«la vita rimane
una
corrente
ininterrotta,
forse in
questi giorni un po’ più lenta e ostacolata, ma continua tuttavia a scorrere». E non ha più, come a tratti un tempo, «la pretesa di essere la persona più infelice di questa terra». Osservando gli scempi della guerra attorno a lei, sbotta: «Dio, certe volte non si riesce a capire e accettare ciò che i tuoi
simili su questa terra si fanno l’un l’altro, in questi tempi scatenati. Ma non per questo io mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di rintracciare il nudo, piccolo essere umano che spesso è diventato irriconoscibile. In mezzo alle rovine delle sue azioni insensate». Rifiuta di starsene tranquilla nella sua stanza raccolta e ornata di gradevoli fiori, a godersi «Poeti e Pensatori glorificando Iddio». No, Etty non si chiama fuori. Un mondo che lievita verso un destino sconosciuto
Sempre un nuovo stupore l’afferra quando ammira la natura che rifiorisce. «I rami nudi che si arrampicano lungo la mia finestra si sono coperti di giovani foglioline verdi. Un vello di riccioli sui loro nudi e duri corpi di asceti». Pensa alla sera precedente: «Avevo la sensazione di riposare sul suo petto nudo, di sentire il battito regolare e leggero del suo cuore. Ero fra le 68
nude braccia della vita e mi sentivo così sicura e protetta». Il suo sogno vero a occhi aperti atterra: «Pensavo: com'è strano.
C'è la guerra. Ci sono campi di concentramento. Piccole barbarie si accumulano di giorno in giorno. Camminando per le strade, io so che in quella casa c’è un figlio in prigione, in quell’altra un padre in ostaggio, o un figlio diciottenne condannato a morte. E questo capita a due passi da casa mia. So quanto la
gente è agitata, conosco il grande dolore umano che si accumula e si accumula, la persecuzione e l'oppressione, l’odio impotente e il sadismo: so che tutte queste cose esistono, e conti-
nuo a guardar bene in faccia ogni pezzetto di realtà nemica». Riflette sul suo modo di sentir scorrere la vita, e non crede «che una guerra, o altre insensate barbarie umane, potranno
cambiarvi qualcosa». Arriva l'estate, e «come oggi ti senti cullata da mille dolci braccia. Diventi pigra e indolente, ma dentro di te c'è un mondo che lievita verso un destino sconosciuto». Ripensa a Spier, mentre cantava un famoso lied di Schubert, Der Lindenbaum),
che le era piaciuto tanto da farle avanzare la richiesta di «cantare un intero bosco di tigli». E «le pieghe e i lineamenti del suo viso sembravano vecchi, vecchissimi sentieri attraverso un
paesaggio antico quanto la creazione stessa». In un altro momento, al bar, si era resa conto, «quasi con sconcerto, di quan-
to sia vecchia la sua faccia, proprio come se le siano passate sopra molte vite anziché una sola». Ha avuto una reazione se non di rifiuto, di distanza: «Ho sentito che non avrei voluto
legare per sempre la mia vita alla sua. Ma in fondo era una reazione meschina,
basata com’era
sull'idea convenzionale
del
matrimonio». Ritiene banale che nei momenti in cui il suo viso | le piace, desideri sposarlo e quando riflette il peso degli anni | non più. Sono «criteri e reazioni» che vorrebbe cancellare perché «ostacolano un sentimento di unione veramente grande, Il tiglio.
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oltre i confini di convenzione e matrimonio, o meglio: dell'idea che ce ne facciamo». Osservando
un pomeriggio alcune stampe giapponesi in
compagnia di Glassner, si accorge che è proprio questo lo stile che vorrebbe avere: «Con altrettanto spazio intorno a poche parole. Troppe parole mi danno fastidio». Esse inoltre vanno «organicamente inserite in un grande silenzio, e non in parole
che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto», rendendolo
«ricco d'anima». In fondo, ri-
flette, «ce ne vogliono così poche per dir quelle quattro cose che veramente contano nella vita. Se mai scriverò — e chissà poi
che cosa? — mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto». È in esso infatti che «succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme». Dal ghetto arrivano notizie allarmanti, circostanziate e tristi: «Otto persone in una cameretta, con le comodità che si può immaginare». La cosa strana, inconcepibile è «che tutto questo succeda a poche strade da qui, che possa diventare il tuo proprio destino». Trova ingiusto avere una grande stanza piena di sole tutta per lei, mentre otto persone devono essere costrette a vivere in uno spazio angusto. Una sera, è martedì 9 giugno,
mentre si reca da un amico vegetariano svizzero, chiede a lui un'opinione sul suo sentirsi in colpa. Grazie alle sue parole per Etty si fa chiarezza: «È vero, ho detto, il mio lavoro mi permette di rimanere sempre nei mondi elevati dello spirito» e si domanda se riuscirebbe a continuare la sua attività con la stessa cura se abitasse con altre sette persone affamate in una camera sudicia. Trova che «questo lavoro spirituale, questa intensa vita interiore hanno valore soltanto a condizione che possano essere proseguiti in qualsiasi circostanza».
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Buongiorno, scrivania disordinata!
Sente un timore oscuro: potrà rimanere se stessa in quelle condizioni, avrà le forze per superare la prova? «Dovrò ancora dimostrare la validità di quel modo di Essere, se continuerò a vivere come faccio ora: io non so fare l’operaia socialista o la rivoluzionaria politica, questo posso togliermelo dalla testa, anche se i miei sensi di colpa potrebbero ugualmente spingermi in quella direzione». Può abbandonarsi anche a un’osservazione ironica: «Buongiorno, scrivania disordinata! Lo straccio da spolverare è buttato con negligenza intorno a quei cinque giovanissimi boccioli di rosa, e Uber Gott di Rilke è mezzo schiacciato sotto il Russo per commercianti. L’anarchico Kropotkin se ne sta spiegazzato in un angolo, non è più del tutto di casa, qui. L’ho tirato giù dallo scaffale polveroso di camera mia, volevo rileggere la descrizione di come aveva reagito alla cella del carcere in cui doveva trascorrere qualche anno di prigionia». La trasposizione appare facile: «Su un piano interiore,
la si può usare come immagine di come dobbiamo reagire di fronte alle norme che sempre più restringono lo spazio in cui possiamo muoverci».
Si autoesorta a rimanere forte per non lasciarsi logorare dall'ambiente che la circonda e non ammalarsi. Pensa come se dovesse partecipare a una spedizione al Polo Nord e trovarsi costretta ad abitare per alcuni anni quelle regioni: «Mi terrò in movimento il più possibile, farò esercizi di ginnastica. Dieci passi da un capo all’altro della mia cella sono già qualcosa; moltiplicati per 150, sono una versta’. Mi sono proposta di camminare ogni giorno sette verste, circa cinque miglia: due
verste al mattino, due prima di pranzo, due dopo pranzo, e una prima di andare a dormire». Il silenzio interiore in cui s'è stabilita le permette di sentire l’ora prima della colazione «come ? Versta: antica misura di lunghezza usata nell’Impero russo, equivalente a 1.066,781 metri.
ra
una piattaforma per salire sulla mia giornata». I vicini hanno la radio accesa, ma ciò non la disturba e neppure Han, che seppur pianissimo? sta russando alle sue spalle: «Non c'è proprio nessuna pressione intorno».
Talvolta, mentre assorta nei suoi pensieri pedala lentamente, prima le sembra di essere in grado di scrivere con grande proprietà e scioltezza, poi si stupisce del prodotto sgraziato. Si ritrova a essere la sintesi di «una fantasia indisciplinata e vagabonda». Schegge dell’io tagliano la strada a spazi più ampi Traguardando lontano con il pensiero, immagina che forse verrà un giorno in cui le forme della scrittura le verranno incontro «belle e pronte» e dovrà «semplicemente registrarle». Ma ora è il contingente con le sue urgenze ad attirare l’attenzione: «Sembra che gli ebrei non potranno più entrare nei negozi di frutta e verdura, che dovranno consegnare le loro bici-
clette, che non potranno più salire sui tram né uscire di casa dopo le otto di sera». Queste disposizioni la deprimono, e per un momento le avverte come una «minaccia plumbea» che cerca di soffocarla. Si sente semplicemente molto triste «e allora questa tristezza cerca conferme». Su un piano più stretta-
mente personale, «una lezione poco piacevole che devo dare m'’ispira altrettanta paura e angoscia che le più pesanti misure adottate dalle forze di occupazione». Anche la situazione alimentare peggiora e si aggrava, riducendo la resistenza al freddo e alle sue complicazioni, mentre i rigori dell’inverno devono ancora venire. Un sabato mattina si sente assonnata e «stan-
ca, scoraggiata e frusta come una zitella». Veramente nella notte se n’era stata in bagno a leggere fino all'una, ma «sono tante piccole schegge del proprio io che tagliano la strada a spazi più ampi. Questo io tanto ristretto, coi suoi desideri che ° Imitaliano nell'originale.
T2
cercano solo la loro limitata soddisfazione, va strappato via, va spento».
Nell'estate 1942 le deportazioni ai campi di sterminio iniziano ad avere un ritmo costante. La situazione si è fatta estremamente precaria: «In ogni momento possiamo essere spediti
in una baracca nel Drenthe». Sempre più ammira Spier che riesce, pur nel clima tesissimo, a ricevere in un giorno «sei pazienti, e passa ore intense con ciascuno; li apre e ne tira via il
pus, apre le sorgenti in cui Dio si nasconde a molti uomini, continua a lavorare con loro finché le acque scorrono nelle loro anime prosciugate». Le confessioni si accumulano sul suo tavolo di lavoro e quasi tutte si chiudono con un’invocazione di aiuto sempre soddisfatta. Ritiene applicabile a lui quanto la sera precedente, in bagno, ha letto di un prete: «Era un intermediario tra Dio e gli uomini. Le cose ordinarie non l'avevano potuto toccare. E proprio per questo capiva così bene la pena di tutti gli esseri in divenire». Ci sono giorni in cui Etty non riesce a seguirlo. Prova allora il desiderio che anche lui sia limitato, e dedito tutto e solo a lei. Si sente triste, non riesce più neanche a pregare, non vuole neppur bene a se stessa: «Tre cose che sono probabilmente connesse tra loro» e diventa «di colpo ombrosa come un mulo che, trovandosi su un sentiero roccioso, non vuol più fare un passo avanti».
Etty, mi disgusti Quando si sente «spenta nei suoi confronti» e non trova più
spazio per viverlo interiormente, si domanda di punto in bianco: «Forse le sue energie sono così consumate dalle tante persone che quotidianamente ne hanno bisogno, che per un po' deve prendere le distanze da me?». Si guarda: «Etty, mi disgusti: così egocentrica e così meschina». Probabilmente Spier sdrammatizzerebbe subito, se conoscesse i «sentimenti morti».
di Etty nei suoi confronti, e con tranquilla e seria obiettività
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direbbe: «In ogni relazione capitano dei momenti bassi, bisogna lasciare che passino, poi tutto va a posto di nuovo». Con giudizio severo continua: «E anche così stupido, in tempi che consumano ogni energia, sentirti infelice perché la tensione tra
te e un uomo si è allentata un pochino. Tu che non hai da fare la coda per ore. Ogni giorno ti trovi il cibo in tavola, è Kathe ad occuparsene. E la scrivania coi libri ti offre ospitalità ogni mattina. E l’uomo più importante della tua vita abita a poche strade da qui e non è ancora stato portato via».
La situazione si fa sempre più pesante. Ma «per umiliare
qualcuno si dev'essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato e soprattutto: chi si lascia umiliare», perché «se manca il secondo, se cioè la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria». E «restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni», ma senza oppressioni che generino angoscia: «Si deve insegnarlo agli ebrei», aggiunge. Si riferisce ai cartelli apparsi ovunque che vietano loro le strade per la campagna: «Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, proprio niente». Meglio, «possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, oppressi, col nostro odio e la nostra millanteria che maschera la paura». È naturale provare tristezza e abbattimento «e tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli: trovo bella la vita, e mi sento libera». E si abbandona a una
lunga esternazione che è primariamente una dichiarazione di fede: «I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave».
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Terapia d’urto per una nonviolenza attiva Nelle contingenze estreme Etty è convinta che occorra una terapia d’urto nei confronti di se stessi, «cominciando a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé». Pensa
che «lavorare a se stessi» non sia «una forma d’individualismo malaticcio». Ritiene che «una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso», ossia «se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile». Sente dentro un empito tale che potrebbe riempire molte pagine: solo una radicale nonviolenza attiva, fatta di pensieri e azioni e attese totalmente disarmate e operosamente volte a rapporti distesi e a costruzioni positive può aprire a un
futuro degno per l’intera famiglia umana, ché ogni altra categoria è parziale. «Quel pezzetto di eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra». La sua è una nonviolenza radicale, forse vissuta per la prima volta con tanta determinazione da una donna'. ‘ E il pensiero, e la memoria, vanno spontaneamente a un’altra vicenda, pure emblematica al riguardo, e molto significativa per la giovanissima età dei protagonisti, il loro livello culturale e la spontaneità della loro azione: la storia della Rosa bianca, piccolo gruppo di resistenza morale al nazismo animato da Hans e Sophie Scholl. Fratello e sorella, tedeschi di Ulm, stu-
denti universitari, per aver diffuso sei volantini antinazisti furono arrestati il 18 febbraio 1943 e decapitati quattro giorni dopo. Troppo presto si è chiusa la loro vita perché si siano potuti avere echi approfonditi della loro testimonianza dalla voce disarmata e dignitosissima della giovane Sophie (cf Una piccola luce, a cura di I. Aicher-Scholl, Milano 1995). In Austria, nello
stesso periodo, maturava la decisione di non indossare la divisa dell'esercito tedesco un eroico quanto solitario obiettore di coscienza, Franz làgerstàtter (1907-1943). Giovane contadino di Santa Radegonda, non lontano da Salisburgo e da Linz-ander-Donau, paese natale di Hitler, offriva una singolare lezione di coraggio e di spirito profetico. Solo contro tutti, per il suo irreversibile antinazismo, che aveva già dichiarato non accettando gli assegni familiari, cui aveva diritto per le tre figlie e, unico, una sovvenzione straordinaria agli agricoltori danneggiati dalla grandine, rifiutò l'arruolamento nelle truppe del Reich poiché considerava ingiusta la
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Etty ha una consapevolezza forte e precisa degli avvenimenti e vi risponde dall'interno con una ricchezza di umanità e di compassione — nella valenza etico-religiosa più profonda del termine — da offrire una testimonianza insuperabile e probabilmente insuperata. Cronista fedele di cose minimali e di eventi grandi, coglie le infinite sfumature del dolore, ma senza odio
o rivolta.
Ognuno,
in quel meccanismo
infernale,
si
guarda e si giudica da solo: per farlo basta un gesto, uno sguardo, una parola. Sommessamente, quasi dolcemente, in quella fine di giugno Etty inizia il cammino di una volontaria, inconsapevole ascesi,
che la porterà di tappa in tappa, verso un dono pieno di se stessa, fino all'offerta della vita per essere solidale con il suo popolo. È una domenica mattina: «Ho accanto la mia colazione: un bicchiere di latticello, due fette imburrate di pane bigio con cocomero e pomodoro. Ho rinunciato al bicchiere di cioccolata che mi concedevo sempre, un po’ di soppiatto», nei giorni festivi. «Voglio abituarmi a questa colazione più monacale che mi aiuta a raggiungere i miei “appetiti” nei luoghi più nascosti, e a sradicarli via», perché «è meglio così». «Dobbiamo imparare ad affrancarci sempre più dalle necessità fisiche, dobbiamo abituare il nostro corpo a chiederci solo l'indispensabile». Tre pigne mi accompagneranno in Polonia
Con una venatura di tristezza scrive: «E così non rivedremo più una brughiera per molto tempo: qualche rara volta sento questi divieti come una privazione opprimente, ma in genere
so che il cielo tutt'intero si stende sopra di noi, sopra l’unica, guerra. Testimone dell’assoluto primato della coscienza, e del dettato evangelico che nega ogni legittimità a qualsiasi forma di odio, affermò fino all'ultimo la gioia di essere uomo senza tradire le proprie convinzioni. Processato dalla Wermacht e condannato a morte, fu ghigliottinato a Berlino il 9 agosto 1943.
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stretta strada che ci è ancora consentito percorrere». Di più, «le tre pigne mi accompagneranno, se necessario, fino in Polonia»: preveggenza, o solo il lucido presentimento di un destino divenuto ineludibile? Non l’abbandona un fine senso di umorismo: «Santo cielo, questa scrivania somiglia proprio al mondo nel primo giorno della creazione!». Si diverte a descriverla: «A parte gli esotici gigli giapponesi, il geranio, le rose tee appassite, le pigne diventate reliquie, e una ragazza marocchina dallo sguardo animalesco e limpido, ci sono in giro sant Agostino e la Bibbia e le grammatiche russe e i dizionari e Rilke e innumerevoli piccoli taccuini, una bottiglia di surrogato di limone,
carta per scrivere a macchina,
carta copiativa, Rilke,
cioè ancora una raccolta, e Jùng. E tutto questo è solo ciò che si trova in giro al momento». Una mattina, mentre era nel suo
letto, e rideva a più non posso in preda a una sorta di follia infantile, immagina la casa di Spier, e di sopra al cassettone il viso di Hertha, che le sorride con «un sorriso che per me dura già da sedici mesi». Osserva il letto del suo amante preparato per la notte e pensa con rabbia e tristezza e con senso di solitudine: «Già, il letto colorato è per quella noiosissima signorina dal sorriso senza vita. Se lui potesse leggere questi sfoghi di donna offesa, probabilmente farebbe tremare le pareti dal ridere». Si sente ingiusta nei confronti di Hertha e subito si domanda che cosa sia la sua vita a Londra. «A volte me lo chiedo mentre arrivo in bicicletta nella sua strada silenziosa, e vedo lonta-
no la sua figura che fa cenno con impazienza, e intanto si sporge sopra il geranio che coi suoi lunghi gambi si dissangua sopra il davanzale». E pensa di salire di corsa i gradini di pietra e di entrare nelle sue due camerette: le appare allora come «scolpito nella pietra grigia di una roccia che esisteva già il terzo giorno della creazione». Mentre altre volte le sembra «bonario e goffo come un orso impacciato, e caro, così caro come Pat
non avrei mai pensato fosse possibile a un uomo senza essere noioso e effeminato». A volte è un pensiero improvviso a modellare i suoi tratti, che divengono tesi «come vele al vento» e lui dice: «Stia un po’ a sentire...» e poi le comunica di solito novità istruttive. «E sempre ci sono le sue grandi mani, a trasmettere un calore e una tenerezza che non nascono dal corpo, ma dall'anima». Prova commiserazione per quella che attende di divenire moglie di Spier: «Povera Hertha, lì a Londra. Sono io a prendermi la maggior parte di ciò che le nostre vite hanno in comune», anzi, pensa che in futuro potrebbe spiegarle molte cose di lui: «Cose imparate attraverso il dolore, che mi ha anche insegnato che si deve poter condividere il suo amore con tutta la creazione, con il cosmo intero». Le dice: «C'è una don-
na ad Amsterdam che prega tutte le sere per te, e questo è veramente grande da parte sua, perché, subito dopo Dio, vuol bene a lui, con un amore che è il primo e l’ultimo della sua vita». E continua: «Sono contenta che ci sia qualcuno che preghi per te, in questo modo la tua vita è protetta, né io sarei in grado di farlo, per ora. Io non sono veramente grande, tranne che forse in qualche raro momento illuminato, ma per il resto sono carica di tutti i vizi che appesantiscono il cammino dell’uomo nel suo viaggio verso il cielo», a partire da invidia e riluttanza. Fortunatamente pensa di conoscere «le poche cose grandi che contano nella vita, e forse arriverà quella sera in cui pregherò per te, libera da qualsiasi pensiero recondito e meschino, e dalla gelosia». Con un eccezionale intuizione del valore della preghiera, del suo infrangere atmosfere e superare distanze, scrive: «E quella sera ti sentirai di colpo così bene e riconciliata con la vita come non lo eri stata da tempo, e tu stessa non capirai da dove ti venga quel sentimento. Ma io non
sono ancora arrivata a questo punto».
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I responsabili siamo noi!
Il tono talvolta si fa più leggero, come quando descrive con estrema vivacità l’amica LiesP, «talvolta un piccolo elfo, una spe-
cie di bagnante al chiaro di luna di calde notti estive». E qualche volta manda fuori dei piccoli sospiri che vengono proprio dal profondo, e tremolano dai piedi alla testa per quel corpo magrolino». Sembra quasi una descrizione autobiografica: «È come rivestita di timidezza e di castità, anche se i fatti della sua vita
potrebbero non sembrare così casti». Assomma a questo «un che di robusto, una specie di forza primordiale della natura». La situazione si fa pesantissima. «Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui. So quel che ci può ancora succedere».
Non può raggiungere i genitori, distanti
due ore di viaggio, ma sa che sono circondati da persone «ben disposte verso di loro», ed essi sanno dove lei è. Ma s’avvicina il tempo in cui non saprà più niente di loro. Ormai «le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall'Olanda in Polonia, passando per il Drenthe». Dai notiziari di Radio Londra apprende che dall’aprile 1942 sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. «Se rimarremo vivi,
queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre. Eppure non riesco a trovare assurda la vita». Pensa
pure che «nemmeno Dio è responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! ». Ci ritroviamo stupiti e commossi di fronte alle sue affermazioni, scritte nel vortice di una immane tragedia. «Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future. Eppure
trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto». Il 1° luglio scrive che il suo spirito è riuscito ad accettare tutti gli 5 Liesl e Werner Levie erano entrambi amicissimi di Etty. Il marito, direttore teatrale, aveva
dovuto lasciare la Germania e morì negli ultimi giorni del conflitto. Liesl e le loro due figlie . sopravvissero e si trasferirono in Israele.
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avvenimenti degli ultimi giorni, le voci distruttive che giungono dalla Polonia, dove «sembra che la strage sia al colmo». Ma è duro incassare colpi così e le pare che il suo corpo si sia «sfasciato in mille pezzi, ognuno dei quali ha un dolore diverso». Neppure un anno prima aveva tante volte pregato: «Signore, rendimi un po’ più semplice. E se quest'anno mi ha portato qualcosa, è stata proprio questa maggiore semplicità interiore».
Intanto non può più muovere «né le membra del corpo né i pensieri del cervello», tanto è debilitata, anche per il fatto che
certe volte la sua giornata «è fatta di cento giornate diverse». Sempre quel lunghissimo primo luglio al mattino «alle sette — annota — ho passato un momento di un’irrequietezza e di un nervosismo infernali per tutte queste nuove ordinanze». Lo va-
luta un bene però, perché in tal modo può rendersi conto della paura degli altri; alle otto comunque era «di nuovo la tranquillità in persona». Durante il giorno è quasi fiera, pur sentendosi distrutta, di poter ancora dare lezione di conversazione russa per un'ora e mezzo: «E stasera sarà ancora un altro giorno, verrà un’altra persona con problemi, una ragazza cattolica. Il fatto di potere oggi, come ebrea, aiutare una persona non ebrea, dà una singolare sensazione di forza». La concentrazione degli eventi fa come dilatare il tempo; al pomeriggio prende il sole in veranda, mentre un vento lieve «fa fremere il gelsomino»: «Vedi dunque, un altro giorno è appena cominciato; quanti ne sono trascorsi da stamattina alle sette?». Fra dieci minuti, sulla biciclet-
ta ancora permessa, andrà da Spier: egli è entrato nella sua vita da sedici mesi e le sembra di conoscerlo «da mille anni», anche
se a volte lo coglie in una luce così nuova da mozzarle il fiato. Il suo pensiero corre alla domanda di senso. E galoppa presso chi avrebbe bisogno di una presenza amica. «La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Cioè: si può soffrire in modo degno, o indegno dell’uomo. Voglio dire: la mag80
gior parte degli occidentali non capisce l’arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure». Viviamo ogni giorno una vita intera
La vita al momento è per molti solo calvario, «non più vera vita, fatta com'è di paura, rassegnazione, amarezza, odio, di-
sperazione». Sempre, ma più ancora in queste circostanze, a Etty sembra logico che si accetti la morte come parte della vita. Si sente quotidianamente in Polonia, «su campi diventati
verdi di veleno: sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi» e «anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la finestra», dal momento che nella vita «c'è spazio per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine». Continua
la sua riflessione esistenziale con l’affermare che «si deve anche avere la forza di soffrire da soli, e di non pesare sugli altri con le proprie paure e con i propri fardelli. Lo dobbiamo ancora imparare e ci si dovrebbe reciprocamente educare a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con la severità». Quando dice che, in un modo o in un altro, ha già chiuso i conti con la vita, e non per rassegnazione, viene sempre fraintesa. Spiega:
«Voglio dire che la possibilità della morte si è perfettamente integrata nella mia vita, questa è come resa più ampia da quella». Continuando a riflettere sulla sofferenza 0, forse meglio,
sul mysterium iniquitatis, scrive: «Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell’altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta». Sente ormai vicino il momento in cui sarà «messa di fronte alle estreme conseguenze» del suo essere parte del popolo ebraico. A volte deve quasi chinare il capo sotto il gran peso che avverte alla nuca, e allora sente il «bisogno di congiungere le mani, quasi in un gesto automatico» e così potrebbe star seduta per ore. Nello stesso tempo è «certa che la vita è bellissima, degna di essere vissuta e ricca di significato». Davvero «malgrado 81
tutto». «Il che — aggiunge subito — non vuol dire che uno sia sempre nello stato d’animo più elevato e pieno di fede. Si può essere stanchi come cani dopo aver fatto una lunga camminata o una lunga coda, ma anche questo fa parte della vita, e dentro di te c'è qualcosa che non ti abbandonerà mai più». >» Si fa strada la coscienza della fine che si profila a un orizzonte sempre più vicino. È la sera del 3 luglio. Scrive: «Dobbiamo trovare posto per una nuova certezza: vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna
illusione al riguardo, dobbiamo accettare la realtà per continuare a vivere». È la prima volta che un grande scoraggiamento l’assale, e sa che anche con esso, d’ora in poi, dovrà fare i
conti: «E se dobbiamo andare all’inferno — si augura —, che sia con la maggior grazia possibile! ». Etty è originalissima, pure in un momento drammatico. Anche se, sdrammatizza subito, può individuare la causa del suo vedere nero in «una vescica al piede a forza di camminare
per la città così calda», perché ha,
come molti altri, le estremità distrutte da quando agli ebrei è stato proibito di salire sul tram. Ci sono difficoltà per tante ragioni, riconducibili a una sola: la «gran campagna che è in atto per sterminarci».
Tutto le pare grottesco e inconcepibile, come il fatto che Spier non possa più visitare la casa col suo pianoforte e i libri o che lei non possa più andare da Tide. Torna ad affermare per l'ennesima volta che la vita è bella e ricca di significato, ma non ha più il coraggio di dirlo. «La vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme». Prova timore, imbarazzo, incapacità di comunicare questa percezione. Si
augura che qualcuno lo faccia in seguito al posto suo, così «continuerà la mia vita dov’essa è rimasta interrotta».
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Vergine nei confronti della morte
Tanti stati d’animo si succedono in lei, e a volte preferisce «lasciar riposare la testa, e attendere». Poi guarda in faccia la fine, «già cominciata nei piccoli fatti quotidiani». Non è amareggiata o in rivolta: «Continuo indisturbata a crescere, di giorno in giorno, pur avendo questa possibilità davanti agli occhi». Si sofferma a meditare sul senso dell’esistenza umana: «Sembra quasi un paradosso: se si esclude la morte non si ha mai una vita completa; e se la si accetta nella propria vita, si amplia e si arricchisce quest’ultima». È la prima volta che la incontra direttamente: «Non ho mai saputo bene come comportarmi con la morte. Non ho mai saputo bene come comportarmi con lei, sono vergine nei suoi confronti. Non ho mai visto una persona morta». Giudica strano di essere arrivata a ventotto anni e, «in
questo mondo disseminato di milioni di cadaveri», non averne ancora visto uno. Ma ora la morte, «grande, semplice e naturale» è entrata in punta di piedi a far parte della sua vita e sa che essa vi appartiene. Quel 3 luglio, per far fronte a un grande scoraggiamento, passa da Spier, e lì rimane per un momento tra le sue braccia. È convinta che «incominci una fase nuova,
ancora più seria, intensa, e concentrata sulle cose essenziali. Ogni giorno ci si libera di qualche piccolezza». In una lettera a Julius Spier, scritta con molta probabilità nel luglio 1942, troviamo un passaggio di rarissima intensità e bellezza, quasi una sintesi autobiografica di fronte alla quale ogni commento risulta se non deturpante, almeno superfluo: «Delle cose ultime, essenziali della vita e del dolore non si può parlare, la voce non ce la fa. Io comprendo tutto di te e tutto ciò che ti riguarda io lo porto con me e ho ringraziato di nuovo Dio per il fatto che nella mia vita esiste un uomo come te. Uno dei pochi a essere una dimora autentica per un po’ di vita, un po’ di dolore, un po’ di Dio — i più infatti hanno tradito da tempo sia la vita che il dolore e Dio, per essi sono ormai soltanto 83
suoni vuoti — ha il sacro dovere di mantenere, nel migliore dei modi possibili, il suo corpo, la sua “dimora terrena” in buono stato, per poter offrire a Dio ospitalità il più a lungo possibile. Manca ancora molto tempo alla fine. Anch'io mi occuperò di te. Ho così tanta forza, che tu puoi prendertela tutta e in me nasceranno nuove energie. Ti ho così infinitamente caro, la tua anima è così infinitamente cara alla mia. La mia anima di quan-
do in quando vorrebbe giacere accanto alla tua, e questo a poco a poco non ha più nulla a che vedere con il desiderio che una donna può provare per un uomo. A volte vorrei distendere il mio corpo nudo, così come Dio l’ha creato accanto al tuo corpo nudo, così come Dio ti ha creato, e ho soltanto la sensazione
che la mia anima voglia coricarsi accanto alla tua. Se in questo periodo non si scoppia di tristezza, né dall’altro lato per autodifesa ci si indurisce e si diventa cinici o rassegnati, allora si diventa più dolci, più miti, più disperati, più comprensivi, più innamorati. Io so come tutto questo stia accadendo dentro di te e tu mi hai portata con te sul tuo cammino. La mia autenti-
cità e il mio amore hanno mille anni e ogni giorno invecchiano di mille anni»°. Il soldato tedesco kasher, un’uniforme con il volto
Non può dimenticare «quel soldato tedesco kasher' che si trovava al chiosco col suo sacco di carote e cavolfiori», che aveva
messo un biglietto in mano a Liesl: «Gli ricordava tanto la figlia di un rabbino che lui aveva potuto assistere giorno e notte, sul suo letto di morte. E stasera è andato a farle visita». Quando l’amica gliel'ha raccontato, scrive, «ho capito all’istante che stasera avrei dovuto pregare anche per quel soldato tedesco. iei da N. NERI, Etty Hillesum: paradigma vivente di femminilità integrale, in «AlfaZeta» 60 1996) 41. Kasher: in ebraico “ritualmente puro”, retta e stimata.
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riferito al cibo, ma nell'uso comune detto di persona
Una delle tante uniformi ha ora un volto». Pensa che troverà ancora altri volti su cui «poter leggere e capire qualcosa. E questo soldato tedesco soffre anche lui». Riflette che «non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall'altra e si deve pregare per tutti». Si ascolta: «Mi sembra che in me si compiano grandi cambiamenti e credo che siano qualcosa di più che semplici stati d'animo». Il suo corpo è divenuto «ricettacolo di molti dolori», custoditi in tutti gli angoli, che ora qua ora là sì fanno sentire, ma si è «riconciliata an-
che con loro», tanto da essere stupita di quanto riesca a lavorare e a CONCENtTATrSI. Ma un improvviso timore l’assale: «La forza spirituale non
basterà, se la nostra situazione dovesse aggravarsi». Tornando a casa con Spier, mano nella mano, improvvisamente sopraffatta dalla stanchezza, si rende conto «con sconcerto che in que-
sta città dalle lunghe vie non [potrei] sedermi in un tram, o sostare per un momento in un caffè all'aperto», ma solo raccontare molte cose di tanti locali frequentati in passato. L’armatura interiore
Allora non solo pensa, ma sente «che gli uomini si sono stancati e si sono rotti i piedi su questa terra di Dio per secoli e secoli, nel freddo e nel caldo», mentre «un barlume di eternità filtra
sempre più nelle mie più piccole azioni e percezioni quotidiane». Si lascia quasi accogliere dalla storia: «Io non sono più sola nella mia stanchezza malattia tristezza o paura, ma sono insieme con milioni di persone, di tanti secoli. Così la vita diventa un insieme compiuto». Poiché «si fa veramente assurda, non appena se ne accetta o rifiuta una parte a piacere, proprio per-
ché perde allora ria». Anche ora, gratitudine. Una un terribile mal
la sua globalità e diventa tutta quanta arbitrauna piccola cosa bella e inattesa la riempie di passeggiata di due ore l’ha resa esausta e con di testa. Ciò le fa prendere coscienza che nel 85
alga
suo non voler pesare sugli altri, e voler sempre essere come tutti nelle passeggiate, nei festeggiamenti come nelle ore piccole, c'è «quella paura infantile di perdere un po’ dell'amore degli altri, se non ci si adegua!». Scopre anche e riconosce che uno dei suoi complessi d’inferiorità ha lì la sua origine. Ora sa che «riconoscere le proprie debolezze non significa lamentarsene» e accetta i propri limiti. Diventa chiara la lunga fatica per un approdo di semplicità, mentre gioisce di questo passo ulteriore. Riconosce con amarezza e giudica con severità il disimpegno per una società più equa: molti di coloro che s'indignano per certe ingiustizie, a ben guardare, lo fanno «solo perché quelle ingiustizie toccano proprio a loro: quindi non è un’indignazione veramente radicata e profonda», perché non hanno fatto nulla per evitarle a tutti. Etty si sente debilitata: «In un campo di lavoro so che morirei in tre giorni». Tuttavia anche allora: «Mi coricherei, morirei, eppure non troverei ingiusta la
vita». Per quale misteriosa risorsa interiore può fare simili affermazioni, nello stile dell'ultimo Giobbe? Se lo chiedono i lettori dei suoi scritti, ebrei, cristiani, di altre fedi, non credenti. Una
forza primordiale e propriamente umana, che ciascuno porta in sé come un germe, ma che talvolta non lascia sviluppare? Uscendo dalla farmacia dov'è andata a comprare un dentifricio, si vede puntare contro un indice e con tono accusatorio chiedere se ha l'autorizzazione per farlo. Risponde timida e insieme decisa, con la gentilezza di sempre. Non sa essere «tagliente», ma si ritrova del tutto indifesa di fronte «alla gentaglia di strada» e si stupisce che ci si possa comportare così. Teme che si tratti di «uno di quegli idealisti che a suo tempo coopereranno a epurare la società dagli elementi ebraici». Non prova alcun interesse a fare la figura della persona coraggiosa «di fronte a questo o a quel persecutore»: «Ho la mia forza interiore e questo mi basta, il resto è irrilevante». 86
Come non ricordare a questo proposito «l’armatura interiore», di cui parla Liana Millu*, deportata anch’essa a Birkenau? Armatura di una fede, religiosa, politica, o laica, che fu neces-
saria per sopravvivere nei luoghi dell’empietà sterminatrice. Racconta la giornalista e scrittrice: «Parlo spesso, e sempre con insistenza, sulla contaminazione — lenta, inavvertita, quasi paragonabile all’azione del fumo passivo — che agisce sugli animi quando la violenza riesce a creare un habitat dove appare non più un fatto orrendo ma naturale, inevitabile, addirittura meri-
torio. Per dar corpo alle parole confesso di una lontana sera in cui, come numero 5384 A, provai la furia che si scatena verso
l’altro e vuole atterrare e coprire di colpi, vedere il sangue, la furia omicida che era — allora — l'essenza dei lager che agisce ancora nel nostro
tempo, per le nostre strade. Il movente
di
quella sera? Era arrivato un treno di donne greche. Non capivano, perché nuove e per questo antipatiche. Avevo rinunciato ad andare a lavarmi le mani e raggiunsi il mio chiamiamolo letto e mi coricai. Una ragazza greca vi si appoggiò con il gomi-
to. Tanto bastò per respingerla con furia omicida, la stessa che avevo già visto tante volte intorno a me. Per grazia di Dio o per fortuna, non so, ebbi un lampo di coscienza: mi vidi e mi sentii: “Io voglio rimanere umana!”. Non mi misi a piangere, non
andai a chiederle scusa. Solo feci una promessa a me stessa: farmi un’armatura morale, come unica difesa. È stata questa una delle grandi lezioni che ho imparato nel lager»”.
8 Liana Millu, nata a Pisa, vive
a Genova da oltre cinquant'anni. Nel 1945 scrive Il fumo di
Birkenau, racconti su vita e morte di donne sue compagne di lager, tradotto negli Stati Uniti, in Francia, Olanda, Norvegia e, recentemente, in Germania, dove ha riscosso un inatteso suc-
cesso di critica e di pubblico. Dopo un lungo intervallo dedicato al giornalismo e all’insegnamento, dà alle stampe Iponti di Schwerin, romanzo a sfondo autobiografico, finalista al Premio Viareggio 1978. Collabora al libro-documento Dalla Liguria ai campi di sterminio, un volto del suo impegno civile per passare il testimone della memoria ai giovani. Nel 1989 pubblica il libro di racconti La camicia di Josepha. È brillante e ricercata conferenziera. ® Da un colloquio avuto a Genova con la Scrittrice il 24 aprile 1998.
87 aI
Alle spalle una vita sregolata L’ineluttabile avvicinarsi di separazioni getta Etty nella tristezza. E prima già sente tutta la fatica in piccole separazioni ri-
chieste, come quella dalla quiete e dalla solitudine così utili per la lettura o lo studio. «Oh, lasciar completamente libera una persona che si ama, lasciarla del tutto libera di fare la sua vita, è la cosa più difficile che ci sia. La sto imparando per lui», Spier, che ora ha bisogno del medico. Decide di accompagnarlo e poi di ritirarsi a riposare nello spazio del suo silenzio interiore, a cui chiede «ospitalità per un giorno intero». Fuori splende il sole e c'è un tripudio di cinguettii, nella sua camera il clima è già così pieno di raccoglimento che ci potrebbe pregare: «Abbiamo avuto entrambi una vita molto libera, lui con le donne, io con gli uomini, e ciò nonostante lui era seduto col
suo pigiama celeste al bordo del mio letto: abbiamo parlato un pochino, poi era via di nuovo».
Continua a esaminare i loro
trascorsi: «Alle nostre spalle c'è una vita libera e sregolata di amori trascorsi in molti letti altrui, eppure siamo capaci di essere timidi ogni volta». Trova bello che sia così e se ne rallegra. Indossa la vestaglia colorata e scende al piano inferiore a leggere la Bibbia con lui. Poi si ritirerà «in un angolino di quella gran sala silenziosa» che è dentro di lei, per soffermarsi a lungo, «accoccolata come un Buddha e anche col suo sorriso». La coscienza della sua radicazione ebraica emerge con forza. «Erano un buon nutrimento a digiuno, quei pochi Salmi che ormai fanno parte della nostra vita quotidiana». «Ho nell’anima tanta calma e dolcezza, e un senso di appagamento che
riposa in Dio. Che forza primordiale vien fuori dall’Antico Testamento e che radice “popolare” anche». Nelle sue pagine si stagliano figure forti e poetiche. «Un libro davvero avvincente, aspro e tenero, ingenuo e saggio, interessante non solo per ciò
che dice, ma anche perché permette di conoscere chi lo dice». Alla sera rivede la giornata come «un dono pieno di consola88
zione». Ogni sua fase «faceva impallidire quelle che l'avevano preceduta». Nei giorni seguenti sente che, se ognuno ha dei desideri, è giunto il momento per cominciare a congedarsi da essi. Così consiglia a Han, che non sa che cosa scrivere a un’a-
mica per il suo compleanno: «Devi cercare fin d’ora di riconciliarla con la vita, devi fornirle dei punti d'appoggio per la sua vita futura». Tra loro «ormai si tratta semplicemente di essere buoni l’uno verso l’altro, con tutta la bontà di cui siamo capaci. E ogni riunione è anche un addio». Mentre il suo essere «si sta trasformando in un’unica grande preghiera per lui. E perché solo per lui? Perché non anche per gli altri?» Il mostro è dentro di noi
Sa che nei campi di lavoro ci vanno anche le sedicenni e ritiene doveroso che i più anziani debbano cercare di proteggerle. Ma «il peggio verrà quando non mi sarà più concesso di tenere
matita e carta per chiarirmi le idee di tanto in tanto». Decide di far ordine nelle sue carte e di dire addio ogni giorno. Tuttavia
si trova in un singolare stato d’animo, «così stranamente felice»: sente «crescere dentro dolcezza e fiducia, di giorno in giorno». Si domanda il perché i pesi che la opprimono non la portino all’alienazione mentale e trova risposta nella «coscienza del bene che c’è stato nella vita, anche nella mia vita», che
«non è stata soppiantata da tutte queste altre cose, anzi diventa sempre più parte di me». Se sapesse con certezza, scrive, di dover morire la settimana prossima, potrebbe rimanere a studiare alla sua scrivania per tutto il tempo, «nella massima tranquillità di spirito e senza che questo sia una fuga», perché ora sa che «la vita e la morte sono significativamente legate tra loro». Allora «sarà uno scivolare dall’una nell’altra, anche se la
fine potrà essere triste o persino orribile, nella sua forma esteriore». Intanto la «distruzione si avvicina furtivamente da ogni 89 px
parte, presto il cerchio intorno a noi sarà chiuso e nessuna per-
sona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare». Una molteplicità di sentimenti contrastanti si raggrumano in lei. Il tempo s'è fatto freddo e piovoso e, scrive Etty, «anche l’ultima notte che ho passato con Han era sul filo del confine fra caldo e freddo». Appoggiati alla finestra aperta parlavano dei gravi problemi in gioco, e «il suo viso era così stravolto che ho pensato: “Questa notte piangeremo abbracciati”. Abbracciati ci siamo, ma non abbiamo pianto. Solo nell’estasi della fine, mentre il suo corpo era steso sul mio, sono stata improvvisamente sopraffatta da un’ondata di tristezza che era profondamente umana, e poi da un sentimento di compassione per me e per
tutti, e poi ancora mi pareva che tutto fosse come doveva essere». Così «nel buio ho potuto nascondere la mia testa fra le sue spalle nude e ho assaporato le mie lacrime da sola. E poi, di colpo, ho dovuto pensare a quella torta della signora W. oggi pomeriggio e allo strato di fragole che la ricopriva, e m’è venuto da ridere fra me e me, quasi con allegria». A questo punto posa la penna per mettersi a preparare il pranzo. A poca distanza, nella stessa Amsterdam, il 6 luglio Otto Frank insieme alla famiglia e ad alcuni amici si rinchiude in un alloggio segreto. Là in segregazione matura Anna, che il 15 luglio 1944 — poche settimane prima dell’irruzione della Gestapo e dell’internamento a Westerbork, ad Auschwitz e infine a Ber-
gen-Belsen — ancora rifiuta di «costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione». E scrivendo nel Diario,
al quale aveva confidato e affidato esperienze, emozioni e angosce, professa la sua fiducia: «Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l'avvicinarsi di un rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace, la serenità». Intanto
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ritiene suo dovere «conservare intatti» i suoi ideali, nell’esile
speranza che diventino ancora attuabili. Ciò che distanzia invece Etty da Anna è il suo testimoniare narrando dall'interno dell'esperienza concentrazionaria. E più ancora è la convinzione
che il mostro
della crudeltà, se non
viene continuamente ammansito, è in agguato dentro ciascuno
di noi. Gli studi più recenti lo confermano, descrivendo i nazisti come persone comuni. La Hillesum ha intuito, già mentre viveva gli orrori assurdi del campo, l’importanza della memoria: per questo ha scritto al massimo delle sue forze, con l’evidente intenzionalità di essere «cuore pensante» anche del tempo che l’avrebbe seguita, il nostro, appunto.
91 epianti
V
1942: Sposo il destino del mio popolo
C'è aria di partenze e di distacchi. Ed è ora di «rinunciare a tutto per poter fare in un giorno le migliaia di piccole cose che vanno
fatte per gli altri, senza smarrirsi». L'amico Wer-
ner dice che non vale più la pena di traslocare, il piccolo Weyl si guarda le gambe smagrite e pensa alle mutande lunghe che non può più comprare; si augura almeno che siano tutti nello stesso scompartimento del treno. Nell’ordinanza è scritto anche che si partirà all'una e mezzo di notte, che il viaggio in treno sarà gratis e che non si possono portare ani-
mali domestici. Bisogna invece «portarsi le scarpe da lavoro e due paia di calze e un cucchiaio, ma niente oro e argento e platino, quello no, sì invece la fede, commovente, quella si può ancora
tenere», annota con accorata ironia.
«E così, ec-
coci alla nostra “ora amara”. Spera che ogni volto, ogni immagine, i mille dettagli che vive quotidianamente restino fissati nella memoria, per potere «più in là», raccontarne qualcosa. Nella stanchezza e nella sofferenza le rimane una gioia, «la gioia dell’artista nell'osservare le cose, e nel trasformarle nel suo spirito in un'immagine sua». Già si vede nel campo: «Leggerò l’ultima espressione sul viso dei moribondi, con partecipazione, e la conserverò». Intanto soffre con coloro coi quali parla ogni sera, «e che la prossima settimana lavoreranno in un luogo minacciato di questa terra». Desidera diventare una scrittrice. Spera di ricordare tutto di questo periodo per potersene più tardi far voce, «perché tutto è ben di-
CAROTA CARRI DL
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verso da quel che si legge nei libri, molto diverso». Senza saperlo, anche Simone Weil condivideva la sua tesi. E registra in se stessa «ogni piccolo gesto, parola, espressione del loro volto, con una concretezza quasi fredda e oggettiva» e ne prova «un piacere singolare». Dice senza mezzi termini:
«Ho la disposizione dell’artista e credo che più tardi, quando sentirò la necessità di raccontare
tutto, avrò anche ab-
bastanza talento per farlo». Semplici e senza parole come il grano che cresce La maggior parte delle persone, scrive, ha opinioni stereotipate; ma è tempo di liberarsi intimamente di tutto, «di ogni idea esistente, parola d’ordine, sicurezza, ogni norma
e ap-
piglio convenzionale», per «osare il gran salto nel cosmo, e allora, allora sì che la vita diventa infinitamente ricca e abbon-
dante, anche nei suoi profondi dolori». Ha un incubo premonitore: nella notte ha sognato che doveva preparare la valigia e che non riusciva a stipare in una valigia e uno zaino tutto il cibo e la biancheria per tre giorni. Vorrebbe portare con sé anche la Bibbia e, se possibile, lo Stundenbuch (Libro delle ore), i
Briefe an einen jungen Dichter (Lettere a un giovane poeta) di Rilke, oltre ai vocabolarietti russi e all’Idiota, per non perdere l'esercizio della lingua. Immagina la sorpresa all’ingresso nel campo se dovesse dichiarare di essere insegnante di russo: «Sarà un caso unico e le conseguenze non si possono prevedere facilmente». Alla sera, quando «mette un coperchio sul chiasso di questa giornata» si sente concentrata e in pace: «Sto qui seduta alla mia scrivania, così “vergine” e appena nata, così disposta a studiare,
come
se nel mondo
non
succedesse
niente». Probabilmente la prossima settimana «tutti gli olandesi saranno chiamati al controllo», e «di minuto in minuto desideri, necessità e legami si staccano da me, sono pronta a
tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà». 94
Anzi, diversamente da Elie Wiesel', che s’interroga sul silenzio di Dio di fronte alla Shoah, aggiunge: «Sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato, e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così, ora». È istintivo chiedersi: si può vivere in pace all'inferno? Proprio nel vortice di una situazione fattasi per altri aspetti incontrollabile, Etty paradossalmente scrive: «È come se in ogni momento altri pesi mi cadano di dosso, come se tutti i confini che oggi ci sono tra persone e popoli non esistano più; in certi momenti è proprio come se la vita mi fosse divenuta trasparente e
così anche il cuore umano, e io vedo e vedo e capisco sempre di più; e dentro di me sono sempre, sempre più in pace, e c’è in
me una fiducia in Dio che in un primo tempo quasi mi spaventava per la sua crescita veloce, ma che sempre più diventa parte di me». Il suo cammino
interiore fa passi da gigante, per un
inedito sentiero: «E parole come Dio e Morte e Dolore e Eter-
nità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade». Si chiede se è abbastanza matura per desiderare di andare nel campo, per poter essere di appoggio alle ragazzine adolescenti che vi sono internate. Vorrebbe essere là «per rassicurare i genitori rimasti indietro: non siate inquieti,
io vigilerò sui vostri figli». Il suo desiderio fiorisce su un «sentimento intatto e gioioso, in cui sono compresi tutti i dolori e tutte le passioni». Mette a confronto Hitler, Ivan il Terribile, rassegnazione,
peste, guerre e terremoti, carestia. Di fronte a tutto, «quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta e risolve il dolore, ' Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, nasce a Sighet (Transilvania) nel 1928. Depor-
tato a 16 anni, nel 1944 è internato con suo padre ad Auschwitz. Poi si stabilisce in Francia,
dove lavora come giornalista. Ora vive a New York. È autore di vari libri, tra cui il capolavoro La notte, il dramma Il processo di Shamgorod, le raccolte di racconti L’ebreo errante e Il testamento di un poeta ebreo assassinato.
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e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima». Le rispunta in cuore una certezza: «Più tardi, se sarò so-
pravvissuta a tutto quanto, scriverò delle piccole storie su questo tempo, e saranno come rade pennellate su un ampio, muto sfondo fatto da Dio, Vita, Morte, Dolore, Eternità». Ora le molte preoccupazioni assalgono come parassiti, ma occorre reagire
scrollandole di dosso. Sta «percorrendo la vita come se si portasse dentro una lastra fotografica che registra esattamente tutto, fin nei minimi dettagli». Alla fine di un giorno pesantissimo, annota: «Ma ogni volta so ritrovare me stessa in una pre-
ghiera, e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più ristretto. E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più come cosa mia
quel pezzetto di destino che sono in grado di sopportare: con quel fagottino già cammino per le strade». È 111 luglio 1942. Uno scenario tristissimo copre l'Europa. «Su tutta la superficie
terrestre si sta estendendo piano piano un unico grande campo di prigionia». Gli ebrei «dicono che in Germania li murano vivi o li sterminano con i gas velenosi». Non le pare «granché saggio raccontarsi cose simili». Se Dio non mi aiuterà più, io aiuterò Dio Con uno stacco totale, scrive: «E se Dio non mi aiuterà più,
allora sarò io ad aiutare Dio». Davvero solo un mistico può uscire in simili espressioni, di una freschezza cristallina. «Non mi preoccupo mai per il domani», aggiunge. E nota che la pace interiore le viene dalla constatazione che il suo cuore non s'inaridisce per l'amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e anche di disperazione le lasciano «tracce positive», rendendo-
la «più forte». Poi passa minutamente in rassegna ciò che farebbe se il foglio di partenza per la Germania le fosse recapitato l'indomani: dal farsi tagliare i capelli molto corti al buttar via il rossetto e farsi fare pantaloni e giacchetta con un mantello di 96
stoffa pesante, dal preparare lo zaino senza dimenticare la Bibbia e qualche libro. Poi «queste due mani vengono con me, con le loro dita espressive che sono come giovani rami robusti. Spesso saranno congiunte in una preghiera e mi proteggeranno;
e staranno con me fino alla fine. E così questi grandi occhi scuri col loro sguardo buono dolce indagatore. E se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti, allora tutta la vita del mio
| Spirito potrà concentrarsi negli occhi». Vorrebbe vedere i suoi genitori e dire loro molte «cose consolanti» di lei «e ogni minuto libero vorrei scrivere a lui»; a volte le «sembra di morire già adesso» quando pensa all'uomo che dovrà lasciare senza averne più alcuna notizia. Prova a sognare a occhi aperti: «Perché non potremmo rimanere insieme?». Altre volte pensa che «forse è
più facile pregare da lontano che veder soffrire da vicino» e che, «in questo mondo sconvolto, le comunicazioni dirette tra due persone passano ormai solo per l’anima», perché esteriormente si è scaraventati lontano, e i sentieri che li collegano vengono sepolti sotto cumuli di rovine. E aggiunge ancora: «Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto e fors'anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre». Forse cadrà invece in preda a | disperazione e soffrirà privazioni inimmaginabili, tuttavia «an| che questa è poca cosa, se paragonata a un'infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente». E certa, nel | suo confrontarsi interiore con le cose, di stare «saldamente piantata sulla terra più dura della realtà più dura». E la sua ‘accettazione lascia ancora spazio in lei «per l’elementare sde| i i gno morale contro un regime che tratta così gli esseri umani. Ma le cose che ci accadono sono troppo grandi, troppo diabo|
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liche perché si possa reagire con un rancore e con un'amarezza personali». Non è masochista e non vuole partire a ogni costo. Però, dice, «mi sembra una curiosa sopravvalutazione
di se
stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un “destino di massa”. Se Dio decide che io abbia tanto da fare, bene, allora lo farò, dopo essere passata per tutte le
esperienze per cui possono passare anche gli altri.
E se non
potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò». Le consigliano ancora di cercarsi una specie di lavoro al Consiglio ebraico, che la settimana precedente ha avuto l’autorizzazione a impiegare 180 persone, per cui «i disperati vi si accalcano in massa». Ma Etty trova «assurdo e illogico prendere altre iniziative», anche perché «sembra che vi si combinino parecchi intrighi, e il risentimento contro quel singolare organo di mediazione cresce di ora in ora», senza dire che «più tardi toccherà anche a loro».
Preghiera della domenica mattina Così inizia un lungo parlare all’Eterno, una «Preghiera della domenica mattina»: «Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi.
Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini
del dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l'oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani. Cercherò di aiutarti perché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa diventa sempre più evidente per me: e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare noi stessi». Riprende un pensiero che torna spes-
so nelle pagine del Diario: «L'unica cosa che possiamo di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è colo pezzo di te in noi stessi. E forse possiamo anche buire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. 98
salvare un piccontriSì, mio
Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch'esse fanno parte della vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi». Sembra
stupirsi che esistano ancora «persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può es-
sere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia». Continua: «Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te mol-
to spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi»: è il senso profondissimo della preghiera biblica, quello di mantenersi in relazione. «Con me vivrai anche tempi amari, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò dal mio territorio». Le pare di sentirsi ferrata «per il dolore grande ed eroico», non così per le mille piccole preoccupazioni quotidiane che l’assalgono e mordono «come altrettanti parassiti». Guarda fuori dalla finestra: «Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e
tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt'intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto solo le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profuma-
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to». L’empito della sua anima ancora trabocca: «Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tan-
ti. Voglio che tu stia bene con me». Come non riconoscervi le parole di una persona perdutamente innamorata? Spiega: «Tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una
cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla mia piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sem-
pre che ne abbia ancora la forza». Pensa alla giornata che sta aprendosi: voci tristi e minacce l’assedieranno di nuovo, ma «come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza imprendibile». Sui merli del palazzo della storia «Ognuno deve vivere con lo stile suo», annota la sera del 14 luglio. Su insistenza di Jaap, a gennaio aveva fatto la domanda, e il giorno seguente le sarà dato un impiego nell’Ufficio per gli affari culturali, una delle molte sezioni del Consiglio ebraico,
ma questo le fa perdere per un po’ l'equilibrio «lieto e insieme serissimo» che ha conquistato. Detesta «questo star tutti addosso a quell’unico pezzetto di legno che va alla deriva sull'oceano infinito dopo il naufragio, questo salvare il salvabile, spingersi a forza di gomiti, provocare l’annegamento altrui, tutto così indegno; e poi, questo spingere non mi piace». Sente di appartenere piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un po’ sull’oceano, stese sul dorso e con gli
occhi rivolti al cielo, finché — con un gesto rassegnato e devoto — vanno a fondo per sempre». Perché «le mie battaglie le combatto dentro di me, contro i miei propri demoni; ma combattere in mezzo a migliaia di persone impaurite, contro fanatici fu-
riosi e gelidi che vogliono la nostra fine, no, questo non è proprio il mio genere». Non solo non prova paura, ma si sente
molto tranquilla, come se si trovasse «in alto sui merli del palazzo della storia» a «far correre lo sguardo su territori lonta100
ni». Sente di essere in grado di «sopportare il pezzo di storia» in cui è immersa, «senza soccombere», mentre «la testa rimane
lucida» anche se talvolta è come se sul cuore «venisse sparso uno strato di cenere». Oppure «come se sotto i miei occhi il mio viso apparisse e si dissolvesse, e nei suoi lineamenti grigi i secoli si inabissassero uno dopo l’altro, e tutto si disfacesse, e il
mio cuore lasciasse andare tutto». Poi ritrova la sua saggia misura. «Una volta che si comincia a camminare con Dio, si con-
tinua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata. Com'è singolare tutto ciò». Ciò che segue ha i tratti dell’illuminazione interiore: «Se io fossi in grado di registrare molte cose che penso e che sento e che talvolta mi si chiariscono in un baleno — cose che riguardano questa vita, gli uomini, e Dio —, sono sicura che ne potrebbe venir fuori qual-
cosa di molto bello. Continuerò ad avere pazienza e lascerò maturare ogni cosa dentro di me». Le pare evidente che «una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito». Tanti, se le potessero leggere dentro, la considererebbero «una pazza che vive fuori della realtà». Lei, così immersa nel magma della storia, vede anche tante occasioni di crescita sprecate dal fatto che «l’uomo occidentale non accetta il dolore come parte di questa vita». Teme che le vengano poi a mancare «parole e frammenti» per nutrire lo spirito nei vari frangenti. Ma «si | deve anche essere capaci di vivere senza libri e senza niente. ‘| Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera». È arrivata l’ora X di una partenza: «Sono le undici e mezzo di sera. Weyl si allaccia lo zaino troppo, troppo pesante per la sua gracile schiena, e si avvia a piedi alla Centraal Station. Io l'’accompagno. Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio, si dovrebbe soltanto poter pregare». 101
Il dialogo pazzo, infantile, serissimo della preghiera
Dopo la partenza notturna di Weyl, torna a casa portandosi come preziosa reliquia un suo biglietto. Il mattino seguente, scorrendolo, è sopraffatta dalla commozione: «Qualcosa s'è spezzato, qualcosa m'è traboccato dentro. Stavo occupandomi della tavola per la colazione e di colpo dovetti congiungere le mani e chinare profondamente il capo e lacrime che avevo tenute dentro a lungo m’inondarono il cuore, e in me c’era così tanto amore compassione dolcezza, e anche così tanta forza, che dovrà pur servire a qualcosa», sicuramente a qualcuno, nel vasto legame della universale solidarietà umana. «Dopo aver letto le sue parole, ho vissuto un momento di una serietà e di un’intensità estreme. Sembra forse strano, ma per me queste poche parole scarabocchiate con una matita sbiadita sono la prima lettera d'amore che ricevo». Perché «ho valigie piene di cosiddette lettere d'amore, uomini diversi mi hanno scritto tan-
te parole, appassionate e tenere, imploranti e piene di desiderio, parole con cui hanno cercato di riscaldare e sé e me, e spesso
eran fuochi di paglia. Ma le sue parole di ieri: “Tu, ho il cuore grosso”, e quelle di stamattina: “Cara, voglio continuare a pregare”, sono il dono più prezioso che il mio cuore viziato abbia mai ricevuto». La sera si scusa con il Signore: «Ti sono stata un
po infedele, mio Dio, ma soltanto un po’. Ogni tanto questi momenti di disperazione, quasi di temporanea estinzione, fanno bene: una pace ininterrotta sarebbe quasi sovrumana». È un recupero inatteso ai suoi stessi occhi, poiché nel pomeriggio «tutto in me s’era spento, era una profonda, terri-
bile tristezza». Non le sembrava vero, ma «ora tutto è passato. So che sarò spesso a pezzi; che molte volte ancora stramazzerò, distrutta, su questa terra di Dio. Ma con la mia tenacia riuscirò a rialzarmi, anche se oggi pomeriggio ho attraversato una fase
di indurimento e di ottundimento spirituale, e ho visto a che cosa mi potrei ridurre dopo esser vissuta per anni in una situa102
zione disperata». L'amica Jopie — che «come un novello san Martino» s'è sfilata e le ha lasciato il suo golf di pura lana — le ha portato le Lettere di Rilke. Spera di poterle leggere tutte. E di far stare nello zaino tra le coperte i due volumi dell’Idiota e il vocabolarietto Langenscheidt. È disposta a portarsi meno cibo pur di farci stare quei libri, ma non può rinunciare alle coperte, perché già così patisce «mortalmente» il freddo. Con pensieri sparsi riprende il saluto dell'amico già deportato, poi torna sul tema della preghiera: «Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo “Dio”». Ritiene che per un altro si possa «solo pregare che riesca a sopportare le difficoltà della vita. E se si prega per qualcuno, gli si manda un po’ della propria forza». Riflette che «per tanti, la peggior sofferenza è la totale impreparazione interiore» e, pensando a un campo di lavoro, ritengono «l'Inferno di Dante un’operetta frivola al confronto». A volte «si sente urlare, mugghiare, e fischiare intorno, e i cieli si stendono così bassi e minacciosi sopra di me. Eppure, di tanto in tanto, riaffiora quell’umore leggero e come danzante che non m’abbandona veramente mai e che non è umorismo macabro». Un ambiente a metà tra inferno e manicomio
Vuole ricordare a se stessa, per i momenti più difficili che po| tranno venire, che «Dostoevskij trascorse quattro anni in galera in Siberia avendo la Bibbia come sua unica lettura», non poteva mai stare solo e anche l’igiene era un’utopia. Intanto «in quel corridoio, in quella calca, in quell’angoscia» della sede del Consiglio ebraico riesce a leggere ancora alcune lettere del suo poeta preferito, Rilke. Alla sera del 19 luglio, stravolta dalla
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stanchezza e da ciò che ha visto, scrive: «Avrei tante cose da dirti, mio Dio, ma devo andare a letto. Sono come narcotizza-
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ta». Pensa che dovrà trovare «una lingua completamente nuova», per parlare di tutto quello che ha toccato il suo cuore negli ultimi giorni, l'angoscia delle separazioni e il terrore sui volti. Tuttavia è determinata: «Voglio condividere il destino riservato a tutti noi». «Eppure sono una dei tuoi eletti, mio Dio, per-
ché mi concedi di prendere parte a questa vita, e perché mi hai dato abbastanza forza per sopportare tutto quanto». Un senso di tristezza la pervade, a respirare il clima che ha attorno: «Senza pietà, senza pietà. Ma tanto più misericordiosi dobbiamo esser noi nel nostro cuore, la mia preghiera di stamattina presto non voleva dire nient'altro che questo: “Mio Dio, è un periodo troppo duro per persone fragili come me. So che seguirà un periodo diverso, un periodo di umanesimo. Vorrei tanto trasmettere ai tempi futuri tutta l'umanità che conservo in me stessa”», sapendo che «l’unico modo per preparare questi tempi nuovi è prepararli fin d’ora in noi stessi». Così prega Etty quel mattino del 20 luglio, quando le viene spontaneo inginocchiarsi sulla grezza stuoia di cocco del bagno e le lacrime le rigano il volto. E da quella preghiera le viene «forza per tutto il giorno».
Finora — è il 21 luglio 1942 — «la mia vita personale è stata infinitamente buona». E pure «in mezzo alle petizioni urgenti che ho battuto a macchina, in quell’ambiente che sta a metà tra l'inferno e un manicomio, ho ancora letto un po’ di Rilke e mi ha dato di nuovo così tanto. Un vertice umano-spirituale è raggiunto: «Almeno ho scoperto in me stessa il gesto con cui si accosta il grande al grande, non per sbarazzarci del suo peso, che è grande in tutto ciò ch’è grande e infinito, in tutto ciò ch'è incomprensibile, ma per poterlo ritrovare sempre in quel luogo elevato, dove la sua vita continua a svolgersi indipendentemente dal nostro dolore e dal nostro smarrimento, che sono così limitati al suo confronto». Infine, «credo di essere arrivata
pian piano a quella semplicità che ho sempre desiderato». 104
Trova però che il lavoro che sta facendo «è stupido e assurdo» e cerca di schivarlo il più possibile. Quello che per altri — lavorare nel Consiglio ebraico significa poter restare ad Amsterdam — sarebbe un privilegio, non lo è per Etty. «Ieri pomeriggio mi sono resa conto di quanto quell'insieme sia tetro, sconfortante, indegno e senza sbocchi: “Chiedo cortesemente
di essere esonerato dal servizio di lavoro in Germania, perché lavoro già qui con impegno per la Wehrmacht e sono insostituibile”. È sconfortante». Anche allora, anzi proprio allora, sostiene che «se noi non opponiamo a tutto ciò un’alternativa forte e luminosa con cui possiamo ricominciar da capo in un
luogo tutto diverso, allora siamo perduti, definitivamente e per sempre». È più che mai necessario «riscoprire l’accesso a que-
sta nuova, radiosa sorgente». Lascia il pensiero del lavoro e torna a riflettere sul legame con Spier. Era sabato sera 25 luglio quando — annota — «l’anello della nostra relazione si è chiuso, così semplicemente e così naturalmente. Come se di notte non mi avesse mai ricoperta altro che una coperta di fiori». Preferisco essere sola e per tutti
Ascoltandosi profondamente aggiunge: «Credo proprio di ave-
‘re come un regolatore interno. Un malumore mi avverte ogni
volta che ho preso la strada sbagliata. Credo che la vita pretenda molto da me, ma devo saper ascoltare la mia voce interiore, | devo rimanere onesta e aperta, e non sfuggire a quel sentimeni } )
to». Nella buca delle lettere intravede un foglio bianco, e teme sia l'ordine di partenza: «Dopo un po’ mi sono resa conto che le mie ginocchia tremavano». Ma è solo un modulo per il personale del Consiglio ebraico. Schegge di vita sono fissate le une accanto alle altre in modo apparentemente slegato, unite solo dall’unicità della protagonista. Passa dal ricordo di un «giorno di bizzarria, di dimenticanza del dovere, e di sole» a disquisire sulla differenza 105 er 4
tra «temprato»
e «indurito», poiché «spesso non se ne tiene
conto, oggi. Credo di diventare ogni giorno più temprata, a parte quell’indisciplinata vescica, ma indurita non lo sarò mai». Senza soluzione di continuità aggiunge, riferendosi a Spier: «Tante cose cominciano a chiarirsi: per esempio che non
vorrei diventare sua moglie. Voglio darne atto molto spassionatamente e obiettivamente: la differenza d’età è troppo grande». In pochi anni ha già visto trasformarsi un uomo. «Ora sta cambiando anche lui. È un uomo vecchio a cui voglio bene, infinitamente bene. Ma sposarlo, come direbbe un bravo borghese, francamente non lo vorrei». Ed è proprio il fatto di dover percorrere la sua strada da sola che la fa sentire «così forte». «Nutrita di ora in ora dell'amore che provo per lui, e per gli altri. Infinite coppie si formano all'ultimo momento, per disperazione. Preferisco esser sola e per tutti». Lo spettacolo che è davanti ai suoi occhi disincantati la colpisce e la ferisce: «Naturalmente, non si potrà mai più riparare al fatto che alcuni ebrei collaborino a far deportare tutti gli altri. Più tardi la storia dovrà pronunciarsi su questo punto». Pensa di sopravvivere, di non stracciare i suoi vecchi diari, perché forse più tardi l’aiuteranno a riprendere contatto con se stessa. La catastrofe del momento ha avuto due anni interi di preparazione.
Sembra
strano, quasi impossibile, eppure ciò
che si vive «dentro» supera tutto il «di fuori». «Sei seduta per terra, in un angolino della stanza dell’uomo amato, rammendi
le calze e allo stesso tempo sei seduta sulla riva di mare immenso, e questo mare è così limpido. A un certo momento tu senti
la vita così ed è una cosa indimenticabile». Ma più terra terra, partendo per il suo lavoro: «Non si sa mai cosa ci possa portare un giorno. Pare che le deportazioni da Amsterdam siano sospese. Ora si comincia a Rotterdam. Assistili, mio Dio, assisti gli
ebrei di Rotterdam». È un mercoledì mattina, il 29 luglio. Poi il Diario di Etty ha una sospensione fino al 15 settembre: forse. 106
È
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era il contenuto del quaderno smarrito. Nel frattempo riceve l'ordine di partire per il campo del Drenthe. Ai primi di settembre ottiene il permesso di tornare ad Amsterdam per qualche giorno. Ci giunge malata. In tempo per incontrare Spier, «la
persona a me più vicina» — come scrive nella prima lettera a Osias Kormann il 14 agosto — che improvvisamente si scopre
malato ai polmoni, e il 15 settembre muore. Il giorno dopo la Gestapo lo va a cercare per deportarlo a Westerbork. Quel giorno intensissimo trova eco a più riprese nel Diario e in una lettera a Kormann. «Forse — annota a metà mattina — è stato tutto un po’ troppo, mio Dio. Sono costretta a ricordar-
mi che un essere umano ha anche un corpo. Ora mi rendo conto di quante cose tu mi abbia dato da portare, mio Dio. Tante cose belle e tante cose difficili. E quelle difficili si sono trasformate in belle ogni volta che ero disposta a sopportarle. E certe volte è stato più difficile sopportare le cose belle e grandi che quelle dolorose, perché ne ero sopraffatta». Decide di ripren| dere «la vecchia, collaudata abitudine» di discorrere «un pochino con me stessa su queste righine blu. Parlerò con te, mio Dio. Posso? Col passare delle persone, non mi resta altro che il desiderio di parlare con te. Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio». Pensando a Spier annota: «La parte migliore e più nobile del mio amico, dell’uomo che ti ha risvegliato in me, è già presso di te. È solo più rimasto un vecchio consunto e infantile in quelle due camerette, là dove ho vissuto le gioie più grandi e più profonde della mia vita. Ho sostato accanto al suo letto e mi sono trovata davanti ai tuoi massimi enigmi, mio Dio». Sa che per essi non c'è risposta. «Bisogna saper sopportare i tuoi misteri».
107
Il cuore pensante della baracca A Osias scrive: «Tutto è così misterioso e strano e insieme così
significativo. Il mio amico è morto, l’ho saputo poche ore fa: da quando l’avevo rivisto la settimana scorsa, ho pregato in conti-
nuazione che fosse liberato dalla sua sofferenza mentre ero ancora qui. E ora è successo
e sono
così riconoscente»;
mentre
«la gratitudine per la sua presenza nella mia vita passata sarà sempre più forte della tristezza per la sua mancanza fisica». Avrebbe bisogno di dormire e di riposare a lungo. Il medico la rimprovera perché ha «una vita interiore troppo intensa», perché vive «troppo poco sulla terra», anzi, «quasi ai confini del cielo». Si chiede perché, poiché il cielo esiste, non ci si possa abitare. Anzi, scrive, «il cielo vive dentro di me». È tutta dolo-
rante e prega: «Vorrei guarire presto, ma dalle tue mani accetto tutto come viene». Rivolgendosi a Dio e sempre in dialogo serrato con se stessa, esterna: «Ma sì, mi hai fatta poeta, aspetterò
pazientemente che maturino le parole della mia doverosa testimonianza». Conclude con una sorta di firma-autodefinizione,
in corsivo: «Il cuore pensante della baracca». Il pensiero corre a Spier : «Sei tu che hai liberato le mie forze, tu che mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio. Sei stato l'intermediario tra Dio e me, e ora che te ne sei andato la
mia strada porta direttamente a Dio e sento che è un bene. Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere». Seduta alla scrivania da cui spesso ha scritto a lui e di lui, gli si rivolge ancora: «Devo confessarti una cosa strana: non ho mai visto una persona morta. In questo mondo in cui migliaia di persone muoiono ogni giorno, io non ho mai visto un cadavere. Tide dice: è solo “un piccolo soprabito”. Lo so. Eppure mi sembra altamente significativo che proprio tu sia il primo morto che io vedrò». Con accento critico rileva: «Oggi si pasticcia e si scherza con le cose grandi, con le cose ultime di questa vita. Molti addirittura si ammazzano. Sono riconoscen108
te che la tua vita sia finita naturalmente, che anche a te sia toccato un po’ di dolore da portare». Pensa che incontrerà ancora una volta tutti gli amici, al funerale. Ricorda gli ultimissimi incontri. «Sono ritornata proprio in tempo per baciare la tua bocca avvizzita e morente, tu hai preso ancora una volta la mia mano e l'hai portata alle tue labbra. Una volta hai detto quando sono entrata in camera tua: “La ragazza viaggiatrice”. Un’altra:
“Ho dei sogni così strani, ho sognato di essere stato battezzato da Cristo”». «Sono pure così riconoscente — continua — che le tue ultime parole siano state: “Hertha, io spero...”. Quanto hai dovuto lottare per rimanere fedele. Proprio io te l'ho reso così difficile a volte, lo so; ma è da te che ho anche imparato cosa
siano la fedeltà, la lotta e la debolezza». E gli tesse un elogio appassionato: «In te c'erano tutto il male e tutto il bene che possono esserci in un uomo. I demoni, le passioni, la bontà e l’amore per gli uomini, tutto era in te, che sapevi tanto capire,
che sapevi cercare e trovare Dio. Hai cercato Dio dappertutto, in ogni cuore umano che ti si è aperto, e dappertutto hai saputo trovare un pezzetto di lui». Etty ricorda come Tide le ha dato la notizia. «Col suo viso luminoso e caro», prima si è seduta un poco accanto a lei, poi al pianoforte che era stato di Spier, ha cantato: «In alto, in alto il mio cuore, con gioia». Ora, alle due di notte, Etty guarda un ritratto di Spier appeso alla parete e le viene voglia di farlo a pezzetti: «Così facendo avrei la sensazione di esserti più vicina». «Tu e io — prosegue in un muto dialogo — non ci siamo
mai chiamati per nome. Per molto tempo ci siamo dati del “lei”, e solo più tardi, molto più tardi, mi hai dato del “tu”. E il
tuo “tu” è stato per me una delle parole più carezzevoli che mi siano mai state dette da un uomo — e sai bene che ero abituata a sentirne tante». Poi «firmavi sempre le tue lettere con un punto interrogativo, e così facevo anch'io. Cominciavi sempre le tue lettere con: Hòren Sie mal!, il tuo caratteristico “Stia un
3 uestnee
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po’ a sentire”, la tua ultima lettera cominciava con “Carissima”. Ma per me sei senza nome come lo è il cielo». «E morto alle sette e un quarto di ieri, proprio il giorno che scadeva il mio permesso. Ora vado ancora una volta da lui», appunta il 16 settembre. Lasciatemi essere un pezzetto della vostra anima
Vuole preparare il cuore a vedere il primo cadavere della sua vita: «Ho pensato: devo fare qualcosa di solenne, di straordinario, e mi sono inginocchiata sulla stuoia di cocco del piccolo bagno. Ma poi ho pensato: è convenzionale». Immagina «quel letto così familiare», la salma, la coperta di cretonne: «In fondo,
non ho alcun bisogno di tornare là. Tutto si compie in qualche parte di me stessa, tutto, in me ci sono vasti altipiani senza tempo né confini, tutto si compie lì», sugli «altipiani interiori della mia vita più profonda». Si chiede se dovrebbe fare una faccia triste o solenne, poi conclude: «Vorrei congiungere le mani e dire: ragazzi, sono così felice e riconoscente e trovo la vita così bella e ricca di significato. Proprio così, e lo dico mentre sto accanto al letto del mio amico morto prematuramente, e mentre io stessa posso essere deportata in ogni momento in
una terra sconosciuta». Allora «continuerò a vivere con quella parte dell’uomo morto che vive in eterno e risveglierò alla vita ciò ch'è morto nei vivi e così non ci sarà nient'altro che vita,
un'unica, grande vita, mio Dio». Durante l’attesa della visita nell’anticamera del medico, ri-
corda quando, a Westerbork, andava in giro con quei «chiassosi, litigiosi, e fin troppo attivi membri del Consiglio ebraico» e le veniva di pensare: «Su, lasciatemi essere un pezzetto della vostra anima. Lasciatemi essere la baracca in cui si raccoglie la parte migliore, che esiste sicuramente in ognuno di voi. Io voglio solo esserci». Dal fondo di questo sguardo ridotto all’essenziale, nota: «E prima o poi trovavo in ognuno di loro un 110
gesto o uno sguardo più nobile, di cui credo fossero appena coscienti. E me ne sentivo il custode». A occhi chiusi rilegge nel diario di Tide una frase, spesso ricorrente: «Padre, prendilo dolcemente fra le tue braccia. È così che mi sento, sempre e ininterrottamente: come se stessi
fra le tue braccia, mio Dio, così protetta e sicura e impregnata d’eternità». Nella malattia accettata, nella salute chiesta, la vita «è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio». E
spiega con semplicità una grandissima conquista: «E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di
me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio». Se avesse avuto la fortunata possibilità di incontrare il suo contemporaneo Silvano del Monte
Athos’, si sarebbero certo intesi con
poche parole, o al solo profondo trasparente guardarsi. Il suo cuore è pervaso da una tenerezza oserei dire cosmica, da sorella universale: «Ti ringrazio perché lasci che tante persone vengano a me con le loro pene: parlano tranquille e senza sospetti, e d’un tratto viene fuori tutta la loro pena, e si scopre
una povera creatura disperata che non sa come vivere». A quel punto, osserva, non basta predicare Dio o disseppellirlo dai cuori altrui: «Bisogna aprirti la via, mio Dio, e per far questo bisogna essere un gran conoscitore dell'animo umano, un esperto psicologo: rapporti con padre e madre, ricordi giovanili, complessi d’inferiorità, insomma tutto quanto». A ciascuno si offre con disarmata disponibilità: «In ogni persona che viene io mi metto a esplorare, con cautela». Le sembrano ancora pochi gli strumenti che ha per aprire loro una strada, e però scrive: «Ti ringrazio per questo dono di poter leggere negli altri. A ? Silvano del Monte Athos (1866-1938), nato a Chovsk, nella Russia centrale, faceva il contadino; divenuto monaco nel celebre monastero greco-ortodosso a 26 anni, visse una singolare
esperienza spirituale, in estrema semplicità. Umile laico, mugnaio ed economo, percepì nella preghiera una voce interiore, cui costantemente ubbidì: «Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare», una singolare proclamazione che non è la tenebra la parola ultima di Dio all’umanità. È stato canonizzato da meno di un decennio dalla Chiesa di Costantinopoli.
sit
di
volte le persone sono per me come case con la porta aperta. Io entro e giro per corridoi e stanze, ogni casa è arredata in un
modo un po’ diverso, ma in fondo è uguale alle altre, di ognuna si dovrebbe fare una dimora consacrata a te, mio Dio. Ti prometto che cercherò sempre di trovarti una casa e un ricovero. In fondo è una buffa immagine: io mi metto in cammino e cer-
co un tetto per te. Ci sono così tante case vuote, te le offro come all'ospite più importante». In quel settembre 1942 l’assale con la tristezza una profonda nostalgia di Westerbork e chiede a Dio di darle pace. Immagina ciò che avviene laggiù, volti e gesti delle persone conosciute e già amate, pensa ai due mesi tra il filo spinato che sono stati i mesi più intensi e più ricchi della sua vita. Ricorda un discorso fatto nella brughiera con Jopie Vleeschouver?, sotto il gran cielo stellato, mentre parlavano di nostalgia. Lei diceva: «Io non ho nostalgia, io mi sento a casa. Si è “a casa” sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in
noi stessi». Spesso si sente una nave che ha preso a bordo un carico prezioso; levati gli ormeggi è libera di navigare ovunque: «Dobbiamo essere la nostra propria patria. Ci ho messo due sere per potergli confidare questa cosa così intima, la cosa più intima che ci sia. E volevo tanto dirgliela, quasi per fargli un regalo. E allora, allora mi sono inginocchiata nella brughiera e gli ho detto di Dio».
? Joseph Isidoor Vleeschouver, detto Jopie, fu uno dei più intimi amici di Etty a Westerbork. In una lettera a Osias Kormann del 28 settembre 1942 e nel Diario, il 15 settembre 1942, lo
definisce «il mio compagno d’armi». Jopie invece, in una lunga lettera, descrive l’ultimo giorno al campo di Etty, Mischa e dei loro genitori. Fu poi deportato e morì il 23 aprile 1945 a Trobitz, dopo l'evacuazione da parte dei tedeschi del campo di Bergen-Belsen, in cui era stato internato.
112
VI L'amore oltre la follia
Tide le ha raccontato di un’amica che, alla morte del marito, le aveva detto: «Dio mi ha messo in una classe superiore, i banchi
sono ancora un po’ troppo grandi». Conversando si accorgono che, nonostante sia venuto a mancare a entrambe il compagno, stranamente non sentono nessun vuoto, anzi avvertono un senso di pienezza. Siamo alle radici della pace, fatta di perdono, di semplicità, di essenzialità. Bastano a ogni giorno il suo pane e la sua pena. Serenità è pace in proporzione alle pretese irragione-
voli lasciate cadere. Pace è essere felici di piccole cose. Trotterellava accanto a Ru «nel mezzo di quella stretta e banale Govert Flinckstraat» e, fermandosi di colpo, «come se fosse la cosa più naturale del mondo — e non è forse così? — sì, vedi,
io credo in Dio. Sembrava un po’ sconcertato, mi ha guardata in viso come se cercasse qualcosa di misterioso, ma poi credo che fosse molto contento per me». Forse, aggiunge, è il motivo per
cui si è sentita raggiante e forte per il resto della giornata: per avere detto «così di getto, così semplicemente, in mezzo a quel grigio quartiere popolare: sì, vedi, io credo in Dio». Dissodiamo in noi vaste aree di tranquillità
Vive al ritmo di un’incandescenza interiore: «Che si possa essere un fuoco così sfavillante! Tutte le parole ed espressioni adoperate fin qui mi sembrano grigie, pallide, scolorite, se paragonate all’intensa gioia di vivere, all'amore e alla forza che \sprigionano ora da me». Mischa, «il mio fratellino pianista LES
ventunenne, mi scrive da un manicomio nell’ennesimo anno di
guerra: anch'io credo, so che esiste un’altra vita. Credo persino che certe persone siano in grado di vederla e di viverla anticipatamente. Quello è un mondo in cui gli eterni sussurri mistici si sono fatti viva realtà, e in cui gli oggetti e le parole acquistano un significato più alto. È probabile che a guerra finita gli uomini saranno più ricettivi a quella realtà, che l’umanità intera sarà compenetrata di un ordine superiore». Se la storia sta andando verso il suo compimento, è pure vero che, com'è stato
detto, la guerra è quella lezione della storia che gli uomini dimenticano troppo presto. Tanto che ne fanno sempre di nuove. Ancora troviamo una citazione neotestamentaria, stavolta pao-
lina: «E se io distribuissi tutti i miei beni a sostentamento dei poveri e non avessi l’amore, tutto questo non servirebbe a niente». È anche lei irreversibilmente «immersa nella fontana dell'amore», come ha scritto di sé Caterina da Genova!. Ancora
ricorda l'impressione fattale «da quell’internista galante dagli occhi malinconici: lei ha una vita spirituale molto intensa, le fa male alla salute, è troppo per la sua costituzione». Ha «ruminato a lungo quelle parole» e si è sempre più convinta del contrario. Lo esprime con il tono di un’appassionata autodifesa: «È ‘ vero che vivo intensamente, a volte mi sembra di vivere con
un'intensità demoniaca ed estatica, ma ogni giorno mi rinnovo
alla sorgente originaria, alla vita stessa e ogni tanto mi riposo in una preghiera. E chi mi dice che vivo troppo intensamente non sa che ci si può ritirare in una preghiera come nella cella di un convento, e che poi si prosegue con rinnovata pace ed energia». Il giudizio si fa tagliente: «Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti gior! Caterina Fieschi (1447-1510), nata e vissuta a Genova, di nobile casato, sposata al ricco
mercante Giuliano Adorno, fu rettora del Pammatone, il grande ospedale della città. Le responsabilità pubbliche e l’attività febbrile non le impedirono intense esperienze mistiche.
Le
no dopo giorno, riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò “Dio”, e se poi facciamo in modo che rimanga sempre libero, “lavorando a noi stessi”, allora ci rinnoveremo in continuazio-
ne e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze». Per ciò che emerge da questa pagina, come da molte altre, un maestro di vita spirituale non avrebbe difficoltà a riconoscerla collega. Etty rifiuta decisamente le «determinazioni oggettive», crede piuttosto nell’«infinito intrecciarsi di reciproche influenze umane». Di Spier ricorda l'affermazione: «Questo è un peccato contro lo spirito, e si vendicherà». «Credo anche che ogni “peccato” contro l’amore per gli altri si vendichi, nella persona stessa come nel mondo circostante». È un duro giudizio sui contemporanei, sul mito della razza che nasconde l’idolatria di una presunta quanto indimostrata e indimostrabile superiorità. Ricopia ancora una volta Matteo 6, 34: «Non siate dunque inquieti per il domani, perché il domani avrà le sue inquietudini; a ciascun giorno basta la sua pena». Le preoccupazioni e le paure, che come pulci «divorano le nostre migliori forze creative, suonano come «altrettante mozioni di sfiducia nei con-
fronti di Dio», poiché in fondo, «il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità», tanto da poterla irraggiare sugli altri. «E più pace c'è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato», per il mistero dell’intercomunicazione e dell’intercomunione umana. C'è una sotterranea affinità tra le parole di Etty e quelle di Serafino di Sarov: «Acquista la pace del cuore e persone, a migliaia, troveranno accanto a te la salvezza»?. 2 Nato a Kursk nel 1759 e morto a Sarov nel 1833, Procoro Mochnin, divenuto monaco con il nome di Serafino, è ritenuto il san Francesco russo del 19° secolo. CÉI. GORAINOFF, Serafino di Sarov, Torino 1981, p. 57.
115
È il 29 settembre. Una lettera preoccupante è pervenuta da Jopie, che scrive di non mandare più pacchi perché laggiù succede di tutto. E un conoscente internato a sua moglie ha scritto «troppo poco per capirci qualcosa, troppo per non preoccuparsene. Fa paura». Occorre più che mai isolarsi per difendersi dal «chiasso sterile che si diffonde come una malattia contagiosa». Ritiene «vite povere, vite impoverite» quelle che non riescono a capire che «si può “lavorare” alla propria pace interiore, e continuare a essere produttivi e fiduciosi dentro di noi malgrado le paure e le voci che circolano. Che possiamo costringerci a inginocchiarci nell'angolo più remoto e tranquillo del nostro essere, e rimanerci fintanto che su di noi non si stenda nient’altro
che un purissimo cielo», quindi «continuare indisturbati a percorre i vasti e sgombri paesaggi del proprio cuore». Il suo dire è di una chiarezza cristallina. «Essere fedeli a tutto ciò che si è cominciato spontaneamente, a volte fin troppo spontaneamen-
te. Essere fedeli a ogni sentimento, a ogni pensiero che ha cominciato a germogliare». Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri sentimenti migliori». Per sé, dice, «il mio “fare” consisterà nell’“essere”».
Pensa tu alla mia pace, mio Dio
Il suo pensiero corre a un remoto angolo fiorito del cimitero di Zorgvlied. Vorrebbe essere là, presso la pietra che copre il corpo consunto di Spier. Ma «non essere mobili è proprio brutto». Pensa a quando era sempre in movimento,
«con uno zaino
sulle spalle poco esercitate. Ma ora sono malata, sono proprio malata». Si ripropone di «visitarli tutti, uno per uno, gli uomini che a migliaia sono finiti in quel pezzo di brughiera», a Westerbork, passando per le sue mani. Se non troverà loro, almeno le loro tombe. «Non voglio affatto avere quei foglietti per cui gli ebrei si fanno reciprocamente a pezzi. Vorrei trovarmi in tutti i campi che sono sparsi per tutta l’Europa, vorrei essere
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su tutti i fronti». Rifiuta di «stare al sicuro»: «Voglio esserci, voglio che ci sia un po’ di fratellanza tra tutti questi cosiddetti “nemici” dovunque io mi trovi, voglio capire quel che capita; e vorrei che tutti coloro che riuscirò a raggiungere — so che sono in grado di raggiungerli, fammi guarire, mio Dio — possano capire questi grandi avvenimenti come li capisco io». Una mattina all’alba salta giù dal letto e si inginocchia alla finestra; fuori il vicino albero è immobile nell'atmosfera grigia e silenziosa. Etty prega: «Mio Dio, concedimi la pace grande e potente della natura. Se vuoi farmi soffrire, dammi il dolore grande e pieno, non le mille, piccole preoccupazioni che consumano completamente. Dammi pace e fiducia. Fa’ che ogni mia giornata sia qualcosa di più che le mille preoccupazioni per la sopravvivenza quotidiana». Anche se le toccherà qualche giorno di fermata a letto, tranquillamente allora vorrà «essere un’unica, grande
preghiera. Un’unica, grande pace. Pensa tu alla mia pace, mio Dio, dovunque mi troverò». Desidererebbe tanto star bene. Ma, continua la sua preghiera, «non voglio neppure forzarti la mano, mio Dio: “Fammi
guarire in due giorni”. So che tutto deve crescere, che è un lento processo». Decide di non scrivere nulla, di lavarsi da capo a piedi nell’acqua fredda e di rimanere a letto: «Cercherò di stare semplicemente distesa e di essere tutta una preghiera». In lei è lotta: «Non devo volere le cose, devo lasciare che le cose si
compiano in me ed è proprio ciò che non sto facendo. Che sia fatta non la mia, ma la tua volontà». Un po’ più tardi aggiunge: «In me non c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia. In un campo deve pur esserci un poeta, che Oda poeta viva anche quella vita e la sappia cantare». Ricorda: | «Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, circondata
| da donne e ragazze che russavano piano, o sognavano ad alta voce, o piangevano silenziosamente, o si giravano e rigiravano —
donne e ragazze che dicevano così spesso durante il giorno: ILE
“Non vogliamo pensare”, “non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze” — a volte provavo un'infinita tenerezza, me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe impressioni di un giorno fin troppo lungo,
e pensavo: “Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca”. Ora voglio esserlo un’altra volta. Vorrei essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento».
La guarigione non arriva. Il 3 ottobre, per affrettarla, si esorta a riposare e a tacere per giorni interi. Quindi nota: «Si
dovrebbe pregare giorno e notte per quelle migliaia. Non si dovrebbe stare neanche un minuto senza preghiera». Poi scrive sicura: «So che un giorno avrò il dono dell’eloquenza». Se non altro, certamente possiede quello di parlare con efficacia ai lettori di questi anni sul tornante del 2000. Incontra diverse persone, amici, professori, pranza con Han. Ma «tutto questo conversare con gli amici mi fa male ora, mi
logora completamente». Si alza a scrivere, «una volta tanto, nel cuor della notte. Siamo rimasti solo Dio e io. Non c’è più nessun altro che mi possa aiutare». Poco prima si è svegliata con febbre e capogiro: «Ho afferrato il mio bicchiere ed ero così riconoscente per quel sorso d’acqua, ho pensato: se solo potessi andare in giro fra quelle migliaia di uomini ammassati laggiù e potessi offrire un sorso d’acqua ad alcuni di loro». Ricorda quand’era all’ufficio di registrazione degli arrivi: se una donna o un bambino cominciavano a piangere, si metteva «dietro di loro, quasi a proteggerli», con le sue braccia incrociate sul petto, sor-
rideva un pochino e dentro di sé diceva «a quell’esserino rannicchiato e smarrito» che ciò che stava avvenendo non era poi
così grave. «Rimanevo lì e c'ero, si poteva far altro? A volte mi sedevo vicino a qualcuno, passavo un braccio intorno a una spalla, non dicevo molto e guardavo le persone in faccia. Nulla mi era nuovo, non una di quelle espressioni di dolore umano». Tutto le pareva familiare e già conosciuto. 118
A chi le riconosce nervi d’acciaio risponde di no: «Credo di avere dei nervi piuttosto sensibili, però sono in grado di “resistere”. Ho il coraggio di guardare in faccia ogni dolore. E alla fine di ogni giornata mi dicevo sempre: voglio tanto bene agli uomini. Non provavo mai amarezza per quel che veniva fatto loro, solo invece amore per come degli uomini fossero capaci di sopportare il dolore», per quanto impreparati. Neppure la malattia riesce a fermarla: «Mentre me ne sto coricata qui, non
viaggio forse per il mondo? In me scorrono i larghi fiumi e s'innalzano le grandi montagne. Dietro gli arbusti della mia irrequietezza e dei miei smarrimenti si stendono le vaste pianure della mia calma, e del mio abbandono». i
Decide: «Rileggerò sant'Agostino. È così austero e così ardente. E così appassionato, si abbandona così completamente nelle sue lettere d'amore a Dio. In fondo, quelle a Dio sono le uniche lettere d'amore che si dovrebbero scrivere. Sono presuntuosa a dire che possiedo troppo amore per darlo a una persona sola? L’idea che per tutta la vita si debba amare sempre e soltanto una persona mi sembra così infantile. Può impoverire e inaridire parecchio». Si domanda: «Chissà se la gente imparerà che l’amore per la persona reca assai più felicità e buoni frutti che l’amore per il sesso, e che questo priva di linfe vitali la comunità degli uomini?». Dono e conquista dei suoi anni di fuoco, ora vive l'umile disponibilità a lasciarsi incontrare da un Altro. «E quando la burrasca sarà troppo forte e non saprò più come uscirne, mi rimarranno sempre due mani giunte e un ginocchio
piegato. È un gesto che a noi ebrei non è stato tramandato di generazione in generazione. Ho dovuto impararlo a fatica». Nell'ottobre 1942 redige le ultime pagine del suo diario, almeno quello che ci è pervenuto di esso; il 12 appunta: «Le mie impressioni sono sparse come stelle sfavillanti sullo scuro velluto della mia memoria», e quelle cui ha dato colore d’inchio| stro illuminano, ancora e sempre più, il cammino di chi segue.
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Come pane ho spezzato il mio corpo
Si chiede, in un pensiero isolato: «Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa?». Siamo alla pagina ultima, e più alta: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo». Torna al suo poeta prediletto: «È così strano, Rilke era un uomo fragile e ha scritto gran parte della sua opera fra le mura di castelli ospitali», forse sarebbe stato distrutto da circostanze come quelle in cui Etty vive. «Ma non è proprio questo un segno di buona economia: il fatto che, in circostanze tranquille e favorevoli, artisti sensi-
bili possano cercare indisturbati la forma più giusta e più bella per le loro intuizioni più profonde; e che poi, in tempi più agitati e debilitanti, queste stesse forme possano offrire appoggio e protezione agli uomini smarriti? Ai turbamenti e ai problemi che non trovano forma o soluzione, perché ogni energia è consumata dalle necessità quotidiane? In tempi difficili si tende a disprezzare le acquisizioni spirituali di artisti vissuti in epoche cosiddette facili (ma essere artista non è di per sé abbastanza difficile?), e si dice: tanto, cosa ce ne facciamo? È un atteggiamento comprensibile, ma miope. E rende infinitamente pove-
ri». La penna si ferma su poche parole che scolpiscono l’essenza di un capolavoro scritto all’inferno: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». Echi della sua anima ci pervengono ancora dalle lettere. Da Westerbork, il 29 novembre 1942, scrive a Han Wegerif e a chi
vive nella sua casa: «Qui non si riesce a scrivere, non per man-
canza di tempo ma per le molte, troppe impressioni da cui si è assaliti. Solo su questa settimana ne avrei da raccontare per un
anno intero |...]. Qui tutto è paradossale: nelle grandi baracche, dove molte persone dormono su cuccette di metallo senza materassi o coperte, si muore di freddo; e nelle casette dotate di riscaldamento centrale di notte si muore di caldo. Io sto in una + 120
baracchetta simile con cinque colleghe. Letti a due piani che tentennano molto sui loro sostegni, sicché quando la mia grassa viennese del piano di sopra si gira di notte nella sua cuccetta, il letto traballa come una nave nella tempesta». Per di più «di notte ci sono dei topi che attaccano le provviste e i letti, una situazione un poco inquietante». Là è «vita da vagabondi, deperimento, fango». Un giorno «una vecchietta è svenuta in un angolo e in tutto il campo non si trovava una goccia d’acqua perché
l'impianto era chiuso». A fine dicembre da Amsterdam scrive a Osias Kormann,
con affettuosa autoironia:
«Vivo di nuovo
in
posizione orizzontale, con la compagnia più o meno simpatica
di un calcolo biliare. Se questo calcolo non si deciderà presto a sciogliersi in qualche modo, finirà in ospedale, e io con lui. Chissà che intenzioni ha il mio santo protettore personale?». Etty non sa ancora che quello che sta vivendo è il suo ultimo inverno. Racconta il suo arrivo al campo, che ha nel «primo nucleo» ospiti ebrei già passati prigionieri a Buchenwald e Dachau, «quando questi nomi erano ancora suoni lontani e
minacciosi per noi». «Era estate quando vi giunsi. Fino a quel momento del Drenthe io sapevo solo che c'erano molti dolmen e nient’altro: ora ci trovavo un villaggio di baracche di legno incorniciato da cielo e brughiera, con un campo di lupini straordinariamente gialli nel mezzo e tutt'intorno filo spinato». All’inizio si sposta per il campo come se stesse sfogliando le pagine di un libro di storia. Incontra reduci della St. Louis, la nave che trasportava un migliaio di ebrei verso Cuba, nel 1939. Respinta, al suo ritorno in Europa le fu permesso di attraccare ad Anversa. Il Belgio accettò duecento passeggeri, gli altri furono suddivisi tra Inghilterra, Francia e Olanda. «In breve — annota —, era come trovarsi davanti a un pezzetto tangibile del “destino” ebraico degli ultimi dieci anni. Era quasi da togliere il fiato».
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Si ritiene donna «dall’indole piuttosto contemplativa», perciò inadatta a spiegare le caratteristiche di un determinato luogo o avvenimento, e però tratteggia ambienti e persone con rarissima finezza e capacità di introspezione. «Si scopre insom-
ma che quelle che potremmo chiamare le materie prime della vita sono dappertutto le stesse, che in ogni luogo di questa terra si può vivere la propria vita in modo ricco di significato 0 altrimenti morire, e che l’Orsa Maggiore brilla altrettanto veritiera sopra un paesino sperduto come su una grande città nel cuore di uno stato, o anche su una miniera di carbone della
Slesia, secondo le mie ardite supposizioni». Le è rimasta una impressione vivissima del brulichio umano di Westerbork, «un nome carico di significato che continuerà a risuonare nella nostra vita futura». Rivela un innato gusto della descrizione: «Se capisco bene, quello che è ora un centro del dolore ebraico era un luogo deserto e incolto appena quattro anni fa, e lo spirito del Dipartimento di Giustizia aleggiava nel cielo di questa brughiera». Sono sorte d'improvviso molte costruzioni, ora «c'è un orfanotrofio, una sinagoga, una piccola cappella mortuaria e una manifattura di solette appena agli inizi». Ha senti-
to parlare della costruzione di un manicomio, e le baracche adibite a ospedale hanno già un migliaio di letti. La prigione per due detenuti è insufficiente e se ne progetta una più grande. Sembra un po’ strano per non dire assurdo: «Una prigione dentro una prigione». Poi «ci sono crisi di gabinetto in miniatura, con tutte le gomitate che appaiono indispensabili in casi del genere». «C'è un comandante olandese e un comandante tedesco, il primo è qui da più tempo ma il secondo ha più voce in capitolo. Di questo si dice tra l’altro che ami la musica e che sia un gentleman». Ma, sottolinea con ironia, «per essere un gentleman ricopre un ufficio un tantino singolare». C'è una sala teatrale ora occupata da macchine da scrivere e «c'è fango, talmente tanto fango che da qualche parte fra le E22.
costole si deve proprio possedere un gran sole interiore se non se ne vuol diventare la vittima psicologica». Tutti in camicia per solidarietà
Per edifici e strade risuonano «una molteplicità di accenti, come se la torre di Babele fosse stata innalzata in mezzo a noi: bavarese e dialetto di Groningen, sassone e dialetto del Limburgo, olandese dell'Aia e olandese della Frisia orientale, tede-
sco con accento polacco o russo, olandese con accento tedesco e tedesco con accento olandese, fiammingo di Waterloo e berlinese, e faccio presente che si tratta di un’area di poco più di
mezzo chilometro quadrato». E c’è il filo spinato: «Se circondasse semplicemente il campo, si saprebbe almeno dove si sta: ma anche nel campo stesso, intorno e fra le baracche, si snoda-
no questi fili del ventesimo secolo e formano una rete labirintica e impenetrabile. Di tanto in tanto s'incontrano persone
con graffi sul viso e sulle mani». Insieme società umana e campo di transito, è sconvolto da «forti sommovimenti quando le folle vi si riversano dalle grandi città e dalla provincia, da case di cura, prigioni e campi di punizione, da tutti gli angoli dell'Olanda, per essere deportate pochi giorni più tardi verso il loro destino sconosciuto». Come descrivere sentimenti e dolore di questo disperato amalgama di umanità? «La mia penna stilografica non possiede accenti così efficaci da saper descrivere — sia pur nel modo più approssimativo — queste deportazioni». Dall'esterno sembrano di una deprimente monotonia. «La prima volta che uno di questi convogli passò per le nostre mani, ci accadde di pensare che mai più avremmo potuto ridere e essere lieti, che ci eravamo trasformati in persone diverse, improvvisamente invecchiate e estraniate da tutti gli amici di prima». Però, come sempre, «se poi si va tra la gente, ci si rende conto che là dove ci sono uomini c'è anche vita, e che questa vita si ripresenta 123
nelle sue mille sfumature: “con un sorriso e con una lacrima”,
per dirla con un’espressione popolare». E dove c'è vita, c'è solidarietà: «Dopo i primi rastrellamenti, quando ci arrivarono
persone vestite di sola biancheria e pantofole, tutta Westerbork si spogliò fino alla camicia, in un unico gesto di orrore e di eroismo». Arriva il proletariato carico di povertà e trascuratezza, la gente di Rotterdam, «una categoria a sé, temprata dai bombardamenti della guerra»: «alcuni giorni dopo si avviarono al treno cantando». Giungono «bambini che non volevano mangiare un panino finché i genitori non ne avessero ricevuto uno
anche loro». E «fu uno strano giorno quando arrivarono degli ebrei cattolici — o se si preferisce dei cattolici ebrei —, suore e
preti con la loro stella gialla sui loro abiti religiosi». In particolare la colpisce lo sguardo «che vagava tranquillo per la grande baracca dove si accoglievano i nuovi arrivati» di un monaco abbastanza giovane, che dopo quindici anni di clausura si ritrovava per la prima volta nel mondo’. Lo abborda e gli chiede: «E allora, che cosa ne dice del mondo?». Lui non si scompone,
«ma il suo sguardo rimane tranquillo e amichevole sopra la tonaca marrone, come se ciò che lo circonda gli fosse noto e già familiare da molto tempo». Ricorda che più tardi qualcuno le ha raccontato: «Quello stesso giorno avevano visto alcuni monaci camminare in fila tra due baracche scure nel crepuscolo, mentre dicevano il rosa-
rio con la stessa calma con cui avrebbero recitato le preghiere nei corridoi del loro convento». Etty conclude: «Non è forse vero che si può pregare dappertutto, in una baracca di legno come in un convento di pietra, come pure in ogni luogo di Ne erano stati catturati circa 300 nella retata effettuata dai nazisti il 1° agosto 1942, in seguito alla protesta dell'arcivescovo Johannes de Jong contro la persecuzione degli ebrei; 63 di loro il 2 agosto erano arrivati nel campo del Drenthe. Tra le monache vi era Edith Stein, filosofa allieva di Husserl, nota mistica cui Etty è stata spesso raffrontata, uccisa ad Auschwitz pochi
giorni dopo, il 9 agosto.
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questa terra, su cui Dio pensa bene di scaraventare i suoi simili in tempi agitati?».
Anziani, il capitolo più triste
Un frammento di storia al quale «ci si vergogna di esser stati presenti senza averlo potuto impedire» è quello delle persone vecchissime e dei mutilati, «il capitolo più triste» delle vicende di Westerbork. Ricorda la vecchietta che aveva dimenticato gli occhiali e una medicina sul caminetto di casa, «una donna di
87 anni che si era aggrappata alla mia mano come se non volesse più lasciarmi andare: raccontava che i gradini davanti alla porta della sua casetta avevano sempre brillato», e un piccolo signore curvo di 79 anni, sposato da 52, preoccupato di dover lasciare la moglie ricoverata all'ospedale di Utrecht, mentre lui, il giorno seguente, sarebbe stato deportato in Polonia. «Ma se continuassi per pagine e pagine — prosegue — non avreste un’idea di quel ciabattare, barcollare e cadere a terra, del disperato bisogno di aiuto e delle domande infantili», mentre «i loro gesti smarriti e i loro visi spenti popolano ancora le notti insonni di molte persone». In poco tempo Westerbork passa da 1.000 a circa 10.000 “abitanti”, soprattutto sotto «l’inondazione umana» che minaccia di inghiottirlo dopo i terribili «giorni d’ottobre», quando l'Olanda è battuta da una gigantesca caccia all’ebreo. Qui, in questo coacervo umano, «cosa stupefacente,
si possono trovare tutti gli aspetti, le classi, gli “ismi”, i contrasti e le tendenze della società odierna (eppure l’area di mezzo chilometro quadrato è rimasta la stessa). La mancanza di spazio diventa la carenza più grave». Circa 2.500 persone sono alloggiate in 215 casette. Ogni casetta ha due, in qualche caso tre camerette, una piccola cucina con un rubinetto e un W.C. Qui si vive in modo «principesco», invidiati e continuamente assediati da chi è finito nelle colossali baracche, tirate su in fretta e furia con assi che lascia-
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no spazio a ogni tipo di spifferi, «dove le cuccette di ferro a tre piani si ammassano
sotto un cielo incombente di panni che
centinaia di persone hanno steso ad asciugare». Sono i letti costruiti per la linea Maginot, riciclati per gli ebrei esiliati nel Drenthe, sui quali essi sognano «i loro sogni spaventosi». Su di essi si vive e si muore, si dorme poco perché ci sono bambini
che piangono tutta la notte, ci si chiede perché non giungano quasi più notizie dalle molte migliaia già partite dal campo. In questi «grandi magazzini umani» arredati con la stessa sobrietà, «è come se ogni cuccetta, ogni tavolo di legno grezzo emanasse una propria atmosfera», perché «circostanze simili non sembrano produrre persone simili». Persone di rilievo nella vita politica e culturale delle maggiori città si trovano naufraghe qui: «Tutte le scene che li circondavano sono state bruscamente abbattute con un solo colpo potente, ed essi stanno ancora un po’ tremanti e spaesati su quel palcoscenico aperto e pieno di correnti d’aria che si chiama Westerbork». Lì, denudati di ogni bene esteriore, sfasciata la reputazione, la posizione e la proprietà, «sono rivestiti solamente dell’ultima camicia della loro umanità» e si accorgono che «la vita richiede tutt’altre cose nella miseria estrema». Come in tutte le situazioni di crisi, «siamo messi alla prova nei nostri fondamentali valori umani».
Studio letteratura e pelo patate Il 24 marzo 1943 scrive a Osias: «Per il momento mi dedico alla ginnastica mattutina, al sole, alla Bibbia, al russo, alle
patate da pelare e alla letteratura; e poi dialogo con persone eccessivamente ottimiste 0 pessimiste, con persone polemiche o prossime al suicidio o infuriate o tristi, o comunque siano. Insomma, un programma alquanto variato». In «questi tempi
eccessivamente difficili» si trova a ingoiare di tutto. Nella stessa primavera, in un altro scritto allo stesso destinatario, aggior- . 126 VI
na: «Qui continua la grande contraddizione: lo spirito è più che mai vivace e creativo e intenso, il corpo non offre ancora una struttura abbastanza forte da poterlo sorreggere». Molti pensano che sia un tempo solo di distruzione. No, replica, «tra molto tempo si vedrà forse che è stato anche un inizio». E che «la vita è davvero una bizzarra faccenda». Il suo orologio si è rotto, e siccome non ha «proprio bisogno di molte cose ma di un orologio sì», si augura di tornare a Westerbork, se non altro
«perché ad Amsterdam non si trova più nessuno che tempo di ripararlo». È l°8 aprile 1943. Trova anche un per scherzare, una «lieta notizia» da dare a Kormann: dente del giudizio è spuntato non senza forti doglie,
abbia il motivo «Il mio ma alla
fine s'è potuto constatare che c’era per davvero. Quindi puoi avere buone speranze che io diventi ancora una persona ra-
gionevole». La mattina del 24 maggio è arrivato l'ordine di partenza per il 25. Prepara lo zaino, ma nel pomeriggio apprende che la sua convocazione è stata un «errore». Quindici colleghi del Consiglio ebraico di Westerbork avranno una licenza e occorrono altrettanti volontari a sostituirli. Etty ha già deciso che si presenterà. In ogni caso pensa che si rivedranno presto, perché «la liquidazione delle rimanenze ebraiche procede ora a ritmo serrato». Nello zaino il Corano e il Talmud
Se si può dire, finalmente eccola a Westerbork: «Rieccomi qui da cento anni», scrive il 7 giugno in una lettera inviata a Han Wegerif e ai suoi familiari. È arrivata facendo l’ultimo tratto da Assen su un autocarro in cui filtrava l’acqua, perché fuori diluviava. Subito l’ispezione della gendarmeria: «Ho aperto molto volenterosamente la valigetta di giunco con il Corano e il Talmud, ma non hanno visto il mio zaino grande come una casa e così ho potuto stare tranquilla». Ora la baracchetta in cui è alloggiata «è una via di mezzo tra un piccolo magazzino e un LZ
boudoir'»: «letti a castello a due o tre piani, dappertutto valigie e scatole, fiori sulla tavola e sul davanzale della finestra, e alcu-
ne languide colleghe in lunghe vestaglie di seta». In questo ambiente variegato c’è di tutto. «Con me vive una ex reginetta
di bellezza che ha fatto “la vita”. Alle dieci di sera ha appoggiato uno specchio alla mia scatoletta del burro e si è dedicata mezz'ora alle sue sopracciglia». Appena giunti, scrive, «ci siamo sottoposti a un trattamen-
to di lisolo perché da Vught arrivano sempre tanti pidocchi». Poi «dalle quattro alle nove ho arrancato su e giù con bambini piccoli che piangevano e ho portato i bagagli a donne esauste. Era un lavoro duro e straziava il cuore. Donne con bambini piccoli, 1.600 in tutto (altri 1.600 arrivano stanotte), gli uomini deliberatamente trattenuti a Vught. Il convoglio di domattina è già pronto, Jopie e io abbiamo appena camminato lungo il
treno. Grandi vagoni bestiame vuoti. A Vught muoiono da due a tre bambini piccoli ogni giorno». Un’anziana le chiede smarrita: «Chissà se lei saprebbe spiegarmi perché a noi ebrei tocca soffrire così tanto?». Le condizioni di vita peggiorano di giorno in giorno. Di
brughiera è rimasto solo un pezzetto «in un estremo angolo del campo, ed è lì che sono seduta ora, al sole, sotto uno splen-
dido cielo azzurro e fra alcuni bassi cespugli». C'è un ufficiale della gendarmeria che «raccoglie lupini con aria rapita», mentre si sta caricando un treno, mai sazio di bambini e malati.
Tanti piccoli hanno la polmonite, anche uno che la mamma è costretta a lasciar partire da solo. «Dalle quattro di stamattina ho avuto di nuovo neonati e bagagli da portare. In quelle ore si potrebbe accumulare malinconia per una vita intera. Quando accenna a muoversi sui binari, «la locomotiva manda un fi-
schio terribile, tutto il campo trattiene il fiato: stanno partendo altri tremila ebrei». | ‘Boudoir: in francese, salottino per signora.
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Non ha un ruolo preciso: «Vado in giro e trovo il mio lavoro da sola». «Stamattina ho parlato per cinque minuti con una donna che veniva da Vught e che in tre minuti mi ha raccontato le sue ultime vicende. Quanto si può dire in un paio di minuti così. Siamo arrivate a una porta che non mi era permesso oltrepassare e lei mi ha abbracciata dicendo: “Grazie per l’aiuto che mi ha dato”». Sale un momento su una cassa deposta tra i cespugli e conta i vagoni merci: sono trentacinque, preceduti da alcuni vagoni di seconda classe per la scorta. «I vagoni merci erano completamente chiusi, ma qua e là mancavano delle assi, e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio come le mani di chi affoga». Lo scenario su cui ciò avviene è contraddittorio: «Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno là così principeschi e così pacifici, su quella cassa sono sedute a chiacchierare due vecchiette, il sole splende sulla mia faccia e sotto i
nostri occhi accade una strage, è tutto così incomprensibile». Lunedì 21 giugno 1943 costituisce la giornata «più nera» della sua vita. All'arrivo dei vagoni merci, «da una di quelle strette aperture ho improvvisamente scorto il cappello della mamma e gli occhiali di papà e il magro viso di Mischa. Si ripeterà la via crucis che ho già percorso stanotte con i Levie e le loro due figliolette: registrazione, ore e ore di attesa, un’altra registrazione sotto la pioggia, quarantena», non ci saranno più
letti per tutti, per gli uomini mancano anche i materassi. «Ma il mio terzetto è ammirevole per il suo coraggio e la sua vivacità e ha persino un forte senso dell'umorismo». Essi «sono indescrivibilmente coraggiosi in questo assoluto inferno», scrive a Christine van Nooten nella notte del 21 giugno. «Sono riconoscente di essere qui e di poter alleviare la loro vita in tante piccole cose», mentre tutto attorno «è una totale catastrofe».
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VII L’ultima partenza
«E vero che papà è completamente indifeso», il colletto è divenuto largo e con la sua ispida barba grigia fa tanta pena. «Ma stamattina ha impugnato la sua piccola Bibbia mentre aspettavamo per ore e ore nella pioggia, e ha trovato splendide parole nel libro di Giosuè». Ora è alloggiato in una baracca che ha l'aspetto di «un magazzino umano stipato al massimo», dove due cuccette di ferro devono bastare per tre persone, non ci sono materassi per gli uomini, manca ogni possibilità di riporre qualcosa, e poi «aria pesante, bambini che urlano, la peggior miseria immaginabile». Il padre rifiuta ogni cibo caldo ed Etty chiede all’amica di mandarle del pane, anche di segala. È un'impresa anche trovare un letto per la notte, perché «ogni millimetro quadrato è preso». Un delizioso vento fresco li accarezza nel mattino, mentre seduti su un tubo, Etty e suo padre osservano uomini con la stella gialla scavare un fosso che impedisca le fughe, a poca distanza dal filo spinato. È contenta che il babbo ora abbia una cuccetta tutta per sé, «nella grande baracca sarebbe crollato in una settimana». «Sì, cercheremo di cavarcela aiutandoci l’un l’altro», afferma decisa. «La mamma
è ammirevole, è quasi incomprensibile che possa andare in giro ben curata e vivace come sempre; stamattina ha fatto il grande bucato in un secchio all’aperto, e lo ha steso ad asciugare a una cordicella». Mischa «è commovente nel suo attaccamento ai genitori», dice che se andranno in Polonia li accompagnerà di sicuro, ma «siamo molto preoccupati e temiamo 131
che tra poco non regga più. In fondo è incomprensibile che non impazziscano tutti». Si sviluppano organi nuovi
Etty inaspettatamente vive «un fatto ben singolare: da quando ho visto quel convoglio di gente presa con i rastrellamenti non soffro più né fame né sonno né altro e mi sento benissimo, l’at-
tenzione si concentra talmente sul prossimo che ci si dimentica di se stessi». Il 29 giugno scrive a Milli Ortmann — ebrea tedesca ma ufficialmente “mezza ebrea”, vedova del pittore Theo Ortmann, che dopo la morte del marito si era particolarmente impegnata per i perseguitati — temendo che nulla valga a salvare i suoi: «Siamo sopravvissuti a questa notte di deportazione, Mischa è stato temporaneamente
“trattenuto”, e ab-
biamo potuto tener qui i miei genitori perché sono sulla “lista dei genitori” degli addetti al campo. Ma questa lista non ha molto peso e la prossima settimana ricomincerà la battaglia per loro». Nella notte ha atteso il treno di Jaap, per fortuna non cera. Al mattino va a dare la notizia, prima al padre, poi attraversa tutto il campo e arriva dalla mamma. Qui «quasi tutti si preparavano a partire. Erano dignitosi, tranquilli, disciplinati. Ho visto partire molti buoni amici». Trova la mamma esausta, sul suo lettino militare di ferro. «Dopo una notte di deportazione come questa si è tutti malati e distrutti». Ci si concede un breve momento di riposo, «poi si vive aspettando
la nuova deportazione». È stupita dei suoi: «I miei genitori si comportano davvero in modo grande: nel loro cuore si preparano per la Polonia, hanno poche pretese e non si lamentano, sono molto fiera di loro». Mischa è il più trasandato, «è un po” sporco, a volte molto agitato, e arriva in ritardo a ogni appello», ma fortunatamente conserva «il suo splendido senso dell'umorismo». 197
La situazione precipita in modo drammatico. Stretta dalla congiuntura, riversa la sua anima sulla carta: «Da Leguyt ho ricevuto una lettera che mi ha commossa, anche lui è fra coloro
per i quali si vorrebbe proprio riuscire a farcela per rivederli in futuro. Mi ha mandato questa frase del Dr. Korff: “Eppure Dio è amore”. Sottoscrivo pienamente quest’affermazione, che vale
ora più che mai. Il signor Leguyt scrive tra l’altro: “Mi stupirei se Lei avesse tanta elasticità spirituale da poter ancora prestare più di mezzo orecchio a chi è rimasto fuori”». Prosegue con fierezza: «Io ho conservato tutt'e due le mie orecchie e tutta la mia attenzione per voi. Mi accorgo che in ogni situazione, an-
che la più difficile, l’uomo sviluppa degli organi nuovi grazie a cui può continuare a vivere. Su questo punto Dio è abbastanza misericordioso». Voglio scatenare un’orgia di lettere L’arrivo degli occhiali contro la polvere, spediti da Christine Van Nooten senza essere stati richiesti, le strappa «un vero urlo di gioia». Trova che andrebbe dieci volte più volentieri in Polonia se riuscisse a togliere dal campo i suoi. Intanto avverte: «Quando non potrò più scrivere, potrò ancora spedire una cartolina postale all'arrivo di un pacco, con le parole “pacco ricevuto” e niente più. Se dunque riceverai delle insulse cartoline simili, saprai che non si poteva fare diversamente»; comunica anche un eventuale linguaggio in codice per i telegrammi.
L’uomo che abitualmente rade suo padre non ha potuto fare a meno di dirgli: «Lei è una persona che in ogni circostanza sa fare qualcosa della propria vita». Egli «è circondato da persone gentili, che cercano tutte le cose che lui smarrisce ogni giorno con una sorta di grandezza e indifferenza» e ha anche ritrovato tanti antichi compagni di studio. Passa il suo tempo leggendo la Bibbia «con grande impegno e interesse, e paragona fra loro 153
i testi francesi, greci e olandesi». Etty gli ha portato gli scritti di Meister Eckart e qualche altro volume che aveva con sé. Un regalo speciale, che la potrebbe rendere «felice e raggiante» sarebbero dei fazzoletti di carta. «Qui infatti si è cronicamente raffreddati, per il clima che non vuol mettersi a posto». Poi, «quando si fa bucato, la biancheria diventa più sporca che pulita. In fondo il problema igienico è il più disperato». Inoltre «papà si lamenta sempre di essere il peggior zingaro di Westerbork, ma non si accorge che gli altri si trovano nelle stesse condizioni». E chiude esprimendo la speranza di poter scrivere ancora, «ma sembra che tra breve sarà finita». Dalla sua cuccetta, che è la terza in alto, vuole «presto scatenare
un'orgia di lettere» — scrive il 3 luglio a Johanna Smelik e a suo padre, Klaas, incontrato nel 1932 a Deventer e di cui fu per un
breve periodo amante — perché tra pochi giorni entreranno in vigore le misure restrittive sulla corrispondenza: si potrà spedire solo una lettera ogni quindici giorni e dovrà essere consegnata aperta. Anche per lei ora «ci sono dei momenti in cui
uno crede di non poter proprio andare avanti». Improvvisamente «il cielo diventa basso e nero, il nostro modo di sentire
la vita subisce dei grandi mutamenti e il nostro cuore diventa completamente grigio e millenario». Nella miseria indescrivibile delle baracche «si vive come topi in una fogna». La mia strada arriva già in un altro mondo
Le avevano scritto del rifiuto di vivere di tanti. Dice di capire, ma trova che «è un argomento malsano. C'è un limite a tutte le sofferenze, forse a un essere umano non è dato da sopportare più di quanto non possa: oltrepassato quel limite, muore da sé». Anche nel campo «ogni tanto muore qualcuno perché il suo spirito è a pezzi e non riesce più a capire, in genere sono persone giovani. Le persone anziane sono piantate in un terre-
no più solido e accettano il loro destino con dignità e rassegna134
ri
zione». Con una metafora tenta di spiegare il suo stato d’animo: «Quando un ragno tesse la sua tela, non lancia forse i fili
principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra? La strada principale della mia vita è tracciata per un lungo tratto davanti a me e arriva già in un altro mondo. È proprio come se tutte le cose che succedono e che succederanno qui siano già, in qualche modo, date per scontate dentro di me, le ho già vissute e assorbite e già partecipo alla costruzione di una società futura». Le forze profonde non subiscono grandi riduzioni, fisicamente sì è un po’ debilitati e a volte immensamente tristi, «ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte». Umanissimo, affiora ancora un desiderio: «Un cuscino, per esempio un
vecchio cuscino di un divano, questa paglia è proprio un po’ dura alla lunga». Però, conclude: «Il mio unico desiderio è che stiate bene e che siate lieti, scrivetemi ogni tanto due righe innocenti».
A prevenire il rischio di non poter più scrivere «domani 0 dopodomani», «voglio provare a tirar fuori per incanto una lettera», scrive il 5 luglio a Han Wegerif. Dalla soffiata di un amico ha saputo che i suoi genitori sono stati inclusi sulla lista dei partenti e si dà da fare. Per stavolta forse sono risparmiati. «Il più duro lavoro nel campo è preferibile a queste tensioni ogni settimana», sapendo che, rispetto alle prospettive polacche, «la vita di qui è ancora un idillio». Sta per partire un treno e si sente «come dopo un parto», perché è riuscita a tener fuori i suoi genitori. «Io non avevo ancora mai “lavorato” per sottrarre qualcuno alla deportazione, mi manca qualsiasi attitudi-
ne alla diplomazia». Disfatta dalla stanchezza, abbandona il turno della notte.
«Tanto per cambiare — annota nel tardo pomeriggio — sono svenuta in una grande baracca soffocante, il che ha il suo lato utile, ci ricorda che la forza fisica di una persona è limitata. Era diventato tutto un po’ troppo. Oltre alle baracche dell'ospedale 135
mi è stata assegnata la baracca di punizione». In più, «abbiamo una sovrabbondanza di medici che non possono far niente di utile». In mezzo a «un’ecatombe di donne malate» a causa di «un bacillo impertinente che si aggira per la baracca», scrive: «Avevo anche cominciato a soffrire di “timbrite”, ci sono timbri
rossi, verdi e blu e se ne può parlare per 24 ore su 24, è un tema inesauribile». Al momento sono tutti agitatissimi, «perché tutti i timbri sono scaduti, è in corso una nuova classificazione». «Stanno giocando con noi, ma noi lo consentiamo, e la nostra
vergogna rimarrà incancellabile per tutte le generazioni future». 10 luglio 1943: da oggi residenti nel campo Sono già partiti in diecimila da Westerbork, vecchi e lattanti, giovani, adulti, sani e malati, in settanta per vagone, senza distinzioni. «La gente non vuole riconoscere — scrive a Maria
Tuinzing il 10 luglio — che a un certo punto non si può più “fare”, ma soltanto essere e accettare. Io ho cominciato ad ac-
cettare già da molto tempo, ma accettare si può solo per se stessi e non per gli altri, ed è per questo che sto passando un momento terribilmente difficile». Mischa e lamamma si ribellano,
«e io sono del tutto impotente di fronte al loro atteggiamento. So bene che si deve pregare per gli altri nel senso che trovino la forza per sopportare ogni cosa. Invece io dico sempre: Signo-
re, fa che duri il meno possibile». La cosa disperante del campo è che «la maggior parte delle persone non è in grado di sopportare il proprio destino e lo scarica sulle spalle altrui. Io mi sento all’altezza del mio destino, ma non mi sento in grado di sopportare quello dei miei genitori». In quel pomeriggio devono consegnare i documenti d'identità, divenendo ufficialmente «residenti nel campo». Ricorda Spier da cui ha appreso la «grande lezione di Matteo»: «Non preoccupatevi dunque del domani: a ciascun giorno basta la sua pena». Questo è «l’unico
atteggiamento con cui si possa affrontare la vita di qui. E ogni 136
sera, con una certa pace di spirito, io depongo le mie molte preoccupazioni terrene ai piedi di Dio stesso», mentre quelle grandi sono già «diventate un destino in cui ci si è integrati». A Henny Tidemann dice: «M’è venuto da scrivere queste cose nel mio diario, ora le mando a te». Sono «cose» stupende, che meritano di essere riprese per intero: «Mi hai resa così ric-
ca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio
Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacri-
me che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza. Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e
questa è la mia preghiera. Sono molto, molto stanca, già da diversi giorni, ma anche questo passerà. Forse non diventerò mai una grande artista come in fondo vorrei, ma mi sento già fin troppo al sicuro in te, mio Dio. A volte vorrei incidere delle piccole massime e storie appassionate, ma mi ritrovo pronta-
mente con una parola sola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose. E la mia forza creativa si traduce in colloqui interiori con te, e le ondate del mio cuore sono diventate qui più lunghe, mosse e insieme tranquille, e mi sembra che la mia ricchezza interiore cresca ancora. Da qualche tempo Jul' si libra nel cielo di questa brughiera, è una cosa inesplicabile, è un nutrimento quotidiano. Accadono proprio dei miracoli in una vita umana, la mia è
una catena di miracoli interiori, fa bene poterlo di nuovo dire a qualcuno». Su un frammento non datato di lettera, posteriore al 18 agosto e indirizzato ad Han Wegerif, scrive, rivelando ulteriormente il suo intimo sentire: «C'è una frase della Bibbia che mi ! Julius Spier.
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dà sempre forza. Credo che sia all'incirca così: “Se tu mi ami, devi abbandonare i tuoi genitori”. Ieri sera, mentre dovevo di nuovo lottare duramente per non essere paralizzata dalla compassione per i miei, ho visto anche questo: non bisogna lasciar-
si consumare dal dolore e dalle preoccupazioni per la famiglia al punto da non provare più interesse e amore per il prossimo.
Sono convinta che l’amore per il prossimo, per qualsiasi creatura a somiglianza di Dio; debba stare più in alto dell'amore per i parenti». E questo, scrive, è possibile e «così semplice nella vita». Le restrizioni proseguono la loro marcia inesorabile: ora nella lettera quindicinale «ci è permesso di scrivere da una parte sola del foglio». Nel reparto maternità ha scoperto una bimba di nove mesi, «qualcosa di molto bello e dolce e con gli occhi celesti». È arrivata al campo alcuni mesi prima come S-Fall, un caso penale, non si conoscono i suoi genitori, le infermiere le sono molto affezionate, ma... non la possono portare fuori con gli altri bebè all'aria aperta, perché «era pur sempre un S-Fall!». Nella stessa baracca vi sono molti bambini. Etty è sconcertata dal come anch'essi si adeguino all'ambiente nel loro linguaggio e nel loro rapportarsi. Una ragazzina gracile e denutrita, per esempio, le ha detto con la stessa naturalezza con cui uno scolaretto ti può raccontare le tabelline che impara a scuola: «Sì, io vengo dalla baracca di punizione, io sono un caso penale». La posta, «un pezzetto della vostra viva presenza» viene recapitata sempre più raramente. Nella seconda lettera di Etty pubblicata dalla resistenza olandese nel 1943, redatta il 24 agosto, si sente il peso di una situazione sempre più insostenibile. È sconvolta dalle espressioni dei volti della scorta armata in uniforme verde: «Le ho osservate una per una, dalla mia postazione nascosta dietro una finestra, non mi sono mai spaventata
tanto come per quelle facce. Mi sono trovata nei guai con la Parola che è il tema fondamentale della mia vita: “E Dio creò 138
l’uomo a sua immagine”. Questa Parola ha vissuto con me una mattina difficile». Occhi inorriditi di un pezzo di storia ebraica Si dice incapace di descrivere una notte come quella appena vissuta. Eppure «ci si sente sempre occhi e orecchi di un pezzo di storia ebraica, talvolta si prova il bisogno di essere una piccola voce. Dobbiamo pur tenerci informati di ciò che accade negli angoli remoti di questo mondo e ognuno deve portare il proprio sassolino, per farlo combaciare con gli altri nel mosaico che a guerra finita coprirà tutta la terra». Affida alla carta ricordi drammatici, di piccole grida penetranti di bambini, di una ragazza paralizzata «che non voleva nemmeno portarsi un piatto per mangiare, e che trovava così difficile morire», e tanti uomini, raccolti nel recinto di filo spinato, dei quali «i più avevano un’aria intraprendente e piena di coraggio». E poi un ragazzo impaurito che «aveva perso la testa ed era scappato. I suoi fratelli di razza erano stati costretti a dargli la caccia». Presto ritrovato in una tenda, cinquanta vittime hanno comunque dovuto partire, «per dare un esempio». Incrocia figure dignitose come la vecchietta che ha superato gli ottant'anni, ma ne dimostra meno di sessanta, dalla «fronte aristocratica e i capelli bianchissimi e pettinati verso l'alto». E incontra figure deformi e trasandate, altre totalmente smarrite.
Gira smarrita tra le baracche. «Vedo portar via un vecchio moribondo che recita lo Shema. Vedo un padre che prima della partenza benedice sua moglie e suo figlio, e che si fa benedire a sua volta da un vecchio rabbino dalla barba bianca come la neve, e dall’ardente profilo di profeta. Vedo... ma tanto non riesco a descriverlo». Le parole non bastano più a descrivere l’orrore. Arriva uno stuolo di uomini in uniforme verde, sulla
schiena hanno zaino e fucile. «Alla partenza di altri convogli avevamo spesso visto dei tipi ancora abbastanza integri e bona139
ri, che giravano stupiti per il campo fumando la pipa, e parlavano un dialetto incomprensibile — dei tipi con cui non si sarebbe temuto d’intraprendere il viaggio. Ora sono inorridita. Questi sono ceffi ottusi e beffardi in cui si cercherebbe invano
un residuo di umanità». Su quello che Etty chiama Boulevard dei deportati il comandante del campo passa in rassegna «le sue truppe: malati, lattanti, giovani mamme e uomini rapati a zero». Ha poteri asso-
luti sulla vita e sulla morte degli ebrei olandesi e tedeschi raccolti su questa brughiera del Drenthe, di cui con ogni probabilità l’anno prima ignorava perfino l’esistenza. Gli compare accanto l’Oberdienstleiter, il direttore generale dei servizi del campo, un ebreo tedesco dalla statura possente, che «ha labbra crudeli e collo forte, da despota. Appena un anno fa lavorava come sterratore nel servizio esterno. La sua rapida asce-
sa costituisce un significativo pezzo di storia della mentalità contemporanea, in futuro si dovrà ritornare su questo tema».
Entrambi sfilano lungo il treno, mentre tutti li fissano con muto terrore. Poi «un fischio acuto e stridente e un treno con 1.020 ebrei lascia l'Olanda». La moltitudine degli aiutanti torna nei dormitori, a riposare. «Si vedono molti visi sfiniti, pallidi e sofferenti. Un altro pezzo del nostro campo è stato amputato, la prossima settimana toccherà al prossimo pezzo, qui si vive così da più di un anno, settimana dopo settimana. Siamo rimasti in poche migliaia. Già centomila nostri fratelli di razza olandese faticano sotto un cielo ignoto, o stanno imputridendo sotto una terra ignota. Non sappiamo nulla del loro destino». È il 2 settembre e scrive a Maria Tuinzing che il martedì precedente sono scampati al convoglio in partenza, ma se martedì prossimo partirà un altro treno, ci saranno pochissime probabilità di trattenere al campo i suoi genitori. Quella stessa mattina trova sottosopra l’ufficetto: «Era stato requisito come spogliatoio per la rivista, che in questo momento occupa tutto
140
il campo». Tutto sembra essere finalizzato allo spettacolo di varietà, anche «le tavole di legno della sinagoga di Assen sono state segate per allestire il palcoscenico del balletto». Pure «nella notte precedente l’ultima deportazione si è continuato a lavorare tutto il tempo per la rivista. Qui ogni cosa è di un’indescrivibile e buffonesca assurdità e tristezza». Abbiamo lasciato il campo cantando
Non ha perso, come suo padre, il senso dell'umorismo: «Io sto bene. Ho ripreso a lavorare al mio russo per un’ora al giorno,
leggo qualche Salmo e parlo con donne centenarie, che ci tengono molto a raccontarmi tutta la loro vita. In fondo io vivo qui proprio come quando stavo con voi a Amsterdam; vivo nel-
la comunità ma anche molto per me stessa e questo mi riesce benissimo, sebbene qui si stia addosso e sopra e sotto e in mezzo agli altri». Le racconta del papà, che a un infermiere dell’ultima deportazione ha domandato: «“Com’è possibile che l'ospedale lasci partire delle persone quasi morte, non è forse contro l’etica medica?”. E quell’operatore sanitario gli ha risposto serissimo: “L'ospedale consegna un cadavere per trattenere un vivo”. Non voleva affatto essere spiritoso, lo diceva proprio sul serio». Pensa con un po’ di nostalgia: «Come eravamo giovani solo un anno fa su questa brughiera, Maria, ora siamo un tantino più vecchi. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal dolore, per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità, Maria — devo ritornare sempre su questo punto». «Se solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani». Ma di fronte all’esorbitanza dei bisogni e delle richieste d’aiuto si sente inadeguata. Avverte l’imminenza del distacco e la prega: «Per favore, guarda una volta Kathe con occhi amichevoli da parte mia, e accosta la tua guancia a quella di papà Han, anche da parte mia. E state ancora bene insieme? PAL
E mi saluti la mia cara scrivania, il più bel posto di questa terra? E Swiep e Wiep e Hesje e Frans e gli altri? Ti guardo un momento
in faccia, mia cara, e non dico più molto». La sua
vita si raccoglie tutta in un intensissimo sguardo. L’ordine di partenza per Mischa e «tutta la sua famiglia» viene dato direttamente dal capo supremo delle SS e della polizia, Rauter, irritato per la lettera inviatagli dalla madre, che chiedeva il riconoscimento dello statuto di ebreo intellettuale per il figlio pianista, cosa che l'avrebbe sottratto alla deportazione. Come funzionaria Etty dovrebbe essere esclusa. Ma il comandante del campo, Gemmeker, interpreta la consegna nel modo più stretto e il 7 settembre 1943 dispone anche la sua partenza per Auschwitz. Sono poche righe su una cartolina postale, indirizzata a Christine van Nooten e buttata fuori dal treno che la porta a Est, l’ultimo messaggio scritto di Etty. Ritrovata lungo la linea ferroviaria, viene spedita da Glimmen, nella provincia di Groningen, il 17 settembre. «Christine, apro a caso la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto rifugio”. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aja. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le
vostre buone cure. Arrivederci da noi quattro».
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VII Si poteva evitare?
Etty muore ad Auschwitz-Birkenau il 30 novembre 1943, mentre i suoi genitori sono mandati direttamente dal vagone ferroviario ai gas. Mischa muore il 31 marzo 1944. Jaap è deportato a Westerbork e poi in Polonia. Sopravvissuto, ma gravemente ammalato, muore mentre torna in Olanda.
È Jopie Vleeschouver, il 6 0 7 settembre 1943, a scrivere agli Wegerif, a Maria, a Tide della partenza avvenuta e degli ultimi febbrili momenti che l'hanno preceduta. «Non sarà facile darvi queste notizie. È successo tutto così improvvisamente, così in-
aspettatamente. Strano che sia stata “ancora” una sorpresa, dal momento che eravamo tutti pronti da tempo. E così è stato, lei era pronta. E ahimè, è anche partita». Solo il lunedì pomeriggio si era saputo dall’Aja che la richiesta d’esonero di Mischa era stata respinta e che anche lui sarebbe dovuto partire con la sua famiglia. Si era sperato in una revoca per Etty, poi si era
ottenuto che tutti i sessanta membri del Consiglio ebraico per il momento restassero e così avevano preparato i bagagli per tre persone. Era certo ormai che «la settimana prossima “tutti” i genitori di quelli che hanno il marchio rosso sarebbero comunque dovuti partire, senza eccezioni. Mischa aveva già deciso di partire coi suoi genitori e per loro era pronto a sacrificare
tutti i suoi privilegi personali». Tutto ora accadeva con una settimana di anticipo, «ma per Etty era un colpo, dal momento che non voleva viaggiare coi suoi genitori e che preferiva abbandonarsi a questa nuova esperienza libera dal peso di legami 143
familiari». Così «per lei è stato come un colpo in testa, che per un momento l’ha messa letteralmente a terra. Un'ora dopo però si era già ripresa, e si era adattata con ammirevole rapidità
alla nuova situazione». Sempre più avanti verso l’Est
Nella baracca 62 scelgono e preparano pacchi di vestiti e di viveri. Il padre di Etty camuffa il suo nervosismo traducendolo in battute umoristiche, che irritano Mischa, cui già «pesava parecchio dover lasciare qui tutta la sua musica». Jopie, che li aiuta nei preparativi, riesce a infilare quattro spartiti arrotolati
nello zaino, «il resto (anche il pacco di provviste che è appena arrivato) — scrive — riempie ora una valigia che sarà rispedita a Amsterdam alla prima occasione». La mamma, con il coraggio dei momenti difficili, mostra «una calma ammirevole». Se per altre partenze erano rimasti svegli tutta la notte a causa del trambusto, «questa volta invece dormivano pacificamente quando, alle tre, Etty e io siamo passati a vedere se si poteva continuare a preparare i bagagli». Tornati a informarsi sulle possibilità di rinvio, capiscono con loro «grande stupore» che sono minime. Nel frattempo le colleghe di Etty le hanno preparato i bagagli «alla perfezione, fin nei minimi dettagli». Dopo che la direzione del Consiglio ebraico si è dichiarata impotente, provano ancora a scrivere al primo ufficiale di servizio, chiedendogli di intervenire. Pensano: «Forse si potrà ottenere qualcosa al treno. Ma allora dev'essere tutto pronto per la partenza e i suoi genitori e Mischa si sono sono avviati per primi»
verso i convogli. «Parlando allegramente, ridendo, una parola gentile per tutti quelli che incontrava, piena di umorismo scintillante anche se forse un pochino malinconico, proprio la nostra Etty come tutti voi la conoscete» eccola sulla banchina. «Ho con me i miei diari, la mia piccola Bibbia, la mia gramma-
tica russa e Tolstoj e non so quante altre cose». Si congeda da
144
uno dei capi che è andato a salutarla, ringraziandolo «di aver fatto comunque tutto il possibile». Quindi «mi ha pregato di raccontarvi ogni cosa. Ed eccomi qua, certo un po’ triste per
qualcosa che si è perduto eppure no, perché un'amicizia come la sua non è mai perduta, “c'è” e rimane». Sono le stesse parole che egli scrive su un pezzetto di carta e che le mette in mano all’ultimo momento. Poi la perde di vista. Vaga un po’ nelle vicinanze, cercando qualcuno che possa ancora intervenire, ma tutto si rivela inutile. «Vedo la mamma, papà Hillesum e Mischa salire sul vagone numero l. Etty finisce sul vagone numero 12, dopo essere passata a salutare una sua buona conoscenza nel vagone numero 14, che all'ultimo momento viene fatta scendere. Il treno parte, un fischio acuto, e i mille “abilitati alla deportazione” si
mettono in moto. Ancora una visione fuggevole di Mischa che saluta con la mano da una fessura del vagone merci, poi un allegro ciao di Etty dal vagone numero 12, e sono partiti». Jopie ora dev'essere esausto. «È partita: ci sentiamo derubati, ma non restiamo a mani vuote. E ci rivedremo presto. È stato un giorno pesante per tutti», in particolare per quanti più a lungo
sono stati a contatto con lei. «La vicinanza fisica di una persona è ben diversa dalla sua prossimità spirituale. Si sente un vuoto, all’inizio. Ma si va avanti, mentre scrivo queste cose tut-
to va avanti e anche lei va avanti, sempre più avanti verso l’Est dove aveva tanto desiderato di viaggiare». Ritorneremo tutti un giorno
Nella ferita aperta s'insinuano vari interrogativi, «e soprattutto
questo: si poteva evitare? Ma posso escluderlo». Dopo alcune notizie pratiche, conclude: «Fatevi coraggio. Ritorneremo tutti un giorno, persone come Etty sanno cavarsela nelle situazioni
più difficili». È la domanda che puntualmente rispunta caparbia di fronte a ogni tragedia consumata dalla prevaricazione e 149
dalla perfidia umana: si poteva evitare? Penso agli arsenali di morte, alle bombe batteriologiche, alle violenze gratuite su piccoli e inermi, alle mine antiuomo con il loro tragico seguito. La “resistenza esistenziale” della Hillesum sollecita, giudica, im-
pone la scelta di una logica diversa. Il suo essere fuori dagli schemi e troppo in anticipo sui tempi ha fatto sì che per vari decenni si lasciassero negli archivi i suoi diari. Oggi il suo riconoscimento assume valore di impegno. Se la Terra è «un pianeta da amare», molto più l'umanità che la abita, cui è dovuta cura paziente e amorosa, perché a ciascuno sia dato di avere parte al giardino affidatogli dall’Eterno, perché lo coltivi e lo custodisca con rispettosa tenerezza. Incoraggiati da Etty, libera allieva del maestro interiore che ha originalissimamente seguito e inseguito, approdando allo shalom' biblico, a lidi tersi e sconfinati di pienezza e di pace là dove tutto pareva negarli.
3 Shalom: Sain : at ebraico, pace come pienezza di ogni bene cercato e atteso.
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II. IL DIARIO: CAPOLAVORO
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LETTERARIO E TESTAMENTO
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Patlascinante pisicorhitologo 000... sona Ora che non voglio più possedere nulla, COLMI ESD ei rt Come botti vuote in cui si sciacqua la storia. ......... PDevo.tWovare io stessa la miaforma.. iv. a Dobbiamo ancora nascere come persone ............ fatlessionicalorrafneddore. ile e nn L’avidità di conoscere tutto della vita ...............
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III. TRA CONTRADDIZIONE E MISTERO ..........
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Ho ventisette anni e mi sento già vecchia. ........... Autunno 1941:
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quando vorrebbe espandersi in una parola. ..........
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Un tappeto di cocco per la ragazza che non sapeva inginocchiarsi . ........ La:preghiera liberatriee:del per-dono=. 0 ae Angoscia per un figlio indesiderato. ................ L’esperienza dell'aborto e l'ossessione di avere sbagliato tutto ............... La sicurezza delle sorgenti che zampillano dal profondo Spinta a terra da qualcosa più forte di me. ........... 1941a rela e e RI E SA Terapia d’urto per una nonviolenza attiva ...........
Viviamo ogni giorno una vita intera
Nersinegei confronti della morte
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Il soldato tedesco kasher, un’uniforme con il volto
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L’armatura interiore
Alle spalle una vita sregolata Il mostro è dentro di noi
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V. 1942: SPOSO IL DESTINO DEL MIO POPOLO Semplici e senza parole come il grano che cresce Se Dio non mi aiuterà più, io aiuterò Dio
Preghiera della domenica mattina Sui merli del palazzo della storia
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Il dialogo pazzo, infantile, serissimo della preghiera ... Un ambiente a metà tra inferno e manicomio. . .......
—Pag.102 » 103
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Voglio scatenare un’orgia di lettere. ................ La mia strada arriva già in un altro mondo. .......... 10 luglio 1943: da oggi residenti nel campo. ......... Occhi inorriditi di un pezzo di storia ebraica . . ....... Abbiamo lasciato il campo cantando. ............... BIIPSSIPOTEVNAFEVIRARE (alato
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Sul filo della vita La storia di Jacques Fesch
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Collana «Testimoni del nostro tempo» pp. 144 - L. 19.000
Il volume, in uno stile avvincente, ripropone la storia umana e cristiana di Jacques Fesch, un giovane di ventisette anni condannato a morte per omicidio. Attraverso i suoi scritti e le testimonianze dirette di coloro che gli sono stati vicino, l’Autrice ricostruisce l’itinerario della
conversione di Jacques. Sono pagine che vogliono farci riflettere non solo sul problema della condanna a morte, ma anche farci ripensare il nostro modo di giudicare coloro che, in qualche modo, si sono posti ai margini di una società.
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L’assurdo di Auschwitz e il mistero della croce Collana «Testi spirituali» pp. 304 - L. 27.000
Andare ad Auschwitz è un po’ come scendere nell’inferno, nel mistero dell’iniquità, che è per definizione l’assurdo. Andare in pellegrinaggio ad Auschwitz è imparare a scoprire — con la guida di maestri autorevoli — che anche nell’abisso del male possono fiorire figure come Edith Stein o Massimiliano Kolbe, che hanno saputo fare dono supremo della loro vita sulle orme di Gesù, Buon Pastore. Un libro impegnativo e illuminante che aiuta ad accostarsi al “mysterium iniquitatis” con una fede diventata adulta, perché dopo Auschwitz non è più possibile una fede ingenua.
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ACCANTO AL MALATO .. Sino alla fine Esperienze e testimonianze prefazione di Luigi Accattoli
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Antonio Thellung
Accanto al malato ... Sino alla fine Esperienze e testimonianze
pp. 144 - L. 18.000
«Antonio Thellung ci assicura — in questo libro — di essere, per tanti versi, un egoista e un mediocre. E gli crediamo facilmente: se è davvero così, ci somiglia. Ma dice anche una cosa rara sulla terra: “ho imparato a essere felice”. Anzi una cosa rarissima, dal momento che precisa di aver imparato quell’arte assistendo, in casa, i malati terminali». «Trattandosi di un messaggio così raro, conviene leggere il libro... Possiamo affidarci alla narrazione dell’avventura pienamente umana
vissuta... da un uomo
che — in
gruppo con altri uomini e donne - si offre da anni per l'accompagnamento dei malati gravi “fin sulla soglia”» (dalla Prefazione di Luigi Accattoli). Leggendo queste testimonianze di storie vissute si incontrano pagine dure, come dura talvolta è la vita, ma piene di speranza: si può condividere la sofferenza in modo costruttivo.
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Ebreo fratello nostro Per conoscere l’ebraismo,
per approfondire il cristianesimo
pp. 248 - L. 20.000 «Al fondo di questo libro c'è un’intuizione grande e profonda: far conoscere e amare l'ebraismo partendo dalla conoscenza dei testi e delle tradizioni del popolo ebraico e, insieme, mettere in luce i rapporti tra ebraismo e cri-
stianesimo» (dalla presentazione del cardinale Martini). «La conoscenza reciproca tra cristiani ed ebrei è il primo passo di riavvicinamento dopo secoli di distanza e di indifferenza, di sofferenza e di disprezzo» (Nathan Ben Horin, incaricato dei rapporti di Israele con il Vaticano). Questo libro, unico nel suo genere, presenta tutto ciò che un cristiano deve sapere per riscoprire le radici ebraiche del cristianesimo e conoscere i valori della fede e della vita di Israele, le ricchezze spirituali dell’ebraismo, l’iden-
tità degli ebrei di ieri e di oggi. Un'opera scritta con stile vivace, destinata sia agli adulti sia ai ragazzi.
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Le Chiese cristiane e le altre religioni: quale dialogo? A cura del Segretariato Attività Ecumeniche Collana «Percorsi ecumenici»
pp. 224 - L. 28.000
Viviamo
oggi in Europa
un'esperienza
relativamente
nuova, contraddistinta dalla presenza massiccia di immigrati che professano altre religioni, dall’indebolimento del senso di appartenenza alle comunità cristiane tradizionali, dall’attrazione esercitata dalle sette. Questi feno-
meni interpellano in modo nuovo l’ecumenismo: come porsi di fronte alle altre religioni? I cristiani delle diverse confessioni possono, al riguardo, condividere un atteg-
giamento comune?
La XXXIV Sessione di formazione ecumenica del SAE ha voluto avviare la riflessione per trovare risposte creative a questa nuove domande.
ANCORA
Collana Testimoni del nostro tempo G. Merlatti, Su/ filo della vita. La storia di Jacques Fesch.
B. Olivera (a cura di), Martiri in Algeria. La vicenda dei sette monaci trappisti. G. Bianchi, Maestri possibili. Figure di cristiani del XX secolo.
G. Basetti-Sani - M. Verderio, Musulmano e cristiano. L’*impossibile” vicenda del francescano Giovanni-Maometto.
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TESTIMONI
DEL
NOSTRO
TEMPO