Le antiche chiese orientali. Storia e letteratura 8831174649, 9788831174640

Dopo aver affrontato la questione nodale del rapporto tra la prospettiva universale, propria del cristianesimo, e gli el

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Italian Pages 458/459 [459] Year 2005

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Le antiche chiese orientali. Storia e letteratura
 8831174649, 9788831174640

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LE ANTICHE CHIESE ORIENTALI

Paolo Siniscalco

LE ANTICHE CHIESE ORIENTALI storia e letteratura Contributi di:

Michel van Esbroeck / René Lavenant Paolo Marrassini / Tito Orlandi / Romano Penna Giulia Sfameni Gasparro

In copertina: Monastero di San Paolo (sec. V ca. - deserto orientale d’Egitto), legato alla memoria dell’eremita Paolo di Tebe, veduta dell’interno. Foto © Massimo Capuani. Progetto grafico di collana di Rossana Quarta © 2005, Città Nuova Editrice Via degli Scipioni, 265 - 00192 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 88-311-7464-9 Finito di stampare nel mese di giugno 2005 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via S. Romano in Garfagnana, 23 00148 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

PREMESSA

1. Le antiche Chiese orientali. Storia e letteratura: è il titolo di questo libro che si prefigge di esaminare la grande varietà delle Chiese orientali antiche che sorgono durante i primi mille anni della nostra èra e che ancora oggi hanno vita. Un libro, va subito detto, nato dalla collaborazione di studiosi dei quali si dirà più oltre, che hanno integrato per la parte letteraria la trama storica disegnata da chi scrive. Pur nel limite ristretto di una pubblicazione che intende seguire un percorso secolare e abbracciare nello spazio un’area geografica assai vasta con un “taglio” sintetico e pur con la consapevolezza che si sono colte solo le grandi linee di un quadro complesso, si vorrebbero esporre risultati di studi non tanto volti a delineare l’istituzione ecclesiastica, la sua struttura, la sua organizzazione, ma piuttosto a cogliere la vita e i caratteri di cristianità, di comunità di credenti quali si sono dispiegate attraverso la “lunga durata”, i progetti che hanno abbozzato o realizzato per rendere in qualche modo coerente il loro pensiero e le loro opere rispetto alla fede in Cristo che hanno professato. Ci si propone insomma, certo a grandi linee, di meglio conoscere comunità di uomini e di donne che hanno costituito realtà di natura religiosa, spirituale, dottrinale, ma anche di natura sociale, civile, politica e soprattutto culturale (donde il rilievo dato alle espressioni letterarie); comunità che naturalmente sono andate incontro a vicende molteplici, anche dolorose, originate spesso queste ultime da malintesi, contrasti, lotte, interessi di vario genere, o da leggi a loro avverse, o da invasioni di altri popoli, o da catastrofi naturali; comunità che, tramite loro rappresentanti eminenti, hanno dibattuto questioni teologiche, che nella preghiera a Dio hanno saputo conformare diverse liturgie, hanno costruito “isole” di assistenza e di carità, hanno creato opere d’arte (e non solo letterarie, ma anche figurali ed architettoniche), sono entrate in contatto con il mondo diverso che le circondava e nel quale erano immerse. Esse sapevano che il messaggio evangelico esigeva una conversione profonda del singolo, ma proprio per questo portava con

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Premessa

sé un mutamento e un affinamento dell’esistenza, riflettendosi su tutta la collettività; in altri termini sapevano che se quel messaggio doveva avere una dimensione personale e interiore, non poteva mancare di averne anche una sociale. Già presente nel giudaismo, per i cristiani un tale carattere era esaltato e radicalizzato dal fatto stesso d’essersi incarnato il Verbo, Figlio di Dio, d’essere quindi venuto ad abitare tra gli uomini. A differenza di altre grandi civiltà, la civiltà ispirata dal cristianesimo conosce l’incarnazione del Verbo e questo fatto, storicamente parlando, ha avuto un immenso riflesso nella sua evoluzione fino ad oggi. In ogni modo, seguendo le Chiese orientali antiche si assiste al formarsi e all’evolversi di cristianità, al plurale, ciascuna originatasi in uno specifico contesto, distinta da elementi che risentono dell’influenza dei tempi e degli ambienti in cui nascono; cristianità che plasmano forme di presenza sempre provvisorie e perfettibili, anche quando abbiano tentato di rispondere alle esigenze evangeliche più genuine e non le abbiano tradite; comunità che talvolta sono state in stretto contatto le une con le altre, anche se nella presente pubblicazione si è scelto, per chiarezza espositiva, di considerarle separatamente. L’orizzonte che questo libro delinea è dunque molto ampio e le notizie che vi sono date sono necessariamente limitate e ridotte all’essenziale. Ciò si dice perché il lettore non si attenda ciò che il presente volume non dà. Per avere una prima fondata idea della complessità e della ricchezza presentate dalle espressioni cristiane in Oriente è sufficiente leggere, tra l’altro, i tre recenti volumi dell’Handbuch der Ostkirchenkunde, rilevare il numero e la varietà dei contributi specialistici che vi sono raccolti e prendere atto della bibliografia ivi menzionata (cui altra se ne può aggiungere) relativa ai temi considerati 1. D’altra parte è opportuno osservare che le pubblicazioni in lingua italiana che trattano gli argomenti esposti sono estremamente scarse di numero, tra le quali alcune introvabili, perché esaurite. Occorre ancora osservare che si è preferito seguire nell’esposizione un criterio storico-geografico e non altri criteri – rispondenti a categorie intraecclesiali – adottati da pubblicazioni recenti o meno recenti, come quello che ha raccolto le Chiese secondo le tradizioni liturgiche o quello che le ha elencate secondo l’indipendenza dell’una rispetto alle altre o la comunione dell’una con l’altra.

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A cura di W. Nyssen - J.J. Schulz - P. Wiertz, Düsseldorf 1984-1997.

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2. Si è usato il termine «cristianità». A suo proposito occorre considerare che, negli ultimi decenni, storici e teologi lo hanno inteso negativamente, riferendolo per lo più a quella situazione, dei rapporti tra ordine civile e ordine ecclesiastico, nella quale l’alterità originaria dell’esperienza cristiana dinanzi al sistema “mondano” si è mutata in una mescolanza delle due realtà, affievolendo la forza del primo annuncio, specialmente nella sua accentuazione escatologica. Secondo questo uso, il termine indica un ordinamento temporale ove la fede diventa criterio diretto della vita sociale e rivendica la propria superiorità nei confronti dei poteri politici e nella concorrenza ad essi sullo stesso piano temporale. Così inteso il termine «cristianità» è sinonimo di regimen christianum o res publica christiana, espressioni che caratterizzano un’epoca della storia della Chiesa e dell’Europa, il Medioevo, in cui prevalentemente vigeva l’ordine cristiano e una determinata concezione del potere spirituale e di quello temporale. Nell’uso che ne faremo la parola ha da essere intesa in altro significato: non come società cristiana chiusa in se stessa, ma come insieme dei fedeli che si riconoscono in Cristo e che in pari tempo sono membri o cittadini della res publica terrena, i quali tendono a incidere sulle strutture politiche, sociali, culturali, per informarle dello spirito evangelico, al fine di contribuire a rendere la “civitas terrena” più umana e vivibile, secondo quello che ritengono essere il disegno di Dio sugli uomini e sulle cose, disegno di fraternità liberamente condivisa. In tal modo è possibile cogliere attraverso i secoli e in aree diverse modi di essere, di pensare, di agire che da una parte si prefiggono di assimilare, alla luce della Rivelazione in cui credono, ciò che di positivo scorgono nelle civiltà nelle quali dimorano e delle quali sono figli, e d’altra parte di rifiutare ciò che di negativo vi individuano: opera gigantesca, per dire così, di “continuità” e di “differenziazione”, non scevra evidentemente di limiti, di incertezze, di errori, di forzature e talvolta di veri e propri tradimenti rispetto allo spirito e alle indicazioni del messaggio originario. Come è stato scritto in relazione al periodo tardo-antico iniziale – quello in cui giusto nascono le Chiese a cui si dedica qui attenzione –: «Consolidandosi nella città terrena, il cristianesimo trasformò quest’ultima, segnando con la sua impronta i paesaggi, i ritmi del tempo, le relazioni umane, e le creazioni letterarie e artistiche. Inversamente, attraverso un fenomeno di osmosi, la città terrena con i suoi valori politici, sociali, culturali, fece irruzione nella comunità cristiana» 2. 2

Cf. L. Pietri, in Storia del cristianesimo. Religione, politica, cultura, vol. II, La

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Premessa

Nella nostra visuale una prospettiva appare tuttavia particolarmente significativa e degna di essere messa in luce: quella che si volge a seguire fino all’oggi, nelle loro secolari vicende, le «cristianità» che si succedono l’una all’altra o sono tra loro contemporanee, partecipi in ogni modo di situazioni, mentalità, problemi, lingue dissimili e radicate in regioni geografiche differenti. 3. Per comprendere la realtà di una tale variegata situazione occorre aprire la questione nodale riguardante il rapporto tra la prospettiva universale, propria del cristianesimo, e gli elementi locali che ne tessono necessariamente l’esistenza. A una tale questione è stato dedicato il I capitolo sulla Chiesa e sulle Chiese. Nel II capitolo si è dato rilievo ad una comunità che ha avuto ed ha un grande ruolo ideale e storico nei confronti di tutte le altre Chiese, intendo riferirmi alla Chiesa di Gerusalemme e alle vicende, ben poco conosciute, di cui è protagonista fin dai primi decenni successivi alla morte di Gesù. Il corpus centrale del libro è costituito da undici capitoli – dal III al XIV – concernenti la storia delle antiche Chiese orientali stricto sensu, e – a grandi linee – la produzione letteraria che ad esse fa capo. Seguendo un criterio latamente geografico, senza ancorarsi ai dati cronologici, non di rado incerti, l’esposizione passa ad esaminare le sorti della Chiesa copta d’Egitto (senza dimenticare l’ambiente greco di Alessandria), per poi passare alla Chiesa etiopica, alla Chiesa siriaca, nella porzione che usa la lingua greca, ma soprattutto in quella che usa il siriaco, protendendosi verso la Mesopotamia (a questo capitolo è stata aggiunta un’appendice relativa alla Chiesa maronita). Si è poi dedicata attenzione alla Chiesa assira, sviluppatasi inizialmente nell’Impero dei parti e poi in quello dei sasanidi, e alla Chiesa dell’India. Si sono considerate infine le Chiese armena e georgiana. L’ambito cronologico trattato vuol essere specialmente quello dei primi secoli della nostra èra, senza che questo limite impedisca di estendere l’attenzione – sia pure brevemente – fino alle vicende dell’oggi delle comunità delle quali si parla. Un’appendice finale fornisce elementi, per lo più trascurati o del tutto ignorati, che sono parsi essenziali per integrare il quadro tracciato. Essa è formata da quattro parti: la prima riguarda l’ambiente giunascita di una cristianità (250-430), a cura di Ch. e L. Pietri, tr. it., Roma 2000, p. 523.

Premessa

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daico delle origini cristiane e le opere che lo rappresentano; la seconda riguarda la prima letteratura cristiana della quale gli scritti che con il tempo acquisteranno valore normativo – gli scritti, intendo, del Nuovo Testamento – sono i testimoni più antichi, hanno origine nel vicino Oriente e assumono importanza basilare per lo sviluppo del nascente movimento cristiano. La terza e la quarta parte trattano dello gnosticismo e del manicheismo. A prescindere dalle discussioni relative alle origini dello gnosticismo, si sa che esso si manifesta vigoroso e in piena fioritura intorno alla metà del II secolo e che si estende, oltre che a Roma, specialmente nel vicino Oriente, in Palestina, in Siria, in Egitto, ove in anni recenti è venuta alla luce un’intera biblioteca gnostica, a Nag Hammadi, che riveste per la conoscenza di quel movimento un’importanza straordinaria. Alcune delle Chiese delle quali si parlerà sono dunque profondamente coinvolte da quel fenomeno religioso. Per i medesimi motivi, parlando della Chiesa assira sono introdotte pagine concernenti il manicheismo, che nasce in Mesopotamia nel III secolo con l’insegnamento di Mani e che si estenderà non solamente in Occidente, ma fino all’Estremo Oriente durante i secoli successivi. È noto che Marco Polo in Cina alla fine del XIII secolo avrà contatti con manichei (e riferirà di comunità cristiane nestoriane esistenti in aree della Cina centro-settentrionale). 4. Da questa visuale rimangono escluse le Chiese dell’Asia Minore e la Chiesa di Costantinopoli, che non si annoverano tra le Chiese orientali antiche e la cui storia, ieri come oggi, è relativamente più nota nella nostra cultura, anche per la bibliografia più abbondante che le riguarda, a disposizione in lingua italiana. Per motivi cronologici, rimane esclusa la storia del cristianesimo slavo. L’intento è stato quello di recare un contributo alla conoscenza di realtà che hanno espresso ed esprimono testimonianze religiose e culturali di grande valore, ma che sono generalmente ignorate, pur tornando quelle stesse realtà, in particolare negli ultimi anni, per una ragione o per l’altra di carattere politico, religioso, etnico, sociale, ecc., ad attirare l’attenzione di un’opinione pubblica sempre più vasta. All’impostazione del volume così concepito ha concorso pure un’altra ragione di cui si sta per dire. 5. La genesi di questo libro infatti è dovuta pure ad un motivo che riguarda da vicino chi scrive. Venti anni fa o poco più era pubblicato un mio libro sulla diffusione del cristianesimo in Occidente. Il titolo

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Premessa

stesso Il cammino di Cristo nell’Impero romano 3 denunciava l’intenzione di seguire il percorso compiuto dal messaggio cristiano entro i confini di quel grande organismo politico, militare, civile, sociale che fu l’Impero di Roma. Di consueto l’attenzione del lettore anche colto è attratto dalla fortuna che il Vangelo ha in quest’area geografica e non conosce o trascura la fortuna e le vicende che esso ha avuto in altre aree geografiche. Quasi a completare un quadro, per renderlo, come è, assai più complesso e vario si propone ora questa pubblicazione sull’Oriente cristiano antico, che intende attrarre lo sguardo di chi legge sulla cristianizzazione di paesi ai confini dell’Impero romano o ben oltre di essi, che sono da situare entro gli ambiti di organismi politici e di ambienti culturali differenti. 6. Come indica il sottotitolo del presente volume: Storia e letteratura, accanto ad una parte propriamente storica dovuta a chi scrive 4, come già si è fatto intendere in precedenza, si propongono per le maggiori Chiese profili delle opere letterarie, dovuti a eminenti studiosi, stranieri e italiani, che hanno trattato il tema di loro competenza da diversi punti di vista, componendo un orizzonte in ogni modo prezioso e originale (che presenta qualche diversità formale – per esempio nel numero di note –, che tuttavia non mi pare incida sulla fisionomia e sulla coerenza del volume): ai proff. Tito Orlandi per la letteratura copta, Paolo Marrassini per la letteratura etiopica, René Lavenant per la letteratura siriaca primitiva del periodo precedente le lacerazioni dovute alle controversie cristologiche, Michel van Esbroeck 5 per le letterature armena e georgiana, e – in relazio-

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Laterza Editori, Roma-Bari 1983, 20045. Più precisamente sono stati da me redatti i capp. I, II, III, V, VII, IX, X, XI, XII, XIII. Ad ogni capitolo segue una bibliografia – essenziale, e quindi di proporzioni molto contenute –, redatta nelle maggiori lingue europee: essa vuole fornire al lettore che lo desidera qualche ulteriore indicazione e consentirgli approfondimenti. Come è naturale, qualche altra indicazione viene dai riferimenti bibliografici nelle note a piè di pagina. Molto più abbondanti sono i riferimenti bibliografici nei contributi dei vari studiosi, dei quali si è detto, che hanno collaborato al lavoro. Per quanto riguarda gli autori antichi, si rimanda alle edizioni critiche in lingua originale solo di quelli più frequentamente citati. 5 Dopo avere incontrato due volte, nel corso del 2003 a Roma, il padre van Esbroeck, pure a motivo del suo contributo su La letteratura patristica in Armenia e in Georgia ed essermi con lui cordialmente intrattenuto, ho appreso con molta tristezza che il 21 novembre del 2003 ci ha improvvisamente lasciati a Louvain la Neuve, dove ultimamente abitava. A lui va il mio pensiero che anche attraverso le pagine qui pre-

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ne all’Appendice finale – ai proff. Romano Penna per l’ambiente giudaico delle origini cristiane e per gli scritti canonici del Nuovo Testamento e Giulia Sfameni Gasparro per lo gnosticismo e il manicheismo, va la mia più viva gratitudine per avere accettato di illustrare capitoli della letteratura cristiana antica per lo più ignorati o poco conosciuti (a prescindere dagli specialisti ben limitati di numero), e per avere atteso per lungo tempo prima di vedere pubblicati i loro contributi 6. Paolo Siniscalco

sentate – tra le ultime, penso, ad essere pubblicate – vuol testimoniare gratitudine e ammirazione per l’opera scientifica da lui perseguita con tanta costanza, fedeltà e competenza durante un’intera vita. 6 Sono consapevole che l’orizzonte delineato dal volume è lungi dall’essere completo. Rimane escluso, per esempio, il capitolo importante relativo alla letteratura cristiana antica in lingua araba, come non si fa cenno ai testi liturgici nestoriani in uso nella Chiesa siro-orientale o nelle Chiese dell’India (in proposito nella Bibliografia generale, alle pp. 14ss., si è introdotto qualche riferimento a pubblicazioni concernenti i soggetti di cui si è detto).

ABBREVIAZIONI

AAT ANRW BCNH Brock CMC CSCO DBS DSp DTC EranosJb EthL Greg GSL de Halleux HE HSCPh HThR JA JbAC JRH JRS JThS

P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento, III, UTET, Torino 1981ss.; III-V, Brescia 1997ss. H. Temporini - W. Haase (edd.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, W. De Gruyter, Berlin-New York, 1974ss. Bibliothèque copte de Nag Hammadi, Les Presses de l’Université de Laval, Québec 1977ss. S.P. Brock, The Luminous Eye, Placid Lectures, Rome 1985. Codex Manichaicus Coloniensis. Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Louvain. Dictionnaire de la Bible. Supplément, Paris. Dictionnaire de Spiritualité, Paris. Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris. Eranos Jahrbuch, Leiden. Ephemerides Theologicae Lovanienses, Louvain. Gregorianum, Roma. A. Baumstark, Geschichte der Syrischen Literatur, Bonn 1922. A. de Halleux, Saint Éphrem le Syrien, in RTL 14 (1983), pp. 328-355. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica. Harvard Studies in Classical Philology, Cambridge, Mass. Harvard Theological Review, Cambridge, Mass. Journal Asiatique, Paris. Jahrbuch für Antike und Christentum, Münster. Journal of Religion History, Sydney. Journal of Roman Studies, London. Journal of Theological Studies, Oxford.

Abbreviazioni

Mansi NBA NHMS NHS NT NTS OCA OS PdO PS REAug RTL RSLR SCent SC TRE VChr VetChr ZKG ZPE

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J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Graz 1960-62 (rist. anast.) Nuova Biblioteca Agostiniana, Roma. Nag Hammadi and Manichaean Studies, E.J. Brill, Leiden. Nag Hammadi Studies, E. J. Brill, Leiden 1971ss. Novum Testamentum, Leiden. New Testament Studies, Cambridge. Orientalia Christiana Analecta, Roma. L’Orient Syrien, Paris. Parole de l’Orient, Kaslik, Libano. Patrologia Syriaca, Paris. Revue des Études Augustiniennes, Paris. Revue Théologique de Louvain. Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, Torino. The Second Century, Abilene, Texas. Sources Chrétiennes, Les Éditions du Cerf, Paris. Theologisce Realenzyklopädie, Berlin-New York. Vigiliae Christianae, Amsterdam. Vetera Christianorum, Bari. Zeitschrift für Kirchengeschichte, Stuttgart. Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, Bonn.

BIBLIOGRAFIA GENERALE *

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* Mi limito ad indicare qui alcuni contributi recenti sulle Chiese orientali e sull’Ortodossia utili per un orientamento generale.

Bibliografia

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(Studi e Testi 118, 133, 146, 147, 172), Città del Vaticano 19441953 (interessano i primi due volumi). N.A. Horner, A Guide to Christian Churches in the Middle East, Elkhart 1988. T.K. Joseph, The Malabar Christians and their Ancient Documents, Trivandum 1929. P. Kawerau, Il cristianesimo d’Oriente, tr. it., Milano 1981. R.R. Khawam, L’univers culturel des Chrétiens d’Orient, Paris 1987. G. Maloney, A History of Orthodox Theology since 1453, Belmont (Mass.) 1976. J. Meyendorff, The Orthodox Church, New York 1981. R. Morozzo della Rocca, Le Chiese ortodosse. Una storia contemporanea, Roma 1997. J. Nasrallah, Histoire du mouvement littéraire daus l’Église melchite du Ve au XXe siècle. Contribution à l’étude de la littérature arabe chrétienne, Louvain-Paris 1979. A. Nichols, Rome and the Eastern Churches. A Study in Schism, Collegeville 1992. W. Nyssen - J.J. Schulz - P. Wiertz (a cura di), Handbuch der Ostkirchenkunde, 3 voll., Düsseldorf 1984-1997. J. Pelikan, The Christian Tradition, I, A History of the Development of Doctrine, II, The Spirit of Eastern Christendom (600-1700), Chicago 1974. B. Pennington, One Yet Two: Monastic Tradition East and West, Kalamazoo 1976. V. Peri, Orientalis varietas. Roma e le Chiese d’Oriente. Storia e Diritto canonico, Roma 1994. F. Pericoli Ridolfini, Oriente cristiano, Roma 1977. V. Poggi, La nuova Europa vista da Oriente, in AA.VV., L’Europa crocevia. Memoria, cultura, responsabilità delle Chiese, Roma 1992, pp. 23-33. P. Ramet (a cura di), Eastern Christianity and Politics in the Twentieth Century, Durham-London 1988. R. Roberson, The Eastern Christian Churches. A Brief Survey, Roma 19996. A. Schmemann, The Historical Roadof Eastern Orthodoxy, Crestwood 1977. P. Siniscalco, Le Chiese dell’Antico Oriente Cristiano, «Studium» 97 (2001) 541-554. T. fipidlík, La spiritualité de l’Orient chrétien, 2 voll., Roma 1978-

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Bibliografia

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LE ANTICHE CHIESE ORIENTALI

CAPITOLO I

LA CHIESA E LE CHIESE TRA DIMENSIONE UNIVERSALE E DIMENSIONE LOCALE

LA PROSPETTIVA UNIVERSALE E mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo (…). Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua (…). Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nella nostre lingue le grandi opere di Dio. È questo il racconto degli Atti degli Apostoli (2, 1ss.) 1 sull’effusione dello Spirito che avviene nel giorno della Pentecoste giudaica. È il giorno in cui si apre la missione della Chiesa, secondo Luca, il quale inserisce l’elenco dei popoli allo scopo di sottolineare che il Vangelo fin dall’inizio è destinato a essere annunciato in tutte le lingue e a tutte le nazioni, pur affermando che i primi “invitati” sono gli israeliti. Infatti in quei giorni soggiornavano a Gerusalemme per la festa ebraica dei giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. In certo modo però essi non sono i rappresentanti delle nazioni pagane. L’inizio della missione verso di queste sarà narrata a cominciare dal cap. 10, 44ss. degli Atti stessi con quella che è stata definita

1 Le traduzioni italiane della Scrittura sono per lo più desunte dall’edizione de La Sacra Bibbia a cura della CEI. Per il testo greco e latino del Nuovo Testamento si rimanda all’edizione critica Nestle-Aland, Novum Testamentum graece et latine, Stuttgart 197926.

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I. La Chiesa e le Chiese

una “piccola Pentecoste”, o “Pentecoste dei gentili”. In quelle circostanze durante il discorso tenuto da Pietro, chiamato a Cesarea di Palestina dal centurione Cornelio, il dono dello Spirito Santo cade su quelli che lo stavano ascoltando, effondendosi ugualmente sui circoncisi e sui pagani presenti. Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliarono che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo (…). Allora Pietro disse: «Forse che si può proibire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?». Di nuovo, come nella prima Pentecoste, l’orizzonte è aperto teologicamente alla missione universale. Luca fa intendere che anche nella predicazione ai pagani il fondamento è costituito dall’evento pasquale e che Gesù è sovrano universale e giudice escatologico. «L’universalismo è stato preannunciato dalle Scritture (…): la salvezza è destinata a tutti, pur nel rispetto della priorità di Israele. Importanza particolare è data alla testimonianza apostolica e alla fede quale condizione di salvezza» 2. Sembra chiaro l’intento di Luca non di rappresentare una chiesa locale, ma di delineare l’essenza stessa della Chiesa che abbraccia tutti, in tutti i tempi. È la Chiesa universale che, in una visione di fede, precede e costituisce le chiese locali. È opportuno notare che all’universalismo si oppone non la localizzazione, ma il particolarismo. Nell’Antico Testamento vi è una forte tensione tra universalismo e particolarismo. Infatti JHWH, il creatore e signore di tutte le cose e di tutti gli uomini, è posto a fianco del Dio di Israele, che sceglie in mezzo agli altri il suo popolo e tra gli altri lo guida. Non mancano tuttavia nella grande vicenda che narrano i suoi libri, avvenimenti – come, per esempio, l’esilio – che inducono gli ebrei a tenere aperta la loro visione religiosa ed a valorizzare quindi la prima concezione; quella che il Nuovo Testamento, come si vedeva, conferma e rinsalda. Tutti gli uomini sono creati in Cristo, si legge nell’Epistola paolina ai colossesi (1, 15ss.); e poco dopo: Qui non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti (Col 3, 11). E Giovanni (4, 26) osserva che se la salvezza viene dai giudei, essa è data al mondo intero (cf. Gv 1, 29; 4, 42, ecc.). 2 Cf. G. Rossé, Atti degli Apostoli. Commento esegetico e teologico, Roma 1998, p. 431. Cf. pure ibid., pp. 127, 133 e passim.

I. La Chiesa e le Chiese

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Il discorso petrino a Cesarea, cui si è fatto cenno, è uno dei discorsi kerygmatici, dei quali gli Atti danno numerosi esempi 3. Essi vertevano sull’annuncio del mistero cristiano e, pur variando rispetto agli ambienti cui erano rivolti, avevano punti basilari irrinunciabili, comprendendo formulazioni di fede su Gesù di Nazareth, indicando alcuni riti di iniziazione e di comunione, quali il battesimo e l’eucarestia, riferendosi alle Sacre Scritture, in primo luogo al Primo o Antico Testamento. In ogni modo rappresentavano fattori di globalità nella diffusione del messaggio proprio perché si rifacevano ad elementi comuni che andavano proclamati e fatti conoscere potenzialmente a tutti. Si è detto delle Sacre Scritture, le quali rendono visibile un altro momento importante nel processo di universalizzazione del cristianesimo. Sappiamo che nei decenni intorno alla metà del II secolo, attraverso l’opera di Marcione, si diffonde una dottrina secondo cui Dio ha attuato in Gesù Cristo la redenzione dell’uomo per pura misericordia. Egli leggendo le Sacre Scritture correnti al suo tempo, ossia quei libri a noi noti con il nome di Antico Testamento, non vi trovava il Dio testimoniato da Gesù; vi vedeva un Dio giusto, potente, ma anche collerico, volubile, talvolta spietato e pensava che questi non potesse essere il Padre di Gesù, che aveva predicato e vissuto l’amore, la benignità, la bontà. Donde derivavano per lui due conseguenze: da una parte il Dio benigno di Gesù andava distinto dal Dio creatore e signore arcigno e crudele di questo mondo, d’altra parte occorreva respingere l’Antico Testamento e non meno fare una cernita anche tra gli scritti che nelle comunità cristiane godevano allora di maggiore prestigio. Riconosce la genuinità del messaggio di Cristo solo nel Vangelo di Luca e nelle Epistole di Paolo – considerando autentiche le Epistole ai galati, la I e la II ai corinti, ai romani, la I e la II ai tessalonicesi, quella agli efesini, ai colossesi, ai filippesi e la Lettera a Filemone –. Ma anche per il testo lucano e per gli scritti paolini opera notevoli espunzioni (non interpolazioni), ritenendo anche questi parzialmente inquinati da seguaci del Dio del mondo, vale a dire da “giudaizzanti”. Si discute tra i critici se Marcione possa annoverarsi tra gli gnostici 4: questi ultimi nel corso del II secolo si distinsero in varie set3 Oltre ai passi finora citati, cf. ancora 3, 12ss. (Pietro); 7, 2ss. (Stefano); 13, 16ss. e 17, 22ss. (Paolo). 4 Cf. infra, pp. 370, 372, 377, 395s.

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te, fecero circolare molti testi “segreti” che proponevano dottrine diverse e spesso contrarie a quelle predicate dal Cristo e conservate dalle comunità cristiane attraverso la via della tradizione. Tutto ciò per molti si profilò come un grave pericolo per la fede che si stava lentamente diffondendo e suscitò l’esigenza di definire quali libri fossero realmente autoritativi nelle dispute dottrinali che andavano dilagando. In tal modo furono confermati i testi appartenenti all’Antico Testamento e fu costituito il “canone” del Nuovo Testamento 5. Un processo questo che avvenne con lentezza e gradualità, coinvolgendo il consenso delle comunità 6. «Attraverso questo processo si realizzò una presa di coscienza collettiva della propria identità, nel grande e confuso pullulare di sette e di scuole che si rifacevano alla tradizione cristiana. In una situazione in cui era spesso difficile riconoscere i confini tra la comunità cristiana e i suoi vicini, l’accordo sul canone costituì il criterio di esclusione-inclusione. Mediante uno strumento che era tradizionale nel giudaismo, ma era sconosciuto al mondo pagano, cioè il libro sacro dotato d’autorità, si permetteva alla comunità cristiana di tracciare una linea di separazione dalle altre comunità gnostiche e marcionite, a cui veniva negata la legittimità cristiana, e di acquistare il senso dell’unità fra le comunità, la cui legittimità era garantita dalla loro accettazione del canone. Il processo aveva (…) come effetto finale la costituzione di una struttura ideale universale da cui prendeva corpo la grande Chiesa» 7. Una coscienza di appartenere a un corpo religioso unico che alla fine del II secolo è ben viva tra i cristiani. Ne è testimone uno scrittore d’Africa, Tertulliano (destinato però nell’ultimo tratto della sua vita ad uscire dalla Chiesa per aderire prima al montanismo frigio e

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Cf. infra, pp. 365s. A questo proposito per comprendere e inquadrare le più antiche comunità cristiane, considerando da una parte i fondamenti degli scritti del Nuovo Testamento, fino alla formazione del canone neotestamentario, e dall’altra le complesse questioni relative al marcionismo e allo gnosticismo ci siamo rivolti al prof. Romano Penna della Pontificia Università Lateranense e alla prof.ssa Giulia Sfameni Gasparro dell’Università di Messina: ambedue hanno cordialmente accettato di redigere pagine dedicate il primo a L’ambiente giudaico delle origini cristiane e Gli scritti canonici del Nuovo Testamento, la seconda allo Gnosticismo e al Manicheismo. Pagine pubblicate nell’Appendice al volume. Cf. infra, pp. 329ss. 7 A. Acerbi, Località e universalità nella Chiesa antica, in A. Acerbi - G. Ambrosio - G. Andenna - A. Giovagnoli, L’identità cristiana tra località e universalità, Roma 2001, p. 27.

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poi per formare, a quanto sembra, una sua propria setta, quella dei Tertullianisti). Nell’Apologeticum, che risale circa al 197, ossia al primo periodo della sua attività letteraria, delineando le fisionomia delle comunità cristiane – si può pensare con verosimiglianza a quelle africane, e in particolare a quella di Cartagine, ove egli dimorava – Tertulliano scrive: «Noi costituiamo un corpus per la consapevolezza di avere una fede, per l’unità della disciplina che osserviamo, per il vincolo della speranza che nutriamo» 8. I cristiani sanno dunque di avere un solo Dio, di riconoscere il medesimo Cristo, di seguire un’unica tradizione dottrinale, di praticare le medesime norme morali – che tutte si compendiamo nell’amare tutti e nell’amarsi reciprocamente – di condividere la stessa speranza nell’aldilà. Proprio per questo essi formano una sola Chiesa, ovunque essa viva. Ed in fondo una tale realtà è percepita con chiarezza se ben presto, riferendosi a quel “corpo”, lo si definisce “grande Chiesa”. Intorno la metà del III secolo Cipriano vescovo di Cartagine avverte la fondamentale importanza che riveste la questione dell’unità della Chiesa, e quindi della sua universalità, la Chiesa che è madre di tutti i credenti, secondo un’immagine da lui prediletta; egli giunge ad asserire che chi non ha la Chiesa come madre non può avere Dio come padre 9. «Dio è uno solo, Cristo uno solo, una sola è la sua Chiesa, una sola la fede, e il popolo congiunto dal legame della concordia nella compatta unità che ne fa un corpo solo. L’unità è in sé indivisibile e se un corpo è diviso e lacerato, frantumato e fatto a brani, non esiste più come corpo» 10. «Come sono molti i raggi del sole, ma unica ne è la luce, e molti sono i rami dell’albero, ma unica è la forza vitale che trae alimento dalle salde radici; e, quando più corsi d’acqua traggono origine da un’unica sorgente, benché si veda, per la ricchezza delle acque, un gran numero di ruscelli che scorrono in varie direzioni, tuttavia all’origine restano uniti (…), così anche la Chiesa, avvolta dalla luce del Signore, diffonde i suoi raggi su tutto il mondo, ma unica è la luce che ovunque si estende senza che l’unità del suo corpo venga spezzata» 11. Anche a

8 Apologeticum 39, 1. Per il testo latino degli scritti di Tertulliano mi sono valso dell’edizione del Corpus Christianorum, I-II, Turnholti 1954. 9 Cf. De catholicae ecclesiae unitate 6, Corpus Christianorum III, ed. M. Bévenot, Turnholti 1972. 10 De catholicae ecclesiae unitate 23. 11 De catholicae ecclesiae unitate 5.

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questo proposito un indizio terminologico è significativo: mi riferisco a quell’aggettivo – katholikê – con cui è definita la Chiesa, e che giusto richiama con tutta chiarezza l’idea di “universalità”, a cominciare dall’inizio del II secolo con Ignazio di Antiochia (si veda, per esempio, la Lettera agli smirnesi 8 SChr 10bis, Paris 1997). Si diceva di un’unica fede che unisce i cristiani; un’unica fede che è compendiata nel Simbolo degli apostoli. Infatti, secondo una tradizione, esso sarebbe stato formulato per la prima volta a Gerusalemme, per impulso dello Spirito Santo, dai dodici apostoli prima di intraprendere ciascuno la via tracciata dalla Provvidenza, per evitare che si verificassero diversità nell’annuncio della nuova fede. È un fatto che Ireneo, intorno al 180, parla di una «regola di fede da seguire, una regola trasmessa dagli apostoli ai responsabili delle Chiese» 12. Qualche decennio dopo Tertulliano la ritiene non mutabile e non riformabile, la fa risalire alle origini del Vangelo, dicendola istituita da Cristo stesso, di modo che i suoi discepoli disperdendosi attraverso tutto l’universo proclamassero il medesimo insegnamento 13. A sua volta Origene elenca un insieme di verità che – egli dice – furono manifestamente trasmesse dalla predicazione apostolica. Occorre sapere, egli scrive, che gli apostoli, annunciando la fede di Cristo, hanno trasmesso in modo molto chiaro i punti dottrinali che ritennero necessari, enumerando in primo luogo le verità essenziali relative a Dio, al Cristo e allo Spirito Santo 14. La medesima tradizione è attestata nell’Explanatio symboli, la cui autenticità ambrosiana è ora riconosciuta, dopo che a lungo se ne era dubitato. Si tratta di una “spiegazione” della professione di fede che risale alle ultime decadi del IV secolo, dovuta dunque ad Ambrogio di Milano, nella quale all’inizio si legge che gli apostoli radunatisi compilarono un compendio della fede, perché potessero essere conosciute in breve tutte le verità e alla fine si aggiunge che il Simbolo non deve essere scritto; bisogna infatti impararlo a memoria, perché si deve “restituire” – dopo la traditio seguiva la redditio symboli da parte del catecumeno, il quale proclamava a memoria il Sim-

12 Ireneo, Adversus haereses I, 10, 1; III, 4, 1s. Per il testo greco si veda l’edizione delle Sources Chrétiennes, l. I, 264, Paris 1979; l. III, 211, Paris 2002. 13 Tertulliano, De praescriptione haereticorum 20, 4. Cf. pure ibid., 13 e 37, la formulazione della regula fidei. 14 Cf. De principiis I, praefatio, 3-4, ed. P. Koetschau, Die griechischen christlichen Schriftsteller 22, Leipzig 1913.

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bolo in forma solenne davanti al vescovo, che in precedenza glielo aveva consegnato –; e non solo: il fatto di saperlo a memoria gli consentiva di ripassarlo meditandolo ogni giorno, scrutandolo dentro l’animo, di modo che non diventasse un’abitudine il recitarlo 15. La notizia sulla composizione del Simbolo da parte degli apostoli non ha basi storiche; la sua origine è oscura, la sua introduzione nella vita ecclesiale appare lenta e ha da essere colta in primo luogo nella vita liturgica. Con maggiore prudenza Cirillo di Gerusalemme, che rappresenta una parte rilevante della tradizione orientale, predicando nella primavera del 348 le sue Catechesi battesimali esorta i suoi uditori a custodire quella sola fede che è data dalla Chiesa ed è confermata da tutta la Scrittura e continua osservando: «Poiché non tutti possono leggere le Scritture (…), affinché non perdano la [loro] anima a causa dell’ignoranza, in pochi versetti racchiudiamo tutto il dogma della fede (…). Non trascrivetelo su fogli, ma imprimetelo con la memoria nel cuore (…). E voglio che voi abbiate questo viatico per tutto il tempo della vita, e che non ne accettiate un altro oltre a questo, neppure se, essendo noi stessi cambiati, dicessimo cose contrarie a quelle insegnate; neppure se un angelo avversario, essendosi trasformato in angelo di luce, volesse sviarvi (…). Ricorda a memoria il Simbolo di fede; apprendi a tempo opportuno la dimostrazione dei suoi singoli articoli [tratti] dalle divine Scritture. Infatti, non come parve opportuno agli uomini fu composto il Simbolo della fede, ma le affermazioni più importanti, raccolte insieme da tutta la Scrittura, formano l’unica dottrina della fede» 16. Si potrebbe dire che il Credo è il modo con cui la Chiesa accoglie e vive la Parola di Dio: non per nulla esso è al centro dell’evento battesimale, e manifesta concretamente la propria universalità. A questo punto, più che continuare in una elencazione che potrebbe essere accresciuta di molto, interessa notare che i Simboli di fede, pur nella varietà delle forme in cui si manifestano 17, costitui-

15 Cf. Ambrogio, Explanatio symboli 2 e 9. Cf. Sancti Ambrosii episcopi mediolanensis Opera, Explanatio symboli - De sacramentis - De mysteriis - De paenitentia, vol. 17, Milano-Roma 1982, pp. 26 e 36s. 16 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali 5, 12, in Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, tr. it. di G. Maestri e V. Saxer, Milano 1994, pp. 242ss. 17 Si veda la raccolta dei più antichi Symbola in H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, ediz. bilingue a cura di P. Hünermann, Bologna 1995, pp. 2ss. e passim.

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scono un punto di riferimento essenziale per la vita della Chiesa e una chiara discriminante rispetto ad altre dottrine considerate, in quanto dissonanti, eretiche. Essi insomma rappresentano un altro fattore universale in grado di unire e di fare riconoscere tra loro le chiese che le professano. Resta che anche le professioni di fede del IV secolo manifestano specifici insegnamenti: l’identità della rivelazione divina sotto forme che si cristallizzano nelle due economie successive, la vetero- e la neotestamentaria; l’unanimità della testimonianza apostolica; la permanenza della fede cristiana dalla sua origine, che si trasmette sempre uguale dalla prima generazione 18. Tale è il messaggio che si ricava dall’esame dei Simboli. Si è fatto un cenno al IV secolo e ad alcuni autori che vi operano entro e fuori della Chiesa. Si sa della “rivoluzione” che in quel tempo avviene nell’Impero romano con l’inserimento della religione cristiana nel suo tessuto. Il fatto provoca profondi mutamenti non solo nella res publica, ma anche nella Chiesa stessa, dal momento in cui questa diviene Chiesa imperiale. Da una parte si aggiungono ai precedenti altri fattori potenti di universalità. Basti pensare al significato che rivestono i concili ecumenici che danno all’organismo ecclesiastico norme generali da applicare anche oltre i confini della oikoumene romana, come prova la presenza, per esempio, al concilio di Nicea del 325 di qualche vescovo responsabile di comunità esterne ad essa. Nondimeno la nuova situazione mette a confronto due universalismi: quello del corpo politico ancora immenso, che trova in Roma e dopo il 430 soprattutto in Costantinopoli il proprio centro, e quello del corpo ecclesiastico in rapida espansione. Gli intrecci tra i due organismi si fanno complessi: per un verso le vicende interne ed esterne dell’Impero provocano una separazione graduale, ma irreversibile delle due sue parti, l’occidentale e l’orientale. Se a quanto sembra l’intenzione di Costantino, con la fondazione della nuova capitale ai confini orientali era quella non di umiliare o di trascurare l’antica capitale, ma di ridonarle il suo splendore, essa non si traduce in realtà effettiva. Per altro verso un insieme di questioni che hanno il proprio asse nel mutamento delle funzioni episcopali e nel costituirsi di grandi strutture ecclesiastiche territoriali portano a tensioni ripetute e a un certo punto difficilmente governabili. Tendenze localistiche già presenti, ma in altre 18 Cf. H. de Lubac, La foi chrétienne. Essai sur la structure du Symbole des Apôtres, Paris 1969, pp. 51ss.

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forme, in precedenza, assumono tratti esasperati e suscitano scontri anche violenti. Nella medesima dimensione universale si annovera un altro elemento, costituito dalla Tradizione nel suo rapporto con la successione apostolica e con la liturgia: anzi, proprio quest’ultima mette in luce un duplice movimento significativo. Come è stato scritto, «rifacendosi a sedi di grandi metropoli antiche (Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, Roma, Milano, Ravenna, Aquileia), alle quali era legata la memoria e l’ascendente autorevole di santi vescovi, e in forza sia della necessità di un adeguamento a diverse culture, sia delle differenti forme e formule che permettono di conservare invariata più facilmente la vitalità della tradizione liturgica, nacquero progressivamente diverse tradizioni liturgiche. In altri termini l’universalità della tradizione liturgica, si incarna nella legge del particolarismo delle diverse tradizioni liturgiche» 19. Una dinamica, quella a cui ci si è ora riferiti, che consente di passare alla pluralità delle forme attraverso le quali le Chiese esprimono la fede e che ugualmente consente di comprendere la varietà delle chiese che nascono e si affermano prima di ogni divisione causata da motivi di “politica ecclesiastica” o di dottrina o di disciplina: come appunto avviene nell’Oriente cristiano antico. LA DIMENSIONE LOCALE Eusebio di Cesarea, dopo avere narrato ciò che fecero gli apostoli dopo l’ascensione di Cristo fino alla morte di Paolo per decapitazione, a quella di Pietro per crocifissione ed alle sciagure da cui furono colpiti gli ebrei con la caduta di Gerusalemme, all’inizio del III libro della Historia ecclesiastica riprende il discorso sull’azione svolta per tutta la terra dagli apostoli stessi e dai discepoli: lo scrittore presenta con cautela le notizie che li riguardano, ricorrendo alla tradizione (paradosis), espressamente menzionata o ancora citando con chiarezza la fonte. Scrive dunque Eusebio che Tommaso ebbe in sorte il paese dei parti, Andrea quello degli sciti, Giovanni l’Asia, dove dimorò, per poi morire ad Efeso, Pietro avrebbe predicato ai giudei della Diaspora nel Ponto, nella Galazia, nella Bitinia, 19 Cf. A.M. Triacca, in Dizionario Patristico e di Antichità cristiane, vol. II, Roma 1984, col. 1981, s.v. Liturgia e Tradizione.

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nella Cappadocia, nell’Asia e da ultimo sarebbe venuto a Roma, ove appunto avrebbe patito la crocifissione con la testa all’ingiù. Quanto a Paolo, avrebbe annunciato il Vangelo da Gerusalemme all’Illirico per poi subire a Roma sotto Nerone il martirio, secondo la notizia – si premura di dire Eusebio – che Origene riferisce nel III libro del suo Commento alla Genesi 20. In precedenza lo stesso storico aveva affermato, sulla base di un semplice «dicono» (phasin), che Marco, inviato nell’Egitto sarebbe stato il primo a predicare il Vangelo da lui composto e che dapprima in Alessandria vi avrebbe fondato delle chiese 21. I cicli degli scritti apocrifi, che si possono fare risalire alla prima metà del II secolo, sostanzialmente confermano a grandi linee le notizie di cui si fa portatore Eusebio, individuando aree geografiche distinte e collegando Giovanni (e Filippo) all’Asia Minore, Tommaso (e Giacomo) alla Siria e alla Mesopotamia, Pietro alla Fenicia, al Ponto, all’Acaia ed a Roma. Così la missione cristiana più antica si può dire che apra via via a tipi diversi di cristianesimo: il tipo asiano, il tipo siriaco e mesopotamico, il tipo egiziano, il tipo occidentale 22. Essi non sono solamente localizzati da un punto di vista geografico, ma fin dalle origini tendono a focalizzare aspetti teologici differenti e ben presto fanno appello a tradizioni caratterizzate. Tanta parte della storia successiva si intende meglio se si tenga presente la fisionomia e la storia delle Chiese alle quali si è fatto cenno. LE PRIME LINGUE USATE DAI CRISTIANI: IL GRECO E IL LATINO Un altro indizio notevole che dà modo di cogliere tratti particolari e qualche volta particolaristici, nell’ambito della “grande Chiesa” risiede nelle lingue cristiane. Certamente nei primissimi secoli il greco è la lingua ecumenica della predicazione evangelica, come provano le lettere di Paolo e gli altri scritti poi accolti nel canone e le opere più antiche della letteratura cristiana; tuttavia essa 20 Cf. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica III, 1, 1ss. Per questa e le numerose citazioni dell’autore cristiano fatte nel seguito della mia esposizione si rimanda al testo greco (con traduzione italiana e note) di Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica e I Martiri della Palestina, a cura di G. Del Ton, Roma-Parigi-Tournai-New York 1964. 21 Cf. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica II, 16, 1. 22 Cf. A. Acerbi, Località e universalità nella Chiesa antica, in L’identità cristiana, cit., pp. 23s.

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non è l’unica. Essa è la lingua del mondo ellenistico in cui si esprime non solo il pensiero greco, ma anche parte di quello giudaico e di quello romano pagano (ci si rammenti di autori come Favorino, Apuleio, Eliano o lo stesso imperatore Marco Aurelio che nella seconda metà del II secolo compone i suoi Pensieri in quella lingua). Nella forma della koinê dialektos ossia di quella lingua parlata e scritta in Grecia, nell’Oriente mediterraneo, nelle città cosmopolite dell’Occidente, del greco che domina nell’Impero di quel tempo dimostrandosi strumento capace di esprimere idee complesse, adatto a piegarsi alle esigenze sottili della retorica ispirata dalla Seconda Sofistica. Di tale lingua si servono le comunità cristiane, anche se nell’uso che ne fanno si avverte l’influsso dell’idioma giudaico ellenizzato, di cui è tramite vivo in particolare la versione veterotestementaria dei Settanta. È una lingua colorata ugualmente dal giudaismo della Diaspora e del giudeo-cristianesimo. Anche se occorre distinguere nel medesimo vasto ambito linguistico da un lato gli scritti di autori educati nelle grandi scuole del tempo – da Clemente Alessandrino a Basilio di Cesarea, da Gregorio di Nazianzo a Gregorio di Nissa, per non fare che qualche nome –, d’altro lato gli scritti che molto risentono della lingua popolare, come certe composizioni d’ambiente monastico o, ancora, i testi di carattere liturgico in cui l’impronta biblica è evidente. Senza dire poi delle notevoli differenze riscontrabili in opere dello stesso scrittore a seconda dei generi letterari che mette in campo. Per quante testimonianze si hanno, sappiamo che il latino dei cristiani appare verso la metà del II secolo in composizioni che traducono la Scrittura dal greco al latino, con ogni verosimiglianza per rendere accessibile il testo sacro a chi non era in grado di comprenderlo in greco. Il carattere sacro dei testi impone al traduttore di rimanere aderente al dettato, mentre la capacità limitata del latino di rendere un insieme di concetti e di realtà nuove genera una quantità di parole che sono calchi dal greco, qualche idiotismo ebraico e soprattutto imprime nuovi significati a termini già esistenti. In ritardo rispetto a quella parallela in lingua greca, poco prima del 200 nasce la vera e propria letteratura cristiana latina (per spiegare un tale primo esito differito gli studiosi hanno avanzato varie ipotesi: i fedeli di lingua latina sarebbero stati illitterati homines; il loro silenzio sarebbe da attribuire a una volontà dettata dallo scrupolo di rivestire di forme pagane un pensiero tanto distante e solo per le esi-

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genze dell’evangelizzazione essi sarebbero stati indotti ad adoperare il latino per penetrare in quegli ambienti che non conoscevano altra lingua). Stando a Girolamo 23, il più antico degli scrittori latini è Vittore, vescovo di Roma dal 189 al 198, africano d’origine. Con lui comincia quel processo di latinizzazione in seno alla Chiesa che in Occidente proseguirà nel IV secolo con l’introduzione di quella lingua nella liturgia. Dopo di lui Girolamo segnala Apollonio, senatore e martire sotto Commodo (193-211) e poi i primi scrittori di vaglia, Tertulliano e Minucio Felice che, per così dire, fanno nascere adulta la letteratura cristiana latina 24. Ciò che interessa notare è che le due lingue di cui si è detto hanno un proprio bacino di propagazione: il greco domina nell’area orientale del Mediterraneo e specialmente nelle grandi città di cultura e di scambi, da Alessandria d’Egitto ad Efeso, Smirne o Pergamo nell’Asia Minore, da Tessalonica in Macedonia a, naturalmente, Corinto ed Atene in Grecia (ma, come si diceva, essa era conosciuta e praticata ben oltre i confini delle nazioni ora menzionate; era la lingua conosciuta dalle persone colte che si trovavano ovunque nell’Impero). Il latino era adoperato in particolare in Italia e nell’Africa settentrionale, e pure in altre zone dell’Occidente, quali la Gallia e la Spagna. Era la lingua delle leggi e dei negotia e non aveva certo la diffusione e l’attrattiva esercitata dal greco. In ogni modo il fatto che anche in Occidente la prima evangelizzazione sia avvenuta tramite il greco, presuppone una fase di bilinguismo attraverso cui sono passate le comunità cristiane a Roma e in Italia, nell’Africa settentrionale, in Gallia e in Spagna: i numerosi prestiti dal greco per designare istituzioni e “cose” cristiane, come i neologismi semantici più antichi, sarebbero difficilmente spiegabili senza un tale “sostrato” greco o, più chiaramente, senza questa fase di bilinguismo 25. Sta di fatto che il latino usato dai cristiani, con le sue caratteristiche specifiche, indica l’evolversi culturale di comunità che tendono a differenziarsi da altre che pure le hanno originate. In altre pa-

23 Cf. De viris illustribus 53. Per il testo latino, cf. l’ediz. di E.C. Richardson, Leipzig 1896. Cf. pure De viris illustribus 34 e 42. 24 Cf. P. Siniscalco, in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, II, Casale Monferrato 1984, coll. 1962-1966, s.v. Lingue dei Padri. 25 Cf. C. Mohrmann, Dopo quarant’anni, in J. Schrijnen, I caratteri del latino cristiano, a cura di S. Boscherini, tr. it., Bologna 1977, pp. 100ss.

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role la distinzione linguistica indica un fenomeno religioso e non meno sociale di più ampia portata: il chiarirsi, nelle comunità di cui si va dicendo, di un’identità spiccata che richiede per essere sviluppata differenti condizioni delle quali la lingua è un segno tangibile. E, come sempre accade, in un tale processo i fattori propriamente geografici assumono un posto rilevante. In tal maniera anche le comunità cristiane e in special modo la comunità di Roma – si ricordi la figura di Vittore, di cui parla Girolamo – tende a distinguersi al fine di crescere meglio: il diffondere il messaggio di Gesù esige necessariamente di tenere in conto gli ambienti e le persone cui ci si rivolge, esige cioè l’inculturarsi della fede. Donde l’importanza che assume l’elemento locale. Del resto un cammino analogo avevano già compiuto in precedenza i parlanti la lingua greca nei confronti degli ambienti aramaici nei quali originariamente si era svolta la missione di Gesù e nei confronti dei testi ebraici ai quali era consegnata l’antica “economia”. L’arrestare però l’attenzione solo al greco e al latino delineerebbe un quadro incompleto delle lingue parlate e scritte dalle comunità cristiane antiche. Sappiamo infatti che in determinate aree, precisamente individuabili, erano in uso altre lingue, la copta nell’Alto Egitto, l’etiopica in Etiopia, il siriaco in Siria e in aree ad est di quel paese, l’armeno nella Grande e nella Piccola Armenia, il georgiano in Georgia (e, più tardi, l’arabo nei paesi del Vicino Oriente, lo slavo nei paesi slavi ed altre lingue che gradualmente si affermano in varie zone geografiche specialmente europee). A prescindere dall’arabo e dal paleoslavo, delle altre lingue menzionate si parlerà meglio nelle pagine seguenti. Basti qui un cenno al copto che, pur avendo caratteri particolari, vale per illustrare i motivi per cui permangono o si impongono presso certe comunità cristiane lingue specifiche. In Egitto fin dal tempo ellenistico e poi nei secoli dell’Impero romano la città di Alessandria aveva avuto un rilievo straordinario sia nell’ambito sociale e politico che in quello culturale. Aveva ricchezza di commerci e fertilità di terre e quindi abbondanza di prodotti agricoli. Centro delle scienze filologiche e filosofiche della grande tradizione pagana, aveva pure permesso lo sviluppo della cultura ebraica: là si era attuata la traduzione in questa lingua dell’Antico Testamento e aveva avuto luogo l’opera di Filone. Nei primi secoli della nostra èra essa aveva anche ospitato alcune grandi scuole gnostiche. Per quanto oscura sia l’origine della Chiesa cristiana (a prescindere dalla tradizione, cui già si accenna-

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va, che vuole Marco, discepolo di Pietro, primo evangelizzatore di quelle terre), a cominciare dalla fine del II secolo, da Demetrio, che è vescovo della città dal 188 al 231, la documentazione circa la metropoli si infittisce. In quel tempo si può scorgere già ben consolidata l’organizzazione ecclesiastica e si può seguire lo svilupparsi della Scuola teologica e catechetica che ha forse in Panteno, certamente in Clemente e in Origene i suoi grandi rappresentanti fino a Didimo il Cieco, e che ha tra i pastori, che ne sono i responsabili attraverso i secoli, figure quali quelle di Atanasio, Teofilo, Cirillo, ecc. Alessandria all’alba della nostra èra costituiva un polo in cui dominava sovrana la cultura in lingua greca e più ancora si poneva, accanto ad Atene e ad Antiochia, come uno dei tre centri più importanti di tale cultura nel mondo mediterraneo. Ma la città sorgeva in un contesto che aveva visto nei millenni precedenti il fiorire di un Impero potente, con la sua lingua, l’antico egiziano, e le sue tradizioni. È di grande interesse osservare che l’egiziano che aveva corso nel II secolo d.C., era una lingua con scarse capacità espressive, soprattutto nel campo concettuale; essa era la testimonianza di un glorioso passato, ma nulla più. Perciò, secondo una fondata ipotesi degli studiosi, forse una élite di persone (di cui tuttavia non sappiamo nulla) provvide a formare una lingua nuova, nella quale convivessero elementi dell’egiziano tradizionale, come era parlato (più che scritto) nel suo ultimo stadio, ed elementi del greco. Perché sia avvenuto questo evento è difficile sapere. Probabilmente il suo nascere fu favorito dall’incontro delle esigenze dei nuovi fenomeni religiosi, in primis del cristianesimo, e di sentimenti nazionali volti verso l’antica cultura autoctona, ormai sulla via di tramontare definitivamente. Sullo sfondo, probabilmente, doveva stagliarsi l’insoddisfazione politica ed economica nei confronti della classe dominante greca, che si coagulava anche nell’opposizione della campagna alla città. È un chiaro segno che l’antitesi in primo luogo religiosa tra religione tradizionale – fatta di riti e miti greci ed egiziani – e cristianesimo era piena e che questa sembra riflettersi nell’antitesi linguistica tra il greco e il copto, almeno per certi aspetti della vita, che in quella terra trovano la propria radice e la propria espressione nel monachesimo 26. 26 Pur con qualche accentuazione personale, desumo queste idee dal contributo redatto da T. Orlandi su La letteratura copta e la storia dell’Egitto cristiano che compare in questo medesimo volume, a cui rimando. Cf. infra, pp. 85ss.

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LE FORME LITURGICHE In precedenza si è detto in breve della tradizione e delle tradizioni liturgiche. È conveniente qui riprendere da altro punto di vista il medesimo argomento. Le forme liturgiche sono legate alle lingue, ma non solo a quelle. All’organizzazione degli atti di culto – dei quali due appaiono fin dalle origini costitutivi: il battesimo e la celebrazione eucaristica – attesero probabilmente i vescovi che tennero conto di usi locali e di tradizioni connesse a Chiese preminenti; certo essi ne furono i testimoni privilegiati e sottolinearono costantemente la connessione tra liturgia e vita o, se si vuole, tra atti di culto e norme morali. In Occidente per lungo tempo prevalse il greco quale lingua liturgica, usata anche a Roma. Ove però dalla metà del II secolo circa cominciò ad essere di largo uso il latino. Ma solamente sotto il pontificato di Damaso (366-384) la messa romana fu celebrata in latino. Dunque, per un non breve periodo, la lingua del popolo e la lingua liturgica risultarono differenti. Poi la Chiesa non tollerò più tale scarto, memore di dovere agire secondo le indicazioni di Paolo, il quale in rapporto al fenomeno dei carismatici, aveva asserito che la preghiera pubblica e sociale deve essere accessibile all’intera comunità; questa con i suoi Amen doveva confermarla. Aveva scritto l’Apostolo nella Prima lettera ai corinti (14.15-19): «Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza (…). Altrimenti se tu benedici soltanto con lo spirito, colui che assiste come non iniziato come potrebbe dire l’Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici (…). Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue molto più di tutti voi; ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue». Secondo l’opinione di autorevoli studiosi il canone in lingua latina, risalente al IV secolo e rimasto quasi inalterato per molti secoli, sarebbe stato creato non da un vescovo romano, ma da quel grande rinnovatore delle forme liturgiche che fu Ambrogio di Milano. Se l’ipotesi risponde al vero, il passaggio alla liturgia latina originariamente non sarebbe avvenuta a Roma, ma a Milano; Damaso avrebbe avuto il grande merito di riconoscere con il peso dell’autorità derivante dalla sede romana la proposta ardita del vescovo milanese 27 (non 27

19ss.

Cf. T. Klauser, Breve storia della liturgia occidentale, tr. it., Catania 1959, pp.

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si può dimenticare che una notizia del Liber Pontificalis fa sapere che Damaso avrebbe disposto che si usasse il latino nella liturgia di Roma). Ma il mutamento della lingua liturgica in Italia non è che un passaggio in un quadro che si rivela estremamente creativo e vario nella vita delle chiese. I punti di riferimento sono costituiti dalle grandi sedi – Gerusalemme, Antiochia, Roma, Alessandria, e in seguito Costantinopoli, Milano, Aquileia, Ravenna, ecc. – che per doversi adeguare a culture (e lingue) diverse danno origine progressivamente a differenti tradizioni liturgiche nel quadro dell’unica e comune tradizione liturgica. Come è stato scritto, «dall’unità primordiale (unico ceppo cultuale giudaico-cristiano), sotto la spinta dell’aumento vitale e dell’approfondimento del “deposito della fede”, si giunge alla pluralità espressivo-liturgica. In altri termini l’universalità della tradizione liturgica si incarna nella legge del particolarismo delle diverse tradizioni liturgiche», la cui formulazione passa attraverso successivi periodi. «Sia l’Oriente che l’Occidente liturgico dopo un periodo di gestazione caratterizzato da un incipiente creatività di testi e dalla strutturazione del tempo liturgico (ritmo ebdomadario scandito dal dies Domini; ritmo annuale della Pasqua, ecc.), per diversi motivi (questioni teologiche, arricchimenti cultuali, vicende politiche, passaggio da una lingua ad un’altra, ecc.) passano – nel tentativo di adattarsi ai nuovi contesti culturali – al periodo di una vera e propria creatività liturgica di testi e di strutture per i cicli liturgici sia per la celebrazione dei mysteria – sacramenti, fino a giungere alla codificazione o cristallizzazione di tipi o famiglie liturgiche» 28. In Oriente si distinguono il gruppo antiocheno e il gruppo alessandrino, risalenti, come si vede, a due tra i più antichi patriarcati, quello di Antiochia di Siria e quello di Alessandria d’Egitto. A sua volta il rito antiocheno si divide nelle tipologie siro-occidentale e siro-orientale. La prima comprende i riti antiocheno (che è simile al rito di Gerusalemme e della Palestina e influenza in qualche modo il rito armeno, in uso dal IV secolo dapprima per opera di Gregorio l’Illuminatore e poi del katholikos Isacco), maronita (seguito in comunità del Libano dal VII-VIII secolo) e bizantino: quest’ultimo 28 A.M. Triacca, in Dizionario Patristico e di Antichità cristiane, II, cit., col. 1981, s.v. Liturgia-Liturgia e tradizione.

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rito, nato a Costantinopoli che è centro delle diocesi dell’Asia, del Ponto, della Tracia e dei territori circostanti sotto i “Barbari”, è aperto alle esigenze spirituali dei popoli con cui viene in contatto e conosce ulteriori varianti, distinguendosi ancora in riti bizantini greci, albanesi, italici, georgiani, slavi, ucraini. La seconda tipologia è quella siro-orientale. La Chiesa che lo forma e lo adotta usa la lingua siriaca – e non la greca –, svolge una notevole attività missionaria, estendentesi fino alla Cina ed a Giava, ma conosce una sorte particolare che la isola da tanta parte della restante cristianità. Infatti quella Chiesa vive al di fuori dei confini dell’Impero romano e subisce il dominio dei Persiani; liturgicamente dà luogo al rito nestoriano – giacché non accetta le decisioni dei concili di Efeso e di Calcedonia – e, in data più recente, ai riti caldeo e malabarese. Il secondo gruppo cui si è accennato è quello che si ispira ad Alessandria. Parecchi autori e testi del IV-V secolo (da Atanasio a Didimo, da Teofilo d’Alessandria a Sinesio di Cirene, da Cirillo al cosiddetto Ordinamento ecclesiastico egiziano) danno notizie circa le particolarità liturgiche delle comunità che vivono in quelle terre. Fino al 451 la lingua adottata è quella greca, dopo il 451, ossia dopo il concilio, la condanna del patriarca Dioscoro e la perdita del primo rango al seguito di Roma che Alessandria subisce per l’approvazione del canone 28 di Calcedonia, appare una liturgia duale che da una parte continua ad usare la lingua greca e dall’altra la lingua copta. È questa una chiesa in cui avviene lo scisma monofisita e che si lascia penetrare dalla spiritualità del monachesimo antico. Dal medesimo ceppo deriva il rito etiopico a cui il messaggio evangelico giunge attraverso l’opera di monaci inviati da Alessandria. La lingua sacra è il ge’ez, che oggi è lingua morta. Anche la liturgia etiopica passa diverse fasi. Notevoli sono gli apporti siriaci e di altre Chiese orientali in particolare di Gerusalemme per i rapporti che i monaci etiopici avevano costantemente con la Terra Santa, come notevoli sono i contributi accolti da testi apocrifi e pure, più in generale, gli influssi ebraici che si manifestano anche nella struttura interna degli edifici sacri 29. Pur nella grandissima varietà e nei molteplici sviluppi che le forme liturgiche orientali hanno conosciuto attraverso molti secoli e

29

Cf. O. Raineri, La spiritualità etiopica, Roma 1996, pp. 57ss.

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fino ad oggi esse sono penetrate da un afflato poetico che si esprime, tra l’altro, nelle numerose anafore e in delicati inni mariani. Una voce contemporanea, di origine slava, come quella di Giovanni Paolo II, ha colto nella preghiera liturgica dell’Oriente cristiano certe dimensioni peculiari, scrivendo che essa mostra «una grande attitudine a coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel calore dei sentimenti che suscita nel cuore dell’umanità salvata: nell’azione sacra anche la corporeità è convocata alla lode e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più cari per esprimere la divina armonia e il modello dell’umanità trasfigurata, si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi (…). Questa valorizzazione integrale della persona nelle sue componenti razionali ed emotive, nell’estasi e nell’immanenza, è di grande attualità, costituendo una mirabile scuola per la comprensione del significato delle realtà create. Esse non sono né un assoluto, né un nido di peccato e di iniquità» 30. In altre parole è qui riconosciuto il fatto che le cristianità orientali hanno avuto (ed hanno) un modo originale di sentire, di comprendere e quindi di vivere il proprio rapporto con Dio e che la varietà straordinaria del loro approccio al mistero divino ha permesso di comporre, con tessere diverse, un mosaico ricco e composito, che è patrimonio comune di tutte le Chiese, quali che siano stati i punti che costituirono oggetto di controversia dottrinale durante il cammino storico. Senza dubbio però tale mosaico ha potuto prendere forma per la molteplicità delle culture e delle formae mentis locali che non solo hanno consentito che si disegnasse, ma spesso l’hanno fatto nascere e stimolato. In Occidente nel tempo antico si annovera una serie di riti: il romano, l’africano, l’ambrosiano, l’ispano-visigotico (mozarabico), il gallicano-gotico, il celtico e finalmente alcuni riti cosiddetti italici che si distinguono da quelli in uso a Roma e a Milano. Abbiamo detto del passaggio a Roma dal greco al latino liturgico. Si può aggiungere che una serie di composizioni, in special modo Sacramentari, attestano il graduale sviluppo del rito romano che riguarda non solo la metropoli e le diocesi suffraganee, ma progressivamente e abbastanza rapidamente tutta l’Italia. Il rito africano si 30 Orientale lumen, Lettera apostolica di Giovanni Paolo II del 2 maggio 1995, n. 11. Cf. pure ibid., n. 5.

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celebrava in lingua latina – come già testimonia la Passio Perpetuae et Felicitatis – e si estendeva nell’area dell’Africa settentrionale latina come provano passi di opere di Tertulliano, di Cipriano, di Agostino, di Ottato di Milevi e ancora nel V secolo di Vittore di Vita e nel VI di Ferrando, diacono di Cartagine. Un rito la cui celebrazione fu interrotta dapprima dall’invasione dei vandali e poi dall’occupazione permanente degli arabi mussulmani. A Milano e alla decima regio romana si estende la liturgia ambrosiana che con probabilità realmente (e non solo nominalmente) risale al vescovo di Milano che opera nelle ultime decadi del IV secolo. Dopo avere avuto una prima fase di gestazione e poi di piena fioritura, con i due centri di Siviglia, ove sono attive personalità quali quelle di Leandro (†600) e del fratello Isidoro (†636), e di Toledo, con tre figure di rilievo come Eugenio II (†657), Ildefonso (†667) e Giuliano (†690), il rito ispano-visigotico almeno nella Spagna del sud ha un’interruzione improvvisa per la conquista degli arabi avvenuta nel 711. Dal V secolo nella Gallie del sud compare il rito gallicano gotico destinato tuttavia a scomparire nell’VIII-IX secolo anche per l’opera di Carlo Magno che impone la liturgia romana in un processo di unificazione sempre più accentuato. Usi liturgici specifici si rilevano dal VI-VII secolo, attestati da fonti tipiche che risentono di influssi di Roma, Milano e delle Gallie, nel rito celtico vivo nell’Irlanda e nella Gran Bretagna. Per tracciare infine linee di un quadro che è ancora più complesso di quanto non si sia qui descritto, basti accennare ai riti italici che si differenziano da quelli di Roma e di Milano e che hanno luogo nell’Italia meridionale in Campania, a Napoli e a Benevento, nell’Italia settentrionale ad Aquileia ed a Ravenna. Anche per quanto riguarda i vari riti che fioriscono nelle Chiese orientali ed occidentali – come per le lingue e per i tipi diversi di cristianesimo dei quali si è discorso – appare con evidenza come i fattori locali abbiano avuto un posto notevole nella vita ecclesiale e come d’altra parte non ne abbiano inficiato di per se stessi l’unità. Ma appare con altrettanta chiarezza che il rapporto tra dimensione locale e dimensione universale sia in certo modo radicato nella missione stessa della Chiesa e sia iscritto nella comunione tra le Chiese. In altre parole, universale e locale costituiscono due poli naturali dell’esperienza cristiana, la quale ha il proprio radicamento profondo in un contesto specifico, preciso e in pari tempo, per

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la sua stessa natura, è aperta all’orizzonte intero, non circoscritto, dell’oikoumene. In certi periodi, uno di questi è costituito dal IV e specialmente dal V secolo, il fenomeno della localizzazione tende ad aumentare. Lo dimostra il concilio di Calcedonia (451), allorché Costantinopoli rivendica privilegi uguali a quelli accordati all’antica Roma, essendo la “Nuova Roma” sede dell’imperatore e del senato. Allora motivi di carattere geografico, culturale, personale, di prestigio e di potenza sembrano sopravanzare i fattori teologici e istituzionali. Intanto si consuma un altro fenomeno che facilita la prevalenza delle localizzazioni. Una Chiesa più importante, si potrebbe dire una Chiesa-madre, aveva sempre avuto intorno a sé Chiese-figlie o minori. Nel II- III secolo le relazioni tra la prima e le seconde erano state segnate da sollecitudine e da cura, secondo la tradizione apostolica. Nel IV secolo e nei successivi, tali relazioni si trasformano in giurisdizione che le grandi sedi esercitano verso le minori sul territorio di loro competenza, facendole dipendere da sé. È questo il presupposto per l’origine dei patriarcati e successivamente per più gravi divisioni. Eppure la situazione creatasi non scalfisce l’universalità della Chiesa. È stato osservato che nella “grande Chiesa” avviene qualcosa di simile a ciò che accade all’Impero romano, dove coesiste un mosaico di città, dotate di una certa autonomia, all’interno di un quadro politico fondato sul potere imperiale e garantito dall’esercito. Non mi pare si possa dire così. Certamente non per l’Oriente cristiano, ma, durante i secoli tardo antichi e alto medievali neppure per l’Occidente, quando si riscontra una molteplicità di centri e se si riconosce il ruolo di determinate Chiese lo si fa o perché sono d’origine apostolica o perché hanno assunto nella “politica ecclesiastica” uno spazio rilevante: come insegna la vicenda legata alla “Nuova Roma”, Costatinopoli. Cosa che non smentisce un fatto: che i fenomeni di localizzazione si raccolgono sempre intorno a centri urbani, i quali hanno la vocazione di coagularli e di stabilirli continuativamente. Basti fare i nomi di Roma, di Alessandria d’Egitto, di Gerusalemme, di Antiochia, di Costantinopoli, ma anche di Edessa, di Nisibe, ecc. Ma non si può dimenticare che essi costituiscono un’unica realtà, la Chiesa universale. È meglio osservare invece che accanto al modello dell’Impero romano antico ed in parallelo con quello si pone il modello della Chiesa che dà origine all’Impero cristiano, che con il

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primo ha una continuità concettuale e storica. Sono modelli attualissimi che possono dire molto alle istituzioni del nostro tempo su almeno tre versanti: il religioso, il politico e il giuridico. Se mai, è stata la non distinzione tra i due poteri, civile ed ecclesiastico che, specialmente in Oriente, ha provocato problemi e difficoltà tra questi due ambiti. Ma è questa un’altra dimensione, relativa alla “laicità”, che non si deve né si vuole approfondire in questa sede. Fin qui si è condotto, come era necessario, un discorso storico. Diversa cosa sarebbe considerare la prospettiva concernente la profondità teologica del concetto di Chiesa ed il rapporto tra l’unico corpo, quello della Chiesa universale, e le realizzazioni concrete nelle singole Chiese particolari, prospettiva che pure è stata sviluppata e vissuta dai cristiani dei primi secoli. In tal senso si potrebbe dire che il ministero episcopale rappresenta il modello ecclesiastico locale, mentre il susseguirsi sempre vivo nel corso dei secoli dei “movimenti” – il monachesimo ne è un esempio chiaro – pone in luce l’elemento universale della Chiesa.

CAPITOLO II

LA CHIESA DI GERUSALEMME

Dopo il primo capitolo che ha voluto porre sul tappeto alcune grandi problematiche utili per comprendere le vicende successive delle Chiese cristiane, sembra conveniente porre attenzione, sia pure in brevi tratti, a Gerusalemme, ossia a quel luogo che ha visto svolgersi l’ultimo atto della vita di Gesù e che subito dopo ha accolto la comunità dei discepoli, radunati intorno a Maria. Partendo da questa città del vicino Oriente, situata agli estremi confini dell’Impero romano, l’opera missionaria degli apostoli e poi dei loro seguaci ha portato l’“evangelo” ai confini delle terre. D’altra parte in quella città, come in altri luoghi, ha cominciato ad avere vita una Chiesa locale con le sue vicende particolari. Quando dopo la morte di Saul, il re David si indusse a riunire le diverse parti del popolo israelita per stabilire la capitale, scelse il sito dove sorgeva la più antica Urußalim, della quale già parlano le fonti egiziane del secondo millennio a.C. e le tavolette cuneiformi. Era l’alba del primo millennio a.C. La scelta fu originata dal fatto che la città era rimasta fino ad allora indipendente, non essendo posseduta da alcuna delle tribù ebraiche, ed era situata in una posizione facilmente difendibile, essendo posta su una collina delimitata da due valli profonde e godendo di una fonte d’acqua preziosa per la sua vita. Conquistata con uno stratagemma, secondo le narrazioni che ne fanno il Secondo libro di Samuele (5, 2) e il Primo libro delle Cronache (11, 5s.), David pensò subito a far rinforzare la cinta muraria ed a far costruire al suo interno la propria reggia. Grande rilievo ebbe il solenne trasferimento dell’“Arca dell’Alleanza” da Kirjath-Jearim nella città che divenne il vero centro religioso del popolo ebraico. L’“Arca dell’Alleanza”, o “Arca di Dio” o “Arca della testimonianza”, era costituita da uno scrigno sacro risalente all’epoca di Israele nel deserto (l’Esodo [25, 1-22 e 37, 1-9] ne dà una descrizione) ed era ritenuta segno visibile della presenza di JHWH tra il suo

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popolo: in essa erano conservate le Tavole della Legge. Davide fece pure erigere l’Altare degli olocausti. Poco più tardi Salomone, secondo la volontà del padre, fece erigere, oltre ad una nuova reggia, il Tempio – della cui magnificenza ci parla il Libro dei Re 5, 1ss. – e vi fece deporre l’“Arca”. Ma ben presto l’importanza della città doveva ridursi: infatti, alla morte di Salomone, le dieci tribù del nord elessero a proprio re in Sichem Geroboamo e Gerusalemme rimase capitale del piccolo regno di Giuda e di Beniamino. Già a cominciare dalla fine del X secolo a.C. essa subì a più riprese saccheggi da parte di popoli stranieri. Tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C., sotto il re Ezechia, fu munita di nuove difese e dotata di un acquedotto di oltre 500 m. destinato a portare le acque del Gihon nella piscina di Siloe; fu assediata dagli assiri, senza tuttavia capitolare. Cosa che avvenne invece nel 587 o 586 a.C. per opera di Nabucodonosor, re babilonese, il quale, conquistata Gerusalemme dopo un assedio durato due anni, la distrusse e deportò gran parte della popolazione in Babilonia (cf. 2 Re 25, 1ss.). Dopo tre secoli, anche il Tempio fu così ridotto in rovina. Ciro, della dinastia degli Achemenidi (550-530 a.C.), conquistata Babilonia, pose fine alla deportazione degli ebrei, permettendo che tornassero ai loro paesi. In tal modo poterono essere ricostruite le mura della città e di nuovo poté sorgere, sulle fondamenta degli edifici salomonici, il nuovo Tempio, il Secondo Tempio. Nel 331 a.C. Alessandro occupò Gerusalemme che alla sua morte passò prima sotto i Tolomei d’Egitto e poi sotto i Seleucidi di Siria. Nel 168 a.C. la città subì un grande trauma: Antioco IV Epifane devastò il Tempio e lo profanò, facendovi celebrare un culto pagano. Dopo la vittoria di Giuda Maccabeo e dei suoi fratelli, la situazione fu risanata: il Tempio tornò ad essere sede del culto religioso ebraico, furono rialzate le mura, ricostruiti i quartieri danneggiati. Cominciò un periodo di prosperità destinato a durare fino al 63 a.C., quando i contrasti tra due principi ebrei, Ircano II e Aristobulo II, provocarono l’intervento di Pompeo che, dopo mesi di assedio, penetrò nel Tempio, uccise i sacerdoti e occupò la città, facendola tributaria di Roma. Nel 37 a.C., con il favore di Antonio e di Augusto, l’idumeo Erode fu incoronato re della Giudea. Sotto di lui Gerusalemme visse un periodo di splendore: vennero edificati palazzi, fu resa molto più ampia la spianata del Tempio, che a sua volta fu superbamente abbellito. È quello il Tempio che Gesù conobbe ed in cui si recò a pregare; è quella la città verso cui Gesù salì per

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essere crocifisso. Una città che nondimeno, sotto Archelao, figlio di Erode il Grande, perse qualche po’ di importanza. Secondo il Nuovo Testamento a Gerusalemme è avvenuta l’effusione dello Spirito che ha dato origine alla Chiesa e in pari tempo l’ha aperta alla sua missione (non interessa qui aprire il discorso circa la storicità del racconto). All’inizio del primo capitolo si è citato una parte del passo degli Atti degli Apostoli (2, 1ss.) che racconta diffusamente l’evento, cui segue il discorso di Pietro, che delinea l’universalità del progetto salvifico, del quale Luca vuole fare partecipe il lettore. È un momento fondamentale per il gruppo dei primi credenti riuniti nel giorno della Pentecoste ebraica nello stesso luogo insieme, nella camera alta (cf. At 1, 13). La promessa di Gesù risorto si avvera (cf. Lc 24, 49; At 1, 2.8). Parecchie altre volte è menzionata la comunità cristiana di Gerusalemme negli Atti: per esempio, quando, verso il 36-37, si parla (in 8, 1ss.) della prima persecuzione contro la “Chiesa” di Gerusalemme, che Luca considera un’unità, anche se invero la persecuzione è rivolta dagli ebrei solamente contro i cristiani “ellenisti” che ne fanno parte e non contro i cristiani “ebrei”; tanto è vero che, secondo le parole stesse dello scrittore, i Dodici, ossia il collegio apostolico, rimangono nella città, mentre gli “ellenisti” si disperdono nei territori della Giudea e della Samaria, dopo la lapidazione di Stefano (ma la persecuzione e di conseguenza la dispersione produce la diffusione della Parola ed è quindi ritenuta alla stregua di un’occasione provvidenziale). Qualche anno dopo, intorno al 44, avvenne un’altra persecuzione volta contro alcuni membri della Chiesa. Per molti motivi fu un momento importante per la comunità di Gerusalemme: il movimento cristiano si era aperto al mondo pagano. Erode Agrippa (10 a.C.44 d.C.) era stato nominato dall’imperatore Claudio nel 41 re di Giudea, Samaria, Idumea, Batanea e Ituria, ossia di un territorio analogo a quello dominato da Erode il Grande, di cui era pronipote. Quegli in politica interna si mostrava ligio alle pratiche giudaiche e osservante della Legge. Con probabilità per ostentare al popolo la sua fedeltà alla religione dei Padri – che non metteva in mostra nei rapporti esterni – cominciò a maltrattare alcuni membri della Chiesa, giungendo a decapitare uno dei Dodici, Giacomo il Maggiore, fratello di Giovanni, figlio di Zebedeo e a mettere in carcere Pietro. Il cap. 12 (1 ss.) degli Atti pone in rilievo questi elementi che critici accreditati ritengono storici; narra la miracolosa liberazione di Pietro di notte, durante la festa pasquale, dando a intendere che

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Pietro rinnova l’esperienza dell’Esodo. Luca osserva che per lui la comunità aveva elevato in quell’occasione una preghiera incessante; Pietro, da parte sua, appena libero, pensò di recarsi presso la casa di Maria, madre di Giovanni, detto Marco, ove si trovavano molti radunati in preghiera. Vedendolo, i presenti rimasero sbalorditi, ma Pietro raccontò loro come il Signore lo aveva fatto uscire dal carcere ed aggiunse di fare sapere ciò che era avvenuto a Giacomo e ai fratelli. Quest’ultimo particolare è di notevole interesse, giacché mette in luce il fatto che Pietro approvava la successione di Giacomo (il Minore) a responsabile della Chiesa di Gerusalemme (Giacomo il Maggiore non era stato più sostituito nel collegio dei Dodici, come era avvenuto per Giuda). Fu il momento in cui Pietro si allontanò dalla città per rivolgersi ai pagani. Quanto a Giacomo il Minore, è dato per conosciuto al lettore. Si trattava del figlio di Alfeo, e fratello del Signore, anche lui uno dei Dodici e che Flavio Giuseppe 1 come pure Eusebio di Cesarea 2 identificano nel Giacomo fatto lapidare nel 62 dal sommo sacerdote Anano, dopo la morte di Festo e prima dell’arrivo di Albino, nuovo procuratore romano. Ma occorre interessarsi ancora della comunità gerosolimitana prima del 50. Essa è visitata da Paolo e Barnaba che vi recarono la colletta raccolta ad Antiochia, al tempo del procuratore Tiberio Giulio Alessandro (46-48) negli anni in cui una grave carestia aveva colpito parte dell’area mediterranea (cf. At 11, 28ss.; 12, 25). A quanto sembra nell’estate del 49 avvenne a Gerusalemme l’incontro tra gli apostoli e gli anziani – che spesso è indicato con il nome di concilio di Gerusalemme – nel quale si stabilì che i cristiani proveniente dal paganesimo non dovevano essere circoncisi e nemmeno sottostare alla Legge mosaica (cf. At 15, 2ss.). Anche Paolo, in Gal 2, 1ss., menziona quella riunione. Se ci siamo soffermati con qualche insistenza sulle narrazioni degli Atti, la ragione risiede nel fatto che attraverso di esse veniamo a sapere qualche cosa della vita della prima comunità. Se è vero che elementi redazionali sono amalgamati con elementi propriamente storici, pur entro un intento in primo luogo non storico ma teologico, gli uni e gli altri sono tramite di non poche notizie preziose. Negli ultimi anni del regno di Nerone (54-68) ebbe luogo una rivolta aperta dei giudei contro la dominazione romana. Stando al1 2

Cf. Antichità giudaiche XX, 9, 1. Cf. HE II, 23, 4-20.

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le espressioni di Eusebio 3, dopo il martirio di Stefano, di Giacomo, figlio di Zebedeo e di Giacomo, figlio di Alfeo, i cristiani più segnalati della Chiesa gerosolimitana, essendo stati minacciati ed espulsi, si erano recati a predicare la dottrina evangelica fuori della Giudea. Ed anche tutti i membri del “popolo”, avvertiti per mezzo di un vaticinio del pericolo incombente (rappresentato dai romani che stavano giungendo per assediare la città), se ne allontanarono per raggiungere Pella, nella Perea: una notizia questa tramandata solo da Eusebio, il quale la trae con probabilità dalla tradizione locale. In tal modo la comunità cristiana non subì l’assedio e neppure le sciagure conseguenti, un fatto che è interpretato dallo storico cristiano quale divina vendetta per il delitti compiuti dagli ebrei contro Cristo e i suoi apostoli. La città fu saccheggiata e in parte rasa al suolo dai romani (70); il Tempio, contro il volere di Tito, venne arso dalle fiamme. Gerusalemme rimase sotto la custodia di una guarnigione romana; il Sinedrio si trasferì a Jamnia. Tuttavia negli anni successivi essa gradualmente si ripopolò di giudei e di cristiani, come provano reperti archeologici e la testimonianza di fonti letterarie. Ancora Eusebio fornisce la lista dei vescovi che si sarebbero succeduti sulla cattedra della città fino al 132 circa e nota la loro comune provenienza dal giudaismo. Egli osserva che il ministero di ciascuno è stato di brevissima durata: ne enumera quindici, dopo Giacomo, fratello del Signore, Simone, cugino del Signore, morto – come Giacomo – martire 4, Giusto, Zaccheo, Tobia, Beniamino, Giovanni, Mattia, Filippo, Seneca, Giusto, Levi, Efrem, Giuseppe e Giuda. Della Chiesa da loro presieduta si dice che era composta da fedeli ebrei e che tale rimase dall’epoca apostolica alla quarta decade del II secolo, quando visse una cesura gravissima. Sappiamo infatti che negli anni 132-135 scoppiò una nuova sollevazione dei giudei che vollero opporsi al giogo di Roma e in particolare ad una legge dell’imperatore Adriano (117-138) che proibiva la circoncisione e ad un suo progetto che prevedeva la costruzione di una città pagana sul luogo della città santa e la costruzione di un edificio dedicato a Giove in luogo del Tempio 5. Sap-

3 4

Cf. HE III, 5, 2-3. La notizia è data da Egesippo, secondo quanto dice Eusebio di Cesarea, HE IV, 22. Sulla sua morte, cf. ibid. III, 22. 5 Cf. Vita Adriani 14, 2; Dione Cassio, Historia romana 69, 12, 1-2.

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piamo ugualmente che anche questa nuova sommossa fallì; molti uomini, donne e bambini furono trucidati, il paese ridotto in servitù, la città giudaica definitivamente distrutta o trasformata in un centro di carattere ellenistico-romano; perfino il suo nome fu mutato, si chiamò Elia Capitolina, in onore all’imperatore, Publio Elio Adriano (117-138) 6. In tal modo – osserva Eusebio – e proprio a causa di questo avvenimento, i vescovi della circoncisione vennero a cessare 7 e con loro si disperse la comunità dei giudeo-cristiani. Anzi un decreto di Adriano proibì ai giudei – fra i quali evidentemente erano da annoverarsi anche i fedeli di origine ebraica – non solo di dimorarvi, ma anche di avvicinarsi a Gerusalemme, come a dire che non era loro concesso neppure di contemplare di lontano quella che Filone aveva detto essere per ogni ebreo la seconda patria: un ordine che non sempre poté esser fatto totalmente osservare, ma che di certo mutò la fisionomia e la storia di quella città. Essa divenne colonia romana in cui si sviluppò una comunità formata da pagano-cristiani. Marco ne fu il primo vescovo. Gli avvenimenti che ebbero termine nel 135 furono clamorosi tanto da essere ricordati per lungo tempo anche da altre fonti cristiane, comprese le profezie contenute nel Nuovo Testamento che ad essi si riferiscono. Ne parlano Tertulliano 8, Origene 9, Cirillo di Gerusalemme 10, Girolamo 11, Giovanni Crisostomo 12, Agostino 13, ecc. Ancora e sempre Eusebio fornisce notizia sui nomi dei vescovi della città di origine pagano-cristiana. Al nome di Marco ne seguono altri undici, fino a quello di Narciso che presiedette una riunione relativa alla controversia della Pasqua tenuta in Palestina intorno al 190. Per calunnie (infondate) rivoltegli, egli lasciò la cattedra della città e si ritirò a vita ascetica; lui vivente succedono altri tre vescovi, prima che fosse riabilitato, e riprendesse il suo posto, non senza associarsi, a motivo dell’età avanzata, un confratello, Alessandro, che poi morirà durante la persecuzione di Decio (249-250). Dal 250

6 7

Cf. Chronicon Paschale: PG 92, 615. Cf. Eusebio di Cesarea, HE IV, 5, 1-4. Cf. pure Cirillo di Gerusalemme, Catech. 14, 15; Epifanio, Haer. 20. 8 Cf. Adversus Iudaeos 13, 3-4; 13, 28. 9 Cf. Homilia in Josuè 21, 1. 10 Cf. Catech. 10, 11. 11 Cf. In Mattheum 23, 38; 24, 1-2. 12 Cf. Comm. in Gal. 2, 6; Hom. in Matth. 76. 13 Cf. Enarratio in ps. 124, 3; De civitate Dei 16, 21.

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al 303 conosciamo il nome di altri quattro vescovi 14. È chiaro che ben poco si trae da queste scarne informazioni circa la vita della comunità gerosolimitana, se non che essa ha avuto esistenza continuativa, sotto la guida di molti suoi pastori, al tempo in cui la città aveva un fisionomia e un’ impronta pagana. IL NASCERE DELLA CITTÀ CRISTIANA La situazione muta con l’avvento di Costantino, dal 313 in poi. Per suo volere sono costruite chiese nei luoghi più significativi segnati dalla presenza di Cristo e della sua più antica comunità. I pellegrinaggi diventano frequenti. Attraverso preziose testimonianze (Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Egeria) si può conoscere e in certo modo seguire la vita di quella Chiesa nella liturgia, distinta da un carattere precipuo: quello di celebrare i grandi momenti che hanno segnato la vita, la morte e la resurrezione di Gesù e gli eventi vissuti dagli apostoli nei luoghi stessi nei quali sono avvenuti. In special modo l’Itinerarium Egeriae illustra con dovizia di particolari, nella sua seconda sezione, la liturgia della Chiesa di Gerusalemme: il ritmo della settimana, con gli uffici delle singole ore; lo svolgersi dell’anno scandito dalla grandi feste che ricordano i fatti salienti della venuta di Cristo. Con i riti e le cerimonie liturgiche sono pure descritte le processioni che coinvolgono clero e fedeli da una parte all’altra della città, vale a dire da una basilica o da un santuario all’altro. Nella terza sezione dello scritto, si parla a lungo delle pratiche e degli usi in riferimento alla preparazione dei catecumeni al battesimo. Da tutto ciò si vede delineato un quadro di grande interesse dal quale emergono costumi, modi di vita, mentalità proprie di una comunità della seconda metà del IV secolo, cui appartenevano il vescovo, i presbiteri, i monaci (uomini e donne) e finalmente il popolo. Un quadro da cui appare con chiarezza la partecipazione frequente e prolungata dei fedeli agli uffici che, in certe occasioni, continuava ininterrottamente dal primo mattino fino a tarda sera. Per esempio, a proposito della liturgia domenicale si legge che «prima del cantar del gallo, tutta quanta la folla che può essere contenuta in quel luogo si raccoglie (…) nella basilica situata presso 14 Per questa serie di informazioni, cf. Eusebio di Cesarea, HE V, 12. 23-25; VI, 11-12. 39; VII, 14. 32.

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l’Anastasis 15, all’esterno però, dove sono sistemati dei lumi per la circostanza (…). Sacerdoti e diaconi sono sempre pronti in quel luogo a celebrare vigilie per la gente che là si raccoglie. Per consuetudine, infatti, prima del canto del gallo non sono aperti i luoghi santi. Non appena il primo gallo ha cantato, subito il vescovo scende ed entra nell’Anastasis, tutte le porte sono aperte e l’intera folla entra nella chiesa, dove già risplende un gran numero di luci (…). Si portano nella grotta alcuni incensieri, in modo che tutta la basilica si riempia di profumi. Allora il vescovo, in piedi dietro i cancelli, prende il vangelo, si avvicina alla porta e legge lui stesso il racconto della resurrezione del Signore. Non appena comincia questa lettura si levano tali gemiti e grida da parte di tutti e tale è il pianto che perfino l’uomo più insensibile può essere toccato fino alle lacrime per il fatto che il Signore abbia tanto sofferto per noi» 16. Così il racconto della pellegrina, proveniente da un lontano paese dell’Occidente, prosegue con una dovizia eccezionale di particolari e di notazioni che hanno l’aria di essere veramente di un testimone oculare curioso e attento, estraneo all’ambiente, ma partecipe. Se l’Anastasis e il Martyrium o Ecclesia maior erano i punti maggiormente frequentati per le cerimonie liturgiche, non erano i soli nella città o nei suoi dintorni. Luogo di culto era pure l’Eleona (dal greco elaion = uliveto) che designava sia la collina – il Monte degli Ulivi – che sorge ad est della città, da cui la separa la valle del Cedron, sia una delle chiese, la prima edificata da Costantino: essa era

15 La basilica della Resurrezione, edificio a forma rotonda sormontato da una cupola maestosa, faceva parte di quel complesso architettonico costruito da Costantino sui luoghi della morte e della resurrezione di Gesù. Di fronte vi era il Martyrium o Ecclesia maior. In mezzo si ergeva la roccia squadrata del Calvario, su cui era infissa una croce simbolica: di queste antiche costruzioni oggi non rimane più nulla: furono distrutte nel 1009 per volere del califfo Hakim, che aveva un atteggiamento particolarmente intollerante verso il culto cristiano. Qualche tempo dopo, Costantino Monomaco, imperatore dell’Oriente romano cristiano, ricostruì l’Anastasis e non il Martyrium. Nel XII secolo i crociati edificarono sul luogo una grande chiesa, la basilica del Santo Sepolcro, che racchiudeva tutti i luoghi della passione di Gesù e che ancora oggi si può vedere. Attualmente restano parte della chiesa dell’Anastasis, con un nartece a est e tre absidi a est, sud ed ovest aggettanti dal perimetro, che era circolare all’interno e poligonale all’esterno. La tomba del Signore o Martyrium è oggi quasi invisibile. Rimane solo un tratto di muro, incorporato negli edifici costantiniani che dalla via dava accesso alla tomba. Cf., per queste ultime notizie, B. Bagatti, in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, vol. II, Roma 1983, coll. 1489ss., s.v. Gerusalemme. IV. Archeologia. 16 Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa (Itinerarium Egeriae), 24, 8-10, a cura di P. Siniscalco e L. Scarampi, Roma 1985, p. 136. Per il testo latino, cf. SC 296, Paris 1997.

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a tre navate e sulla parte anteriore aveva un portico e dei propilei. Nella basilica la folla dei cristiani conveniva per celebrare con solennità in special modo alcune ricorrenze, come il quarto giorno dell’ottava dell’Epifania, la domenica delle Palme, il giovedì santo, l’ottava di Pasqua. A poca distanza da Gerusalemme in direzione sudest, sulla strada che scendeva a Gerico, si trovava Betania, luogo che si identifica probabilmente con l’attuale villaggio arabo di el-‘Azariye, ossia paese di Lazzaro, a ricordo del Lazzaro evangelico 17. Ivi appunto sorgeva il Lazarium 18, ove ci si recava in processione cantando inni, per esempio, il quinto giorno della festa dell’Epifania; nella sue vicinanze vi era una chiesa dove Maria, sorella di Lazzaro, seguendo il racconto giovanneo 19, andò incontro al Signore: anche quello era un punto di incontro e di preghiera, allorché il popolo si recava al Lazarium. Un altro punto liturgicamente significativo era Sion, la collina posta a sud-ovest di Gerusalemme. Secondo la tradizione, là si trovava la casa in cui Gesù aveva istituito l’eucarestia, ove, risorto, sarebbe apparso ai suoi discepoli e nel giorno di Pentecoste alle 9 del mattino avrebbe fatto discendere su di loro lo Spirito Santo. Dapprima in quel luogo era stata edificata una piccola chiesa, sostituita poi da una grande basilica, la Santa Sion, che Cirillo, vescovo della città (†386) chiama «chiesa superiore degli Apostoli»: manifesto è il motivo per cui nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, precisamente all’ora terza, cioè alle 9 del mattino 20, ci si recasse a Sion appunto. La comunità gerosolimitana aveva pure cara un’altra meta, costituita da Betlemme: nel pomeriggio del 5 gennaio si radunava nel Campo dei Pastori, ove una grotta era stata trasformata in luogo di culto, poi nella grotta della Natività che si trovava dentro la basilica della Natività e infine nella basilica stessa della Natività per la celebrazione dell’eucarestia. 17 18

Cf. Gv 11, 1ss. È opinione largamente condivisa dai critici che già nell’ottava decade del IV secolo, al tempo del viaggio di Egeria, presso la tomba di Lazzaro esistesse una chiesa. Qualche studioso ha espresso diversa opinione sostenendo che le cerimonie avessero luogo all’aperto. A me non sembra che quest’ultima idea abbia una solida base. Cf. al riguardo, P. Siniscalco - L. Scarampi, in Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, cit., p. 155, nota 197. 19 Cf. Gv 11, 17ss. 20 Ci si rammenti delle parole degli Atti degli Apostoli 2, 15 pronunciate da Pietro dopo la venuta dello Spirito: Questi uomini non sono ubriachi, come voi sospettate, essendo solo le nove del mattino.

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Non solo i luoghi, ma anche i tempi durante i quali si svolgeva l’anno liturgico erano sufficientemente indicati dalle fonti. Ancora l’Itinerarium Egeriae descrive con molti particolari significativi i modi con cui erano solennizzate le feste dell’Epifania e della Presentazione, quaranta giorni dopo l’Epifania, i quaranta giorni di Quaresima, che si concludevano con la “grande settimana” (la settimana santa), della quale si parla in riferimento ai riti di ogni giorno, e ancora riferisce delle celebrazioni della Pasqua, del periodo che la segue fino a Pentecoste e del tempo dopo Pentecoste. Si parla anche dei digiuni, dando una descrizione circostanziata di usi estremamente rigorosi e severi che si prolungavano per chi, tra gli uomini e le donne, aveva intrapreso una via monastica, durante periodi molto ampi 21. Dalle testimonianze antiche – si è citato per l’interesse che presenta l’Itinerarium Egeriae; ma si potrebbero ricordare altri scritti risalenti alla fine del IV secolo – si è in grado di ricostituire il tessuto della vita stessa della comunità gerosolimitana per quanto attiene una delle sue manifestazioni essenziali, costituita dal complesso delle preghiere pubbliche e delle pratiche di culto che, se hanno il proprio vertice nella celebrazione della Messa, si esprimono pure nella preghiera delle ore e in altre forme di ascesi, che vedono partecipi nel rivolgersi a Dio tutte le componenti della Chiesa, dai vescovi ai preti, dai monaci ai semplici fedeli. In particolare va detta una parola sul monachesimo palestinese che fin dal IV secolo vide uno sviluppo impressionante, attirando sia dall’Occidente che dall’Oriente molti personaggi illustri e meno illustri. Ci si rammenti, tra i primi, di Girolamo e di Ruffino, di Paola e Melania e dei monasteri maschili e femminili che fondano in Terra Santa; ci si rammenti tra il V e il VI secolo di figure come quelle di Eutimio di Melitene, a Giovanni l’esicaste proveniente dall’Armenia, di Ciriaco di Corinto. Come nota Eusebio di Cesarea nella Demonstratio evangelica (VI, 18, 23) i credenti convenivano in Palestina «da ogni parte del mondo». Anche Saba (439-532), originario della Cappadocia fu attratto dai luoghi ove era vissuto Gesù e, dopo una prima esperienza monastica nel suo paese, decise di continuarla in Palestina, stabilendosi nel deserto di Scitopoli, situato tra Gerusalemme e il Mar Morto. Ivi diede vita ad una organiz-

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Itinerarium Egeriae 28, 4.

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zazione monastica in cui i singoli vivevano in celle separate per riunirsi solo per gli uffici religiosi tenuti nella chiesa comune. Nacque così quella che ben presto fu chiamata Grande Laura, che avrà parte attiva dottrinalmente (schierandosi nelle controversie origeniste e monofisite con l’ortodossia), culturalmente (quale centro in cui anche nei secoli seguenti vissero celebri monaci e in cui, dopo l’invasione araba, furono tradotti dal greco in arabo scritti cristiani) e caritativamente (promuovendo l’accoglienza e l’assistenza dei pellegrini; per cui non è da escludere che i grandi Ordini ospedalieri sorti in Terra Santa al tempo dei Crociati trovino nell’antico monachesimo palestinese la loro radice 22). CARATTERI DELLA CHIESA GEROSOLIMITANA. LE SUE POSIZIONI DOTTRINALI E I SUOI VESCOVI

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Il caso di Gerusalemme è privilegiato in special modo per le fonti che ne parlano, per il modo con cui ne parlano e per i caratteri che lo distinguono. Giacché i riti si svolgevano non di rado nei luoghi stessi che erano evocati nelle letture bibliche e secondo la cadenza dei tempi nei quali erano originariamente avvenuti. Inoltre il caso di Gerusalemme ha pure un rilievo notevole per l’Oriente e per l’Occidente per un altro motivo. Come già si diceva, l’organizzazione della liturgia riceveva timbro ed espressioni differenti dalle tradizioni locali e dall’influsso esercitato da alcune Chiese preminenti. Le usanze praticate dalla Chiesa di Gerusalemme furono spesso recepite da altre Chiese, ad opera soprattutto dei numerosi pellegrini appartenenti al clero e al laicato che vi si recavano da ogni parte del mondo cristiano e che, dopo averle conosciute nella Città santa, se ne facevano tramiti per introdurle nelle liturgie e negli usi dei propri paesi. Il vescovo di Gerusalemme, a differenza dei vescovi di altre sedi – da Antiochia ad Alessandria – non godeva di particolari privilegi. Il canone 7 del concilio di Nicea del 325 non riconobbe alla se-

22 Cf. F. Carcione, Le Chiese d’Oriente. Identità, patrimonio e quadro storico generale, Cinisello Balsamo 1998, pp. 42ss. 23 Cf. su questo tema, L. Perrone, La Chiesa di Palestina e le controversie cristologiche. Dal concilio di Efeso (431) al secondo concilio di Costantinopoli (553), Brescia 1980.

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de la dignità propria di altre sedi apostoliche, anche se per consuetudine e antica tradizione volle che il suo vescovo fosse onorato, con tutto quanto ciò comportava. Per l’esattezza, il canone prescrive che il vescovo di Gerusalemme (nel testo greco si legge Aijliva, ossia Elia, il nuovo nome datole dai romani dopo la sommossa giudaica conclusasi nel 135), dato che era invalsa la consuetudine e l’antica tradizione che fosse onorato, doveva ricevere tutto quanto un tale onore comportava, salva la dignità propria della metropoli. Tuttavia nulla mutò sul piano del suo effettivo riconoscimento. Solo alla metà del V secolo al metropolita della città fu riconosciuto il titolo di patriarca. Si deve notare che per lungo tempo la città fu suffraganea di Cesarea di Palestina o Cesarea Marittima e sotto la giurisdizione di Antiochia, essa che pure era la «madre di tutte le Chiese», secondo la definizione datane nella lettera indirizzata dai padri del concilio costantinopolitano del 381 a papa Damaso. Dottrinalmente la Chiesa di Gerusalemme si mantenne fedele all’ortodossia durante la grave crisi ariana, grazie ad alcune personalità che la governarono e che rimasero nel solco della fede nicena: Macario, vescovo di quella Chiesa dal 314 al 333, partecipò al concilio di Nicea e risulta essere stato un avversario di Ario (a lui nel 326 Costantino affidò il compito di seguire i lavori dei monumenti in via di costruzione sui luoghi della sepoltura e della resurrezione di Cristo). Massimo, successore di Macario, pur avendo durante il sinodo di Tiro (335) accusato e condannato Atanasio di Alessandria, lo accolse solennemente nel 346 nel suo ritorno dall’esilio, avendo per quel motivo convocato nella sua città un altro sinodo. È lui che nel 335 trasferì la cattedrale dal monte Sion al Martyrium sul Calvario. Prima di morire, probabilmente poco prima del 350, egli stesso designò il proprio successore, Eraclio, pure lui di tendenza nettamente antiariana. Ma il suo desiderio non si realizzò a causa dell’opposizione di Acacio, vescovo di Cesarea, subentrato nel 340 ad Eusebio di Cesarea, il quale aveva orientamenti antiniceni e per questo si oppose alla nomina di Eraclio (come si accennava a Gerusalemme dipendeva dal metropolita di Cesarea di Palestina); in luogo di Eraclio, Acacio appunto e Patrofilo di Scitopoli consacrarono nel 348 per la sede gerosolimitana Cirillo (315ca.-387), ritenendolo più favorevole alla loro posizione. Cirillo però entrò ben presto in contrasto con Acacio per questioni di dottrina e per questioni di prestigio relative alla sede che rappresentava e che egli voleva rendere indipendente rispetto a Cesarea: deposto nel 357, fu riabilita-

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to nel 359, nuovamente deposto nel 360, Cirillo rientrò nella sua sede nel 362, dopo la morte dell’imperatore filoariano Costanzo (361); ma, a motivo della politica favorevole agli ariani di Valente fu esiliato intorno al 367; solamente nel 378 tornò nella propria sede ove rimase fino all’anno della sua morte, vedendo riaffermata da un sinodo del 382 la validità della sua consacrazione, che era stata contestata. Cirillo non accettava l’affermazione ariana radicale secondo cui Cristo era stato creato ed era quindi diverso (anomoios) dal Padre. Egli dapprima aveva sostenuto che il Figlio è simile (homoios) al Padre, pur dichiarando esplicitamente che Cristo è figlio di Dio, per natura, non per adozione, generato da Lui e a Lui coeterno e, con lo Spirito Santo, partecipe della sua divinità. Anche se è pur vero che nei suoi scritti non ricorre mai il termine homoousios, segno distintivo con cui si presentava l’ortodossia nicena, ma che era interpretato da non pochi come termine aperto al sabellianismo. È un fatto che il sospetto che fosse un filoariano è avanzato dapprima da Girolamo e poi dagli storici Socrate e Sozomeno: evidentemente la sua consacrazione da parte di Acacio e di Patrofilo dovette avere un posto rilevante nel considerarlo tale. Ma è pure un fatto che la sua ortodossia fu proclamata da un concilio 24. Anche per la sua levatura e autorevolezza, che riuscì a conquistarsi specialmente negli ultimi anni del suo episcopato, la sede gerosolimitana acquisì prestigio anche nei confronti di Cesarea. Ma il conflitto giurisdizionale con quest’ultima sede era lungi dall’essersi smorzato, se non spento. Con il successore di Cirillo, Giovanni, vescovo di Gerusalemme dal 386 al 417, e con Giovenale, vescovo dal 422 al 458, la Chiesa della Città santa rivendicò la propria indipendenza. Quest’ultimo ordinò vescovi in Fenicia e in Arabia; tuttavia egli non riuscì ad ottenere per la propria sede al concilio di Efeso (431) diritti specifici, neppure suffragandoli con documenti apocrifi; a Calcedonia (451) avanzò la richiesta che la sua sede assurgesse a patriarcato e questa volta la sua richiesta fu accolta; in tal modo si liberò dalla giurisdizione di altra sede e poté annettersi le tre province della Palestina: Cesarea, Scitopoli e Petra (dopo il 400, era avvenuta la divisione di quella terra in tre parti: Palestina I [con capitale Gerusalemme], Palestina II [con capitale Scitopoli], Palestina III [con capitale Petra]). Ma a

24 Sulle dottrine professate da Cirillo e sull’evoluzione del suo pensiero circa l’arianesimo, cf. M. Simonetti, La crisi ariana, Roma 1975, pp. 206ss.

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questo punto insorse un nuovo problema. Giovenale negli ultimi anni della sua vita, tornato nella propria sede dopo il concilio del 451, fu accusato da monaci, preti e laici di essersi piegato all’«apostasia» di Calcedonia e di avere rinnegata la comunione con Alessandria d’Egitto. L’opposizione fu tanto forte che egli dovette lasciare la città per trovare rifugio a Costantinopoli e solo nell’anno successivo, il 453, poté rientrare per un decreto emanato dall’imperatore d’Oriente, Marciano (450-457). Da questo momento in poi la sede gerosolimitana, a seconda degli atteggiamenti assunti dai suoi stessi responsabili o delle pressioni degli imperatori romani d’Oriente o delle decisioni prese da sinodi e concili, prese posizione ora calcedonese ora monofisita. Tra i patriarchi della Città santa, Anastasio, Martirio e Sallustio sembra siano stati favorevoli o vicini al monofisismo. Elia e dopo di lui Giovanni, pur essendo indotti dalle circostanze ad assumere ufficialmente posizioni contrastanti, si mantennero sostanzialmente fedeli a Calcedonia, con l’appoggio anche dei monaci dimoranti a Gerusalemme ritornati all’ortodossia nicena. Nondimeno nelle prime decadi del VI secolo alcuni sinodi, nel 518 e nel 536, convocati dagli imperatori Giustino (518-527) e Giustiniano (527-565), approvarono l’ortodossia nicena e condannano il monofisismo; ad essi aderì il patriarca Pietro, succeduto a Giovanni. Furono quelli gli anni nei quali la situazione religiosa in Oriente si complicò ulteriormente. Nel 536 il papa Agapito giunto a Costantinopoli per fare recedere Giustiniano dal disegno di conquistare l’Italia, lanciò la scomunica ad Antimo – patriarca della capitale dell’Impero d’Oriente – nel caso non avesse voluto riconoscere la dottrina delle due nature in Cristo e lo costrinse a deporre il suo pallio. Giustiniano ratificò l’operato del pontefice, spinto anche da motivi politici, e acconsentì a che fosse eletto come nuovo patriarca costantinopolitano Mena, di fede calcedonese. Agapito morì d’improvviso lontano dalla sua sede, ma Giustiniano proseguì nella via intrapresa e in un sinodo condannò solennemente Antimo e altri capi monofisiti. Si aprì intanto un altro fronte che causò divisioni e accesi contrasti. In quegli anni specialmente in Palestina le dottrine che Origene aveva proposto tre secoli prima e che erano state interpretate e sviluppate successivamente godevano di largo seguito. Giustiniano, sollecitato da suoi consiglieri, intervennne in un dominio squisitamente dottrinale: dapprima scrisse un trattato antiorigenista,

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che si concludeva con quindici formule che volle fosse approvato dai responsabili delle chiese e dei monasteri. Si era nell’anno 543. Saputa la cosa, il patriarca di Gerusalemme, Pietro si rifiutò di sottoscriverlo in quanto lo ritenne contrario a Calcedonia (solo costretto si indurrà poi a firmarlo). Nel 552 moriva Pietro e il partito degli origenisti riusciva ad imporre quale patriarca Macario, il quale però, per volere di Giustiniano, fu sostituito da Eustochio. Questi inviò al concilio di Costantinopoli del 553 tre suoi rappresentanti e in un sinodo tenuto a Gerusalemme nel medesimo anno fece approvare i canoni del concilio che condannavano i «Tre capitoli». Si sa infatti che dopo il primo editto di condanna di Origene, Giustiniano rese pubblico un secondo editto dogmatico in cui si riprovano solennemente le opere anticirilliane di Teodoreto (423466), vescovo di Cirro, una lettera di Iba (435-457), vescovo di Edessa, a Mari e infine gli scritti di Teodoro (392-428), vescovo di Mopsuestia, che era stato maestro di Nestorio. Si trattava di scomuniche postume, ispirate da circoli monofisiti, ben attivi nella corte. Le persone e le opere di tre teologi, accusati di essere nestoriani, erano radicalmente disapprovate. Si impose così la questione dei «Tre capitoli», in cui si compendiava l’accusa, che scosse sia l’Oriente che l’Occidente cristiani: si pensi ai dodici libri scritti da Facondo di Ermiana a difesa dei «Tre capitoli»; si pensi alle vicende tormentate di Vigilio (537-555), vescovo di Roma, che alla fine aderì alle decisioni del concilio del 553, provocando una forte reazione dei suoi confratelli africani; o si pensi ancora a Pelagio I (556561), il quale pure lui riconobbe il concilio, con l’effetto di provocare uno scisma (ricomposto totalmente solo nel 607) da parte delle Chiese di Milano e di Aquileia nei confronti della sede romana. Il concilio di Costatinopoli appunto, con i suoi anatematismi, condannò fortemente i «Tre capitoli». La Chiesa di Gerusalemme dunque si schierò contro Origene, Teodoreto, Iba e Teodoro, allineandosi alle posizioni giustinianee. Gregorio Magno, attraverso il suo Epistolario, ci ha tramandato alcuni squarci della vita quotidiana di quella Chiesa. Nel 597, in una lettera (cf. Ep. VII, 29) diretta al presbitero Anastasio, che regge il monastero detto Neas, cui sembra fosse annessa una chiesa «quae Nea dicitur» (cf. Ep. XI, 28), lo invita a comporre i dissensi sorti tra l’istituzione che presiedeva e il Patriarcato, di cui era vescovo Amos. Qualche anno più tardi (601) il papa tornò sul medesimo argomento (cf. Ep. XI, 28), questa volta scrivendo al successore di

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Amos, Itacio, a segno che i contrasti non erano stati appianati. Nel 603 (cf. Ep. XIII, 26) rivolgendosi al presbitero Filippo (di cui non sappiamo nulla) della Chiesa di Gerusalemme, gli diceva di avere ricevuto la sua lettera in cui gli annunciava la morte di un altro presbitero, Andrea, che evidentemente Gregorio conosceva. Il papa aggiungeva che quegli aveva raggiunto i «gaudia aeterna», che sempre aveva desiderato, ed infine parlava di una somma lasciata a Gerusalemme da un abate, proveniente da Roma, Probo, per erigere un ospizio (xenodochium), potremmo dire un ricovero per pellegrini e forestieri, somma a ciò destinata, mentre da parte sua aggiungeva per Filippo un piccolo dono di 50 solidi. Ne risulta un quadro di esistenza normale con le sue luci e le sue ombre, a prescindere dai tocchi relativi alla figura del papa, che confermano la sua sollecitudine e la sua grande umanità nelle cose piccole e nelle più grandi verso le persone e verso le comunità cui si rivolgeva. LE SORTI DI GERUSALEMME DOPO IL VII SECOLO A distanza di pochi decenni la situazione di Gerusalemme doveva profondamente mutare. Dapprima subì nel 614 l’invasione dei persiani che, sotto Cosroe II, saccheggiarono gli edifici di culto e si impossessarono della reliquia della croce. Solo nel 629 Eraclio li cacciò, riconquistando la città, riportandovi il legno venerato. Ma già otto anni dopo, nel 637 la città, si arrese agli arabi islamici e cominciò a vivere una nuova storia, quella dei territori di fede cristiana sotto il primo dominio mussulmano con le servitù, insieme a determinate libertà concesse: fu proibita ogni espressione religiosa fuori dei luoghi sacri, ma i cristiani mantennero libertà di vita e di culto. La città fu ritenuta santa e chiamata il “Santuario”, Al-Quds (o Al-Kuds) dai mussulmani. Nell’ultima decade del VII secolo il califfo di Damasco, ‘Abd al-Malik fece erigere la Cupola della rupe sul luogo dove Davide aveva stabilito l’Altare degli olocausti. Per secoli continuarono ad affluire i pellegrini cristiani, pur verificandosi di tanto in tanto episodi anticristiani. Verso l’800 Carlo Magno trattò con i califfi e sembra avesse ottenuto qualche vantaggio per i cristiani della Città santa. Alla fine del X secolo e all’inizio del successivo, Gerusalemme visse vicende travagliate: a seguito della occupazione della città da parte dei califfi fatimiti, il Santo Sepolcro e altre chiese furono distrutte. Intorno alla metà del secolo si

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poté attuare la loro ricostruzione a spese dell’Imperatore di Costantinopoli. Nel 1076 presero la città i turchi selgiuchidi; nel 1098 il califfo d’Egitto cacciò i turchi. Si erano intanto messe in moto quelle spedizioni armate condotte da cristiani occidentali e volte a liberare i luoghi santi dai mussulmani, che si sogliono definire crociate. Per l’appello lanciato da Urbano II nel 1096 si era mossa la prima spedizione, che era però stata annientata nei pressi di Nicea, in Asia Minore; ne era seguita una seconda, la quale, dopo avere occupato Edessa e Antiochia, sotto la guida Raimondo di Tolosa e di Goffredo di Buglione, nel luglio del 1099 conquistò Gerusalemme. Nacque così il Regno di Gerusalemme, il quale ebbe la durata di poco meno di cento anni; era un regno di impronta latina e perciò il patriarca gerosolimitano lasciò la sua sede, preferendo rifugiarsi a Costantinopoli: fu l’arcivescovo di Pisa ad ottenere il patriarcato di Gerusalemme, patriarcato latino con tre sedi suffraganee: Hebron, Lydda-Ramula e Betlemme-Ascalona. Nel 1187 Salah ad-Din, il Saladino, primo sultano della dinastia degli ayyubidi d’Egitto e di Siria, dopo aver vinto Guido di Lusignano a Hittin, prese Gerusalemme, cacciando i crociati e ponendo fine al regno occidentale; l’ultimo centro a cadere fu San Giovanni d’Acri nel maggio del 1291. Nella nuova situazione la Città santa vide di nuovo la presenza di mussulmani e di ebrei che erano stati uccisi o allontanati dai latini. Fu allora che il successore del patriarca gerosolimitano ritornò nella sua sede, avendo ormai acquisito nella capitale dell’Impero romano d’Oriente il rito bizantino. Nella prima metà del XIII secolo la città fu in possesso ora dei cristiani ed ora dei mussulmani fino a che, a cominciare dal 1244, rimase in mano agli egiziani, che la tennero per poco meno di 300 anni. Nel frattempo anche l’impero bizantino, o ciò che di quello che un tempo era stato un grande Impero, era caduto sotto il dominio dei turchi. Così nella seconda decade del XVI secolo Gerusalemme fu presa dagli ottomani, e poco dopo Solimano il Magnifico diede impulso alla città, che acquistò i tratti di un centro ottomano, dotandola di fontane e cingendola di un’imponente cinta di mura, con porte, costruite tra il 1547 e il 1550, ancora oggi visibili. Nei lunghi periodi successivi – gli ottomani la dominarono per 400 anni, con una breve interruzione dal 1832 al 1840 per l’occupazione egiziana – la città decadde e lo stesso numero degli abitanti diminuì fortemente. Fu quello il periodo nel quale le varie confessioni cristiane ebbero tra

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loro seri contrasti per il possesso dei Luoghi santi fino a che, intorno alla metà del XIX secolo, l’Impero ottomano concesse ai greci ortodossi la maggior parte di essi. Durante la Prima Guerra mondiale i turchi, per l’offensiva delle forze alleate, specialmente delle truppe britanniche, abbandonarono la città; dal 1920 essa fu dichiarata capitale della Palestina sotto mandato inglese. Dopo la Seconda Guerra mondiale le difficoltà si acuirono e provocarono gravi disordini, sfociati in un vero e proprio conflitto, al cui termine Gerusalemme fu divisa in una zona giordana, comprendente la città vecchia ad Oriente, e in una zona ebraica, con la città nuova ad Occidente. Nel giugno del 1967 Israele ebbe ragione delle forze giordane e entrò in possesso anche della zona orientale. LA SITUAZIONE ATTUALE DELLE CHIESE NELLA CITTÀ SANTA Il Patriarcato greco-ortodosso, che dopo l’interruzione al tempo dei crociati, aveva ripreso la propria vita a metà del XII secolo, e che dopo la conquista turca dipendeva da quello di Costantinopoli, si riteneva erede della sede vescovile di Gerusalemme e sostiene ancora oggi essere di sua competenza la gestione della Città santa, in ciò contrastato dal patriarcato latino. Infatti a metà del XIX secolo Pio IX diede nuova vita al patriarcato latino – istituito nel 1099 e poi decaduto – assegnandogli una sede residenziale e la giurisdizione sui cattolici della Palestina e di Cipro. Vi è pure un patriarcato degli Armeni (le tre Chiese greca, latina e armena sono le sole ad avere il diritto di celebrare le funzioni nel Santo Sepolcro dell’Anastasis). Vi sono inoltre i copti, la cui comunità disponeva già nel IX secolo di una chiesa propria e che dal 1236 ha un suo arcivescovo; al loro seguito vennero gli etiopici. Vi sono i giacobiti, rappresentati da un vescovo 25. Dal 1841 ha pure la propria sede un vescovo anglicano. Anche i caldei, i siri cattolici e gli armeni cattolici, oltre ai maroniti, hanno nella città (che lungo i secoli vide pure la presenza di georgiani e nestoriani) vescovi e vicari patriarcali. Gerusalemme in quanto sacra alla religione ebraica, a quella cristiana e a quella islamica, che la considera, dopo La Mecca e Me-

25 Cf. C.D.G. Müller, in J. Assfalg - P. Krüger, Petit Dictionnaire de l’Orient Chrétien, tr. fr., Turnhout 1991, pp. 275ss., s.v. Jerusalem.

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dina, la terza città santa, ha costituito fino ad oggi un grave nodo irrisolto nel conflitto tra Israele e Palestina. Israele ha annesso la città in due fasi, nel 1948 e nel 1967. Nel 1947 le Nazioni Unite hanno auspicato che essa potesse essere protetta da una statuto garantito internazionalmente. La Santa Sede, che dal 1994 intrattiene con Israele relazioni diplomatiche, è favorevole a questa risoluzione dell’ONU, che – come ben si sa –, finora non è stata attuata. Si sa quanto soprattutto negli anni più recenti la situazione, proprio in relazione ai Luoghi santi e alla loro visita da parte dei pellegrini, si sia ulteriormente complicata e quanto la popolazione cristiana si sia ridotta e continui a ridursi per le difficilissime situazioni in cui si dibatte. BIBLIOGRAFIA * AA.VV., Gerusalemme, Miscellanea in onore di C.M. Martini, Brescia 1982. F.-M. Abel, Histoire de la Palestine, I-II, Paris 1952. A. Alt, Die Bistümer der alten Kirche Palästinas, in «Palästinajahrbuch des Deutschen Evangel. Inst. f. Altertumswiss, des Hl. Landes zu Jerusalem», 29 (1933), pp. 67-88. M. Avi-Yonah, in Paulys Realenzyklopädie d. klass. Altertumswiss., Suppl. XIII, (1973), s.v. Palaestina, coll. 321-454. F. Blanchetière, Enquête sur les racines juives du mouvement chrétien, Paris 2001. A.J. Boas, Jerusalem in the Time of the Crusades: Society, Landscape and Art in the Holy City under Frankish Rule, London 2001. L. Cirillo, Courants judéo-chrétien, in Histoire du christianisme, t. I, Le nouveau peuple (des origines à 250), a cura di L. Pietri, Paris 2000, pp. 330 (ulteriore bibliografia alle pp. 328ss.). R. Devreesse, Les anciens Évêchés de Palestine, in Mémorial Lagrange, Paris 1940, pp. 217-227. A. Elad, Medieval Jerusalem and Islamic Worship: Holy Places, Ceremonies, Pilgrinage, Leiden 1995. C. Enlart, Les monuments des Croisés, Paris 1928.

* Nelle rapide indicazioni bibliografiche qui date si prescinde dalla ricchissima bibliografia di carattere archeologico relativo alla città.

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G. Fedalto, Liste vescovili del patriarcato di Gerusalemme, in «Orientalia Christiana Periodica» 49 (1983), pp. 5-41 e 261-283. G. Filoramo - C. Gianotto (a cura di), Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeo-cristianesimo, Brescia 2001. S.D. Goitein, in Encyclopedie de l’Islam, t. V, Leiden-Paris 1986, pp. 321-340 (bibliografia alle pp. 439s.), s.v. Al-Kuds (che è il nome arabo corrente per designare Gerusalemme). La voce riguarda la città sotto l’islam. J. Gray, A History of Jerusalem, New York 1969. J. Jeremias, Jerusalem in the Time of Jesus: an Investigation into Economic and Social Conditions during the New Testament Period, London 1969 (tr. ingl.). A.F.J. Klijn - G.J. Reinink, Patristic Evidence for Jewish Christian Sects, Leiden 1973. C. Korolevskij, History of the Melkite Patriarchates: Alexandria, Antioch, Jerusalem from the Sixth Century Monophysite Schism until the Present, Fairfax, VA 1998 (tr. ingl.). G. Kretschmar, Die Frühe Geschichte der Jerusalemer Liturgie, in «Jahrbuch für Liturgik und Hymnologie» 2 (1956), pp. 22-46. G. Le Strange, Palestine under the Moslems, London 1890. B. Lifschitz, Jérusalem sous la domination romaine, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Berlin, II, 8, 444-489. O.F.A. Meinardus, The Copts in Jerusalem, Le Caire 1960. J.T. Milik, La topographie de Jérusalem vers la fin de l’époque byzantine, in «Mélanges de l’Université Saint Joseph» 37 (1961), pp. 125-189. C. Mommert, Topographie des alten Jerusalem, tt. I-IV, Leipzig 1900-1905. E.A. Moore, The Ancient Churches of Old Jerusalem. The evidence of the Pilgrims, Beyrouth 1961. E. Nodet - J. Taylor, Essai sur les origines du christianisme, Paris 1998. E. Otto - J. Schreiner - R. Berger - G. Stemberger - H. Bloedhorn R. Mathes, in Lexikon für Theologie und Kirche, V, Freiburg-Basel-Rom-Wien 1996, s.v. Jerusalem, coll. 778-785. O. Peri, Christianity under Islam in Jerusalem: the Question of the Holy Sites in Early Ottoman Times, Leiden-Boston-Köln 2001. L. Perrone, La Chiesa di Palestina e le controversie cristologiche, Brescia 1980. M. Simon, Recherches d’histoire judéo-chrétienne, Paris 1962.

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CAPITOLO III

L’EGITTO CRISTIANO

L’Egitto cristiano ha dato un contributo straordinario al costituirsi del cristianesimo nei primi secoli della nostra èra. Quella porzione della terra in cui si diffonde il messaggio di Cristo ha, come è noto, una storia particolare: essa infatti è stata culla di una civiltà che ha visto fiorire prima l’epoca faraonica e poi l’epoca ellenistica e quella romana. I FARAONI E LA VALLE DEL NILO L’Egitto è il paese bagnato dal Nilo al di sotto di Elefantina e fin da un tempo antico si suole suddividere per ragioni storiche, geografiche e culturali in due parti: la regione meridionale tra Elefantina e Menfi e la regione settentrionale da Menfi fino al mare Mediterraneo, ove si dispiegano le immense ramificazioni del grande fiume, prima di giungere alle vere e proprie numerosissime foci; essa, con i suoi terreni fecondi, ha maggiori ricchezze e facili accessi ai porti marittimi. Si fa risalire la prima Dinastia dei Faraoni verso la fine del quarto millennio avanti Cristo e fin da allora sembra di potere scorgere realtà fuse tra loro e organismi sapientemente organizzati per la civile convivenza. Dalla III alla VI dinastia (dal settimo al terzo secolo del terzo millennio a.C.) si sviluppa uno dei periodi più floridi dell’Egitto faraonico, per attività, per commerci, per successi nelle campagne militari – sono ricordate spedizioni in Nubia, nel Sinai e più tardi in Libia, in Somalia, in Siria, e nella Palestina meridionale –, per costruzioni di piramidi e templi. I periodi che seguono vedono l’affievolirsi della forza di una monarchia ormai millenaria, per lo sperpero di beni, l’inefficienza di governo, il venire meno dei poteri centrali, l’insorgere di forze disgreganti, fino all’VIII dinastia, cui tiene dietro un tempo di relativo benessere – dal 2240ca. al 1570ca. a.C. – che tuttavia si conclu-

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de con lo sgretolamento delle fortune e delle conquiste fatte. Le dinastie seguenti fino alla XXV (1570ca.-660ca. a.C.) rappresentano l’età dell’Impero durante il quale a lunghi intervalli di benessere e di espansione anche militare, in Somalia, nel Libano, fino alla piana di Damasco e alla rive dell’Eufrate – tra il XV e il XIV secolo i Faraoni dominavano la politica del Vicino Oriente – se ne alternano altri meno fortunati. All’inizio del XIII secolo a.C. si profila il pericolo degli hittiti, ma è presto allontanato e l’Impero vive di nuovo tempi felici sotto Ramesse II. È questo il periodo che vede il popolo di Israele oppresso nella terra di Egitto; a quanto sembra il Faraone sotto cui avvenne la partenza degli ebrei da quella terra, sotto la guida di Mosè, fu Menefta che governò tra il 1225 e il 1215 a.C. Successivamente le fortune dell’Egitto, per inettitudine dei governanti e per i ripetuti attacchi di popoli dell’Egeo, dell’Asia Minore, della Siria, della Palestina vengono meno, fino a che gli assiri giungono alla città di Tebe e nel 663 a.C. la saccheggiano. Le ultime dinastie – dalla XXVI alla XXX (663-332 a.C.) – sanno dare a tratti una rinnovata prosperità al paese. Ma nelle ultime decadi del VI secolo una nuova grave minaccia, rappresentata questa volta dai persiani, si profila per gli egiziani: Cambise prima a Pelusio e poi a Menfi li sconfigge. Tentativi di riacquistare l’indipendenza riescono in parte, fino a che nel 332 a.C. Alessandro il Macedone, dopo avere fatta capitolare Tiro, conquista l’Egitto, senza incontrare grande resistenza, essendo anzi accolto come liberatore, nel ricordo delle vessazioni subite dagli egiziani per mano dei persiani Si apre così il secondo splendido periodo, anche se profondamente diverso dal primo, della sua storia. ALESSANDRIA IN EPOCA ELLENISTICA E ROMANA Nei primi anni l’Egitto fu governato come una provincia di un Impero che, per le imprese di Alessandro, andava rapidamente estendendosi. Ma pochi decenni dopo la sua morte, avvenuta nel 323 a.C., Tolomeo, figlio di Lago, che si era fatta assegnare la satrapia del paese, seguendo l’esempio di altri successori di Alessandro, aveva assunto il titolo di basileus (e con ciò aveva contribuito a smembrare l’Impero del grande conquistatore). In tal modo cominciava l’età dei Tolomei o dei Lagidi, destinata a durare per circa tre secoli, fino al 30 a.C., allorché, dopo la destituzione di Antonio e la

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dichiarazione di guerra indirizzata a Cleopatra VII, la battaglia di Azio segnò la fine della dinastia dei Lagidi e l’Egitto diventò un possedimento romano. Erano passati tre secoli durante i quali il paese aveva goduto ancora di una certa autonomia (dal 30 a.C. per oltre 19 secoli l’Egitto sarà destinato a non essere più “stato” sovrano), pur essendo governato da una dinastia straniera che aveva imposto a fronte della maggioranza indigena una minoranza di greci e di macedoni che aveva effettivamente le leve di ogni potere, sotto il comando, si intende, del sovrano che esercitava una monarchia assoluta. Tra l’altro, la lingua greca divenne la sola ad essere impiegata negli atti ufficiali, mentre il demotico fu previsto solo per quei documenti indirizzati ai ceti più semplici della popolazione. I Tolomei adottarono gli usi delle corti faraoniche, pur non rinunciando a manifestare costumi ed idee d’altra origine. Essi ammisero il principio della divinità del monarca, dapprima applicandolo ad Alessandro Magno e alle coppie dei reali defunti, per venire poi a considerare divinità gli stessi sovrani viventi. Notevole impulso fu dato all’agricoltura, che costituiva la maggiore ricchezza desumibile da quel territorio, senza però trascurare lo sfruttamento delle pietre dure e dell’oro e l’incremento dell’industria di prodotti tessili, delle ceramiche, dei profumi, del vetro, del cuoio e soprattutto della carta di papiro. Ma un elemento va in particolare messo in rilievo per il discorso che si sta facendo: se il periodo faraonico aveva celebrato le sue glorie e costruito i suoi monumenti superbi lungo il corso del Nilo, il periodo successivo guarda ai mari e specialmente al mare Mediterraneo e là concentra le sue attenzioni e le sue ricchezze. Tra l’altro, nell’epoca tolemaica i movimenti commerciali non si riducono a soddisfare le esigenze degli abitanti della valle del Nilo, importando ciò che è necessario ed esportando ciò che è prodotto, ma tendono a facilitare scambi tra le regioni delle Indie e dell’Arabia con le aree del Mediterraneo. Non per nulla nasce una grande città come Alessandria. Si sa che Alessandro il Grande ne fu il fondatore. Durante il suo breve soggiorno in Egitto, dopo essere stato a Menfi ed ivi avere offerto sacrifici agli dèi del luogo, decise di scendere lungo il ramo canopico del Nilo per recarsi al tempio di Ammone a Siwah. Probabilmente in quell’occasione decise di fondare una città, la prima che da lui prese il nome. Secondo alcune delle opinioni dei critici egli avrebbe concepito quel grandioso progetto per fare sorgere una metropoli e

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un porto capace di fare convergere le vie commerciali ed economiche del Mediterraneo orientale o forse una metropoli che potesse diventare la capitale di un impero che aveva sognato e aveva cominciato a realizzare. In ogni modo fu chiaro il suo disegno di fondare un centro grande, monumentale, aperto al mare con due porti in grado di ospitare navi di notevole stazza. È evidente che tale suo progetto mutò profondamente la fisionomia di una terra e di una civiltà che aveva guardato a un fiume, il Nilo, quale proprio cardine e quale motivo pressoché esclusivo della propria vita. Un progetto che richiese ingenti lavori, affidati inizialmente all’architetto Dinocrate, e tempi lunghi per essere terminati; solamente al tempo di Tolomeo II (285-246 a.C.) Alessandria si dispiegò in tutta la sua bellezza, disposta in un lembo di terra arenosa, dinanzi all’isola di Faro, tra il mare aperto e il lago litoraneo di Mareotide. Progettata unitariamente da Dinocrate, essa aveva la forma di una clamide macedonica, vale a dire di un quadrilatero avente i lati opposti paralleli (come, per fare un parallelo attuale, Brasilia, capitale del Brasile, ideata dall’urbanista italiano Lucio Costa, ha la forma di un triangolo equilatero). Divenuta capitale dell’Egitto, invece di Menfi, si segnalò subito non solo per i servizi, per l’organizzazione urbanistica, per i monumenti e per le curiosità che offriva agli abitanti e ai visitatori, ma per le istituzioni che ospitava: oltre al quartiere reale, il Museo e la Biblioteca. Il primo era una sorta di istituzione permanente che ospitava, a spese del re, molti dotti, i quali, divisi in corporazioni, vivevano comunitariamente ed erano dediti a ricerche ed alla redazione di opere letterarie, filologiche e scientifiche, senza essere tenuti a insegnare; essi avevano a disposizione ambulacri, sale, un vasto refettorio per prendere i pasti. È grande il debito che si deve riconoscere verso i filologi alessandrini che hanno fissato il testo di molte opere antiche, hanno elaborato regole per leggerle e trascriverle correttamente e così hanno contribuito a tramandarle fino a noi. Non meno grande è l’opera che hanno svolto negli ambienti alessandrini gli scienziati, dai fisici ai matematici, dai geografi agli astronomi. La seconda, la più ricca e la più celebre delle biblioteche dell’antichità greco-romana, fondata da Tolomeo I Sotere, con la sezione del Serapeo, conteneva centinaia di migliaia volumi (essa andò in parte distrutta quando Cesare, nel 48 a.C., si trovò assediato nel palazzo reale e fece incendiare le navi egiziane ancorate nel porto; di là le fiamme si propagarono ad edifici della città ed alla Biblioteca; ricostruita, fu nuovamente distrutta nel 391 d.C.).

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Fin dalle origini Alessandria non fu solo popolata da elementi indigeni o da appartenenti alla colonia greco-macedonica, ma attrasse gruppi da molte altre terre, tra i quali si segnala la comunità ebraica. Ivi avviene la traduzione in greco dall’ebraico dell’Antico Testamento, quella che correntemente si dice dei Settanta; in Alessandria si elabora una ricca produzione letteraria, che eserciterà il proprio influsso anche sulla Palestina: si pensi ai Libri Sibillini, alla Lettera di Aristea, a certe opere deuterocanoniche o apocrife che si accompagnano alla Bibbia dei Settanta e, all’alba dell’epoca cristiana, agli scritti di Filone che tende ad armonizzare le dottrine ebraiche con la filosofia platonica e dà un’interpretazione allegorica alla storia biblica. Quando Roma se ne impossessa, l’Egitto è assegnato direttamente dal Senato, in nome del popolo romano, ad Augusto, è alle sue dirette dipendenze; occupato militarmente da legioni, viene amministrato dal praefectus Aegypti, che funge da luogotenente dell’imperatore. Tale è lo statuto speciale attribuito alla terra dei Faraoni e dei Tolomei, la quale nelle sue espressioni culturali, artistiche e religiose presenta un carattere spiccatamente ellenistico, che ha sostituito del tutto il precedente sostrato antico egiziano. Anche nel periodo romano la lingua dell’amministrazione e di ogni atto riconosciuto su un piano sociale è il greco (mentre l’antica scrittura demotica è praticata da gruppi sempre più limitati di persone). IL CRISTIANESIMO IN EGITTO. LE NOTIZIE PIÙ ANTICHE Se ci si è intrattenuti in breve sulle vicende dell’Egitto antecedenti la nostra èra è per il motivo che si è voluto porre in luce una storia millenaria che ha due volti e due baricentri – lungo il Nilo e lungo le coste mediterranee – che in certo modo hanno segnato il paese anche in epoche successive. Nella cornice e nella situazione di carattere sociale, culturale e religiosa, cui si è fatto cenno, si diffonde nei primi secoli dell’Impero romano il messaggio di Gesù. La più antica notizia contenuta in un testo “cristiano” relativa al paese di cui stiamo discorrendo è contenuta nel Vangelo di Matteo (2, 13-15) dove si dice dell’angelo apparso in sogno a Giuseppe che gli ordina di fuggire con il bambino e sua madre in Egitto, per evitare l’ira di Erode. E – prosegue la narrazione evangelica –: Giu-

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seppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio (Osea 11, 1)» 1. Per loro parte gli Atti degli apostoli (18, 24) parlano di un predicatore giudeo-cristiano, di nome Apollo, originario di Alessandria. Come già si vedeva in precedenza, un autore che scrive all’inizio del IV secolo, Eusebio di Cesarea 2, afferma che Marco sarebbe stato il primo ad annunciare la “buona novella” in Egitto ed ad Alessandria avrebbe fondato delle Chiese; ma prudentemente si trincera dietro ad un «dicono», come a suggerire che si tratta di una voce non verificabile. Senza dubbio il programma di evangelizzazione concepito dall’apostolo Paolo non prevedeva l’Egitto. Così il fatto che non si abbiano altre notizie storicamente fondate sulle origini cristiane, tenendo conto dell’importanza grandissima che la città rivestiva e della presenza in essa di una notevole comunità giudaica (che, come altrove, avrebbe potuto facilitare la primissima predicazione del verbo di Cristo) rappresenta un problema irrisolto. Certo è che la più antica notizia sicura concernente la Chiesa cristiana riguarda Demetrio che diventa vescovo di Alessandria nel decimo anno del regno di Commodo, cioè nel 189, governa la propria Chiesa per 43 anni, quindi fino al 232 3, ed ha parecchi rapporti ora positivi, ora negativi con Origene. La presenza di un vescovo della città nell’ultima decade del II secolo presuppone una struttura e un’organizzazione ecclesiastica nata in precedenza: quando precisamente, non sappiamo.

1 Si può osservare che l’Egitto è sempre stato terra di rifugio per i perseguitati in Palestina e che, date le distanze non troppo grandi, il percorso per uscire dai confini della Giudea non esigeva più di due o tre giornate di cammino. Incerta rimane la durata del soggiorno della famiglia di Giuseppe nel paese, che dipende dalla data del massacro degli innocenti. Ci è noto che la morte di Erode avviene nell’anno 750 di Roma. Scritti apocrifi sull’infanzia di Gesù aggiungono particolari pieni di fantasia e spesso di inverosimiglianza. Tradizioni locali fanno soggiornare la famiglia a Babilonia d’Egitto, oggi il Vecchio Cairo, e a Eliopoli, altre vorrebbero che Gesù infante già avesse convertito alcune persone venute in contatto; con ciò sarebbe cominciata la prima vita cristiana nel paese. 2 Cf. Eusebio di Cesarea, HE II, 16, 1. 3 È ancora Eusebio che fornisce questi dati, in HE V, 22 e VI, 26. La critica moderna per lo più ha attribuito un’origine alessandrina all’Epistola di Barnaba. Ma l’attribuzione è lungi dall’essere certa. Tra l’altro, lo scritto prende posizione contro la Logostheologie, dottrina corrente negli ambienti alessandrini che si erano aperti alla filosofia greca.

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Mentre sappiamo che, dopo la rivolta fatta scoppiare dai giudei nel 115, la quale in certo modo pone fine alle vicende secolari del giudaismo alessandrino, i primi nomi attestati sono quelli di cristiani che tuttavia appartengono al campo gnostico. Tra i quali si possono annoverare Basilide, Isidoro, Valentino (che Epifanio [Haer. 31, 7-12] ci dice essere nato ed essersi formato ad Alessandria, avere diffuso le proprie idee in Egitto, prima di venire nella capitale dell’Impero), Carpocrate e ancora Apelle, discepolo di Marcione (che secondo Tertulliano lasciò Roma per recarsi ad Alessandria e poi di nuovo fare ritorno a Roma). Alcuni di loro sono fondatori di vere e proprie scuole. I sistemi di pensiero che elaborano danno a vedere che essi conoscono in vario grado le dottrine cristiane, ma le conformano a misura del loro pensiero, che senza dubbio per certi lati risente di impostazioni proprie della filosofia, in particolare del platonismo. LA SEDE ALESSANDRINA Proprio intorno a Demetrio si sviluppa una prima forte reazione allo gnosticismo, che in quell’ambiente ha notevole successo. Si può infatti pensare che molti intellettuali, non paghi del semplice insegnamento ricevuto durante la preparazione al battesimo, abbiano cercato anche nelle complesse ed affascinanti concezioni gnostiche la soluzione ai loro quesiti. Presto si avverte che esso rappresenta una interpretazione profondamente ellenizzata del cristianesimo, interpretazione che si discosta in maniera radicale dalla predicazione di Gesù e dei suoi discepoli, a cominciare da Paolo. Tuttavia è di notevole interesse cogliere il timbro di tale reazione, che non rifiuta frontalmente quei sistemi, ma, ponendo in atto un’opera di inculturazione, coglie di essi quanto non contrasta con il messaggio evangelico, che riafferma e ripropone. Non è un caso che il primo degli scrittori “ortodossi” che ha lasciato opere scritte, Clemente (150ca.215ca.), viva ad Alessandria, pur non essendone originario, a quanto pare, e si rivolga ai ceti benestanti e alle sfere dell’alta cultura. Nella città egiziana, in cui incontrerà Panteno, un maestro a lui vicino, si adopererà per armonizzare la fede e la “scienza” del suo tempo, impegnando ogni sua energia nel tentativo di fondere insieme due mondi, quello della cultura biblica e quello della cultura greca a lui contemporanea, che molto risente del platonismo, anche

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attraverso l’orma lasciata da Filone. Clemente dunque propone il profilo di una gnosi ortodossa che rende perfetto chi la segue e lo innalza sopra il livello su cui sta il semplice fedele; per lui il perfetto cristiano è il cristiano “gnostico”, la cui fede è illuminata dagli studi: il risultato è ciò che egli chiama “vera filosofia”, la quale richiede sempre capacità di discernimento 4. Così si legge in quell’opera vastissima, gli Stromati, che somigliano non a un giardino ben coltivato, ma piuttosto a un monte boscoso e folto d’ombre, dove è piantata una grande varietà di alberi (cf. VII, 18, 111, 1). E in un altro passo si osserva: «Il nostro “gnostico” sarà fornito di molte cognizioni, ma non userà quelle [scienze] come virtù, ma come strumenti, e accoglierà la verità proprio in quanto definisce ciò che è comune e ciò che è particolare [in ciascuna]. Infatti causa di ogni errore e falsa opinione è il non sapere distinguere in che maniera comunicano fra loro e dove sono divergenti le cose (…). Lo “gnostico” non resterà dunque indietro rispetto a coloro che progrediscono nel ciclo delle discipline e nella filosofia greca: ma ciò non sarà per lui in modo prioritario, bensì necessariamente in via subordinata e in rapporto alle circostanze. Così quelle nozioni di cui in maniera perversa abusano coloro che prestano la loro opera alle eresie, egli invece le metterà a buon profitto. Mentre la verità che la filosofia greca ci rivela è soltanto parziale, la verità in senso pieno smaschera ogni allettante argomentazione sofistica, proprio come il sole mette in luce, irraggiandoli, i colori, il bianco, il nero, quale ciascuno di essi è» (VI, 10, 82, 1ss.).

4 Tutti gli scritti di Clemente si presentano come scritti missionari, rivolti all’esterno, ma anche all’interno della Chiesa, avendo di mira in particolare ambienti culturali scelti, gli stessi che erano particolarmente sensibili agli appelli degli gnostici. Per non dire – in estrema sintesi – che delle opere rimasteci, il Protrettico, sul modello dell’opera di Aristotele, è un invito ad aderire al cristianesimo come forma di vita superiore, il Pedagogo è composizione che ha l’intento di rendere fermo il bene della fede proposto nella preparazione al battesimo; gli Stromati vogliono delineare l’ideale cristiano di fronte, per un verso, a giudei e a pagani colti e, per altro verso, si diceva, di fronte a differenti, ma agguerriti gruppi gnostici. Negli Excerpta ex Theodoto Clemente mette in luce la sua volontà e la sua capacità di dialogare con le idee esposte da un valentiniano, Teodoto appunto. L’alessandrino dunque non teme il confronto. Nelle Eclogae propheticae aduna interpretazioni protocristiane sui primi capitoli della Genesi o su passi di profeti che egli rilegge in una prospettiva consona alla mentalità dell’ambiente in cui vive. Infine il Quis dives salvetur verte sulla povertà e sulla ricchezza che egli espone per rispondere agli interrogativi suscitati dal brano evangelico di Mt 10, 17-31 nell’animo dei ricchi suoi concittadini.

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Né la ricerca allontana da Dio: «Solo “gloriosi nel santo nome del Signore”, come dice il profeta, si può essere lieti nel cuore, cercando il Signore. “Cercate dunque Lui e siate gagliardi, cercate il suo volto sempre” (Sal 104 [105], 3-4), in ogni modo: poiché egli ha parlato “a più riprese e in molti modi” (Eb 1, 1), non si conosce in un solo modo» (VI, 10, 81, 5s.) 5. Dopo Clemente e sulle sue orme, ma con una personalità spiccata e ricchissima, l’Alessandria cristiana gode della presenza di Origene. Probabilmente originario della città, cresce ed è educato in una famiglia cristiana il cui padre, Leonida subisce il martirio nella persecuzione che si abbatte nei primi anni del III secolo. Subito il vescovo Demetrio gli affida l’insegnamento per i catecumeni, mentre, da parte sua, ancora giovane, egli apre una scuola di grammatica, per sostentare la famiglia. Comincia di qui la sua avventura intellettuale e spirituale straordinaria, che non è il caso di ricordare. È noto che Origene è l’autore più fecondo dell’antichità e pagana e cristiana. La sua produzione è immensa: egli è filologo, linguista, esegeta, filosofo, teologo, traduttore; egli è non meno uomo spirituale. Tutta la sua opera è come una articolata risposta agli attacchi e ai pericoli che il cristianesimo in genere e in specie quello alessandrino andava soffrendo nella prima metà del III secolo; una risposta basata sulla regola di fede e sulla Sacra Scrittura da lui interpretata. Ha scritto Henry Crouzel 6: «La teologia di Origene è inseparabile dalla sua esegesi e dalla sua dottrina spirituale ed è ispirata da queste. Egli rimane fedele alla regola di fede del suo tempo, che espone nella prefazione del De principiis e, partendo da questa, con l’aiuto della Scrittura, della ragione e della propria esperienza spirituale e pastorale, conduce la sua ricerca, con tutta modestia, senza pretendere di dogmatizzare (…). [La sua teologia] si sviluppa, in larga misura come reazione alle eresie del suo tempo. Contro i marcioniti, Origene afferma la bontà del Creatore e la sua identità con il Padre di Gesù, come pure la concordanza dei due Testamenti e il valore dell’Antico; nei confronti dei valentiniani, il libero arbitrio, la responsabilità personale e il rifiuto di una predestinazione vista come legge di natura; in contrasto con il docetismo, l’umanità auten-

5 La traduzione italiana è di G. Pini, in Clemente Alessandrino, Gli Stromati. Note di vera filosofia, Milano 1985, pp. 714s. 6 In Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, vol. II, Roma 1984, col. 2527, s.v. Origene.

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tica assunta da Gesù Cristo come condizione della redenzione. Egli si oppone ugualmente a due eresie trinitarie: riguardo ai modalisti proclama la personalità propria di ogni Persona e nei confronti degli adozianisti la generazione eterna del Verbo. Infine le correnti antropomorfiche, millenariste e letteraliste presenti nella Grande Chiesa gli forniscono l’occasione di professare, l’incorporeità di Dio, dell’anima e della beatitudine finale, l’abolizione, in Cristo, della legge giudaica nei suoi precetti cultuali e giuridici». È chiaro dunque lo scopo che lo scrittore alessandrino si propone di ottenere rivolgendosi agli strati colti della società che lo attornia, là dove si oppongano al cristianesimo o ne travisino – secondo il suo giudizio che è poi quello della comunità “ortodossa” – i contenuti e lo spirito. Prove ulteriori sono, durante la sua giovinezza, l’intensa attività svolta nel Didaskaleion – la Scuola di formazione e di cultura religiosa che già Panteno e Clemente avevano animato – e, dopo un primo periodo, l’affidamento a Eracla, suo discepolo e collaboratore, della catechesi propriamente detta e dedicarsi agli allievi più progrediti nello studio ed ai contatti con gli eretici e i pagani 7. Come pure, al termine della sua vita, è significativa la risposta che egli dà a quello scritto di Celso, l’Alethes logos, che colpiva l’annuncio cristiano in punti delicati e che risultava strumento negativamente efficace per la mentalità corrente; un’opera cui Origene si dedica al termine della sua vita, scrivendo il Contra Celsum. Si sa che le vicende della sua vita portano poi Origene lontano da Alessandria, dopo avere avuto per un periodo assai lungo dimora abituale nella città; compie molti viaggi e verso il 321 per un contrasto con il vescovo Demetrio è esiliato dall’Egitto (e dichiarato decaduto dal sacerdozio); per cui si stabilisce a Cesarea di Palestina, da dove continua a viaggiare. Non vi è dubbio in ogni modo che egli lascia in Alessandria una traccia profonda. Anche nel tempo successivo i maggiori rappresentanti cristiani in Alessandria continuarono a dare un rilevante contributo all’elaborazione della spiritualità e delle dottrine cristiane nel volgere di controversie che impegnarono l’intera Chiesa. Si può menzionare Alessandro, vescovo della città dal 312 al 328, che si adoperò ad avversare negli ultimi dieci anni del suo episcopato la nascente eresia di Ario, a cui egli stesso aveva affidato la parrocchia di Baucalis; Didimo il Cieco, che Rufino 8 dice essere stato il maestro della Scuola 7 8

Cf. Eusebio di Cesarea, HE VI, 15. Cf. Rufino, Historia ecclesiastica II, 7.

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ecclesiastica di Alessandria, approvato da Atanasio, e che sia nell’esegesi che nella dottrina mostrò la propria dipendenza da Origene; naturalmente Atanasio, che nel corso del IV secolo tanto si spese, con la vita e con gli scritti, per combattere, come il suo predecessore Alessandro, l’arianesimo, essendo per ciò più volte allontanato dalla cattedra episcopale della capitale d’Egitto, su cui sedeva dal 328. Si può ricordare ancora Teofilo, patriarca di Alessandria dal 385 al 412, personaggio intelligente ed energico, ma controverso e non sempre apprezzato dalle fonti antiche per le ombre che offuscarono la sua figura: avversario del paganesimo (nel 391 ordinò fosse distrutto il Serapeo ed è quella l’occasione in cui andò in rovina la celebre biblioteca annessa), nel 403 nel sinodo della Quercia, tenuta a Calcedonia, accusò e fece deporre dalla cattedra di Costantinopoli Giovanni Crisostomo, per essere poi lui stesso scomunicato da Innocenzo I papa (402-417); e ancora Cirillo, vescovo della medesima sede dal 412 al 444, il quale in un primo tempo si dedicò all’esegesi biblica e alla lotta contro l’arianesimo e in seguito, scoppiata la contesa sulle idee di Nestorio, si diede a combatterle direttamente e indirettamente, mettendo in luce una teologia imbevuta di platonismo, secondo la tradizione alessandrina; e Dioscoro, che a Cirillo succedette nel 444 e che nel concilio di Efeso del 449, da lui presieduto, sostenne contro Flaviano, vescovo di Costantinopoli, l’archimandrita Eutiche, le cui dottrine furono anatemizzate nel concilio di Calcedonia del 451, e che per ciò venne esiliato in Asia Minore, dove nel 454 morì. Questo per dimostrare che i massimi responsabili ecclesiastici del patriarcato alessandrino ebbero sempre un ruolo di primissimo piano nelle grandi controversie che scossero le comunità cristiane dal III al VI secolo. Non si deve d’altra parte dimenticare che altri fattori relativi al potere e al prestigio, con quanto ne consegue, al di là delle dispute teologiche, ma a queste collegate, avevano largo spazio in questo tempo nelle relazioni tra le sedi patriarcali, o anche all’interno di un medesimo patriarcato. Il caso, cui si è fatto cenno di Teofilo che accusa pesantemente Crisostomo, ottenendone l’allontanamento dalla maggiore sede dell’Impero romano d’Oriente, nasconde un forte contrasto tra la sede di Alessandria e quella di Costantinopoli. Così come lo scisma meliziano che dura in Egitto dal 303 al 312 e riprende vigore dopo il 328, se nasce inizialmente dall’atteggiamento rigorista preso da Melizio di Licopoli nei confronti dei lapsi, ossia degli

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apostati, durante la persecuzione dioclezianea di quegli anni, sembra riflettere anche e soprattutto un contrasto tra l’elemento indigeno e quello ellenizzato (rappresentato da Pietro [300ca.-311], Achilla [311-312] e Alessandro vescovi), per il potere ecclesiastico centralizzato esercitato da Alessandria. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Il concilio di Calcedonia (451) e la sconfitta di Dioscoro segnano una svolta profonda nella vita della Chiesa d’Egitto. Una parte di essa reagisce alla condanna di Dioscoro e alla formula cristologica elaborata. Si originano così nel suo seno due tendenze, una maggioritaria anticalcedonese, e una minoritaria procalcedonese, o melkita, vale a dire imperiale, perché favorevole alla posizione della Chiesa costantinopolitana. Il che porta alla costituzione di due gerarchie parallele e alla rottura definitiva dell’unità, in un clima a tratti infuocato e violento, come quando nel 457 Proterio, dal 453 nuovo vescovo della città, avendo assunto una posizione procalcedonese, è malmenato e ucciso dalla folla di sentimenti anticalcedonesi. Ma per comprendere i motivi e le dinamiche di tanti contrasti e di tante lotte occorrerebbe riandare alle complesse ragioni che le hanno causate; bisognerebbe cioè ripercorrere le controversie dottrinali che percorrono il V e il VI secolo, e non è il caso entro il quadro che qui si cerca di delineare 9. Basti osservare che anche nella seconda metà del V secolo la situazione non migliorò. Dopo la drammatica morte di Proterio, considerato da parte di molti un traditore calcedoniano, lui che pure era stato un fedele collaboratore di Dioscoro, fu vescovo della città Timoteo Eluro del partito anticalcedoniano, il quale tuttavia fu deposto dall’imperatore d’Oriente Leone, che volle mettere al suo posto Timoteo Salofaciolo, calcedonese. Il suo successore, Giovanni Talaia, fu a sua volta ricusato da Costantinopoli, che impose ad Alessandria Pietro Mongo, anticalcedoniano. Nel 482, con l’intento di riportare pace in un campo tanto agguerrito, l’imperatore Zenone (474-491) emanò un editto di unione, l’Henotikon (henotikos in greco è aggettivo che significa “unitivo”), ispirato dal patriarca della capitale dell’Impero romano d’Oriente, Acacio (472-489); ma il documento, che aveva valore di legge valida per tutti, accontentò

9 Si vedano le pagine dedicate alle controversie cui si è fatto cenno, in P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, cit., pp. 284ss.

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pochi e lasciò molti insoddisfatti, tra questi ultimi si annoverarono i monofisiti radicali, i calcedonesi e la stessa sede romana, la quale, per quanto riguarda Alessandria, aveva sostenuto più e più volte, ma invano, i diritti di Giovanni Talaia; tanto che lo scontro tra Roma e Costantinopoli si acuì a tal punto da provocare uno scisma, destinato a durare fino al 518. Anche nel VI secolo Alessandria rimase sotto l’osservazione degli imperatori in quanto favorevole alla fede monofisita. Giustiniano (527-565) fece deporre il patriarca calcedonese Teodosio nel 536 e lo esiliò; ma Teodosio continuò ad esercitare una forte influenza e, attraverso l’opera di Giacomo Baradeo, che, nelle vesti di un mendicante, si mosse liberamente in Egitto, continuò a mantenere vivo il monofisismo ed anzi a rafforzarlo. Attraverso dunque una serie di vicende, del tutto negative per l’unità della Chiesa del luogo, si formarono due partiti, l’anticalcedonese e il calcedonese. La situazione fu provocata certamente da motivi religiosi, ma non solo; si aggiunsero infatti motivi propri della terra egiziana ove si era mantenuto vivo un sentimento nazionale che da sempre aveva rifiutato lo straniero: e tale era il greco con la sua cultura, la sua lingua, i suoi legami con Costantinopoli. E ancora motivi derivanti dalla politica ecclesiastica (prestigio delle sedi maggiori l’una contro l’altra schierate, il potere esercitato su sedi minori, scontri di carattere personale, ecc.) accanto a motivi propri della politica imperiale. Si sa che fino a Graziano (375-383), l’imperatore rimase pontifex maximus, ossia capo della religione romana: membro di diritto dei collegi degli Arvali, degli Auguri e dei Quindecemviri, nominava i pontefici minori, i Salii, i tre Flamines maggiori. Dopo che Graziano rinunciò al titolo e alle prerogative di pontifex maximus, la situazione mutò; l’imperatore non fu più il capo della nuova religione e tuttavia, sulla base di una prassi ben consolidata, egli – spesso essendo sollecitato dai responsabili stessi delle sedi ecclesiastiche maggiori – esercitò giudizio e forza in materie religiose cristiane, in vero estranee alle sue competenze, ma non al suo imperium. In questa cornice non stupisce che abbia convocato i concili, abbia messo a disposizione dei vescovi che vi partecipavano il cursus publicus, abbia inaugurato solennemente quelle assise e le abbia concluse, abbia emanato decreti in materie strettamente religiose e dottrinali aventi forza di leggi valide per tutti i cittadini, abbia imposto patriarchi di suo gradimento alle grandi chiese. Così avvenne anche per la chiesa di Alessandria: profondamen-

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te scissa, essa vide una sua parte, comprendente la grande maggioranza del clero, dei monaci e dei fedeli, seguire il monofisismo, essendosi schierata contro le decisioni prese a Calcedonia e porre in luce un cristianesimo radicato nella liturgia e fortemente influenzato dalla spiritualità monastica; mentre vide un’altra sua parte riunire preti e laici collegati agli ambienti costantinopolitani. Finora abbiamo prestato attenzione alla sede alessandrina per l’ascendente e il potere che aveva sulle Chiese di tutto l’Egitto e per la grande influenza esercitata sulle altre Chiese dell’Oriente. Benché non potesse vantare la fondazione apostolica, come la Chiesa di Roma o quella di Antiochia, essa acquistò per le vicende delineate una rilevante autorità in campo dottrinale. IL MONACHESIMO Già si è avuto occasione di accennare ai monaci e al loro ruolo nelle controversie teologiche svoltesi in Oriente. A questo punto è necessario dilungarsi qualche poco sul movimento cui danno luogo in Egitto, a cominciare dalle ultime decadi del III secolo e dalle prime del IV. Esso manifesta una esperienza forte, non tanto contrapposta, ma senza dubbio profondamente diversa da quella della Chiesa, per dire così, ufficiale, che, da una parte molto deve al mondo greco e dall’altra pone al centro della propria vita l’Antico Testamento reinterpretato alla luce del Nuovo, tenendo conto della grande lezione “spirituale” propria della Scuola alessandrina 10. Fin dai primordi l’Egitto fu un sito ideale per il conformarsi dell’esperienza monastica. Non l’Egitto delle città, ma l’Egitto dei villaggi e del deserto. Il tempo in cui ha origine tale esperienza non è certamente dovuto al caso. A tratti, nelle ultime decadi del III secolo i cristiani godettero di condizioni di pace e tolleranza nuove; e dopo l’ultima violenta persecuzione dioclezianea (donde i copti fanno cominciare la loro “era dei martiri”), ricevettero la facoltà di praticare il culto, di possedere beni, di essere insomma riconosciuti dall’Impero. Così le circostanze mutarono e ben presto i più di loro si adeguarono alle regole del mondo ed anche molti ecclesiastici en10 Per un approfondimento della realtà monastica egiziana, cf. M. Sheridan, Il mondo spirituale e intellettuale del primo monachesimo egiziano, in L’Egitto cristiano. Aspetti e problemi in età tardo-antica, a cura di A. Camplani, Roma 1997, pp. 177-216.

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trarono nell’agone del saeculum. Gli ideali delle prime comunità cristiane sembrarono offuscarsi e in molti casi si offuscarono. Di qui nacque la reazione che appare analoga in diverse regioni, ma che trova nella terra egiziana un luogo privilegiato. Alcuni testi tra i più antichi ne descrivono i caratteri essenziali. Mi riferisco alla Vita di Antonio, scritta da Atanasio e tramandataci in greco e in un’antica versione latina, alle Vite di Pacomio in copto e in greco e agli Apophtegmata Patrum, che riferiscono i detti dei Padri del deserto. A questi si dovrebbero aggiungere altri testi importanti, che appaiono tuttavia posteriori, frutto di riflessioni più elaborate. È chiaro che sarebbe un errore opporre l’attività teologica degli uomini colti abitanti della grande metropoli di impronta ellenistica e le opere nascoste e silenziose dei monaci che vivono nelle distese desertiche, l’una di lingua greca, le altre di lingua esclusivamente copta. Anche i monaci provengono dalla società del tempo e ne respirano e ne trasmettono le scelte culturali. Eppure la radicalità di un’esistenza che vuole vivere il Vangelo sine glossa contraddistingue il monaco, che è un povero, che lavora manualmente per procurarsi ciò di cui ha bisogno e che pone in primo piano la preghiera, la quale, anzi, tende a divenire per lui ininterrotta; non rinuncia alle veglie che riempie della lettura meditata delle Scritture e soprattutto non si esime dal lottare a viso aperto con il demonio: imitando in questo Gesù, il quale dopo avere ricevuto il battesimo da Giovanni, viene condotto dallo Spirito nel deserto per incontrarvi il diavolo. E solo nella solitudine questo può avvenire. Certamente i testi dei quali si è detto narrano di non poche stranezze demoniache: «Esse non sono che la traduzione nell’immaginazione popolare di una verità di fede che è certamente una delle più profonde del Vangelo (…): la solitudine ci scopre gli abissi sconosciuti che tutti portiamo in noi stessi, e, afferma la tradizione che stiamo esaminando, essa ci scopre che questi abissi sono infestati: non sono soltanto le profondità della nostra anima, ignorate da noi stessi, che noi scopriamo; (si manifestano) anche le potenze oscure che vi sono come rimpiattate, e di cui noi resteremo fatalmente schiavi fino a quando non ne avremo preso coscienza. E, a dire il vero, questa coscienza ci schiaccerebbe se non fosse illuminata dalla luce della fede» 11. Ma la solitudine per il monaco non è un fine, ma un mez11 L. Bouyer, La spiritualità dei Padri, in Storia della spiritualità, 2, tr. it., Bologna 1968, p. 229.

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zo per essere posseduto dallo Spirito; quando lo sia, allora egli torna al mondo, o piuttosto lascia che il mondo lo raggiunga. Così l’anacoresi non fa del monaco un solitario che si disinteressa della sorte dei suoi fratelli, ma ne fa un padre, un padre spirituale. La sua umanità è come “governata dalla ragione”, è logica, è perfettamente sviluppata, perché è in Dio. Uno stato il suo che «corrisponde evidentemente a quello dello “gnostico”, del “perfetto”, dello “spirituale” di Clemente e soprattutto di Origene» 12. È questa l’immagine che di Antonio – di origine egiziana, nato nell’ambito di una famiglia nobile, benestante e già cristiana – dà Atanasio, lui vescovo della sede alessandrina, lui teologo e pastore, scrittore di lingua greca e uomo colto, aduso alle polemiche dottrinali e anche ai giochi politici, almeno di politica ecclesiastica; egli sa cogliere con tanta finezza i caratteri e il senso cristiano di quel tipo di eremitismo. È indubbio che una tale esperienza reca novità e originalità notevoli nel contesto della vita ecclesiale e nel contesto della vita culturale: infatti la lingua in uso presso i monaci è il copto, lingua “indigena”, e non il greco, lingua importata. Dionigi, vescovo di Alessandria dal 248 al 264 (o 265), che forse era succeduto ad Eracla a capo della Scuola catechetica della città, prima di succedergli sulla cattedra episcopale, parla per la prima volta di due etnie, la greca e la egiziana, in cui si articola la cristianità di cui è pastore, al tempo della persecuzione di Decio. Due etnie che anche geograficamente dimorano la prima lungo le coste del Mediterrraneo, la seconda all’interno, in zone desertiche o almeno poco popolate, lungo le rive del Nilo. Con Antonio si è parlato della vita anacoretica che, tra l’altro, assume forme diverse. Infatti con Pacomio si apre dinanzi alla nostra attenzione il cenobitismo, ossia un tipo di monachesimo istituzionalizzato. Infatti la completa libertà lasciata alla vita eremitica comportava rischi e difficoltà ed anche possibili esiti negativi, per le forme anarchiche e sregolate cui poteva dar luogo. Pacomio è un convertito (verso il 307); toccato dall’amore dei cristiani di Tebe verso chi presta il servizio militare, si trova spesso a vivere in condizioni disumane. Egli intraprende la vita del monaco, ma quando vede riunirsi intorno a sé altri che hanno il medesimo proposito pensa di dare loro un nucleo essenziale di organizzazione, per cui 12 Ibid., pp. 232-233. L’autore moderno svolge i pensieri che qui abbiamo seguito in rapporto specificamente alla Vita Antonii atanasiana.

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uno – lui stesso – si assume la responsabilità e gli incarichi più gravosi, in modo che solitudine e convivenza possano andare di pari passo. La sua sapienza consiste nel dare una regola alla comunità che sta fondando. Infatti, dopo qualche tentativo infelice per le pretese e la noncuranza di coloro che erano con lui, nasce una prima regola nella quale è prevista l’obbedienza all’«abate» (su di essa si misura la virtù del monaco ed è costruita la novità della sua vita cenobitica), la castità è protetta, la povertà è esigita; e ancora, la preghiera è detta in comune, come in comune sono consumati i pasti frugali. Dalla Vita di Pacomio sappiamo che il suo monastero si installa a Tabannesi nella Tebaide e, non molto tempo dopo la sua fondazione, nelle vicinanze, se ne insedia un altro che lo stesso Pacomio vuole, per desiderio della sorella Maria, sia destinato alle donne. Più tardi Scenute, vissuto dalla metà del IV alla metà circa del V secolo, sarà abate di un altro monastero importante, ad Atripe, nell’Alto Egitto. La sua regola si ispira a quella dei pacomiani, ma si adatta alle nuove necessità di un monachesimo ormai ampiamente diffuso; egli la rende più rigorosa, richiedendo a chi vuole essere ammesso nella comunità cenobitica impegni maggiormente severi, che prefigurano i voti monastici veri e propri. In certo modo primo riformatore del più antico cenobistismo, egli è il maggiore autore della letteratura copta; è interessante notare che opera a lungo a sostegno e in collaborazione con il patriarcato di Alessandria, al tempo di Atanasio, Teofilo, Cirillo e Dioscoro, a conferma che un certo monachesimo in Egitto agisce di concerto con la gerarchia ecclesiastica. Il fenomeno religioso di carattere carismatico di cui si sta parlando ha in Egitto una diffusione impressionante nel IV e nel V secolo. Specialmente due sono le aree in cui si sviluppa: la prima si localizza nella parte inferiore del Nilo: a Pispir, sulla destra del fiume, poi nella zona del deserto di Nitria e ancora più a sud a Scete; la seconda nell’alto Egitto, nella Tebaide: a Tabannesi, a Pbou, a Cenoboskion, a Fnum, ad Atripe. Nella prima fiorisce l’anacoretismo, nella seconda il cenobistismo. Occorre ancora rilevare che fin dalle generazioni successive a quella di Antonio emergono figure di grande spessore intellettuale, oltre che spirituale. È il monachesimo “dotto” che attinge la sua linfa anche e soprattutto ad un autore come Origene, rivisitato e in parte ripensato. Si ricordi Macario l’Egiziano (†390), fondatore di Scete, a cui sembra possa attribuirsi la

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Grande Lettera o Lettera spirituale dell’abate Macario; Ammonas (†396), successore nel 356 di Antonio a Pispir, poi consacrato da Atanasio vescovo di un piccolo centro sconosciuto; e lo stesso Evagrio (345ca.-399), il quale originario del Ponto, intorno al 383 si stabilisce nel deserto di Nitria e nel 385 di Kellia (kellíon, kellía al plurale, in greco significa “cella”) – dove rimarrà fino alla sua morte –, legandosi in un rapporto d’amicizia con Macario di Scete, Ammonas, Macario alessandrino o “il cittadino” e altri origenisti. E si sa quanto l’origenismo abbia influenzato la dottrina evagriana e quanto quest’ultima abbia inciso sul monachesimo e sulla sua spiritualità, in figure quali Palladio, Giovanni Climaco, Massimo il Confessore per il mondo greco, Cassiano per il latino, Filosseno di Mabbug per quello siriaco. La vocazione monastica è originariamente laica, perché la vanagloria o la gelosia o il desiderio di prestigio o di dominio non la sfiorino, e poi per essere meglio dedita alla contemplazione e alla preghiera. Gli Apophtegmata Patrum, cioè le raccolte che riuniscono riflessioni e aneddoti frutto dell’esperienza spirituale dei Padri del deserto, sono lo specchio migliore del loro mondo. Si tratta di opere vive, continuamente arricchite, diffuse e tradotte lungo i secoli in varie lingue: se ne trovano in greco, in latino, in copto, in siriaco, in etiopico, in arabo, in slavo e ogni tentativo di ricostruirne origini e genealogia risulta molto difficile, se non impossibile. Sono collezioni che talvolta esprimono con disarmante semplicità lo spirito e dei protagonisti e dei compilatori e talvolta invece riflettono la loro cultura, nutrita di molta sapienza. Inizialmente una persona raccoglie questi detti e li fa conoscere oralmente; sicché circolano liberamente. Poi raggruppati, sono messi per iscritto, entro la cornice di un’opera di un autore, oppure costituiscono collezioni autonome che presentano due tipologie: le sentenze sono ordinate a secondo degli autori oppure a secondo dei temi di vita spirituale. L’ultima parte del Trattato pratico di Evagrio Pontico è una delle prime testimonianze. Ma si potrebbero citare molti altri esempi. Menzionerò solo la Historia Lausiaca di Palladio, di Elenopoli in Bitinia (Palladio intorno al 390 è in Nitria e successivamente a Celle, dove suo maestro è Evagrio) e la Historia monachorum in Aegypto contenuta – almeno in un ramo della tradizione manoscritta – all’interno della stessa Historia Lausiaca o nella traduzione latina fatta da Rufino di Aquileia tra il 402 e il 406.

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L’EGITTO SOTTO IL DOMINIO DEGLI ARABI MUSSULMANI, FINO AD OGGI

Nel VI secolo il paese continua ad essere florido e la sua capitale uno dei centri del commercio mondiale; un editto di Giustiniano parla di Alessandria come di una grande città. Ma il secolo successivo riserva ad essa una sorte del tutto imprevista: dapprima subisce la breve invasione persiana (616-628) con Cosroe II, cui segue la vittoria di Eraclio sui persiani. Ma è incombente una ben più duratura presenza in Egitto, quella degli arabi mussulmani che nel 641 entrano in Alessandria e soggiogano l’intero paese tra il 639 e il 642. Allora si calcola che i copti monofisiti fossero 6 milioni (e solo 200.000 i calcedonesi), tutti abitanti nella regione del Delta del Nilo. La guida energica del patriarca Beniamino I (590ca.-665) li sorregge, facendo superare positivamente la grande prova della conquista araba. L’islam fa succedere a periodi di tolleranza altri di persecuzione. È il tempo in cui la lingua araba ha il sopravvento nel paese, senza con ciò portare un danno irreparabile alla Chiesa. Anzi, la letteratura araba cristiana continua a mantenere una sua propria vivacità e in qualche periodo gareggia per quantità e qualità delle opere con la contemporanea letteratura in greco e in latino. Lo si può rilevare nelle pagine seguenti nelle quali Tito Orlandi traccia un profilo dell’attività letteraria dell’Egitto anche in tempi successivi al dominio degli arabi. Nondimeno le misure di discriminazione verso i cristiani si fanno numerose: nell’VIII secolo essi sono esclusi da qualsiasi funzione pubblica. All’inizio del XI secolo, sotto il sultano Hakim, sono confiscati i beni delle chiese e dei monasteri, fatte togliere le croci dagli edifici, proibito l’uso del vino per rendere impossibile la celebrazione dell’eucarestia. A questo punto per il nostro scopo è impossibile seguire da vicino le vicende del paese. Risulta un fatto: gradualmente attraverso le varie epoche della dominazione islamica, dalla omàyyade fino all’ottomana, la comunità copta si indebolisce e i suoi membri diminuiscono di numero per diventare una minoranza. Molti si convertono all’islam; il patriarcato in certi periodi ha rappresentanti che non sono all’altezza del compito loro conferito. La Chiesa sempre più dipende dal potere civile. Anche le crociate non portano nuova vita, per la ragione che, tra l’altro, i latini impediscono ai copti l’accesso ai luoghi santi della Palestina. Vari tentativi di unione con la Chiesa di Roma falliscono nel corso del XV e del XVI secolo. Inol-

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tre, proprio nelle prime decadi del XVI secolo la comunità egiziana subisce un forte colpo da parte dei turchi osmanli che uccidono, distruggono edifici, deportano nobili famiglie egiziane. Sorte non diversa, anzi più dura, aveva subito qualche tempo prima la piccola comunità dei cristiani melchiti di Alessandria, visti dagli arabi con maggiore sospetto in quanto legati al Patriarcato costantinopolitano (il loro nome deriva dall’arabo malaki, dal siriaco maˇlkåyå, corrispondente al greco basilikos, che vuole dire “sostenitore del re”, “imperiale”, in questo caso degli imperatori dell’Impero romano d’Oriente). Essi erano stato oggetto di un’aspra persecuzione durante il dominio dei mamelucchi, che aveva raggiunto il suo apice dopo il saccheggio della città operato da Pietro I di Lusignano, re latino di Cipro, nel 1365. Per sopravvivere la Chiesa melchita egiziana aveva assunto caratteri arabi. Fino all’inizio del XV secolo essa non aveva interrotto i rapporti di comunione con Roma; ma nel 1439 durante il concilio di Firenze, per la situazione stessa in cui si trovava, aveva preso un atteggiamento negativo verso ogni intesa e provocato la rottura ufficiale con la Chiesa dell’Occidente, e successivamente era divenuta anche più rigida opponendosi alle missioni inviate dai latini nel paese. Quanto ai melchiti, il loro numero molto esiguo si accrebbe notevolmente nel XIX e nella prima metà del XX secolo grazie alla venuta in Egitto di greci ortodossi, che tuttavia dal 1956 in poi emigrarono di nuovo per la difficile situazione politica in cui si vennero a trovare, vivendo in un paese islamico. Ridotta a un numero minimo di fedeli, nel XX secolo la Chiesa melchita egiziana trovò fertile terreno per espandersi tra le popolazioni indigene dell’Uganda, del Kenia e della Tanzania, visse singolari vicende, soffrì l’ingerenza degli alessandrini e dei greci, fino a che nel 1972 furono consacrati i primi tre vescovi neri di Africa e in tal modo si costituì una Chiesa ortodossa africana, gemmata in certo modo dalla Chiesa melchita alessandrina. È difficile dire quanti oggi vi appartengano, forse 50.000 ne sono i fedeli 13. Ma torniamo a rivolgere l’attenzione alla Chiesa copta egiziana, di cui si è parlato a lungo in precedenza. In epoca moderna, Napoleone, per contrastare il commercio inglese nel Mediterraneo, nel luglio del 1798 conquistò Alessandria, che a quel tempo altro non 13 Cf. J.N. Cañellas, in Bibliotheca Sanctorum Orientalium-Enciclopedia dei Santi. Le chiese orientali, Roma 1998, pp. LXXIXs.

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era che un villaggio, si dice, di 6.000 abitanti, i quali pure vivevano entro una cornice che ricordava tempi gloriosi. La spedizione napoleonica portò con sé i segni della modernità che, nelle decadi successive, Mehmet Alì – ufficiale ottomano di origine albanese che dominava l’Egitto – promosse e favorì ulteriormente, coinvolgendo nell’opera di modernizzazione intrapresa anche i cristiani, ai quali concesse libertà di culto. Sul versante della Chiesa, dopo la metà del XIX secolo, il patriarca riformatore Cirillo IV (1854-1861) raccolse la sfida, tendendo a conciliare la ricca ed antichissima tradizione dei copti con i caratteri dei tempi moderni, al fine di contribuire alla costruzione di una nazione egiziana. Ma certi contrasti sorti tra lui e tra il suo successore, Cirillo V, e la borghesia facoltosa della Chiesa egiziana, resero meno incisivo il cammino iniziato. Tra le due guerre mondiali del XX secolo la presenza copta in Egitto è ancora forte, ma si indebolisce nuovamente negli ultimi cinquant’anni. Di recente due personalità dai caratteri spiccati e dai programmi non sempre coincidenti, come Shenuda III, patriarca della Chiesa copta ortodossa dal 1971, e Matta Al Meskin, monaco, insieme alla notevole vitalità dei monasteri (pochi anni fa vi erano 12 monasteri maschili con 600 monaci e 6 femminili con 300 monache), a cominciare da quello di Wadi’n Natrun, assicurano una nuova vita all’ortodossia egiziana, anche se nell’ultimo ventennio si sono profilate altre difficoltà in rapporto all’islam (dal 1981 al 1985 Shenuda III è stato agli arresti in uno dei monasteri del deserto). Secondo il censimento ufficiale del 1986 i copti ortodossi sono 3.300.000; la Chiesa, sulla base dei registri dei battesimi, calcola siano ben di più, circa 11.000.000. Stime che appaiono avere qualche fondamento indicano il loro numero tra i 7 e i 9 milioni, ossia il 1520% della popolazione. Agli ortodossi si devono aggiungere in Egitto poco meno di 200.000 copti cattolici e 150.000 copti protestanti. Negli Stati Uniti vi sono 6 diocesi copte ortodosse e 70 parrocchie; 15 parrocchie in Canada; 14 in Australia; 12 nel Regno Unito; 1 in Irlanda; 2 sono le diocesi nelle isole britanniche 14. Si può rivolgere a questo punto l’attenzione verso la Chiesa copta cattolica in Egitto. Fin dal XIII secolo la Chiesa di Roma intrattenne rapporti con la Chiesa copta e dalla metà del XV tali rapporti di14 Traggo questi ultimi dati da R. Roberson, The Eastern Christian Churches. A Brief Survey, Roma 19996, pp. 29s.

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vennero permanenti. In tempi successivi questi vennero meno. I copti cattolici dopo il 1741 furono retti da vicari apostolici. Solo alla fine del XIX secolo il papa Leone XIII creò il patriarcato di Alessandria per i copti cattolici. Il primo titolare fu Cirillo II, che tuttavia già nel 1908 diede le dimissioni per conflitti di carattere economico con la Santa Sede, per passare poi alla Chiesa copta ortodossa. Il patriarcato fu allora diretto da amministratori apostolici fino al 1947 allorché l’ultimo di essi, Markos Khouzam, fu nominato patriarca e intronizzato nel marzo dell’anno successivo; a lui succedette nel 1958 Stephanos I, nominato nel 1965 cardinale della Chiesa cattolica, a cui, dopo la sua morte, nel 1986 subentrò Stephanos II Ghattas 15 Nel 1973 Paolo VI e Shenuda III in una dichiarazione comune hanno affermato che le due Chiese confessano la medesima cristologia, in conformità con i primi tre concili ecumenici, e proclamano «un’unica fede in un solo Dio Uno e Trino e la divinità dell’unico Figlio incarnato di Dio», confermando di avere un’unica concezione della Chiesa e, in pari tempo, riconoscendo umilmente che non sono in grado di rendere una testimonianza più perfetta a causa delle divisioni esistenti, che hanno dietro di sé secoli di storia difficile, a cominciare dalle differenze teologiche, nate dopo il 451, ossia dopo il concilio di Calcedonia, differenze che pure sono state alimentate e accentuate da fattori di carattere non dottrinale 16. Nel 380 in quel famoso editto di Tessalonica con il quale Teodosio I imponeva la fede cattolica all’Impero, si riconosceva giusta quella religione che l’apostolo Pietro aveva dato ai romani e che era professata da papa Damaso a Roma e da Pietro, vescovo di Alessandria. Nel 1973 i due massimi rappresentanti della Chiesa cattolica e della Chiesa copta ortodossa dichiaravano di professare la medesima fede intorno a due punti fondamentali di quella fede. Nel 380 si trattò di un’imposizione da parte dell’autorità civile. Nel 1973 si è trattato di un riconoscimento liberamente proclamato dai capi delle due Chiese. Occorre ugualmente segnalare che in anni recenti sono intervenute dichiarazioni comuni tra le Chiese ortodosse bizantine o calcedonesi e le Chiese ortodosse orientali antiche (una volta definite monofisite o non calcedonesi). Mi riferisco alla dichiarazione sulla cristologia del 1989, in cui si sottolinea che il mutuo accordo non è limita15 Cf. J. Madey, in Petit Dictionnaire de l’Orient Chrétien, tr. fr., Turnhout 1991, pp. 171ss., s.v. Église copte catholique. 16 Cf. Enchiridion Vaticanum, IV, Bologna 1978, pp. 1614-1619.

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to alla cristologia, ma abbraccia tutta la fede della Chiesa dei primi secoli. Mi riferisco alla dichiarazione di accordo sottoscritta dalle medesime due grandi “famiglie” religiose nel settembre del 1990 (cf. Enchiridion Oecumenicum, III, Bologna 1995, rispettivamente alle pp. 1115ss. e 1119ss.). Consultando i volumi ora citati (Bologna 1986ss.), ci si può documentare sui dialoghi internazionali e locali intercorsi tra le Chiese orientali (e non solo tra quelle), oltre che sugli esiti delle Assemblee generali del Consiglio Ecumenico delle Chiese. BIBLIOGRAFIA AA.VV., The Roots of Egyptian Christianity, ed. B. A. Pearson - J.E. Goehring, Philadelphia 1986. AA.VV., Koptisches Christentum. Die orthodoxen Kirchen Ägyptens und Äthiopiens, ed. P. Verghese, Stuttgart 1973. A. Atiya (a cura di), The Coptic Encyclopedia, New York 1991. R.S. Bagnall, Egypt in Late Antiquity, Princeton 1993. E.R. Bevan, History of Egypt under the Ptolemaic Dinasty, London 1927. P. du Bourguet, Les coptes, Paris 1988. J. Breasted, A History of the Ancient Egyptians, London 1912. A. Camplani (a cura di), L’Egitto cristiano: aspetti e problemi in età tardo-antica, Roma 1997. C. Cannuyer, I copti, tr. it., Roma 1994. S. Chauleur, Histoire de l’Église copte, Beyrouth, I, 1966; II, 1969; III, 1969. G.M. Colombas, Il monachesimo delle origini, tr. it., Milano 1984. The Coptic Encyclopedia, 8 voll., New York 1991. L. Dattrino, Il primo monachesimo, Roma 1984. L. Duchesne, Histoire ancienne de l’Eglise, 4. ed., II, Paris 1910, pp. 485ss. W.M. Flinders Petrie, A History of Egypt, London 19253. A. Gerhards - H. Brakmann (a cura di), Die koptische Kirche. Einführung in das ägyptische Christentum, Stuttgart-Berlin-Köln 1994. C.W. Griggs, L’Egitto cristiano. Aspetti e problemi in età tardo-antica, Roma 1997. A. Guillaumont, Aux origines du monachisme chrétien. Pour une phénoménologie du monachisme, Abbaye du Bellefontaine 1979. E.R. Hardy, Christian Egypt. Church and people, Christianity and nationalism in the Patriarchate of Alexandria, New York 1952.

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A. von Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums, II, Leipzig 19244, pp. 705-729 (cf. pure Id., Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, tr. it., Cosenza 1986, pp. 458ss.). P. Jouguet, L’impérialisme macédonien et l’hellénisation de l’Orient, Paris 1926. K.S. Kolta, Christentum im Land der Pharaonen. Geschichte und Gegenwart der Kopten in Ägypten, München 1985. M. Krause (a cura di), Ägypten in spätantik-christlicher Zeit. Einführung in die koptische Kultur, Wiesbaden 1998. A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Egypte au IVe siècle, Roma 1996. Id., Aux origines de l’Église copte: l’implantation et le développement du christiansime en Égypte (Ie-IVe siècles), in «Revue des Études Anciennes», 83 (1981), pp. 35-56. Id., Les premiers siècles du christianisme à Alexandrie. Essai de topographie religieuse (IIIe et IVe siècles), in «Revue des Études Augustiniennes», 30 (1984), pp. 211-225. J. Maspero, Histoire ancienne des peuples de l’Orient, Paris 19057. Id., Histoire des patriarches d’Alexandrie depuis la mort de l’empereur Anastase jusqu’à la réconciliation des églises jacobites (518616), Paris 1922. O.F.A. Meinardus, Two Thousand Years of Coptic Christianity, Cairo 1999. G.J. Milne, A History of Egypt under Roman Rule, London 19233. D.G. Müller, Grundzüge des christlich-islamischen Ägypten von der Ptolemäerzeit bis zur Gegenwart, Darmstadt 1969. M. Naldini, Il cristianesimo in Egitto. Lettere private nei papiri dei secoli II-IV, Firenze 1968. T. Orlandi, Storia della Chiesa di Alessandria, 2 voll., Milano-Varese 1968-1970. B.A. Pearson - J.E. Goehring, The Roots of Egyptian Christianity, Philadelphia 1986. M.P. Roncaglia, Histoire de l’Église copte, 4 voll., Beirut 1966-1973. M. Rostowtzeff, Social and Economic History of the Roman Empire, Oxford 1926. S. Timm, Das christlich-koptische Ägypten, 6 voll., Wiesbaden 19821992. E. Wipszycka, Étude sur le christianisme dans l’Egypte de l’antiquité tardive, Roma 1996.

CAPITOLO IV

LA LETTERATURA COPTA E LA STORIA DELL’EGITTO CRISTIANO di Tito Orlandi

LA NASCITA DELLA LETTERATURA COPTA La nascita e lo sviluppo della letteratura copta sono intimamente legati alle circostanze storiche che hanno accompagnato lo sviluppo della Chiesa cristiana in Egitto. La letteratura copta non si presenta come un fenomeno spontaneo di espressione di contenuti svariati, ma come una creazione meditata e in gran parte programmata per soddisfare esigenze di ambienti culturali che gravitavano intorno alla Chiesa cristiana. Per attuare questo disegno si dovette creare praticamente ex novo una lingua letteraria. L’egiziano utilizzato intorno al II secolo d.C. (epoca in cui possiamo collocare gli inizi dell’operazione copto) era una lingua assai povera di possibilità espressive, soprattutto di tipo concettuale e teorico. Quello che sopravviveva dell’antica letteratura in lingua egiziana 1 poteva servire a ricordare l’esistenza di un glorioso passato, ma non costituiva un modello per la produzione di opere quali sono state poi effettivamente proposte in lingua “copta”. Si è dunque provveduto a formare una lingua essenzialmente nuova, nella cui struttura potessero coesistere gli elementi della lingua egiziana tradizionale, come era parlata (e raramente scritta) nel suo ultimo stadio (cosiddetto demotico, dal sec. VII a.C. al V d.C.), e gli elementi della lingua greca, che forniva i modelli letterari che dovevano essere prima tradotti e poi imitati.

Nota preliminare. Diamo qui i riferimenti bibliografici essenziali. Per ogni altra indicazione rimandiamo alla bibliografia copta pubblicata in internet: http://cmcl.let.uniroma1.it. Sull’Egitto cristiano in generale, cf. A. Camplani (ed.), Egitto cristiano, Roma, Inst. Patr. Augustinianum, 1997. 1 Cf. E.A.E. Reymond, A Contribution to a Study of Egyptian Literature in Graeco-Roman Times, «Bulletin of the John Rylands Library», 65 (1983) 208-229; Id., Demotic Literary Works of Graeco-Roman Date in the Rainer Collection of Papyri in Vienna, in AA.VV., Festschrift… Papyrus Erzherzog Rainer, pp. 42-60, Wien, Oesterreichische Nationalbibliothek, 1983.

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Chi abbia ideato e condotto un’operazione del genere è una domanda alla quale non è stata ancora data risposta soddisfacente 2. Del resto, la documentazione su cui basarsi è assai scarsa. Nessuna fonte “indipendente” ci dà alcuna notizia, per quanto breve, o anche falsa, relativa alla nascita della letteratura in lingua copta. Eusebio stesso, che menziona parecchie volte la lingua siriaca, e sostanzialmente annuncia la nascita della letteratura siriaca nella notizia circa Bardesane (HE IV, 30), non parla mai della lingua egiziana né della sua letteratura, che pure al suo tempo esistevano. Le varie ipotesi che sono state fatte dagli studiosi moderni (Lefort, Steindorff, Schmidt) 3, prendono in considerazione i tre ambienti religiosi che corrispondono ai testi (sempre traduzioni dal greco) che si trovano nei manoscritti più antichi: quello cristiano “normale” (dal momento che si trovano testi del Nuovo Testamento), quello cristiano “gnostico” (dal momento che si trovano testi gnostici), e quello giudaico (dal momento che si trovano testi dell’Antico Testamento). Naturalmente ciascuna delle categorie di testi menzionate può provenire da uno dei due ambienti cristiani; ma ad ogni modo non sembra che questa strada sia la migliore per trovare una soluzione al nostro problema. È utile anzitutto sbarazzarsi di un pregiudizio che purtroppo trova un accordo pressoché unanime negli studiosi, e cioè che il lavoro di traduzione in lingua copta sarebbe stato attuato per mettere i testi in questione alla portata di quei settori della popolazione egiziana che non conoscevano il greco. Che cosa si intenda con questo in realtà non è molto chiaro, ma quello che mi sembra di capire non mi soddisfa per parecchi motivi. Il modo più normale per rendere comprensibile un testo greco ad un egiziano che non conoscesse il greco dovette essere prima di tutto la traduzione orale, in par-

2 Ampie considerazioni su questo problema si trovano in T. Orlandi, Egyptian Monasticism and the Beginnings of the Coptic Literature, in P. Nagel (ed.), Carl-SchmidtKolloquium an der Martin-Luther-Universität 1988, pp. 129-142, Halle, Martin-LutherUniversität, 1990, p. 301; Id., Le traduzioni dal greco e lo sviluppo della letteratura copta, in P. Nagel (ed.), Graeco-Coptica, pp. 181-203, Halle, Martin-Luther-Universität, 1984 (Wiss. Beitrage 48). 3 L.T. Lefort, La littérature égyptienne aux derniers siècles avant l’invasion arabe, «Chronique d’Égypte», 6 (1931) 315-323; G. Steindorff, Bemerkungen über die Anfänge der koptischen Sprache und Literatur, in AA.VV., Coptic Studies in Honor of W. E. Crum (Misc. CRUM), pp. 189-214, Boston, Byzantine Institute, 1950; C. Schmidt, Die Urschrift der Pistis Sophia, «Zeitschrift fur Neutestamentliche Wissenschaft», 24 (1925) 218-240.

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ticolare la spiegazione in lingua egiziana di ciò che era stato prima letto in greco – vuoi in una cerimonia liturgica vuoi in una riunione a carattere catechetico (anche di gruppi gnostici, che fossero interessati a far proseliti) –. Il produrre libri contenenti traduzioni per un pubblico ignorante e sicuramente poverissimo (si parla infatti sempre di contadini della Valle del Nilo) non può essere stata un’idea di quei tempi. Ma poi, e soprattutto: la lingua usata per queste traduzioni non sembra essere stata propriamente l’egiziano di quel tempo. Come abbiamo detto, un egiziano letterario non esisteva praticamente più da molto tempo (e il copto nasce invece con piene caratteristiche letterarie); l’egiziano aveva certamente assorbito un certo numero di vocaboli greci, ma non certo tutti quelli che si trovano comunemente nei testi copti di cui parliamo, e che fanno ritenere che chi davvero non conoscesse il greco non potesse nemmeno capire il copto. Anche la sintassi e direi la stilistica del copto si comprendono, per quanto posso vedere, soltanto sulla falsariga della sintassi e della stilistica del greco, e sarebbero state difficilissime per le persone ignoranti a cui i testi avrebbero dovuto essere diretti. In sostanza mi sembra che un altro tipo di ipotesi sia più consona alla documentazione in nostro possesso, e alle circostanze storiche nelle quali essa fu prodotta. È probabile che nell’epoca in cui nacque la letteratura copta, i nuovi fenomeni religiosi (dei quali il principale fu il cristianesimo) si incontrassero in Egitto con il rinascere di sentimenti nazionali connessi con la nostalgia per l’antica cultura autoctona che stava definitivamente tramontando. Se si aggiungessero anche motivi di insoddisfazione politica ed economica per il modo con cui la classe dominante greca (e in parte ora romana) conduceva l’amministrazione del Paese, e contrasti fra la capitale Alessandria e la chora egiziana non si può dire con certezza 4.

4 Cf. E. Wipszycka, La christianisation de l’Égypte aux IVe-VIe siècles. Aspects sociaux et ethniques, «Aegyptus», 68 (1988) 117-166; Id., La valeur de l’onomastique pour l’histoire de la christianisation de l’Égypte. À propos d’une ètude de R.S. Bagnall, «Zeitschr. fur Papyrologie und Epigraphik», 62 (1986) 173-181; A. Martin, L’Église et la khora egyptienne au 4e siècle, «Revue des Études Augustiniennes», 25 (1979) 3-26; Id., Aux origines de l’Eglise Copte: l’implantation et le développement du christianisme en Égypte (Ie-IVe siècles), «Revue des Études Anciennes», 83 (1981) 35-56; Id., Les premiers siècles du christianisme a Alexandrie. Essai de topographie réligieuse (IIIe et IVe siècles), «Révue des Études Augustiniennes», 30 (1984) 211-225.

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L’antitesi culturale fra religione tradizionale (che nell’epoca di cui parliamo era un miscuglio di riti e miti greci ed egiziani) e cristianesimo; e l’antitesi linguistica fra greco ed egiziano (poi copto), forma un intreccio in qualche modo sorprendente. Gli ultimi grandi filosofi pagani 5, che guideranno nel V secolo la resistenza al cristianesimo si esprimeranno in greco, e avranno forti legami con la cultura greca internazionale di Atene e dell’Asia Minore. Al contrario, il copto verrà usato quasi esclusivamente dai cristiani, che avversavano il culto tradizionale, e più tardi, nell’epoca di Shenute, contribuiranno a distruggere i templi rimasti attivi, e a disperderne i sacerdoti. È possibile che il cristianesimo fosse visto (nonostante i legami con il giudaismo, che presto si sciolsero per dar luogo a rivalità) come il portatore di un’assoluta novità, che poteva essere considerata in alcuni ambienti come l’espressione di una rivolta contro la situazione presente, in cui i rappresentanti della religione tradizionale erano compromessi con il regime dominante e la sua cultura. Il cristianesimo poteva essere il veicolo per il recupero di elementi nazionali e tradizionali (la lingua, l’ansia di riscatto…) che non partecipavano come tali a quel compromesso. L’operazione fu comunque, secondo noi, voluta e pilotata da una élite, come è dimostrato dal fatto che i manoscritti più antichi di cui disponiamo (quasi tutti contenenti traduzioni di testi biblici) testimoniano una lingua perfettamente stabilita nelle sue regole grammaticali e sintattiche, ed un’ortografia assai accurata, per la quale dunque fin dall’inizio sono state concepite regole precise. È vero d’altra parte che possediamo anche una serie di testi altrettanto antichi (sec. IV) che testimoniano invece un linguaggio ed una ortografia assai meno accurati. Ma questo significa soltanto, a nostro avviso, che l’esempio dato dal gruppo di cui abbiamo parlato prima è stato imitato da altri gruppi (tutti comunque operanti in ambito cristiano, anche se non necessariamente ortodosso), i quali tuttavia non si saranno troppo preoccupati della qualità formale della loro produzione. Dopo questi inizi, la storia della letteratura copta si presenta da un lato come un’evoluzione verso forme letterarie che soddisfacessero, in questa lingua “nuova”, alcune delle esigenze della vita cul5 Cf. R. Remondon, L’Égypte et la suprême résistance au christianisme (5e-7e siècles), «Bull. de l’Institut Français d’Archeologie Orientale», 51 (1952) 63-78.

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turale della Chiesa cristiana; dall’altro come una serie di risposte diverse e talora contradditorie a problemi vitali posti dalle vicissitudini di quella stessa Chiesa. È da questo punto di vista, ed in particolare facendoci guidare da quattro dei fenomeni più importanti in questo senso, che cercheremo di dare un’idea dei caratteri e dell’evoluzione della letteratura copta. LA LETTERATURA COPTA E IL MONACHESIMO EGIZIANO Gli inizi del monachesimo, come movimento di una certa consistenza, in Egitto si possono collocare all’inizio del IV secolo. È appena terminata la grande persecuzione di Diocleziano, l’ultima e la più dura, o almeno la più propagandata, che lascerà soprattutto in Egitto una memoria del tutto particolare, legata addirittura ad un sistema di datazione («anno dei Martiri»). Con la sua fine, si apre l’epoca della grande pace religiosa, in cui il cristianesimo è finalmente libero di esercitare il proselitismo e di organizzarsi senza alcuna restrizione, e in breve acquisterà il privilegio di religione ufficiale. Tuttavia occorre ricordare che ancora in questo periodo il numero degli appartenenti alla Chiesa cristiana in Egitto era scarso, ed è dunque all’interno di un movimento “di punta”, se non di élite, che si forma un movimento di punta “ulteriore” 6. Questo comporta, a mio modo di vedere, che all’interno del monachesimo delle origini, accanto a motivi spirituali ed anche economico-sociali (sui quali ultimi di solito anche troppo si insiste, e che forse diventeranno preponderanti con l’espansione del fenomeno) dovevano esistere componenti culturali e dottrinali di notevole importanza. L’espansione del monachesimo è descritta dalle fonti antiche nei suoi elementi principali, ma non in dettaglio 7. Si comprende 6 Cf. A. Guillaumont, Ésquisse d’une phénoménologie du monachisme, «Numen», 24 (1978) 40-51; Id., Aux origines du monachisme chrétien. Pour une phénoménologie du monachisme, Begrolles, Abbaye de Bellefontaine, 1979, p. 243, (Spiritualité orientale), 30; T. Baumeister, Die Mentalität des frühen ägyptischen Mönchtums. Zur Frage der Ursprunge des christlichen Monchtums, «Zeitschr. fur Kirchengeschicte», 88 (1977) 145-160. 7 K. Heussi, Der Ursprung des Mönchtums, Tubingen, Mohr (Siebeck) 1936, XII p. 308 (Repr. Aalen, Scientia, 1981); D.J. Chitty, The Desert a City. An Introduction to the Study of Egyptian and Palestinian Monasticism under the Christian Empire, Oxford, Basil Blackwell, 1966, p. 222; G.M. Colombas, El monacato primitivo. 1. Hombres hechos cotumbres institutiones, Madrid, Ed. Catolica, 1974, XIX p. 376; 2. La Spiritualidad, Madrid, Ed. Catolica, 1975, XII p. 398 (Biblioteca de Autores Cristianos).

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d’altra parte che ciò sarebbe stato impossibile, in mancanza di un reclutamento diciamo così sistematico, ma basato su un volontariato che avrà obbedito a impulsi di vario carattere. Il fatto fondamentale (riscontrato fin dai primordi, se possiamo credere alla descrizione che Atanasio fa del primo periodo di Antonio) sembra essere che intorno ad un personaggio “esemplare”, cioè che si poneva personalmente come esempio di un certo genere di vita, si radunavano gruppi di seguaci, dei quali i più significativi diventavano a loro volta centro di attrazione per altri gruppi. Si determinò così una crescita geometrica, testimoniata dalle cifre impressionanti date dalle stesse fonti antiche, che del resto sono documentate dai resti archeologici. Le grandi personalità del primo monachesimo egiziano sono molto note attraverso gli ampi resoconti che storici e memorialisti contemporanei (o poco successivi) gli hanno dedicato. Antonio è colui che la tradizione, basandosi sulle indicazioni date da Atanasio, considera il fondatore del movimento monastico, colui che per primo, ispirato da un preciso versetto evangelico, si ritirò dal mondo per condurre una vita dedicata soltanto agli interessi religiosi 8. Fra questi interessi, secondo il quadro probabilmente tendenzioso che voleva proporre Atanasio, erano la lotta contro i demoni del deserto e la lotta contro gli eretici in quanto organizzati in gruppi; non sarebbero stati compresi, invece, la cultura e la riflessione dottrinale. Per questo motivo Antonio è stato visto anche dalla critica fino a tempi recenti come una persona di grande spiritualità ma completamente ingenua, ignorante perfino della lingua greca, solo disposto ad aiutare il suo Patriarca per l’unità del popolo cristiano, quando ve ne fosse bisogno. La rivalutazione della raccolta delle sue lettere, pervenute in modo fortunoso, che fa permanere qualche dubbio sulla completa genuinità, ha modificato questo luogo comune storiografico. Le Lettere di Antonio (parliamo qui delle sette lettere la cui tradizione ha maggiore consistenza) sono conosciute attraverso la traduzione latina di un manoscritto greco andato perduto; una versione araba dal copto; un frammento abbastanza consistente del copto; una versione completa in georgiano; una versione siriaca della 8 L. von Hertling, Antonius der Einsiedler, Innsbruck 1929 (Forschungen zur Geschichte des innerkirchlichen Lebens, 1); L. Cremaschi, Sant’Atanasio, Vita di Antonio, apoftegmi, lettere, Roma, Edizioni Paoline, 1984 (Letture cristiane delle origini, 19).

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sola lettera prima 9. Si discute se la redazione originale fosse in greco o in copto, e comunque se risalga davvero ad Antonio o gli sia stata attribuita da un anonimo autore. Non possiamo ovviamente soffermarci su tali problemi, ma diremo che a nostro avviso il testo copto deve essere considerato una traduzione dal greco, e che la critica moderna propende per l’autenticità delle lettere. In questo caso esse testimonierebbero di una figura indubbiamente colta, al corrente delle idee filosofiche del tempo. Abbia o meno egli redatto in copto i suoi scritti, si può ritenere che da un ambiente di questo tipo possa essere stato originato il movimento che ha portato alla nascita della letteratura copta. Vi sono molti elementi nelle lettere che fanno ritenere Antonio legato all’interpretazione origeniana della dottrina cristiana, tanto che il Couilleau può affermare che «occorre ammettere che una corrente che si può ben chiamare origenista avanti lettera abbia fecondato il monachesimo delle origini. Dopo tutto, l’origenismo che Evagrio doveva trovare nel deserto dei Kellia non è nato per generazione spontanea» 10. Sembra accertato, in Antonio, un disinteresse per gli aspetti organizzativi della vita monastica, forse addirittura una opposizione. Per questo furono piuttosto i suoi discepoli, andando evidentemente oltre le primitive intenzioni dell’ispiratore, a fondare e far progredire quelle che diventeranno in breve le grandi comunità del Basso Egitto, tutte situate nella parte occidentale del Delta del Nilo (ramo Canopico): Sketis, Nitria (Pernouj), Kellia 11. Il nome fondamentale per quest’opera è Macario (quello chiamato Egizio), a cui i posteri si richiameranno tanto sistematicamente, da darci la certezza che egli abbia precisato il carattere sia organizzativo sia dottrinale di queste comunità. Esse erano costituite da monaci autonomi, ma viventi in piccole comunità con gli alloggi abbastanza vicini. Nei gior-

9 S. Rubenson, The Letters of St. Antony. Origenist Theology, Monastic Tradition and the Making of a Saint, Lund, University Press, 1990, p. 222 (Bibliotheca Historico-Ecclesiastica Lundensis, 24). 10 G. Couilleau, La liberté d’Antoine, in J. Gribomont (ed.), Commandements du Seigneur et libération évangélique, pp. 13-46, Roma, Anselmiana, 1977. p. 322 (Studia Anselmiana, 70). 11 H.G. Evelyn-White, The Monasteries of the Wadi ‘n Natrun. 2. The History of the Monasteries of Nitria and of Scetis, New York, Metropolitan Museum Publications, 1932; AA.VV., Les Kellia, érmitages coptes en Basse-Égypte, Genève, Editions du Tricorne, 1989.

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ni e momenti fissati vi erano riunioni di culto, guidate da monaci facenti regolarmente parte anche del clero, cioè della gerarchia ecclesiastica cittadina. La dottrina prevalente in queste comunità era quella origenista, tanto che Evagrio vi troverà l’ambiente più congeniale a passare gli ultimi anni della sua vita. La lingua letteraria era, per quanto se ne può sapere, il greco. Il copto (nella varietà dialettale che viene chiamata boairico) è presente solo nelle iscrizioni trovate negli scavi di Kellia 12, ed è possibile che sia testimoniato da alcuni codici boairici antichi contenenti testi biblici che possono provenire dall’ambiente di cui ci stiamo occupando. Ma tale ambiente aveva una fitta rete di relazioni “internazionali” che venivano evidentemente coltivate mediante lo scambio di testi greci. Nello stesso periodo, nel sud dell’Egitto, Pacomio metteva a punto un tipo diverso di organizzazione monastica. La sua opera è troppo nota per volerla riassumere qui 13. Desidero però proporre alcune osservazioni. La caratteristica dell’organizzazione pacomiana non sta tanto nel “modo di vita” che egli immaginò per la sua comunità (e per quelle che via via ne nacquero). Modi di vita simili erano probabilmente condotti anche da altri gruppi contemporanei ma indipendenti, e lo saranno successivamente. Quello che dà il carattere ai pacomiani è prima di tutto la redazione di una regola fissa e precisa che i monaci si impegnano a rispettare. Se le regole che ci sono state tramandate siano esattamente quelle originali o vi sia stato un lavoro redazionale anche posteriore, in questa sede non è il caso di discutere 14. Piuttosto va detto che accanto e come conseguenza della Regola è il fatto che i pacomiani si consideravano un gruppo unitario sotto il comando di un capo, una specie di esercito. Questo vale, e tanto più, anche dopo la grande espansione dell’ordine, con la creazione di una rete di monasteri che andava da 12 AA.VV., EK8184. Survey archéologique des Kellia (Basse-Égypte), Louvain, Peeters, 1983, 2 voll. XIV p. 558; XII p. 332. 13 H. Bacht, Pachôme (Saint), in Dictionnaire de Spiritualité 12.1, coll. 7-16, Paris, Beauchesne, 1984; Das Vermächtnis des Ursprungs. Studien zum frühen Mönchtum. II Pachomius: der Mann und sein Werk, Wurzburg, Echter, 1983, p. 326 (Studien zur Theol. des geistl. Lebens, 8); A. Veilleux, Pachomian Koinonia, Life, Rules and Other Writings of Saint Pachomius and his Disciples, Kalamazoo MI, Cistercian Publications, XXX p. 493; 1981, VIII, p. 239; 1982, IX p. 313; L. Cremaschi, Pacomio e i suoi discepoli. Regole e scritti, Magnano, Edizioni Qiqajon (Comunità di Bose), 1988, p. 469. 14 T. Baumeister, Der aktuelle Forschungsstand zu den Pachomiusregeln, «Münchener Theologische Zeitschrift», 40 (1989) 313-322; L. Cremaschi, op. cit. (cf. nota 13).

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Pbou al Sud fino al Canopo al Nord. Essi tutti obbedivano al successore di Pacomio, residente appunto a Pbou. Se dal punto di vista organizzativo la differenza fra macariani (diciamo così) e pacomiani è fondamentale, da quello dottrinale le cose stanno diversamente. Qui a mio avviso una differenza interessante sta nell’uso che si fa in ambiente pacomiano della lingua copta, cioè di un ibrido fra egiziano e greco sviluppato nel corso del III secolo da ambienti che volevano in qualche modo raccordare la tradizione antica con il nascente cristianesimo. Ma per quanto riguarda i contenuti, sembra possibile affermare che i pacomiani erano perfettamente allineati con le posizioni del patriarca alessandrino, e dunque col didaskaleion, e dunque con un origenismo più o meno moderato. Le affermazioni in contrario sono chiaramente tardive, ed anzi sono espresse in modo tale da confermare l’esistenza dell’origenismo presso i pacomiani. Va aggiunto oltretutto che gli studi sui testi copti definibili gnosticizzanti fanno propendere anche per l’ipotesi che presso i pacomiani si potesse trovare un origenismo parecchio spinto nel senso che si può definire propriamente gnostico 15. Si noti che tutto ciò, anche se contraddice a qualche visione storica tradizionale, dovrebbe apparire semplicemente ovvio, dal momento che la dottrina elaborata ad Alessandria e accettata come ovvia presso la Chiesa egiziana fino a Teofilo (e per la verità anche oltre, dopo la crisi) non poteva che richiamarsi ad Origene, sia pure con qualche differenza nei riguardi di teorie particolari. Ci si dovrebbe invece meravigliare che esistessero contemporaneamente dei gruppi che, come abbiamo detto, si rifacevano ad un tipo di esegesi del tutto diverso. Questi gruppi esistevano, ma le fonti che li attestano sono molto particolari, e devono essere interpretate con molta cautela. Almeno due figure emergono come importanti, in questo contesto: Apollo di Bauit(-Titkooh) e Paolo di Tamma. Il primo ha lasciato tracce in iscrizioni e calendari liturgici che ci attestano la sua 15 F. Wisse, Gnosticism and Early Monasticism in Egypt, in B. Aland (ed.), Gnosis (Misc. Jonas), Göttingen, 1978; C. Scholten, Die Nag-Hammadi-Texte als Buchbesitz der Pachomianer, «Jahrb. fur Antike und Christentum», 31 (1988) 144-172. Contra: A. Veilleux, Monachisme et gnose. Première partie: Le cénobitisme pachômien et la bibliothèque copte de Nag Hammadi, «Laval Théologique et Philosophique», 40 (1984) 275294, Deuxième partie: Contacts littéraires et doctrinaux entre monachisme et gnose, «Laval Théologique et Philosophique», 41 (1985) 3-24.

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fama 16. La sua vita è narrata in un testo copto che appare nella sostanza antico e degno di fede. Apollo sarebbe stato al principio un anacoreta del tipo solitario, che dopo un periodo di noviziato presso un certo Petra si stabilì presso Shmun con alcuni compagni. Ivi lasciò una comunità, e poi riprese la vita itinerante, fondando parecchi monasteri nella stessa regione. Su Paolo di Tamma abbiamo notizie meno sicure: egli deve aver passato la vita sempre isolato, ma in qualche modo in contatto con altre grandi figure monastiche del periodo come Amun, Apollo, Aphu, ed altri 17. Di lui ci sono pervenuti però scritti molto interessanti, che possono essere messi in relazione con la letteratura monastica in lingua greca (cosiddette Lettere di Antonio, di Ammona, di Macario Egizio, ecc.). Essi mancano del tutto di struttura letteraria (come del resto gli scritti dei Pacomiani), e sono formati di aforismi senza alcun apparente legame fra loro. Solo in qualche caso si riferiscono ad un tema, che è quello generale dell’opera in cui sono riuniti; ma senza svolgere un ragionamento i cui elementi passino dall’uno all’altro aforisma. Le citazioni scritturali sono naturalmente molto numerose. Fra la fine del IV e l’inizio del V secolo si forma, e acquista sempre maggiore importanza, la figura del grande Shenute, a cui si rifà tutta la tradizione copta come elemento fondamentale della propria identità spirituale. Stranamente ignorato dalle fonti greche, egli rivestì un ruolo di primo piano, sia nei rapporti con la non piccola parte di popolazione ancora legata ai culti tradizionali, sia nelle controversie cristologiche culminate nei concilii di Efeso e di Calcedonia 18. Ma egli ebbe importanza non minore dal punto di vista letterario. Fu fecondissimo autore originale in lingua copta; portò nella letteratura copta tutto il bagaglio di tecniche retoriche greche precristiane, che già erano state adottate dai Padri greci, in particolare 16 T. Orlandi - A. Campagnano, Vite dei monaci Phif e Longino, Milano, Cisalpino Goliardica, 1975, p. 110 (Testi e documenti, Serie copta, 51); R.-G. Coquin, Apollon de Titkoo ou/et Apollon de Bawit?, «Orientalia», 46 (1977) 435-446; J. Gascou, Documents grecs rélatifs au monastère d’abba Apollos de Titkois, «Anagennesis», 1.2 (1981) 219-230. 17 T. Orlandi, Paolo di Tamma, Opere, Roma, CIM, 1988, p. 197, 4 microfiche. 18 J. Leipoldt, Schenute von Atripe und die Entstehung des national Ägyptischen Christentums, TU 25.1, Leipzig, Hinrichs, 1903, p. 213; T. Orlandi, Shenoute d’Atripe, in Dictionnaire de Spiritualité, t. XIV, coll. 797-804, Paris, Beauchesne, 1989; S. Emmel, Shenoute’s Literary Corpus, Leuven, Peeters, 2004, 2 voll.

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dai Cappadoci; promosse, nell’ambito del suo monastero (chiamato oggi Monastero Bianco), una vasta attività di traduzione di testi dal greco in copto. Il suo successore, Besa, ne continuò l’opera; e il Monastero Bianco resterà fino al sec. XI il centro culturale della Chiesa copta. LA LOTTA INTORNO ALL’ORIGENISMO In tutta la storia dottrinale della Chiesa egiziana fra il III e il V secolo serpeggia un’antitesi che probabilmente non è dovuta solo a diverse attitudini culturali e spirituali, ma anche alle condizioni storiche e sociali dei diversi ambienti nei quali si formano e si sviluppano le due correnti di pensiero antagoniste. Da una parte abbiamo la corrente che prende le mosse da una interpretazione allegorizzante della Scrittura, e sviluppa una teologia basata sul Logos, dunque su una concezione spiccatamente spiritualistica dell’evolversi della storia sacra, dall’origine del mondo alla venuta del Salvatore. Dall’altra la corrente che, mantenendo l’interpretazione della scrittura in un ambito quanto più possibile letterale (e tuttavia in ciò facendo ampio uso della «tipologia»), sviluppa una teologia più vicina ad un certo sentimento comune del sacro, nel quale il lato materialistico non viene del tutto schiacciato a favore di quello spirituale. Dal punto di vista geografico, l’ambiente in cui hanno avuto origine queste due correnti sono: quello alessandrino, sotto l’influsso diretto della Scuola filosofica platonizzante, che ebbe il massimo esponente in Origene, attorno alle cui teorie si giocherà la battaglia finale fra le due scuole 19; e quello asiatico, sotto l’influsso dello stoicismo, che ebbe prevalenza ecumenica fino al II secolo con esponenti quali Melitone, Ireneo, Tertulliano, conobbe un’eclisse con la polemica condotta in modo assai deciso da Origene, ma riemerse in modo vincente con Epifanio, Girolamo e il Teofilo “seconda maniera” (dal 401 in avanti) 20. Sembrerebbe dunque improbabile che nell’Egitto del IV secolo, in cui la Scuola alessandrina avrebbe dovuto costituire il punto 19 Sulla storia dell’origenismo cf. A. Guillaumont, Les «Kephalaia gnostica» d’Évagre le Pontique et l’histoire de l’Origénisme chez les Grecs et les Syriens, Paris, Seuil, 1962, p. 366. 20 Cf. M. Simonetti, Asiatica (cultura), in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, I, Casale Monferrato, Marietti, 1983, coll. 414-416.

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di riferimento dottrinale comune, vi fossero dei forti nuclei di tendenza «asiatica». Ed in effetti, come abbiamo visto, tutto il monachesimo dei centri che si erano costituiti presso il Delta (Nitria, Sceti, Kellia) era in vario modo origeniano; e gli stessi pacomiani, nel sud, erano schierati su analoghe posizioni, nonostante la più tarda descrizione agiografica post eventum che si trova nelle varie redazioni delle vite di Pacomio. Invece proprio in alcuni testi copti, dei quali solo recentemente si è cominciato a studiare il vero significato storico e dottrinale 21, abbiamo la prova che esistettero, probabilmente fin dagli inizi della espansione del cristianesimo lungo la valle del Nilo, gruppi che si richiamavano alla Scuola asiatica, e tale posizione mantennero sempre fedelmente, fino a costituire, al momento della crisi definitiva del 401, il nucleo vincente della disputa teologica ed esegetica combattuta intorno all’origenismo. Il fatto che siano i testi copti a darci tale documentazione testimonia probabilmente che elementi di contrapposizione sociale e forse etnica fra la chora egiziana e la metropoli di Alessandria non furono estranei alla contrapposizione dottrinale. Il primo dato interessante è fornito dalla diffusione dell’opera di Melitone presso i copti. Oltre a due codici papiracei in lingua greca del sec. IV, trovati comunque in Egitto 22, è conservato un codice papiraceo, anch’esso probabilmente del IV secolo, con la traduzione copta del Peri Pascha. Altri frammenti molto antichi della stessa traduzione testimoniano la diffusione dell’opera presso i copti 23; ed inoltre un rimaneggiamento del De anima et corpore venne conservato nella tradizione copta almeno fino al VII secolo, sia pure sotto il nome di Atanasio di Alessandria 24. È da notare che il testo del Peri Pascha era divenuto presto molto raro nella stessa tradizione patristica greca, tanto che era ritenuto perduto fino a poco tempo fa, quando a poca distanza uno dal21 T. Orlandi - A. Campagnano, Vite di monaci copti, Roma, Citta Nuova, 1984, p. 298 (Collana di Testi Patristici). 22 S.G. Hall, Melito of Sardis, On Pascha and Fragments, Oxford, Clarendon Press, 1979, L, p. 99 (Oxford Early Christian Texts). 23 Ed. J.E. Goehring, The Crosby-Schøyen Codex..., Leuven, Peeters, 1990 (= CSCO, Subsidia, 85). Cf. J.E. Goehring, A New Coptic Fragment of Melito’s Homily On the Passion, «Le Muséon», 97 (1984) 255-259; E. Lucchesi, Deux nouveaux témoins coptes du «Peri Pascha» de Méliton de Sardes, «Analecta Bollandiana», 102 (1984) 383393; Id., Encore un témoin copte du «Peri Pascha» de Méliton de Sardes, «Vigiliae Christianae», 41 (1987) 290-292. 24 Ed. T. Orlandi, Roma, CIM, 2004.

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l’altro furono scoperti i papiri a cui si accennava sopra. Dunque non si può ritenere casuale questa situazione, anche se è evidente che in Egitto la conservazione di testi altrove periti è dovuta alle caratteristiche climatiche, che hanno contribuito alla conservazione (nelle sabbie desertiche) di manoscritti antichi. Si deve allora ritenere che Melitone godesse in Egitto di notevole considerazione, e questo suscita una certa meraviglia. Proprio sulla questione della Pasqua si era manifestata una grave controversia fra Clemente Alessandrino e Melitone. Clemente difendeva la celebrazione della festa nella domenica successiva al 14 nisan, mentre gli asiatici davano importanza soprattutto al 14 nisan. La disputa non dipendeva tanto da questioni cronologiche, quanto dall’interpretazione esegetica del “fatto” pasquale. È dunque strano che proprio l’omelia pasquale di Melitone sia stata tanto tenuta in pregio in Egitto 25. L’altra omelia di Melitone, De anima et corpore, è perduta come testo a sé nella tradizione greca principale, salvo che per alcuni excerpta inclusi in altre omelie dall’antichità. Invece ne abbiamo il testo completo, sia pure in redazioni differenti, in copto (sotto il nome di Atanasio) 26; in siriaco (sotto il nome di Alessandro di Alessandria); in georgiano (sotto il nome di ambedue). Il copto sembra dare l’idea più completa del testo originale, che era diviso in due parti. La seconda parte è in certo senso la più ovvia, e parla dell’incarnazione e della passione del Salvatore, in termini molto simili a quelli del Peri Pascha. La prima parte, invece, contiene un notevole brano teologico sul problema della relazione fra anima e corpo, che in ogni caso è molto lontano da una teologia che potesse essere accettabile per un seguace della Scuola alessandrina. Dunque si constata la diffusione in Egitto di una delle maggiori autorità della Scuola teologica “asiatica”, per la quale la Scuola alessandrina non nascose mai la propria opposizione, a causa soprattutto della sua esegesi ingenua, semplicistica, e talora pericolosamente materialistica. 25 Sulla controversia pasquale la bibliografia è vasta, e basterà rimandare agli articoli nelle Enciclopedie. Per quanto riguarda direttamente il nostro tema, cf. C. Schmidt, Gespräche Jesu mit seine Jüngern nach der Auferstehung (TU 43), Leipzig, Hinrichs, 1919, pp. 731-83: pp. 622ss. 26 Edizione in: E.A.T. Wallis Budge, Coptic Homilies in the Dialect of Upper Egypt, London, British Museum, 1910, LV, p. 424; pp. 115-132. Cf. O. Perler, Recherches sur le Peri Pascha de Méliton, «Revue des Sciences Religieuses», 51 (1963) 407-421.

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Le stesse osservazioni sono da fare per un’altra omelia, che non può essere attribuita a Melitone, ma sembra originaria dello stesso ambiente asiatico. Essa è attribuita, nell’unico codice che la tramanda, a Basilio di Cesarea 27, e consiste in un’esegesi del brano biblico relativo alla costruzione del Tempio di Salomone, interpretato come un’allusione alla creazione del mondo, prima, e poi dell’uomo. Il testo comincia con un interessante brano che si rifà alla cosiddetta teologia “del silenzio”, il silenzio nel quale il mondo fu creato, in contrasto col rumore che accompagnerà la sua distruzione. Quindi il tempio è preso come simbolo dell’uomo, creato direttamente da Dio; poi si parla del peccato, cha ha causato (o causerà) la distruzione sia del mondo, sia dell’uomo, ed in particolare la rovina dei giudei. Finalmente si accenna alla redenzione di Cristo, attraverso la quale il corpo dell’uomo è di nuovo purificato. È soprattutto la teologia del silenzio, che sembra non avere paralleli, dopo i brani di Ignazio di Antiochia, Eph. 18 e Mag. 8, che lega questa omelia alla linea “asiatica” che va da Ignazio a Marcello di Ancira, il quale fu addirittura un forte oppositore della linea alessandrina. Sembra dunque di poter concludere che la documentazione copta rivela una situazione molto diversa dal quadro convenzionale, secondo cui il cristianesimo egiziano deriva direttamente dal cristianesimo alessandrino. Invece occorre ammettere un quadro più complesso, nel quale una molteplicità di elementi diversi stabilirono fra loro varie forme di relazione. L’elemento nuovo, quello dell’influenza asiatica, pone il problema di cercare quale fosse l’ambiente egiziano che l’ha accettata e sembra averne fatto la sua caratteristica prevalente. Per trovare questo ambiente, occorre a nostro avviso rivolgersi al movimento monastico. Le traduzioni copte di questo periodo sono generalmente attribuite al monachesimo di tipo pacomiano. Questo tuttavia non risolve il nostro problema, perché, sebbene in effetti Pacomio sia stato il primo (o uno dei primi) ad aver adottato la lingua copta, egli ed i suoi successori non erano interessati, anzi si opponevano, alla cultura patristica greca del loro periodo, con i suoi modelli retorici, ed è quindi assai improbabile che abbiano fatto o fatto fare delle traduzioni. Oltre a ciò, le lettere di Pacomio (con il loro linguaggio mistico), mostrano almeno una certa tendenza ver-

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Edizione in: E.A.T. Wallis Budge, op. cit., pp. 105-114.

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so qualche genere di gnosticismo, o per lo meno di cultura gnosticizzante, e questo porta ad escludere un atteggiamento amichevole verso l’esegesi asiatica. Esistono invece altri testi, relativi alle vite di Aphu di Ossirinco e di Apollo di Bauit (presso Shmun), e le opere di Paolo di Tamma (tutti nel medio Egitto) 28, che possono risolvere il nostro problema. Essi infatti delineano l’ambiente monastico del Medio Egitto come il possibile ricettacolo della teologia asiatica, con una esegesi tendenzialmente letterale ed un materialismo spinto fino all’antropomorfismo. Per la verità, né la Vita di Apollo né le opere (comunque molto interessanti dal punto di vista della storia della spiritualità monastica) di Paolo di Tamma forniscono elementi sicuri per collocare queste due figure sul versante anti-origenista o non alessandrino. Ma esse sono da un lato dimenticate dalla tradizione greca “ufficiale”, dall’altro accomunate con Aphu nella tradizione letteraria copta. La figura di Aphu è senza dubbio una delle più interessanti che ci fornisca la documentazione copta 29. Egli sarebbe stato un asceta dedito ad un tipo di ascesi straordinario, che consisteva nel vivere mescolato ad una mandria di bufali, nei pressi della città di Ossirinco, scendendo solo una volta all’anno in città per le celebrazioni pasquali. Appunto in occasione di una Pasqua (penso si alluda a quella fatidica del 399) ascoltò la lettura della lettera pasquale in cui Teofilo si esprimeva (secondo il testo della Vita) in questo senso: «Quasi per innalzare la gloria di Dio, egli rammentava l’inferiorità degli uomini, e quello che parlava [in realtà si tratta della lettura della Lettera Festale, come si comprende poi] diceva: Non è l’immagine di Dio quella che noi uomini portiamo». Aphu si reca direttamente ad Alessandria da Teofilo per contestare queste idee: «…udii una frase in essa (= nella lettera) che non concorda con le scritture ispirate da Dio». Segue un dibattito esegetico, alla fine del quale Teofilo si convince e invia una rettifica (allusione alla lettera del 401?) in senso anti-origenista. 28 29

Su Apollo e Paolo, cf. supra, note 16 e 17. Edizione: F. Rossi, Trascrizione di tre manoscritti copti del Museo Egizio di Torino, «Mem. Acc. Scienze Torino», II.37 (1885), ed ora ed. elettronica alla pagina web http://cmcl.let.uniroma1.it (Vita Aphou). Traduzione italiana in T. Orlandi - A. Campagnano, Vite di monaci copti, cit., p. 298; pp. 55-65; cf. T. Orlandi, La cristologia nei testi catechetici copti, in S. Felici (ed.), Cristologia e catechesi patristica, 1, pp. 213-229, Roma, LAS, 1980, p. 264 (Biblioteca di Scienze Religiose, 31).

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In questo caso, della polemica intorno all’origenismo è stato preso in considerazione solo uno degli aspetti. Ma questo aspetto, per quanto meno interessante per noi a paragone della preesistenza delle anime o del subordinazionismo, doveva essere uno dei principali per gli ambienti monastici, e forse proprio quello su cui si giocò la partita essenziale. Sul versante dell’origenismo, una testimonianza interessante è fornita dal corpus di opere attribuite alla fittizia figura di Agatonico di Tarso 30. Essa fu costruita in ambienti evagriani per attribuire ad una autorità di provenienza non egiziana scritti che non potevano portare il nome dell’autore reale, che del resto non conosceremo mai. Siamo probabilmente nel momento critico in cui Teofilo rompe l’accordo con gli ambienti origenisti di Sceti, Nitria e Kellia, per schierarsi a favore dell’opposto schieramento. Come è noto, questo determinerà la diaspora di quei monaci, e, a quanto sembra, la produzione di opere clandestine a difesa delle posizioni che ufficialmente non potevano essere sostenute. Scrive dunque lo Pseudo Agatonico in una specie di confessio fidei: «Chi si figura la sostanza della divinità nel suo cuore pose una forma nel suo cuore dicendo: Dio è in questa forma, calunniando la divinità. L’arconte della tenebra è colui che suggerisce queste sostanze inferiori nel cuore degli sciocchi ingannandoli come se la divinità fosse di questa forma, ed essi adorano degli idoli senza saperlo». E ancora: «Non si deve restringere la divinità in una piccola sostanza inferiore come quella dell’uomo, che non può mutare nella sua inferiorità. Coloro che si oppongono a queste parole sono degli sciocchi, che hanno gli occhi del loro cuore appannati». Le opere dello Pseudo Agatonico, scritte originariamente in greco, ebbero fortuna in ambiente copto, come testimoniano le traduzioni pervenute (l’originale greco è invece perduto). Ma tali traduzioni ebbero una loro storia. Eseguite dapprima fedelmente, esse rispecchiavano le idee origeniane ed evagriane dell’autore; ma accolte in un altro ambiente, probabilmente quello scenutiano di cui ci occuperemo fra poco, esse furono sottoposte ad alcuni adattamenti

30 T. Orlandi, Il dossier copto di Agatonico di Tarso. Studio letterario e storico, in D.W. Young (ed.), Studies Presented to H.J. Polotsky, pp. 269-299, Beacon Hill MS, Pirtle Polson, 1981. Edizione del testo: W.E. Crum, Der Papyruscodex Saec. VI-VII der Phillipps-Bibliothek in Cheltenham. Koptische theologische Schriften, Strassburg, Trubner, 1915, p. 171 (Schriften der Wiss. Gesellsch. in Strassburg, 18).

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(per es. tutto il primo brano citato fu omesso; altri furono omessi o stravolti), tanto da assumere un aspetto antropomorfita ed anti-origeniano. Il momento del voltafaccia di Teofilo rappresentò un momento di crisi acutissima fra il patriarcato e quegli ambienti che fino ad allora, in sintonia più o meno perfetta con le sue posizioni, avevano coltivato la dottrina origenista. Le fonti greche sono assai esplicite nei riguardi del conflitto che si generò con i monaci di Nitria, Sceti e Kellia; nulla invece ci dicono di ciò che riguarda i pacomiani. Quello che sia accaduto (a parte il fatto che alcune fonti ci dicono che una parte dei monaci del Nord trovò rifugio in quel frangente presso conventi pacomiani, al Sud) è desumibile da un lato da quanto dicono le Vite di Pacomio sugli origenisti, ove si riporti correttamente il significato di tali episodi a questo periodo piuttosto che a quello in cui Pacomio era in vita; dall’altro da un interessante testo di ambiente pacomiano, in cui Teofilo e Horsiesi hanno una parte tutta particolare 31. Esso riporta un episodio che si presenta sconcertante, e cioè che, all’ascesa al trono di Teofilo (la cronologia è fissata sicuramente nei parr. 43-44) un miracolo che avveniva puntualmente ai suoi predecessori nel giorno del battesimo (il sabato precedente la Pasqua) non avviene più, e Teofilo è avvertito in una visione che solo la presenza di Horsiesi potrà di nuovo farlo avvenire. L’opera di cui parliamo fu scritta probabilmente al fine di chiarire, nel modo più opportuno, i rapporti fra l’organizzazione pacomiana e il patriarcato alessandrino, nel momento in cui il mutamento dottrinale di Teofilo avrà causato non pochi problemi presso il movimento pacomiano, che aveva fedelmente recepito le direttive dottrinali precedenti. Non c’è dubbio comunque che il redattore vedesse i problemi dal punto di vista dei pacomiani, e dunque dovesse appartenere egli stesso alla comunità pacomiana o esserle molto vicino. Chi invece saluterà con entusiasmo il mutamento teofiliano, e ne resterà il combattivo custode contro ogni tentativo di restaurazione anche lontanamente origeniana sarà Shenute, il grande archimandrita che organizzò il suo monastero secondo criteri pacomiani, senza tuttavia mai aderire al movimento pacomiano in quanto tale. 31 Cf. T. Orlandi, Due fogli papiracei da Medinet Madi (Fayum): L’Historia Horsiesi, «Egitto e Vicino Oriente», 13 (1990) 109-126. Edizione del testo in: W.E. Crum, op. cit. (cf. nota 29).

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Come abbiamo visto, egli si differenziò dai pacomiani anche culturalmente. Prima di tutto, accolse le tecniche letterarie della retorica greca, che, per quanto sembra, i pacomiani avevano rifiutato. In secondo luogo, sembra che fin dall’inizio della sua opera si sia legato alle correnti monastiche del medio Egitto (cf. sopra), anti-origeniste. Siamo comunque documentati sul fatto che in una omelia, da collocare poco dopo il concilio di Efeso (431), Shenute si scaglia contro Origene: «…il bestemmiatore che dice: Come è possibile che il corpo e il sangue del Signore siano pane e vino? Sono fra di noi coloro che dicono ciò, gente il cui cuore è stato ferito dalle parole di Origene» 32. Inoltre siamo documentati sul fatto che intorno al 440 il vescovo Dioscoro chiese la sua cooperazione per un’opera di bonifica intrapresa nei riguardi di elementi origenisti del clero alto-egiziano. In questa occasione Shenute tradusse la lettera di Dioscoro, che doveva essere letta e commentata nei monasteri; ma compose anche un’opera sua personale, in cui trattava ampiamente la questione origenista dal suo punto di vista, e vi pose in appendice la traduzione della lettera festale in cui a suo tempo Teofilo aveva abbracciato la causa anti-origenista 33. L’opera di Shenute rappresenta un contributo interessante sia per le sue conoscenze dottrinali, sia soprattutto per la documentazione a cui fa riferimento puntuale, e che in parte coincide con i testi gnostici copti in nostro possesso. LA CRISI CALCEDONENSE COME SBOCCO DELLE RIVALITÀ FRA I GRANDI PATRIARCATI

Il concilio di Calcedonia determinò una separazione sia dogmatica sia gerarchica della Chiesa egiziana dalla maggior parte delle altre Chiese, ed ebbe naturalmente anche conseguenze di carattere culturale, col distacco sempre più accentuato della tradizione lette-

32 L.T. Lefort, Catéchèse christologique de Chénoute, «Zeitschrift fur Aegyptische Sprache», 80 (1955) 40-45; Cf. T. Orlandi, La cristologia…, cit. 33 Edizione: T. Orlandi, Shenute contra Origenistas, Roma, CIM, 1985, p. 143. Cf. A. Grillmeier, «La peste d’Origène». Soucis du patriarche d’Alexandrie dus à l’apparition d’origenistes en Haute Égypte, in AA.VV., Alexandrina. Mélanges… Mondésert, pp. 221-237, Paris, Cerf, 1986; H. Thompson, Dioscorus and Shenoute, «Bib. Ecole Hautes Etudes», 234 (1922) 367-376.

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raria in lingua copta da quella greca di tipo internazionale 34. Tali conseguenze non furono immediate; esse cominciarono a prendere consistenza verso l’inizio del VI secolo, quando le vicende seguite all’esilio di Teodosio di Alessandria fecero cessare le speranze di un riavvicinamento fra i patriarcati calcedonensi e anti-calcedonensi e soprattutto della possibilità che si svolgesse in Egitto una normale vita ecclesiastica, mantenendo convinzioni dogmatiche e gerarchie diverse da quelle approvate ufficialmente dalla sede imperiale. Il greco cominciò ad essere sentito come lingua degli oppressori, e la cultura greca patristica guardata con sospetto, come veicolo di dogmi e di notizie storiche legati alle Chiese con cui non c’era più comunione. Si cominciò dunque a sentire la necessità di costruire una cultura storica e spirituale (la teologia vera e propria rimaneva un campo tutto speciale) tipicamente egiziana (copta), in opposizione a quella appoggiata dal governo centrale dell’impero bizantino. La volontà di differenziazione rispetto a quanto veniva da Costantinopoli portò prima alla chiusura rispetto alle novità, alle eventuali nuove opere che giungessero in greco in Egitto, e poi alla decisione di non utilizzare più la lingua greca nella produzione di opere destinate alla vita ecclesiastica. Questo processo riguarda gli aspetti più specificamente letterari dell’uso delle due lingue, perché non solo le questioni amministrative che riguardavano la magistratura bizantina, ma certo anche le questioni ecclesiastiche con le altre Chiese anti-calcedonensi (prima fra tutte quella di Siria), continuarono a svolgersi in greco. Dal punto di vista letterario, per qualche tempo ancora la scelta della lingua dipese probabilmente non da ragioni culturali, ma geografiche. Le opere concepite nell’ambito di Alessandria (e delle comunità che più direttamente gravitavano intorno ad essa) saranno state redatte in greco; quelle concepite nell’ambito dell’Alto Egitto, in copto. Tutta la produzione di questo periodo, sia essa originale copta o traduzione, ebbe carattere storico-polemico. Alcuni testi sono storici in senso “tecnico”, come la Storia ecclesiastica copta; altri sono classificabili come appartenenti ad un genere in certo senso di confine fra l’agiografia, la disputa teologica e la storia.

34 A. Grillmeier - H. Bacht, Das Konzil von Chalkedon: Geschichte und Gegenwart, 3 vols., Wurzburg 1951; J. Maspero (A. Fortescue, G. Wiet), Histoire des Patriarches d’Alexandrie, depuis la mort de l’empereur Anastase jusqu’à la réconciliation des Églises jacobites (518-616), Paris, 1923.

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La Storia ecclesiastica fu probabilmente concepita nel tempo del vescovo alessandrino anti-calcedonense Timoteo II detto Eluro, e per sua ispirazione 35. Essa comprendeva due parti ben distinte. La prima parte era la traduzione dei primi 7 libri dell’Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, con alcune modifiche. La seconda parte consisteva di 5 libri (i libri erano dunque in tutto 12). Cominciava probabilmente con il resoconto della persecuzione di Diocleziano, e proseguiva con la crisi meliziana, il concilio di Nicea, la crisi ariana, il pontificato di Teofilo con la distruzione dei templi pagani, in paricolare del Canopo che viene trasformato in uno dei maggiori centri del monachesimo pacomiano (monastero della Metanoia). Si parlava poi di un fantomatico vescovo Filippo di Anatolia al tempo di Valentiniano e Valente; della storia di Arsenio, precettore dei figli di Teodosio e poi monaco nella Nitria; del carattere degli imperatori Arcadio ed Onorio e dell’invasione di Alarico; del conflitto fra Giovanni Crisostomo ed Eudossia. Si giunge così alla parte cruciale e finale della Historia. Di Cirillo si narrava come egli fosse tenuto in grande considerazione dalla corte imperiale, e come facesse distruggere le opere di Giuliano l’Apostata contro i cristiani; quindi i suoi rapporti con Nestorio ed il concilio di Efeso; quindi le ultime vicende di Nestorio, i suoi rapporti con Shenute e la sua morte nell’esilio egiziano. Finalmente si narravano le tragiche vicende di Dioscoro e del concilio di Calcedonia; e subito dopo il tormentato periodo dei due vescovi rivali Timoteo Eluro e Timoteo Salofaciolo (Pshoi in copto). La redazione primitiva fu quasi certamente in greco; vi sono elementi per ritenere che la traduzione copta sia stata eseguita contestualmente, in ambito shenutiano, ma con alcune modifiche che riguardavano appunto il ruolo di Shenute nella crisi nestoriana, e forse il misterioso vescovo Filippo di Anatolia. È questa l’opera più importante del periodo di cui ci stiamo occupando, e rispecchia più di ogni altra l’affermarsi di una coscienza

35 T. Orlandi, Storia della Chiesa di Alessandria, Milano, 1968, 1970 (Testi e documenti per lo studio dell’antichità 17, 31) ed ora ed. elettronica alla pagina web http://cmcl.let.uniroma1.it (= Historia ecclesiastica); D.W. Johnson, Further Fragments of a Coptic History of the Church, «Enchoriai», 6 (1976) 7-18; T. Orlandi, Nuovi frammenti della Historia ecclesiastica copta, in AA.VV., Studi in onore di Edda Bresciani, Pisa, 1985, pp. 363-384; F. Winkelmann, Die Kirchengeschichtswerke im oströmischen Reich, in «Byzantinoslavica», 37 (1976) 1-10 e 172-190; H. Brakmann, Eine oder zwei koptische Kirchengeschichte?, in «Le Muséon», 87 (1974) 129-142.

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nazionale delle Chiesa egiziana, che ancora si considera parte integrante della Chiesa internazionale, ma comincia a riflettere sulla sua storia per trovarvi una propria particolare identità e le ragioni della propria fedeltà ai veri dogmi e alle vere tradizioni del cristianesimo. Essa è rimasta nella tradizione copta dei secoli posteriori come l’opera storica fondamentale, e la fonte autorevole a cui attingere le notizie di cui si avesse bisogno. Ad essa farà ricorso il primo redattore della Storia dei Patriarchi araba, che con la sua continuazione ha sempre rappresentato il testo storico ufficiale del patriarcato alessandrino 36. Fra gli altri testi, che come abbiamo detto stanno fra l’agiografia e la polemica teologica, la Vita di Atanasio 37 presenta il protagonista come il fondatore dell’ortodossia, persona in cui si riassume tutto l’insegnamento autentico delle età precedenti, e che riesce a far prevalere tale insegnamento contro tutti i nemici, quelli all’interno della Chiesa ma soprattutto quelli appartenenti alla sfera del potere imperiale. Anche per il futuro, Atanasio diventa il fondatore della Chiesa egiziana nella sua conquistata individualità e consapevolezza, e dunque il punto di riferimento per le lotte post-calcedonensi contro tutti coloro che potevano insidiare l’autonomia della Chiesa egiziana. Egli diventa un simbolo dei martiri per la fede ortodossa: una volta finita la persecuzione di Diocleziano, subentrano altre prove nei confronti dei successivi imperatori. La figura di Atanasio è riproposta come ideale a cui riferirsi anche sotto questo aspetto. Altri testi riguardano il vescovo Dioscoro, il perdente del concilio di Calcedonia, e dunque figura eminente della tradizione copta. La Vita di Dioscoro, attribuita a Teopisto, è pervenuta completa in traduzione siriaca, ma in copto sono conservati pochi frammenti, che comunque ne testimoniano la sua diffusione in ambiente egiziano 38. A Dioscoro stesso era attribuito un testo che, quale lo abbiamo

36 J. Den Heijer, Mawhub Ibn Mansur et l’historiographie copto-arabe. Étude sur la composition de l’Histoire des Patriarches d’Alexandrie, Louvain, Peeters, 1989, XX p. 238 (CSCO 513 = Subsidia 83). 37 T. Orlandi, Testi copti. 1. Encomio di Atanasio, 2. Vita di Atanasio, Milano, 1968 (Testi e documenti per lo studio dell’antichità, 21). 38 W.E. Crum, Coptic Texts Relating to Dioscorus of Alexandria, «Proc. Soc. Biblical Arch.», 25 (1903) 267-276; E.O. Winstedt, Some Munich Coptic Fragments, «Proc. Soc. Biblical Arch.», 28 (1906) 137-142; F.N. Nau, Histoire de Dioscore…, «Journal Asiatique», X 1 (1903) 5-108; 241-310.

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oggi, è il risultato della manipolazione di testi anteriori di varia provenienza, per costruire un’omelia del genere encomiastico sul vescovo-monaco Macario di Tkou 39. Questa manipolazione non deve tuttavia essere molto tardiva: l’attribuiremmo al VI secolo. I testi da cui il redattore ha attinto erano: (a) un resoconto del viaggio del vescovo-monaco Macario con Dioscoro a Costantinopoli per partecipare al concilio. (b) Il resoconto dei disordini avvenuti al momento del ritorno a Gerusalemme di Giovenale, dopo Calcedonia. L’episodio di Longino. La storia di Andragate. (c) Il resoconto della visita di Papnute, personaggio peraltro non meglio identificato, a Gangra, dove Dioscoro è in esilio. Vi è prima un dialogo fra Dioscoro e Papnute, poi la narrazione del “martirio” di Macario. La vita del famoso monaco Giovanni di Licopoli (Siout, Assiut) formava uno dei capitoli della Historia Monachorum che ci è rimasta nella traduzione latina di Rufino. Egli era morto una cinquantina d’anni prima del concilio di Calcedonia, ma un redattore copto pensò bene di allungargli la vita, per farne un testimone degli eventi intorno al concilio 40. Venne dunque prodotto un testo, che comprende la traduzione copta del capitolo dell’Historia Monachorum, e una parte del tutto nuova, che tratta soprattutto dei rapporti (inventati) fra Giovanni e l’imperatore Marciano. In seguito, probabilmente per emulazione, venne redatta una seconda vita, in cui si mescolavano alcuni episodi del testo, diciamo così, primario, con altri che sembravano degni di nota al secondo redattore. Besa, il successore di Shenute a capo del Monastero Bianco (dunque dal 466), ne continuò l’opera letteraria riprendendone le capacità linguistiche e lo stile 41. La sua opera più conosciuta è la Vita di Shenute, che è tuttavia consona non ai generi toccati appunto dal maestro, ma al nuovo gusto e alle nuove necessità. Essa è scritta naturalmente in modo agiografico, e tutt’altro che storicistico, e tuttavia fornisce interessanti indicazioni. Quanto rimane delle altre

39 Edizione: D.W. Johnson, A Panegyric on Macarius Bishop of Tkow Attributed to Dioscorus of Alexandria, Louvain 1980 (CSCO 415-416). Tr. it. a cura di T. Orlandi, Omelie copte, Torino 1981, pp. 162-198 (Corona Patrum). 40 P. Devos, Fragments coptes de l’historia monachorum (vie de S. Jean de Lycopolis BHO 515), «Analecta Bollandiana», 87 (1969) 417-440; Id., Saint Jean de Lycopolis et l’empereur Marcien. À propos de Chalcédoine, AB 94 (1976) 303-316; ed. elettronica alla pagina web http://cmcl.let.uniroma1.it (= Vita Iohannis de Lycopoli). 41 J. Leipoldt, Sinuthii vita bohairice, Louvain 1951 (CSCO 41) (Rist. dell’ed. 1906); K.H. Kuhn, Letters and Sermons of Besa, Louvain 1956 (CSCO 157-158).

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opere, Lettere e Catechesi, ha incontrato vari apprezzamenti (la caratterizzazione di un Besa di debole carattere nei confronti del dominatore Shenute è probabilmente solo una facile supposizione) e comunque si esaurisce come contenuto nella vita quotidiana dei monasteri con cui Besa era in contatto. Un gruppo di testi con caratteristiche assai simili riguarda i monaci egiziani che si sono opposti alle decisioni del concilio di Calcedonia, e sono stati naturalmente dimenticati dalla tradizione greca, in parte per motivi polemici, ma soprattutto perché la loro opera è stata circoscritta allo stretto ambiente egiziano. Essa ha tuttavia avuto una notevole importanza storica, in quanto ha preparato il terreno per la costituzione di una Chiesa propriamente copta (che si può datare al periodo di Damiano, fine del VI secolo); e dunque sono importanti i testi copti che ci danno notizie su questi monaci. I testi sono purtroppo redatti con intenti anche ingenuamente apologetici, e sono pieni di racconti miracolistici e considerazioni che mettono a dura prova il nostro senso storico; ma aiutano se non altro a comprendere le caratteristiche dell’ambiente in cui i monaci si muovevano. La Vita di Longino dell’Ennaton 42 è stata costruita a partire da alcuni apoftegmi preesistenti e da un episodio relativo ai rapporti fra Longino e Marciano, anch’esso preesistente. Il redattore ultimo ha riunito quel materiale, aggiungendo la storia di Longino precedente alla sua venuta in Egitto, e dando una struttura letteraria al tutto. Su Apollo, fondatore e archimandrita del monastero detto di apa Isaac, abbiamo un panegirico scritto da uno dei suoi successori, Stefano, poi divenuto vescovo di Hnes (Heracleopolis Magna) 43. Apollo fu prima archimandrita del convento pacomiano principale, quello di Pboou, all’epoca di Giustiniano, e conobbe i grandi esponenti monofisiti della sua epoca, Severo di Antiochia e Teodosio di Alessandria. Essendo rimasto fedele alla tradizione di Dioscoro fu espulso dal convento, e dopo aver vagato per l’Egitto fondò un suo convento, detto di apa Isaac, presso Hnes, a Sud-est del Faium. Qui fra l’altro si scontrò con una delle comunità meliziane che ancora in quell’epoca erano attive. Null’altro è noto della sua vita, ma il convento dovette acquistare grande importanza, come 42 43

T. Orlandi - A. Campagnano, Vite dei monaci Phif e Longino, cit. K.H. Kuhn, A Panegyric on Apollo Archimandrite of the Monastery of Isaac by Stephen Bishop of Heracleopolis Magna, Louvain 1978 (CSCO 394 395).

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testimoniano le sue rovine, che sono state anche oggetto di parziali scavi archeologici. Matteo il Povero 44 fondò un monastero pacomiano presso Assuan, ma si distaccò dalla “casa madre” di Pbou, quando essa si conformò alla gerarchia alessandrina calcedonense. Un altro testo di caratteristiche analoghe concerne Mosè di Beliana. Secondo la tradizione, Shenute avrebbe predetto la venuta di Mosè che avrebbe contribuito alla distruzione di centri ancora esistenti dedicati al culto pagano presso Abido. Qui infatti Mosè fondò il suo monastero, e avrebbe operato in contatto coi vescovi del luogo, che sono menzionati. Egli si sarebbe recato a Costantinopoli, contribuendo al ravvedimento dell’imperatore insieme con Severo di Antiochia e Teodosio di Alessandria. Al tempo dell’esilio egiziano di Severo, Mosè lo avrebbe accolto, ed avrebbe continuato a lottare contro i calcedonensi, influendo anche su magistrati locali. Manasse avrebbe fondato un monastero presso Abido, consacrato dal vescovo di Diospoli, ed avrebbe accolto dei rifugiati dai monasteri pacomiani divenuti calcedonensi. Egli avrebbe anche protetto la popolazione dalle scorrerie dei Mazici. Abraham, nato a Tberkjot (Farshut) da famiglia facoltosa, sarebbe divenuto monaco a Pbou, e quindi superiore di quel monastero, dunque dell’ordine pacomiano. Al tempo di Giustiniano si sarebbe recato a Costantinopoli per difendere la posizione anticalcedonense, con poca fortuna. Al suo ritorno fu costretto a lasciare Pbou, e quindi si recò al monastero di Shenute dove copiò le regole shenutiane, secondo le quali fondò un suo monastero presso Tberkjot. LA CRISI ARABA. RISVOLTI POLITICI E NAZIONALI Dopo la crisi calcedonense, l’invasione araba (641) segnò un’ulteriore e definitiva svolta nello svolgimento della letteratura copta 45. L’invasione persiana (616-628), appena precedente, fu

44 Sui testi relativi a Matteo il Povero, Mosè, Manasse e Abraham cf. A. Campagnano, Monaci egiziani fra V e VI secolo, «Vetera Christianorum», 15 (1978), pp. 223246. 45 C.F. Petry (ed.), The Cambridge History of Egypt, Cambridge, Univ. Press, 1998, 2 voll.; S. Lane-Pool, A History of Egypt in the Middle Ages, London 1925 (4)

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troppo breve per lasciare una traccia culturale. Al contrario, quella araba determinò una situazione che dura tutt’ora, all’interno della quale i copti si adattarono variamente, anche dal punto di vista culturale, a seconda delle differenti circostanze storiche e politiche. Subito dopo la sconfitta dei bizantini ed il loro abbandono dell’Egitto, i copti si sentirono in qualche modo sollevati dal dominio religioso e culturale bizantino, che a tratti era stato duro e brutale, e ripresero l’attività letteraria in lingua copta, soprattutto nei generi dell’omelia e dell’agiografia, che rispondevano alle nuove necessità della libera vita religiosa. La letteratura copta continuò e anzi fiorì nei primi tre secoli del dominio arabo (dal VII al IX); quindi fu sostituita via via da quella in lingua araba, anche presso i cristiani. Di Beniamino di Alessandria, vescovo dal 621 al 662, abbiamo un’omelia scritta poco dopo l’invasione 46. In essa vi sono soltanto espressioni di soddisfazione per aver riacquistato la libertà di confessione, conculcata dai calcedonensi: (par. 25) «Quando Dio ci liberò dai patimenti che erano su di noi per opera dell’empio e fiorì di nuovo la pace della Chiesa». Non vi è alcuna allusione esplicita agli arabi. Essi sono visti in sostanza come parte di un disegno favorevole della Provvidenza, evidentemente in attesa di nuovi eventi. Lo stesso si può vedere in due opere del successore, Agatone (662-680). Di esse, una è pervenuta intera (Sulla consacrazione del santuario di san Macario) 47, e l’editore nota come «l’auteur… écrit… vraisemblablement peu de temps après l’invasion arabe dans l’euphorie, semble-t-il, de la libération des tracasseries de la police byzantine et des entraves au culte monophysite» (p. 48). Anche nei frammenti dell’altra (Encomio di Beniamino) 48 troviamo polemiche dirette contro personaggi calcedonensi, ma nessuna contro gli arabi. A quanto sembra, questo stato di cose, o per meglio dire que-

(rist. 1968); T. Orlandi, Koptische Kirche, Theol. Real-Encyclopädie 19, pp. 595-608, Berlin-New York, de Gruyter, 1989; A.J. Butler, The Arab Conquest of Egypt and the Last Thirty Years of the Roman Dominion, Oxford, The Clarendon Press, 1902. 46 C.D.G. Müller, Die Homilie über die Hochzeit zu Kana und weitere Schriften des Patriarchen Benjamin I von Alexandrien, Heidelberg, Winter, 1968 (Abhandlungen Heidelberger Akad., 1968, 1). Tr. it. a cura di T. Orlandi, Omelie copte, cit., p. 320. 47 R.G. Coquin, Livre de la consécration du sanctuaire de Benjamin, Le Caire, IFAO, 1975 (Bibliothèque d’Etudes Coptes 13). 48 H. Brakmann, Zum Pariser Fragment angeblich des koptischen Patriarchen Agathon, «Le Muséon», 93 (1980) 299-309.

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sta disposizione psicologica che trapassa nell’attività letteraria, perdura fin sotto Giovanni di Alessandria (680-688), che nel suo Encomio di Mena 49 si limita a ricordare come la conquista dell’Egitto da parte dei saraceni ha messo fine al dominio del malvagio Eraclio. Del resto nelle sue Responsiones teologiche 50, raccolte da un suo diacono, non v’è alcun accenno all’islam; ed egli invece partecipò ad una discussione con un ebreo ed un calcedonense, voluta e presenziata dall’emiro Abd el-Aziz. Di Isaac, successore di Giovanni (688-693) non abbiamo opere letterarie; ma ci è giunta la sua Vita, scritta dal vescovo Mena di Pshati (Nikius), che rappresenta uno dei testi fondamentali in lingua copta relativi al problema dei rapporti fra copti ed arabi, ed in particolare fra l’emiro Abd el-Aziz ed il patriarca 51. Ricorderemo brevemente i principali episodi: al momento dell’elezione, essendoci due candidati (Isaac ed un certo Giorgio), la questione viene dibattuta alla presenza dell’emiro. Le relazioni fra patriarca ed emiro sono amichevoli, tanto che il patriarca fu spesso ospite dell’emiro, e costui fece costruire delle chiese; sono narrati anche dei miracoli di cui Isaac è protagonista e Abd el-Aziz testimone. In alcuni casi, come quando l’emiro invita a pranzo Isaac e vuole esser certo che egli non faccia il segno di croce prima di mangiare, Isaac se la cava con un sotterfugio. Finalmente, alla fine della vita di Isaac sorsero delle difficoltà, a causa dei rapporti fra la Chiesa copta e quelle della Nubia (dunque evidentemente timori da parte araba di interferenze ed interventi nubiani a favore dei cristiani d’Egitto), ma sembra che al momento siano state appianate. Come si vede, in tutto questo periodo l’intesa fra copti ed arabi, con qualche incrinatura e qualche difficoltà, si mantiene; ed è testimoniata anche un po’ oltre (se ben vediamo) da un’omelia di Zaccaria, vescovo di Shou (Chois) e compagno di Isaac ai tempi in cui

49 J. Drescher, Apa Mena. A Selection of Coptic Texts Relating to St. Menas, Le Caire, Société d’arch. copte, 1946, XXXVI p. 186 (Textes et documents). 50 A. van Lantschoot, Les «Questions de Théodore». Texte sahidique, recensions arabes et éthiopienne, Città del Vaticano, Bibl. Ap. Vat., 1957, VIII p. 302 (Studi e Testi, 192). 51 E. Porcher, Vie d’Isaac Patriarche d’Alexandrie de 686 à 689, écrite par Mina, évêque de Pchati, pp. 300-390, Paris, 1915 (PO 11); D.N. Bell, Mena of Nikiou. The Life of Isaac of Alexandria & the Martyrdom of Saint Macrobius. Introduced, Translated, and Annotated, Kalamazoo, Cistercian Publications, 1988, VIII p. 147 (Cistercian Studies Series, 107).

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ambedue erano monaci a Sceti 52. In questa omelia si consolano i fedeli per la carestia e la pestilenza che vi furono attorno al 714; e, a meno che l’episodio lungamente commentato di Giona e dei niniviti non nasconda allusioni alla situazione del tempo, non troviamo alcuna polemica religiosa, ma solo esortazioni di carattere morale. Tuttavia nel frattempo dovette nascere e affermarsi un modo nuovo di far letteratura, che ci testimonia crescenti difficoltà nei rapporti fra i dominatori islamici e la Chiesa copta. Purtroppo questo fenomeno è stato sempre misconosciuto, proprio per le sue caratteristiche. Infatti una grande quantità di testi copti risulta attribuita falsamente ai grandi autori della Patristica, e d’altra parte non vi sono elementi elementi esterni che indichino se tali opere siano tradotte dal greco od originali; e tanto meno da quali autori ed in quale epoca sono state scritte. Per quei pochi testi che sono stati studiati, i critici si sono generalmente guardati dal proporre datazioni, ad eccezione dei testi agiografici, che tuttavia sono un caso molto particolare. Vari indizi interni ai testi, su cui non è possibile ora soffermarsi, portano a credere che quelle opere siano state composte quando la tradizione copta si era radicalmente staccata da quella greca. Per stabilire quanto tempo dopo, si deve riflettere sul fatto che il distacco può essere iniziato qualche tempo dopo Calcedonia, cioè verso la fine del V secolo. Ci si chiede allora se gli elementi che si possono trarre dai testi giustificano una polemica da condurre contro i bizantini, cioè i calcedonensi. Ebbene, noi possediamo parecchi testi nei quali è condotta una tale polemica, e la loro caratteristica è quella di essere per lo meno molto espliciti: i “cattivi”, cioè i calcedonensi ed i loro sostenitori a livello politico, sono perfettamente individuati e chiamati col loro nome. Al contrario, nessun accenno preciso troviamo nei testi dei “cicli” omiletici ed agiografici. Si può pensare, è vero, che tali testi parlino della persecuzione di Diocleziano per pura continuazione tradizionale degli esempi anteriori; e che lo scopo per cui furono costruiti sia stato solo quello di dare lustro a questo o quel santuario. Noi tendiamo invece a credere che sotto questi testi debba nascondersi una polemica più precisa, ma che doveva necessariamente es-

52 H. de Vis, Homélies coptes de la Vaticane. Texte copte publié et traduit, Kobenhavn, Gyldendal, vol. 1, 1922, p. 220; vol. 2, 1929, p. 315 (Coptica 1, 5).

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sere tenuta in qualche modo nascosta, cioè essere comprensibile solo agli iniziati. Poiché dunque dopo il VI secolo, cioè il periodo centrale della controversia calcedonense, abbiamo sùbito la conquista araba all’inizio del VII secolo, è ovvio domandarsi se questo, o meglio il peggiorato rapporto fra copti ed arabi, venuta a mutare la situazione relativamente pacifica descritta più sopra, non sia il fattore storico fondamentale che ha determinato la composizione di tali testi. In effetti possediamo un’omelia, scritta verso la metà dell’VIII secolo ed attribuita ad Atanasio di Alessandria 53, nella quale gli arabi sono dipinti come «un popolo feroce e senza misericordia nel suo cuore. Egli non avrà pietà dei vecchi né risparmierà i bambini… E quel popolo governerà con grande svergognatezza tutti coloro che abitano sulla terra e li distruggerà e li renderà polvere e li spoglierà» (parr. 51-52). È probabile dunque che nella prima metà del VII secolo sia iniziato un tipo di letteratura protetto dall’anonimato, che continuò almeno per l’VIII secolo. Non c’è motivo per ritenere che le opere per noi “anonime” della letteratura copta (quelle cioè il cui autore si è celato sotto un nome celebre per divulgare la propria produzione) rappresentino, almeno nella loro grande maggioranza, una produzione che avviene parallelamente a quella di opere il cui autore genuino è ben attestato: pensiamo sia al periodo post-calcedonense, sia al periodo iniziale del dominio arabo. Non può essere invece un caso che proprio nel momento in cui si rompe il delicato equilibrio che presiedeva ai rapporti fra copti ed arabi, la letteratura copta (che, non dimentichiamo, era tutta religiosa; ma proprio per ciò includeva nella manifestazione religiosa le altre manifestazioni della vita civile) scompare come letteratura “firmata”, si fa cioè letteratura clandestina. Se la ricostruzione che abbiamo tracciato è corretta, saranno allora da ricercare in quei testi che formano dei “cicli” di leggenda agiografica o patristica, tutte le forme di polemica religiosa e politica che non potevano essere proclamate in modo esplicito. Esse vengono dunque camuffate in due modi: da un lato, attribuendo la paternità dei testi a prestigiose quanto antiche figure della letteratura 53 T. Orlandi, Omelie copte, cit., p. 320; Id., Un testo copto sulla dominazione araba in Egitto, in T. Orlandi - F. Wisse (edd.), Acts of the Second Int. Congress of Coptic Studies, pp. 225-234, Roma, CIM, 1985.

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ecclesiastica greca; dall’altro esercitando la polemica non direttamente, ma attraverso narrazioni di episodi più o meno miracolosi o attraverso asserzioni teologiche dirette contro falsi avversari (per lo più i giudei, come sembra), sotto cui del resto gli ascoltatori riconoscevano probabilmente con facilità il vero obiettivo, cioè l’islam e la dominazione araba. È evidente come, leggendo il gruppo di opere a cui facciamo riferimento attraverso un tale criterio, esse acquistano dei significati sia letterari sia storici che non erano evidenti sino ad ora, tanto che esse sono state per lo più trascurate come scarsamente interessanti. Noi pensiamo invece che esse si possano dimostrare delle fonti non disprezzabili per conoscere meglio la mentalità del loro tempo, cioè del vero periodo nel quale furono scritte. I cicli a cui abbiamo accennato si possono suddividere in due tipi fondamentali: quello omiletico e quello agiografico. La differenza sta semplicemente nel diverso genere letterario usato nei due casi. I cicli omiletici sono costituiti di testi redatti sotto forma di omelie; quelli agiografici sotto forma di passioni di martiri. Questi ultimi cicli sono conosciuti maggiormente, e da più lungo tempo, soprattutto per merito degli studi di Amélineau prima, e poi di Delehaye 54. Quelli omiletici si vengono riconoscendo soltanto oggi, in quanto i singoli testi sono spesso attribuiti falsamente ai più noti padri del IV e V secolo, ed occorre uno studio condotto su basi ampie per riunirli e datarli con ragionevolezza. Sia per gli uni, sia per gli altri, il primo criterio attraverso il quale riconoscere l’unità di un ciclo (ad un determinato momento della tradizione) è quello del contenuto, basato cioè soltanto sui personaggi menzionati e sui fatti narrati. Ove questo dia come risultato un ambiente narrativo unitario, le opere in questione si definiscono come facenti parte di quel determinato ciclo. Il riconoscimento di un ciclo non coincide del tutto con l’assegnazione ad un autore unico, e nemmeno ad un gruppo di autori coevi, né ad una determinata datazione. È però il primo passo fondamentale per cercare di risolvere questi problemi.

54 E.C. Amélineau, Les Actes des martyrs de l’Église copte, Paris, Leroux, 1890, p. 313; H. Delehaye, Les martyrs d’Égypte, «Analecta Bollandiana», 40 (1922) 5-154, 299-364.

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Ciclo di Atanasio. Come si è visto, Atanasio fu la figura centrale della tradizione propriamente copta (dopo Calcedonia), oltre che di quella egiziana in generale. Egli era considerato insieme il fondatore della Chiesa egiziana come entità autoctona ben definita, ed il campione dell’ortodossia, di cui dunque la Chiesa egiziana diventava la depositaria. Perciò la tradizione letteraria copta dedicò grande attenzione alla figura di Atanasio, creando attorno ad essa un intreccio di fatti che, basati su episodi storicamente attestati, diede presto luogo ad una leggenda complessa ma abbastanza coerente. Di essa facevano parte due esilii, uno in luoghi barbari e solitari, l’altro all’interno dell’Egitto nascosto presso monaci; rapporti con popolazione barbare convertite al cristianesimo; lotte con l’imperatore Costanzo, ariano, con conseguenti tentativi di uccisione evitati per intervento miracoloso. Rientrano in questa prospettiva, oltre alla Vita di cui si è parlato prima, un Encomio attribuito a Cirillo di Alessandria 55, ed alcune omelie, attribuite allo stesso Atanasio 56, generalmente di contenuto morale, ma che contengono allusioni autobiografiche ai fatti sopra menzionati: Sull’omicidio, e per Michele arcangelo, dove parla del suo esilio e di un suo soggiorno nel convento di Pacomio, e di un altro soggiorno presso un anacoreta; Agli isaurici, esegesi di Lc. 11.5-9, dove si parla dell’amicizia, di una visita al convento di Pacomio, e di un episodio del concilio di Nicea; Sulla Pentecoste e sulla parabola del ricco e del povero; una Esegesi di Lev. 21.9ss., e sulla fine del mondo, dove sotto forma di profezia si parla della dominazione araba dell’Egitto (cf. supra). Ciclo di Cirillo di Gerusalemme 57. Esso è costituito da alcune omelie che dovevano aggiungersi alle 18 Catechesi (autentiche), formando i numeri 19, 20 e 21; inoltre da qualche altro testo aggiunto. Questo ciclo sembra essere originato da un interesse per l’ambiente di Gerusalemme e per un certo tipo di apocrifi che ne venivano fatti derivare. Troviamo così un Commentario sulla Passione (diviso 55 T. Orlandi, Testi copti. 1. Encomio di Atanasio, 2. Vita di Atanasio, Milano, Cisalpino, 1968, p. 161 (Testi e documenti per lo studio dell’antichità, 21). 56 Queste omelie sono inedite, ma tradotte in Orlandi, cit. alla nota 52. 57 T. Orlandi, Cirillo di Gerusalemme nella letteratura copta, «Vetera Christianorum», 9 (1972) 93-100; A. Campagnano, Ps. Cirillo di Gerusalemme. Omelie copte sulla Passione, sulla Croce e sulla Vergine, Milano, Cisalpino, 1980, p. 214 (Testi e documenti per lo studio dell’antichità, Serie Copta, 65).

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in due omelie), in cui si commenta il relativo brano del Vangelo di Giovanni, ma si fanno anche altri excursus, fra cui uno sulla Vergine (da mettere in relazione con le omelie seguenti); un’omelia In lode della Croce, in cui sono inseriti molti episodi leggendari, del tempo della Crocifissione e poi di tempi successivi (Eusignio; la Croce luminosa; etc.); un’omelia In onore della Vergine, in cui è inserita la narrazione della fanciullezza della Vergine, e poi della Dormitio. Altre omelie sembrano essersi aggiunte più tardi a questo ciclo: due ulteriori Sulla Passione e Resurrezione (inedite); una detta anch’essa Sulla Passione, che in realtà nasconde un apocrifo con rivelazione del Risorto ai discepoli. Ciclo di Teofilo. Teofilo, successore di Atanasio, dovette avere presso i copti la reputazione di grande distruttore di monumenti pagani. Per questo la sua leggenda (costruita del resto sulla base di alcune frasi degli storici ecclesiastici) parla della scoperta di grandi tesori nelle rovine di alcuni templi che egli aveva distrutto, con cui intraprende la costruzione o l’ornamento di chiese in onore di diversi santi 58. Il suo ciclo era perciò costituito (per quanto è dato di ricostruirlo) di un’omelia sulla distruzione del Serapeum e sulla costruzione del Martyrion del Battista; di un’omelia sulla costruzione della chiesa della Vergine al monte Kos (Qusqam); di un’omelia sulla costruzione della chiesa per le reliquie dei Tre Santi di Babilonia; di un’omelia sulla costruzione di una chiesa in onore di Raffaele arcangelo nell’isola di Patres. Ciclo di Giovanni Crisostomo. La fama di Giovanni Crisostomo, presso la più tarda tradizione copta, è legata alla sua disputa con l’imperatrice Eudossia, in seguito alla quale (lasciando in ombra l’operato di Teofilo di Alessandria) egli morì in esilio. Un’omelia anonima sulla Vita di Crisostomo 59 sembra alla base del ciclo sviluppato su quel tema; ad essa sono collegate un’omelia attribuita a Eu-

58 T. Orlandi, Theophilus of Alexandria in Coptic Literature, in E.A. Livingstone (ed.), Studia Patristica XVI (TU 129), pp. 100-104, Berlin, Akademie, 1985. 59 A. Campagnano - A. Maresca - T. Orlandi, Quattro omelie copte. Vita di Giovanni Crisostomo, Encomi dei 24 Vegliardi (Ps. Procle e Anonimo), Encomio di Michele Arcangelo di Eustazio di Tracia, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1977, p. 189 (Testi e documenti per lo studio dell’antichità, Serie Copta, 60).

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stazio di Tracia In onore di Michele arcangelo, ed una attribuita a Proclo di Costantinopoli In onore dei 24 Vegliardi, che si riferiscono agli stessi avvenimenti, con variazioni romanzesche. Un ampliamento del tema si ebbe con l’introduzione della figura di Demetrio di Antiochia 60, il vescovo che avrebbe consacrato presbitero Giovanni. A lui allude un’omelia attribuita allo stesso Giovanni In onore di Vittore martire; ed a lui direttamente sono attribuite alcune omelie di carattere agiografico, del resto non strettamente connesse al ciclo. Ciclo di Basilio di Cesarea 61. Parecchie omelie autentiche di Basilio erano state tradotte in copto nell’epoca “classica” delle traduzioni. Ma più tardi si volle costruire, probabilmente per propaganda nei confronti degli arabi, la figura di un Basilio difensore della cristianità contro i barbari. Si produssero così alcune omelie (ne sono pervenute a noi solo due) ambientate nella regione della Lazica (Georgia; ma probabilmente il nome vale per una regione fantastica), in cui si celebra la liberazione della regione dai barbari sarmati con l’aiuto di Michele arcangelo. Ciclo di Evodio di Roma. Secondo la normale tradizione, che doveva apparire anche nella Historia ecclesiastica copta, il successore di Pietro a Roma fu Lino. Ma i copti vollero attribuire ad un Evodio di Roma, figura ripresa da quella di Evodio, successore di Pietro ad Antiochia, almeno tre omelie il cui contenuto comprende narrazioni apocrife più antiche, che erano circolate senza autore, e comunque necessitavano di un’autorità antica 62. La prima tratta della Passione, e comprende un interessante episodio relativo ad ebrei a Roma all’epoca di Claudio; la seconda tratta della Dormitio Virginis; la terza degli apostoli. Nella costruzione di tutti questi cicli, lo spunto per il soggetto

60 T. Orlandi, Demetrio di Antiochia e Giovanni Crisostomo, «Acme» 23 (1970) 175-178. 61 Id., Basilio di Cesarea nella letteratura copta, «Rivista degli Studi Orientali», 49 (1975) 49-59. 62 F. Rossi, Trascrizione con traduzione italiana di un testo copto del Museo Egizio di Torino, «Mem. Acc. Scienze Torino», II. 42 (1892), pp. 107-252; P.A. De Lagarde, Aegyptiaca, Gottingae, 1883, p. 296. Ambedue le omelie meriterebbero una riedizione. L’omelia sugli apostoli è inedita.

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generale e per le narrazioni è dato da episodi e personaggi reali, che però appaiono filtrati attraverso la tradizione culturale copta ed avere quindi solo lontani legami con la realtà storica. La trama delle narrazioni e le considerazioni che le accompagnano rispondono a scopi e mentalità diversi da quelli pensabili nell’epoca in cui i fatti si svolsero ed i personaggi realmente vissero. Gli scopi per cui i testi furono composti sono prima di tutto propagandistici, ma a vari livelli. A livello interno, per fortificare la fede del popolo nella tradizione della Chiesa copta, e rafforzare e raddrizzare i sentimenti ed i costumi morali. A livello esterno, per affermare il pieno diritto di esistenza e l’antichità e ortodossia della dottrina della Chiesa copta in confronto a quelle separate. Inoltre per difendere la dottrina cristiana nei confronti delle religioni rivali, giudaica ed islamica. Vi era pure uno scopo di intrattenimento spirituale, al quale rispondeva lo stile enfatico e sovrabbondante, evidentemente gradito alla folla, ed il racconto dei più amabili o truci o meravigliosi episodi che la fantasia potesse immaginare. I testi spesso introducevano personaggi ed episodi già noti al pubblico, presenti in analoghi testi (peraltro inventati di sana pianta), affinché il pubblico potesse automaticamente sentirsi a suo agio e nello stesso tempo essere rafforzato nella fiducia da dare agli episodi e ai loro impliciti insegnamenti. I testi erano prodotti spesso facendo uso di opere preesistenti, modificate in modo da aderire allo scopo del redattore, ed unite, quando necessario, con altri brani scritti appositamente ed originali. Questo fa sì che all’interno di queste omelie possano essere tramandati brani provenienti da vecchie traduzioni di testi genuini dei Padri del IV-V secolo. Le cause pratiche che hanno determinato la produzione di tali opere sono probabilmente due: 1. La necessità di rinnovare una letteratura ecclesiastica troppo legata all’ambiente greco-internazionale, e dunque dopo la separazione dalla Chiesa ufficiale imperiale vista sempre con qualche sospetto. 2. La necessità di agire clandestinamente, prima a causa delle persecuzioni dei calcedonensi, ma poi soprattutto degli arabi, che erano disposti a “proteggere” la vita delle comunità religiose dei paesi conquistati, a patto che ciò non comportasse la fabbricazione di prodotti nuovi, sia architettonici sia letterari.

CAPITOLO V

LA CHIESA D’ETIOPIA

SALOMONE, LA REGINA DI SABA E LA DISCENDENZA REALE ETIOPICA

La terra etiopica ha avuto attraverso i secoli nell’ambito del continente africano una sorte assai singolare: la sua posizione geografica, che fino a data recentissima le permetteva di affacciarsi al Mar Rosso, ha consentito fin da tempi molto antichi il costituirsi lungo le coste di empori commerciali e di centri variamente popolati. Specialmente nella regione di Adulis, città che ospita il porto di Axum, vi confluirono in una sorta di immigrazione continua dall’opposta sponda dello Yemen popolazioni arabe, che non di rado si imposero alla popolazione indigena. Un movimento che, per quanto possiamo saperne, favorì la formazione di un regno monarchico indipendente, il regno di Axum che apparve nel I secolo d.C. e che a sua volta ebbe come mire espansive da una parte la penisola arabica e dall’altra il Sudan. Anche la toponomastica conferma il legame con l’Arabia meridionale e in particolare con il paese e il popolo dei sabei che ivi dimorava: Saba è il nome di località che si trova sul Nilo, a meridione di Khartôum, (e pure nello Yemen); Assab, che significa «paese di Saba», è il nome di un centro che si trova sul Mar Rosso; Anseba, ossia «sorgente di Saba», si chiama un torrente che ha il proprio inizio nella regione dello Hamasen. Secondo una leggenda Azieb, regina di Saba, si sarebbe recata presso Salomone – è la notizia che danno, nell’Antico Testamento, il Libro dei Re (I, 10) e in parallelo quello delle Cronache (II, 9) –; questi l’avrebbe accolta con grandi onori ed istruita sulla religione di Israele, ottenendone la conversione. Ella si sarebbe poi congedata colma di doni ricevuti, non prima però che Salomone si fosse unito con lei. Tornata in Arabia avrebbe partorito un figlio maschio, che avrebbe chiamato Menelik, il quale sarebbe stato destinato a diventare il capostipite della famiglia reale etiopica. Ma soprattutto la regina Azieb avrebbe trasmesso ai suoi sudditi la fede ebraica. Si compren-

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de quindi il motivo per cui nei testi cronachistici etiopici, nel indicare le genealogie dei regnanti, si cominci da Adamo per menzionare poi David, Salomone e Menelik fino a Maria, per sottolineare la comune stirpe di cui sarebbero partecipi Gesù Cristo e la discendenza reale. Ancor più: Menelik, giunto sul trono di Axum si sarebbe recato a Gerusalemme dove il genitore Salomone lo avrebbe riconosciuto e fatto ungere re d’Etiopia dal sommo sacerdote. Questi, tornando, avrebbe preso con sé l’Arca dell’Alleanza e le Tavole mosaiche della Legge. A lui e alla sua stirpe Dio le avrebbe affidate, a seguito della trasgressione dei comandi divini operata da Israele e dal suo re. In secoli successivi, all’alba della nostra èra si fanno presenti altri due notevoli influssi culturali e religiosi, questa volta di timbro cristiano: per un verso l’influsso (discusso dalla critica) proveniente dalla Siria, e per un altro quello ben più continuativo e forte, d’origine greca alessandrina. Questo per dire che l’Etiopia è paese aperto che accoglie impulsi provenienti da altre terre. Ma per capire meglio lo sviluppo delle circostanze cui si è fatto cenno, occorre procedere con ordine. FILIPPO E LA CONVERSIONE DELL’ETIOPE SECONDO GLI ATTI DEGLI APOSTOLI Gli Atti degli Apostoli (8, 26ss.) narrano un episodio che può suggerire il modo con cui il cristianesimo sia stato introdotto in Etiopia o forse, meglio, mostra l’intenzione di Luca di prefigurare la diffusione del messaggio di Cristo fino ai confini della terra: si tratta dell’incontro tra Filippo e l’eunuco etiope lungo la strada che discende da Gerusalemme a Gaza, un incontro preparato da Dio e non solo frutto di un progetto umano, secondo lo scrittore. L’apostolo Filippo, uno dei Dodici (cf. At 1, 13), rappresenta nel quadro della missione cristiana gli ambienti degli ellenisti, i quali di norma si rivolgevano a strati di persone marginali del giudaismo. E tale sembra essere l’etiope. Secondo alcuni critici egli sarebbe un proselito vero e proprio, secondo altri apparterrebbe alla categoria di quei pagani «timorati di Dio». Non vi è dubbio in ogni modo che avesse simpatia e conoscenza della religione d’Israele, come dimostra il fatto che leggeva il profeta Isaia e che stesse tornando da un pellegrinaggio compiuto a Gerusalemme. Ma qui interessa mettere

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a fuoco, per quanto il testo lo consenta, la fisionomia della persona che l’apostolo per impulso provvidenziale incontra. Si tratta, come si diceva, di un etiope, che viene dunque da una regione lontana, che pure aveva conosciuto l’ebraismo; di un eunuco (ma non è chiaro se questo termine si riferisca a una condizione fisica oppure non sia che un titolo corrispondente ad «alto funzionario» (espressione che Luca avrebbe aggiunto immediatamente per spiegare a un lettore meno provveduto il primo vocabolo). Questi in ogni modo rivestiva un posto di alta responsabilità, sovrintendendo a tutti i tesori della regina degli etiopi, cui l’autore degli Atti sembra dare un nome, Candace (ma Candace è pure il titolo attribuito ai re dell’Etiopia, corrispondente in Egitto al titolo di Faraone). Il breve dialogo tra i due rispecchia l’insegnamento catechistico impartito da Filippo e culmina con l’amministrazione del battesimo. Se l’etiope ha da essere annoverato tra i pagani giudaizzanti, Luca avrebbe narrato con il suo racconto la conversione del primo pagano, che quindi sarebbe stata compiuta da Filippo e non da Pietro: ne sarebbe stato il protagonista un etiope che, dopo il battesimo avrebbe continuato, pieno di gioia la sua strada, evidentemente per raggiungere attraverso un lungo cammino la sua terra. Del resto prima ancora dell’episodio degli Atti, l’Etiopia si sente legata al cuore del cristianesimo per altri tramiti. Secondo una tradizione, la sacra famiglia fuggendo la persecuzione violenta suscitata da Erode in Palestina, oltre che in Egitto, si sarebbe recata in Etiopia, mentre straordinaria fu ed è la devozione nella Chiesa di quella terra verso Maria, testimoniata, tra l’altro, dalla produzione poetica e dalle numerose feste liturgiche annuali in suo onore. Come si accennava, d’altronde Maria era considerata della stirpe dei Salomonidi; ma, a sua volta, Menilek I, capostipite della famiglia reale, era ritenuto figlio di Azieb e di Salomone. L’EVANGELIZZAZIONE DELLA TERRA ETIOPICA NEL IV SECOLO. IL REGNO DI AXUM La narrazione degli Atti non ha tuttavia alcun seguito storicamente accertato circa l’evangelizzazione della terra etiopica. Occorre attendere i primi decenni del IV secolo, il periodo che segue immediatamente il riconoscimento nell’Impero romano della nuova religione da parte di Costantino per avere notizie più sicure. Le for-

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nisce Rufino di Aquileia nella sua Historia ecclesiastica. Quest’autore intorno al 402-403 traduce in lingua latina i dieci libri della Historia ecclesiastica scritta poco meno di un secolo prima da Eusebio di Cesarea e ne integra la narrazione fino al 395, anno della morte di Teodosio I, aggiungendo all’opera eusebiana, che giungeva alla morte di Licinio (324) e alla presa del potere da parte di Costantino quale unico imperatore, due libri, forse sulla traccia della Storia per noi scomparsa di Gelasio, secondo successore di Eusebio nella sede di Cesarea di Palestina e nipote di Cirillo di Gerusalemme. Ora, nel primo dei nuovi libri (9-10), Rufino racconta che all’epoca di Costantino due fratelli di origine siriaca, Frumenzio ed Edesio, dopo il naufragio della loro nave, ebbero modo di ripararsi in un porto, si può supporre non lontano da Adulis. Mentre i marinai della nave, loro compagni, furono uccisi, i due fratelli vennero risparmiati, ma ridotti in schiavitù e condotti presso la corte del regno di Axum; ove si fecero ben volere, tanto che i due fratelli ebbero nel paese in cui erano giunti cariche di notevole rilievo. Tra il 325 e il 330 morì il re di quel regno, Ella Amidà, lasciando il potere alla sua vedova e al figlio ‘Êzânâ, ancora minorenne. Qui in particolare la storia di Frumenzio ha singolari analogie con la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe, prima venduto dai fratelli a mercanti madianiti, poi caduto in disgrazia e incarcerato e finalmente nominato viceré d’Egitto dal Faraone. Frumenzio – che gli abissini denomineranno poi «rivelatore della luce» (Abbâ Salâmâ) – nella sua veste di ministro della regina reggente, domanda ed ottiene che ai cristiani dimoranti nella regione – ve ne erano tra i mercanti greci e romani giunti fin là – fosse concesso il libero esercizio religioso e fosse data facoltà di costruire luoghi di culto per celebrare i riti loro propri; Rufino riferisce che il racconto da lui esposto risale ad uno dei fratelli, Edesio. Egli avrebbe avuto modo di incontrarlo personalmente a Tiro in occasione della ordinazione sacerdotale di Edesio stesso. Quanto a Frumenzio si sarebbe recato ad Alessandria d’Egitto, nel tempo in cui era patriarca della città Atanasio, anche per informarlo degli eventi vissuti e per chiedere che nella regione evangelizzata fosse inviato un vescovo. Ma Atanasio consacra a quel ministero il medesimo Frumenzio. Come è stato notato «non risulta chiaro il motivo per il quale Frumenzio andò a presentarsi ad Alessandria anziché ad Antiochia; forse le ragioni vanno ricercate in legami preesistenti tra le primitive comunità cristiane etiopiche e le viciniori sedi episcopali egiziane. Sta di fatto che Frumenzio, ricevendo

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l’ordinazione episcopale da Atanasio, pose la Chiesa d’Etiopia alle dipendenze del patriarca d’Alessandria; le due Chiese resteranno legate anche nella fede monofisita» 1, come si vedrà più oltre. Meglio di Rufino che usa un’espressione vaga (quella di India ulterior), una lettera inviata dall’imperatore Costanzo precisa il nome della terra di elezione dei due fratelli ed il periodo in cui operano, una lettera scritta da Costanzo II nel momento di una grave crisi interna alla Chiesa di Alessandria, dopo che l’imperatore si era schierato interamente a favore dell’arianesimo e stava intervenendo nel campo religioso. In quel tempo egli era intervenuto per insediare con la forza nella sede di Alessandria Giorgio di fede ariana, che entrerà in possesso della sua carica all’inizio del 357, al posto di Atanasio. In quel frangente Costanzo scrive al re di Axum, ‘Êzânâ e a suo fratello fie‘âzânâ, perché provvedano a rinviare ad Alessandria Frumenzio; questi in tal modo potrà riconoscere e assoggettarsi al nuovo patriarca. La missiva è del 356 ed è conservata al cap. 31 dell’Apologia di Atanasio. Non si deve infatti dimenticare che proprio il re ‘Êzânâ, secondo Rufino, si converte al cristianesimo, religione che diviene nel regno di Axum quella ufficiale. Conferma il fatto una iscrizione nella quale il re invoca il Dio unico invece delle divinità pagane, la cui menzione si rileva in altre precedenti iscrizioni. Egli tuttavia non si dichiara cristiano, tanto che si è supposto che sia passato dalle credenze pagane ad una fede monoteistica più che propriamente cristiana. L’iscrizione di cui ora si è detto inizia con le parole: «Per la potenza del Signore del cielo, che è in cielo ed in terra, vincitore di chiunque esista! ‘Êzânâ (…) re dei re, figlio di Ella Amidà, che non è vinto da nemico». E dopo avere celebrato le proprie vittorie sulle genti Noba ed avere minuziosamente elencato gli uomini uccisi, quelli fatti prigionieri e il bottino acquisito, conclude: «Affidai questo trono, che eressi, al Signore del cielo che mi ha fatto regnare ed alla terra che lo porta. Se qualcuno lo svella, danneggi o distrugga, siano divelti e sradicati dalla terra egli e la sua gente! Ed eressi questo trono per la potenza del Signore del cielo» 2. Come nota E. Cerulli 3, è chiara la cautela nel dichiarare da parte del re la sua posizione religiosa che rivela da una parte la sua

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O. Raineri, La spiritualità etiopica, Roma 1996, p. 22. Cf. pure infra, pp. 138s. Il testo dell’intera iscrizione in traduzione italiana è riportato da E. Cerulli, La letteratura etiopica, Firenze-Milano 19683, pp.16s., donde si sono desunte le frasi citate. 3 Cf. op. cit., p. 18.

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preoccupazione «di evitare che la conversione alla nuova religione desse una troppo forte scossa al suo regno» e che d’altra parte contiene «un antico indizio di quella ponderata prudenza di espressioni e di studiato uso delle complicate possibilità della lingua etiopica che poi saranno, per secoli e secoli, tipiche della letteratura politica del paese». È stato ipotizzato che la conversione di ‘Êzânâ sia stata ispirata anche da motivi politici al fine di allacciare buoni rapporti con gli imperatori di Costantinopoli. Il regno di Axum aveva nemici sia tra le popolazioni del nord sia tra quelle che abitavano l’opposta sponda dell’Arabia, sulle quali non era da sottovalutare l’influsso dell’Impero sasanide, allora in espansione. Infatti se Diocleziano alla fine del III secolo aveva potuto imporre a Narsete il trattato di Nisibi (298), con cui la Mesopotomia romana veniva estesa fino al Tigri, ed era imposto un “protettorato” all’Armenia meridionale, più tardi, dopo la morte di Giuliano imperatore avvenuta nel 363 durante una spedizione giusto sui confini orientali contro i sasanidi, l’Impero di questi ultimi si consolida. Giacché, al tempo di Gioviano (363364), i romani perdono la Mesopotamia e l’Armenia e Sapore III (383-388) si adopera a perseguitare i cristiani che abitavano nel territorio da lui governato. Tornando a Rufino si deve osservare che la sua testimonianza, confermata da altre fonti, sembra degna di fede. Essa, tra l’altro, è stata ripresa da Storie ecclesiastiche successive, quali quelle di Socrate o di Sozomeno, e da testi liturgici. I RAPPORTI TRA LA SIRIA E L’ETIOPIA CRISTIANA Nel V-VI secolo la Chiesa etiopica si arricchisce di un nuovo apporto proveniente dalla Siria. Un’opera che si intitola Gadla Sâdqân o Vita dei Giusti, scritta a distanza di molti secoli, probabilmente nel XV secolo narra le vicende di un gruppo di monaci provenienti da Rom, ossia dall’Impero romano cristiano d’Oriente nella seconda metà del V secolo, i quali, rendendo una testimonianza e compiendo un’opera collettiva, in certo modo realizzarono la cristianizzazione dell’Etiopia, se con il termine «cristianizzazione» intendiamo una fase che segue all’annuncio cristiano iniziale, che può definirsi di «evangelizzazione». Il che evidentemente non impedisce che nel contesto sociale non si manifestino opposizioni e resistenze,

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come appunto accade ai «Giusti», che muoiono martiri e, anzi, devono essere considerati i primi martiri della Chiesa d’Etiopia. Dopo l’invocazione del nome della Trinità, così inizia la Vita dei Giusti, che si annovera tra i discorsi omiletici e che si presenta in forma prosastica con parti rimate: «Questo è lo scritto della storia dei padri santi che migrarono da Rom, nei giorni di Al-Amid, re d’Etiopia 4, la loro preghiera e la loro benedizione sia con voi, nei secoli dei secoli, amen! / Narrerò a voi, fratelli miei, io, peccatore e colpevole, / la storia di questi Giusti / che veramente valorosi, / monaci, lottatori, non hanno (in sé) falsità; stelle lucenti, / perfetti nell’operare la giustizia, / puri come angeli / e splendenti come il sole: uccisi col martirio della fame / e viventi col nutrimento dello spirito; / colombe mansuete (cf. Mt 10, 16) / e pecore scelte; infaticabili nell’operare la giustizia, /obbedienti alla voce del Signore, / sprezzanti delle cose del mondo; che il flutto delle tempeste non sommerse, / che viaggiarono sul carro della luce (2 Re 2, 11)». Più oltre, nello scritto si dice che, lasciata la città di Rom, quei «Giusti» passarono a Gerusalemme e poi in Egitto, per arrivare infine in Etiopia e là peregrinare nella vastità del paese: «Dissero: “Dividiamoci tra noi il nostro luogo”. E si rattristarono per questa loro separazione. Quindi questi santi partirono e migrarono verso la campagna di Bur; altri vagarono sui monti Matarà, altri vagarono nella campagna di Baracnahà, altri vagarono per la campagna di Sòira e i suoi monti e i suoi abitanti e Add Heiàu 5». «Quando si ribellarono di nuovo le genti del Bur e si dimenticarono del Signore, per la preghiera dei santi, il Signore suscitò Kâlêb, re di Axum 6, e aprì gli abissi della terra e fece estendere davanti al(le genti del Bur) le milizie reali» (…), le quali «devastarono la regione e uccisero tutti gli abitanti del luogo (…). E quando (il re) ebbe distrutto gli infedeli al Signore, i santi di Rom andarono da lui e gli dissero. “Pace a te”. E fu benedetto da essi. E ho udito che li interrogò tutti, e gli parlarono, e ancora disse loro: “Per quanti an-

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Al-Amid è re di Axum nella seconda metà del V secolo. Si tratta di province, o di centri o di massicci situati nella regione di cui si parla. È un re vissuto nel VI secolo.

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ni siete rimasti”. E gli risposero: “Trenta”. E gli dissero: “La pace del Signore sia con te!”. E fu benedetto da essi». «Quando morirono, fu gioia nei cieli, come si narra nel profeta: Preziosa è la morte del giusto, al cospetto del Signore (Ps 115, 15) (…). Per la loro grandezza, il Signore suscitò un re, e venne ed edificò una chiesa, e la adornò e abbellì con pietre e anche (con) legno di albero di cedro; fece fare di cedro le sue colonne e i battenti delle sue porte, e ornò tutti i suoi muri con immagini, cosicché restarono ammirati di essa tutti gli abitanti della regione, e le rendevano omaggio» 7. Ancora oggi la Chiesa etiopica commemora i «Giusti» il 29 e il 30 ottobre, come ancora oggi venera le loro reliquie a Matarà e a Baracnahà. I portoghesi che nel 1541, sotto il comando di Cristoforo da Gama, andarono in quelle zone in aiuto del re etiopico Claudio (1540-1559), che fronteggiava i mussulmani, videro i loro corpi mummificati. La tradizione vuole che questi missionari fossero venuti da Antiochia di Siria e che di là avessero recato non pochi usi ed elementi della loro Chiesa originaria. Anzi, più precisamente, essi si sarebbero allontanati dalla loro terra dopo il concilio di Calcedonia del 451 e dopo la condanna avvenuta in quell’occasione del monofisismo; quei monaci sarebbero appunto rappresentanti di tale dottrina, fuggiti dall’Impero romano d’Oriente per evitare le persecuzioni contro di loro, passando nello Yemen arabico e poi approdando sulle coste africane, per raggiungere il regno di Axum. Come dopo il concilio di Efeso del 431 e la condanna di Nestorio, i suoi seguaci si allontanarono dall’Impero costantinopolitano ormai a loro avverso e migrarono verso Oriente portando il messaggio di Cristo, secondo la fede nestoriana, fino in Cina, come analogamente era accaduto nel corso del III secolo ai fedeli di Mani, così sarebbe successo intorno alla metà del V ai monaci venuti dalla Siria in Etiopia, di fede monofisita. Ciò hanno sostenuto molti studiosi e ciò afferma la stessa Chiesa ortodossa etiopica.

7 La traduzione italiana della Vita dei Giusti è di O. Raineri, pubblicata in «Nikolaus», Bari, 6/1 (1978) 143-163 (ora si può leggere anche nel volume citato a cura dello stesso studioso, La spiritualità etiopica, pp. 79-99).

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L’EGITTO ELLENISTICO E COPTO E LA CHIESA ETIOPICA Tuttavia questa ipotesi negli ultimi decenni è stata messa in dubbio. Il testo contenente la Vita dei Giusti non accredita l’idea sopra esposta; essa indica con chiarezza il cammino fatto dai monaci provenienti da Rom per giungere nell’Africa orientale attraverso la Palestina (Gerusalemme) e l’Egitto, e non attraverso l’Arabia fino allo Yemen. Anzi, se è vero che la presenza della Chiesa siriaca risulta ben attestata nella penisola arabica fino allo Yemen, occorre aggiungere che si tratta della Chiesa nestoriana 8 e non di quella monofisita. Ed anche l’altra asserzione, secondo la quale i monaci dei quali si sta discorrendo, in quanto provenienti dalla Siria, avrebbero influenzato la Chiesa etiopica è messa in discussione. È stato affermato che la questione degli influssi siriaci in Etiopia va sostanzialmente riesaminata 9. Rimane invece più certo il periodo (l’ultima metà del V secolo) in cui i monaci estranei all’Etiopia vi arrivano per compiere quella che è stata anche definita la «seconda cristianizzazione» del paese, anche con la fondazione di monasteri; altrettanto assodato rimane il fatto che la Chiesa in epoca axumita e successivamente adotti il monofisismo, analogamente alla Chiesa egiziana. Intorno al V-VI secolo il cristianesimo sembra dunque essere relativamente radicato nel paese, anche se vi persistono costumi e credenze pagane presso gruppi indigeni, che non hanno un libro sacro e neppure riti cultuali comunemente accettati. All’opera dei monaci va fatta risalire la traduzione nell’antica lingua etiopica, il ge’ez, della Sacra Scrittura. Da un punto di vista culturale è notevole rilevare che le traduzioni sono condotte dal greco a segno dell’importanza e dell’influenza che questa lingua riveste agli inizi della letteratura etiopica. Esse si susseguono tra il IV e il VII secolo. Accanto all’Antico e al Nuovo Testamento – ma i libri canonici considerati tali dal canone etiopico non coincidono con quelli del canone tridentino – si annoverano parecchi libri apocrifi e pseudoepigrafi tradotti (alcuni di essi, però, sono tenuti per autentici dalla Chiesa di quel paese), i quali hanno non di rado grande im-

8 Cf. G. Fiaccadori, Yemen nestoriano, in Studi in onore di E. Bresciani, Pisa 1985, pp. 195-218. 9 Cf. P. Marrassini, Some considerations on the problem of the “Syriac influences” on Axumite Ethiopia, in «Journal of Ethiopian Studies», 23 (1990) 35-46 (cf. p. 139, n. 7).

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portanza perché conservano il testo più completo rispetto a quello rimasto in altre lingue, a cominciare dal greco e dal latino; sono tradotti, per esempio, l’Apocalisse di Ezra, il Libro dei Giubilei, l’Ascensione di Isaia o ancora il Pastore di Erma e altri scritti di Padri, a cominciare da alcuni di Cirillo di Alessandria, i quali, insistendo fortemente sull’unità divina ed umana di Cristo incarnato, si pongono in polemica con le concezioni nestoriane. Ma è questo un capitolo approfondito nelle pagine che vi dedica qui di seguito Paolo Marrassini. Nel quadro storico tracciato un particolare a questo punto ci interessa: i cenni fatti valgono per mostrare il forte legame, già apparso per altri motivi, tra gli ambienti di lingua greca e l’Etiopia. Nel 525 d.C. il regno axumita, sotto il re Kâlêb, conquista lo Yemen e tende a imporre il proprio dominio sull’Arabia, e anche in questo caso la Chiesa in certo modo è interessata: la conquista infatti accade in concomitanza delle persecuzioni subite nella penisola arabica dai cristiani di Nagran. Tuttavia la nuova estensione del territorio non si rivela duratura a causa di una certa autonomia dei responsabili dell’esercito occupante verso i re axumiti, che pure li avevano inviati, e della pressione dei persiani che nel 572 riescono a ricacciare gli etiopici dalla terra yemenita. GLI ARABI MUSSULMANI NEL VICINO ORIENTE E IN EGITTO Ma poco prima della metà del VII secolo avvengono fatti che hanno riflessi gravi anche per l’Africa orientale, come – e ancor più direttamente – per molte altre terre del Vicino Oriente: mi riferisco alla conquista araba. Sotto il califfo ‘Umar ibn al-Khattab i mussulmani nell’agosto del 636 sono vittoriosi sul fiume Yarmuk, che sfocia nel Giordano, sui bizantini, i quali sono costretti, in seguito alla sconfitta, a lasciare la Siria e la Palestina. La strada verso l’Egitto è aperta dinanzi ai vincitori, che ben presto sottomettono l’antica terra dei Faraoni divenuta cristiana. Negli stessi anni un’altra vittoria arride ai mussulmani presso al-Qadisiyya in Iraq contro i persiani, la quale consente loro di penetrare nel cuore di quell’antico Impero 10. In tal modo il regno axumita cristiano si vede chiusa la via verso l’Arabia e d’altra parte, pur non essendo toccato dall’espansione 10 Cf. L’islam oggi, a cura di W. Ende e U. Steinbach, tr. it., Bologna 1991, p. 57 e passim.

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dei mussulmani, che avevano trovato nella Nubia (con centro in Dongola), una resistenza insormontabile, si trova isolato rispetto ad Alessandria, suo punto di riferimento tradizionale e vitale e, più latamente rispetto all’Oriente cristiano. A ciò si aggiunge il movimento delle popolazioni cuscitiche che da est e da nord premono sui confini del regno axumita che si sta indebolendo. A cominciare dal VII secolo e fino al XII si profila un periodo di decadenza non solo civile, ma anche religiosa, e proprio perciò il cristianesimo è assunto a religione nazionale. Il centro politico dell’Etiopia si sposta verso sud, nella regione del Lasta, dove si instaura, con la nuova capitale, il piccolo regno cristiano della dinastia Zagué (il centro religioso rimane invece nel nord, ad Axum). È il tempo in cui sono edificate le caratteristiche chiese monolitiche di Roha nel Lasta attribuite al negus Lalibelà. Verso la fine del XIII secolo alla dinanstia Zagué succede quella salomonide, che pretende di discendere da Menilek, di cui si è detto all’inizio. LA NUOVA FIORITURA DELLA CHIESA ETIOPICA NEI SECC. XIV E XV Il paese gode di una relativa nuova prosperità (nei secoli XIV e XV i confini del regno si allargano), come pure la Chiesa: sono riviste le traduzioni bibliche in ge’ez, sono tradotti o composti libri per il culto, hanno origine ordini religiosi che contribuiscono a fare conoscere la fede di Cristo in zone rimaste ancora pagane, sono riallacciate relazioni più frequenti con Alessandria, in concomitanza anche con una nuova vita che assume il patriarcato egiziano ad opera di un gruppo di preti copti-arabi che uniscono la dottrina alla sapienza. Anche in quel tempo il metropolita continua a venire dall’Egitto, anche se si costituisce una gerarchia ecclesiastica regolare indigena. È una stagione viva e nel seno della Chiesa nascono anche scismi e vere e proprie eresie: intorno alla Trinità in cui si riconoscono tre nomi, ma non tre persone; intorno all’uomo che si nega sia stato creato ad immagine di Dio; intorno a Maria e alla Croce, cui non si accorda venerazione, ed altre ancora, nate in parte dalla lettura e dall’interpretazione di scritti apocrifi, creduti di origine apostolica. Movimenti che nascono specialmente in ambito monastico, mentre nel popolo si perpetuano forme superstiziose e pratiche pagane ra-

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dicate. Agli scismi, alle eresie e alle superstizioni diffuse si oppongono specialmente nel XV secolo i re etiopici. I PORTOGHESI E LA MISSIONE DEI GESUITI Nella prima metà del 1500 la Chiesa vive un periodo di sofferenza e di lotta per la resistenza che deve opporre alla invasione dei mussulmani guidati da Ahmed ibn Ihbrahim. Sono distrutti monasteri e chiese, vanno perduti libri sacri. I re si rivolgono ai portoghesi ed essi intervengono sotto la guida di Cristoforo da Gama il quale però è catturato e nel 1542 decapitato dai mussulmani. In quei frangenti sia il re Lebna Dengel (1508-1540) che il suo successore, il re Claudio (1540-1559), esprimono sentimenti amichevoli per il cattolicesimo e il papa. Ma, allontanatosi il pericolo, il re Claudio torna a mostrarsi ostile verso Roma e nella sua Confessio Claudii, redatta poco prima della sua morte, difende il Credo alessandrino. Intanto, alla metà circa del XVI secolo, parte dall’Europa, da Lisbona, una missione di gesuiti. Come scrive O. Raineri: « [Essi erano] guidati da p. Andrea Oviedo mentre sant’Ignazio indirizzava ai partenti i suoi “Recuerdos que podran ayutar para la reduction de los reynos del Preste Juan (re d’Etiopia) a la union de la Iglesia y religion catholica”, documento che rivela la delicata conoscenza della psicologia orientale unitamente alla grande prudenza e discrezione del santo. La missione, dopo un difficile periodo sotto il patriarcato di Oviedo (†1577) e nel successivo ventennio rifiorì con l’arrivo del p. Pietro Paez (1603), eccezionale figura di sacerdote, di studioso, di esploratore, che indusse il re Susenyos a proclamare la sua adesione al cattolicesimo. L’unione durò fino al 1632, quando il figlio di Susenyos, Fåsiladas, succeduto al padre sul trono d’Etiopia, ripristinò la fede monofisita alessandrina» 11. Anzi, Fåsiladas (16321667) ordinò che solo quest’ultima fede fosse praticata; e così pure fece Giovanni I (1667-1682), che gli succedette sul trono. I gesuiti furono allontanati, dopo avere subito persecuzioni. Poco più tardi, sotto il re Yostos (1711-1716) tre francescani penetrarono nel paese, ma furono condannati da un sinodo e lapidati.

11 O.

Raineri, La spiritualità etiopica, cit., p. 26.

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LE CONTROVERSIE TEOLOGICHE IN SENO ALLA CHIESA ETIOPICA Un forte movimento di resistenza fu messo in opera dai monaci, custodi di una tradizione antica. Essi animarono moti di insubordinazione, che furono repressi, verso i re e la propria gerarchia ecclesiastica e diedero origine a una disputa teologica che interessò per lungo tempo – fino alla seconda metà del XIX secolo – quella Chiesa. Punto di partenza fu l’interpretazione da dare a un passo degli Atti degli Apostoli (10, 36ss.), là dove, dopo l’incontro tra Pietro e Cornelio, è messo sulla bocca di Pietro un discorso che, dopo avere collocato il messaggio che sta per essere pronunciato nel contesto della situazione, proclama il kerygma cristologico: «Questa è la parola che egli [Dio] ha inviato ai figli di Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti. Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: cioè come Dio unse di Spirito Santo e di potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui». Il punto che suscitò la controversia sta in At 10, 38 12: Luca vuole sottolineare che Gesù è l’Unto, cioè il Cristo, che riceve una unzione messianica, riferentesi alla sua umanità. Ma interpretando così si deve credere che, dopo l’incarnazione, il Verbo abbia avuto una natura umana distinta dalla divina; affermazione questa che per certi ambienti etiopici suonava di timbro antimonofisita, e che, si può presumere, fosse stata fatta valere dai gesuiti al tempo della loro missione. Si formò così il gruppo dei cosiddetti «unionisti», i quali ritenevano che l’incarnazione fosse avvenuta e operante senza l’intervento dello Spirito Santo; il concetto di unzione espresso dagli Atti alluderebbe all’unione diretta del Verbo con la carne. Gli «unzionisti» invece ponevano in luce che l’intervento dello Spirito Santo sarebbe stato essenziale: infatti lo Spirito, mediante l’unzione, avrebbe effettuato l’unione del Verbo e della carne in Cristo. Secondo le reciproche accuse, i primi avrebbero sostenuto una dottrina non in linea con il monofisismo; i secondi avrebbero resa minore la dignità del Verbo nei confronti dello Spirito Santo. Animatori delle discussioni furono in particola12 Nel testo greco si legge: jIhsou`n to;n ajpo; Nazarevq, wJς e[crisen aujto;n oj qeo;ς pneuvmati ajgivw/ kai; dunavmei. Nel latino della Vulgata: Iesum a Nazareth, quomodo unxit

eum Deus Spiritu Sancto et virtute.

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re i monaci appartenenti a differenti monasteri ed osservanti Regole diverse. Vennero pure studiate delle formule per giungere a un chiarimento e a un accordo teologico. Ne ricordo due relative naturalmente al punto controverso: si disse di Gesù Cristo che «per unzione fu figlio di essenza» oppure che «fu figlio di grazia». Il dibattito, che si protrasse, come si diceva, molto a lungo nel tempo, non fu solo vivace e animato, ma diede adito a vere a proprie agitazioni; convocò dei concili; vide la ripetuta ingerenza dei re nelle questioni della Chiesa e pure l’elaborazione di ulteriori proposte dottrinali (tra le quali quella delle tre nascite di Cristo: per generazione eterna, per nascita dalla Vergine e per unzione, che ebbe varia fortuna, fino ad essere proibita dalle autorità civili). In un contributo di Ignazio Guidi, pubblicato parecchi decenni fa, ma tuttora illuminante e filologicamente fondato, si osserva che «la controversia sull’unzione e sull’unione è la sola, o quasi, che abbia agitato tutta la Chiesa di Abissinia, perché le questioni ed eresie dei primi secoli, la gnosi, le controversie sulla Trinità sotto Giustiniano, i theopaschiti, l’arianesimo, ecc. non giunsero in Abissinia che era ancora pagana (…). Per ragioni geografiche non vi entrarono le controversie soteriologiche, sulla grazia, sul peccato originale, e altre. Solo vi entrò l’eresia monofisita, probabilmente per opera dei monaci siri, e con questa si collega (…) la tarda controversia sull’unione e l’unzione. Tutte le altre eresie sorte dopo il V secolo non turbarono la Chiesa abissina, separata ormai da Bisanzio e dall’Occidente. E se il clero abissino, nella lotta coi gesuiti, si rifiutava di ammettere la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio per unica spirazione, è non già perché avessero preso o prendessero parte alcuna allo scisma di Fozio e Michele Cerulario, ma perché nel simbolo ricevuto dalla Chiesa abissina, che è quello di Nicea (propriamente del concilio di Costantinopoli del 381) non vi è, come è noto, l’aggiunta “Filioque”» 13. L’ETÀ CONTEMPORANEA Si è visto come fin dalla prima evangelizzazione la Chiesa di Alessandria abbia esercitato la propria giurisdizione sulla Chiesa 13 I. Guidi, La Chiesa d’Etiopia, in Enciclopedia italiana, vol. XIV, Roma 1932, pp. 480-485, s.v. Etiopia. Riconosco il mio debito verso l’esposizione del Guidi, alla quale ho utilmente attinto.

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dell’Etiopia. La liturgia, celebrata in lingua ge’ez fino ad epoca recente (mentre ora tende ad essere celebrata nel moderno amharico) è stata ed è di origine alessandrina, pur risentendo della tradizione siriaca. Da sempre il patriarca della città egiziana aveva consacrato e inviato in quel paese un metropolita (abuna) egiziano. Per la prima volta, con l’annessione dell’Etiopia all’Italia, nel 1936, il metropolita egiziano Cirillo si ritirò nella sua terra d’origine e gli italiani con un atto di imperio proclamarono l’autocefalia della Chiesa, ma dopo la sconfitta di questi ultimi per opera degli inglesi nel 1941, Hailé Selassié, tornato sul trono, richiamò l’abuna Cirillo dall’Egitto. Nel 1948 la Chiesa d’Alessandria consentì, dopo circa 1500 anni di diversa tradizione, che il metropolita dell’Etiopia fosse scelto tra il clero indigeno; mentre la Chiesa d’Etiopia ribadì il proprio legame di dipendenza gerarchica dal patriarcato alessandrino. Nel 1951, dopo la morte di Cirillo, il patriarca egiziano consacrò metropolita d’Etiopia il vescovo etiope Basilio, il medesimo che, al Cairo, nella cattedrale di San Marco, nel giugno di nove anni dopo sarebbe stato eletto primo patriarca katholikos d’Etiopia dal patriarca di Alessandria, alla presenza dell’imperatore Hailé Selassié. Nel 1970 a Basilio succedette Teofilo, vescovo di Harar, il quale nel 1976 fu deposto e arrestato per ordine del governo dell’Etiopia socialista, presieduto dal colonnello Mengistu Haile Mariam e poi ucciso in carcere nel 1979. Chiesa e Stato furono ufficialmente separati. Dopo Basilio furono eletti in successione due altri patriarchi che ebbero il beneplacito delle autorità, ma non furono riconosciuti come legittimi da Alessandria. Alla caduta nel 1991 di Mengistu, il patriarca in carica, Merkerios, accusato di collaborazionismo con il regime, rinunciò al suo ufficio e il sinodo dei vescovi nel gennaio del 1992 elesse quale quinto patriarca della Chiesa ortodossa d’Etiopia Pawlos Gabra Yohannes. Nel 1993 Giovanni Paolo II ricevette l’abuna Pawlos in Vaticano e, pochi giorni dopo, questi durante la celebrazione della divina liturgia, avvenuta nella basilica di Santa Maria in Trastevere, esprimeva la propria riconoscenza al Pontefice per avere concesso una chiesa a Roma per le assemblee liturgiche dei fedeli etiopi abitanti nella capitale italiana 14. 14 Ho tratto queste notizie, relative alla Chiesa etiopica nel XX secolo, dall’introduzione al libro di O. Raineri, La spiritualità etiopica, più volte citato (pp. 27ss.). D’altronde di esso mi sono valso abbondantemente nel corso di queste mie pagine.

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Da pochi anni la Chiesa etiopica, la cui storia si è seguita a grandi linee fino al presente, è autocefala. Oggi essa non si definisce monofisita, ma preferisce dirsi «non calcedonese», per il fatto di riconoscere solo i primi tre concili ecumenici (di Nicea, Costantinopoli ed Efeso), escludendo il concilio di Calcedonia. Del resto la sua sottomissione gerarchica ad Alessandria e la sua adesione a quella parte maggioritaria di quest’ultima Chiesa che un tempo, dopo Calcedonia, scelse di aderire al partito monofisita e non al partito melkita, la fa dichiarare «non calcedonese». Il numero degli appartenenti alla Chiesa etiopica secondo il concilio mondiale delle Chiese è di 16 milioni. Una stima plausibile, tenendo conto che la popolazione ammonta a poco meno di 53.500.000 persone (un numero questo su cui non tutte le fonti concordano) e che circa il 50% sono etiopici ortodossi, annovera tra questi ultimi circa 27 milioni di persone. Essi si trovano in diaspora in Australia e in Occidente, dove si calcola siano circa 90.000 e fanno capo a tre circoscrizioni: degli Stati Uniti e del Canada, dell’America Latina e dei Caraibi e dell’Europa occidentale 15. I CARATTERI SPECIFICI DELLA CHIESA ETIOPICA La Chiesa etiopica (quella che da molti secoli è la Chiesa ortodossa etiopica) ha caratteristiche specifiche rispetto a tutte le altre, nonostante il fatto che dalle origini fino al 1959 sia dipesa giuridicamente da Alessandria copta: con quella della Nubia è la prima delle Chiese che si instaura e diffonde il messaggio di Cristo in una terra dell’Africa nera. Non solo, essa non è il risultato dell’opera missionaria europea, ma nasce e fiorisce ben prima di tante cristianità europee. Inoltre non reca l’impronta della cultura e della mentalità ellenistica alessandrina e neppure di quella costantinopolitana, come dimostra, tra l’altro, lo stile degli edifici cultuali. E ancora, non è mai stata sottoposta al dominio dell’islam, pur essendo stata più volte minacciata. Quella etiopica è una comunità povera di mezzi, con strutture essenziali che tuttavia – o forse anche per ciò – è ricca di fedeli che vivono una religiosità popolare intensa, anche con 15 Cf. sulle cifre qui indicate, R. Roberson, The Eastern Christian Churches, cit., pp. 33s., in parte corrette dalle notizie desunte dal più recente Atlante geografico de L’Enciclopedia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2004, pp. 360ss.

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qualche tratto non interamente cristiano e con usanze e consuetudini persistenti, che risalgono molto indietro nel tempo. Nella vita e nella pratica cristiane vissute con timbro affettivo e corale sta la forza di quella Chiesa. I preti, i diaconi, i cantori, insieme ai monaci, tutti numerosissimi 16, ne sono la spina dorsale. La Chiesa di Etiopia manifesta dunque caratteristiche del tutto singolari che la distinguono da ogni altra. Le etnie numerose che la animano – in primo luogo le tigrine e le amhariche – riconoscono nella fede cristiana, adottata fin dal IV secolo, la loro vera e irrinunciabile identità e su di essa fondano il senso nazionale, come d’altronde fanno altre cristianità orientali. Ed oggi, anche dopo la dura esperienza vissuta sotto il regime marxista di Mengistu, il cristianesimo etiopico continua a manifestare vitalità e tratti del tutto singolari nell’ambito delle comunità cristiane nel mondo.

16 Si parla di 100.000 persone appartenenti al clero, di 60.000 diaconi, di molte decine di migliaia di monaci o di abitatori dei monasteri (è uso comune per chi è in condizione di vedovanza ritirarsi fra i monaci), in un paese, come è stato notato, che ha offerto tradizionalmente tre sole vie per la vita: quelle del contadino, del soldato e del prete o del monaco. Occorre notare che i dati statistici per l’Etiopia sono assai approssimati, anche per quanto riguarda la popolazione – tra i 50 e i 55 milioni – e il numero dei cristiani (tra i 25 e i 30 milioni, in gran maggioranza ortodossi, cui si aggiungono 1.500.000 protestanti e 200.000 cattolici). Traggo questi dati, come le ultime osservazioni fatte nel testo dal libro di R. Morozzo della Rocca, Le Chiese Ortodosse. Una storia contemporanea, Roma 1997, pp. 195ss. Più recentemente A Dorling Kindersley Book, London 20003 (Terra Sat. Dizionario Enciclopedico Geografico, tr. it., Milano 2001, pp. 188ss.) indica la popolazione della Repubblica Federale Democratica dell’Etiopia in 62, 1 milioni, così suddivisa per religioni: 40% ortodossi (circa 25 milioni), 40% di mussulmani, 15% di seguaci delle credenze locali, 5% di altri. Le diocesi della Chiesa ortodossa etiopica sono oggi una trentina ed hanno sede, oltre che nel paese, in altri luoghi (da Gerusalemme [città che ha sempre rappresentato un punto di riferimento essenziale lungo i secoli] a Gibuti, da Khartôum a Londra a New York) dove risiedono etiopi. Un punto delicato e sul piano civile e su quello ecclesiastico è costituito dall’Eritrea. Fino ad anni recenti, precisamente fino al 1993, il patriarcato etiopico e il governo prima di Hailé Selassié e poi di Mengistu, la consideravano sotto la propria rispettiva giurisdizione e quindi facente parte integrante della nazione. Dal 1993 è stata dichiarata ufficialmente la sua indipendenza, cosa che da una parte ha privato il paese di uno sbocco al mare e quindi di possibilità di commerci, contatti e relazioni da sempre importanti, d’altra parte ha indotto i circa 1.500.000 di eritrei ortodossi a separarsi dai correligionari etiopici ed anzi a desiderare di ottenere per la loro chiesa l’autocefalia; tanto che essi intrattengono rapporti più stretti con il patriarcato di Alessandria piuttosto che con quello di Addis Abeba. Cf. R. Morozzo della Rocca, Le Chiese Ortodosse, cit., p. 203.

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CAPITOLO VI

LA LETTERATURA ETIOPICA * di Paolo Marrassini

La letteratura etiopica copre un arco di tempo che va dal IV secolo d.C. (dal III se si includono i documenti epigrafici più antichi) ad oggi; fino alla metà del secolo scorso essa era scritta quasi esclusivamente in lingua gheez (o etiopico antico, estintasi prima del sec. X d.C.), ed era tutta di ispirazione cristiana. La fase di questa letteratura che corrisponde al mondo tardoantico greco-romano è quella che va sotto il nome di “axumita”, che fu cioè l’espressione ideologica e letteraria del regno etiopico dell’epoca, quello con capitale ad Axum (a circa 20 Km a SO di Adua, nel Tigré), fiorito all’incirca dal I all’VIII-IX secolo d.C. Il sorgere della letteratura axumita, e quindi di tutta la letteratura etiopica nel suo insieme, fu la conseguenza diretta dell’introduzione del cristianesimo nel paese. Ciò avvenne nel corso del IV secolo, in due fasi, entrambe durante il lungo regno del più grande re di Axum, ‘Êzânâ. La prima fase, quella di organizzazione dei numerosi cristiani grecofoni (di provenienza per lo più egiziana o anche sira) colà residenti, e dell’istituzione di un loro vescovo, è documentata dalla stessa tradizione etiopica posteriore: un greco di Tiro, Frumenzio, si recò dal patriarca di Alessandria, Atanasio II, «da poco insediato in carica» (quindi poco dopo l’8 giugno 328), ottenendone di essere nominato vescovo di quella comunità. Il racconto etiopico deriva, attraverso un intermediario arabo egiziano medioevale, da quello che Rufino (a suo dire, dopo avere direttamente consultato a Tiro un compagno di Frumenzio, Edesio) fa in uno dei due libri originali (il X) da lui aggiunti alla sua traduzione latina della Storia ecclesiastica scritta in greco da Eusebio di Cesarea. Della sua sostan-

* Dalle note sono escluse tutte le indicazioni bibliografiche relative alle opere della letteratura etiopica, che sono raccolte nella Nota bibliografica alla fine del capitolo.

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ziale veridicità fa prova una concatenazione di fonti davvero notevole: che un Frumenzio sia stato nominato vescovo di Axum da Atanasio è provato dalla Apologia scritta da Atanasio contro l’imperatore Costanzo II nel 356, dove si riporta una lettera di Costanzo a due tuvrannoi di Axum 1, con l’ordine di rimandare in Egitto Frumenzio per esservi nuovamente nominato dal nuovo patriarca Giorgio (legittimo, secondo Costanzo, perché ariano come lui). Il testo di Atanasio riceve a sua volta conferma dall’epigrafia etiopica, ove appaiono i nomi dei due personaggi, AiJzana`ς e Sazana``ς, chiaramente ‘Êzânâ e suo fratello S¯e‘âzânâ, capo di una spedizione in una delle iscrizioni del re 2. La seconda fase è quella dell’accettazione del cristianesimo da parte del re stesso, in modi e forme che ignoriamo. Prova inequivocabile ne è, comunque, l’ultima iscrizione di ‘Êzânâ che, in luogo degli dèi pagani delle precedenti, invoca il «dio del cielo e della terra» in una sua versione gheez, ma assai più esplicitamente «il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo», nonché «Suo (di Dio) Figlio Gesù Cristo» in una sua versione greca, confermata da un’altra versione gheez pubblicata successivamente 3. Il dato storico di base, per questa letteratura etiopica delle origini, è il suo contatto con l’Egitto. Tale contatto si era già fermamente stabilito in età pagana, e soprattutto per via marittima, fin dal periodo tolemaico, ma in particolare con lo svilupparsi del commercio delle spezie fra India ed Egitto (e, di qui, per tutto il Mediterraneo) dal I secolo d.C. Su questa rotta commerciale una delle tappe più importanti era costituita da Adulis 4, il porto di Axum (nel golfo di Zula, e pur così distante dalla capitale, secon-

1

L’espressione è di Atanasio, non di Costanzo, che chiama i due ajdelfoi; timiwv-

tatoi, anche se parla loro in tono perentorio.

2 Si tratta dell’iscrizione bilingue in tre scritture DAE 4:7 (greco) = DAE 6:3 (gheez in caratteri sudarabici) = DAE 7:5 (gheez in caratteri etiopici non vocalizzati), ora in E. Bernard - A.J. Drewes - R. Schneider, Recueil des inscriptions de l’Ethiopie des périodes pré-axoumite et axoumite, I, Paris 1991, nn. 185 e 185bis, e 270 e 270bis. 3 Si veda il sommario di H. Engelhardt, TO PARA TOIC BAPBAROIC ERGON OEION. Die Einzwurzelung der Kirche in spätantiken Reich von Aksum, Bonn 1994, pp. 51-67. L’espressione “dio del cielo e della terra” si trova già nel duplicato della versione greca della prima iscrizione di ‘Êzânâ (Recueil..., cit., n. 270bis: 32-33). 4 È per questo che, all’incirca fino al sec. VI d.C., Etiopia e India venivano confuse, e gli axumiti spesso detti “indiani” (mai “etiopi”, termine riservato ai nubiani).

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do lo schema dei «porti di commercio» studiati in antropologia, fra i primi, da K. Polanyi); e di forti influssi della cultura egiziana grecofona abbiamo prove esaurienti, sia dirette che indirette 5. Al momento dell’introduzione del cristianesimo, perciò, fu normale che il regno di Axum rientrasse sotto la giurisdizione del Patriarcato di Alessandria 6, e fin dagli inizi, come dimostra fra l’altro la storia stessa di Frumenzio, il metropolita d’Etiopia fu nominato in Egitto, tanto che la Chiesa etiopica è divenuta autocefala solo nel 1950. È ovvio che questo ha significato, per l’Etiopia, legami privilegiati con la cristianità egiziana, della quale l’Etiopia ha seguito anche tutti gli orientamenti dottrinari. Così, dopo il concilio di Calcedonia del 451, quando la Chiesa copta si allineò con l’eresia monofisita, anche quella etiopica la seguì, per così dire, automaticamente. Una seconda componente nella formazione del cristianesimo etiopico viene comunemente ritenuta quella siriaca. La tradizione etiopica attribuisce ai «Nove Santi», ai «Giusti» (gruppo di missionari operanti collettivamente) e ad altri santi isolati una «seconda cristianizzazione» del paese nel corso del V secolo. Questa tradizione sarebbe una eco della diaspora di monaci verificatasi nel Patriarcato di Antiochia appunto dopo Calcedonia: monaci siri fuggiti in Etiopia vi avrebbero portato vari elementi della loro patria, dalla pianta delle chiese a buona parte del lessico religioso, ed avrebbero anche collaborato alla traduzione delle Scritture; ma di fatto, molte delle prove linguistiche e filologiche finora addotte non reggono ad un’analisi più approfondita (il sistema di adattamento delle dentali e velari greche che si ritrova in etiopico, nei nomi propri biblici, non è quello specificamente siriaco, ma quello in uso presso tutte le lingue semitiche; il numero dei prestiti religiosi siriaci in etiopico va drasticamente ridotto da undici a quattro), e la questione degli influssi siriaci in Etiopia va sostanzialmente riesaminata 7.

5 Per es. le numerose iscrizioni in greco trovate su suolo etiopico e il fatto che il “Periplo del Mare Eritreo” (sec. I d.C.) dica che il locale re Zoskales era «esperto di lettere greche». 6 Cf. U. Monneret de Villard, Perché la Chiesa abissina dipendeva dal Patriarcato di Alessandria, «Oriente Moderno», 23 (1943) 308-311. 7 Cf. P. Marrassini, Some considerations on the problem of the “Syriac influences” on Axumite Ethiopia, «Journal of Ethiopian Studies» 23 (1990) 35-46 (articolo reso

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In assenza di una qualunque possibilità di periodizzazione interna, dobbiamo limitarci a due altre considerazioni di ordine generale. La prima è che, data la sua posizione geograficamente eccentrica rispetto al resto del mondo cristiano orientale, difficilmente potremo aspettarci, dall’Etiopia axumita, un contributo originale alle discussioni dottrinarie che agitavano in quel periodo l’Oriente mediterraneo, ricevute tutte, per quel che ne sappiamo, in modo essenzialmente passivo, come si è visto or ora a proposito del monofisismo. Tuttavia, questo stesso carattere di area laterale ha consentito all’Etiopia di svolgere la funzione se si vuole ancillare, ma comunque importantissima, di conservatrice di opere scomparse, in tutto o in parte, dal mondo tardo-antico; questo, del resto, si riflette nell’essenza stessa del cristianesimo etiopico, spesso accusato (fin dall’arrivo dei portoghesi nel ’500) di tendenze giudaizzanti (divieto di mangiare carne di maiale, di animali morti soffocati, sangue, ecc.), ma che potrebbero essere solo cristiane arcaiche, conservatesi in Etiopia e quasi scomparse altrove 8; per questo, nell’elenco che segue, si presterà attenzione soprattutto ai problemi di ordine filologico, anche in relazione alla possibilità di ricostruzione degli originali. Si suppone che la prima opera ad essere tradotta in gheez sia stata la Bibbia (et. Masòhòaf nel suo insieme, Beluy Kidân l’Antico Testamento, Haddis Kidân il Nuovo), con precedenza data al Nuovo Testamento. Mancano in ogni caso riferimenti cronologici precisi, e l’unica data che si ritiene di possedere, il 678 come anno della traduzione del Siracide (data così tarda da far supporre che

quasi incomprensibile dagli errori tipografici e dalle correzioni arbitrarie dell’editore), e Ancora sul problema degli influssi siriaci in età axumita, in L. Cagni (ed.), Biblica et Semitica. Studi in memoria di Francesco Vattioni, Napoli 1999, pp. 325-337. La teoria sugli influssi siriaci è stata in gran parte ridimensionata anche in base ai due articoli ora citati (cf. per es. M.A. Knibb, Translating the Bible. The Ethiopic version of the Old Testament, Oxford 1995, pp. 25-29; comunicazione personale del 27/4/2003). Questo ovviamente non ha nulla a che vedere con gli influssi siriaci in età post-axumita (cf. in generale W. Witakowski, Syrian influences in Ethiopian culture, in «Orientalia Suecana», [28-29] 1989-1990 191-202), né, eventualmente, con influssi siriaci in età axumita dimostrati per altre vie. 8 Si veda la splendida recensione di M. Rodinson a E. Ullendorff, The Ethiopians, London 1960, «Bibliotheca Orientalis», 21 (1964) 238-245.

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fosse questo l’ultimo libro ad essere tradotto) deriva con tutta probabilità dal fraintendimento della datazione contenuta in un manoscritto 9. Oltre al Nuovo Testamento, anche l’Antico fu tradotto dal greco; per la Vorlage, si propende per la versione dei LXX, ma, date le sensibili divergenze, non sono esclusi, almeno per parti dell’opera, altri modelli testuali (esichiano, lucianico, esaplarico, ecc.). Non poche di queste divergenze richiamano direttamente l’originale ebraico, e sono state perciò attribuite o all’uso dell’esapla, o ad una revisione avvenuta nel XV o XVI secolo; l’uso diretto dell’ebraico nel corso della prima traduzione 10 urta contro il problema degli influssi siriaci citati sopra. A queste due recensioni se ne aggiunge una terza, chiamata «siro-araba» perché condotta su di un testo arabo a sua volta tradotto dal siriaco, ed eseguita nel sec. XIV per iniziativa di uno dei più attivi metropoliti inviati da Alessandria, Abbâ Salâmâ. Come si vede, la versione etiopica della Bibbia ha una storia ancora in gran parte da scrivere, e necessita di un’edizione critica generale, che faccia uso anche delle citazioni bibliche nelle altre opere di età axumita, e ancor di più nelle iscrizioni. È tuttavia nel campo della produzione intertestamentaria (apocrifi e pseudepigrafi dell’Antico e del Nuovo Testamento) che la letteratura axumita riveste il suo interesse maggiore, avendo conservato il testo di alcune opere altrove scomparse del tutto o in parte: e ciò soprattutto perché in essa tali opere hanno continuato ad essere considerate come canoniche, mentre nel resto della cristianità molte sono uscite dall’uso ufficiale nel corso del IV e del V secolo. Di tali opere sono conservate in versione etiopica il III libro di Ezra (per il quale essa non sembra rivestire particolare importanza), e soprattutto il IV, o Apocalisse di Ezra (et. Za‘ezrâ nabiy) tramandataci in sei lingue (latina, siriaca, etiopica, araba, armena, georgiana; perduti l’originale ebraico o aramaico e la traduzione greca, sulla quale furono fatte tutte quelle attestate), fra le

9 Come suggerito da A. Rahlfs, Septuaginta-Studien, Göttingen, 19652, pp. 679670. Il codice è datato al 6170 (o più probabilmente al 7170=1677/8 d.C.). 10 Cenni e bibliografia su tutto ciò che precede in M.A. Knibb, Hebrew and Syriac Elements in the Etiopic Version of Ezekiel, «Journal of Semitic Studies», 33 (1988) 11-21.

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quali la versione etiopica rappresenta la terza per importanza; i Paralipomeni di Geremia o di Baruch (et. Tarafa nagar zabârok), dove nella parte finale l’etiopico supplisce alla mancanza di uno dei due rami della tradizione greca originale (esistono anche una versione armena e una in antico slavo ecclesiastico). Il testo etiopico fu edito nel 1866 sulla base di tre manoscritti, mentre oggi se ne registrano quasi trenta; una nuova edizione è stata perciò già approntata. Importanza primaria riveste l’etiopico per il Libro di Henoch (et. Masòhòafa Hênok), conservato per intero solo nella versione gheez, e solo molto parzialmente in quella greca (circa 360 versetti contro i 1.062 dell’etiopico; inoltre, citazioni in autori antichi, spec. Sincello) e, in misura ancora minore, in quella siriaca, copta e latina; di estremo interesse, ma quantitativamente molto ridotti, i frammenti del testo originale aramaico. L’edizione dell’etiopico prodotta nel 1976 da Knibb non fornisce un testo veramente critico, dal momento che riproduce un manoscritto di base, e riporta in apparato varianti di ventiquattro altri codici, ma con autopsia di solo nove di essi (il resto è ripreso dall’edizione precedente, di R.H. Charles); inoltre il numero dei manoscritti è aumentato, in questi ultimi anni, di circa una quarantina di unità. Una nuova edizione appare perciò desiderabile. La teoria che almeno una parte del testo etiopico sia stata tradotta, anziché dal greco come si ritiene di solito, direttamente dall’aramaico, propugnata da Ullendorff nel 1959 (dopo un’anticipazione di N. Schmidt nel 1908), e dallo stesso Knibb nell’introduzione al volume suddetto, è stata sottoposta a revisione (P. Piovanelli). Di basilare importanza la versione etiopica anche per il Libro dei Giubilei (et. Masòhòafa Kufâlê), del quale sono rimasti pochi frammenti ebraici, greci e siriaci, e circa un quarto della traduzione latina (fatta, come quella etiopica, conservataci per intero, sul greco, a sua volta tradotto dall’ebraico). Dopo l’edizione di Charles (1895), basata su quattro manoscritti, ne sono venuti alla luce un’altra quindicina, e dunque una nuova edizione si è resa anche qui indispensabile, quella di VanderKam, buona sotto vari aspetti, ma senza esplicitazione dei criteri ecdotici seguiti. Per l’Ascensione di Isaia (et. ‘Ergata ’Isâyeyâs), apocrifo sostanzialmente del Nuovo Testamento, ancora una volta la traduzione etiopica, condotta su di un modello greco perduto, è di gran lunga la più completa, conservando il testo intero, assieme ad una traduzione latina e a tre traduzioni slave dei capp. 6-11. Il testo

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etiopico, finora noto da tre manoscritti, si è arricchito ulteriormente di altri sei (più un frammento). Apocrifo in tutto e per tutto del Nuovo Testamento è invece il Pastore di Erma (et. Hêrmâ nabiy), noto anche da un testo greco, incompleto, da due versioni latine e da frammenti copti e mediopersiani. La traduzione etiopica ci è nota da due soli manoscritti, entrambi dal convento tigrino “eretico” di Gunda Gund™, ma con due testi diversi tra loro; l’edizione d’Abbadie (1860) si basava sul primo, mentre del secondo (portato in Italia da A. Mordini) esiste una copia fotografica alla Biblioteca Vaticana (Bibl. Vat. ms. fot. 133); l’originale dovrebbe ora trovarsi nella Biblioteca Palatina di Parma. Le varianti di questo secondo manoscritto sono state pubblicate da Beylot e da Raineri, ma è ovvio che una edizione critica completa dell’etiopico è una dei massimi desiderata della letteratura axumita. Diverso carattere ha invece l’opera che va sotto il nome di Qêrellos (Cirillo, dal nome dell’autore del trattato che la apre, il De recta Fide di Cirillo di Alessandria), compilazione di ventinove testi: un primo gruppo, composto da tre grandi trattati di Cirillo (il primo già citato e indirizzato all’imperatore Teodosio; il secondo, più lungo, dal titolo simile, e indirizzato alle sorelle dell’imperatore, Arcadia e Maria; il terzo il suo più famoso, Quod Christus sit unus) e di quindici omelie e lettere, si riferisce al concilio di Efeso (431) e alle polemiche cristologiche antinestoriane; un secondo gruppo consta di sette omelie, ed affronta la tematica trinitaria antiariana; un terzo gruppo di quattro testi, tradotto dall’arabo, è stato aggiunto più tardi, nel XII o XIII secolo, mentre tutti gli altri sono stati tradotti dal greco in età axumita. L’assemblaggio generale sembra iniziativa autonoma etiopica; molto interessante il fatto che per alcune di queste opere non sia finora noto l’originale greco. Dopo la pubblicazione di singoli testi, una edizione complessiva è in corso da parte di B.M. Weischer (dal 1973), purtroppo secondo lo standard orientalistico tradizionale (cioè senza stemma, e con criteri filologici sorpassati). Trattandosi di un’opera in parte originale, almeno nei limiti ora accennati, è anche l’unica per la quale siano stati posti dei problemi di ordine storico. Nel presupposto che «Nestoriani si può dire che non erano in Abissinia», Guidi aveva pensato che i numerosi scritti antinestoriani del Q. fossero volti, in realtà, contro i bizantini, diofisiti (spesso, in Oriente, equiparati ai nestoriani), che pe-

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rò non potevano essere attaccati troppo apertamente; ma a parte le sensibili tracce di presenza nestoriana nello Yemen 11, è ben noto che l’azione del nestorianesimo in Egitto fu sensibile (e Nestorio proprio in Egitto morì nel 451, dopo avervi soggiornato come esule dal 436), e i testi etiopici non mancano di condannarlo ad ogni occasione; inoltre, data la scarsità di documentazione è difficile affermare o negare qualcosa a proposito dell’età axumita. M. Rodinson aveva scorto nel Q. una finalità antiariana, sulla base del secondo gruppo di omelie; ma questo non può valere per tutta l’opera. Perciò dobbiamo ammettere che ad Axum una presenza o una eco di dottrine nestoriane doveva esserci, o, almeno, che in Egitto se ne paventava l’influsso colà. L’opera si presenta perciò come un’antologia di autorità dottrinali volta a combattere le principali eresie che l’Etiopia si trovava a dover fronteggiare. Di natura interamente diversa è la versione etiopica del Fisiologo (et. Fisâlgos), la famosa operetta naturalistico-allegorica antesignana dei “bestiari” medievali, che potrebbe essere stata scritta ad Alessandria fra il II e il III secolo d.C. L’edizione del testo gheez compiuta da F. Hommel nel 1877 si basava su tre manoscritti, ora accresciuti di qualche unità (e questo giustifica una nuova edizione). Il problema più interessante del Fisiologo etiopico sta però nelle sue relazioni con il testo greco e con la tradizione orientale. Infatti il traduttore italiano dell’opera, Conti Rossini (1951), indicava nell’etiopico un testo derivato dalla tradizione greca più antica, nel quarto tipo dell’edizione Sbordone (1936), ammettendo però che «il testo etiopico… non rimane rigidamente nei limiti di nessuno dei quattro tipi della recensione più antica». Ma la questione si rivela assai più complessa, per la presenza del manoscritto di Grottaferrata, il Pierpont Morgan Library 397, il più importante di tutti e non utilizzato da Sbordone, subito segnalato da P.E. Perry nel 1938 12, ma pubblicato da Hoffermans

11 G. Fiaccadori, Yemen nestoriano, in S.F. Bondi - S. Pernigotti - F. Serra - A. Vivian (edd.), Studi in onore di E. Bresciani, Pisa 1985, pp. 195-218. 12 Nella sua recensione all’ed. Sbordone, «American Journal of philology», 58 (1938) 492-493.

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solo nel 1966 13. È chiaro poi come i rapporti fra le due versioni dovrebbero essere studiati all’interno di una tradizione orientale assai più variegata e instabile, come dimostrano (a parte le versioni armena e siriaca già note) i frammenti siriaci e copti pubblicati e raccolti da A. van Lantschoot, tutti con differenze notevoli rispetto al greco e all’etiopico 14. Verso il VII-VIII secolo, con la decadenza del commercio con l’India, dovuta alla diminuita committenza da parte delle classi agiate greco-romane, e col sorgere dell’islam e lo sviluppo della pirateria nel Mar Rosso, la cultura axumita comincia a declinare, ed all’incirca verso il sec. X ha termine, con l’abbandono della capitale. Il centro di gravità del paese si sposta sempre più verso il sud (dall’Eritrea e dal Tigrè e al Lasta, poi all’Amhara e allo Scioa), e tagliato ogni legame con il Vicino Oriente e con il bacino del Mediterraneo, l’Etiopia si africanizza definitivamente. Anche le fonti, ad eccezione di quelle indirette 15, fanno difetto, e quando esse ricominciano, copiosissime, alla fine del XIII secolo, sotto la dinastia cosiddetta «salomonide» 16, troviamo una cultura assai diversa da quella axumita: abbandonate la tecnologia e l’edilizia di quell’epoca, e il concetto stesso di capitale fissa, le grandi stele di Axum in parte rovesciate e non più comprese dagli stessi abitanti, le monete dei re axumiti ritenute da loro gocce di pioggia miracolosa, il gheez sostituito come lingua parlata dalle varie lingue moderne. Ma sono forti anche gli elementi di continuità: il gheez usato come lingua letteraria e liturgica, le chiese ipogee e i conventi del nord, il clero e tutta l’ideologia e la cultura delle classi dirigenti, e infine il contatto con il cristianesimo

13 Breve bilancio in F. Sbordone, Rassegna di studi sul Physiologus (1936-1976), «Rivista di Filologia e Istruzione Classica», 105 (1977) 496-500. 14 A propos du Physiologus, in Coptic Studies in honour of W. E. Crum (Bullettin of the Istitute of Byzantine Studies II), Boston 1950, pp. 339-393; Fragments syriaques du Physiologus, «Muséon», 72 (1959) 37-51. 15 Soprattutto in arabo, dei cristiani d’Egitto (per es. la Storia dei Patriarchi d’Alessandria) e dei geografi mussulmani. 16 Cosiddetta perché pretendeva di discendere da Menelik I, mitico figlio di Salomone e della regina di Saba. Tale dinastia (continuata, almeno in teoria, fino all’ultimo imperatore Hailé Selassié) pretendeva anche di essere la legittima continuatrice dei re axumiti, dopo una dinastia di pretesi usurpatori di origine non semitica, da essa rovesciata.

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egiziano (ormai, di fatto, non più di lingua greca o copta, ma araba). Non solo la grande maggioranza delle opere della letteratura etiopica, dal sec. XIII in poi, è tradotta dall’arabo dei copti, ma conosciamo bene l’influsso che esercitarono in tal senso conventi o anche singoli monaci egiziani, e soprattutto l’invio regolare del metropolita, con tutto il suo seguito di ecclesiastici più o meno dotti. L’esempio più noto di questo dato culturale è quello del metropolita Abbâ Salâmâ, detto matargwem («il traduttore»), che nel XIV secolo fece tradurre più di una dozzina di opere di agiografia, ascetica e teologia; ma, più in generale, è di fondamentale importanza il recupero che si può effettuare in età medioevale, attraverso l’etiopico, tradotto dall’arabo, a sua volta tradotto dal greco o dal copto, di opere della tarda antichità, e delle quali (come nel caso della letteratura axumita) l’originale e le altre versioni sono andati in tutto o in parte perduti – recupero certo falsato, nei contenuti stessi, dall’eccessivo numero di passaggi che spesso rende il testo etiopico difficile da interpretare. Valga per tutti l’esempio dell’Apocalisse di Pietro (apocrifo del Nuovo Testamento di cui restano pochi frammenti dell’originale greco, e il testo etiopico completo, ma a tratti quasi incomprensibile, tradotto da un intermediario arabo perduto, e con due trattati aggiuntivi sulla risurrezione universale): il recupero sistematico della tradizione copto-araba è forse uno dei punti di maggiore importanza per un’indagine futura sulla letteratura etiopica. NOTA BIBLIOGRAFICA (N.B. La nota contiene solo titoli strettamente connessi con la letteratura etiopica; le indicazioni bibliografiche di ogni altro tipo sono contenute nelle note). Per una introduzione alla letteratura axumita si vedano i capitoli relativi nelle storie della letteratura etiopica più accreditate e cioè quelle di I. Guidi, Storia della letteratura etiopica, Roma 1932 (soprattutto un supporto per indicazioni bibliografiche), di E. Cerulli, Storia della letteratura etiopica (Milano 1956, 19612; si consulterà tuttavia, preferibilmente, l’edizione Firenze-Milano 1968, arricchita da un capitolo finale su «L’Oriente Cristiano nell’unità delle sue tradizioni»), ricca di spunti critici anche se discorsiva all’apparenza e quella farraginosissima di L. Ricci, Letterature dell’Etiopia,

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in O. Botto (ed.), Storia delle letterature d’Oriente, Milano 1969, pp. 801-911. Utile la rassegna di R. Beylot, Langue et littérature éthiopiennes, in M. Aubert - R. Beylot - R.G. Coquin - B. Outtier - Ch. Renoux, Christianismes orientaux. Introduction à l’étude des langues et des littératures, Paris 1993, pp. 219-260. Per la Bibbia etiopica si vedano i dati bibliografici nelle introduzioni allo studio della Bibbia correnti e, per lo sfondo storico, E. Ullendorff, Ethiopia and the Bible, London 1968. Dagli anni ’60 ad oggi la bibliografia è pressoché esaurita citando J. Hoffman, Die äthiopische Übersetzung der Johannes-Apokalypse, 2 voll., Louvain 1967; Die äthiopische Joannes-Apokalypse kritisch untersucht, Lovain 1969; H.F. Fuchs, Die äthiopische Übersetzung des Propheten Micha, Bonn 1968, e Die äthiopische Übersetzung des Propheten Hosea, Bonn 1971; J.W. Clear, The Ethiopic Version of II Chronicles, Ph. D. Dis., Toronto 1971 (e cf., dello stesso autore, gli articoli su «Le Muséon», 85 [1973] 259-268 e 87 [1974] 207-221; «Textus», 85 (1972) 259-268); si veda inoltre l’articolo di M.A. Knibb citato sopra, n. 10. Del Nuovo Testamento è in preparazione una edizione critica completa ad Amburgo; si veda intanto, dopo il lavoro di R. Zuurmond, Novum Testamentum Aethiopice. The Synoptic Gospels. General introduction. Edition of the Gospel of Mark, Wiesbaden 1989; G. Maehlun - S. Uhlig, Die äthiopische Übersetzung der Gefangenschaftsbriefe des Paulus, Stuttgart 1993; J. Hoffmann - S. Uhlig, Novum Testamentum Aethiopice. Die katholischen Briefen, Stuttgart 1993; Abraha Tedros, La Lettera ai Romani. Testo e commentari della versione etiopica, Wiesbaden 2001. Per le versioni etiopiche degli apocrifi e degli pseudoepigrafi, in particolare dell’Antico Testamento, da segnalare l’eccellente edizione critica dei Paralipomeni di Geremia preparata da P. Piovanelli come parte di una tesi di laurea presso l’Università di Firenze (1986; al momento ancora non in stampa); si veda anche, dello stesso, Les aventures des apochryphes en Ethiopie, «Apochrypha» 4 (1993) 197224. Per il Libro di Henoch, bibliografia e bilancio critico in P. Piovanelli, Il testo e le traduzioni dell’Henoch etiopico 1976-1987, «Henoch» 10 (1988) 85-95. La teoria della Vorlage aramaica è stata discussa dallo stesso autore, Sulla Vorlage aramaica dell’Henoch etiopico, «Studi Classici e Orientali» 37 (1987) 545-594 (con bibliografia anteriore), e in Aventures, cit. Per i Giubilei l’edizione recente è quella di J.-C. VanderKam, The Book of Jubilees. A critical text, CSCO 510/511, Louvain 1989.

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La nuova edizione dell’Ascensione di Isaia è a cura di P. Bettiolo - A. Giambelluca Kossova - C. Leonardi - E. Norelli - L. Perrone, Turnhout 1995; Commentarius di E. Norelli, ibid. Di L. Perrone si vedano anche le incerte Note critiche (e “autocritiche”) sull’edizione del testo etiopico dell’Ascensione di Isaia, in M. Pesce (ed.), Isaia, il diletto e la Chiesa, Brescia 1983, pp. 77-93. Un manoscritto del fondo d’Abbadie della Bibliothèque nationale di Parigi, “nascosto” in un manoscritto dell’Isaia biblico, già stato segnalato da P. Piovanelli su «Enoch», 12 (1990) (Un nouveau témoin éthiopien de l’Ascention d’Isaie et de la Vie de Jérémie [Paris, BN Abb. 195]; il lavoro include anche la traduzione di due passi inediti sul mistero dei profeti e sulle tribù degli apostoli). Per il Pastore si vedano le varianti del nuovo manoscritto (a suo tempo segnalato da A. van Lanschoot, «Byzantion» [1962] 93-95) in R. Beylot, Hermas Le Pasteur. Quelques variantes inédites de la version éthiopienne in: R.-G. Coquin (ed.), Mélanges A. Guillaumont, Génève 1988, pp. 155-162, e in O. Raineri, Il Pastore di Erma nel secondo testimone etiopico, OCP 59 (1993) 427-464. Il Q™r™llos è edito da B.M. Weischer, Q™r™llos I. Der Prosphonetikon “Über den rechten Glauben” der Kyrillos von Alexandrien an Theodosios II, Hamburg 1973; III, Der Dialog “Dass Christ ein ist” des Kyrillos von Alexandrien, Wiesbaden 1977; IV/1, Homilien und Briefe zum Konzil von Ephesos, Wiesbaden 1979; IV/2 Traktate des Epiphanios von Zypern und des Proklos von Kyzikos, Wiesbaden 1979; IV/3, Traktate des Severianos von Gabala, Gregorios Thaumaturgos, und Kyrillos von Alexandrien, Wiesbaden 1980; sul problema delle tendenze antiariane delle omelie del secondo gruppo cf. M. Rodinson, L’homelie sur la foi en la Trinité de Sévérien de Gabala, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Etiopici, Roma 1960, pp. 387-401. L’edizione del Fisiologo etiopico è di F. Hommel, Die Ethiopische Übersetzung des Physiologus, Leipzig 1977; importante la traduzione italiana di C. Conti Rossini, Il Fisiologo etiopico, in «Rassegna di Studi Etiopici», 10 (1951) 5-51, con eccellenti note, pubblicata postuma. Una nuova edizione del testo etiopico è stata preparata da Annachiara Corsi come tesi di laurea presso la Facoltà di Lettere di Firenze (discussione giugno 2003). Su Abbâ Salâmâ si veda A. van Lantschoot, Abbâ Salâmâ, métropolite d’Éthiopie (1348-1388) et son rôle de traducteur, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Etiopici, Roma 1960, pp. 397-

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401. Per l’agiografia cf. l’importante recupero “axumita” di A. Bausi, La versione etiopica degli Acta Phileae nel Gadla Samå‘tåt, AION Suppl. 92, 2002. Per un altro dei tanti aspetti del problema della continuità della tradizione greco-arabo cristiana-etiopica, quello della patristica, si veda infine G. Lusini, Appunti sulla patristica greca di tradizione etiopica, «Studi Classici e Orientali» 38 (1988) 469-493. Traduzione italiana (con bibliografia) dell’Apocalisse di Pietro in M. Erbetta, Apocrifi, Casale Monferrato 1966-1981, vol. III, pp. 209-233; era stata pubblicata e tradotta, assieme ai due trattati, da S. Grébaut in Littérature éthiopienne pseudo-clémentine, «Revue de l’Orient Chrétien», s.ii, 2=12 (1907) 285-397, 380-392; 3=13 (1908) 166-180, 314-320; 5=15 (1910) 198-214, 307-323, 425-439: lavori gravemente difettosi come edizione e come traduzione, che hanno impedito per decenni un utilizzo adeguato di questa importantissima opera. Progresso notevole in D.D. Buchholz, Your eyes will be opened. A study of the Greek (Ethiopic) Apocalypse of Peter, Atlanta 1988 (limitato tuttavia all’Apocalisse in senso stretto, che costituisce una parte minoritaria rispetto ai due trattati). Una nuova traduzione, con un tentativo di approccio più attento al testo, è fornita dallo scrivente (che ha in preparazione una edizione critica): L’Apocalisse di Pietro, in Etiopia e oltre. Studi in onore di Lanfranco Ricci, Napoli 1994, pp. 171-232; sua versione per pubblico non specialista in F. Bovon - P. Geoltrain (edd.), Ecrits apocryphes chrétiens (Bibliothèque de la Pléiade), I, Paris 1997, 20022, pp. 750-774. Buono stato della questione da parte di R. Bauckham, The Apocalypse of Peter: An account of research, in W. Haase - H. Temporini (edd.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, 25.6, Berlin 1988, pp. 4712-4750. Per il testo greco, dopo le edizioni di Joly e Whittaker, si veda N. Brox, Der Hirt des Hermas, Göttingen 1991; M. Leutzsch, Hirt des Hermas, in U.H.J. Körtner - M. Leutzsch, Papiasfragmente. Hirt des Hermas, Darmstadt 1998. Per il Papiro Bodmer cf. A. Carlini, Papyrus Bodmer XXXVIII. Erma: Il Pastore (Ia-IIIa Visione), Cologny-Génève 1991; Testimone e testo: il problema della datazione di P. Iand I 4 del Pastore di Erma, «Studi Classici e Orientali» 42 (1992) 17-30; Congiunzione e separazione di frammenti di tradizione diretta (su papiro) e di tradizione indiretta, in Paideia cristiana. Studi in onore di M. Naldini, Roma 1994, p. 208 e n. 5. Per l’età axumita è comunque da ricordare il trattato di Ippo-

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lito di Roma pubblicato da A. Caquot, Une version ge’ez d’un traité d’Hippolyte de Rome sur l’Antichrist, «Annales d’Ethiopie», 6 (1965) 165-215.

CAPITOLO VII

LA CHIESA SIRO-OCCIDENTALE

LA SIRIA FINO ALL’ALBA DELLA NOSTRA ÈRA Nell’antichità con il nome di Siria si intendeva una porzione di terra assai estesa, i cui confini non erano distintamente individuati o, meglio ancora, i suoi confini e le sue partizioni, attraverso i secoli, furono più volte ridefiniti. In ogni modo la regione siriaca, nella sua più grande estensione, si affacciava verso Occidente al Mare Mediterraneo, a partire dal golfo di Alessandretta; verso Oriente giungeva fino all’Eufrate o fino al Tigri, comprendendo la Mesopotamia; verso Settentrione fino agli altipiani anatolici e armeni del Tauro e a meridione fino all’Arabia e all’Egitto. Una regione che subì frequenti aggressioni da parte delle varie popolazioni che la circondavano e che si succedettero nel tempo: dagli sciti agli egiziani, dai popoli del mare agli aramei, agli ebrei, ai fenici. Nel 332 a.C. la Siria fu conquistata da Alessandro Magno e per un breve periodo fece parte dell’Impero greco-macedone. Qualche tempo dopo, alla fine del IV secolo a.C., la Siria settentrionale passò sotto il potere di Seleuco I Nicanore, costituendo il nucleo dell’Impero seleucide. Fu proprio Seleuco I, figlio di Antioco, a fondare Antiochia, che da lui appunto prese il nome e che subito assunse il ruolo di città regia, di residenza dei monarchi seleucidi e lo mantenne per un lungo periodo; nel quale essa e l’intero territorio sottomesso subì un processo di intensa ellenizzazione. La lingua greca divenne la lingua ufficiale; furono fondati o rifondati numerosi centri, tra i quali Seleucia, Apamea, Laodicea. Poi il potere seleucida si indebolì gradualmente per lotte interne e per il fortificarsi di regni vicini, quali quello di Commagene, dei nabatei, degli iturei, degli ebrei, degli armeni. I quali ultimi con Tigrane I nell’83 a.C. occuparono buona parte della Siria. Nel 64 a.C. Pompeo, dopo avere sconfitto Antioco XIII l’Asiatico, con il quale si estinse la dinastia dei seleucidi, ridusse la Siria a provincia romana. Essa aveva una agricoltura florida, aveva industrie pregiate, come quelle della lana, della porpora,

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dei tessuti di lino, del vetro soffiato e soprattutto era una via privilegiata attraverso cui transitavano i commerci provenienti dalle strade carovaniere dell’Oriente. Non è un caso che i romani abbiano realizzato un canale assai profondo, tagliato nella roccia viva, di modo che appositi battelli potessero trasportare le merci per via fluviale da Antiochia a Seleucia di Pieria, suo porto naturale (distante oltre 20 km) e viceversa. Inoltre per la potenza romana principalmente la Siria aveva una posizione strategico-militare di grande rilievo. Perciò Augusto la affidò al governo di un legato consolare. LA PRIMA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO A COMINCIARE DA ANTIOCHIA Le più antiche notizie sulla presenza cristiana sono tramandate da passi delle Epistole di Paolo e degli Atti degli Apostoli. Sappiamo della persecuzione che a Gerusalemme scoppia contro gli ellenisti e della morte per lapidazione di Stefano, uno di loro che si può supporre abbia contestato il valore di certi precetti della Legge, usando parole severe a proposito del santuario e del culto che vi era praticato. Il che è confermato dal discorso che tiene dinanzi al Sinedrio (cf. At 7, 2ss.). Sappiamo pure che l’evento provoca l’allontanamento da Gerusalemme e la dispersione di chi apparteneva alla cerchia degli ellenisti. Il Vangelo giunge così dapprima in Giudea e in Samaria, poi in Fenicia, a Cipro, in Siria, ove è predicato, secondo Luca, ai soli israeliti, eccetto alcuni originari di Cipro e di Cirene, i quali, pervenuti ad Antiochia lo comunicano anche ai greci, ottenendo la conversione di una gran numero di loro (cf. At 11, 19ss.). È dunque presumibile che alcuni discepoli di Stefano abbiano dato vita alle prime comunità cristiane in Siria, dove – specialmente nella sua capitale – si sarebbe elaborato, ancora prima di Paolo, un cristianesimo di lingua e di spirito greci e di reclutamento pagano e al tempo stesso israelita 1. Intorno al 33-34 altri ellenisti raggiungono Damasco ove si rivolgono con buon esito a giudei e pagani «timorati di Dio». Saulo/Paolo, là inviato per porre rimedio a una situazione che si faceva preoccupante per i capi delle sinagoghe appunto, sulla via di Damasco ri-

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Cf. M. Simon, I primi cristiani, tr. it., Milano, Garzanti 1957, pp. 46ss.

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ceve quella folgorazione dal parte del Cristo risorto, si sente chiamato a un nuovo, inaspettato e sconvolgente compito, quello di essere suo testimone ed inizia una prima attività apostolica nella stessa Damasco e nel paese dei nabatei, ossia dell’Arabia, prima di salire a Gerusalemme per incontrare Pietro e Giacomo, fratello del Signore (cf. Gal 1, 18s.). Luca negli Atti degli Apostoli (11, 26) ci dà un’informazione preziosa, osservando che ad Antiochia per la prima volta i discepoli di Gesù sono chiamati «cristiani». Non si sa chi abbia forgiato quest’appellativo – se le autorità pagane o la voce del popolino o i cristiani stessi –; sembra che esso provenga da ambienti pagani e che si sia caricato allora di un senso dispregiativo, riferendosi a «quelli di Cristo», ormai individuati, almeno in quell’area geografica, come un gruppo religioso distinto sia dai giudei che dai pagani. Ancora in Antiochia si verifica un episodio che pone in forte contrasto l’uno dinanzi all’altro Pietro e Paolo. Smentendo una pratica che egli stesso aveva fino ad allora adottata, Pietro smette di prendere cibo con i pagani, dopo che da Gerusalemme erano giunti alcuni, evidentemente di stretta osservanza giudeo-cristiana 2, della cerchia di Giacomo («fratello del Signore» succeduto nel 42-43, dopo la morte di Giacomo, figlio di Zebedeo, il primo dei Dodici a subire il martirio). Di fronte ad un tale comportamento Paolo esprime francamene il suo netto dissenso, egli stesso poi nella lettera ai galati (cf. 2, 11ss.) narrerà il fatto, per dire che non si è giustificati in virtù della pratica della Legge, ma solo mediante la fede in Gesù Cristo. Anche al di fuori di Antiochia è un fatto che il nuovo messaggio si diffonde con rapidità e fin dai primi anni nella Siria. Al ritorno dal suo terzo viaggio, l’Apostolo delle genti trova a Tiro dei discepoli e con loro si trattiene una settimana, per approdare successivamente a Tolemaide, ove saluta altri fratelli e resta con loro un giorno. Poi scende più a sud, a Cesarea, ed ivi incontra Filippo, uno dei sette, prima di salire a Gerusalemme. La Fenicia, costituita dal litorale a nord del monte Carmelo fino al fiume Eleutero, comprendeva le città di Tolemaide, Tiro e Sidone (secondo alcuni storici antichi, anche Joppe e Cesarea) e faceva parte della provincia romana della Siria. La presenza di Paolo in quei luoghi è indicata nell’anno 55, mentre l’incidente di Antiochia, cui si è fatto cenno, è attribui2 Cf. pure Atti degli Apostoli 11, 2-3 e il commento in proposito di G. Rossé, in Atti degli Apostoli. Commento esegetico e teologico, Roma 1998, pp. 436-437 e passim.

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to al 51 e la “chiamata” di Paolo o, come più generalmente si usa dire, la sua “conversione” è fatta risalire al 34. In questo anno l’Apostolo annuncia nelle sinagoghe che Gesù è figlio di Dio, più precisamente proclama ai giudei residenti a Damasco che Gesù è il Cristo, confondendoli (cf. At 9, 19ss.). Ancora: nel viaggio di Paolo prigioniero verso Roma, nell’ultimo scorcio della sua vita, il centurione Giulio della coorte Augusta, che lo accompagna, gli permette a Sidone di recarsi dagli amici e di riceverne le cure (cf. At 27, 3). E si potrebbe continuare. Del resto è palese che l’annuncio di Cristo si diffonde da Gerusalemme nei paesi vicini e raggiunge subito la Syria Palaestina o, se si vuole, la Siria, a cominciare dalla sua capitale Antiochia. IL II SECOLO Il II secolo inizia con una testimonianza preziosa per il tempo cui risale e per il suo contenuto: si tratta delle Lettere in lingua greca che Ignazio scrive alle comunità di Efeso, di Magnesia, di Tralli, di Filadelfia, di Smirne, di Roma – oltreché a Policarpo, vescovo di Smirne. Seguendo la notizia riferita da Eusebio di Cesarea 3, egli è il secondo successore di Pietro, quale vescovo di Antiochia, vive sotto l’imperatore Traiano (98-117) e scrive quelle lettere essendo condotto a Roma prigioniero per subirvi il martirio. Durante il viaggio, l’incontro effettivo o previsto con comunità cristiane avrebbe sollecitato la corrispondenza. Ancora di recente l’autenticità delle Lettere è stata contestata, ma le ragioni addotte non scalfiscono, a mio parere, la plausibilità della notizia eusebiana. Gli scritti, cui si è accennato, fanno conoscere non solo la personalità appassionata e mistica di un vescovo, ma danno modo di meglio conoscere la situazione della sua Chiesa e dei problemi che si trova a vivere insieme ad altre Chiese consorelle. Nella Chiesa antiochena si scorgono fermenti di disunità, poiché non manca chi sostiene delle dottrine docetiche che infirmano l’efficacia salvifica della passione e morte di Cristo. Donde la cura del vescovo di promuovere l’unità della Chiesa intorno alla sua figura e di proporre in modo esplicito il disegno di un episcopato monarchico. 3 Cf. HE III, 36, 1-5. Anche Ireneo cita nell’Adversus haereses (V, 28, 4) un passo dell’Epistola ai Romani (4, 1), attribuendola ad Ignazio.

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IL III SECOLO Sul versante dell’ambiente di cultura e di lingua greca, stando alle fonti pervenute, la Siria per un certo periodo non fornisce altre voci. Occorre giungere al III, e poi al IV secolo, per assistere a una fioritura di grande rilievo (a prova della effettiva carenza di personalità o della discontinuità di informazioni che limitano la possibilità di una coerente ricostruzione dei fatti e delle vicende delle quali sono protagoniste le Chiese). Qui non si possono che ricordare di passaggio i nomi delle opere o dei personaggi che in vario modo hanno animato la Chiesa siriaca in quel tempo divenendo spesso protagonisti dei grandi dibattiti teologici e delle grandi scelte teologiche operate in quel tempo. Ci si rammenti della Didascalia degli Apostoli – perduta in greco e pervenutaci tramite un manoscritto siriaco, opera dovuta ad un vescovo della Siria settentrionale –, che risale probabilmente ai primi decenni del III secolo e si presenta quale costituzione ecclesiastica e fonte dei primi libri delle Costituzioni apostoliche che la rielaborano; ci si rammenti di Paolo di Samosata e del suo insegnamento monarchiano, di Malchione di Antiochia che si adopera nel secondo concilio di Antiochia del 268 a smascherare gli errori di Paolo, di Doroteo, prete di Antiochia, quando ne è vescovo Cirillo (280-303), buon conoscitore della cultura greca, che Eusebio afferma di avere ascoltato spiegare con ponderatezza le Scritture. Ci si rammenti ancora di Luciano di Antiochia, maestro di Ario, sostenitore di un subordinazionismo radicale e poi martire a Nicomedia nel 312. LA LINGUA SIRIACA Si diceva inizialmente che i confini della Siria sono attraverso gli anni più volte ridisegnati. Una voce tarda ci aiuta tuttavia a meglio comprendere il vasto mondo che essi abbracciano. È la voce di un patriarca giacobita, Dionigi di Tellmahre che muore nel 845. Egli osserva che il nome generico di Siria designa due diverse aree: in senso proprio, siriani si chiamano gli abitanti della regione ad occidente dell’Eufrate che si estende per un verso dalla Palestina al monte Ammanus, a nord di Antiochia, e per altro verso dal Mediterraneo al corso dell’Eufrate. Ma siriani, in senso lato, si chiamano anche coloro che parlano la lingua aramaica sia ad occidente che ad

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oriente di quel fiume e che dunque risiedono anche nelle regioni persiane della Mesopotamia 4. La Siria si trova dunque a vivere entro due differenti universi, uno propriamente siriaco, in cui viene parlata la lingua vernacolare, e uno esterno portato dai greci e penetrato profondamente dalla loro cultura e dalla loro lingua; e certamente la regione, nella sua parte occidentale, anche nel periodo protocristiano, continua ad essere intensamente influenzata dall’Ellenismo (lo si vedrà nelle pagine successive parlando in breve di alcuni autori cristiani). Ma, si diceva, la Siria mantiene un carattere specifico nell’usare una lingua, quella siriaca, che è ben rappresentata accanto a quella greca, e nel preservare tradizioni e costumi più antichi, propri di quella terra. Si sa che il siriaco o aramaico di Edessa, derivante dal ceppo semitico, è uno dei tre dialetti orientali (gli altri due sono il mandeo e il giudeo-babilonese, lingua del Talmûd di Babilonia) che discendono dall’aramaico imperiale, la lingua propria dell’Impero acheminide, il quale nei periodi più prosperi si estendeva dal Nilo all’Indo. Esso è il dialetto parlato e scritto nei primi secoli dalle comunità giudeo-cristiane che nella regione dovettero essere numerose. Con il venire meno del greco-ellenistico, si sviluppa ulteriormente e viene a costituire una vera e propria lingua letteraria che dà vita a una imponente letteratura, la quale ha corso dal II al XIII secolo d.C. Delle peculiarità di una tale letteratura che si esprime in siriaco, la lingua più importante dell’Oriente cristiano, dedica pagine illuminanti, alle quali rimandiamo, René Lavenant in questo medesimo volume considerando in particolare il periodo iniziale, precedente le grandi controversie cristologiche. Proprio a causa del cristianesimo esso si afferma come lingua letteraria, consolidandosi definitivamente nel IV secolo ed aiutando le popolazioni che lo parlano e lo scrivono a mantenere la propria identità, oltre che religiosa, culturale e politica, dinanzi alle pressioni che anche nei secoli dopo Cristo, come già in quelli avanti Cristo, devono subire da parte di imperi e di potenze vicine. Dopo la conquista araba, avvenuta poco prima del metà del VII secolo, l’arabo comincia ad imporsi, tanto che il siriaco come lingua parlata scompare gradualmente, mentre rimane come lingua letteraria e liturgica. 4 Il passo è citato da P. Bettiolo nel suo saggio concernente Lineamenti di Patrologia siriaca, in Complementi interdisciplinari di patrologia, a cura di A. Quacquarelli, Roma 1989, p. 506.

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IL CRISTIANESIMO DI ESPRESSIONE SIRIACA Dionigi di Tellmahre (sopra citato) afferma che radice e fondamento della lingua siriaca, cioè aramaica, è Edessa. Questa città senza dubbio riveste una grande importanza per la vita e lo sviluppo delle comunità cristiane di quell’area. Fondata come Antiochia da Seleuco I Nicanore, intorno al 303 a.C., la città assume rilievo dopo che i seleucidi, varcato l’Eufrate, si ritirano verso occidente lasciando l’intera Mesopotamia ai parti. Allora si costituisce il regno di Osroene, con capitale Edessa. Per lunga pezza arabi – fino alla metà circa del III secolo d.C. – nabatei e parti si succedono a capo del regno, in cui risiedono popoli di diversa origine: insieme agli autoctoni, gli aramei, si mescolano dunque oltre a nabatei e parti, anche discendenti dei macedoni e dei seleucidi, persiani ed ebrei. Nel 115 d.C. Traiano dopo avere ridotto l’Armenia a provincia romana, compie una grandiosa spedizione oltre l’Eufrate, la spedizione partica, riesce a occupare la Mesopotamia e l’Assyria ed a conquistarne la stessa capitale Ctesifonte. È il momento – breve – della massima espansione dell’Impero romano. Già l’anno successivo scoppia una ribellione che Parthamaspate, luogotenente partico filoromano nominato da Traiano, non riesce a domare. Nei tumulti hanno parte notevole gli ebrei che, aspirando all’indipendenza, insorgono anche in Cipro, in Egitto e a Cirene. Da loro in quel momento l’Impero partico riceve un forte sostegno, nonostante città come Edessa, Seleucia o Nisibi rimangano saldamente in mano romana. La situazione già critica si aggrava per la morte ai primi di agosto del 117 dell’imperatore romano a Selinunte in Cilicia. Il suo successore, Adriano (117-138), rinuncia alle nuove terre appena conquistate 5. Poco più tardi Lucio Vero e Marco Aurelio (161-180) sono in grado di dare di nuovo vita alla provincia della Mesopotamia e Settimio Severo (193-211), avendo estese le conquiste, costituisce le province dell’Osroene con capitale Edessa e della Mesopotamia con capitale Nisibi. Ma intanto nelle terre più orientali e meridionali una sollevazione dell’elemento iranico porta alla fine del dominio degli arsacidi e alla presa di potere da parte dei sasanidi. Ha allora netta prevalenza religiosa il mazdeismo, il che conduce a persecuzioni contro i cristiani, assai violente nel IV secolo. Ma sono questi argomenti

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Cf. S. Mazzarino, L’impero romano, vol. II, Roma-Bari 1973, pp. 300s.

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che riguardano piuttosto la Chiesa di Persia – e la Chiesa di Mani –, dei quali si dirà più oltre. Entro questo quadro politico e religioso esterno si inseriscono le origini del cristianesimo siriaco. La Dottrina d’Addai, uno scritto apocrifo redatto in siriaco alla fine del IV e l’inizio del V secolo, fa risalire l’evangelizzazione di Edessa e dell’Osroene ad Addai o Addeo, una deformazione forse di Taddeo, discepolo di Gesù, che Tommaso, uno dei Dodici, avrebbe inviato in quelle regioni per soddisfare una promessa che il Salvatore avrebbe fatto al re. Il discepolo avrebbe convertito il re di Edessa Abgar V Ukhama, «che teneva sotto il suo nobilissimo scettro le genti al di là dell’Eufrate» 6 e con lui gli abitanti della città. Da parte sua, Eusebio di Cesarea, riferendo l’episodio, aggiunge che vi sarebbe stato uno scambio di lettere tra Gesù e Abgar e ne riporta il testo che afferma di avere egli stesso tradotto dal siriaco. Lo storico cristiano ritiene storicamente fondato l’accaduto ed asserisce che negli archivi di Edessa, tra i documenti pubblici, si trova la testimonianza dell’accaduto 7. E per questo «da allora fino ai nostri giorni tutta la città di Edessa, come quella che vanta una prova straordinaria della benevolenza del nostro Salvatore, si è mantenuta sempre fedele al suo nome» 8. Il testo è leggendario, e tuttavia si deve rilevare che esso riflette la convinzione che gli edesseni avevano dell’introduzione del cristianesimo presso di loro. Storicamente non abbiamo notizie certe relative ad esso fino alla seconda metà del II secolo; il primo documento cui si può ricorrere appartiene alla seconda metà del II secolo ed è l’iscrizione di Abercio, vescovo di Gerapoli nella Phrygia salutaris, che attraverso un distico e 20 esametri dà, per così dire, una sintesi della sua fede, della sua vita e dei suoi viaggi; tra i quali dice di avere visto la piana di Siria e tutte le città e Nisibi, al di là dell’Eufrate e di avere trovato dovunque dei confratelli 9. Ancora una volta Eusebio si rivela una fonte preziosa – soprattutto se confermata da altre testimonianze – là dove riferisce che al tempo di papa Vittore (189-199) la Chie-

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Cf. HE I, 13, 2. Cf. ibid. I, 13, 1-22; II, 1, 6-7. Ibid. II, 1, 7. La traduzione italiana è di G. Del Ton, in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica e I martiri della Palestina, Roma-Parigi-Tournai-New York 1964, p. 82. 9 Si veda il testo dell’epitaffio in J. Quasten, Monumenta eucharistica et liturgica vetustissima, Bonn 1935-1937, pp. 21-24.

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sa di Osroene fa giungere a Roma il proprio parere sulla questione della Pasqua 10. La Cronaca di Edessa, pur essendo un testo tardo, la cui redazione definitiva risale al VI secolo, dà una notizia relativa ad una inondazione avvenuta nel 202 che avrebbe investito Edessa ed elenca, con l’elevato numero di persone che avrebbero trovato la morte, i danni agli edifici maggiori, tra i quali annovera la chiesa dei cristiani. Si devono infine ricordare alcune figure quali Taziano e Bardesane vissuti tra il II e il III secolo che attraverso le loro opere, alcune delle quali pervenute fino a noi, fanno intravedere qualche tratto del cristianesimo edesseno. Ma per tutto ciò rimando alle pagine già menzionate di René Lavenant e alla bibliografia ivi citata. Qui, per l’argomento che interessa, si vuole concludere che, a prescindere dalle leggende adottate per farne risalire l’origine agli apostoli, la Chiesa dell’Osroene ricevette il Vangelo molto presto. Di dove lo ricevette? Le ipotesi degli studiosi sono numerose e tra loro discordanti. Secondo alcuni (Walter Bauer) i marcioniti ne sarebbero stati i tramiti – è un fatto che la comunità di Edessa vede attiva nel proprio seno una numerosa comunità che si richiama a Marcione fino al IV secolo. Per altri (ricordo i nomi di Jean Daniélou, Oscar Cullmann, Gilles Quispel) i missionari cristiani sarebbero venuti dalla Palestina e in questo ambito non poco rilievo avrebbero avuto venature qumraniche. Non lungi da tale linea altri (G. Rouwhorst) hanno insistito sulla presenza nell’area siriaca di influenze giudeo-cristiane, soprattutto in campo liturgico, che solo i cristiani provenienti dal giudaismo avrebbero potuto trasmettere. Ma altri storici ancora sostengono che non tanto la Palestina quanto le regioni poste ad Oriente avrebbero contribuito a diffondere la nuova religione. Seguendo questa opinione, «la cristianità di Siria recluta i suoi primi adepti nelle comunità giudaiche di Adiabene, numerose all’epoca in questo regno, la cui dinastia sin da tempi antichissimi, dopo la conversione dei propri sovrani al giudaismo, manteneva strette relazioni con la Palestina» 11. Appare in ogni modo notevole l’importanza di filoni giudaici nella prima diffusione del cristianesimo. Così come si palesa un altro dato: in special modo in Edessa, ma anche in altri centri della regione, la popolazione autoctona di lingua siriaca vive accanto a giudei e a greci, conosce 10 11

Cf. HE V, 23, 4. R. Lavenant, in Dizionario patristico e di antichità cristiane, vol. I, Roma 1983, col. 1065, s.v. Edessa.

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adepti di sette gnostiche, aderenti all’encratismo, simpatizzanti del paganesimo esoterico, per cui fattori culturali e religiosi diversi tendono ad amalgamarsi; anche la religione cristiana, pur mantenendo intatta la propria peculiarità e la propria fisionomia, si colora di modi ed elementi che risentono dell’ambiente in cui sviluppa. Forse anche per ciò la precisa individuazione della o delle fonti che hanno dato avvio all’evangelizzazione di quella terra risulta difficile, se non impossibile. Nel IV secolo, per volere di Giacomo fu creata la Scuola teologica di Nisibi che tradusse in siriaco molti scritti dei Padri greci e dalla quale uscì Efrem. Quando nel 363 Gioviano, per ragioni politiche, cedette Nisibi ai persiani, la Scuola venne trasferita ad Edessa. Dopo il concilio di Efeso del 431 essa coltivò l’eredità dottrinale di Nestorio, fondandosi sugli scritti di Teodoro di Tarso e di Teodoro di Mopsuestia e ponendo l’accento sulla dimensione umana di Cristo. Si è detto dell’Adiabene: è questa una regione che sta sul medesimo parallelo dell’Osroene, ma che è situata più ad est. Dalle fonti si è a conoscenza che molti dei suoi abitanti avevano abbracciato la religione giudaica ed altrettanto avevano fatto coloro che la governavano. Dell’introduzione del cristianesimo nulla si sa di certo. La Cronaca di Arbela 12, composta intorno alla metà del VI secolo, vuole che Addai (Taddeo) ne sia stato il primo diffusore; altre fonti parlano di Mari, discepolo di Addai. A proposito della persecuzione di Shapur II (309-379), Sozomeno (†dopo il 450) attesta che nel IV secolo molti erano i cristiani nel paese 13. Giovanni, il primo vescovo di Arbela, sede metropolitana della regione, come il suo successore, Abramo, avrebbero subito il martirio giusto a causa delle persecuzioni scatenate contro la Chiesa da Sapore II. LE GRANDI CONTROVERSIE DOTTRINALI DEL V SECOLO E I LORO PRECURSORI

Fino al termine del 400 la Grande Chiesa appunto, pur trovandosi a combattere contro quelle che essa ritiene deviazioni di carattere dottrinale o disciplinare rispetto al messaggio di Cristo e alla 12

Cf. Chronica Ecclesiae Arbelensis 1-2, «Orientalia christiana» 8, 4, n. 31 (1927)

149ss. 13

Cf. Sozomeno, Historia ecclesiastica II, 13 e passim, PG 67, col. 965ss.

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tradizione (e come si sa, la nozione di tradizione ha un rilievo considerevole già negli scritti di Ireneo, che risalgono circa al 180 d.C.), era stata unita in se stessa. Le principali eresie, dallo gnosticismo al manicheismo all’arianesimo, in gradi e in forme differenti avevano senza dubbio rappresentato un reale pericolo per l’esistenza della Chiesa e avevano messo alla prova e qualche volta diviso (come nel caso dell’arianesimo) le comunità sparse nell’oikoumene; ciò nonostante non erano riuscite ad attrarre a sé intere comunità – comprendendo i vescovi, i presbiteri, i diaconi, i laici fino agli edifici di culto – oppure a creare le condizioni a che queste sorgessero e avessero vita durevole. Le eresie erano state di volta in volta individuate, combattute e alla fin fine isolate. Tale fenomeno si verifica invece nel V secolo. In Africa avviene con la chiesa donatista (che però non rientra nei limiti del nostro discorso). Nel Vicino Oriente si assiste a una vera e propria lacerazione del tessuto ecclesiale ed ecclesiastico e al sorgere di Chiese nelle quali si esprimono e si cristallizzano storie diverse già esistenti e visibili in precedenza, le quali però fino ad allora non avevano infirmato l’unità del corpus cristiano. Occasione per il precipitare della situazione furono gli argomenti teologici dibattuti nei concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451). Ma dire così non rende conto e ragione alla complessità reale degli accadimenti e dei loro esiti. Si è fatto cenno all’arianesimo. Esso ha proposto una “soluzione” del problema trinitario, ossia della struttura ad intra del mistero di Dio tale che potesse essere meglio colto dall’intelligenza umana. Nel V e nel VI secolo l’attenzione si sposta sul mistero del Verbo incarnato: ci si chiede come nella persona di Cristo si concilino dimensione divina e dimensione umana. Occorre forse rilevare che le questioni, trinitaria e cristologica, si distinguono solo con il progredire del tempo, perché inizialmente non sono tra loro sufficientemente separate. L’interrogativo sul come si armonizzi la divinità del Signore Gesù con la divinità di Dio Padre – e ciò nel quadro della visione monoteistica che il cristianesimo assume dal giudaismo – si interseca con l’interrogativo sul come in Cristo abbia luogo e si unisca ciò che è di Dio e ciò che è proprio dell’uomo.

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FIGURE DELLA CHIESA DI SIRIA Complesse sono le linee teologiche che già si profilano fin dal III e dal IV secolo e che costituiranno le basi sulle quali si fonderanno le lacerazioni del V. In questo panorama un notevole rilievo ha la Chiesa siriaca o meglio alcune figure che appartengno al suo mondo e alla sua cultura. Il seguirne in breve le vicende aiuterà a conoscere meglio l’oggetto di questo capitolo. Comincerò da Paolo di Samosata, un siriaco e non un greco, il quale aveva un alto compito nell’amministrazione finanziaria (doukenarios) sotto la regina di Palmira, Zenobia, e in pari tempo svolgeva il suo ministero di vescovo di Antiochia. Il suo modo di vita e le sue dottrine avevano suscitato critiche nella sua Chiesa fino a che un sinodo riunito ad Antiochia nel 268, convintolo di eresia (suo avversario fu Malchione, prete fedele ed erudito in teologia, che presiedeva a una scuola di retorica), lo aveva scomunicato e lo aveva deposto dalla sua carica; ma la protezione di Zenobia gli aveva consentito di conservare il seggio ecclesiastico finché nel 272 l’imperatore Aureliano, sconfitta Zenobia, si era impadronito di Palmira e aveva fatto espellere dalla sua sede Paolo. Teologicamente egli aveva assunto una posizione rigidamente monarchiana, distinguendo con nettezza il Verbo di Dio dalla figura storica di Gesù. Ancora Eusebio, che conosceva gli Atti del sinodo del 268, riporta il testo di una lettera inviata dai presuli adunati in quel sinodo a Dionigi, vescovo di Roma, e a Massimo, vescovo di Alessandria; ivi si riferisce che Paolo, oltre ad avere comportamenti morali del tutto condannabili, si rifiuta di confessare con la Chiesa che il Figlio di Dio è venuto dal cielo ed asserisce che Gesù è nato dal basso. I padri sinodali concludono affermando che Paolo ha rinnegato il mistero della religione cristiana e si vanta di professare l’eresia di Artemone 14. Ora Artemone, le cui opere sono andate perdute e che si sa essere stato a Roma verso il 235, doveva sostenere essere Cristo non altro che un uomo. La convinzione di Paolo era la medesima, anche se la esprimeva al termine di un discorso che teneva in conto ciò che la teologia del Logos aveva elaborato: nell’uomo Gesù era stato accolto il Logos come in un tempio; l’unione che ne risultava certo elevava l’uomo Gesù ad un grado più alto di quello dei patriarchi e dei

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Cf. HE VII, 30. 11.16.

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profeti, rendendolo in qualche maniera diverso dagli altri uomini – a lui, e non al Logos, egli attribuiva il titolo di Figlio di Dio –, ma tale titolo rimaneva pur sempre accidentale e di carattere morale. Il Samosatense insomma, radicalizzando un monarchianesimo che risale a determinate tendenze del giudeo-cristianesimo, era partigiano di una teologia che vedeva in Cristo non una personalità autonoma, ma come la forma che Dio ha preso per mostrarsi agli uomini, reagendo verosimilmente di fronte a un altro genere di teologia, la quale appellandosi alla sostanziale unità tra il Logos e la carne da lui assunta rischiava di dissolvere l’elemento umano nel divino. Anche di qui discende la cristologia ariana: essa assegna al Logos quella funzione di principio vitale che l’anima svolge nell’uomo. Ma in questo modo era possibile addossare al Verbo divino i limiti e le debolezze che le narrazioni evangeliche dicono essere state del Signore – la fame, la sete, la stanchezza, il pianto, l’angoscia, il timore – e quindi porre in luce l’inferiorità della sua natura rispetto alla essenziale perfezione ed immutabilità del Padre. Il concilio di Nicea rifiuta la cristologia di Ario, condanna nello stesso tempo il modalismo e collega strettamente la cristologia alla soteriologia: la svalutazione dell’importanza dell’umanità di Cristo non poteva non mettere in ombra l’efficacia della redenzione da lui recata agli uomini. Ma la controversia, come è ben noto, era tutt’altro che chiusa. Un’altra figura che ha una sorte singolare è quella di Apollinare di Laodicea in Siria: maestro apprezzato, esegeta di fama, amico fedele di Atanasio, sostenitore delle decisioni prese a Nicea contro gli ariani, egli si trovò alla fine condannato a causa della dottrina cristologica da lui lentamente elaborata. Per Apollinare, che si valeva della tripartizione antropologica delineata da Platone, nel Cristo si trovavano i primi due elementi del composto umano – il corpo e l’anima irrazionale – ma non il terzo, il nous, lo spirito, l’anima superiore o facoltà razionale. Così il Cristo avrebbe posseduto una divinità perfetta accanto a un’umanità incompiuta; poiché l’uomo non è al riparo dal peccato, la sua stessa libertà implica la peccabilità; e poiché Cristo doveva essere senza peccato, bisognava che la divinità stessa del Logos venisse a prevalere su quella parte dell’essere umano che assumeva per divenire simile a noi. Inoltre, egli osserva due realtà perfette come Dio e l’uomo non possono costituire una unità perfetta. Per esprimere il suo pensiero egli plasma tra l’altro una formula che sarà punto di contrasto e di riferimento da parte

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dei suoi avversari o dei suoi discepoli: «Una sola è la natura del Dio Logos incarnata». L’umanità di Cristo ne usciva mutilata. Un sinodo ad Alessandria nel 362 e due sinodi romani (del 377 e del 382) condannano le idee di Apollinare. Tuttavia il suo insegnamento e le reazioni che provoca aprono una crisi dottrinale che porteranno alle definizioni teologiche sanzionate dai concili di Efeso e di Calcedonia. Tra gli avversari di Apollinare e dell’apollinarismo – che seguitò ad avere fortuna fino alla seconda decade del V secolo e che si divise in due filoni, uno più vicino alla Grande Chiesa (Vitale di Antiochia, Timoteo di Berytus) e l’altro più radicale (Polemone) – si annoverarono Epifanio di Salamina, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo, insieme ai teologi alessandrini di cui già si è parlato nel capitolo dedicato alla Chiesa d’Egitto. Ma ancora una volta la sede antiochena, intesa nel senso di area culturale, prende un grande rilievo. Si usa parlare di Scuola di Antiochia, contrapponendola alla Scuola di Alessandria, ma ormai da tempo è noto che la prima altro non è stata che l’espressione di uno specifico filone esegetico e teologico, in cui ha fortuna un’esegesi scritturale che dà risalto a un’interpretazione storico-letterale. Alcuni studiosi indicano in Luciano di Antiochia colui che nella seconda metà del III secolo ne sarebbe stato l’iniziatore; ma troppo scarse sono le notizie su di lui. Altri ne colgono i presupposti nella tradizione teologica asiatica su cui la cosiddetta Scuola antiochena si sarebbe radicata e vedono il suo primo rappresentante in Diodoro Antiocheno, vescovo di Tarso, che ha per discepoli Teodoro di Mopsuestia e probabilmente Giovanni Crisostomo. L’idea di Diodoro secondo cui il Logos divino avrebbe abitato nell’uomo Cristo lo fa considerare di solito come uno dei padri del nestorianesimo, anche se in un frammento di un suo scritto egli rileva che non ci sono due Figli 15. Si è detto di Teodoro di Mopsuestia: un teologo e un vescovo, che nasce alla metà del IV secolo e muore nel 428 alla vigilia del concilio di Efeso, cui la storia riserva un destino drammatico. Riconosciuto in vita per la sua scienza teologica ed esegetica, rispettato nella Chiesa che serviva prima come presbitero ad Antiochia e poi

15 Cf. Diodoro di Tarso, Adversus Synousiastas, framm. 30-31, «Revue de l’Orient Chrétien» (IIIe série), 10 (1946) 271. Con l’appellativo di sinusiasti erano indicati gli apollinaristi che vedevano in Cristo la sostanza divina e quella umana unite (=sun-ousia) tanto da risultarne un’unica sostanza.

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come vescovo in Cilicia, a distanza di oltre un secolo dalla morte la sua opera e la sua memoria – con quella di Teodoreto di Cirro e di Ibas di Edessa – furono condannate nel concilio di Costantinopoli del 553 in quanto egli fu accusato di essere un nestoriano ante litteram. Cosa che causò la scomparsa della maggior parte delle sue opere che pure erano numerose. Ma già in precedenza era stato fatto segno di dure critiche da parte, per esempio, di Cirillo di Alessandria che lo aveva giudicato severamente, bollando i suoi insegnamenti come empi e assimilandoli in tutto con quelli di Nestorio. Certamente egli fu sulla linea del suo maestro Diodoro quanto alla cristologia. Opponendosi alle concezioni ariane e apollinariste, insistette sulla distinzione tra la natura divina e la natura umana nel Verbo. Il rischio che correva tale impostazione, del resto tradizionale negli ambienti antiocheni e di cui lo scrittore sembra consapevole, era quella di non spiegare come il quid costituito dalle due componenti possa fare nascere un unico quis; egli tentò di superare la difficoltà adoperando un termine, quello di “congiunzione” (sunapheia), un termine che in effetti richiama il rapporto tra due soggetti diversi e che la teologia successiva non riterrà adeguato 16. Le testimonianze frammentarie rimaste dei suoi scritti non permettono di discernere con chiarezza quale effettivamente fosse il suo pensiero cristologico; il giudizio dei critici è discorde: c’è chi lo ha considerato un Nestorio prima di Nestorio (Bardenhewer) e chi ha sostenuto che la sua dottrina, pur contenendo tendenze pericolose, abbia apportato elementi positivi che avrebbero preparato gli esiti poi emersi a Calcedonia (Grillmeier). Di recente è stato scritto: «È evidente lo sforzo di Teodoro di salvaguardare l’unità di Cristo senza menomare l’integrità e l’autonomia della natura umana: ma è fuor di dubbio che ad un alessandrino il risultato apparisse insufficiente sia per la terminologia adoperata sia perché non risultava chiaro il modo con cui l’unione si era realizzata» 17.

16 Cf. H.-I. Marrou, Dalla persecuzione di Diocleziano alla morte di Gregorio Magno, in J. Daniélou - H.-I. Marrou, Dalle origini a S. Gregorio Magno, in Nuova Storia della Chiesa, vol. I, tr. it., Genova 19762, p. 396. 17 M. Simonetti, in Dizionario di Patristica e di Antichità Cristiane, vol. I, Roma 1984, col. 3384, s.v. Teodoro di Mopsuestia.

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IL CONTRASTO TRA ANTIOCHIA ED ALESSANDRIA NEL V SECOLO Intorno al 430 si ripresentano tutti gli elementi capaci di fare di nuovo scoppiare il contrasto tra Antiochia ed Alessandria, innescato dalle diverse impostazioni concernenti la cristologia. Esso si catalizza appunto intorno a due sedi, l’antiochena e l’alessandrina. Non interessa qui ripercorrere tutte le tappe di uno scontro aspro e violento, basato soprattutto su malintesi e incomprensioni, oltre che su oggettive divergenze di opinioni, ma piuttosto interessa richiamare la posizione degli antiocheni e l’esito delle vicende, per cercare di comprendere ciò che nei decenni successivi avverrà nelle Chiese dell’Oriente cristiano. Non prima però di avere indicato i motivi che a mio giudizio scavano un solco sempre più profondo tra le cristianità antiche di quelle aree geografiche e culturali. In primo luogo i protagonisti dello scontro avevano alle loro spalle una storia ormai lunga che non ignoravano né potevano ignorare. Inoltre le due sedi patriarcali che si scontrarono avevano allora grande importanza e per ragioni di politica ecclesiastica, di prestigio, di potenza mondana erano concorrenti tra di loro, spesso rivali, nel panorama complesso e sempre mutevole, condizionato anche dalla politica imperiale. In tal senso la partita non si limitò neppure solo ad Antiochia e ad Alessandria, ma implicò anche Costantinopoli e pure Roma. Un personaggio che in quei frangenti, insieme a Cirillo Alessandrino, rivestì un ruolo importante fu Nestorio: nativo della Siria; egli era di formazione antiochena, era diventato dapprima ieromonaco e prete, fornito di doti oratorie eccezionali tanto da indurre Teodosio II (408-450) a farlo consacrare vescovo di Costantinopoli nel 428. Di temperamento intransigente e rigido, intraprese – in una città che lo sentiva estraneo – una lotta contro gli eretici per la purezza della fede. Le sue prediche riflettevano nel modo più manifesto le tendenze della teologia antiochena, distinguendo nettamente in Cristo le proprietà divine da quelle umane e gli appellativi che a ciascuna di esse si riferivano. Non stupisce quindi che tra le conseguenze che desumeva negasse a Maria il titolo di «Madre di Dio» (Theotokos): lo riteneva improprio giacché essa aveva generato un uomo – donde la sua preferenza per il titolo di Madre di Cristo (Christotokos), che riteneva più conveniente per non richiamare gli errori degli ariani e degli apollinaristi. Ma Theotokos era un appellativo corrente (in Egitto fin dal III secolo) per la pietà cristiana. I suoi modi e le sue idee ben presto suscitarono ad

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Alessandria malumori e insofferenza tanto da spingere Cirillo ad intervenire, anche per motivi politici. È risaputo che il concilio di Efeso del 431, nel quale Cirillo ha magna pars, condannò Nestorio, lo depose dalla dignità episcopale e lo escluse da tutta la comunità sacerdotale, quando ancora non era giunta la delegazione antiochena con il patriarca Giovanni. In un seguito di vicende drammatiche gli antiocheni, giunti ad Efeso, scomunicarono a loro volta Cirillo. L’imperatore Teodosio confermò la deposizione e dell’uno e dell’altro; ma poco dopo dispose che Nestorio fosse esiliato dapprima in un monastero in Arabia e poi in Libia (ed in esilio rimase dal 436 al 451, anno della sua morte), mentre Cirillo rientrava in Alessandria e, in una competizione ben lontana dallo spirito evangelico, risultò “vincitore” sull’avversario teologicamente e “politicamente”. La divina maternità di Maria rimase così sanzionata ufficialmente. A Roma papa Sisto († 440), consacrato nel luglio del 432, approvò quanto stabilito dal concilio e, tra l’altro volle che nell’arco trionfale della basilica di Santa Maria Maggiore, da lui fatta costruire, apparissero i mosaici di Maria che ancora oggi ornano splendidamente quella chiesa. La grave frattura tra Alessandria e Antiochia fu risanata nel 433 quando la professione di fede di Giovanni antiocheno venne accolta da Cirillo: è la cosiddetta «formula di unione». In seguito ad essa gli antiocheni approvarono la condanna di Nestorio, Cirillo rinunciò ai 12 anatematismi che aveva redatto e inviato a Nestorio stesso nel novembre del 430 insieme all’invito di papa Celestino (422-432) di sconfessare le sue dottrine. In tal modo Nestorio rimase del tutto isolato e per di più consegnato in un duro esilio. Ancora attualmente, analizzando i suoi scritti rimastici, si discute se egli sia stato effettivamente un eretico nel pieno senso del termine o non sia stato piuttosto una vittima di malintesi e di circostanze convergenti a lui sfavorevoli – di carattere politico, ecclesiastico, personale, dovute anche al suo temperamento intransigente e non di rado violento –, che esasperarono una situazione che altrimenti avrebbe potuto avere altro esito. Poco meno di 20 anni dopo, allorché Leone I papa scrisse il Tomus ad Flavianum e definì la questione cristologica in maniera definitiva per una buona parte della Grande Chiesa, Nestorio in una sua apologia giuntaci in versione siriaca, il Libro di Eraclide di Damasco, dichiarò la corrispondenza delle sue concezioni con quelle espresse dallo scritto leoniano. Certamente in esso Nestorio scorse come un riconoscimento delle sue

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tesi contro quelle più radicali espresse da Cirillo, sospette di apollinarismo. Né si deve escludere uno sviluppo del suo pensiero e della sua terminologia. Rimane però il fatto che la formula nestoriana «due nature, due ipostasi, un prosopon» da una parte e l’idea dell’unione morale – e non ontologica – delle due nature in Cristo dall’altra la fa divergere l’impostazione del Tomus ad Flavianum. IL CONCILIO DI CALCEDONIA E LA CHIESA DI SIRIA Bisogna dire che alcuni sostenitori della teologia cirilliana, scontenti dell’accordo stabilito nella «formula di unione» del 433 tra Alessandria e Antiochia avevano guardato con simpatia alle teorie di un vecchio monaco di Costantinopoli, di nome Eutiche (amico di Cirillo e del suo successore nella sede di Alessandria, Dioscoro), il quale aveva posto in speciale evidenza l’elemento che nell’incarnazione deriva da Dio rispetto a quello che è propriamente umano; egli interpretava in modo rigido e letterale la formula: «Unica è la natura del Verbo incarnato» e non era propenso ad accettare incondizionatamente l’altra formula che il simbolo di Efeso aveva plasmato: essere Cristo «consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale a noi secondo l’umanità». Eutiche fu denunciato dinanzi al patriarca di Costantinopoli, Flaviano, accusato di predicare che, se prima dell’unione vi sono in Cristo due nature, nell’unione ne sussiste solo una, e nel 448 fu condannato dal sinodo permanente riunito nella capitale d’Oriente. Nel luglio del 449 giungeva intanto a Flaviano il Tomus di Leone I, vescovo di Roma. Nell’agosto dello stesso anno si compiva il concilio di Efeso, nel quale Dioscoro, omettendo di presentare il documento pontificio, ottenne dall’assemblea la riabilitazione di Eutiche e la deposizione di Flaviano, Teodoreto e d’altri avversari. Le proteste di Leone e dell’episcopato dell’Italia e della Gallia presso Teodosio II non ebbero effetto. Ma la morte tolse di scena l’imperatore e Marciano, che gli succedette, dispose perché venisse convocato un altro concilio, che avrà luogo nel 451 a Calcedonia. Esso annullò gli Atti del concilio di Efeso del 449, riabilitò Flaviano, depose Dioscoro, ribadì la condanna di Nestorio e Eutiche e soprattutto definì la dottrina cristologica in termini che sono gli stessi del Tomus ad Flavianum: «Seguendo i santi padri, noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto

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nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per divinità, e consostanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi fuorché nel peccato, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l’umanità, uno e medesimo Cristo Signore unigenito, da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi» 18. Sono eventi dei quali già si è fatto cenno anche nel capitolo dedicato alla Chiesa dell’Egitto. In Siria proprio il concilio di Calcedonia apre una diversa prospettiva. Se fino al concilio di Efeso del 431 quella regione era stata favorevole in gran parte alle dottrine di Nestorio e contraria a quelle cirilliane, venti anni dopo la situazione è mutata. In proposito le vicende di Filosseno di Mabbug sono sintomatiche: formatosi teologicamente alla Scuola di Edessa sui testi di Teodoro, dapprima abbraccia le tesi duofisite per poi abbandonarle ed avvicinarsi a quelle cirilliane, sottolineando che l’economia divina si palesa nell’Incarnazione. Dopo Calcedonia dunque in Antiochia e nella Siria occidentale calcedonesi e monofisiti – sarebbe meglio dire anticalcedoniani, ossia teologi e pastori che assumono posizioni assai varie rispetto alle tesi di Eutiche, da quelle radicali e intransigenti a quelle più moderate e sfumate –, si affrontano e si scontrano anche violentemente. Pietro il Fullone (†488) è il primo patriarca monofisita. Le vicende da lui vissute riflettono il clima della capitale siriaca: per tre volte occupa e lascia la cattedra episcopale antiochena, essendo deposto o esiliato o allontanato. Dapprima contrasta il vescovo della città Martirio, riesce a succedergli, ma nel 471 è costretto a ritirarsi. È deposto ed esiliato dall’imperatore Leone (457-474), ma ritorna ad Antiochia in occasione della rivolta di Basilisco (476-476). Filosseno di Mabbug segue la sorte di Pietro quando questi è rimosso dalla sua sede nel 476 per volere del patriarca Calendione (482-484), favorevole a Calcedonia. E proprio l’opera di Filosseno ottiene dall’imperatore Zenone (†491) che Calendione sia a sua volta deposto

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Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., p. 86.

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e Pietro rientri nel 484, ove rimane fino alla morte in un clima a lui più propizio. Infatti nel 482 Zenone, tentando la via della pacificazione religiosa, aveva emanato l’Henotikon, l’editto di unione, nel quale si condannavano Nestorio ed Eutiche, si esaltava la memoria di Cirillo, si faceva un cenno sostanzialmente negativo a Calcedonia, si ignorava il Tomus leoniano e ci si riferiva al Simbolo di Nicea come alla sola e vera professione di fede. Intorno all’Henotikon si raccolsero consensi, da parte dei molti che si piegarono subito alla volontà imperiale, e dissensi; in ogni modo se ne diedero differenti interpretazioni. Anche ad Antiochia la lotta tra calcedoniani e anticalcedoniani fu grande. Si è detto di Pietro il Fullone e di Calendione. È noto l’appoggio che Filosseno diede alla causa monofisita e la decisione con cui combatté gli avversari, tra i quali si annoverava il patriarca calcedonese di Antiochia, Flaviano II (498-512); dopo parecchi anni di lotta, nel 512 riuscì a farlo deporre (per ordine imperiale fu esiliato a Petra, nell’Arabia Petrea) – ed a farlo sostituire con Severo di Antiochia. Severo, personalità di notevole rilievo, era nato in Pisidia, a Sozopoli, si era formato ad Alessandria e Berito, in ambiente monofisita, prima di dimorare in un monastero presso Gaza e soggiornare a Costatinopoli ove aveva diffuso le sue idee in un tempo in cui, sotto Anastasio I (491-518), aveva ancora fortuna l’Henotikon. Nella capitale della Siria rimase 6 anni, spendendosi per la sua causa. Ma l’avvento di Giustino I (518-527) e della nuova politica religiosa filocalcedoniana che questi impose, lo obbligò a fuggire. Andò in Egitto in esilio per continuare a combattere la sua battaglia, in special modo tramite la sua opera scritta; ivi morì nel 538, dopo una breve parentesi (tra il 531/532 e il 536) passata a Costantinopoli sotto la protezione di Teodora (527-548), moglie di Giustiniano (527565). Fu uomo di tempra eccezionale e di energico carattere, che guardò con simpatia il monofisimo, in un momento in cui l’imperatore si era adoperato per trovare un accordo con quella corrente religiosa cristiana. Ma ci si può domandare se il termine «monofisismo» rifletta effettivamente il credo di Severo. Senza dubbio questi e i suoi seguaci non accettano il Tomus leoniano e respingono la definizione di Calcedonia; senza dubbio mostrano ammirazione e fedeltà verso l’insegnamento di Cirillo. E tuttavia «ritroviamo in questo l’ispirazione nettamente spirituale che li anima, il loro pensiero si sviluppa a partire da una contemplazione del Verbo eterno; è sempre su di

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lui, sulla sua divinità che si medita, quando si passa dalla Trinità all’Incarnazione, dal Figlio di Dio a Gesù Cristo; di Gesù Cristo appunto si esalta soprattutto l’unità, poiché le due nature si distinguono soltanto in virtù di una distinzione logica, e non reale» 19. In ogni modo il suo fu il tempo in cui ad Antiochia e nella Siria si verificarono tra i cristiani durature divisioni che diedero luogo a differenti gerarchie: le due comunità calcedonese e monofisita ebbero ciascuna il proprio patriarca, i propri vescovi, il proprio clero ad Antiochia e nelle varie città episcopali. Coloro che non riconobbero le decisioni di Calcedonia presero poi il nome di giacobiti, da Giacomo Baradeo (†578), vescovo di Edessa dal 566, monofisita convinto, il quale ebbe molta influenza nella Chiesa che presiedeva e la organizzò stabilmente. Cronache posteriori fanno sapere che consacrò molti vescovi e moltissimi preti. Nei decenni precedenti, Giustiniano aveva cercato invano di facilitare un’intesa tra ortodossi e severiani. Il fallimento dei suoi tentativi lo indusse a imporre misure poliziesche contro i dissidenti, lui che si protestava fedele a Calcedonia. Per ingraziarsi i severiani (e i monofisiti) nel 543 l’imperatore, con un atto di carattere propriamente religioso, emise un editto dogmatico (i Tre Capitoli) in cui raccolse testi di tre autori vissuti nel secolo precedente, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cirro e Ibas di Edessa, e ne condannò le dottrine; egli cioè condannò la prima tradizione di Antiochia, ben viva prima ad Edessa e poi a Nisibi, la quale era sfociata nella teologia nestoriana. Nel 551 l’imperatore emanò un altro editto dottrinale e nel 553 indisse un concilio a Costantinopoli, il V concilio ecumenico (in cui si consumò il dramma di papa Vigilio costretto a sottoscrivere la condanna dei tre menzionati, con le conseguenti gravi fratture che la cosa provocò all’interno delle Chiese latine). Ma le iniziative giustinianee volte a fare rientrare nella Grande Chiesa i monofisiti fallirono: perciò egli riprese la persecuzione contro di loro.

19 H.-I. Marrou, Dalla persecuzione di Diocleziano alla morte di Gregorio Magno, in J. Daniélou - H.-I. Marrou, Dalle origini a Gregorio Magno, cit., p. 418.

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DALLA CONQUISTA ARABA AI NOSTRI GIORNI Nonostante le difese fatte approntare da Giustiniano nelle province siriache, all’inizio del VII secolo i persiani tornarono a invadere il paese. Eraclio (610-640) li sconfisse e riconquistò le terre perdute. Egli aveva allora tentato di ristabilire l’unità religiosa nell’Impero, venendo incontro ai monofisiti: donde l’elaborazione di una dottrina che sosteneva esservi in Cristo due nature e un’unica volontà. La tesi teologica di Eraclio, definita monotelismo, fu dichiarata dottrina ufficiale dell’Impero nel 638, ma non fu accolta dai monofisiti, mentre fu accettata dai calcedonesi di Siria, per essere poi condannata da un concilio tenuto a Costatinopoli sotto Costantino IV (668-685) e nel 692 da un altro concilio. Si era intanto profilata un’altra minaccia, costituita dalla pressione esercitata sulle frontiere meridionali e orientali dell’Impero romano d’Oriente, dagli arabi mussulmani: indebolito dalle lunghe lotte sostenute con i persiani, nel 635 persa la capitale Damasco e nel 636, con la sconfitta subita a Yarmuk, Eraclio dovette ritirarsi in Asia Minore. Nel 638 capitolarono Gerusalemme e Antiochia, nel 640 Cesarea ed Edessa: la perdita della Siria e della Palestina, in quel tempo considerate un’unica entità, fu completa. Nei primi anni i vincitori si limitarono a occupare militarmente il territorio e a riscuotere i tributi. Essi trovarono nel paese due partiti cristiani contrapposti, i calcedoniani o melkiti e gli anticalcedoniani o giacobiti. I primi condividevano la fede degli imperatori bizantini, gli altri no; i primi erano visti con maggiore diffidenza dai mussulmani perché ritenuti più dipendenti da un potere straniero. Forse per questo non si consentì per lungo tempo ai melkiti di scegliere liberamente i propri patriarchi. Tra questi ultimi alcuni collaborarono con i mussulmani e altri, specialmente nelle campagne, vi si opposero con le armi; ma la loro resistenza fu resa vana dalla pace stipulata nel 689 da Giustiniano II (685-695) con il califfo ‘Abd al-Malek. IL VICINO ORIENTE SOTTO LA DOMINAZIONE ARABA In particolare per la Siria, la dinastia degli omayyadi stabilì la propria capitale a Damasco e cominciò a svolgere un’azione culturale, oltreché religiosa, di islamizzazione. Fu l’età della grande espansione mussulmana che diede a quella città splendore e presti-

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gio. Intorno al 750 la sede del califfato fu però spostata prima a Kufah e poi a Baghdad in Iraq, quando il potere passò dagli omayyadi agli abbasidi, che provenivano dalla Persia. Nei tempi successivi la Siria altro non fu che una provincia di un impero che stava sempre più ingrandendosi. Nel 969 i romani d’Oriente riconquistarono Antiochia. La rappresaglia dei mussulmani non si fece attendere, prendendo di mira la popolazione cristiana di Edessa e distruggendo la basilica della Resurrezione di Gerusalemme. D’altra parte i giacobiti non videro di buon occhio la venuta di un esercito che dipendeva da Costantinopoli, ossia da una sede politica e religiosa che accettava e teneva ad imporre la fede calcedonese: tanto che nel 1034 il patriarca giacobita di Antiochia lasciò la città per stabilirsi altrove, ad Amid, centro vicino alla frontiera con la Siria. Ma già nel 1084 i turchi selgiuchidi, riuscirono ad impadronirsi nuovamente di Antiochia, dopo avere sconfitto i bizantini. Pochi anni dopo, nel 1098 Antiochia e nel 1099 Gerusalemme, furono conquistate dai crociati e formarono il regno franco che ebbe vita fino al 1291, allorché con Acri cadde il suo ultimo baluardo, e la Siria, riunita alla Palestina e all’Egitto, ritornò completamente sotto il dominio mussulmano, all’epoca del sultanato dei mamelucchi. Finì così l’avventura dei crociati e venne meno un certo rigoglio di vita sociale, economica e culturale che essi avevano recato e di cui aveva goduto anche la Chiesa giacobita, ponendo in campo figure di rilievo come il patriarca Michele il Siro o Bar-Hebraeus. In quel tempo i siro-occidentali entrarono in contatto anche con gli armeni, o almeno con quelli tra loro che, dopo la devastazione recata dai selgiuchidi nella Grande Armenia, si erano spostati nella regione della Cilicia e ivi avevano dato vita alla Piccola Armenia, in un territorio non lontano dai territori della Siria. Poi, lentamente, con il fallimento delle imprese dei crociati, i mussulmanai ripresero le aree e le nazioni che avevano dovuto abbandonare: nel 1144 conquistarono di nuovo Edessa, nel 1187 Gerusalemme, più tardi, nel 1268 Antiochia, nel 1289 Tripoli. I crociati non seppero cogliere i vantaggi derivanti dall’avanzata dei mongoli fino alle sponde del Mediterraneo; essi avevano stretto con i cristiani buoni rapporti e la loro presenza avrebbe potuto giovare all’intera area del Vicino Oriente. I crociati, anziché favorirli, lasciarono che i mamelucchi d’Egitto li sconfiggessero, respingendoli fino in Mesopotamia. In tale modo fu interrotto ogni con-

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tatto fra l’Occidente e la Chiesa giacobita. Fino al 1375 rimase, come un’isola, solo il regno franco-armeno della Piccola Armenia. Con l’inizio del XV secolo la politica di Tamerlano spense ulteriormente i segni e la presenza dei cristiani. Nel 1453 gli ottomani, sotto la guida di Maometto II conquistavano Costantinopoli, ponendo fine al millenario Impero romano d’Oriente. Con il secolo successivo il paese decadde ulteriormente sotto il dominio turco. La fine del sec. XVIII vide la rapida conquista da parte di Napoleone, cui Giazzar Pascià resistette con accanimento. Trent’anni dopo, l’Egitto conquistò la Siria, ma l’Inghilterra fece in modo di riconsegnarla alla Turchia. Da allora cominciò un martirio vero e proprio dei cristiani, compresi i siriani, nel Vicino Oriente, ad opera dei Turchi: nel 1860 in Libano, poi durante la Prima Guerra mondiale nella Siria stessa. Con il 1923 il paese passò sotto il protettorato francese. Nel 1946 ottenne la completa indipendenza dalla Francia; nel 1958-1961 si unì all’Egitto formando la Repubblica Araba Unita, situazione che si mantenne fino al 1977, quando nacque la Repubblica Araba Siriana. Attualmente i mussulmani sunniti sono il 74% circa della popolazione, gli sciiti il 12%, i drusi il 3%, i cristiani il 5, 5% (cui si aggiunge il 5, 5% di altre confessioni) su una popolazione che ammonta a poco più di 17 milioni 20. Attualmente il cristianesimo è rappresentato da due Chiese che si richiamano alla tradizione giacobita: la Chiesa siro-ortodossa di Antiochia (come essa stessa si è definita in un sinodo recente del 1981) e la Chiesa siro-cattolica (adunando quest’ultima coloro che nel sec. XVII, esattamente nel 1656, entrarono in comunione con Roma); e da due Chiese che si rifanno a Calcedonia: la Chiesa greco-ortodossa di Antiochia e la Chiesa greco-cattolica o melchita (melchita è l’appellativo che designava i cattolici fedeli a Leone I, l’imperatore che convocò il concilio di Calcedonia del 451), oltre alla comunità cattolica maronita. L’odierna situazione vede così l’esistenza di 5 patriarcati e di 5 patriarchi 21. Sono queste divisioni che risalgono dunque a un tempo remoto. Ma nel frattempo è avvenuto il grande scisma del 1054 con le reciproche scomuniche. Un numero limitato di siriani cristiani dimora oggi anche in Iraq, Turchia, Israele, Cisgiordania. Altri, più numerosi, abitano in 20 Cf. Atlante Geografico, L’Enciclopedia, Istituto Geografico De Agostini, vol. 25, Novara 2004, pp. 780ss. 21 Cf. R. Roberson, The Eastern Christian Church, Roma 1993, pp. 22ss.

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paesi europei e nell’America del Nord. Infatti da molto tempo si assiste a un movimento di emigrazione, tuttora in corso, da parte dei cristiani in strettezze nei loro paesi vicino-orientali a motivo di difficili situazioni civili, sociali ed economiche ed a motivo di un atteggiamento non amichevole dell’islam. Tutta quell’area ha risentito e risente dei molti gravi conflitti che da decenni sono vivi e devastanti: da Cipro al Libano, dall’Iraq all’Iran ad Israele, così come risente delle tendenze fondamentaliste particolarmente attive in anni a noi vicini, fino ad oggi. Si è visto come la dottrina monofisita si presentasse con varie sfaccettature: se vi era una formulazione radicale, ve ne era pure un’altra più mitigata, come quella di Severo. Rifacendosi proprio a determinate linee dottrinali, non sorprende che, dopo tanti secoli di divisioni, si giunga a riconoscere tra diverse Chiese una base comune e ad affermare che tante fratture sono state causate da differenze di lingua, di cultura, di mentalità, ma non hanno scalfito i contenuti della fede. È quanto accade nei rapporti tra la Chiesa siroorientale e la Chiesa cattolica, come si vedrà al termine del X capitolo dedicato alla Persia (cf. infra, pp. 230ss.), o tra la Chiesa siro ortodossa indiana e ancora la Chiesa cattolica, come si dirà al termine del XI capitolo dedicato all’India (cf. infra, pp. 253s.). BIBLIOGRAFIA L.W. Barnard, The Origins and Emergence of the Church in Edessa during the First Two Centuries A. D., «Vigiliae Christianae», 22 (1968) 161-175. S. Brock, Studies in Syriac Christianity. History, Literature and Theology, Hampshire 1992. Id., Spirituality in the Syriac Tradition, Kottayam 1989. R. Devreesse, Le Patriarcat d’Antioche depuis la Paix dell’Église jusqu’à la conquête arabe, Paris 1945. G. Downey, A History of Antioch in Syria, Princeton 1961. H.J.W. Drijvers, Bardaisan of Edessa, Essen 1966. Id., Cults and Belief in Edessa, Leiden 1980. Id., East of Antiochia. Studies in Early Syriac Chrstianity, London 1984. Id., History of Religion in Late Antique Syria, London 1994. A.J. Festugière, Antioche païenne et chrétienne et les moines de Syrie, Paris 1959.

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CAPITOLO VIII

LA LETTERATURA SIRIACA PRIMITIVA* di René Lavenant

INTRODUZIONE L’obiettivo di queste pagine, come il titolo stesso indica, non è quello di delineare pur a grandi linee un panorama di tutta la letteratura siriaca. Altri l’hanno già fatto e ci sembra superfluo ripetere questo tipo di esposizione 1. Ci limiteremo invece al periodo precedente le grandi lacerazioni, sorte in seguito alle controversie cristologiche, per tentare di individuare il carattere originale di questa letteratura. Vogliamo sottolineare i rapporti con l’ambiente religioso e socio-culturale entro cui essa è fiorita, prima che le dispute dottrinali, dando origine a tradizioni divergenti se non antagoniste, rendessero confusa l’immagine di un cristianesimo ricco invece di una sua originalità ben rimarcata. D’altra parte, proprio a questa radice del cristianesimo siriaco indiviso vogliono ricollegarsi le differenti tradizioni, quando ciascuna di esse rivendica l’esclusività di un patrimonio che è invece un bene comune. IL SIRIACO Tale patrimonio è costituito e trasmesso tramite il dialetto aramaico di Edessa, o siriaco. Si tratta di uno dei tre dialetti orientali 2 derivato dall’aramaico imperiale, che fu la lingua franca dell’Impe-

* La traduzione dal francese di questo testo è di Lella Scarampi. 1 Cf. P. Bettiolo, Lineamenti di patrologia siriaca in A. Quacquarelli (ed.), Complementi interdisciplinari di Patrologia, Città Nuova, Roma 1989, pp. 503-603. Come pure H. Eaton (ed.), Horizons in Semitic Studies, Birmingham 1980, pp. 1-68. 2 I due altri dialetti sono, nella Bassa Mesopotamia, il mandeo, utilizzato da una setta battista dallo stesso nome all’inizio dell’èra cristiana e, in Babilonia, il giudeo-babilonese, lingua del Talmud di Babilonia. Per quanto riguarda i dialetti occidentali, vi si annoverano tra gli altri, in Arabia del Nord, il nabateo, in Palestina l’aramaico biblico e

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ro achemenide, dal Nilo all’Indo. Sostituito dal greco, divenuto lingua ufficiale in seguito alle conquiste di Alessandro, l’aramaico continuò ad evolversi, diversificandosi in molti dialetti, orientali e occidentali, secondo le regioni e gli ambienti culturali. Con il declino della dominazione ellenistica sulla Mesopotamia, i dialetti locali ebbero modo di svilupparsi e di giungere al livello di lingua letteraria. Per quanto riguarda il siriaco, fu grazie al cristianesimo che poté affermarsi come lingua di un’immensa letteratura, le cui opere si situano tra il II e il XIII secolo. Il consolidamento definitivo della lingua avvenne nel IV secolo, all’epoca della revisione della prima versione siriaca dell’AT, la Peshitta. Da questo momento il siriaco diventa, con una certa approssimazione, la medesima lingua usata ad Edessa, a Nisibi, fino in Persia. La separazione tra Chiese siro-orientali e siro-occidentali 3, dovuta alle controversie cristologiche del V secolo, non introducono cambiamenti a livello di lingua, ma provocano differenze nella pronuncia delle vocali 4. Per quanto riguarda la scrittura, oltre all’alfabeto detto estranghelo, dei più antichi manoscritti, comparve nell’VIII secolo un nuovo tipo più compatto, il serto, usato ai giorni nostri nelle comunità siro-occidentali. Qualche secolo dopo i siro-orientali adottarono un’altra scrittura derivata dall’estranghelo, detta scrittura caldea o nestoriana. La conquista araba nel 636 impose l’arabo alle regioni conquistate e provocò quindi la graduale scomparsa del siriaco come lingua parlata. All’inizio del IX secolo il siriaco è ormai una lingua quello dei targums. Sono i due dialetti che si avvicinano maggiormente al galileo parlato da Gesù e dagli apostoli. Infine, il siro-palestinese (detto anche cristo-palestinese) in uso durante il III e il IV secolo nelle comunità cristiane melchite della Palestina. 3 Per siro-occidentale si intende la Chiesa siriana ortodossa, detta anche monofisita o giacobita, dal nome del suo organizzatore, Giacomo Baradeo (†578), e la Chiesa siriana cattolica, così come la Chiesa maronita interamente cattolica. La Chiesa siroorientale, da parte sua, include anche un ramo cattolico, i Caldei, mentre i siro-orientali non uniti a Roma, un tempo erano chiamati nestoriani e oggi sono gli assiri. Sotto le denominazioni di «siro-malabaresi» e «siro-malankaresi» si ritrovano le medesime suddivisioni nelle Chiese siriache dell’India. Per una documentazione più completa, cf. R. Roberson, The Eastern Christian Churches. A Brief Survey, Edizioni «Orientalia Christiana», Roma 19996. 4 La pronuncia orientale è generalmente riconosciuta come più arcaica. La grafia e la pronuncia delle vocali sono inoltre più complesse di quelle del siriaco occidentale.

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morta, scritta e parlata solamente negli ambienti colti, così come il latino nell’Europa del Medio Evo e del Rinascimento 5. GLI SCRITTI PRECRISTIANI Come abbiamo detto, il siriaco divenne una lingua letteraria grazie al cristianesimo. Precedentemente alle prime opere cristiane abbiamo tuttavia quattro scritti, che può essere interessante esaminare, pur rapidamente. Inizieremo con La sapienza di Ahiqar, un testo sapienzale che presenta punti di contatto con l’AT. Vedremo quindi due testi pagani, il primo dei quali contiene un’allusione a Cristo, il secondo attribuisce a un pagano di Harran alcune profezie su Cristo. Infine, un testo di carattere storico, tratto dagli archivi di Edessa, che testimonia la presenza di una comunità cristiana nella città. Ahiqar

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Questo personaggio, di cui sembra provata la storicità, è l’eroe di un antico racconto di origine babilonese, tradotto in aramaico nel VI secolo a.C. Ahiqar fu un vizir o scriba assiro che godette i favori di Sennacherib (704-681 a.C.) e di Assarhaddon (681-669 a.C.). A causa di un complotto tramato da Nadan, suo nipote e figlio adottivo, smanioso di succedergli, Ahiqar perde il favore del suo signore ed è condannato a morte, ma è salvato in extremis dal boia, che lo nasconde presso di sé avendolo sostituito con un altro condannato. Dopo la supposta morte di Ahiqar, il re dell’Egitto si sente più libero di creare difficoltà contro il re della Siria, gli impone folli pretese che nessun inviato assiro riesce a soddisfare.

5 I cristiani siriaci di Turchia, Iraq e Iran parlano ancora oggi diversi dialetti aramaici. Nonostante la denominazione generica di neo-siriaco con cui vengono alle volte indicati, questi dialetti non derivano dal siriaco classico, ma da altri dialetti parlati in queste regioni da tempo immemorabile. I più noti sono il soureth parlato in Iraq e in Iran e il tourani, dialetto dei cristiani siro-occidentali in uso lungo la frontiera nordorientale della Siria. Cf. J. Rhétoré, Grammaire de la langue Soureth, Mossul 1912. 6 Studio e tr. fr.: F. Nau, Histoire et Sagesse d’Aikar l’Assyrien, Paris 1909. Studio, edizione e tr. ingl.: The Story of Ahikar, by F.C. Conybeare - J. Rendel Harris - A. Smith Lewis, Cambridge, 19132.

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Si rivelano più che mai indispensabili la saggezza e la capacità politica di Ahiqar. È venuto il momento, per il salvatore di Ahiqar, di farlo uscire dal suo nascondiglio e di presentarlo al re, che lo reintegra nel suo rango. Ahiqar va in Egitto, risponde abilmente a tutte le richieste egiziane e al proprio ritorno ottiene dal re di poter infliggere a Nadan la pena suprema. Prima ancora di essere affidato ai carnefici, costui vede il proprio corpo gonfiare e scoppiare, come giusta punizione della sua condotta criminosa. Questo racconto è posto tra due serie di massime, consigli ed esortazioni rivolte a Nadan da parte di Ahiqar. La prima serie ha lo scopo di perfezionare l’educazione del giovane e renderlo idoneo a succedere al proprio padre adottivo nei suoi alti incarichi presso il re. Nella seconda Ahiqar trae insegnamenti dall’indegno comportamento di Nadan, preludio del terribile castigo che ricadrà su di lui. Tale opera, che si ispira al libro biblico dei Proverbi, a sua volta è stata utilizzata dal Siracide e dal redattore della versione greca del libro di Tobia, che presenta Ahiqar come il nipote di quest’ultimo 7. Un frammento lacunoso della versione aramaica risalente al V secolo è stato scoperto negli archivi della colonia militare giudaica di Elefantina. La versione siriaca è forse una traduzione diretta del testo aramaico, eseguita all’inizio della nostra era. Questo testo interessa non soltanto per la straordinaria fortuna di cui ha goduto in Oriente e in Occidente, ma anche per i dati geografici, storici e filologici che contiene e che si ritroveranno come sfondo di numerosi racconti di martirî e di fondazioni monastiche. Sappiamo quale fortuna avranno successivamente tali generi letterari. Lettera di Mara Bar Serapione

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Si tratta, qui, di una testimonianza umana ricca di accenti patetici. Mara Bar Serapione, originario di Samosata e prigioniero, in qualche luogo, dei romani, indirizza al figlio da cui è separato una lettera per invitarlo a perseguire con zelo infaticabile l’acquisizione della scienza, per esortarlo al disprezzo dei beni di questo mondo e alla forza d’animo davanti alle avversità. 7 8

Cf. Tb 1, 21-22. Ediz. e tr. ingl.: W. Cureton, Spicilegium Syriacum, London 1855, pp. 43-48.

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L’autore di questa toccante lettera era uno stoico, pagano, o credente in un Dio unico? Non ci sono certezze, a questo riguardo. Non si può escludere che i copisti cristiani, trascrivendo la lettera, abbiano volutamente omesso i due punti del plurale sul termine siriaco indicante Dio, per far apparire monoteista il nostro autore. D’altronde, questa lettera contiene un’allusione chiara a Cristo, là dove evoca la morte inflitta dai giudei al saggio re «che aveva instaurato nuove leggi» 9. Nessuna notizia precisa riguardante avvenimenti contemporanei permette di datare tale testo con esattezza. Non ci sono elementi per farlo risalire all’occupazione romana di Samosata nel 72, né per farlo slittare oltre il IV secolo. La prigionia di Mara Bar Serapione potrebbe datarsi piuttosto nella seconda metà del III secolo, al tempo del flusso e riflusso delle armate sasanidi e romane. Sarebbe insomma la vicenda di un nativo del luogo – e con lui, quanti altri! – abbandonato nelle mani del conquistatore o, meglio, del predone di turno. Baba di Harran

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Questo personaggio viene presentato da uno scrittore cristiano anonimo come un profeta pagano precedente la nostra era, che lasciò alcune profezie su Cristo. Il carattere artificiale dell’insieme, accentuato dalle reminiscenze bibliche 11, sembra evidente. Sicuramente siamo di fronte a testi costruiti o rimaneggiati con uno scopo apologetico contro il paganesimo ancora ben presente ad Harran. Uno scritto degli Archivi di Edessa

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Nella Cronaca di Edessa – la cui redazione definitiva risale al VI secolo –, si trova inserito, trascritto tale e quale, il racconto redatto, sembra, da un testimone oculare dell’inondazione che nel novem-

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Ibid. p. 46, 11.19-20. Cf. A. Baumstark, GSL 11. Cf. Lc 2, 34; Mc 13, 2. Ediz. e tr. lat.: I. Guidi, Chronica Minora, CSCO 1, 2 (1903).

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bre del 201 d.C. devastò la città di Edessa. Sono ricordati, oltre le 2000 e più vittime che perirono, annegate durante il sonno, i danni provocati al palazzo reale, ai negozi e alle case dei privati, così come alla chiesa dei cristiani. Possiamo qui fare due osservazioni. In primo luogo, pur lasciando intravedere che il cristianesimo, a quell’epoca, era ancora ai margini della vita ufficiale, questa relazione dimostra per lo meno che all’inizio del III secolo esisteva ad Edessa una comunità cristiana organizzata, con un proprio luogo di culto. Inoltre il ricorso a periti e a geometri per la ricostruzione della città, le misure adottate dal re Abgar e autenticate da un atto notarile per fronteggiare nel futuro il ripetersi di una simile catastrofe e circoscriverne i disastri, tutto questo indica come a Edessa agisse una amministrazione veramente degna di questo nome. EDESSA

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Edessa aveva ereditato l’amministrazione dei seleucidi, che l’avevano istituita nel 302 a.C. Quando, 170 anni più tardi, nel 132 essi abbandonarono la Mesopotamia per ritirarsi a ovest dell’Eufrate, la città poté affermarsi come il centro religioso e letterario della reazione aramaica contro l’ellenismo. Governata ormai da una dinastia autoctona, essa favorì di buon grado il fiorire di una letteratura che si esprimesse nella lingua locale. Il cristianesimo trovò subito un ambiente culturale particolarmente favorevole ad esprimere il messaggio evangelico con i simboli e le categorie mentali dell’Antico e del Nuovo Testamento. Anche se il greco era ancora largamente conosciuto e compreso, la lingua e la letteratura aramaica erano portati a preferire la visione simbolica e sintetica della realtà, propria della fede cristiana, all’approccio analitico e speculativo del pensiero greco 14. 13 Edessa: in siriaco Urhay, oggi Urfa in Turchia, a 200 km circa a nord-est di Aleppo. La città prese il nome da quello dell’antica capitale della Macedonia, probabilmente in seguito al formarsi di una colonia macedone. Furono i romani a creare nel 216 d.C. la provincia di Osroene con Edessa capitale. Cf. J.-B. Segal, Edessa, the “Blessed City”, Oxford 1970. 14 Non fu così sul piano dei modelli retorici dove, al contrario, avvenne una vera e propria osmosi tra le culture ellenica e semitica, dando luogo a quello che fu definito un ambiente culturale “ibrido”. Cf. R. Murray, Some Rhetorical Pattern in Early Syriac Literature, in A Tribute to A. Vööbus, Chicago 1977, pp. 109-131.

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Infine, la posizione geografica di Edessa, posta all’incrocio di tutte le vie di commercio tra i paesi mediterranei, l’est della Mesopotamia e la Persia, lascia pensare che la sua evangelizzazione abbia avuto inizio molto presto. Alla ricerca delle origini Come molte Chiese d’Oriente e di Occidente, anche la Chiesa di Edessa volle rivendicare un’origine apostolica. Essa cercò addirittura di collegarsi a Gesù stesso. Eusebio di Cesarea riferisce di aver trovato negli archivi della città un documento, di cui ha lasciato la traduzione greca 15, in cui si trovano due lettere. L’una è del re di Edessa Abgar V a Gesù, in cui gli chiede di venire ad Edessa per guarirlo dalla sua malattia. L’altra è di Gesù, che gli risponde e che non può acconsentire alla richiesta, ma dice che gli manderà uno dei propri discepoli per guarirlo. Il documento riferisce ancora che dopo l’Ascensione l’apostolo Tommaso inviò ad Abgar Taddeo, uno dei settanta discepoli, che si recò ad Edessa e mediante l’imposizione delle mani, in nome di Gesù, guarì non soltanto il re, ma anche molti altri malati. Il re gli permise perciò di predicare il Vangelo. Tale racconto fu ripreso e ampliato con altri elementi leggendari nello scritto intitolato Dottrina di Addai 16, ritenuto generalmente del V secolo. L’evangelizzatore di Edessa non si chiama più, qui, Taddeo, ma Addai, che appare come un personaggio storico. Si tratta di uno solo, o di due distinti personaggi? La questione è dibattuta. In secondo luogo nella Dottrina di Addai non si parla più di una risposta scritta bensì orale, da parte di Gesù all’inviato di Abgar, il segretario o scriba Hanan. Altro particolare leggendario: Hanan dipinge il ritratto di Gesù e lo porta ad Abgar, che lo riceve con gioia e lo colloca nel posto più degno del suo palazzo. Un ulteriore ampliamento è dato dal lungo discorso di Addai, che narra il ritrovamento della Croce a Gerusalemme e traccia un resoconto fedele, anche se incompleto, della situazione del cristianesimo a Edessa nel IV secolo. Il successore di Addai è Aggai che prima di morire chiede al 15 16

HE I, 1, 13, SC 31 (1952), pp. 40-45. Testo e tr. ingl. G. Howard, The Teaching of Addai, Scholars Press Chico, California, 1981.

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proprio successore, Palut, di andare ad Antiochia e di farsi ordinare da Serapione (200 d.C.). Il racconto sottolinea che Serapione stesso era stato ordinato da Zefirino, vescovo di Roma e successore di Pietro. Malgrado il carattere leggendario, il testo contiene tuttavia, oltre al riferimento storico dell’ordinazione di Palut, un particolare che potrebbe essere autentico. Quando Addai giunge a Edessa prende alloggio presso un mercante giudeo chiamato Tobia, certo un personaggio ricco e influente, visto che è lui a introdurre il missionario cristiano presso il re. Conoscendo la violenta polemica anti-giudaica che si sarebbe sviluppata ben presto nella comunità cristiana siriaca, è difficile pensare che questo dettaglio sia stato inventato in seguito. Questo, insieme ad altre considerazioni (che non è il caso qui di rilevare), ci porta a cercare le origini del cristianesimo siriaco nel territorio a est di Edessa, nella provincia di Adiabene, dove si trovavano fiorenti comunità giudaiche di lingua siriaca. Fu senza dubbio all’interno di questo ambiente che il cristianesimo fece i suoi primi adepti e l’influenza di questi giudeo-cristiani segnò dunque profondamente i primi scritti della letteratura siriaca. Passando da questo racconto leggendario alle testimonianze storiche della presenza di una comunità cristiana a Edessa, vediamo che esse non risalgono oltre il II secolo. Riassumendo i dati esposti dal P.I. Ortiz de Urbina 17, vediamo, in ordine cronologico: 1) l’Iscrizione di Abercio (seconda metà del sec. II), che contiene un’allusione sulla presenza di una comunità cristiana nell’Osroene, cioè nella regione di Edessa. Abbiamo una conferma di ciò in Eusebio di Cesarea 18, là dove riporta che sotto il pontificato di papa Vittore I la Chiesa di Osroene fece pervenire a Roma il proprio parere sulla questione pasquale. 2) Il testo della Cronaca di Edessa riguardante l’inondazione del 201, di cui si è parlato sopra 19. 3) Giulio Africano (†240ca.) nella sua opera intitolata Kestoi o Ricami 20 dice di avere incontrato alla corte di Abgar IX, re di Edessa (176213), un certo filosofo parto chiamato Bardesane, esperto nel tiro

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In «Gregorianum», 15 (1934) 82-91. HE V, 23, 4. Cf. supra, n. 12. Testo greco: J.R. Vieillefond, Jules Africain. Fragments des Cestes, “Les Belles Lettres”, Paris 1932, pp. 49-50.

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dell’arco. 4) Lo stesso Bardesane, nel suo Libro delle leggi dei paesi (di cui si parlerà più avanti), dà una testimonianza esplicita della presenza dei cristiani ad Edessa, in Siria e persino nell’Impero partico e in Persia 21. Vediamo dunque come tutti questi scritti – soprattutto l’ultimo, quello di Bardesane – testimonino l’esistenza di comunità cristiane radicate, organizzate e capaci di affermare con la testimonianza della vita, la superiorità della loro fede nei confronti delle deviazioni morali dell’ambiente circostante. Molti decenni furono necessari per arrivare a tale maturazione e perciò è verosimile far risalire l’inizio dell’evangelizzazione di Edessa alla fine del I secolo o, al più, all’inizio del II. I PRIMI TESTI DELLA LETTERATURA SIRIACA La Peshitta dell’Antico Testamento «Il più antico monumento della letteratura siriaca è indubitabilmente la versione dell’Antico Testamento» 22. Nonostante le incertezze riguardanti la sua genesi e il suo sviluppo, sono oggi acquisiti alcuni elementi. La sua origine è da ricercarsi nell’ambiente giudaico o giudeo-cristiano dell’Adiabene, la provincia situata a est di Edessa, le cui comunità giudaiche mantenevano ben consolidati rapporti con la Palestina 23. L’opera fu realizzata a tappe ed è frutto del lavoro di più traduttori. Lo stile di ciascun libro, o gruppo di libri, manifesta chiaramente tale diversità. Un problema dibattuto per lungo tempo riguarda il testo su cui si è basata la traduzione. Sembra ormai appurato che non si possa più parlare, oggi, di un’influenza di poco significato dei Settanta sul primitivo testo della Peshitta. Secondo al-

21 Al contrario, l’affermazione attribuita a Bardesane (PS 2, 607) che parla dell’adesione di Abgar IX alla fede cristiana pare di dubbia autenticità. Eusebio di Cesarea, che dà la traduzione greca di questo passo del Libro delle leggi dei paesi, non si pronuncia al riguardo (cf. Praep. Evang. VI, 10, 44, SC 266 [1980], 230). 22 J.B. Chabot, Littérature syriaque, Paris 1934, p. 19. 23 Le fonti talmudiche forniscono interessanti dettagli geografici sulle vie di comunicazione che collegavano le comunità giudee della diaspora mesopotamica con la Terra Santa. Le iscrizioni trilingui della sinagoga di Dura-Europos sull’Eufrate sono una conferma delle svariate provenienze dei giudei che vi sostavano.

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cuni studiosi, qualsiasi affermazione contraria è priva di significato. altri specialisti, e non dei minori, come A. Baumstark e A. Vööbus, hanno formulato l’ipotesi secondo cui la Peshitta sarebbe una sorta di Targum, cioè una traduzione parafrasata, comprendente elementi haggadici. Al contrario, studi recenti hanno mostrato che, malgrado la presenza di numerosi punti di contatto con la tradizione esegetica giudaica, il testo che il traduttore aveva sotto gli occhi era il testo massoretico, o per lo meno un testo molto vicino. A proposito del nome Peshitta, «la Semplice» attribuita a questa versione dopo il IX secolo, si è pensato che sia stato dato per distinguerlo dalla siro-esaplare, versione del VII secolo, condotta sul testo greco dei Settanta contenuto nelle Esapla di Origene. Oggi si è sempre più convinti che il termine significhi versione comune, o Vulgata, come la versione latina di san Girolamo 24. Taziano e il Diatessaron Il Diatessaron o «Vangelo armonizzato» è il nome greco di un testo che armonizza ingegnosamente i quattro Evangeli in un solo testo. È la forma unica e la più antica del testo evangelico utilizzato per quasi tre secoli dalla cristianità siriaca, fino al suo divieto imposto dal vescovo di Edessa Rabbula (†435). Inoltre, da questo testo derivarono rimaneggiamenti in arabo, neerlandese, italiano e persiano e il suo influsso è presente in moltissime altre versioni bibliche. Il suo autore, Taziano, dice di essere «nato nel paese degli Assiri», cioè a est di Edessa, forse nell’Adiabene, verso il 120. Giunto a Roma verso il 150, si converte al cristianesimo, senza dubbio sotto l’influenza del suo maestro, il filosofo, apologeta e martire san Giustino (†165). Spirito intransigente, inclina ben presto verso l’eresia, specie verso l’encratismo, che lo porta a equiparare il matrimonio alla fornicazione. Si distacca dalla Chiesa di Roma e verso il 175-180 ritorna in Mesopotamia. Da questo momento si perdono completamente le sue tracce.

24 Per un resoconto sul problema, cf. P. Van Puyvelde, Les versions syriaques de la Bible, in DBS 6 (1960), pp. 834-855; M.H. Goshen-Gottstein, in Encyclopedia Biblica (Université hébraique de Jérusalem) 8 (1982), pp. 848-854 (in ebraico); M.E. Boismard, Le Diatessaron: de Tatien à Justin, Paris 1992.

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«L’opera che ha reso celebre Taziano è il suo Diatessaron» 25. Sfortunatamente è in gran parte perduto. Ciò che ne rimane si trova nella versione armena del commento ad esso di sant’Efrem (†373). Questa versione, dopo una prima pubblicazione nel 1876 a cura di Moesinger, fu riproposta più completa nel 1953-54 da Dom Louis Leloir 26. Lo stesso nel 1963 pubblicò alcuni frammenti in siriaco, scoperti poco prima 27. In seguito, altri folia sono stati scoperti e pubblicati 28. Taziano padroneggiava perfettamente il greco, pur essendo il siriaco la sua lingua materna. Lo prova la sua Oratio ad graecos scritta all’epoca della conversione. Proprio partendo da ciò si pone il problema della lingua originale del Diatessaron, così come del luogo in cui venne scritto. Su queste due questioni rispondiamo con Dom L. Leloir: «Allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è possibile determinare se il Diatessaron fu scritto in Oriente o in Occidente, se la lingua in cui fu scritto fosse il siriaco o il greco. Purtuttavia, l’origine siriaca pare la più probabile» 29. Nel Diatessaron sembrano presenti, assieme ad altre, le influenze dell’encratismo. Taziano ha cercato di minimizzare tutto ciò che nel testo evangelico si riferisce al matrimonio, che per lui è equivalente alla prostituzione. Uguale sorte tocca all’uso del vino. Uno dei tratti caratteristici del cristianesimo siriaco primitivo è proprio l’ascetismo spinto a forme estreme, che giunge alle volte fino alla condanna del matrimonio. Dobbiamo però ricordare che autori come Afraate ed Efrem, pur tenendo in altissima considerazione la verginità e la continenza, non cadono in questi eccessi e difendono la legittimità del matrimonio 30.

25 L. Leloir, Éphrem de Nisibe, Commentaire de l’Évangile Concordant ou Diatessaron, SC 121 (1966), p. 15. 26 CSCO 137, p. 145. 27 Cf. L. Leloir, S. Éphrem, Commentaire de l’Évangile Concordant, Chester Beatty Monographs n. 8, Dublino 1963. 28 Cf. Id., S. Éphrem, Commentaire de l’Évangile Concordant. Folios Additionnels, Chester Beatty Monographs n. 8, Leuven-Paris 1990. 29 Cf. Commentaire de l’Évangile Concordant ou Diatessaron, cit., p. 18. 30 Cf. Van Puyvelde, Les versions syriaques de la Bible, in DBS 6 (1960), pp. 855-870; L. Leloir, Le Diatessaron de Tatien, in OS 1 (1956), pp. 208-231; 313-334; Id., Commentaire de l’Évangile Concordant, versione armena, CSCO 137 (1953); tr. lat. CSCO 145 (1954); Id., Le témoignage d’Éphrem sur le Diatessaron, CSCO 227 (1962).

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La Vetus Syra È la versione chiamata anche «I Vangeli separati», per distinguerla dai «Vangeli armonizzati», o Diatessaron. Di essa esistono due recensioni scoperte nel secolo scorso, l’una da W. Cureton, donde ha preso il nome di Curetoniana; l’altra da Agnes Smith Lewis e Margaret Dunlop Gibson, detta Sinaitica, essendo stata conservata nel monastero di Santa Caterina del Sinai. Pare che la Curetoniana sia una revisione della Sinaitica. La datazione della Vetus Syra rimane incerta, anche se oggi siamo sicuri che è posteriore al Diatessaron, di cui ha subìto l’influenza. Secondo le più recenti valutazioni i modelli su cui sono state copiate le due recensioni della Vetus Syra devono appartenere al IV secolo, dopo la formazione dei grandi modelli del testo greco. Per quanto riguarda i due manoscritti, questi sono del V secolo. La Vetus Syra comprendeva anche gli Atti degli Apostoli e il Corpus paolino, di cui però non sono pervenuti i manoscritti. Tale versione non pare essere mai stata utilizzata per il culto, neppure da Afraate o da Efrem 31. La Peshitta del Nuovo Testamento Si tratta di una versione che non è una nuova traduzione del testo greco, ma una revisione della Vetus Syra, per renderla più vicina al testo greco. Sembra che questo lavoro di revisione sia durato fino all’inizio del V secolo. Da quel momento soppiantò la Vetus Syra e il Diatessaron, e divenne il testo di base per tutte le Chiese della Siria. Essa mantiene tuttavia, qua e là, tracce delle antiche versioni, come testimoniano alcuni manoscritti e sue citazioni, presenti in autori posteriori. La Peshitta del Nuovo Testamento comprendeva in origine 22 libri. Mancavano le lettere cattoliche minori (2 e 3 Giovanni, 2 Pietro, Giuda) e l’Apocalisse, che furono tradotti solo nel VI secolo. Anche in seguito un certo numero di versetti isolati, o pericopi, rimasero mancanti, come l’episodio dell’adultera (Gv, 7, 53-8, 11), o Lc 22, 17-18, At 8, 27; 15, 34; e 28, 29. Nelle edizioni a stampa tali passi furono presi da versioni posteriori. 31

Cf. B. Aland, TRE 6 (1980) 190-191; s.v. Bibelübersetzungen-Vetus Syra.

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Si è creduto per lungo tempo che la Peshitta del Nuovo Testamento fosse l’opera del grande vescovo di Edessa Rabbula che, come si è detto, aveva bandito l’uso del Diatessaron nella liturgia. Tale attribuzione è considerata oggi poco verosimile, anche se Edessa con la sua famosa Scuola, avrebbe potuto essere il centro di diffusione di tale versione nella sua forma definitiva 32. Bardesane (154-222)

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Con Taziano, Marcione e Mani, Bardesane si pone, nel II-III secolo, come una delle figure significative del cristianesimo edesseno. Nato l’11 luglio 154 da genitori appartenenti alla nobiltà che viveva presso la corte di Abgar VIII, ricevette conseguentemente l’educazione accurata di cui godeva la gioventù nobile del tempo. Insieme alla letteratura greca, la filosofia e l’astrologia, era insegnata anche la pratica delle arti marziali, come il tiro all’arco. Non sappiamo come egli arrivò ad abbracciare il cristianesimo. Vi contribuirono forse in qualche modo la sua naturale curiosità intellettuale e la sua propensione per una sorta di sincretismo. Diventato maestro a sua volta, si circondò di allievi e si gettò nella polemica anti-marcionita. Dal 216 la sua vita mutò radicalmente, quando Caracalla pose fine all’indipendenza di Edessa. Come oppositore politico e come pensatore geloso della propria libertà, Bardesane dovette espatriare. È verosimile la tradizione che parla della sua vita errante, come propagatore del cristianesimo in Armenia. Bardesane morì nel 222. Non conosciamo il luogo e le circostanze della sua morte. Ignoriamo anche la sorte del suo o dei suoi figli. È certo invece che il gruppo dei discepoli, disperso nel 216 all’epoca della partenza del maestro, si costituì più avanti in setta gnostica che si manterrà viva almeno fino all’VIII secolo. Si è tentato più volte di delineare la personalità di Bardesane e di definire il suo pensiero. Si è visto in lui, volta a volta, uno gnostico, un astrologo, un filosofo influenzato dallo stoicismo e ancora,

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Cf. TRE 6 (1980) 191-192. Lo studio fondamentale su Bardesane resta l’opera di H.J.W. Drijvers, Bardaisan of Edessa, Assen 1966. Il testo del Libro delle leggi dei paesi è stato edito con una tr. lat. da F. Nau, in PS 2, pp. 490-657.

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un sincretista scettico. L’incertezza nasce innanzitutto dalla scomparsa dei suoi 150 Inni, o Poemi, che egli compose per favorire la diffusione delle proprie idee tra il popolo di Edessa. Ne rimangono solo due citazioni, riportate dal suo grande avversario, Efrem di Nisibi (†373). L’altra opera, il Libro delle leggi dei paesi, che si presenta come l’esposizione delle sue idee, non appartiene alla sua mano. Si tratta della trascrizione fatta dal discepolo Filippo di un dialogo che Bardesane avrebbe avuto con un marcionita, l’astrologo Avida. Anche se Filippo ha cercato, come vuole qualcuno, di cancellare certi elementi di carattere dualistico e gnostico, si può tuttavia individuare in quest’opera un sistema abbastanza coerente. È presente innanzitutto una cosmogonia dove convergono la speculazione giudaica sui primi capitoli della Genesi e l’astrologia caldea. Alla triade formata dagli elementi primordiali, dal moto degli astri e dal corso del mondo, retta, rispettivamente, dalla libertà, dal destino e dalla natura, corrisponde nell’uomo la triplice divisione dello spirito, dell’anima e del corpo. Lo spirito viene da Dio ed è principio di libertà, mentre l’anima viene dalle sfere planetarie attraversate dallo spirito nella sua discesa ed è sottomessa al destino, che è retto dagli astri. Infine il corpo è composto dai quattro elementi. Vediamo qui un tentativo di conciliare la dottrina cristiana e le concezioni astrologiche dell’ambiente culturale di Edessa. Il fine di Bardesane fu quello di mostrare come l’uomo non sia interamente sottomesso al destino e che, anche se dal corpo viene la possibilità del male, è non di meno la volontà che gli dà l’impulso. Per quanto riguarda la sua cristologia, se il carattere più evidente è quello del docetismo, gli altri elementi che la compongono non costituiscono una sintesi coerente. In effetti, in questo campo rimangono molte ambiguità. Detto questo, Bardesane non fu però quello gnostico che alcuni polemisti o eresiologi hanno creduto di vedere in lui. Sembra piuttosto che siano stati i suoi successori, i daisaniti, ad aver radicalizzato in senso dualista il pensiero del loro maestro. A quel punto però incorse lui stesso, inevitabilmente, nella condanna che colpì coloro che si presentavano come gli eredi del suo pensiero. Se valutiamo il pericolo mortale per la fede cristiana rappresentato dalle diverse gnosi, con le cristologie aberranti che implicavano, comprendiamo meglio l’ostilità accanita di cui fu oggetto la figura di Bardesane da parte di Efrem, come pure la scomparsa totale delle sue opere. Tutto ciò ha senza dubbio contribuito a creare

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come un alone di mistero intorno a una personalità che continua ad affascinare. Le Odi di Salomone Scoperta nel 1904 da Rendel Harris, la collezione dei 42 inni raccolti sotto il nome di Salomone non era del tutto sconosciuta in precedenza, dal momento che, oltre alle citazioni sparse in diverse opere, cinque di tali odi si trovano nella Pistis Sophia, scritto gnostico del sec. III-IV pervenutoci nella versione copta. Gli studi e le discussioni sviluppatisi immediatamente dopo la scoperta dell’opera hanno cercato di risolvere gli interrogativi che conferiscono a questi testi un alone di mistero. Ciò che colpisce immediatamente è il sapore arcaico della teologia sottesa alla profusione di simboli e di immagini, talvolta singolari o contraddittori, che fluiscono dalla bocca del poeta per cantare la sua gioia di essere battezzato e la sua unione mistica con Cristo risorto. Basandosi sull’uso di certi termini e di certe immagini che si ritrovano in altri scritti, molti studiosi hanno definito questa teologia come gnostica. A tale critica è possibile obiettare, a ragione, che, contrariamente a questi altri scritti, le Odi non contengono quella teologia dualista che è l’elemento fondamentale di ogni gnosticismo eterodosso. Al contrario, se c’è gnosticismo, questo è perfettamente ortodosso. Seguendo le affermazioni di J. Daniélou, si potrebbe piuttosto parlare di «strutture di ciò che noi indichiamo come teologia giudeo-cristiana, utilizzate sia dagli gnostici sia dagli ortodossi» 34. Il carattere giudeo-cristiano delle Odi si manifesta innanzitutto nella loro dottrina trinitaria, dove il Nome indica il Verbo, e dove lo Spirito Santo è visto al femminile. Ugualmente sono significativi altri temi, come la discesa del Figlio, tenuta nascosta agli angeli, la Chiesa preesistente, la concezione e la maternità verginali di Maria. Ma i due temi più importanti di questa teologia arcaica sono la discesa di Cristo agli inferi, descritta nell’Ode 42, l’ultima della raccolta, e il ritorno al paradiso grazie al battesimo, di cui le Odi sviluppano un interessante tipologia.

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DBS 6 (1960), p. 680.

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Numerosi elementi del rito battesimale ricchi di simbolismo sono d’altronde ancora oggi in uso nelle Chiese siriache, in particolare il rito dell’unzione con l’olio, cui un’opera gnostica come gli Atti di Tommaso attribuiscono una funzione essenziale nell’iniziazione battesimale, come vedremo più avanti. I temi cui abbiamo ora accennato si ritroveranno più tardi incisivamente sottolineati in Efrem di Nisibi (†373). Non dobbiamo perciò basarci esclusivamente sul tipo di teologia presente nelle Odi per attribuire loro una datazione molto antica. Il III secolo sembra essere la data più comunemente accettata. La lingua originale e l’ambiente in cui le Odi vennero concepite sono stati l’oggetto di molte ipotesi e discussioni. Dopo aver ipotizzato il greco, oggi si è piuttosto a favore del siriaco, a motivo delle somiglianze con l’innologia siriaca posteriore. Quanto all’ambiente, l’ipotesi di una matrice giudaica non è più sostenuta da nessuno. L’ambiente edesseno, interamente bilingue e molto permeabile alle differenti correnti che si riversavano nel cristianesimo di Edessa del II-III secolo sembra invece essere del tutto plausibile 35. Gli Atti di Tommaso Questo apocrifo, la cui lingua originale è molto probabilmente il siriaco, risale ai primi decenni del III secolo e potrebbe venire dalla Scuola di Bardesane. In 13 episodi l’autore narra le vicende e il martirio dell’apostolo Tommaso in India, dove fu inviato da Cristo per predicare il Vangelo. L’apostolo compie là numerosi miracoli e conversioni, preceduti e seguiti da avvenimenti dove il meraviglioso rivaleggia con il fantastico più sfrenato. La caratteristica essenziale tuttavia non risiede tanto in questi elementi, quanto piuttosto, in primo luogo, nell’encratismo, che appare chiaramente fin dal primo episodio. Vi è rappresentato Cristo che, con le sembianze di Tommaso, appare alla figlia del re indiano e al suo sposo la sera delle loro nozze, per esprimere la totale condanna del matrimonio per convincerli che la paternità e la materni35 Ed. e tr. ingl.: J.H. Charlesworth, The Odes of Solomon, Oxford 1973; tr. fr. con introd. e note: M.-J. Pierre, Les Odes de Salomon, Turnhout 1994.

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tà sono una degradazione. In secondo luogo è attribuita una grande importanza, nel rito del battesimo, all’unzione mediante l’olio, visto già come sigillo di per sé sacramentale 36. Il nono episodio di questo racconto contiene un lungo e bel poema, l’Inno dell’anima, detto anche Canto della perla, ricco di tutto un simbolismo esoterico e gnostico. L’eroe, un giovanetto, figlio del re, è mandato dai genitori alla ricerca della propria anima, simbolizzata in una perla custodita da un terrificante serpente. Egli discende in Egitto, simbolo di questo basso mondo che gli è estraneo. Colpisce con un sortilegio il serpente, s’impadronisce della perla e, dopo essersi spogliato del travestimento che era stato costretto ad indossare per non essere riconosciuto come straniero dalla gente del posto, prende la strada del ritorno verso il regno del padre, la sua patria celeste. Prima di giungere a destinazione ecco che vede venire verso di lui, tenuto disteso da due tesorieri, il meraviglioso vestito di luce mandato dai suoi genitori. Si riconosce in esso come in uno specchio, se ne riveste e risale verso il padre a cui porta la perla. Abbiamo in questo poema, una perfetta illustrazione di ciò che la gnosi definisce «conoscenza di sé», conoscenza insieme di ciò che si era originariamente, di ciò che si è diventati quaggiù, e di ciò che si sarà oppure di ciò che si ridiventerà 37. L’IMPERO PERSIANO

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Siamo rimasti fin qui nell’area e nell’ambiente del cristianesimo di Edessa. Vi erano, oltre a questa, nel II secolo – e lo si è visto attraverso la testimonianza di Bardesane – comunità cristiane nell’Impero partico e in Persia. Tali comunità si collegano tradizionalmente a un discepolo di Addai, Mari, considerato come il fondatore del-

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Un punto questo che è stato sottolineato a proposito delle Odi di Salomone. Cf. H.-C. Puech, En quête de la gnose, II, Paris 1978, p. 237. Ed. del testo siriaco: W. Wright, Apocryphal Acts of the Apostles. The Acts of Thomas, the apostle, London 1871; tr. ingl. con introd. e commento: A.F.J. Klijn, The Acts of Thomas, Leiden 1962. 38 Per notizie più complete, cf. J. Labourt, Le Christianisme dans l’empire perse sous la dynastie des Sassanides (224-632), Paris 1904. Per una critica e una messa a punto dello scritto di Labourt, cf. J.-M. Fiey, Jalons pour une histoire de l’Église en Iraq, CSCO 310 (1970), pp. 1-99.

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la Chiesa di Seleucia-Ctesifonte. In quale data Mari sarebbe venuto a Ctesifonte, capitale dell’allora Impero partico? Fondandosi su considerazioni di geografia locale, il J.-M. Fiey colloca l’arrivo del missionario cristiano tra la fine del I secolo e l’inizio del II, dunque grosso modo nello stesso periodo in cui Addai evangelizzava Edessa 39. Occorre tuttavia attendere fino al 336 per veder apparire, con Afraate, il Saggio persiano, il primo scrittore siriaco dell’Impero persiano. Nel frattempo l’Impero partico era scomparso per far posto, a partire dal 226, alla dominazione sasanide. Dopo un periodo di radicamento e di crescita senza storia sotto la dinastia partica degli arsacidi, la Chiesa persiana conobbe una forte espansione dovuta, sembra, all’arrivo massiccio di popolazioni che i sovrani sasanidi avevano deportato dalle regioni conquistate, tra cui si contavano numerosi cristiani, e anche alcuni vescovi. La presenza di popolazioni di origini etniche e di mentalità differenti pose alla comunità cristiana seri problemi di ordine interno: rivalità nazionali, contrasti sulle influenze reciproche, conflitti di giurisdizione tra sedi episcopali confinanti, competizione per la supremazia su tutte le Chiese persiane: problemi tipici di una Chiesa cristiana in piena espansione, in una situazione politica perturbata. Questa crescita preoccupò la potente casta sacerdotale dei magi e suscitò la loro gelosia. Così, quando Costantino pubblicò l’editto di Milano che concedeva alla Chiesa dell’Impero romano oltre alla tolleranza anche uno statuto giuridico privilegiato, i cristiani dell’Impero persiano dovettero apparire come nemici interni, come traditori, almeno in potenza se non di fatto. Non ci fu bisogno d’altro perché, verso il 340, i magi fomentassero una persecuzione che durò 40 anni e che in certe regioni, come l’Adiabene, fu molto sanguinosa. Se aggiungiamo poi a questo clima di violenza endemica il pericolo più insidioso e ancor più reale delle dottrine di Marcione, di Valentino, del manicheismo e del giudaismo, quest’ultimo ben introdotto in quell’epoca presso la corte, avremo un’idea del contesto socio-politico e religioso in cui visse e lottò Afraate.

39 Cf. J.-M. Fiey, op. cit., pp. 32-44. Un’altra tradizione raccolta da Eusebio di Cesarea (HE III, 1 SC 31 [1952] 97), attribuisce l’evangelizzazione dell’Impero partico a san Tommaso. Di fatto, nel IV secolo esisteva a Edessa una tomba che secondo la tradizione conteneva i resti dell’apostolo. Cf. la testimonianza di Egeria in SC 296 (1982), 202 e l’allusione di Efrem, Carmina Nisibena 42, 1-2, CSCO 240 (1963), p. 37.

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Afraate (inizio sec. IV-345ca)

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Il nome di Afraate non ricorre mai nei tre manoscritti della British Library: Add. 14619, 17182 e Or 1017 (sec. V-VI) che contengono le sue opere. Vi è chiamato una volta il «Saggio persiano», e due volte «Mar Giacomo». Il nome di Afraate compare per la prima volta nel lessico siriaco-arabo di Bar Bahlul (†963). L’identità dello scrittore è dunque rimasta lungamente avvolta nel mistero. Ugualmente ignoriamo le date precise della sua vita. Nacque senza dubbio tra il 260 e il 275 e morì poco dopo il 345. Fece parte dei «Bnay (bnât) qyâmâ», espressione siriaca che si traduce con «Figli (Figlie) del Patto». Né eremiti né monaci, costoro erano asceti che, pur vivendo nel mondo, erano votati al celibato. Afraate, come indica chiaramente la sua opera, fu insignito di una dignità elevata nella comunità. Con molta probabilità fu vescovo, anche se non ne siamo del tutto certi. Il nome di Giacomo fu senza dubbio da lui adottato al momento del suo ingresso negli ordini sacri. Nacque di qui la confusione con Giacomo di Nisibi, fatta dalla traduzione armena (fine sec. V). La sua opera comprende 23 Dimostrazioni, di cui le prime 22 sono disposte in acrostico, e la XXIII è un sommario dell’insieme. La parola siriaca che noi traduciamo abitualmente con «Dimostrazione» deriva dalla radice verbale «mostrare». Questa traduzione non soddisfa, perché connota una logica deduttiva, estranea al tipo di pensiero dell’autore. Una traduzione recente di tutta l’opera (cf. Bibliografia infra) propone «Esposizioni», che rappresenta già un miglioramento, ma resta ancora troppo segnato dal modo di pensare occidentale. Altre traduzioni, come «lettere» – infatti il testo si presenta in forma di risposte a un interlocutore – oppure «omelie», «discorsi», «capitoli», «trattati», ecc. si riferiscono a termini siriaci usati da Afraate stesso per caratterizzare il testo. Tutto ciò, per sottolineare la difficoltà di definire il genere letterario. Gli argomenti trattati, invece, sono nettamente definiti. Le prime dieci «Esposizioni» sviluppano temi dogmatici e ascetici e furono scritti, secondo la testimonianza stessa di Afraate, nel 337. Si ri-

40 Ed. e tr. lat.: D.J. Parisot, in PS 1 e 2, coll. 1-489; tr. fr. con introd. e note: M.J. Pierre, Aphraate, le Sage Persan, Les Exposés, vol. 1, SC 349 (1988); vol. 2, SC 359 (1989). Questo capitolo su Afraate si ispira per la maggior parte all’Introduzione di M.-J. Pierre.

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volgono innanzitutto ai «Figli (Figlie) del Patto». Le undici seguenti si collocano nel 344, e la ventitreesima nel 345, cioè all’inizio della persecuzione provocata da Sapore II. In questo secondo gruppo di testi, Afraate sviluppa soprattutto la polemica contro le norme pratiche della religione giudaica, il cui abbandono aveva suscitato inquietudine in alcuni fedeli che provenivano dal giudaismo. La quattordicesima «Esposizione» è una sorta di lettera sinodale indirizzata ai vescovi e ai fedeli della Chiesa di Seleucia-Ctesifonte per condannare gli svariati abusi commessi da pastori indegni. La comunità dei «Figli (Figlie) del Patto», a cui sono indirizzate le «Esposizioni», è senza dubbio di origine o di tradizione giudaica. Il Saggio persiano di origine pagana sembra aver fatto parte di quei proseliti che conoscevano a fondo l’Antico Testamento e i commentari rabbinici. Il suo pensiero segue in tutto la tradizione, lontano dalle argomentazioni filosofiche della filosofia neo-platonica o aristotelica. Vuole essere, secondo le sue stesse parole, «discepolo delle Sante Scritture». Nelle sue «Esposizioni» analizza il testo scritturistico secondo i metodi ermeneutici della haggada della Torah orale. Nella sua pagina si ritrovano così molti temi derivati dai Talmûds e dal Midrâsh. Per questo sarebbe errato voler giudicare la teologia di Afraate, come la sua cristologia, secondo i concetti della dogmatica post-nicena. Ad esempio egli ignora i concetti di natura e di persona. Accostandosi al mistero non si limita ad una sola prospettiva, esaustiva di ogni significato, ma piuttosto giustappone i differenti e talora opposti aspetti di una verità di fede, usando un linguaggio ricco di immagini, pregnante e suggestivo. È in questo senso che si può parlare del carattere semitico del pensiero di Afraate. Per quanto riguarda invece i modelli retorici presenti ad Afraate nella redazione delle «Esposizioni», qui egli dipende in realtà dal giudaismo detto “ellenistico”, distinto da un giudaismo di carattere più puramente semitico. Inoltre, alcuni procedimenti letterari da lui utilizzati risentono di vecchi modelli mesopotamici, passati più tardi nella retorica ellenistica. Tutto ciò manifesta, in conclusione, il “carattere ibrido” della sua matrice culturale 41. «Quest’opera così originale e così interessante non ebbe segui42 to» . L’«Esposizione» 23 si colloca nel 345, quattro anni dopo il 17 41 Cf. supra, n. 14. Cf. R. Murray, Hellenistic-Jewish Rhetoric in Aphrahat, OCA 221 (1983), pp. 79-85. 42 E. Tisserant, in DTC 11 (1931), p. 267.

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aprile del 341, che segna l’inizio della sanguinosa persecuzione suscitata da Sapore II e destinata a durare per un mezzo secolo, fino al 399. Durante questo periodo, a parte racconti di martiri e formule liturgiche, non viene alla luce alcuna opera letteraria. Bisogna attendere fin verso la metà del V secolo perché si presenti, con Narsai (399-502), uno scrittore e un teologo degno di questo nome. Ma in quel momento la Chiesa di Persia avrà definitivamente optato per il nestorianesimo e per le controversie cristologiche, impegnandosi così in una via ben diversa da quella aperta dal Saggio persiano. AI CONFINI DELL’IMPERO: EFREM DI NISIBI (306-373)

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Efrem di Nisibi, il più conosciuto tra i Padri siriaci, al momento stesso della morte godette di una celebrità che lo ha posto al livello dei più famosi Padri greci. Molto presto sono apparse le traduzioni delle sue opere in greco e in armeno, poi, lungo i secoli, in latino, arabo, copto, slavo ecc. Nella gran massa di tutti questi testi e versioni posti sotto il nome del grande dottore, la critica ha cercato di stabilire l’elenco delle opere autentiche, sia correggendo le attribuzioni errate, sia scartando le composizioni di falsificatori che utilizzarono il nome di Efrem per far passare alla posterità le loro mediocri produzioni. Non è uno dei minori meriti dell’editore moderno dell’opera di Efrem, Dom Edmund Beck o.s.b. (†1991) quello di aver compiuto, oltre all’edizione critica dei testi, anche questo lavoro di discernimento. Analogo lavoro si è dovuto intraprendere con i numerosi testi – soprattutto greci e siriaci – che vogliono fornirci la biografia autentica di Efrem. Continuamente rimaneggiata, nel corso dei secoli questa si è appesantita nelle sue redazioni successive, di elementi leggendari mutuati sui modelli in uso nell’agiografia greca e siriaca 44.

43 Il testo che segue deve molto all’articolo di A. de Halleux, Saint Ephrem le Syrien, in RTL 14 (1983) 328-355. Si è tenuto presente anche l’opera di S.P. Brock, The Luminous Eye, Placid Lectures, Roma 1985. Questo volume è stato pubblicato in traduzione francese a cura di Didier Rance con il titolo L’oeil de lumière, La vision spirituelle de saint Ephrem, Abbaye de Bellefontaine 1991. Alle pagine 339-348 vi si trova una buona, anche se non esaustiva, bibliografia aggiornata sulla figura e l’opera di Efrem. 44 Occorre considerare come leggende e clichés agiografici, la nascita di Efrem

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La prima di queste biografie, contenuta nella Historia Lausiaca scritta nel 419/420, dunque solo 46 anni dopo la morte di Efrem, giunge persino a descrivere il suo itinerario spirituale secondo gli schemi della spiritualità dotta di Evagrio Pontico. È un solo esempio delle aggiunte posteriori che hanno contribuito non poco a creare un’immagine abbastanza deformata del dottore siriano. Gli avvenimenti certi della sua vita si riducono a poca cosa. Nato verso il 306 a Nisibi, città crocevia ai confini degli imperi romano e persiano e quindi aspramente contesa, Efrem vi trascorse i primi 57 anni della sua vita. Fu battezzato durante la giovinezza, quindi visse in un primo tempo a contatto con i quattro primi vescovi di Nisibi, che lo formarono alla vita ascetica. È quasi certo che abbia fatto parte, come Afraate, della confraternita dei «Figli del Patto» e che sia stato ordinato diacono. Senza dubbio Efrem iniziò nella sua città natale a insegnare, cioè a commentare le Scritture, «anche se non è sicuro che sia stata fondata una Scuola teologica dal vescovo Giacomo, l’indomani del concilio di Nicea» 46. Il santo dottore non avrebbe probabilmente abbandonato Nisibi, se la città, sempre esposta agli attacchi degli eserciti persiani, non fosse stata ceduta nel 363 dall’imperatore Gioviano (363-364) in cambio della pace. Dopo qualche tempo Efrem dovette espatriare con altri esuli e si stabilì a Edessa. Solo allora scoprì il diffondersi delle dottrine eretiche e delle sette che proliferavano nella città diventata la sua nuova patria: ariani, marcioniti, manichei, discepoli di Bardesane, per non citare che i più conosciuti. A Edessa proseguì la sua attività nell’insegnamento, «il che spiega come il suo nome sia rimasto legato alla fondazione della celebre Scuola teologica dei Persiani» 47. Il suo ministero di diacono gli permise di introdurre nella liturgia i suoi inni contro le eresie e – cosa del tutto straordinaria per l’epoca – di farli eseguire da un coro di vergini, senza dubbio membri come lui della confraternita dei «Figli (Figlie) del Patto». Per 45

da un padre sacerdote degli idoli, il suo incontro con san Basilio, il suo soggiorno in Egitto presso Padri del deserto, la sua vita come eremita ecc. Possiamo notare a questo proposito che l’appellativo di «Diacono di Edessa», attribuito tradizionalmente a Efrem, proviene dall’ambiente cristiano ellenico. Di fatto, il santo dottore ha trascorso a Edessa soltanto gli ultimi dieci anni della sua vita. Per maggiori dettagli cf. B. Outtier, Saint Ephrem d’après ses biographes et ses oeuvres, PdO 4, 1/2 (1973) 11-33. 45 Ed. C. Butler, The Lausiac History of Palladius, Cambridge 1904, pp. 126-127. 46 A. de Halleux, op. cit., p. 331. 47 Ibid., p. 332.

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quanto riguarda la sua attività caritativa e sociale, questa ebbe certamente molte occasioni di svilupparsi, soprattutto al momento della carestia del 373, l’anno della sua morte. Una tradizione molto posteriore, d’origine monastica, ha voluto presentare Efrem come un monaco anacoreta. In realtà è molto poco verosimile che il diacono di Edessa abbia potuto condurre una vita eremitica assolvendo il doppio compito dell’insegnamento e del servizio alla comunità. Poté dunque praticare la vita anacoretica solo per brevi periodi. Benché Efrem abbia goduto di una celebrità, come abbiamo detto sopra, pari a quella dei grandi dottori della Chiesa greca, l’insieme della sua opera è rimasta inedita quasi fino al sec. XVIII. Si possono trovare due motivazioni per questo fatto apparentemente sorprendente. Primo, la prevalenza della teologia di lingua greca, con il suo carattere speculativo e analitico rafforzato dalle controversie teologiche, lasciava poco spazio a una visione simbolica e sintetica come quella di Efrem. Anche la stessa Scuola di Edessa, dal V secolo (come vedremo in seguito) si dedicò a tradurre in siriaco una quantità considerevole di opere dei Padri greci. Si produsse allora una svalutazione del pensiero dello scrittore siriaco. Il che spiega forse il motivo per cui andò perduta gran parte o la totalità del testo siriaco di certe opere, conservatesi solo in versione armena. Secondo, la conquista islamica, che ebbe luogo nella prima metà del VII secolo e che impose l’egemonia araba, provocò la scomparsa progressiva della lingua e della cultura siriaca. L’insieme del corpus di Efrem è stato pubblicato, nel corso degli anni 1742, 1743, 1746 da Giuseppe Simone Assémani, coadiuvato da Stefano Evodio Assémani e dal gesuita Pietro Mobarak. Esso occupa 6 volumi in folio, i primi tre contenenti l’Efrem greco, i tre seguenti l’Efrem siriaco, il tutto accompagnato da una traduzione latina. Non torneremo qui sugli errori di questa edizione 48, già tante volte segnalati. Nel corso del XIX secolo furono pubblicate altre opere, a partire dai manoscritti della British Library. Ma anche molte di queste edizioni lasciavano a desiderare dal punto di vista critico. Divenne indispensabile una riedizione che soddisfacesse tutte le esigenze della critica moderna. Questo lavoro fu compiuto tra il 1955 e il

48

Intorno a queste edizioni, cf. A. de Halleux, op. cit., p. 334.

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1979 da Dom Edmund Beck, che «ha rieditato criticamente in 38 volumi del CSCO praticamente tutta l’opera poetica di Efrem Siro, comprese le opere dubbie e apocrife» 49. L’opera di Efrem viene divisa abitualmente secondo i generi letterari: 1 - Opere in prosa: a) Opere polemiche. Sotto il titolo generale di Confutazioni in prosa queste comprendono opere polemiche contro Mani, Marcione e Bardesane. Malgrado la loro difficoltà questi testi costituiscono «una delle maggiori fonti per la conoscenza delle dottrine marcionite, bardesanite e manichee nelle comunità della Mesopotamia del IV secolo» 50. b) Commenti biblici. I più importanti riguardano la Genesi, l’Esodo e il Diatessaron. Benché tradizionalmente si colleghi Efrem alla Scuola di Antiochia, dobbiamo escludere ogni tipo di imitazione diretta dei modelli greci. Uguale osservazione vale per l’esegesi rabbinica, di cui troviamo numerose tracce nei commenti e negli inni. Dato il suo antigiudaismo 51, sembra più verosimile affermare che se ci fu imitazione questa avvenne soltanto attraverso le comunità cristiane che da tempo avevano acquisito e assimilato i metodi dei commentari giudaici. 2 - Omelie metriche (in versi di 7 + 7 sillabe). Sono indicate genericamente con il nome siriaco di Memra (plurale Memre). Un gran numero di queste composizioni sono andate perdute e molte di quelle pervenute non sono autentiche. Si considerano autentiche: a) sei Memre sulla fede; b) Memre su Nicomedia composte in occasione del terremoto del 358. Possiamo collegare a questi Memre quello De Domini nostro e l’Epistola a Publio. 3 - Inni. È la parte più importante dell’opera di Efrem pervenu-

49 50

Ibid. Sulla storia delle edizioni del corpus efremiano, cf. J. Malki, Saint Ephrem le Syrien, un bilan de l’édition critique, PdO 11 (1983) 3-88. 51 A proposito dell’antipatia di Efrem nei confronti dei giudei così si esprime S.P. Brock, op. cit., p. 164, nota 1: «…alcuni epiteti che egli usa verso di loro appaiono del tutto offensivi a un lettore contemporaneo, in particolare a un lettore europeo… Collocati tuttavia nel loro proprio contesto e nella tradizione a quei tempi in uso delle invettive, l’ostilità di Efrem diventa più comprensibile, soprattutto se c’è qualcosa di vero nell’ipotesi recentemente avanzata che egli fosse già a conoscenza delle storie oscene che circolavano presso i giudei, secondo le quali Gesù era il figlio di una prostituta e di un soldato romano, storie che ci sono giunte nelle diverse recensioni del Toledoth Yeshu. In ogni caso Efrem non si augurava certo di vederli votati alla Géhenna…» (segue una citazione in cui Efrem chiede per loro perdono al Signore). Cf. A. de Halleux, op. cit., p. 337.

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taci. È anche quella che mostra con maggiore chiarezza il suo genio di poeta teologo. Non è provato che le origini di queste composizioni poetiche debbano essere cercate in Bardesane, anche se la grande diffusione dei suoi inni hanno spinto Efrem ad adottare il medesimo modello. «Per quanto riguarda la struttura, Efrem talora forse inconsapevolmente riprende antichi generi letterari mesopotamici, come quello della “disputa di prevalenza”, di cui esistono esempi già in lingua sumerica» 52. Dopo la morte di Efrem, gli inni – dei quali più di quattrocento sono a noi pervenuti – sono stati suddivisi in 9 volumi: Sulla natività, Sul digiuno, Su Nisibi (Carmina Nisibena), Sulla Chiesa e sulla Verginità, Sulla fede, Sulle dottrine e Sul Paradiso, Sui confessori e Sui defunti. I Carmina Nisibena, nonostante il titolo, appartengono al periodo nisibeno solo per i primi 21 inni, mentre gli altri 56 sono del periodo edesseno. Si datano del periodo nisibeno gli Inni sul Paradiso. Al contrario, gli Inni contro le dottrine erronee e gli Inni sulla fede che combattono i marcioniti, i bardesaniti, i manichei, gli astrologi e gli ariani, così come gli Inni sulla Chiesa e sulla Verginità, si collocano nel periodo edesseno 53. Efrem ha raccolto nella sua opera una triplice eredità. Innanzitutto l’eredità culturale mesopotamica. Ciò risulta evidente dall’uso del genere letterario conosciuto con il nome di «disputa di prevalenza» 54, che mette in scena due avversari in una sorta di duello oratorio, in cui ciascuno cerca di provare la propria superiorità sull’altro. Troviamo infatti in Efrem circa una mezza dozzina di poemi in cui si affrontano, ad esempio, Satana e la Morte, nel LII inno dei Carmina Nisibena, o il matrimonio e la verginità. In secondo luogo Efrem ha largamente attinto alla tradizione giudaica, prima di tutto sicuramente all’Antico Testamento, ma anche alla letteratura post-biblica, Targûm e Midrâsh. Come si è detto, questa eredità non gli è pervenuta direttamente, ma attraverso le

52 53

Ibid. Il ristretto quadro di una esposizione come la presente non consente di parlare qui delle diverse versioni – armena, greca, araba, ecc. – dell’opera di Efrem, data l’inesistenza di una edizione completa e soddisfacente di tali versioni. Per questi problemi, cf. ibid., pp. 338-343 e J. Malki (cit. supra, n. 50). 54 Cf. A. de Halleux, op. cit., p. 337. Cf. pure Murray (cit. supra, n. 14).

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tradizioni delle scuole esegetiche che nelle comunità cristiane della Mesopotamia l’avevano da lungo tempo assimilata. Infine, pur non conoscendo il greco, Efrem ha subito l’influenza delle opere scritte in quella lingua. Ne conobbe forse alcune tramite l’ausilio di traduzioni. Ad esempio ricorda i differenti punti di vista degli autori greci sulla natura dell’anima. Ugualmente, si è individuata nelle sue opere l’influenza del pensiero stoico. L’originalità del genio di Efrem consiste nella sintesi da lui operata di tutti questi differenti apporti, per giungere ad esprimere il mistero cristiano in una visione simbolica. La parola chiave intorno a cui costruisce questa visione è la parola siriaca di origine persiana raza, che significa segreto, mistero, simbolo e anche, secondo il contesto, sacramento. Efrem vuole in ogni modo evitare di avvicinarsi al mistero tramite definizioni o schemi teologici, che possono essere pericolosi e perfino mortali per la fede cristiana. Questo era vero soprattutto per la polemica contro gli ariani, il cui errore consisteva nel cercare di elaborare una definizione razionale della generazione del Figlio da parte del Padre. Efrem, ponendo la realtà divina come al centro di un cerchio, contempla tale realtà senza cercare di rinchiuderla in una visione immobile e statica. La sua visione simbolica «propone invece in modo paradossale una serie di opposti e li pone in punti differenti della circonferenza. Unendo le coppie di opposti le une alle altre si ottiene una visione fondamentalmente dinamica» 55. Gli stessi simboli presi dalla Bibbia sono usati in modo da non poterli dissociare gli uni dagli altri, in quanto simboli che rivelano il mistero di Cristo. Per questo modo di procedere possono accedere a una simile comprensione globale solo coloro che a una perfetta conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento aggiungono uno sguardo illuminato dalla fede. Così, a proposito del Paradiso, questo sguardo permette al credente «di inglobare il paradiso primordiale all’interno, allo stesso tempo, di una topografia sacra e di una teoria salvifica, che lo fanno corrispondere al Paradiso escatologico restaurato da Cristo e anticipato sacramentalmente dalla Chiesa» 56.

55 56

S.P. Brock, op. cit., 164, 11. A. de Halleux, op. cit., p. 351.

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IL LIBER GRADUUM

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Tale opera, che si è conosciuta dopo il 1926 al momento della sua edizione ed è composta di 30 Memre o omelie, è anonima. Si ritiene comunemente che la sua composizione risalga al IV secolo. «Essa costituisce una testimonianza preziosa, per le tendenze dottrinali che esplicita, della spiritualità più arcaica della Chiesa della Mesopotamia» 58. Il nucleo fondamentale di questa spiritualità è la distinzione tra due categorie di fedeli, i “giusti” e i “perfetti”. I primi sono tenuti all’osservanza dei “piccoli comandamenti” e la loro condotta si fonda su tre precetti essenziali: il digiuno, la preghiera, l’elemosina. Occorre aggiungere anche l’osservanza della “regola d’oro”. I “perfetti”, da parte loro, praticano i precetti della rinuncia al matrimonio, alla famiglia e ai beni di questo mondo, comprese le cariche e le dignità nella Chiesa. Le virtù del “perfetto” sono un grande amore per tutti gli uomini fondato sull’estrema umiltà. La sua preghiera e il suo digiuno sono continui. La distinzione tra “giusti” e “perfetti” dipende da una differenza più profonda, che riguarda la parte più o meno grande di Spirito ricevuto da ciascuno. Mentre i “giusti” hanno ricevuto solo l’arra, cioè una parte limitata dello Spirito, i “perfetti” invece l’hanno ricevuto in pienezza. La vita spirituale è dunque composta da moltissimi “gradi”, secondo la quantità di Spirito che ciascuno possiede. C’è tuttavia una tappa decisiva, quella in cui il fedele riceve il battesimo nel fuoco e nello Spirito, cioè nella pienezza dello Spirito. Si tratta di un battesimo «che fa entrare l’uomo nella Chiesa celeste… e lo ristabilisce nella condizione in cui era Adamo prima della caduta, liberandolo da ogni concupiscenza e restituendogli l’accesso all’albero della vita» 59. Molti commentatori, tra i quali l’editore e traduttore dell’opera, hanno creduto di rintracciare qui le tesi tipiche dell’eresia dei messaliani o eutichiani. Oggi pare invece che si sia pervenuti a un parere se non opposto, almeno molto sfumato. Effettivamente, se la distinzione tra “giusti” e “perfetti” e tra Chiesa visibile e Chiesa in-

57 La sostanza del presente capitolo è desunta da A. Guillaumont, Liber graduum, in DSp 9 (1976), pp. 749-54. 58 A. Guillaumont, op. cit., p. 750. 59 Ibid.

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visibile portava i messaliani a separarsi dalla grande Chiesa e a costituirsi in setta, l’autore del Liber graduum, al contrario, «insiste sulla necessità, per chi vuole pervenire alla Chiesa invisibile, di passare attraverso la Chiesa visibile» 60. Infatti occorre piuttosto vedere in questa distinzione tra “giusti” e “perfetti” «uno degli elementi fondamentali e permanenti della spiritualità siriaca dalle origini fino ai grandi mistici nestoriani del VII e VIII secolo» 61. VERSO LA «GRANDE LACERAZIONE»

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Fino a questo momento siamo rimasti nell’ambiente di una cristianità siriaca indivisa. Tuttavia, dopo la condanna di Nestorio al concilio di Efeso (431), i germi di divisione erano già all’opera in seno alla cristianità di Edessa. Con l’arrivo di numerosi emigrati dall’impero sasanide venne a crearsi nella celebre Scuola dei Persiani, resa famosa da Efrem, un partito nestoriano molto potente. Dapprima tale partito trovò in Rabbula, vescovo dal 411 della città, un avversario accanito, ma il successore Ibas (457), autore della famosa Lettera a Maris 63, fu suo sostenitore. Ci è pervenuto poco della produzione letteraria di Rabbula: due omelie, alcuni testi canonici, alcune lettere e un frammento di lettera a san Cirillo, con la risposta di quest’ultimo. Sappiamo che vietò l’uso del Diatessaron nella liturgia a favore dei Vangeli separati. Delle opere di Ibas, a parte la Lettera a Maris, non ci rimane niente. Sappiamo però che fece parte di quel gruppo di giovani sacerdoti trasferitisi da Nisibi alla Scuola di Edessa per intraprendere l’impresa gigantesca di tradurre i Padri greci e autori come Eusebio di Cesarea, Tito di Bostra, insieme ad autori profani. «Si rimane meravigliati della grande quantità di testi che furono in questo modo tradotti, con tutto l’ardore e l’entusiasmo che vi potevano infondere questi giovani strappati, per amore dello studio, alle loro case e alla loro patria» 64. Fu così che con l’aiuto di due suoi discepoli Ibas 60 61 62

Ibid., p. 752. Ibid., p. 753. Espressione ripresa dal titolo del capitolo VI dell’opera di J.-M. Fiey segnalata supra, alla n. 38. 63 Testo greco e versione latina: Mansi, VII, coll. 241-249. 64 E. Tisserant, in DTC 11 (1031), p. 267.

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tradusse le opere di Diodoro di Tarso (†394), di Aristotele e soprattutto i Commentari di Teodoro di Mopsuestia (†428), autore che la Chiesa di Persia adotterà nel 484 come esegeta ufficiale e che onorerà con il nome di «Interprete», titolo attribuitogli ancora oggi dai siro-orientali. Dopo la morte di Ibas avvenuta nel 457, i suoi seguaci furono cacciati da Edessa e si ritirarono in Persia 65. Nel frattempo, nel 451, il monofisismo era condannato a Calcedonia. I vescovi siriaci, nella maggior parte, rifiutarono di aderire al concilio e dettero vita alla Chiesa monofisita. Da quel momento tutta la cristianità siriaca rimase separata dalla grande Chiesa e, in più, essa stessa si divise in due Chiese rivali e spesso nemiche, ciascuna di esse vivendo ormai una propria vita, ben presto con una sua gerarchia, suoi teologi e suoi polemisti che sapranno anche validamente difendere e valorizzare i propri sistemi cristologici. Impegnandosi però in controversie teologiche, l’una e l’altra privilegeranno, d’ora in poi, una elaborazione speculativa, trascurando in questo modo gran parte di quella ricchezza che poteva loro venire da una visione simbolica del mistero cristiano 66. BIBLIOGRAFIA Lo strumento bibliografico di base, per ulteriori approfondimenti dei temi trattati, è il Catalogue of Syriac Printed Books and Related Literature in the British Museum, London 1962, curato da Cyril Moss. In seguito si può consultare la rivista «Parole de l’Orient» (Université Saint-Esprit, Kaslik, Libano): per gli anni 1960-1970: PdO 4 (1973) 393-465; per gli anni 1971-1980: PdO 10 (1981/2) 291-412;

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La Scuola di Edessa sarà definitivamente chiusa dall’imperatore Zenone nel

489. 66 I mistici costituiscono un caso a parte. Il loro contatto con l’indicibile li obbliga a utilizzare soprattutto un linguaggio simbolico. Così, quando tentano di concettualizzare le loro esperienze, il linguaggio si rivela totalmente inadeguato, oppure contraddice le posizioni tradizionali delle loro Chiese, ciò che attira loro le condanne da parte delle autorità ecclesiastiche. È ciò che avverrà per il mistico siro-orientale dell’VIII secolo Giovanni di Dalyatha.

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per gli anni 1981-1985: PdO 14 (1987) 289-360; per gli anni 1986-1990: PdO 17 (1992) 211-301. Queste bibliografie, a cura di S.P. Brock, sono state raccolte in un volume intitolato Syriac Studies. A Classified Bibliografy (19601990), PdO (1996). In PdO 23 (1998) 241-350, sempre a cura di S.P. Brock, è uscito un aggiornamento bibliografico Syriac Studies. A Classified Bibliography, per gli anni 1991-1995.

CAPITOLO IX

I MARONITI

È opportuno a questo punto parlare di una Chiesa, quella maronita, le cui origini sono avvolte da non poche incertezze, la cui costituzione tuttavia ha uno stretto legame con le vicende del patriarcato di Antiochia. Secondo la tradizione il nome deriva da quello di un eremita siro antiocheno, di un «santo prete anacoreta», come lo denomina Giovanni Crisostomo, di nome Marone, morto nei primi anni del V secolo, sulla cui tomba sarebbe sorto un monastero. Proprio di qui è necessario partire. Il monastero di Marone, situato nelle vicinanze di #amåh, nel distretto di Homs, nella Siria Seconda, sulle rive dell’Oronte sarebbe stato fondato, verosimilmente a seguito del concilio di Calcedonia del 451 per impulso dell’imperatore Marciano (450-457), che intendeva promuovere un monachesimo di timbro calcedonese. Con probabilità esso divenne ben presto punto di riferimento per molti fedeli. Durante il VI secolo si hanno tracce assai scarse della sua esistenza: una corrispondenza di monaci della provincia della Siria Seconda, forse del nostro monastero, con il papa Ormisda (510-523); la firma sugli Atti del concilio di Costantinopoli del 536 di un Paolo, «apocrisario del monastero del beato Marone, monastero che esercita la supremazia sui venerabili monasteri della Siria Seconda»; un testo di natura polemica tra i monaci del monastero di Marone ed i monaci monofisiti; un testo che risale alla fine del VI secolo e nel quale si avvertono tutte le difficoltà vissute dai calcedonesi di Siria dopo la condanna dei Tre Capitoli e quindi della tradizione antiochena voluta nel 553 da Giustiniano. Qualche altra notizia relativa all’inizio del VII secolo non è chiara e tutt’altro che sicura. Poco più tardi il cosiddetto Chronicum Maroniticum, una cronaca in lingua siriaca, narra di una disputa avvenuta tra vescovi giacobiti e i monaci del monastero di Marone, che sembrano rappresentare la parte calcedonese di contro alla monofisita. Ma quel Chronicum introduce anche un altro scenario che vede i bizantini ritirarsi verso occidente e gli arabi conquistare la Siria e dà l’idea dei sen-

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timenti vissuti negli ambienti siriaci, divisi tra l’urgenza di adattarsi alle nuova situazione causata dalla conquista mussulmana e la speranza di essere liberati, come era avvenuto all’inizio del secolo, quando i persiani erano stati sconfitti dalle truppe costantinopolitane. Speranza, quest’ultima ben presto andata delusa; donde lo scoraggiamento tra i cristiani che vivevano sotto il dominio di califfi. Nel frattempo nel 680-681, il VI concilio ecumenico, terzo di Costantinopoli, condannava gli autori e i fautori del monotelismo, di quella dottrina cioè che affermava avere Cristo due nature e una sola volontà, dottrina che nel 638 l’imperatore Eraclio con un editto (l’Ekthesis) aveva cercato di imporre a tutta la Chiesa. Dopo il 680-681, secondo le parole di Dionigi di Tell Mahre (patriarca giacobita [818-845] che scrive 8 libri di storia ecclesiastica e 8 di storia civile riguardanti il periodo che va dal 582 all’842), compare di nuovo il monastero di Marone, il cui responsabile e i cui monaci si oppongono ai decreti del concilio stesso. La ragione di un tale atteggiamento è forse da ravvisarsi nel risentimento e nella sfiducia provocata tra i siriaci dalla pace conclusa dall’imperatore Giustiniano II con ‘Abd al-Malek nel 689, con la quale il loro paese, che aveva in quegli stessi anni cominciato a resistere con azioni armate al giogo mussulmano, era stato abbandonato nelle mani del califfo. Dalla testimonianza di Dionigi si può supporre che con i monaci si siano schierati per il monotelismo gli abitanti di villaggi di campagna o di montagna, i quali con probabilità avevano sostenuto i ribelli, mentre abbiano aderito alle direttive del concilio le popolazioni delle città, con i loro capi e i loro vescovi. Due partiti dividono così ulteriormente la Chiesa di Siria, nell’VIII secolo, il partito di coloro che resistono e il partito di coloro che collaborano con gli arabi. A quanto pare negli stessi anni si pone un episodio fondamentale per il monastero di Marone, quando i monaci rifiutano di sottomettersi al patriarca calcedonese di Antiochia, Teofilatto bar Qambara, che, al tempo del califfo Marwan II (744-750), si era dichiarato favorevole al concilio del 680-681. È questo il presupposto che in anni successivi provocherà l’elezione da parte di quegli stessi monaci di un patriarca loro proprio. Ancora Dionigi di Tell Mahre asserisce esservi presso di loro la prassi di eleggere un proprio patriarca e da una serie di indizi si può congetturare che essa abbia cominciato ad avere luogo nell’VIII secolo o all’inizio del successivo. Fin qui abbiamo parlato del monastero di Marone, ma ci si può chiedere quando nasca la comunità maronita e quindi la Chiesa ma-

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ronita vera e propria. Pure questo elemento rimane avvolto nell’oscurità, come del resto poco chiare sono le circostanze dell’elezione del primo patriarca. Altre fonti risalgono ad epoche più tarde e incerte. Uno scrittore che ne parla è Eutichio di Alessandria (†940): questi afferma che i maroniti sarebbero i discepoli di un monaco chiamato Marone, vissuto al tempo dell’imperatore Maurizio (582-602), che avrebbe professato il monotelismo, e solo dopo la sua morte sarebbe stato costruito un monastero, denominato monastero di Marone; ed aggiunge che essi vivevano in certi villaggi della Siria ed erano pure loro monoteliti. Ma i dati sono incongruenti sia per quanto attiene al monotelismo, che è professato in un tempo successivo a quello di Maurizio, sia per quanto concerne l’epoca di fondazione del monastero già esistente, a quanto risulta, all’inizio del VI secolo. Un altro scrittore, al-Mas‘oudi (†956), contemporaneo di Eutichio (del quale dice di conoscere l’opera), fornisce altri particolari a proposito del monastero e dei cristiani maroniti, che attribuiscono la loro origine a Marone. Egli si mostra ben documentato ed informato e, per primo, a differenza di Eutichio, asserisce dimorare parte dei maroniti nel Libano ed afferma esplicitamente che essi attribuiscono la loro origine al monaco da cui traggono il nome. Un terzo personaggio, Tommaso di Kafartab, vissuto nelle prime decadi del XII secolo, autore di un’opera conosciuta come Trattato dei “Dieci Capitoli”, parla della separazione tra melchiti e maroniti, che già sarebbe avvenuta in un’epoca anteriore ad Eraclio. Gli imperatori bizantini avrebbero tentato di imporre a tutto l’impero la dottrina relativa alle volontà in Cristo, ispirati da Massimo il Confessore, trovando tuttavia un’aperta opposizione in Siria e in Libano, in particolare da parte dei monaci del monastero di Marone. È quello il tempo in cui, secondo Tommaso, dal Monte Libano, da Homs, da #amåh e Aleppo si raccolsero tutti intorno al monastero di Marone e furono chiamati Maroniti dal nome del monastero. Si tratta di una leggenda, giacché le incongruenze di carattere storico sono palesi; tra l’altro Massimo il Confessore vive nel corso del VII secolo, morendo nel 663, sotto l’imperatore Costante II (641-668). Leggenda che nondimeno mette in luce un elemento prezioso: l’esistenza di una tradizione che anticipa la controversia relativa alla volontà di Cristo e la condanna della dottrina dell’unica volontà al tempo di imperatori precedenti. In modi diversi Eutichio, alMas‘oudi e Tommaso confermano così l’antichità di un racconto concernente la Chiesa maronita e le sue origini.

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Non è il caso a questo punto di tentare di comprendere come e perché nasca la leggenda di cui si è detto. Interessa invece sottolineare che chi aderisce alla dottrina sostenuta dai monaci del monastero di Marone sull’unica volontà di Cristo è convinto che essa discenda naturalmente dalla tradizione calcedonese e sia fedele alla tesi ortodossa elaborata anche dagli altri concili ecumenici: giusto come afferma Tommaso de Kafartab. Né si può dimenticare che il racconto ha inizio nel periodo in cui gli arabi mussulmani invadono la Siria e il Libano e che quindi l’esaltazione dell’imperatore Eraclio con ogni probabilità (vincitore dei persiani e liberatore della Terra Santa in anni immediatamente precedenti) è un auspicio perché un altro Eraclio sappia fare altrettanto contro i mussulmani. Un dato è certo: pur con le palesi contraddizioni storiche che caratterizzano i testi dei quali si è detto, essi vogliono chiaramente indicare la divisione che avviene tra i maroniti e i melkiti, o meglio, tra i calcedonesi siriani, raccolti intorno al monastero di Marone e fedeli alla memoria di Eraclio, e gli altri, favorevoli al concilio del 680-681, vicini a Costantinopoli e non alieni dal collaborare con i califfi. Le narrazioni sono al contrario molte incerte e discordanti rispetto alla figura del monaco Marone e al suo monastero. Secondo Eutichio solo dopo la sua morte è costruito il monastero; per alMas‘oudi il monastero già esisteva lui vivente e, per causa sua, esso era conosciuto, suggerendo forse con ciò che quegli vi aveva una posizione di rilievo ed aggiungendo che a lui attribuivano la propria origine i maroniti. Ancora differentemente Tommaso sottolinea l’importanza del monastero e spiega che i suoi monaci furono denominati Maroniti proprio dal nome di quel monastero. A complicare un insieme di notizie già malsicure si aggiunge la menzione di un Marone, chiamato Giovanni (ove il termine Marone potrebbe essere un titolo patriarcale e l’identità di chi lo porta sarebbe da distinguere rispetto all’ipotetico Marone fondatore del monastero). In alcuni manoscritti che contengono le sue opere, si trova una prologo, che sembra redatto in epoca assai antica: nel manoscritto Achqut 52 si legge che Marone, chiamato Giovanni, fu patriarca di Antiochia e di tutta la regione di Damasco e della Siria (mentre si tace del Libano); di lui si dice che scrisse una professione di fede «nel monastero santo» (forse quello di cui si sta parlando?) e che lottò contro le dottrine di Nestorio e di Eutiche, contrastandole con le dottrine dei Padri; e si aggiunge che quegli, di fronte alle divisioni dell’unica verità del Signore, rimasto fedele alla tra-

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dizione di Nicea e dei concili successivi, se ne fuggì da Antiochia e venne nel monastero situato nella regione della città di #amåh. Con ciò si volle sottolineare, a quanto sembra, la nascita del Patriarcato maronita, nell’VIII secolo o inizio IX. Al di là della leggenda, con probabilità, a causa delle eresie, i monaci del monastero di Marone pensarono di nominare un loro Patriarca che avesse il titolo di patriarca di Antiochia, per l’autorità della sede, ma con la propria residenza nel monastero, che per ciò stesso assumeva maggiore importanza. Successivamente, forse alla fine del IX secolo, per la lotta condotta contro di loro dai monofisiti e dai mussulmani, che sembra abbiano distrutto il monastero intorno a cui si era costituita una comunità, dalle piane della Siria si rifugiarono nella regione del Libano, nella «montagna santa», ove si trovano ancora oggi. Una minoranza emigrò nell’isola di Cipro. Senza entrare in altri particolari, basterà osservare che, pur con tutte le riserve del caso, dalle testimonianze in nostro possesso: a) Giovanni Marone è fatto risalire all’epoca della lotta contro le eresie di Nestorio e di Eutiche, ma nulla viene detto circa il periodo più preciso in cui sarebbe vissuto; b) da esse risulta che il primo patriarca maronita professava la dottrina dell’unica volontà di Cristo, opponendosi alle idee sulla doppia volontà di Cristo avanzata da Massimo il Confessore (ma, come già si diceva, per i monaci del monastero di Marone la dottrina da loro professata confermava la grande tradizione della Chiesa, come appare con tutta evidenza dalla lettera da loro inviata agli imperatori di Costantinopoli che con un editto volevano imporre la fede di Massimo). Un altro scritto, risalente al Medioevo, conferma questi dati. Si tratta del Kitâb al-Hudâ nel quale sono considerate le divisioni che hanno lacerato la Chiesa: si parla degli ariani, dei nestoriani, dei giacobiti e pure del partito melchita, che risale a Costantino, figlio di Costantino, figlio del re Eraclio (il riferimento è a Costantino IV, imperatore al tempo del concilio del 680/681), cui si oppone il partito maronita, che risale a Marone Yúhanâ, patriarca di Antiochia la Grande. Secondo il racconto lasciatoci da un altro patriarca maronita, Stefano ad-Douaihy, vissuto nel XVII secolo, lo stesso Giovanni Marone, di cui si è detto, si sarebbe recato per risiedere nella nuova sede (ma verosimilmente è quest’ultimo uno sviluppo della leggenda verificatosi dopo lo stabilirsi dei maroniti in Libano). L’imperatore Giustiniano II (fine sec. VII-inizio VIII) avrebbe poi combat-

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tuto i maroniti e ne sarebbe stato sconfitto, mentre il suo successore avrebbe ristabilito con loro la pace e addirittura inviato al patriarca Giovanni un segno di onore. I rapporti con i crociati furono eccellenti. Tra di loro Guglielmo di Tiro narra che nel 1182 i maroniti ebbero contatti con il patriarca di Antiochia. Nel 1215 un loro patriarca, Geremia II, prese parte al concilio Lateranense IV, tenutosi sotto la presidenza di Innocenzo III, che aveva invitato vescovi dell’Oriente e dell’Occidente, oltre a superiori dei grandi ordini religiosi, rappresentanti dei capitoli della cattedrali e dei sovrani cristiani. Più tardi, nel 1455, anche i maroniti di Cipro si unirono a Roma , come già lo erano quelli del Libano. Relazioni che si fecero anche più strette dopo che Gregorio XII nel 1584 volle fosse realizzato a Roma un collegio per i maroniti, anche se in quel periodo l’azione di legati pontifici e i loro sforzi per imporre usi latini provocarono nel paese forte malcontento. Nel 1736 un grande sinodo perfezionò l’organizzazione della Chiesa maronita; le conclusioni prese allora determinano ancora oggi la sua vita. I califfi prima e i sultani ottomani poi rispettarono la struttura ecclesiastica maronita. Nella seconda metà del XIX secolo e al tempo della Prima Guerra mondiale molti caddero in stragi compiute dai drusi e in seguito dai turchi. Particolarmente dolorosi e colmi di prove sono stati gli ultimi decenni del XX secolo per le Chiese cristiane del Libano (oltre ai maroniti, convivono oltre dieci comunità cristiane sul suo territorio, accanto a mussulmani sunniti e sciiti e a drusi) e per il suo popolo. Dopo la fine dell’Impero ottomano e della sua dominazione, nel 1926 il paese si organizza in Repubblica, sotto il mandato francese; alla fine del 1943 acquista la piena indipendenza; nel 1975 scoppia la guerra civile, nel 1982 ha luogo l’invasione israeliana; nel 1992 avvengono, dopo 20 anni, le prime elezioni generali. Da quegli anni è cominciata la ricostruzione, tra difficoltà fino ad oggi non risolte. Sotto la giurisdizione del patriarca di Antiochia dei maroniti, oltre alla diocesi patriarcale di Batrun e Sarba e alla metropoli di Beirut, vi sono numerose archidiocesi e diocesi: non poche infine sono le diocesi maronite sparse nel mondo, dall’America Latina all’America del Nord all’Australia. Stando alle statistiche risalenti al 1991, i fedeli della Chiesa maronita sono circa 3.350.000, dei quali poco meno di 700.000 in diaspora. Non vi è dubbio che la più antica tradizione maronita è molto complessa e difficile da interpretare, per lo stato delle fonti. Essa

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non riporta dati storici, ma, come è stato scritto, «è uno specchio di convinzioni e di speranze della comunità nel cui seno ha avuto origine»; essa riflette «una tensione morale, sempre vigile, di un popolo che lotta per la sua fede, nella solitudine» ed esprime «un sentimento di fedeltà “fino alla morte” nei confronti di un ideale che occorre preservare ad ogni costo» 1. BIBLIOGRAFIA Al-Mas‘oudi, Kitåb al-tanbı¯h wal-ißhråf, éd. M.J. De Goeje, Leyden 1894 (réimpr. Beyrouth 1965). F. Carcione, La genesi storico-teologica del monotelismo maronita. Note per una lettura ortodossa della tradizione cristologica maronita, Roma 1990. Chronicon Maroniticum, ed. E.W. Brooks, in Chronica Minora, CSCO 3 (Scriptores Syri, 4), Parisiis 1903, pp. 43-74. Eutychii Patriarchae Alexandrini Annales, ed. L. Cheikho, pars prior, CSCO 50 (Scriptores arabici 6), Beryti-Parisiis-Lipsiae 1906; pars posterior edd. L. Cheikho - B. Carra-De Vaux - H. Zayyat, CSCO 51 (Scriptores arabici 7), Beryti-Parisiis-Lipsiae 1909. Guillaume de Tyr, Chronique, éd. critique par R.B.C. Huygens, CC (Continuatio Mediev. 63), 2 voll., Turnholti 1986. C. Chartouni, Le Traité des “Dix Chapitres” de Thomas de Kafartab, Beyrouth 1986. M. Cubbe De Ganthuz, Quelques réflexions à propos de l’histoire ancienne de l’Église maronite, PdO 6 (2001) 3-69. P.B. Daou, Le site du couvent principal de S. Maron en Syrie, PdO 3 (1972) 145-152. P. Dib, L’Église maronite, I, Paris 1930; II, Beyrouth 1962; III, Beyrouth 1973. J. Gribomont, Documents sur les origines de l’ Église maronite, PdO 5 (1974) 95-132.

1 M. Cubbe De Ganthuz, Quelques réflexions à propos de l’histoire ancienne de l’Église maronite, PdO 26 (2001), pp. 3-69. Su questo recente contributo mi sono basato nel redigere le pagine sui maroniti, come pure, in special modo, sui contributi di J. Gribomont, di P. Naaman e di M. Rajji citati in bibliografia.

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O. Hiestand, Die Integration der Maroniten in der römische Kirche, Roma 1988. M. Jugie, in DTC VIII/1, Paris 1923, coll. 693-751, s.v. Jean Damascène. Id., in DTC X/2, Paris 1929, coll. 2307-2313, s.v. Monothélisme. P. Naaman, Théodoret de Cyr et le monastère de saint Maroun. Les origines des Maronites. Essai d’histoire et de géographie, Kaslik 1971. M. Rajji, Le monothélisme chez les Maronites et les Melkites, «Journal of Eccl. History», 2 (1951) 38-42. A. Shboul, Al-Mas‘oudi and his World. A Muslim Humanist and his Interest in non-Muslins, London 1979 . G. Sorge, I maroniti nella storia, Roma 1978. S. Suermann, Die Grundungsgeschichte der Maronitischen Kirche, Wiesbaden 1998. W.P. Tayah, The Maronites: Roots and Identity, Bel Moroon Publishers 1987. S. Vailhé, Histoire réligieuse des Maronites, «Echos de l’Orient», 4 (1901) 96-102; 154-162; 5 (1902) 281-289. Id., L’Église Maronite du Ve au IXe siècle, ibid., 9 (1906) 257-268; 344-351.

CAPITOLO X

LA CHIESA ASSIRA O SIRO-ORIENTALE

LE VICENDE DEI PRIMI SECOLI La Chiesa assira o siro-orientale, a differenza della Chiesa di Siria che, anche nelle sue comunità più discoste dalle rive del Mediterraneo, è stata sempre o per determinati periodi nell’alveo dell’Impero romano, si è trovata del tutto fuori dei suoi confini in una vasta area che si estendeva fino all’Armenia verso nord, all’India verso est e all’Arabia verso sud. Essa fu il luogo in cui visse la cristianità arameo-siriaca nel contesto di una religione dominante, il mazdeismo, che, se probabilmente aveva avuto origine tra i medi e si era diffuso tra i parti e i battriani, era stato fatto proprio dai persiani, ove poi si era mantenuto fino alla caduta dei sasanidi avvenuta verso la metà del VII secolo d.C., per opera del califfo mussulmano ‘Umar ibn al-Kha££åb. Ancora una volta le notizie sulle origini cristiane sono molto scarse e di diverso tenore. Etnicamente, a quanto sembra, i siriorientali hanno la propria radice nelle comunità ebraiche stabilitesi a Babilonia al tempo di Nabucodonosor, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme. Gli Atti degli Apostoli (cf. 2, 9) enumerano tra i testimoni della Pentecoste anche parti, medi, elamiti e abitanti della Mesopotamia che, rientrati come si può supporre nei loro paesi, potrebbero avere comunicato l’esperienza vissuta e con ciò i contenuti essenziali del messaggio di Cristo. Ma nulla si sa. In tal caso la prima origine sarebbe di provenienza gerosolimitana. Origene, citato da Eusebio di Cesarea, vuole che il Vangelo vi sia stato portato dall’apostolo Tommaso 1. È un fatto che successivamente quella Chiesa conserva fino alle prime decadi del sec. V legami di dipendenza con la sede di Antiochia. I numerosi testi apocrifi riguardanti Addai (la forma siriaca del nome Taddeo), Mari, Giuda-

1

Cf. HE XIII, 5, 32.

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Tommaso e altri discepoli di Cristo indicano Edessa come punto di irradiazione. Anche lo storico Sozomeno esprime la stessa opinione, pur attribuendo agli armeni il merito di avere convertito i persiani; cosa che, almeno per il tempo più antico, non è plausibile. Non è da escludere che altri missionari siano venuti dalle colonie giudeo-cristiane ben stabilite nella parte settentrionale della Mesopotamia e in particolare da quelle dimoranti nell’Adiabene. Addai nel 37 d.C. avrebbe stabilito a Seleucia-Ctesifonte la prima sede vescovile della regione. Certamente nel II secolo la Chiesa doveva essere ormai radicata in Persia e ancor più rafforzarsi nel secolo successivo. Infatti nel 226 la dinastia sasanide, affermatasi in quelle terre sotto Ardashir dopo avere vinto gli arsacidi, cominciava a perseguire una politica di contrasto e di ostilità verso l’Impero romano. Ciò provocò campagne militari già intorno al 250 d.C., in alcune delle quali i persiani sconfissero i romani, penetrando fino alla Siria, alla Cappadocia e alla Cilicia, e fecero prigionieri molti romani, tra i quali non mancavano i cristiani, deportandoli poi in Persia. Una fonte di grande interesse per la storia religiosa di quell’area, la Cronaca di Seert 2, rileva che fu questo il motivo per cui i cristiani crebbero nel paese; insieme a loro fu deportato nel 256 anche il predecessore di Paolo di Samosata, Demetrio (o Demetriano), vescovo di Antiochia; questi in terra straniera cadde ammalato e morì di tristezza. Pure lo sviluppo del marcionismo e del manicheismo confermano la presenza di seguaci di Gesù. I successori di Ardashir ebbero un atteggiamento di tolleranza verso di loro. Poi la situazione volse al peggio: su pressione degli ambienti dei magi e in particolare del loro capo Kartir, Wahram II, re sasanide dal 276 al 292, dopo essere stato ben disposto verso i cristiani, mutò atteggiamento e diede inizio ad una persecuzione rivolta contro le religioni straniere in quanto minacciavano la religione nazionale, il mazdeismo. Tanto più ciò valeva per il cristianesimo, che si riteneva – assimilandolo erroneamente al manichesimo – predicasse il rifiuto del matrimonio e della procreazione 3. Si annoverarono così i primi martiri (cristiani e manichei, senza distinzione), che sembrano essere stati numerosi; di alcuni di loro sono pervenuti gli Atti. 2 Cf. Histoire Nestorienne inédite ou Chronique de Séert, prima parte, pubblicata da A. Scher, 2, in Patrologia Orientalis 4, Paris 1908, pp. 220s. 3 Cf. ibid., in Patrologia Orientalis, cit., 9, pp. 237s.

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Passata quest’ondata persecutoria, il clima cambiò e per oltre 40 anni i cristiani godettero della libertà di professare la propria religione, di usufruire di luoghi di culto e di darsi una organizzazione ecclesiastica consistente. Ogni provincia ebbe una o più sedi vescovili. Si è pure al corrente di una grave controversia nata tra il vescovo di Seleucia-Ctesifonte, Papa bar Aggai, e suoi confratelli, che gli rimproveravano di avere tentato di imporre l’egemonia della propria sede sulle altre; deposto, si appellò ai vescovi della Siria, dell’Osroene e della Mesopotamia ed ottenne di potere tornare nella propria sede. Dopo il 340 i cristiani subirono un’altra persecuzione, più grave della precedente. Sapore II (309-379), dopo avere per lunghi anni guardato con benevolenza a loro, per istigazione di nuovo dei magi, cui si aggiunsero gli ebrei – se si tiene per buono ciò che affermano fonti agiografiche –, avrebbe attuato una violenta repressione. Da vari indizi si è in grado di desumere che i cristiani sarebbero stati considerati nemici della Persia in quanto avrebbero condiviso gli stessi sentimenti del Cesare d’Occidente, da sempre tenuto alla stregua di nemico. Occorre sapere che nel 338 si era riaccesa una forte tensione tra i due Imperi dell’Occidente e dell’Oriente; che nel 340 erano state emanate misure vessatorie nell’Impero orientale; che nel 344 era stato giustiziato il vescovo di Seleucia-Ctesifonte, Simeone bar Sabba, e ancora che nell’anno successivo era iniziata una vera e propria persecuzione, subito dopo la battaglia di Singara tra persiani e romani nella quale il figlio di Sapore II era stato fatto prigioniero, torturato ed ucciso dai soldati romani. Molte le vittime di quel momento difficile 4, fra vescovi, preti, diaconi, oltre che laici; molte le chiese distrutte e molti anche i documenti martiriali rimastici (i quali tuttavia non hanno un grado di affidabilità sufficiente per potere ricostruire con chiarezza e fondamento storico quelle vicende). Dalla fine del IV secolo la cristianità persiana ebbe sorti migliori, in special modo al tempo di Iezdegerd I (399-420), il quale fece cessare le ostilità con l’Impero romano e si liberò dall’influenza esercitata in precedenza dai magi. Il sovrano consentì la costruzione di edifici di culto, liberò i cristiani che ancora giacevano nelle prigioni, ebbe buone relazioni con i vescovi, permise alle Chiese

4

Cf. HE II, 9.

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di avere rapporti più stretti con l’Occidente, accordò l’autorizzazione perché fosse convocato un concilio. In tal modo nel 410 i vescovi del paese si riunirono a Seleucia-Ctesifonte, adottarono la fede e la disciplina di Nicea del 325; inoltre il concilio diede disposizioni a che la Chiesa di Persia si riorganizzasse e prendesse atto della propria ulteriore estensione – dai confini dell’Armenia alle isole del Golfo Persico – avvenuta dopo il tormentato periodo trascorso. Al vescovo di Seleucia fu attribuito il titolo di katholikos (una denominazione che diventa comune dal V secolo in alcune Chiese orientali e che indica il capo di quelle Chiese), come si legge negli Atti conciliari. In quegli anni avvenne un fatto molto importante per la Chiesa di Persia, che influenzò altre Chiese. Le decisioni del concilio del 410 non solo furono sancite da Iezdegerd I, ma fatte valere come leggi del regno. Così la Chiesa fu certamente riconosciuta e protetta, ma fu pure controllata (e qualche volta di nuovo perseguitata) dal sovrano e dai suoi rappresentanti. Come accadde nei tempi successivi, il re si riservò di dare l’assenso o addirittura di indicare il nome del katholikos e così pure, a sua discrezione di deporlo o di esiliarlo. D’altra parte in quel tempo il vescovo di Seleucia-Ctesifonte, si rese indipendente dal vescovo di Antiochia, da cui per lungo tempo era dipeso, e soprattutto dichiarò per la propria Chiesa l’autonomia dottrinale e disciplinare. Pertanto da una parte la sua dipendenza dal «re dei re» e dall’altra lo scioglimento di ogni legame dalle Chiese «occidentali» le fece assumere i tratti di una chiesa nazionale e, pur liberandola dalla tutela anche politica dei bizantini, accentuò le sue tendenze separatiste 5. È questo un caso in cui la dinamica tra universalità e località vede prevalere nettamente la seconda tendenza. Nell’anno 424 un altro evento importante segnò la vita della Chiesa di cui parliamo. Essendo stato contestato da alcuni vescovi, Dad-Ièsu I, katholikos di Seleucia-Ctesifonte diede le dimissioni dalla propria carica; esse però furono respinte. Quegli allora pose quale condizione per continuare a svolgere la sua funzione che il katholicos non potesse essere giudicato da alcuno, se non da Cristo stesso: «L’accettazione di tale condizione da parte del sinodo con5 Cf. sull’argomento P. Maraval, in Storia del cristianesimo. Religione, politica, cultura, vol. II, La nascita di una cristianità, Ch. e L. Pietri (ed.), tr. it., Roma 2000, pp. 870-875 della cui esposizione ci siamo ampiamente valsi.

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vertì la Chiesa di Persia in autocefala. L’atto escludeva di fatto il ricorso al pontefice romano, che nella Chiesa assira era stato implicitamente ammesso quando insieme ai canoni di Nicea erano stati accettati quelli del concilio di Sardica, i quali prevedevano simile ricorso. Tali conseguenze non emersero tuttavia esplicitamente in quel momento: la rottura definitiva con le Chiese cosiddette occidentali sarebbe avvenuta soltanto più tardi, in occasione delle dispute cristologiche» 6. MANI E IL MANICHEISMO Alle vicende dei primi re sasanidi è legata la tragica sorte di Mani (216-277ca.). La sua nascita e la sua formazione sembra siano avvenute nell’ambito di una comunità battista situata nei pressi dell’attuale Bagdag, nella regione della Babilonia. Da essa egli desume un ricco filone di tradizioni giudeo-cristiane. Così suggerisce il Codice manicheo di Colonia che offre elementi utili per discernere meglio i momenti della sua vita e i caratteri essenziali del movimento da lui fondato, da comporre con altri documenti diretti o indiretti che di lui parlano. Il carattere specifico del manicheismo, la necessità di situare il messaggio del suo fondatore in rapporto alla tradizione cristiana, le sue radici che affondavano in questa tradizione, la sua vicinanza a determinati fattori propri dei sistemi gnostici e soprattutto la sua diffusione e la sua fortuna oltre che fuori, anche entro l’Impero romano, le polemiche che suscitò con particolare riguardo a quelle avvenute nelle Chiese di lingua greca e latina, hanno consigliato di dedicare nell’Appendice del presente volume una trattazione specifica affidata a uno specialista della materia, Giulia Sfameni Gasparro. Per aprire un rapido scorcio sulla persistenza della dottrina manichea attraverso tempi e luoghi diversi, basti dire che in Persia i successori di Mani continuarono ad avere per lo più vita difficile, per l’opposizione dei magi. Venuta meno la dinastia sasanide, sotto gli omayyadi (661-750) non furono perseguitati e anzi godettero il favore di qualche califfo; ma l’islam non sottovalutò i pericoli che

6 Cf. J.N. Cañellas, Introduzione storica, in Bibliotheca Sanctorum orientalium-Enciclopedia dei santi. Le Chiese orientali, vol. I, Città Nuova, Roma 1998, p. XXXIX.

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quel movimento religioso rappresentava: con gli abbasidi (dal 750 circa) fu perseguitato. Esternamente alla Persia il manicheismo si diffuse a Oriente, fino a Samarcanda, ed in Cina dove, tra la fine del VII e l’VIII secolo, trovò tolleranza; mentre si hanno notizie di persecuzioni che ivi subì verso la metà del IX secolo. Tuttavia tracce manichee si riscontrano ancora per lungo tempo. Le sue dottrine si estesero anche nelle regioni del Turkestan e dell’Altai – in particolare presso gli uiguri, popolazioni di stirpe turca, che consentirono che venissero costruiti dai manichei luoghi di culto e monasteri. Nel 843 il movimento è proscritto, avendo i kirghizi assoggettato gli uiguri. Ma già intorno all’850 esso rifiorisce sotto la nuova signoria degli uiguri che pongono a loro capitale Qoìo. Più tardi, nel 1292 Marco Polo e lo zio Maffeo si imbattono in manichei a Fuzhou, segno della vitalità di questi ultimi, destinata a perpetuarsi ancora, fino al XVI secolo 7. In Occidente la propaganda manichea raggiunse molto presto paesi lontani dalla Persia e trovò subito agguerriti oppositori. Si pensi all’Egitto e alla lettera di Theonas, vescovo di Alessandria dal 282 al 300, o al De placitis Manichaeorum di Alessandro di Licopoli 8. Dall’Egitto la missione dovette spostarsi all’Africa settentrionale, ove ebbe successo, se il proconsole Giuliano, dopo essersi rivolto agli imperatori, ricevette da loro nel 297 un editto che ordinava di bruciare tutti i libri della setta, di confiscare i beni dei suoi adepti e di decapitarli; se poi erano personaggi di spicco occorreva che, acquisiti i loro beni al fisco imperiale, fossero condannati ai lavori forzati nelle miniere di Fanai (sulla punta estrema dell’isola di Chio) o del Proconneso (promontorio della Propontide). È stato osservato 9 che l’editto segna una data nella storia del manicheismo: infatti nel provvedimento tale movimento è menzionato per la prima volta nell’Occidente romano – De mathematicis, maleficis et manicheis è il titolo dell’ editto, nel quale si parla anche di doctrina Persarum –; esso destò una grave preoccupazione d’ordine religioso e pubblico 7 Cf. Il manicheismo, vol. I, Mani e il Manicheismo, a cura di G. Gnoli con l’assistenza di A. Piras, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2003, pp. LVIIIss. dell’Introduzione. 8 Cf. PG 18, coll. 411ss. 9 Cf. P. Monceaux, Histoire littéraire de l’Afrique chrétienne, Paris 1997, vol. III, p. 5. Cf. pure P. Siniscalco, Massimiliano: un obiettore di coscienza del Tardo Impero, Torino 1974, pp. 104ss.

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nell’autorità imperiale, che constatava la sua diffusione a poco più di venti anni dalla morte del suo fondatore. Nel 311 papa Milziade (311-314) denunciò la presenza di gruppi di manichei a Roma. Nel corso del IV secolo questi si diffusero in Gallia e nella Spagna; spesso si trattava di simpatizzanti veri o presunti che si davano a pratiche ascetiche severe. Contro di loro furono emanate ripetute leggi da Diocleziano, Costantino, Valentiniano I, Teodosio I. L’influsso della setta si palesò poi in tutta la sua importanza anche nel caso di Agostino, il quale per un certo periodo fu “uditore” manicheo e nelle Confessioni espone le ragioni che lo avevano indotto a fare quel passo e illustra ciò che di quella dottrina e delle sue pratiche aveva compreso. Assai interessante è il particolare secondo cui amici manichei lo avrebbero raccomandato a Simmaco, allora praefectus urbi: appare dunque che probabilmente anche alcuni pagani – e di buon livello sociale – erano attratti in Italia dalle dottrine di Mani. In seguito, mentre in Occidente il movimento, considerato come un’eresia, con il VI secolo perse di incisività e di fortuna, nell’Oriente cristiano ebbe vita più lunga. È noto che Giustiniano lo contrastò vigorosamente, giungendo a comminare la pena di morte non solo per gli “eletti”, ma anche per chi fosse in possesso di libri della setta; né la forza espansiva di quel movimento finì certo con lui: «La polemica antimanichea dei teologi bizantini continuò e già nel sec. IX dottrine manichee vennero professate dai pauliciani, dai quali sembra siano passate ai bogomili e quindi a catari, albigesi, ecc., in Italia e in Francia» 10. Si è voluto dedicare qualche attenzione a quella che può definirsi la religione fondata da Mani e perché nasce nell’ambito di una comunità cristiana in Persia e perché ben presto assume un carattere di universalità, come il cristianesimo, e perché infine nel suo ambito si struttura una “Chiesa” che nella forma e nell’organizzazione molto desume dalla Grande Chiesa cristiana. IL NESTORIANESIMO E LA CHIESA ASSIRA Mentre in Occidente i teologi della Scuola antiochena ed edessena erano ripetutamente condannati – dal concilio di Efeso del 449,

10

A. Pincherle, in Enciclopedia Italiana, vol. XXII, 1934, p. 123, s.v. Manicheismo.

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da quello di Calcedonia e, a distanza di un secolo, dal secondo concilio di Costantinopoli (553) –, i nestoriani ebbero fortuna in una parte dell’Oriente cristiano, precisamente in quella che viveva oltre i confini dell’Impero romano verso est, ossia nella Chiesa assira. Furono molti i motivi che sembra abbiano influenzato una tale fortuna, motivi politici e motivi religiosi. Tra i primi la rivalità e la lotta rinnovata tra i sasanidi e i romani d’Oriente, ossia con i bizantini, e con l’Occidente in genere. Ora gli “occidentali” erano di preferenza calcedonesi (come per lunghi periodi gli imperatori e i patriarchi a Costantinopoli, i vescovi di Roma, dell’Italia, della Gallia, della Spagna, ecc.) oppure monofisiti (come i cristiani dell’Egitto, della Palestina, dell’Armenia, della Siria mediterranea, ecc.). Sostenere i nestoriani era un altro modo per contrastare le terre situate ad Occidente, favorirli era un altro modo per promuovere la propria indipendenza di fronte alla tradizione cristiana mediterranea; e in ciò la politica dei re persiani si incontra con la profonda aspirazione della Chiesa ivi stabilita (ma non solo di quella) di essere autonoma. I motivi religiosi sono altrettanto chiari. Sotto l’episcopato di Rabbula, vescovo di Edessa dal 412 al 435, i seguaci di Nestorio (insieme agli gnostici) era stati allontanati dalla Scuola dei persiani o di Edessa, fondata da Efrem nel secolo precedente, per dare spazio a quelli della Grande Chiesa. Con il suo successore, Ibas, la situazione si ribaltò: egli fece conoscere e diffuse largamente le dottrine antiochene nestoriane. Così come molto giovò al nestorianesimo l’opera e la predicazione di Narsai, che di quella Scuola fu a capo. Egli era stato colpito dall’esegesi di Teodoro di Mopsuestia e ne aveva ammirato il pensiero cristologico. Per le opposizioni che aveva trovato era riparato a Nisibi. Già si è parlato nel capitolo precedente, relativo alla Chiesa di Siria, della Scuola di Edessa (nata inizialmente a Nisibi) e dell’eredità nestoriana che raccoglie. Occorre ora aggiungere qualche particolare. Nel 457 (o nel 471) Narsai, uno degli animatori della Scuola di Edessa, prevedendo quale sarebbero stati gli orientamenti degli imperatore di Costantinopoli a favore delle dottrine calcedonesi, aveva trasferito la Scuola stessa a Nisibi, sua antica sede. La scelta non era stata casuale; infatti Nisibi era situata fuori dei confini dell’Impero romano. Perciò, quando nel 489 per volere dell’imperatore Zenone i nestoriani furono espulsi dall’Impero romano e la scuola dei persiani di Edessa fu chiusa, essa continuò la sua attività a Ni-

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sibi e ne fu di nuovo messo a capo Narsai. Il rigore con cui erano organizzati gli studi e le norme che gli allievi dovevano osservare la resero ben presto punto di forza della Chiesa in Persia: divenne un centro culturale e spirituale del nestorianesimo, vivaio di vescovi e missionari, così come le opere di Narsai – di lui sono rimaste solamente un’ottantina di omelie in versi – la fecero conoscere nell’Oriente. Negli stessi anni la presenza del metropolita di Nisibi, Barsauma, che non esitò a perseguitare i monofisiti, allargò ulteriormente il raggio di influenza del nestorianesimo. Già nel 424 un sinodo aveva dichiarato l’autonomia della Chiesa di quella terra (con un proprio katholikos) dalle altre Chiese “occidentali”, nel 486 un altro sinodo, tenutosi a Seleucia, meglio specificò le caratteristiche della Chiesa persiana: sotto la guida di Acacio, katholikos dell’Oriente dal 485 al 495, essa adottò la concezione antiochena delle due nature, fino a dare l’impressione di affermare che in Cristo esistessero realmente due persone, proclamò il nestorianesimo come dottrina ortodossa, respingendo tutte le altre (un canone del sinodo, l’ultimo, imponeva il celibato ecclesiastico solamente ai monaci – tra i quali si usava scegliere il katholikos). Verso la metà del VI secolo la Chiesa di Persia fu ulteriormente consolidata dall’opera del katholikos Mar Aba (540-552). Convertito dal mazdeismo, personaggio di grande cultura che aveva visitato alcuni centri della tradizione cristiana più significativi – da Alessandria a Costantinopoli, da Antiochia a Corinto – e che aveva conosciuto più di uno scrittore importante, con il suo insegnamento e con le sue opere Mar Aba confutò le idee monosifite correnti in quegli anni e d’altra parte diede impulso ad una riforma anche disciplinare della sua Chiesa e in particolare del clero; una riforma che fu affiancata da quella di Abramo di Kashkar (501-586) (prima anacoreta e poi fondatore del monastero del monte Izla, non lontano da Nisibi), rivolta ai monaci per ordinare la loro vita talvolta corrotta. In tal modo la Chiesa nestoriana fu resa più salda di fronte alle prove da affrontare. La prima prova già si presentò nel corso del VI secolo quando l’imperatore Giustino I (518-527) costrinse tutti i vescovi ad aderire alla dottrina calcedoniana ed adottò misure repressive contro coloro che dissentivano; il provvedimento cagionò notevoli tensioni anche nella Siria romana e spinse non pochi monofisiti a lasciarla, per rifugiarsi nella Persia. La loro presenza diede slancio all’affer-

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mazione di centri di diffusione antinestoriani, che, del resto, già avevano validi rappresentanti siriaci (che scrivevano in lingua siriaca), come Filosseno di Mabbug (440ca.-523) o Giacomo di Sarug (450520ca.). Inoltre la Chiesa nestoriana dovette fare fronte ad un’altra difficoltà costituita dall’eresia dei messaliani che, già denunciata da Efrem nel 360 o da Epifanio nel 374, si sviluppò specialmente in Oriente, diventò grave al tempo di Filosseno e continuò ad esserlo anche successivamente, al tempo di Babai il Grande (†dopo il 628). Fra la fine del VI e l’inizio del VII secolo accadde un fatto singolare. Nel 572 divenne responsabile della Scuola di Nisibi, e tale rimase fino al 610, #enana di Adiabene, un uomo colto e preparato, il quale volle introdurre, accanto all’esegesi che si atteneva alla lettera, propria di un Teodoro di Mopsuestia o di altri rappresentanti della Scuola di Antiochia, l’insegnamento che risaliva ad Origene ed a Filone, con il suo allegorismo e l’individuazione nei testi biblici di significati spirituali; il che significava adottare la prospettiva calcedonese nell’ambito di una tradizione ben consolidata di anticalcedonismo. Due sinodi respinsero la nuova linea, condannando, senza tuttavia fare espressamente il nome di #enana, tutto ciò che non si rifacesse alla linea proposta da Teodoro. La sua posizione esegetica e cristologica ebbe riflesso anche sulla Scuola, che sarebbe stata abbandonata per protesta da parecchi studenti. In quel medesimo periodo si profilò poi un grave pericolo esterno. Cosroe II (590-627) nel 604 aveva cominciato a muovere con le sue truppe verso l’Oriente mediterraneo e a occupare, oltre alla Siria, parte dell’Egitto. Dopo avere mostrato favore nei confronti dei cristiani (lui stesso forse lo era), iniziò a perseguitarli, o meglio, a perseguitare tra loro i nestoriani. Così la Chiesa che professava il credo nestoriano o duofisita fu lasciata priva di guida, senza un katholikos. Fu quello il tempo in cui Babai svolse un’opera rilevante a favore dei suoi correligionari fino alla morte, avvenuta dopo il 628, quale superiore del Grande Monastero del monte Izla. Nel 628 l’imperatore bizantino Eraclio strappò nuovamente quelle terre ai persiani. Ma le lunghe lotte tra l’Impero romano d’Oriente e l’Impero sasanide avevano indebolito e l’uno e l’altro dei contendenti, i quali divennero facile preda di una nuova potenza che d’improvviso si delineò nella terra arabica. Quando nel 630 Eraclio sulla strada verso Gerusalemme stava riportando in trionfo la Croce presa ai persiani, Maometto, stando alla tradizione araba,

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gli inviò una lettera in cui lo invitata a sottomettersi all’islam e ad accoglierlo. Nel 631 Maometto entrava vittorioso a La Mecca, gettando le basi per unificare la penisola arabica, nel 632 moriva. ‘Umar ibn al-Khattab, secondo successore del profeta, nel 636 a Yarmuk in Siria vinceva una battaglia decisiva contro i bizantini che dovevano ritirarsi dalla Siria e dalla Palestina e lasciare libera la via per l’Egitto; e nel medesimo periodo aveva la meglio nella battaglia presso al-Qadisiyya in Iraq, ove sconfiggeva i persiani e provocava la fine della dinastia sasanide, il cui ultimo re Yazdererd III fu assassinato, mentre fuggiva, dai suoi stessi compatrioti 11. I nestoriani che avevano non poco sofferto sotto i sasanidi non si spesero per difendere lo status quo. I mussulmani assicurarono loro protezione e libertà religiosa, pur mantenendoli in uno stato di soggezione morale e giuridica, come erano soliti fare con i non appartenenti alla loro religione, dai quali esigevano che fosse pagata l’imposta di protezione. IL CRISTIANESIMO NELL’ASIA CENTRO-ORIENTALE La situazione contribuì a ridurre nel paese il numero dei sironestoriani; ma permise loro di diffondere il messaggio cristiano ben oltre i confini della Persia, probabilmente anche per il motivo che l’islam proibiva ai cristiani di fare proselitismo tra i suoi fedeli. Valendosi dei commerci, essi giunsero per mare e per terra fino alle genti dell’Asia centrale e dell’Asia orientale: se ne trovano tracce nell’isola di Socotra e di Ceylon, sulle coste del Malabar fino alla Cina. Si sa che là giungono religiosi persiani della Chiesa assira nel VII-VIII secolo. La prima traccia della presenza cristiana in quell’area è testimoniata dalla stele nestoriana di Xi’an, un’iscrizione su pietra, incisa alla fine del sec. VIII: essa si compone di due parti: una prima di carattere teologico-dottrinale e una seconda in cui si parla della diffusione in Cina del cristianesimo, definito «religione della Luce». Da quella fonte si desume che nel 635 l’imperatore Taizong (627-649), secondo della dinastia Tang, riceve il vescovo Aluoben, provenien-

11 Cf. H. Busse, Tratti fondamentale della teologia islamica e della storia del territorio islamico, in L’islam oggi, cit., pp. 57ss.

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te dall’Occidente, ossia dalla Chiesa siro-orientale, fa tradurre le Scritture che questi aveva portato con sé, le esamina e giunge ad essere convinto della fondatezza e della verità della dottrina che contenevano, tanto da ordinarne la diffusione nei territori del suo Impero. Il cristianesimo dunque prima della metà del sec. VII entra in contatto con il taoismo, il confucianesimo, il buddismo. È quello un periodo in cui la Cina si apre ad influenze esterne, dando spazio, oltre che a cristiani, ad ebrei e mazdei, favorendo un sorprendente pluralismo religioso e culturale. L’impulso evangelizzatore fu dovuto a grandi figure di katholikoi, tra i quali si annovera Timoteo I (780-823), impulso che venne riproporzionato, se non soppresso nel corso del sec. IX – allorché, verso il tramonto della dinastia Tang (618-906), la Cina si sottrasse ad ogni influsso di forme religiose esterne: tra l’843 e l’845 un editto dell’imperatore Wuzong, ispirato dai taoisti, proscrisse tutte le religioni straniere e ordinò la chiusura dei loro luoghi di culto e dei loro monasteri. Tuttavia il cristianesimo non scomparve interamente dal paese. Si hanno tracce della presenza di cristiani a Canton alla fine del XI e nel XII secolo. La Chiesa assira si riaffaccia sulla scena cinese al tempo dell’invasione dei mongoli di Gengis khan dalla metà circa del XIII secolo, quando si convertono al messaggio di Cristo varie figure della classe nobile del paese. È l’epoca in cui giungono missionari cattolici francescani, che redigono lettere e memorie sul fenomeno; è l’epoca dei primi viaggiatori occidentali e dei loro viaggi alla corte e nelle regioni governate dal Gran Khan. Dopo le difficoltà poste al messaggio di Cristo per opera dei Ming, esso sarà di nuovo testimoniato in terra cinese, ma con scarsi risultati, nel XVI secolo dai Gesuiti: ci si rammenti dell’opera di Matteo Ricci (15521610) 12.

12 La prima completa traduzione in italiano della stele di Xi’an è stata fatta di recente da M. Nicolini-Zani, in La via della Luce. Stele di Xi’an, Testi cristiani cinesi antichi (sec. VIII), Monastero di Bose, Magnano (Biella) 2001. Ivi è pure pubblicata la traduzione di un altro prezioso testo cristiano antico l’Inno di lode e di invocazione alle tre Maestà della religione della Luce. Nell’Introduzione (pp. 3-18) è possibile avere una prima idea della storia affascinante della diffusione del cristianesimo attraverso l’opera della Chiesa siro-orientale nell’Asia centrale e nell’Estremo Oriente, prima del sec. XVI, e trovare indicata la relativa bibliografia.

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I MONGOLI E I NESTORIANI Anche in Occidente il XIII secolo conobbe aperture inaspettate. Quando gli arabi cedettero ai mongoli l’antico territorio persiano, questi ultimi si mostrarono favorevoli ai nestoriani, alcuni di loro anzi si convertirono al cristianesimo. Marco Polo, che visitò le loro terre, ci fa sapere dei rapporti del tutto positivi che i nestoriani avevano con i mongoli 13. Sembra essere stato questo, nelle ultime decadi del XIII, un periodo che avrebbe potuto mutare le sorti dei rapporti tra Oriente ed Occidente: i mongoli infatti, dopo essersi accordati con gli armeni di Cilicia, avevano fatto delle incursioni fino in Siria e in Palestina con l’intenzione di togliere ai mussulmani il dominio dei territori che possedevano in quelle zone; era loro intenzione stringere alleanza con gli Stati Latini in Terrasanta. Ma i crociati, come già si è accennato in pagine precedenti, non ebbero la capacità politica di comprendere la loro strategia; anzi, ebbero timore di quelle genti che, provenendo da tanto lontano, stavano per affacciarsi alle rive del Mediterraneo e consentirono che i mamelucchi, la milizia mussulmana dell’Egitto, si contrapponessero ai mongoli e nel 1260 li sconfiggessero, respingendoli in Mesopotamia. Qualche anno dopo, nel 1289, vi furono contatti tra un katholikos di origine mongola, Yahballaha II, e missionari francescani e domenicani, che stavano recandosi in Cina, con i quali ci si prefiggeva di giungere all’unione con la Chiesa nestoriana e con Roma: non ebbero però esito positivo. I buoni rapporti tra mongoli e cristiani si incrinarono, soprattutto per la politica condotta dai crociati, e ciò diminuì la reciproca fiducia e fu causa per i nestoriani di periodi di grandi difficoltà. All’inizio del XIV secolo la Chiesa siro-orientale aveva ben 30 sedi metropolitane e oltre 200 diocesi suffraganee. Ma la situazione doveva ben presto mutare. Poco più tardi infatti il dominio di Tamerlano, Tamur Lenk (1336-1405), cominciò a decimare i cristiani. I sopravissuti dovettero lasciare le città e si rifugiarono in zone montagnose dell’attuale Turchia ed Azerbaigian occidentale. Spesso i fedeli nestoriani versarono in condizioni di povertà, senza alcun sostegno, in mezzo a prove continue, a persecuzioni sotterranee o dichiarate, subìte attraverso i tempi da parte dei mongo-

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Cf. Marco Polo, Il milione, ed. R. Alluli, Milano 1928, pp. 82 e 138.

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li, dei turchi, dei curdi, degli arabi, oltre che dei persiani. Le loro comunità furono influenzate da usanze delle società tribali in cui si inserirono; tra le quali usanze, una può essere menzionata: il fatto che il cattolicato abbia assunto carattere ereditario, da zio a nipote, dovendo essere il katholikos celibe. In tal modo hanno continuato a essere riconosciuti i discendenti degli antichi katholikoi, della famiglia Abuna, che tutti, succedendosi, assumevano il nome di Simone, per porre in rilievo la continuità della successione. LA CHIESA CALDEA CATTOLICA Questa pratica nel XVI secolo causò una contestazione da parte dell’episcopato, uno scisma e l’elezione di due katholikoi, uno dei quali, Yuhannan Sulaka, lasciò il paese per rifugiarsi a Roma, ove il papa Giulio III nel 1553 lo consacrò patriarca con il nome di Simone VIII dei Caldei. Si costituì così la Chiesa caldea unita, ramo della Chiesa assira che si separò dalla propria comunità originaria per unirsi alla Chiesa di Roma (ma già nel 1340 dei nestoriani, che si erano rifugiati nell’isola di Cipro, avevano aderito in massa alla Chiesa di Roma; e già il concilio di Firenze del 1439 aveva sancito l’unità tra le due Chiese, senza che tuttavia la dichiarazione avesse effetto tangibile). Tornato in patria alla fine del 1553, Simone subì persecuzione da parte del patriarca assiro rivale, fino ad essere ucciso nel 1555. Seguirono lunghi secoli in cui vi furono tra le due Chiese contrasti e lotte. Finalmente nel 1830 papa Pio VIII confermò Giovanni Hormizdas quale capo dei caldei cattolici, con il titolo di patriarca di Babilonia dei Caldei con sede a Mossul. Dal 1950 tale sede fu trasferita a Baghdad. Si diceva che dal XVI secolo esiste una Chiesa caldea unita che raccoglie cattolici siri che hanno lasciato il nestorianesimo. L’attuale patriarca è Raffaele I Bidawid, eletto nel maggio del 1989. I cristiani che lo seguono si stima che ammontino oggi a circa 300.000. La Chiesa caldea cattolica e la Chiesa siro-orientale hanno riallacciato proficue relazioni nel 1996; nel 1997 hanno ratificato un Decreto sinodale congiunto allo scopo di promuovere l’unità: l’una parte ha riconosciuto legittimità e la validità della successione apostolica, dei sacramenti, dei diversi usi dell’altra e viceversa. Ambedue le Chiese hanno deciso di mantenere la lingua e la cultura aramaica; inoltre, la siro-orientale ha ribadito di volere mantenere la

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propria libertà ed autonomia, mentre la caldea ha proclamato di volere continuare a custodire piena comunione con Roma. LA CHIESA ASSIRA OGGI Le comunità della Chiesa assira dimorano oggi in varie aree dell’Asia: innanzitutto in Iraq, ma anche in Iran, in Siria, nell’Armenia, in India, negli Stati Uniti. Nel XX secolo il cattolicato nestoriano subisce profonde trasformazioni. I katholikoi hanno vita difficile e talvolta vicende tragiche. Nei primi decenni dello scorso secolo alcuni di loro si vedono costretti a guidare l’esodo dei loro fedeli verso regioni meno insicure; anche successivamente altri tra di loro sono uccisi da contestatori o da avversari. Simone XXI nel 1940 si trasferisce negli Stati Uniti e nel 1965 in un sinodo fa accettare il calendario gregoriano e decretare la fine del nepotismo patriarcale della famiglia Abuna. In un sinodo del 1966 si stabilisce che sia i vescovi che il katholikos possano sposarsi (come già era stato consentito per vescovi e preti nel V secolo); ma questa decisione provoca malumori e opposizioni, tanto che è imposto come nuovo katholikos un vescovo nestoriano del Kerala in India, di nome Mar Thomas Darmo, cui succede un altro di nome Addaï. Intanto Simone XXI è assassinato negli Stati Uniti, e i suoi fedeli nel 1976 eleggono come nuovo patriarca il vescovo di Teheran, Mar Dinkha IV, che per la prima volta, secondo le decisioni del sinodo del 1965, non appartiene alla famiglia Abuna. La residenza del Patriarcato è negli Stati Uniti, in Morton Grove, Illinois. Si calcola, ma con approssimazione, che i suoi seguaci siano circa 400.000, mentre i seguaci di Addaï, che vivono nella grande maggioranza in India, ammontano a circa 35.000. L’11 novembre del 1994 è stata resa pubblica una dichiarazione congiunta da parte del katholikos – patriarca della Chiesa assira dell’Oriente, Mar Dinkha IV e del papa Giovanni Paolo II nella quale si riconosce che tra le due Chiese vi è identità della dottrina cristologica; tuttavia attraverso il tempo tale dottrina è stata espressa con una differente terminologia. Già si vedeva come le interpretazioni stesse relative alle formulazioni dottrinali di Nestorio abbiano dato adito presso gli studiosi moderni a diverse opinioni. Si sa che per la Grande Chiesa il concilio di Calcedonia aveva fissato in greco i termini essenziali della questione cristologica, affermando che in Cri-

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sto vi sono due nature (physeis) non confuse e una sola persona (prosopon o hypostasis). Ci è noto che in un sinodo nestoriano tenutosi nel 612, usando un vocabolario non coincidente, fu espressa la medesima fede cristologica. E la non coincidenza della terminologia dipese dal fatto che nella lingua siriaca non esisteva il termine corrispondente di “persona” e quindi neppure il relativo concetto (esiste il termine qnoma con il quale si indica una natura concreta individuale, ma non personalizzata) 14. «Comunque – come è stato osservato -– i siri-nestoriani proclamarono», e proclamano, «una sola entità in Cristo, che è quella che conferisce unità alle due nature complete: affermazione, questa, che racchiude la formulazione esatta della fede» della Grande Chiesa. La dichiarazione congiunta del 1994 smentisce dunque la presunta eresia della Chiesa assira e riconosce chiaramente «che l’identità di dottrina è compatibile con la diversità di espressione teologica. Dal punto di vista dogmatico, la dichiarazione non aggiunge nulla a quella pubblicata dal sinodo nestoriano dell’anno 612; tuttavia sotto l’aspetto ecumenico, questo recente documento costituisce un passo avanti verso una progressiva normalizzazione dei rapporti» 15. Ancora nel 1997 la Chiesa siro-orientale annunciò di volere stabilire un dialogo teologico con la Chiesa siro-occidentale e perciò soppresse dalla propria liturgia ogni anatema rivolto contro appartenenti a quella Chiesa. Diversa è la vicenda delle missioni cattoliche, anglicane, protestanti – di varie denominazioni – ed ortodosse che si susseguono nei secc. XIX e XX in quelle terre; ma non è nostro compito seguirne in questa sede i passi, i successi e gli insuccessi presso i cristiani assiri. Come è stato notato, «tutta la storia della Chiesa assira [che ha avuto origine nell’antica Chiesa di Persia] si snoda nel segno di un popolo senza patria, fondato sulla fede religiosa e sul rito, anziché su una terra e su una esperienza statuale: ciò unisce fortemente Chiesa e popolo, ma lascia la Chiesa assira tradizionalmente sprov-

14 Cf. R. Roberson, The Eastern Christian Churches, cit., p. 19. Ulteriori e più circostanziate notizie sulla Chiesa assira e sulle vicende più recenti che l’hanno interessata, possono essere rilevate alle pp. 15-20 dell’opera ora menzionata. 15 Cf. J.N. Cañellas, Introduzione storica, in Bibliotheca Sanctorum OrientaliumEnciclopedia dei Santi. Le Chiese orientali, cit., p. XLIII. Vedi Enchiridion Vaticanum, XIV, Bologna 1997, pp. 1014-1019.

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vista, a differenza di altre Chiese, di un braccio secolare che la difenda e provveda talora a tenerla unita». Situazione la quale, in un mondo come il nostro che vede «le accese lotte tra le nazioni, l’intolleranza verso le minoranze, il predomino delle ideologie, l’accelerazione degli eventi», rende meno facile «la vita di comunità ecclesiali indifese, ricche solo di memorie e di martiri, come quella assira» 16. LE DRAMMATICHE DIVISIONI DELL’UNITÀ ECCLESIALE Non si può fare a meno di osservare che nel periodo tardo-antico, nelle aree vicino-orientali e medio-orientali che abbiamo considerato, le divisioni che lacerarono la Chiesa (donde nacquero Chiese diverse) furono innescate da una riflessione che si concentrò intorno al mistero dell’Incarnazione. La teologia neotestamentaria e patristica aveva scorto da sempre la centralità e la complessità di tale mistero ed aveva cercato di esprimerlo in modo conveniente: la ricchezza e varietà di termini – soprattutto nella lingua greca – con cui l’aveva definito mostrano i non facili tentativi con cui aveva tentato di circoscriverlo. Essa era ben conscia di trovarsi dinanzi ad un paradosso della fede che doveva, per così dire, conciliare il dogma greco dell’immutabilità divina, la necessità di un salvatore esente da ogni peccato umano e la coesistenza di due nature nell’unico Cristo. La riflessione giunse ad un punto che divenne critico e trovò sfogo drammatico nella rottura dell’unità ecclesiale. Diverso esito aveva avuto invece la crisi ariana. Sarebbe però non rispondente al vero concentrare l’attenzione solamente sui fattori dottrinali per spiegare le lacerazioni interne al tessuto ecclesiale allora avvenute. Senza tema di smentita si può affermare che altre cause di altro genere hanno fortemente condizionato e favorito il processo che si sta seguendo. Intanto le diversità di culture e mentalità che informavano Chiese tra loro lontane. Come ora si è notato, i siriaci, per esempio, comprendevano difficilmente i sottili e complessi ragionamenti degli alessandrini circa la cristologia. La loro lingua non aveva alle sue spalle un substrato filosofico e non forniva a chi la parlava quelle ca-

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Cf. R. Morozzo della Rocca, Le Chiese ortodosse, cit., pp. 206-207.

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pacità di astrazione che per la sua stessa storia secolare e culturale aveva il greco. Inoltre, per passare ad un campo che più da vicino investe la natura umana, lo storico, che abbia qualche dimestichezza nel cogliere le vicende storiche ed abbia qualche conoscenza di sé e degli altri, non si sorprende nel notare che in quelle burrascose controversie – le quali provocarono tante dolorose conseguenze per i singoli e per le varie comunità – ebbe una grande parte non solo il limite, ma – per usare un linguaggio cristiano – soprattutto il peccato dell’uomo: la tendenza ad acquisire potere, prestigio, talvolta ricchezze. Ma non solo; ancor più l’ostinarsi nelle proprie idee, il difenderle ad ogni costo, il nutrire rancore, il valersi di parole pesanti come pietre contro gli avversari fino a considerarli nemici, il non perdonare, il non mettere in campo l’agape. Molto di quelle prolungate ed aspre controversie è dipeso dagli atteggiamenti interiori, cui sono seguite le azioni esteriori, dei protagonisti. Occorre tenere conto anche di un altro elemento, che qualche volta è stato preponderante, l’elemento politico in senso ampio: spesso è stato determinante nel favorire i contrasti e gli scontri; in particolare è stato deleterio l’atteggiamento assunto dagli imperatori, le pene comminate, la costrizione da loro esercitata, non di rado manu militari, nei confronti delle autorità ecclesiastiche, dei monaci e o dei semplici laici. Ma in questo ambito c’è pure un ulteriore motivo di natura sociologica e psicologica che non deve essere trascurato. L’unità è spezzata in special modo in Egitto e in Siria (come lo era stata già nel corso del IV secolo in Africa del Nord con il donatismo). Ora rispettivamente i copti e i siriaci (come pure i berberi) appartenevano ad etnie periferiche rispetto ai greci che predominavano culturalmente e ai romani che avevano l’egemonia del potere. Ci sono molti indizi che danno a vedere che le profonde divisioni religiose furono segno anche delle resistenze che certe etnie, certe aree linguistiche ed umane fecero valere a fronte di chi dominava ed imponeva le proprie regole o tentava di farlo. Nel caso dei copti e dei siriaci l’obiettivo da contrastare era rappresentato in genere dal mondo ellenistico, che aveva il proprio centro maggiore in Costantinopoli e nei palazzi della corte imperiale. Inoltre le grandi sedi patriarcali entravano tra loro in contrasto in quanto esprimevano universi differenti, volendo spesso ciascuna prevalere sulle altre. Tuttavia non ci si può esimere dal notare la “passione” teologi-

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ca con cui furono discussi gli aspetti dottrinali, che indica un radicamento nella religiosità e una conoscenza delle dottrine cristiane fatta propria non solo dai vescovi, dai preti o dai monaci, ma – per quante notizie abbiamo – anche dal popolo minuto. BIBLIOGRAFIA AA.VV., La Persia e il mondo romano, Atti, Roma 1966. G.P. Badger, The Nestorians and their Rituals, 2 voll., London 1852. G. Beltrami, La Chiesa caldea nel secolo dell’Unione, Roma 1933. A. Bugnini, La Chiesa in Iran, Roma 1981. M.-L. Chaumont, Le Christianisme de l’empire iranien des origines aux grandes persécutions du IVe siècle, Louvain 1988. F. Decret, Les consequences sur le christiansime en Perse de l’affrontement des empire romain et sassanide de Shâpûr Ier à Yazdgard Ier, «Recherches Augustiniennes», 14 (1979) 91-152. J. Dauvillier, Les provinces chaldéennes de l’extérieur, Toulouse 1948. J.-M. Fiey, Assyrie chrétienne, Beyrouth, 3 voll., 1965-1969. Id., Jalons pour une histoire de l’Église en Iraq, Louvain 1970. Id., Communautés syriaques en Iran et Irak des origines à 1552, London 1979. Id., L’expansion de l’Église de Perse, «Istina», 40 (1995) 149-157. S. Gero, Barsauma of Nisibis and persian Christianity in the Fifth Century, Louvain 1981. A. de Halleux, Vingt ans d’étude critique des Églises Syriaques, in The Christian East: Its Institutions and its Thought. A Critical Reflexions, ed. by R.F. Taft, OCA 251, Roma 1996, pp. 145-179. J. Labourt, Le christianisme dans l’Empire perse sous la dynastie sassanide (224-632), Paris 1904. K.S. Latourette, A History of Christian Missions in China, New York 1929. K. Lübeck, Die altpersische Missionskirche, Aix-la-Chapelle 1919. A.J. Maclean - W.H. Browne, The Catholicos of the East and his people, London 1892. H. de Mauroy, Chrétiens en Iran, «Proche-Orient Chrétien», 24 (1974) 139-162; 296-313; 25 (1975) 174-191; 26 (1976) 66-85. Id., Les assyro-chaldéens dans l’Iran d’aujourd’hui, Paris 1978. U. Monneret de Villard, Le Chiese della Mesopotamia, Roma 1940.

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CAPITOLO XI

LE CHIESE DELL’INDIA

I CRISTIANI DI SAN TOMMASO Cristiani di san Tommaso si denominavano e si denominano coloro che hanno dimorato e tuttora dimorano nell’India meridionale, che asseriscono essere state le loro comunità fondate dall’apostolo Tommaso, ed aggiungono che questi sarebbe morto martire in quella terra e che le sue spoglie sarebbero state sepolte a Mylapore, vicino a Madras, per essere poi traslate più tardi in Siria, ad Edessa. Fino al XVII secolo tali comunità sono state unite nella fede e nel rito (nella liturgia usavano e usano la lingua siriaca). In tempi successivi sorsero divisioni. Ma di questo si dirà più oltre. La maggior parte degli studiosi occidentali non credono che l’apostolo Tommaso si sia recato in India, portandovi il messaggio di Cristo. Di parere contrario sono molti studiosi indiani. Ma vediamo in breve quali sono gli elementi a favore dell’una e dell’altra tesi, prima di venire a tratteggiare la storia di quella Chiesa. Già prima di Cristo è probabile vi sia stata la presenza di colonie giudaiche in India: più difficile stabilire il tempo del loro arrivo e i luoghi della loro dimora. Alla metà del I secolo a.C. esse sono segnalate a Taxila nel nord-ovest, allorché quella città diviene centro di un nuovo regno dei Parti 1. La loro presenza è pure segnalata circa cento anni dopo nella regione del Kerala, in seguito alla distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C. e alla dispersione dei giudei in varie aree 2. Maggiormente individuati sono i contatti che Roma ebbe con l’India. Nell’epoca in cui l’Impero partico frappose una barriera tra ovest ed est, i romani percorsero le vie del mare che dall’Egit-

1 Cf. J.B. Bury - S.A. Cook - F.E. Adcock (edd.), The Cambridge Ancient History, Cambridge 1969, p. 163. 2 Cf. J. Henry, in Encyclopedia of Religion and Ethics, vol. VII, Edinburgh 1955, pp. 557-559.

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to, precisamente dal Mar Rosso, puntavano verso le coste occidentali indiane. Lo attesta Strabone (circa 63 a.C.-21 d.C.) 3 e lo confermano le monete dell’età di Tiberio e il vasellame trovato in India 4. La scoperta poi dei monsoni e in specie del monsone d’estate, vento che soffiava e soffia dall’Oceano verso il subcontinente indiano (scoperta che risale almeno al I secolo d.C., come confermano le osservazioni di Plinio il Vecchio 5), facilitarono i viaggi verso quella parte dell’Asia. Inoltre, permettendolo le condizioni storico-politiche, vi furono pure le vie di terra attraverso cui avvenne il passaggio di merci preziose – dalla seta alle spezie – e di intensi scambi tra l’India e l’Impero romano 6. Ciò per dire che il viaggio di Tommaso verso l’India e l’annuncio che ivi avrebbe dato del messaggio di Cristo, di per sé non sarebbero inverosimili. Ma è chiaro che quella enunciata rimane un’ipotesi se non soccorrano documenti affidabili. Ora, a mia conoscenza, la testimonianza più antica relativa all’apostolo è contenuta negli Atti di Tommaso. È questo un apocrifo redatto nella prima metà del III secolo, forse ad Edessa, in lingua siriaca, per essere poi tradotto in greco (sempre che, come alcuni critici hanno supposto, non sia circolato in forma bilingue fin dal suo apparire) e tramandato in armeno, in latino, in arabo, in copto e in etiopico, a dimostrazione della fortuna che ebbe. Narra l’azione, le sofferenze, gli incontri sostenuti da Tommaso in India, terra assegnatagli nella suddivisione tra le grandi aree missionarie cui gli apostoli sono interessati; prima di andare l’apostolo oppone resistenza al disegno, poi in loco compie molti miracoli, converte il re e molti altri. Lo scritto contiene inni liturgici, fra i quali si segnala il Canto della perla che riflette il mito gnostico del «salvatore salvato». Secondo alcuni studiosi il documento è di chiara impronta gnostica, secondo altri esso è stato redatto in ambiente giudeo-cristiano e in un tempo in cui non si può parlare di una Chiesa cristiana propriamente stabilita 7. Oc3 Cf. Strabone, Gewgrafikav II, 5, 12. 4 Cf. C. Rodewald, Money in the Age of Tiberius, Manchester 1976, pp. 48ss. 5 Cf. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia 6, 23. 6 Cf. H.G. Rawlinson, Intercourse between India and the Western World, Cam-

bridge 1952. 7 Cf. A.F.J. Klijn, The Acts of Thomas. Introduction, text, commentary, Leiden 1962, pp. 29ss. Cf. supra, pp. 193s.

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corre tuttavia aggiungere che il testo manifesta lo schema proprio del romanzo ellenistico, dà largo spazio a descrizioni fantastiche e nell’insieme non sembra potere offrire una base storica sicura. Anche la Didascalia Apostolorum, opera scritta in Siria intorno alla metà del III secolo, della quale rimangono frammenti in greco e la traduzione siriaca, attribuisce a Tommaso il merito di avere fatto conoscere il Vangelo all’India e di avervi fondato e servito la Chiesa quale guida e ministro 8. Ephrem (†373) esprimerà la medesima convinzione nei suoi Inni. Con lui altri scrittori greci e latini asseriscono avere l’apostolo svolto la sua missione in India: così Gregorio di Nazianzo, Ambrogio, Paolino di Nola. Da parte sua Origene fornisce un’analoga – non uguale – notizia di non minore interesse. Invero essa ci è tramandata da Eusebio di Cesarea 9 (ed inoltre da Rufino, da Socrate, da Sozomeno, da Eucherio ed altri). Origene dunque, che sembra il capofila di questa tradizione, asserisce che il campo di evangelizzazione dell’apostolo sarebbe stata la Parthia. Con tale nome probabilmente intendeva la terre comprese tra il fiume Tigri e il fiume Indo, ossia una porzione geografica ampia che, verso Oriente, comprendeva anche il nordovest dell’India. D’altronde ci è noto che, fino alla fine del I secolo d.C., l’Impero partico dominava da Edessa alla parte superiore dell’India, ove appunto si sarebbe esercitato l’apostolato di Tommaso. La prima tradizione di cui si è parlato sembra avere origine in Edessa, la seconda in Alessandria. E altri autori antichi – da Gerolamo a Giovanni Crisostomo a Isidoro di Siviglia – pare che, conoscendole, contaminino le due tradizioni. Sommariamente tali sono le notizie scritte d’età antica circa la prima evangelizzazione delle terre indiane. Notizie che non consentono di avere la certezza che effettivamente Tommaso abbia compiuto l’opera che talune fonti gli attribuiscono. Per altro verso non si può trascurare di mettere in rilievo un al-

8 Cf. W. Cureton, Ancient Syriac Documents relative to the Earliest Establishment of Christianity in Edessa and the Neighbouring Countries from the Year our Lord’s Ascension to the Beginning of the Fourth Century, London 1864. 9 Cf. HE III, 1, 1-3. Secondo altre tradizioni – di origine alessandrina – ben presto scomparse, l’apostolo Bartolomeo avrebbe predicato il Vangelo in India. Più tardi Panteno (fine II sec.) lo avrebbe seguito (cf. Eusebio di Cesarea, HE V, 10, 3; Girolamo, De vir. ill. 36: Girolamo dà per certo ciò che per Eusebio è solo probabile). Cf. C. Dognini - I. Ramelli, Gli Apostoli in India nella Patristica e nella letteratura sanscrita, Milano 2003.

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tro elemento giudicato molto importante dagli studiosi indiani favorevoli nel riconoscere l’apostolo quale maestro e padre spirituale della loro Chiesa: l’elemento della tradizione. Si è detto in precedenza dei ragguagli forniti da Eusebio. Leggiamo le sue parole. Dopo avere descritto lo stato miserando in cui versavano i giudei nel I secolo d.C., essendo oppressi da innumerevoli mali, soggiunge: «Queste le condizioni del popolo giudaico quando gli Apostoli e i discepoli del Signore si trovavano dispersi per tutta la terra. Tommaso, secondo ciò che narra la tradizione, aveva avuto in sorte il paese dei Parti, Andrea quello degli Sciti, Giovanni l’Asia, dove dimorò (…)». Poi, dopo avere detto dei viaggi di Pietro e di Paolo, conclude: «Questo è, alla lettera, ciò che ci riferisce Origene nel terzo libro del suo Commento alla Genesi» 10. In relazione a Tommaso è da sottolineare quell’inciso: «Secondo ciò che narra la tradizione» [= hos he paradosis periechei]. Evidentemente già Origene nello scritto menzionato si appella alla paradosis. Ora la tradizione, anche in riferimento a Giuda Tommaso, ha in India un notevolissimo rilievo, messo unanimemente in luce. Si asserisce da parte dei Cristiani di san Tommaso che da sempre è viva la memoria secondo cui l’apostolo avrebbe fondato ed animato la loro comunità. Essi indicano due motivi che proverebbero una tale asserzione: da una parte la comunità degli stessi Cristiani di san Tommaso con la loro tradizione vivente; dall’altra la tomba dell’apostolo in Mylapore. La tradizione comprende le storie, le leggende, gli usi, le celebrazioni tramite cui la comunità sperimenta ed esprime la credenza partecipata e la consapevolezza che l’apostolo sia stato il suo fondatore. Non vi sono documenti storici incontestabili, prove certe che direttamente la confermino. E più ancora: evidenze di tal genere non sono ritenute inconfutabili per rendere sicura la venuta e l’azione dell’apostolo in India, così come la sua morte e la sua inumazione non lontano dall’attuale Madras. Esse sono considerate evidenze collaterali a sostegno della tradizione, non basilari; infatti il fondamento certo è costituito dalla realtà stessa della tradizione che è stata accolta con amore riverente, è stata creduta e tramandata accuratamente dall’intera comunità 11.

10 11

HE III, 1, 1ss. La traduzione italiana è di G. del Ton, cit., p. 150. Cf. b. Vadakkekara, Origin of India’s St. Thomas Christians, A Historiographical Critique, Dehli 1995, p. 123.

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Quelle menzionate sono idee espresse da uno studioso indiano. Inutile dire che esse pongono in luce un approccio alle questioni storiche e alla valutazione delle prove documentali profondamente diverso dall’approccio dei critici occidentali. Come è stato notato, nessun scrittore cristiano antico d’origine indiana ha mai scritto la storia della sua Chiesa e le notizie che oggi si possiedono relative all’esistenza della cristianità vissuta fianco a fianco con l’induismo e il buddismo in un paese che si estende dal sud del moderno Afghanistan e Baluchistan all’Oceano Indiano provengono quasi esclusivamente da fonti siriache e greche; fonti che non hanno interesse specifico per l’India e che di conseguenza riferiscono informazioni circa l’oggetto che interessa in maniera spesso casuale 12. Ci si trova insomma dinanzi a una concezione secondo cui tradizione e storia non sono tra loro parallele e tanto meno convergenti. Ciò cui si bada ed ha corso è la tradizione che si nutre di poesia e di religiosità, per tralasciare la storia scritta. Non deve quindi sorprendere il fatto che non si abbiano fonti documentarie e che tutto sia stato affidato ad una memoria vivente come quella che si trasmette oralmente da una generazione all’altra o che si esprime tramite libri liturgici e calendari oppure feste, canti, racconti popolari o ancora toponimi o che tiene particolarmente in conto la memoria di famiglie, alle quali sarebbe toccato l’onore di dare alla comunità i sacerdoti e i prelati che l’avrebbero condotta spiritualmente attraverso i tempi. Ha scritto uno studioso giapponese: «In tutti i documenti indiani concernenti il passato, poca considerazione è stata data ai libri di storia (…). Per gli indiani il più piccolo errore nella recitazione dei Veda è stata cosa grave, mentre essi sono stati completamente indifferenti alla registrazione erronea di date o di fatti nei loro libri di storia» 13. Un’altra prova del fondamento della credenza dei Cristiani di san Tommaso consiste nell’indicare e nel venerare la tomba dell’apostolo a Mylapore. Questa città è situata sulla costa orientale indiana ed è lungi dalla costa occidentale del Malabar, ossia dall’attuale Kerala, ove si vuole che l’apostolo sia approdato e abbia svolto il suo apostolo. Per cui non ci si spiega un tale fatto. Inoltre i racconti della sua morte, che attraverso i tempi sono giunti fino a noi furo12 13

Cf. A. Mingana, The Spread of Christianity in India, Manchester 1926, p. 5. H. Nakamura, Ways of Thinking of Eastern Peoples: India, China,Tibet, Japan, Honoluloo 19694, p. 146.

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no forniti successivamente da relazioni di missionari europei presenti in quelle zone. Notizie intorno alla sua tomba derivano ancora e sempre da autori cristiani, questa volta d’età tardo-antica. Giovanni Crisostomo (†407) parla, ma genericamente, della predicazione evangelica che ha toccato gli sciti, gli indiani, i sarmati ed afferma che, se non si conosce il luogo delle spoglie di Aronne o di Daniele o di Geremia, si è ben al corrente del luogo della tomba di Pietro, di Giovanni e di Tommaso 14, senza aggiungere precisazioni. In maniera più circostanziata Gregorio di Tours (†595) scrive che là dove, in una regione dell’India, riposò in un primo tempo l’apostolo (prima che il suo corpo fosse traslato ad Edessa) vi è un grande monastero e una chiesa di grandi dimensioni, accuratamente adornata e imponente 15. Da parte sua Isidoro di Siviglia (†636) racconta che Tommaso avrebbe predicato il Vangelo ai parti, ai medi, ai persiani, agli ircani, ai bactriani ed agli indiani, che abitavano la regione orientale: L’apostolo sarebbe poi stato trafitto da una lancia e sarebbe morto a Calamina, una città dell’India ed essere sepolto con onore 16. Dopo di lui altri scritti danno notizie analoghe, notizie che tuttavia non è il caso di seguire a questo punto. I DATI STORICI PIÙ ANTICHI RELATIVI ALLE CHIESE INDIANE. IL LORO RAPPORTO CON LA PERSIA Sui rapporti tra la Persia e l’India un primo cenno si desume dal Libro delle leggi dei paesi, che è stato attribuito a Bardesane (secondo un’opinione che, nondimeno, è contestata), nel quale si legge che vi sono cristiani parti i quali vivono tra i pagani e tengono per ciò segreta la loro fede (cf. supra, pp. 186 e 190s). Circa un secolo dopo nella Cronaca di Seert, già menzionata, si narra di David (Dudi), vescovo di Bassora (Basra). Ivi si legge che, dopo avere lasciato il suo seggio episcopale, David si recò in India, dove predicò il Vangelo e convertì molte persone; e ciò avvenne al tempo di Sahloupas, metropolita d’Oriente, e di Papas, metropolita

14 15 16

Cf. Giovanni Crisostomo, In epistulam ad Hebraeos, hom. 26, PG 63, col. 179. Cf. Gregorio di Tours, De gloria beatorum martyrum, PL 71, col. 733. Cf. Isidoro di Siviglia, De ortu et obitu Patrum 74, 132, PL 83, col. 152.

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di Occidente 17, a segno che le Chiese indiane avevano ricevuto un aiuto e una conferma da quelle persiane e che l’avvenimento aveva avuto rilievo tanto da meritare di essere registrato in una Cronaca. Poco dopo, tra le firme dei partecipanti al concilio di Nicea (325) si annovera quella di un certo Giovanni il Persiano: egli è là per incarico delle Chiese di tutta la Persia e della Grande India (l’espressione indica probabilmente la parte nord-occidentale del paese) ed è identificato con Mar Giovanni di Arbela 18 Lo attesta Eusebio di Cesarea, lui stesso “padre conciliare” in quell’occasione 19. Un’altra testimonianza dimostra l’esistenza di una comunità cristiana indigena probabilmente sulla costa del Malabar. Si tratta di una notizia relativa a Teofilo l’Indiano che si desume da Filostorgio (nato intorno al 368-morto dopo il 425) (quale si legge nell’epitome di Fozio) 20: di lui si sa che nacque nell’isola di Divus, probabilmente l’odierna Socotra, fu catturato dai romani quale ostaggio, educato a Costantinopoli; e che, convertitosi e fattosi monaco, abbracciò la fede ariana (in seguito fu vicino all’anomeismo di Aezio e per questo ebbe parecchie traversie e fu esiliato dal concilio di Seleucia del 359 a Eraclea Pontica); divenuto prima diacono e poi vescovo, l’imperatore Costanzo II (337-361) lo aveva inviato a diffondere la fede cristiana in Arabia, dove aveva fondato tre comunità a Taphanam, Hormuz e Aden, presso gli etiopi – i quali in quegli stessi anni avevano ricevuto il Vangelo da Frumenzio –. Teofilo era poi tornato nella sua isola nativa, per fare successivamente vela verso l’India. Siamo informati che là giunto, dopo avere riformato molte cose errate compiute da coloro che vi abitavano, aveva approvato la dottrina di quelle Chiese; e, fra l’altro, corretto l’uso che avevano di ascoltare il Vangelo seduti, e non in piedi. Da tutto ciò si deduce che in India, dove si era recato Teofilo, esisteva una comunità – o più comunità – di fedeli, i quali partecipavano a liturgie, presiedute evidentemente da preti, in cui erano letti passi del Vangelo; d’altro la-

17 Cf. S. Neill, A History of Christianity in India. The Beginnings to A.D. 1707, Cambridge 1984, p. 41. 18 Cf. J. Kollaparambil, The Identity of an John of Persia and Great India who attended the First Council of Nicaea, in R. Lavenant (ed.), Syriac Symposium, Rome 1994, pp. 281-297. Gelasio di Cizico (cf. Historia concilii Nicaeni, PG 85, col. 1342) aggiunge che questi fu incaricato dal concilio di comunicare il Simbolo di fede redatto e le costituzioni ivi stabilite alle Chiese dell’India e della Grande Persia. 19 Cf. Eusebio di Cesarea, Vita Constantini 3, 17. 20 Cf. Filostorgio, Historia ecclesiastica III, 4s., PG 65, coll. 481ss.

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to tale o tali comunità erano composte da indigeni che avevamo le proprie usanze, se Teofilo dovette correggerle, riformando in particolare il costume di ascoltare la lettura del Vangelo seduti e non in piedi, come, per rispetto del testo sacro, era prescritto dalle Costituzioni apostoliche 21. A queste, altre fonti si potrebbero aggiungere. Menzionerò solamente le parole di Cosma Indicopleuste, mercante, viaggiatore e scrittore egiziano, forse di Alessandria, che intorno alla metà del VI secolo redige la Topographia christiana, in cui parla, fra l’altro, dell’isola di Taprobane (Sri Lanka) sull’Oceano indiano, per dire che vi è una Chiesa cristiana, con clero e una comunità di fedeli; ed altrettanto sostiene esservi in un paese da lui chiamato Male, dove cresce il pepe, come pure in Kalliaana (luoghi questi ultimi che secondo alcuni sarebbero da identificarsi il primo con il Malabar, il secondo con Kalyan, vicino a Mumbay, oppure con Kaliampur, a nord di Mangalore, o ancora con Calcutta o Mylapore o con Quilon, nel Malabar sulla costa sud-occidentale del subcontinente indiano). In Kalliaana lo scrittore aggiunge che vi è un vescovo ordinato dalla Persia; e che nell’isola di Dioscoris (Socotra) nello stesso Mare Indiano si trovano preti ordinati in Persia 22. Tuttavia non si è certi che Cosma sia giunto fino a queste terre, affermando egli stesso di avere appreso molte notizie da un katholikos nestoriano di nome Mar Aba (540-552), a cui già si è fatto cenno. Da queste notizie si vede come i rapporti tra i Cristiani di san Tommaso e la Persia siano sempre stati stretti. Infatti per molti secoli vescovi provenienti dalla Mesopotamia furono a capo delle cristianità dell’India del sud e godettero sempre di grande rispetto nel Malabar. Essi presiedettero agli uffici spirituali della comunità (certamente, come risulta da alcune fonti, nel V e nel VI secolo la lingua della liturgia era il siriaco, mentre gli affari amministrativi rimanevano nelle mani di un arcidiacono, considerato il vero capo della Chiesa). A loro volta le parrocchie erano condotte da assemblee di fedeli. Tutto era ispirato da quella “Legge di Tommaso” (Thomayude Margam) che non era una codificazione formale, ma piuttosto l’espressione di un impulso atto a dare uno stile alla vita teologica, liturgica, ecclesiastica, ascetica e socio-culturale dei Cristiani di san 21 Cf. II, 57. Vedi A.E. Medlycott, India and the Apostle Thomas. A Inquiry with a Critical Analysis of the Acta Thomae, London 1905, p. 198. 22 Cf. Cosmas Indicopleustes, Topographie chrétienne, SC 141, (1968), p. 503.

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Tommaso; vita che, secondo la felice definizione di Placido Podipara, è «hindu quanto alla cultura, cristiana quanto alla religione e orientale quanto al culto». In altri termini chi vi appartiene sperimenta una vita cristiana pienamente orientale e pienamente indiana, o più esattamente malabarica. Ciò che, se è vero, fa supporre che le Chiese indiane, pure essendo gerarchicamente in comunione con le Chiese siriache orientali, abbiano poi goduto di una certa autonomia, tramite cui preservarono la propria identità. A quanto pare, la costituzione della sede metropolitana dell’India risale al tempo del patriarca persiano Ishoyabb III (650-658) e rappresenta formalmente l’incorporazione dei Cristiani di san Tommaso nella Chiesa siriaca orientale. LA CHIESA INDIANA È CHIESA NESTORIANA? Molto scarse le notizie intorno ad essa per i secoli che dall’VIII vanno fino al XVI. Sembra certo che fino a quest’ultima età la loro Chiesa si sia mantenuta una ed unita. Ci si può chiedere se essa abbia avuto un credo nestoriano, come la Chiesa cui era legata. La risposta non è scontata e non è semplice da dare. Si sono visti in precedenza, trattando della Chiesa siriaca, i motivi per cui il nestorianesimo ebbe spazio e vita soprattutto nell’area orientale; si può ora fornire qualche altro elemento in rapporto alle Chiese dell’India. I vescovi dell’Impero persiano erano assenti al concilio di Efeso (431) che condannò Nestorio e soprattutto, dopo la riconciliazione di Cirillo di Alessandria e di Giovanni di Antiochia, gli avversari di Cirillo influenzarono la comunità cristiana di Seleucia-Ctesifonte; ivi furono diffuse le opere di Teodoro di Mopsuestia – che di Nestorio era stato il maestro – traducendole dal greco in siriaco, come fossero opere stesse di Nestorio. In tal modo verso la fine del V secolo la Chiesa di Persia si dichiarava nestoriana, sarebbe meglio dire teodoriana, e tale si confermava nei secoli successivi (nel VII Babai il Grande fissa termini e formule che i “maestri”, compreso Diodoro di Tarso, avevano usato per illustrare il mistero dell’Incarnazione). Dati i rapporti di questa Chiesa con quella indiana ci si attenderebbe che anche quest’ultima fosse nestoriana. Ma quest’ultima per l’autonomia che aveva, anche per essere stata fondata, secondo una ferma e comune convinzione, dall’apostolo Tommaso, si era costituita ed organizzata in modo diverso ri-

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spetto alla prima. Per quanto riguarda la fede certamente le erano familiari libri liturgici e teologici che contenevano formule nestoriane e teodoriane accanto ad altre che rientravano nell’alveo della Grande Chiesa. Ed è difficile dire quale comprensione e interpretazione fosse loro data; giacché i Cristiani di san Tommaso non si erano trovati implicati nei dibattiti e negli scontri originati da quelle controversie e non avevano quindi respirato lo spirito settario che le aveva accompagnate. È difficile dunque dare una risposta certa alla domanda circa il loro “nestorianesimo”. Come è stato osservato: «Alcune circostanze ed avvenimenti sembrano poter suggerire una risposta negativa. (Essi) avevano una fede antica che era ben lontana e scarsamente influenzata dalle controversie teologiche e dai settarismi dei luoghi dove avevano avuto origine i libri che poi furono introdotti tra di loro; non c’erano tra loro esperti in teologia (…): i libri erano scritti in siriaco (orientale) e non vennero mai tradotti nella lingua usata sul luogo. I Cristiani di san Tommaso amavano naturalmente il siriaco, ma nel complesso non erano versati in esso» 23. Viaggiatori, mercanti, missionari inviati da Roma diedero notizie sulle comunità cristiane dell’India e affermarono che erano scismatiche o eretiche e spesso le definirono nestoriane. Non sempre le loro parole sono degne di fede; talvolta sono incerte, si dimostrano inattendibili e non di rado rivelano un pregiudizio secondo cui ciò che non era “latino” non era ortodosso. È indubbio in ogni modo che, per i rapporti tradizionali con la Chiesa assira, si rintracciano presso di loro espressioni e formule di segno nestoriano. DAL XVI SECOLO AI GIORNI NOSTRI Come si diceva, le comunità delle quali si è parlato rimangono unite tra loro e in comunione con la Chiesa assira fino alla conquista portoghese del XVI secolo. Poi si assiste alla fine di una storia millenaria. Nel 1498 Vasco da Gama, inviato da re del Portogallo 23 Cf. P.J. Podipara, I cristiani di san Tommaso, tr. it., «Studi e Ricerche sull’Oriente Cristiano», 3 (1980) fasc. 3, p. 209. L’edizione originale in lingua inglese risale al 1970 (The Thomas christinas, London-Bombay). Tutta la trattazione di Podipara, cui rimandiamo, è utile per approfondire le linee di una storia assai complessa e ricca di particolari spesso difficili da valutare, storia della quale da parte mia ho colto solo qualche tratto sommario.

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Emanuele I, era approdato sulle coste del Malabar, dopo avere compiuto con quattro navi il periplo dell’Africa ed aver navigato l’Oceano indiano. Due anni dopo una flotta di tredici navi al comando di Pedro Alvares Cabral partito ancora dal Portogallo, raggiunto e scoperto il Brasile, aveva proseguito per l’India e dopo avere acquistato grande quantità di prodotti orientali era tornato in patria. Da quel momento l’espansione e la colonizzazione portoghese in Asia continuò intensa per giungere fino al Giappone e alla Cina, dove a Pechino furono inviati nel 1520 ambasciatori. In India, al seguito dei comandanti inviati dal re del Portogallo arrivarono anche dei sacerdoti secolari e religiosi (francescani) che evidentemente erano ben radicati nella fede cattolica, identificata con il rito latino. Questi si trovarono di fronte a riti liturgici (in lingua siriaca), a usi canonici (il matrimonio dei preti) ed a costumi molto diversi dai loro; appresero inoltre che gli indiani cristiani mantenevano rapporti con il patriarcato di Seleucia. In un primo tempo cercarono di imporre i loro modi, per accorgersi poi che, riconoscendo le diversità quanto alle abitudini, si trovava un accordo perfetto circa la fede. Per altro i preti secolari e i religiosi – ai francescani si aggiunsero poi i domenicani ed i gesuiti – cominciarono un’opera di evangelizzazione presso i non cristiani con buon successo. Nel 1534 fu creata la diocesi di Goa (divenuta poi archidiocesi), la cui giurisdizione si estendeva dal Capo di Buona Speranza, in Africa, fino alla Cina, nell’Estremo Oriente; il re del Portogallo ne aveva il Patronato con gli obblighi e i privilegi che ne erano connessi. Nel 1558 Cochin divenne diocesi suffraganea di Goa. Per parecchio tempo i rapporti tra i cristiani del luogo e i portoghesi furono amichevoli. Ma la situazione era destinata a deteriorarsi. Due furono le questioni che in special modo portarono alla fine del XVI a una lacerazione della Chiesa indiana: la prima riguardava i sospetti sempre risorgenti sulla loro ortodossia o sulla loro eterodossia, in quanto legati al patriarcato di Seleucia, che aveva abbracciato le dottrine teodoriane e nestoriane. La seconda, più grave, concerneva l’autonomia della Chiesa indiana dinanzi alle pretese della giurisdizione ecclesiastica portoghese, di cui ora si diceva. Protagonisti furono da una parte i Cristiani di san Tommaso e i loro patriarchi, che in un certo periodo continuarono a essere consacrati dalla Persia, dall’altra le autorità civili ed ecclesiastiche portoghesi saldamente stabilite in India e dall’altra ancora i re del Portogallo e i papi di Roma. Non è il ca-

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so di seguire vicende assai complicate; basti dire che esse condussero a contrasti sempre più profondi. Gli ecclesiastici portoghesi ricorsero pure all’arma della scomunica, per minacciare, per convincere con la violenza, per forzare la volontà prima di tutto dei responsabili della Chiesa indigena. Si giunse così al sinodo di Diamper (Udayam-perur) del 1599, cui parteciparono 150 sacerdoti e 660 delegati laici della Chiesa di san Tommaso. Scopo dell’assise era quello di introdurre la latinizzazione in quella Chiesa dell’India, inglobarla nella diocesi di Goa, impedire ogni contatto con i caldei, imporre la giurisdizione del Padroado portoghese. Durante il sinodo furono compiute irregolarità formali e sostanziali, favorite in primo luogo dall’arcivescovo di Goa, Dom Alessio Menezes, fino al punto che i Cristiani di san Tommaso furono costretti a condannare il loro patriarca (che era in comunione con Roma) come eretico e scismatico e a giurare che non avrebbero accettato alcun vescovo tranne quello che Roma avrebbe immediatamente nominato; inoltre il sinodo decise, tra le altre cose, la latinizzazione del rito 24. Si levò qualche voce contraria che, attraverso alcuni gesuiti presenti al sinodo, fu trasmessa anche al generale dei gesuiti e al suo assistente in Portogallo; ma essa non ebbe conseguenza alcuna, anche se non risulta che la Santa Sede abbia mai approvato tale sinodo. In tal modo i Cristiani di san Tommaso furono sottratti alla giurisdizione del loro patriarca e «portati all’obbedienza di Roma», secondo l’espressione preferita dai portoghesi. Gli indigeni non ebbero modo di fare ascoltare la loro voce a Roma; mentre le autorità civili ed ecclesiastiche portoghesi ottennero ciò che avevano desiderato: la piena latinizzazione dei riti liturgici 25, che tuttavia continuarono ad essere celebrati nella lingua siriaca orientale. Il XVII secolo fu segnato da una serie di contrasti tra i francescani venuti dall’Europa e i Cristiani di san Tommaso, i quali furono espropriati di chiese a loro appartenenti ed anche del titolo di cui si fregiavano i loro prelati: «di tutta l’India». Continuarono intanto le dispute tra i vescovi (o arcivescovi) gesuiti portoghesi e l’ar-

24 Cf. per una prima rapida informazione e per la bibliografia il Dizionario Enciclopedico dell’Oriente cristiano, a cura di E.G. Farrugia SJ, Roma 2000, s.v. Diamper, p. 276. 25 Le vicende che portarono al sinodo di Diamper, le decisioni tutte a sfavore della Chiesa locale e gli avvenimenti che seguirono sono considerati analiticamente nel volume citato di P.J. Podipara, I cristiani di SanTommaso, pp. 223ss.

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cidiacono indiano. Uno di questi ultimi fu scomunicato, per essere poi reintegrato nel suo ufficio qualche anno dopo. Per vicende singolari e complicate si giunse a tal punto di tensione che la maggior parte delle persone del luogo, con a capo l’arcidiacono, nel gennaio del 1653 fecero un giuramento per impegnarsi a non esser più sottoposti all’autorità dei gesuiti, ritenuti nemici loro e della Chiesa di Roma, pronti tuttavia a obbedire ad ecclesiastici di altri ordini religiosi inviati dal Sommo Pontefice; il quale, conosciuta la situazione, mandò «sotto la congregazione di Propaganda», due gruppi di carmelitani che in parte almeno rasserenarono il clima. Nel 1662 giunsero in India gli olandesi e costrinsero i portoghesi ad andarsene. Altri carmelitani ottennero di entrare nel Malabar. Nel frattempo era avvenuto un fatto nuovo, inaspettato. Uno degli arcidiaconi – che si faceva chiamare Mar Tommaso I – aspirava ad essere consacrato arcivescovo. Dopo avere percorso altre vie, chiamò un vescovo giacobita straniero, Mar Gregorio, per ricevere da lui una valida consacrazione (che non sembra abbia avuto). Mar Gregorio tuttavia, trovatosi in India, diffuse il suo credo giacobita, riuscendo ad attirare un certo numero di cristiani che rinnegarono il loro legame con Roma e provocarono uno scisma. I Cristiani di san Tommaso si divisero così tra cattolici e giacobiti. A rendere ancora più precario e difficile lo stato di quelle comunità locali era il loro essere sotto la giurisdizione del Patroado portoghese 26 o sotto quella della congregazione de Propaganda Fide. Sotto il regime del Patroado esse godettero di relativa tranquillità; non altrettanto avvenne sotto quello di Propaganda, ossia sotto i vicari apostolici carmelitani. Durante una parte del XVIII secolo vi furono disordini, contrasti, richieste prive di risposta, punizioni ecclesiastiche. Intanto nel 1773 la Compagnia di Gesù era stata soppressa. In un’Istruzione della Congregazione di Propaganda si accoglievano come legittime le lamentele dei Cristiani di san Tommaso e si ammonivano i carmelitani nelle persone del Vicario e dei missionari perché si astenessero dalle crudeltà che avevano commesso e si comportassero da “padri” e non da “dominatori”.

26 Con il termine portoghese «padroado» si intende quell’insieme di diritti, privilegi ed obblighi concessi e imposti dalla Santa Sede alle Corone di Spagna e Portogallo allo scopo di consentire lo sviluppo delle attività missionarie nelle nuove terre scoperte. I papi imponevano l’obbligo, al quale i re cattolici si impegnavano, di inviare missionari in quelle terre perché evangelizzassero gli indigeni.

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Nel 1838 fu soppressa la giurisdizione del Patronato (per essere poi ripristinata intorno alla metà del XIX secolo) da papa Gregorio XVI, il quale pose sia i cristiani indigeni che i latini sotto la giurisdizione di Propaganda Fide. Intanto, sollecitati dai Cristiani di san Tommaso, i patriarchi caldei avevano avanzato pretese sul Malabar. La Chiesa caldea riuniva quei fedeli che lungo i secoli si erano staccati dal nestorianesimo ed erano entrati nella Chiesa cattolica. Le comunità dell’India chiedevano la presenza tra loro di un vescovo siro-orientale cattolico. Nel 1861 un vescovo caldeo di nome Rokos, nel Malabar cominciò a visitare chiese e conferire ordinazioni, affermando che esercitava la propria giurisdizione con l’approvazione della Santa Sede; il che non corrispondeva al vero. Donde sorsero attriti che si quietarono quando Rokos nel 1862 fu convinto a lasciare il paese. Qualche anno dopo vi fu un nuovo tentativo di portare il Malabar sotto la giurisdizione patriarcale caldea. Inviato dal patriarca cattolico Giuseppe IV Audo, giunse nell’area malabarica Elia Mellus che da Trichur riuscì ad avere la giurisdizione su un certo numero di parrocchie, tra le quali due di rito latino. Scomunicato da Roma, dopo un soggiorno di 8 anni, fu costretto a ritornare di dove era venuto. Nondimeno questi affidò i suoi seguaci a un certo Mar Abdiso (Thondanatt) e ad un corepiscopo caldeo, di nome Agostino; ma a sua volta il gruppo dei dissidenti mellusiti si divise tra cattolici e nestoriani (che condividevano idee protestanti). Con ciò siamo ormai nel XX secolo. In precedenza nel 1866 era stata costituita la gerarchia latina indiana sotto Propaganda Fide. Nel 1887 però la medesima Congregazione aveva creato due vicariati apostolici a Trichur e a Kottayam per i Cristiani di san Tommaso, che in tal modo non furono più dipendenti dalla guida carmelitana latina: si rese così effettiva una chiara distinzione tra fedeli di rito orientale e quelli di rito latino che dimoravano sullo stesso territorio e fu abolito il nono canone del IV concilio Lateranense che vietava vi fossero in un determinato territorio due responsabili indipendenti, anche se a capo di fedeli di riti diversi. Nel 1896 la Santa Sede diede origine a tre vicariati apostolici sotto Propaganda Fide (Trichur, Ernakulam e Changanachery) diretti da tre indigeni del rito dei siro-malabaresi, come da allora cominciarono ad essere chiamati i Cristiani di san Tommaso. Nel 1911 nacque un nuovo vicariato a Kottayam per i fedeli del sud del paese che desideravano avere preti scelti dal loro popolo: e li ebbero. Finalmente nel 1923 la Santa Sede con una Costituzione apostolica eresse la gerarchia dei Cristiani di san Tom-

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maso o siro-malabaresi con la sede metroprolitana a Ernakulam e sedi suffraganee a Kottayam, Trichur e Changanachery. Da allora e fino a oggi sono state create altre numerose diocesi in India e hanno avuto sviluppo molti istituti religiosi per uomini e donne così come parecchi seminari per la formazione del clero. Intanto nel 1917 Benedetto XV aveva istituito quella che oggi si denomina la Congregazione per le Chiese Orientali ed i Cristiani di san Tommaso erano passati sotto la sua giurisdizione. I SIRO-MALANKARESI Occorre infine dar notizia di un recente, nuovo “segmento” delle chiese indiane. I Cristiani di san Tommaso cattolici avevano da tempo messo in opera il proprio impegno per fare ritornare nell’ambito della Chiesa cattolica i fratelli separati; i quali a loro volta avevano mostrato non minor sensibilità. Nelle prime decadi del sec. XX un certo Giorgio Panikkaruveettil, capo di una parte non cattolica dei Cristiani di san Tommaso, si era opposto al patriarcato giacobita straniero che da molto tempo era presente nel Malabar; nel 1925 era stato consacrato arcivescovo di Bethany, con il nome di Mar Ivanios, insieme a un confratello, Mar Theophilos, suo suffraganeo. Dopo essersi messo in corrispondenza con Roma per giungere all’unione, nel 1930 era stato accolto nella Chiesa cattolica; nel 1932 fu istituita una gerarchia regolare con Trivandrum quale sede metropolitana, gerarchia chiamata siro-malankarese dal nome con cui pure è conosciuto il Malabar, Malankara. Essa segue quel rito siro-occidentale che era stato importato nel Malabar dai giacobiti fin dal XVII secolo. I CRISTIANI DI SAN TOMMASO NON CATTOLICI Si è parlato in precedenza dei giacobiti e di Mar Gregorio che, nel 1665 chiamato in Malabar dall’arcidiacono Tommaso – che poi si fece chiamare Mar Tommaso I –, aveva introdotto le dottrine giacobite. Da allora si rinnovò la gerarchia che aveva avuto origine da Mar Gregorio; il vescovato per molti anni fu trasmesso tra persone imparentate le une con le altre. Fra il XVIII e il XIX secolo vi furono tentativi per riunire quel-

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la Chiesa alla Chiesa cattolica, che però non furono duraturi. Con Mar Dionisio III, dopo il 1818, i missionari anglicani venuti dalla Gran Bretagna assunsero notevole importanza e molto influirono sulla Chiesa giacobita. Da parecchi decenni si esercitava sull’India la potenza politico-territoriale inglese. Per sfuggire alle pressioni degli anglicani, uno dei prelati, Mar Dionisio IV, chiese al patriarca giacobita della Persia di inviare qualche collaboratore per aiutarlo nella sua opposizione (successivamente, per il medesimo motivo, riconobbe la giurisdizione del patriarca sulla Chiesa nel Malabar). Ma le attese andarono assolutamente deluse. Chi giunse, di nome Mar Atanasio, si propose di diventare lui l’unico capo dei giacobiti e fu bandito dal paese. Nel 1836 anglicani giacobiti si accordarono per separarsi e dividere le proprietà che avevano in comune: fu in quell’occasione che alcune migliaia di giacobiti si fecero anglicani. Tuttavia le dispute perdurarono e altre ne nacquero all’interno dei giacobiti stessi, tanto che, dopo il 1875, si costituì un partito indipendente che assunse il nome di Chiesa siro-marthonita o giacobita riformata; essa era “protestante” quanto alla dottrina, pur conservando negli elementi esteriori il carattere orientale. Altre divisioni si verificarono dopo il 1910, dovute ai contrasti tra i vescovi locali e il patriarca della Persia, finché nel 1959 la corte Suprema dell’India emise un parere del tutto favorevole alle ragioni dei vescovi locali ed alla Chiesa da loro presieduta, che ora si denomina “siro-ortodossa”. L’attuale patriarca giacobita è Ignazio Zakka Iwas I. Un’altra Chiesa si chiama Chiesa sira indipendente del Malabar o anjooriana; questa aveva avuto origine nel 1772 ad Anjoor. Si devono pure menzionare quei giacobiti divenuti – come si è accennato – anglicani verso la metà del XIX secolo; i mellusiti, dei quali si è detto; gli appartenenti alla Chiesa evangelica di San Tommaso dell’India (nata nel 1961 a seguito di uno scisma provocato da pochi preti marthoniti in contrasto con la loro Chiesa); e infine i fedeli della Chiesa del Sud e quelli della Chiesa dell’Est dell’India, formano altrettante comunità non unite alla Sede romana. LA SORTE DEI CRISTIANI DI SAN TOMMASO Concludendo la disamina delle fonti si è già notato come non si abbia alcun documento storico in grado di provare che l’apostolo Tommaso abbia evangelizzato l’India. Bisogna attendere fino al III-

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IV secolo per vedere nascere una messe di notizie relative alla missione dell’apostolo in quelle terre. Mentre stando alla tradizione orale dell’India cristiana una catena ininterrotta di testimonianze assicurerebbe della sua presenza fin dal 50 d.C. Ma oltre alla questione ora riaperta, l’avere seguito una linea storica che giunge fino all’oggi induce a fare due serie di considerazioni conclusive del presente capitolo. La prima: per quanto si sa, i Cristiani di san Tommaso, quale che sia l’apostolo (un diverso filone tradizionale lo indica in Bartolomeo) o l’evangelizzatore giunto per primo nel subcontinente indiano, certamente per più di un millennio hanno vissuto nella loro terra senza conoscere divisioni, le quali sono invece cominciate e continuate dopo l’arrivo prima dei portoghesi, poi degli olandesi e infine degli inglesi. E con loro dei missionari europei rappresentanti dei grandi ordini religiosi, in special modo dei francescani, dei carmelitani e dei gesuiti. Per comprendere i motivi delle profonde divisioni che dal XVI secolo lacerano e tormentano quelle Chiese è necessario tenere conto di molti elementi, tra i quali: le difficoltà di comunicazioni, le scarse notizie che di quelle comunità si avevano in Europa e la convinzione che fossero cadute nell’eresia e nello scisma; la mentalità colonizzatrice che faceva ritenere superiore la civiltà europea rispetto a tutte le altre e pertanto anche alla civiltà indiana; il disprezzo delle tradizioni locali, pure di quelle cristiane; di dove scaturiva, per esempio, l’idea che non potessero essere consacrati vescovi orientali là dove si fossero stabiliti vescovi latini, o l’idea che si dovessero uniformare i riti locali a quello latino, imponendo prima di tutto la lingua oppure traducendo in siriaco orientale il rituale romano, eliminando in ogni modo usi, costumi, abitudini, tradizioni secolari; o ancora l’idea che quelle comunità non dovessero avere propri sacerdoti e vescovi e dovessero invece sottoporsi alla giurisdizione del clero europeo. D’altra parte la latinizzazione segna non solo la liturgia, ma anche il pensiero teologico e l’amministrazione canonica. Tutto ciò, unitamente agli interventi delle autorità civili ed ecclesiastiche colonizzatrici – si pensi all’istituto del Patronato portoghese –, ai contrasti tra ordini religiosi, alle ambizioni di singoli prelati, sconvolse dal profondo gli equilibri della Chiesa indiana e condusse alla sua frantumazione; ciò avvenne certamente anche a motivo di cause endogene, che nondimeno non paiono prevalenti, le quali più facilmente si fecero presenti in quanto indotte da cause esterne, che irruppero con violenza in una cristianità che, non si

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può dimenticare, era vissuta e viveva entro un tessuto religioso estraneo, animato prevalentemente dall’induismo e dal buddismo. Ma non pochi passi sono stati compiuti per il ritorno all’unità delle Chiese. Nel 1984 è stata firmata da Mar Ignazio Zakka Iwas I, patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente, capo supremo della Chiesa siro-ortodossa universale (che annovera oltre un milione di fedeli in India), e Giovanni Paolo II una dichiarazione comune nella quale si riconosce che i malintesi e gli scismi che fecero seguito al concilio di Calcedonia (…) non toccano il contenuto della fede, dato che le difficoltà sorsero unicamente a causa delle divergenze terminologiche, delle differenze culturali, delle diverse formulazioni, sostenute dalle differenti scuole teologiche per esprimere la medesima realtà 27. LA SITUAZIONE ODIERNA DEL CRISTIANESIMO La seconda serie di considerazioni riguarda piuttosto il problema dell’evangelizzazione. I Cristiani di san Tommaso fin dal tempo antico hanno condiviso la cultura e la vita sociale con gli indiani, essendo loro stessi indiani, mentre hanno seguito una spiritualità e una teologia cristiane, influenzate dal nestorianesimo, e si sono rapportati a Dio tramite una liturgia che ha mantenuto una chiara impronta siriaca. Con l’arrivo dei portoghesi cattolici d’Occidente e poi di europei appartenenti ad altre confessioni cristiane la situazione è mutata, perché i nuovi venuti all’interno della Chiesa esistente hanno mirato a imporre i loro usi e i loro modi di pensare e di agire del tutto estranei al tessuto culturale ed umano dell’India. Un intento che non è stato assecondato, ma che anzi ha provocato un’opposta reazione che, sviluppatasi nel XIX e nel XX secolo, si è concretata nel movimento neo-induista, presente soprattutto nel Bengala. Sentendosi in certo modo minacciati dalla presenza cristiana, percepita come straniera, con uno lavoro di elaborazione gli appartenenti al Movimento di cui si è detto hanno formulato una fede indù, come mai era stata

27 Cf. Enchiridion Vaticanum, IX, Bologna 1987, pp. 838-847 (841). Si veda pure la precedente dichiarazione comune (1971) tra il patriarca Mar Jacoub III (capo della Chiesa siro-ortodossa) e il papa Paolo VI.

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formulata, per rispondere all’atteggiamento cristiano di chiusura verso ciò che non era cristiano. Oggi un tale atteggiamento si esprime (bisogna dire in cerchie ristrette della popolazione) anche in manifestazioni fondamentaliste, che non escludono la violenza. Negli ultimi decenni il cristianesimo – per la Chiesa cattolica il movimento si è intensificato a partire dal Giovanni XXIII e dal concilio Vaticano II – ha cercato e sta cercando vie nuove per presentare la fede con apertura verso le altre religioni e con un impegno rinnovato nelle fomulazioni teologiche e negli atteggiamenti pratici. Pur tenendo conto dell’estensione immensa e del numero grande di abitanti del subcontinente indiano, la presenza cristiana sul territorio non è scarsa, per numero di diocesi, di congregazioni maschili e femminili, colleges universitari, scuole superiori e inferiori: vi sono oggi, per fare un esempio nell’ambito della Chiesa cattolica, 62 seminari fra maggiori e minori con 7000 studenti e circa 5 milioni di studenti frequentano istituti scolastici. Tuttavia la percentuale dei cristiani in India si aggira sul 2%, come del resto nella maggior parte dei paesi asiatici. Un primo fattore esteriore ha accelerato un processo salutare: con l’indipendenza del paese, il governo indiano ha reso più difficile l’entrata di missionari stranieri e con ciò le Chiese cristiane si sono progressivamente “indianizzate” fino a diventare quasi totalmente indigene a cominciare dal 1980, coinvolgendo non solo il clero diocesano ma anche le congregazioni e la dirigenza delle scuole e degli atenei. Spesso studenti e futuri studiosi indiani cattolici si formano presso le grandi Università pontificie soprattutto a Roma, ma nella loro ricerca si interrogano su come vivere e comunicare una fede che, appresa secondo categorie del pensiero occidentale, vogliono rendere comprensibile e familiare alla mentalità, alla lingua, alla cultura delle loro terre, con un processo quindi di inculturazione che si rivela profondamente diverso rispetto a quello messo in atto nei secoli passati, dai missionari. La strada è stata aperta fin da un passato lontano da figure come quella di Roberto De Nobili o in un passato più recente da quelle dell’Abbé Monchanin, Dom Le Saux, Bede Griffith, o della suora Vandana Mataji o del gesuita del Tamil Nadu Amalorpavadas, figli questi ultimi della stessa India. Passato ormai il tempo in cui la fede cristiana appariva come un credo di importazione legato al movimento colonizzatore delle po-

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tenze occidentali, rimangono sul tappeto altre questioni: la questione del come debba essere inteso l’esclusivismo della salvezza cristiana, che sembra inconciliabile con la natura delle religioni orientali che tendono a rifiutarlo in nome della tolleranza; l’unicità di Cristo che sembra impedire l’esistenza di altre unicità per altre porzioni dell’umanità; o la dimensione della carità, che “necessariamente” diventa reciproca e quindi implica una prospettiva comunitaria, che non è considerata come elemento portante e irrinunciabile dall’induismo. Tutto ciò perché il dialogo diventi proficuo e porti frutto scambievole. Del resto sono queste (e altre) problematiche complesse che interessano il mondo religioso asiatico in generale. Se qui le ho evocate il motivo risiede nel fatto che precisamente in India esistono fin dai primissimi secoli della nostra èra comunità cristiane genuinamente indiane, che fino ad oggi sono rimaste fedeli all’annuncio primitivo ricevuto. Il messaggio evangelico dunque ha avuto incidenza presso di esse: ci si può chiedere legittimamente servendosi di quale forma, di quale linguaggio, di quali simboli. E il punto essenziale non sta nel fatto che dopo quasi 2000 anni i cristiani dell’India siano solamente il 2% dell’intera popolazione, ma nel fatto che dopo tanto tempo non si sia instaurato tra quelle comunità e i fedeli di altre religioni un dialogo capace di porre in luce il contributo per l’umanità recato da ogni movimento religioso. Ma dire così significa non considerare, proprio in una dimensione storica, il lento cammino che l’uomo sta compiendo, non senza contraccolpi e gravi regressi, verso traguardi di maggiore pienezza e maturità. Scriveva nel 1976 Dom Le Saux 28 o Abhishiktananda, come si fece chiamare dopo la sua venuta in India: «È arrivato il momento per la Chiesa, direi piuttosto per tutte le Chiese insieme, di entrare in contatto ufficiale con queste religioni (…) in modo che in spirito di umiltà e di carità possano giungere a riconoscere la coscienza che i loro vicini hanno della coscienza di Dio». E Bede Griffith, benedettino inglese che ha partecipato in India all’analoga esperienza compiuta da Dom Le Saux, sottolinea che il vero incontro può avvenire sul terreno dell’anima, al di là delle immagini e dei concetti, nell’unione con Dio. Certamente il filone contemplativo ha aperto vie maestre. Ultimamente, attraverso cammini diversi, paiono aprir-

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Hindu-cristiano Meeting Point within the Cave of the Heart, Dehli 1976.

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si altre prospettive nuove e di grande interesse: penso al Simposio fra indù e cristiani, organizzato dal Centro per il Dialogo Interreligioso del Movimento dei Focolari e dalla Dott.ssa indiana Kala Acharya del Somaya Sanskreeti Peetham ed avvenuto in Italia nel giugno del 2002, sul tema: «Il Bhakti, via dell’amore verso Dio ed i fratelli», ossia la “devozione” nella tradizione indù e nell’esperienza cristiana della spiritualità di comunione. Un simposio (a cui altri si prevede possano seguire) che sembra aprire vie insperate di dialogo e di incontro profondo. BIBLIOGRAFIA J. Athikalam, St.Thomas the Apostle in Patristic Tradition, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 1999 (Extractum ex dissertatione). L. Brown, The Indian Christians of St. Thomas. An Account of the ancient Syrian Church of Malabar, Cambridge 1982. C. Cheriyan, A History of Christianity in Kerala from the Mission of St. Thomas to the Arrival of Vasco de Gama, A.D. 52-1498, Kottayam. R. Collins, Missionary Enterprise in the East with special Reference to the Syrian Christians of Malabar and the Results of Modern Missions, London 1873. A. D’Cruz, St. Thomas the Apostle in India. An Investigation based on the latest Researches in Connection with the time-honoured Tradition regarding St. Thomas in Southern India, Madras 1929. H. D’Souza, In the Footsteps of St. Thomas, Madras 1952. J. Dahlmann, Die Thomas-Legende und die ältesten historischen Beziehungen des Christentums, Freiburg 1912. D. Daniel, The Orthodox Church of India, New Dehli 1972. Id., The South Indian Apostolate of St. Thomas, Serampore 1950. A. Dihle, Neues zur Thomas-Tradition, in «Jahrbuch für Antike und Christentum» 6 (1963), pp. 54-70. L. Edevalikal, The Syrian Christians of Malabar, otherwise called the Christians of St. Thomas, London 1869. B.A. Figredo, Voices from the Dust: Archeological Finds in San Thomé and Mylapore, Madras 1934. N. Figueiredo (a cura di), St. Thomas the Apostle of Mylapore. Three Documents: I. His Tomb; II. His Relics; III. Stone Cross, Madras 1934.

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CAPITOLO XII

LA CHIESA ARMENA

CENNI SUL PAESE E LA SUA STORIA NELL’ERA PRECRISTIANA L’Armenia, che morfologicamente è uno dei grandi altipiani che si susseguono dall’Egeo all’Asia centrale, è terra di antica civiltà situata oggi fra la Georgia a nord, la Turchia a ovest, l’Iran a sud e l’Azerbaigian a est; la più piccola delle Republiche ex-sovietiche fa parte presentemente della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Nei primi secoli cristiani la circondavano a nord l’Iberia (Georgia), a ovest il Ponto e la Cappadocia, al sud la Mesopotamia, l’Assiria e le altre terre appartenenti all’Impero dei persiani o dei sasanidi fino alle rive del Mar Caspio. Era divisa in Armenia Maior – l’Armenia propriamente detta, a oriente del corso superiore dell’Eufrate fino alle regioni caucasiche – e l’Armenia minor, che si estendeva ad occidente dell’Eufrate, fino ai confini del Ponto e della Cappadocia. Le popolazioni urartee, che originariamente dimoravano nella regione del Lago di Van, nei primi quattro secoli del I millennio a.C., sotto la guida dei loro re, si espansero notevolmente, raggiungendo intorno all’800 a.C. la massima potenza. Poi gradualmente, a seguito degli scontri con gli assiri, con i cimmeri e con gli sciti il loro regno si ridusse fino a dissolversi per l’invasione dei medi intorno al 610 a.C. Da allora l’Armenia cadde sotto il dominio prima dei medi e successivamente dei persiani, dei macedoni e dei seleucidi. Al principio del I secolo a.C., Tigrane il Grande riuscì ad unificare in un solo regno le due parti del paese ed allargò il proprio dominio fino alla Cilicia orientale e alla Siria. Di fronte alla potenza romana, Tigrane strinse alleanza con Mitridate VI Eupatore, re del Ponto. Dopo avere sconfitto quest’ultimo, nel 69 a.C. Lucullo, che allora comandava le legioni romane dell’Asia, si volse contro Tigrane e lo vinse in una battaglia che dimostrò il valore dei romani e l’abilità del loro capo. Ma l’esito della battaglia non piegò definitivamente il re armeno, il quale, anche per il concorrere di altre circostanze, fece

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fallire la campagna di Lucullo. Nel 66 Pompeo, dopo avere battuto il re del Ponto, penetrò profondamente nell’Armenia dove, vicino ad Artaxata, ricevette l’atto di sottomissione di Tigrane, ormai senza speranza di rivincita, essendosi i parti schierati contro di lui. In questo modo Roma si impossessò dell’Armenia Minore, ossia dei territori a occidente dell’Eufrate, mentre tutto il paese riconobbe l’alta sovranità romana. In seguito alla pace stipulata tra Roma e i parti, il regno d’Armenia fu affidato alla dinastia arsacide. Da allora le vicende del paese si intrecciarono con le lotte sostenute per rivalità politica e razziale tra l’Impero romano e l’Impero partico. Per vari periodi l’Armenia fu tenuta nella condizione di “stato cliente”, in parte dipendente e in parte autonomo, tanto che vi regnava un re. Solo nel 114 d.C. tale regno fu dichiarato soppresso da Traiano che lo aveva invaso e fu ridotto a provincia romana; la cui vita fu brevissima. Con la morte dell’imperatore, il suo successore Adriano perseguì una politica di contenimento e riduzione dei confini dell’Impero e permise che si ricostituisse il “regno cliente” di Roma ancora sotto la dinastia degli arsacidi. LA PRIMA EVANGELIZZAZIONE È quello il tempo della prima probabile diffusione del cristianesimo nella regione. Secondo la tradizione, Taddeo – o Addai, il discepolo siriaco mandato a Edessa per guarire Abgar – e Bartolomeo apostoli vi avrebbero recato l’annuncio di Cristo: il primo avrebbe compiuto la missione nell’Armenia meridionale, il secondo in quella settentrionale. Da vari indizi dei quali sono testimonianza elementi terminologici, leggendari, liturgici, la prima predicazione sembra provenire dalla Siria. Tracce più sicure della presenza cristiana si trovano intorno alla fine del II secolo. Nell’Adversus Iudaeos Tertulliano 1, in un punto in cui afferma che le universae gentes in nessun altro hanno creduto se non in Cristo che già è venuto, cita un passo degli Atti degli Apostoli (2, 91 Tertulliano, Adversus Iudaeos 7, 4-5, ed. H. Tränkle, Wiesbaden 1964, p. 14; nel commento del Tränkle non si fa cenno alla questione qui indicata (cf. pp. 66s.): sull’espressione: Romani et incolae, cf. le notazioni a p. 67. Da parte mia si è preferito tradurre con «i romani e gli stranieri» anche per il carattere di Roma capitale dell’Impero e per il grande flusso di personaggi che da ogni parte vi giungevano, oltre che per la plausibilità della traduzione in riferimento al termine incola.

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11), adattandolo al proprio discorso: «In chi altri credettero le universe genti se non in Cristo che già è venuto? A chi credettero infatti le genti, i parti e i medi e gli elamiti e coloro che abitano la Mesopotamia, l’Armenia, la Frigia, la Cappadocia, e coloro che dimorano nel Ponto e nell’Asia, nella Panfilia, e coloro che si trattengono in Egitto e coloro che abitano le regioni dell’Africa che sono oltre Cirene, i romani e gli stranieri (…)?. Luoghi tutti, quelli menzionati, nei quali il nome di Cristo, che già è venuto, regna (…)». È interessante osservare che, a prescindere da singole e non essenziali varianti rispetto al testo neotestamentario della Vulgata, lo scrittore africano introduce nell’elenco il nome di una terra, l’Armenia, che non si legge nel testo degli Atti. Si sa che egli indulge alla retorica e non tutte le sue parole sono da prendere alla lettera. E tuttavia è opportuno sottolineare l’aggiunta che è posta ben a proposito nell’enumerazione dei paesi: l’Armenia sta infatti a nord della Mesopotamia ed ha ad ovest la Cappadocia e la Frigia (in ordine invertito rispetto al testo tertullianeo). Impossibile dire donde Tertulliano abbia tratto il nome dell’Armenia, se dall’originale greco o da una delle Veteres Latinae Versiones del testo degli Atti, che poteva avere tra le mani; o se lo abbia interpolato di sua iniziativa. Rimane il fatto che intorno al 200 si dava per plausibile la presenza di cristiani in quella terra. Secondo gli storici armeni grande impulso diede all’evangelizzazione del paese Gregorio l’Illuminatore (260ca.-328ca.). Narra le vicende della sua vita Agatangelo nella sua Historia, redatta forse verso la fine del V secolo. Appartenente ad una nobile famiglia – stando all’opinione di alcuni studiosi, figlio – si dice – di Anak, uno dei grandi satrapi dell’Impero partico – sarebbe stato condotto a Cesarea di Cappadocia dove avrebbe ricevuto una formazione greca e si sarebbe convertito al cristianesimo. Rientrato in patria, Gregorio, dopo una serie di complicate avventure delle quali sarebbero stati protagonisti Tiridate III (252-330), re dell’Armenia, una vergine cristiana dal nome Hripsinè, che viveva in un monastero, e Diocleziano, avrebbe convertito dal paganesimo Tiridate. La nuova fede del re indusse il popolo a seguirlo nella medesima via. Altre fonti confermano il nucleo essenziale della narrazione di Agantangelo. Verso la fine del III o l’inizio del IV secolo Gregorio fu consacrato vescovo da Leonzio, esarca di Cesarea, e divenne uno dei suoi suffraganei, risiedendo in Armenia. L’azione di Gregorio provocò una viva reazione da parte dei sacerdoti pagani e della nobiltà del luogo;

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ma egli la neutralizzò percorrendo il paese con soldati, distruggendo i segni della religione antica e facendo sorgere in loro vece chiese cristiane. Da parte sua, Eusebio di Cesarea parla di una lettera di Dionigi, vescovo di Alessandria dal 248 al 265 circa, Sulla penitenza, da lui indirizzata ai cristiani dell’Armenia che avevano per vescovo Meruzane. Dunque intorno alla metà del III secolo la Chiesa armena avrebbe già avuto una propria consistenza e almeno un vescovato. Si è detto della conversione di Tiridate e del suo popolo: l’evento è fissato dalla storiografia armena moderna nel 301 2: sarebbe stato così il primo regno dell’antichità ad abbracciare il cristianesimo e nel 2001 la comunità armena ha festeggiato il XVII centenario di quel fatto, con celebrazioni iniziate nel 1996. FEDE E IDENTITÀ NAZIONALE Come è stato scritto, «a partire dalla conversione ufficiale del regno alla fede cristiana, nei primi anni del IV secolo (…), il destino dell’Armenia sarà intrinsecamente connesso a questa opzione storica. La fede cristiana segnerà fin nei sostrati più profondi l’anima e la cultura armene. Un secolo e mezzo era appena trascorso dalla conversione ufficiale che il popolo armeno, già privato del regno nel 428 3, non avrebbe esitato a sollevarsi unanime, nella battaglia di Avarayr (di cui si dirà più oltre), contro il progetto sasanide d’imposizione forzata della religione mazdea, con l’obiettivo di una totale assimilazione» 4. Infatti al tempo di Valeriano (253-260), l’Armenia era divenuta persiana – alla dinastia degli arsacidi era succeduta la dinastia dei sasanidi – e tale rimase fino al tempo di Diocleziano (285-305), allorché l’arsacide Tiridate III che si era rifugiato a Roma, indotto dallo stesso imperatore, ritornò in patria e riuscì ad occupare di nuovo il trono. Anche per ciò nacque una guerra tra Roma e la Per-

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Ma taluni critici propendono per gli anni 314-315. In quell’anno infatti il re Ardashir fu sostituito dai persiani da un reggente, mentre dagli stessi fu deposto ed imprigionato a Seleucia-Ctesifonte, Sahak il Grande, di cui diremo più oltre, accusato di avere sentimenti filobizantini. 4 B.L. Zekiyan, Introduzione a La spiritualità armena. Il libro della Lamentazione di Gregorio di Narek, Roma 1999, pp. 25-26.

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sia in cui, nel 298, la prima riuscì vittoriosa sulla seconda. Da quell’anno la parte meridionale del paese passò sotto il domino romano mentre la rimanente parte continuò ad essere un regno feudatario retto da Tiridate, la cui struttura era costituita dai naxarar, dinasti, spesso uniti tra loro da legami familiari, che beneficiavano di notevoli autonomie ed avevano pieni diritti sul territorio, giunto a loro per via ereditaria. A prescindere da qualche periodo in cui la monarchia ebbe il sopravvento, il re era uno di loro ed esercitava la sua autorità entro limiti assai angusti. Anche la Chiesa in quel tempo andava organizzandosi. Gregorio l’Illuminatore impresse alla gerarchia ecclesiastica un timbro analogo a quello in vigore nel dominio politico: la funzione da lui esercitata ebbe carattere ereditario, rimanendo tale fino al 438, anno in cui, con la morte di Sahak il Grande, la dignità vescovile non fu più ereditaria, ma elettiva. A Gregorio succedette il figlio Aristakes, il quale, avendo partecipato al concilio di Nicea, consegnò alla sua Chiesa il simbolo niceno. Non ci consta che questa abbia preso parte alle dispute teologiche che si svolsero nell’Oriente greco e nell’Occidente latino. Ancora nel 353 il re dell’Armenia, Arshak pose a capo di quella Chiesa un pronipote di Gregorio, Nersete, il quale diede impulso all’organizzazione ecclesiastica e monastica e non ebbe timore di introdurre usanze e istituzioni desumendole da altre Chiese. Fu a Costantinopoli e a Cesarea di Cappadocia, che, come i suoi predecessori, era stato consacrato vescovo (il rapporto con Cesarea rendeva visibile l’influenza greca e alla fin fine il legame della Chiesa armena con l’Impero romano). Entrato in contrasto con il re, fu deposto per poi essere dapprima richiamato e poi eliminato da Pap, figlio di Arshak nel 373 5. Si diceva della battaglia di Avarayr, che rappresenta per la Chiesa armena nel suo insieme il primo battesimo di sangue e che lascia in essa un marchio profondo: «Chi credeva che il cristianesimo fosse per noi come un abito, ora saprà che non potrà togliercelo, come il colore della pelle». Come testimonia lo storico Eliseo, nella sua Storia di Vardan e della guerra armena, con queste parole, prima della battaglia, il 26 maggio del 451, veglia del giorno di Pentecoste, il capo delle truppe armene, Vardan Mamikonian, avrebbe incitato i 5 Cf. P. Maraval, in Naissance d’une chretienté (250-430), a cura di Ch. e L. Pietri: Histoire du christianisme des origines à nos jours, Paris 1995, t. II, pp. 943ss. (tr. it., La nascita di una cristianità (250-430), Roma 2000, pp. 875ss.).

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suoi soldati. È la battaglia degli armeni contro il re persiano Yazdegert II, che aveva imposto loro di convertirsi al mazdeismo. Eliseo interpreta l’episodio in chiave spirituale e lo eleva a simbolo della fedeltà di quella gente al Vangelo di Cristo. Certo nell’episodio, come in altri eventi della storia armena, si palesa una stretta connessione tra la nazione e la religione che professa (ove il termine “nazione” ha da intendersi non nel senso moderno, ma nel senso con cui lo adoperano gli autori cristiani antichi, equivalente al greco ethnos o al latino natio). E qui si apre una questione teologica di grande rilievo e di non meno grande attualità: in genere, ma con lo sguardo fissato in particolare sull’Armenia, si può parlare di una “Chiesa etnica”; oppure l’espressione stessa non è compatibile con quel carattere di universalità che distingue il messaggio di Cristo? Non si può dimenticare che il vangelo di Matteo si chiude con l’invito rivolto da Gesù risorto agli «undici discepoli» di andare e di ammaestrare tutte le nazioni, tutti i popoli, tutte le genti (panta ta ethne - omnes gentes), battezzandole nel nome della Trinità 6. Appare con chiarezza che l’annuncio non ha fin dall’inizio un carattere astratto o generico, ma che esso si volge alle persone e neppure in primo luogo ai singoli, ma alle comunità delle quali i singoli fanno parte, comunità che naturalmente sono inserite in contesti sociali specifici con una lingua, una cultura, una mentalità, con usi e costumi che distinguono ciascuna di esse da tutte le altre. In altre parole non si può espellere dall’orizzonte cristiano la realtà etnica e neppure essa impedisce di abbracciare più ampi orizzonti implicanti la dimensione universale. Senza dubbio la storia ha mostrato come il legame troppo stretto tra fede e identità nazionale ha condotto a forme diverse di nazionalismi che, per quanto tocca il cristianesimo, ne hanno piuttosto tradito lo spirito di cui è portatore e adulterato la sua immagine. Tra Chiesa locale e Chiesa universale si instaura ogni volta un rapporto che, quando la prima prende corpo pienamente, non dà luogo a un confronto dialettico, ma ad una armonia reciproca, nel senso che l’unità riconosce e fa propria la diversità e la diversità si arricchisce e gode dell’unità. È il tema delineato all’inizio di questo volume. Per il tempo in cui si manifesta e per gli elementi che presenta è vero che «l’esperienza armena cristiana appare nella storia della

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Cf. Mt 28, 19.

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Chiesa come un nuovo e ben caratterizzato modello ecclesiale; un modello che, pur nella varietà delle modulazioni locali, si diffonderà tra il secolo IV e il VII nell’intera area subcaucasica. Tale modello si colloca accanto ai grandi modelli storici che nel corso dei secoli hanno caratterizzato e condizionato la vita della Chiesa» 7. LA CREAZIONE DELL’ALFABETO ARMENO L’identità etnica e culturale di cui si è parlato era stata fondata nei decenni precedenti, alla metà del V secolo da un altro evento importante nella storia del paese: la creazione dell’alfabeto e il conseguente nascere della letteratura armena. Si fa risalire a Mesrop Mashtots (361ca.-439/440) l’invenzione dell’alfabeto armeno rimasto sostanzialmente invariato fino ad oggi. Dopo essere stato soldato e avere ricevuto il battesimo in età adulta, si era fatto monaco ed aveva intrapreso la sua missione tra i pagani; ma ben presto aveva sentito la necessità di usufruire della Sacra Scrittura e dei libri liturgici in lingua armena. Un’iniziativa la sua non facile, che fu incoraggiata sia dal capo della Chiesa delle sua gente, Sahak il Grande (350ca.-438), figlio di Nersete, che dal re arsacide Vramshapuh, quasi che il sacerdote e il re l’abbiano voluta sanzionare ufficialmente. In tal modo con l’invenzione di caratteri alfabetici specifici fu assicurata la vita della nuova lingua, fu consentito il nascere e lo svolgersi della letteratura (di traduzione, specialmente dai padri greci, ed originale) e soprattutto fu meglio stabilita la coscienza nazionale. Per primi, in un ambiente estraneo al greco, al latino e al siriaco, gli armeni poterono così conoscere nella loro lingua la Bibbia e partecipare ai riti: quattrocento anni prima che Metodio e Cirillo compissero la medesima operazione per gli slavi. IL CONCILIO DI CALCEDONIA Nello stesso anno, il 451, in cui si consumava il “martirio” di Vardan e dei suoi compagni, quello dei Vardanankh, si svolgeva a Calcedonia quel concilio le cui conclusioni erano destinate a muta7 B.L. Zekiyan, Una chiesa di frontiera, «Primi secoli. Il mondo delle origini cristiane», 4, n. 9 (2001) 12.

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re profondamente gli equilibri e gli assetti dell’Oriente cristiano. Di esso già si è detto nelle pagine precedenti. La definizione cristologica che ne uscì – due nature nell’unica persona di Cristo – apparve come una sintesi tra Oriente ed Occidente e tuttavia essa lasciò in molti ambienti strascichi pericolosi e un diffuso malcontento. Numerosi e differenti elementi erano entrati in gioco fin dalla seconda decade del sec. V perché i canoni calcedonesi potessero ricomporre l’unità cui troppi si opponevano. Alcuni motivi dei contrasti e delle polemiche già si sono detti, parlando delle grandi controversie scoppiate nel V-VI secolo. Occorre notare, per la storia che ci interessa, che a Calcedonia, a causa della guerra tra Roma e la Persia, l’Armenia non fu presente con una propria rappresentanza; il che non consentì una corretta e rapida comunicazione delle decisioni prese in quella sede. Il processo che condusse ad assumere l’una o l’altra posizione fu lungo, come nel caso della Chiesa armena, la quale solo nel VI secolo, con il primo sinodo di Dwin (506) accettò l’Henoticon di Zenone e respinse Calcedonia, confermando tale posizione nel secondo sinodo di Dwin (553-555); però solo verso la fine dell’VIII secolo nel suo seno prevarranno con evidenza correnti anticalcedonesi. Una questione di potere politico (ma anche religioso) sembra avere fatto precipitare la situazione nel cuore del VI secolo: era intenzione di Giustiniano (527-565) di ridurre l’Armenia a provincia e quindi di distruggere quel sistema feudale di dinasti che da sempre era stato fattore essenziale della vita non solo politica, ma anche militare e amministrativa del paese. Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’Oriente e sede effettiva e simbolica del potere imperiale, con Giustiniano si era allineata alla comunione cattolica ed aveva pienamente sostenuto ed accettato le decisioni calcedonesi – si rammenti anche il canone XXVIII che, annullando le prerogative di più antiche sedi apostoliche, accordava alla Chiesa della Nuova Roma privilegi uguali a quelli della Chiesa dell’Antica Roma, per il fatto di essere la città onorata dalla presenza dell’imperatore e del Senato 8 –. Contro tali pretese si volse una buona parte della Chiesa d’Armenia, dichiarando la propria opposizione a Calcedonia. Essa costituì così una delle Chiese che oggi ama definirsi precalcedonesi, nel senso 8 Cf. Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo - G.L. Dossetti - P.-P. Joannou - C. Leonardi - P. Prodi, con la consulenza di H. Jedin, Bologna 1991, pp. 99-100.

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che riconosce solo i primi tre concili ecumenici, ma non quello del 451. Uguale posizione assunsero, come si è accennato in altre pagine, le Chiese siro-giacobita, copta ed etiopica. Successivamente però non tutti i vescovi si conformarono a questa linea. Pesarono tanti fattori, secondo che il paese subisse l’influsso della potenza persiana o di quella bizantina e secondo che gli imperatori bizantini si facessero sostenitori del monofisismo o meno. Vani risultarono i tentativi di ricomporre l’unità, operati lungo i secoli: sotto l’imperatore Eraclio (611-641), al tempo del patriarca Fozio e del katholikos 9 Zaccaria (855-877) nel sec. IX o ancora verso la fine del X secolo con il katholikos Vahan, che ebbe tra i suoi discepoli il monaco e poeta Gregorio di Narek o, per menzionare un altro momento, nel sec. XII quando capo dell’Impero era Manuele I Comneno e autorità della Chiesa armena erano Nerses Shnorhali (1166-1177), Gregorio VI Tlay nel 1184 e Gregorio VI Apirat (1196). Vi furono ripetuti contatti con Costantinopoli e buoni rapporti dei katholikoi, specialmente dell’Armenia Minore e dopo l’inizio delle crociate, con i papi di Roma; tra questi ultimi, anche tra i più concilianti, lo scopo era però quello di giungere ad una unità liturgica (che a distanza di tempo sarà riconosciuta come non essenziale), che voleva tradursi nell’abolizione della lingua armena e nell’imposizione del latino, tramite le pretese del patriarcato latino di Antiochia. Non mancarono di conseguenza reazioni e gli avversari dell’unione ebbero ogni volta buon gioco nel fare fallire i tentativi avanzati. L’ARMENIA SOTTO L’ISLAM La conquista delle terre dell’Oriente cristiano da parte dei mussulmani sconvolse la situazione esistente. Nel 636 la Siria fu presa dagli arabi, i quali nel 639 irruppero nella regione del Lago di Van; nel 642 conquistarono Dwin, continuando poi la loro avanzata verso il Caucaso. Da quel tempo gli armeni furono alle dipendenze dei califfi e, tra l’altro, il professare il monofisismo li fece apparire più

9 È questo il titolo con cui si fa chiamare il capo della Chiesa armena dalla metà del VI secolo. Cf. M. van Esbroeck, Primauté, patriarcats, catholicosat, autocéphalies en Orient, in Il primato del vescovo di Roma nel primo millennio, M. Maccarrone (ed.), Città del Vaticano 1991, p. 515.

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lontani da Costantinopoli. La prima dinastia degli omayyadi fu tollerante verso i sudditi cristiani; tolleranza che andò poi diminuendo e che sotto gli abbasidi, intorno alla metà del X secolo, si trasformò in vera e propria persecuzione. Nel 1045 i romani d’Oriente posero fine al regno armeno dei bagratidi con la presa di Ani; ma poco dopo, già nel 1064, le truppe della dinastia mussulmana dei selgiuchidi occuparono la Grande Armenia e da allora per lunghi secoli i suoi abitanti furono sottomessi a principi stranieri: dopo i selgiuchidi, i mongoli, gli ottomani, di nuovo i persiani, infine i russi dominarono l’Armenia. LA PICCOLA ARMENIA Intanto nell’XI secolo parecchi principi armeni avevano lasciato la propria terra, ormai divisa interamente tra i bizantini, i selgiuchidi e i persiani, ed erano emigrati in Cilicia, allora sotto il dominio degli imperatori di Costantinopoli, i quali non erano alieni, per le difficoltà in cui si trovavano dinanzi agli arabi, dall’incoraggiare il costituirsi di piccoli stati tributari. Tra i principi venuti dall’Armenia ve ne era uno di nome Ruben che ottenne di avere quale feudo la città di Lampron, non lontano da uno dei passaggi obbligati per gli uomini e le merci che dall’Asia Minore si dirigessero verso Oriente. Egli diede vita a una baronia (1080); il suo successore, Costantino I, nel 1098, strinse rapporti con i crociati di Goffredo di Buglione, che in quell’anno attraversarono la Cilicia, muovendo alla volta di Gerusalemme. Dopo varie vicende, in cui furono implicati i successori di Ruben e di Costantino I, nel 1199 ebbe inizio il regno armeno di Cilicia o Piccola Armenia, una nuova entità che nulla aveva da vedere geograficamente e statualmente con l’Armenia Minore. Leone, il suo primo sovrano, aveva ricevuto a Tarso la corona regale dall’arcivescovo di Magonza, cardinale Corrado di Wittelsbach, e si era dichiarato vassallo di Enrico VI. Il secolo successivo, nei periodi di pace, vide il fiorire dei commerci, protagonisti i Genovesi e i Veneziani, e l’affermarsi della cultura anche scientifica, ma vide anche profilarsi l’avanzata dei mongoli e ripetutamente quella dei mamelucchi d’Egitto. All’inizio del XIV secolo (1307-1308) fu celebrato a Sis il sinodo in cui si stabilì l’unione della Chiesa armena con quella romana. Ma coloro che avversavano una tale intesa fecero intervenire i nemi-

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ci esterni del regno e eliminare a tradimento il suo sovrano, Leone IV (1303-1307). Nei decenni successivi molti furono i tentativi di riprendere e portare a buon fine l’unione con Roma e molti furono i re di Cilicia che desiderarono questo esito di una vicenda ormai secolare. Ma la cosa non riuscì per la sempre rinnovata opposizione degli antiunionisti, per le difficili condizioni politiche e militari in cui il regno si trovava (dall’Europa non ricevette alcun sostegno; l’unico appoggio lo ebbe dal principato latino di Cipro, il solo rimasto in Oriente, oltre alla Piccola Armenia) e infine per la latinizzazione dei riti, voluta da Roma attraverso l’opera dei domenicani armeni o unionisti che ivi operavano, la quale provocò diffuso malcontento e qualche volta violente reazioni. Finalmente la Cilicia armena perse la propria indipendenza per opera dei Turcomanni e dell’emiro di Aleppo, legati ai mamelucchi d’Egitto. Sis una delle pochissime città che rimanevano fuori dal dominio mussulmano, fu presa. DOPO IL 1453 FINO ALL’EPOCA MODERNA E CONTEMPORANEA

La caduta di Costantinopoli nelle mani di Maometto II (1453) indebolì ulteriormente la Chiesa armena nella Piccola Armenia. Nel 1441 la sede del katholikos supremo che era a Sis, in Cilicia, dopo avere subito parecchi cambiamenti in relazione alle vicende politiche e militari, fu trasferita a Etchmiadzin (o E¯ˇjmiacin o Ejmiatsin), destinato a divenire centro religioso ed artistico importante dell’Armenia, dove rimase. Accanto alla sede più importante, se ne sono conservate fino ad oggi due con katholikoi di rango minore, quelle di Sis e di Althamar, e altre due con patriarchi senza il titolo di katholikos e con privilegi religiosi più limitati, quelle di Costantinopoli e di Gerusalemme. Dalla presa di Costantinopoli al tramonto dell’Impero ottomano (1918) il cattolicato di Etchmiadzin riuscì a conservare una certa indipendenza, anche se più in generale il dominio turco risultò per gli armeni molto negativo. Nel 1461 gli ottomani permisero, se non favorirono, la creazione di una patriarcato armeno a Costantinopoli, cui fecero riferimento i cristiani di fede monofisita.

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GLI ARMENI CATTOLICI Nel sec. XVI, a cominciare dal tempo di Gregorio XIII (15721585), la Chiesa armena si divise, aderendo in parte alla confessione monofisita mitigata o, meglio, miafisita e in parte riconoscendosi nella Chiesa cattolica. Un certo numero di katholikoi di fede precalcedoniana che si avvicendarono non cessarono di avere rapporti con la sede romana, alcuni, anzi, si dichiararono cattolici. Tuttavia nell’insieme non si riuscì a portare a buon fine l’unione tra le due Chiese. La situazione fu ancor più complicata dal frequente stato di guerra tra Turchia e Persia per il possesso dell’Armenia. In particolare tra la fine del 1600 e il 1700 i cattolici armeni furono più volte perseguitati anche a Costantinopoli, su istigazione degli armeni di diversa confessione. La grande capitale di quello che era stato l’Impero romano d’Oriente, Istanbul, era un punto di notevole importanza. I cattolici vi dimoravano numerosi e avevano peso anche per quanto riguardava la scelta del katholikos supremo di Etchmiadzin. Ivi la congregazione di Propaganda costituì nel 1758 un vescovado armeno cattolico che nel 1830 fu trasformato in arcivescovado primaziale da Pio VIII. Nel 1831 i cattolici ottennero dai turchi l’emancipazione dall’autorità civile dei patriarchi, metropoliti e vescovi. Oggi la Chiesa armena cattolica raccoglie circa 340.000 fedeli nel mondo. LA CHIESA MIAFISITA Fin dal 1768 era scoppiata la guerra tra Russia e Persia. La prima delle due potenze sia pure lentamente aveva acquisito la parte del paese ad ovest del Mar Caspio (1813) e poi i distretti di Ani e Erivan (1828), compreso il centro di Etchmiadzin (sede storica dei supremi katholikoi) per espandersi ancora, un cinquantennio dopo (1878), fino a Kars ed a Batumi. Ma un’altra ampia area del paese rimaneva sotto il dominio dell’Impero ottomano. Il rapporto tra armeni e russi non fu negativo e nondimeno gli zar non potevano consentire piena indipendenza ad una Chiesa che da sempre aveva assunto un carattere nazionale. Nel 1836 fu così dato ad essa una costituzione che prendeva per modello quella della Chiesa ortodossa dello stato zarista: si riconosceva la Chiesa armena, ma si limitava la sua libertà nella scelta del katholikos. Era lo zar

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infatti a scegliere tra due candidati votati da un consesso di ecclesiastici e di laici armeni; inoltre a fianco del capo supremo fu costituito un sinodo analogo a quello della Chiesa ortodossa russa, in cui era presente un procuratore imperiale, che, tra l’altro, aveva il compito di presentare allo zar due nomi per le eparchie vacanti. Era insomma attuata una politica ecclesiastica di russificazione che contrariò non pochi armeni. Nacquero movimenti volti ad opporsi alle mire russe (ma anche a quelle turche); si formò una società segreta che fu perseguitata. Nel 1903 un decreto imperiale sottrasse alla Chiesa armena l’uso dei suoi beni, lasciandole solo la nuda proprietà; decreto che fu revocato dopo il 1905 anche per le forti reazioni che provocò. Nel frattempo altre nubi ben più minacciose si erano addensate sugli armeni, in particolare a Istanbul, per parte dei mussulmani. La costituzione di comitati rivoluzionari locali facenti capo ad armeni, che rivendicavano fossero fatte riforme, agendo anche violentemente, indusse il sultano ‘Abd al-Hamı¯d II (1876-1909) a vessare la popolazione armena: nel 1894 avvenne un loro primo massacro, cui altri seguirono nella città turca durante gli anni immediatamente successivi. Si trattava di ribellarsi alla secolare condizione di dhimmi, ossia di “infedeli protetti”, sottoposti fiscalmente alla gyzia, discriminati socialmente nelle città e nelle campagne posti alla mercé dei mussulmani: gli armeni, come i cristiani di altre confessioni; un movimento accelerato anche dai contatti con le democrazie occidentali e con le esigenze di libertà e di uguaglianza che proponevano. Un attentato alla Banca ottomana avvenuto ancora a Istanbul nel 1896 ebbe per conseguenza una strage in cui morirono decine di migliaia di armeni; altre seguirono nel 1909 ad Adana, in Cilicia, nel sud della Turchia. Era comparsa una nuova classe dirigente turca, quella dei «Giovani Turchi» (che si ispirava a un tipo di nazionalismo in particolare di matrice tedesca), e che era decisa a fare della Turchia uno stato abitato esclusivamente dai turchi. Secondo una triste e brutale terminologia dei nostri giorni, si direbbe che era in progetto compiere una radicale “pulizia etnica” dell’elemento cristiano nei territori turchi. Un intento che ebbe un seguito più esteso e più tragico durante e subito dopo la Prima Guerra mondiale (nella quale gli armeni si erano schierati al fianco della Russia), dal 1915 al 1922. Nel 1915 comincerà ad essere eliminata l’antica comunità armena di Cilicia (ma già nel 1908 per le pressioni turche

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il katholikos di Sis aveva dovuto lasciare la propria sede). I «Giovani Turchi» agirono forse per motivi diversi da quelli religiosi, ma proprio l’appartenenza cristiana fu decisiva per decidere della vita e della morte di coloro che furono presi di mira e che si salvarono solo a condizione di rendersi apostati e di aderire all’islam. Ivi tutti i cristiani subirono una pesantissima persecuzione (dal 30% della popolazione prima del 1915 si ridussero al 2% dopo il 1920); i più falcidiati furono gli armeni. Per quanto sia difficile precisare il numero, si crede che, tra di loro, abbiano perduto la vita 1.500.000/ 2.000.000 di persone. Una serie di fattori permise un tale genocidio: lo stato di guerra, le comunicazioni difficoltose, la presenza internazionale ridottissima – solo ufficiali e funzionari tedeschi, alleati dei turchi circolavano nel paese –, le giustificazioni di cui si fece portavoce la storiografia turca successiva, secondo cui i cristiani del luogo avrebbero dato il loro sostegno agli invasori russi, macchiandosi con ciò di alto tradimento verso l’Impero ottomano e provocando la reazione delle autorità. Nel 1920 l’Armenia caucasica proclamò l’indipendenza e creò una libera repubblica, che però nel 1922 entrò a fare parte delle Repubbliche socialiste dell’Unione sovietica (URSS). Da quel momento la sorte della Chiesa armena seguì in parallelo quella della Chiesa ortodossa russa. Fino al tempo dell’invasione hitleriana essa fu fortemente avversata, per poi godere di una maggiore considerazione da quando sostenne la “guerra patriottica” contro l’incombente pericolo rappresentato dal nazismo. Dopo il 1945 la sua condizione fu migliore di quella vissuta sotto i turchi fino al 1920, ma pur sempre dura, inquadrandosi nel regime sovietico che discriminava e condannava ogni manifestazione religiosa. Basti rilevare che nel 1915 gli edifici ecclesiastici esistenti nel territorio dell’Armenia sovietica erano 419, nel 1954 erano 38. Agli inizi dello scorso secolo la Chiesa apostolica armena – che è anche detta Chiesa gregoriana armena – era costituita da cinque katholikati e patriarcati: il katholikosato di Etchmiadzin, già sede del katholikos supremo – che dal 1836 dipese dalla Chiesa ortodossa russa; il katholikosato di Sis in Cilicia, sorto, come si è fatto cenno, nel sec. XI a seguito della migrazione di armeni dai loro territori originari a motivo delle ripetute invasioni subite; il patriarcato di Aghtamar, a nord-est della Cilicia, fondato nel 1113 e la cui fine si deve ascrivere ancora alle stragi del 1915; il patriarcato di Gerusalemme, nato nel 1311 a causa della separazione di armeni gerosoli-

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mitani da Sis, che tuttora esiste e che ha il compito di custodire i beni armeni nei Luoghi Santi; e infine il patriarcato di Costantinopoli che, come si diceva, aveva avuto origine nel 1461, dopo la conquista della città da parte di Maometto II, destinato ad esercitare durante i tempi grande autorità su molte diocesi (nel 1915 erano 39) e su numerosi fedeli (nel medesimo anno erano circa 1.400.000) 10. Attualmente la Chiesa armena ha quattro giurisdizioni indipendenti con quattro patriarchi: quello di Etchmiadzin, la capitale, ove risiede il katholikos supremo, quello di Gerusalemme, quello di Costantinopoli-Instanbul, autonomi di fatto, i quali tuttavia devono ricevere conferma della elezione del proprio katholikos dal katholikos supremo, e quello di Sis (e che tra l’altro nel 1986 si è opposto al patriarca di Etchmiadzin, che ha tentato di riunificare tutte le sedi sotto la sua guida). Infatti, nell’ultimo cinquantennio il disegno dei katholikoi di Etchmiadzin è stato quello di riunire la diaspora armena sotto la loro giurisdizione. Lo stesso titolo di cui si fregiavano cambia: da «patriarca di tutti gli armeni» a «patriarca di tutte le Armenie». Un disegno che, grazie all’opera del katholikos Vasken I (1955-1994) in buona parte è riuscito. Attualmente al katholikosato di Etchmiadzin fanno capo gli ortodossi dell’ex Armenia sovietica – come si è accennato, dal 1991 il paese ha ritrovato la sua piena autonomia integrandosi nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) –, e gli ortodossi armeni della diaspora che si trovano in Europa, in Egitto, Sudan ed Etiopia, in Iraq e in India. Il loro numero si aggira intorno ai 6.000.000. Così riconoscono la propria dipendenza da Etchmiadzin i patriarcati di Istanbul (che raccoglie circa 50.000 fedeli) e di Gerusalemme (meno di 6.000 fedeli). È rimasto invece ecclesiasticamente indipendente, rivendicando la propria autocefalia, il katholikosato di Cilicia, la cui sede, dopo gli eccidi del 1915-1922, è stata trasferita prima ad Aleppo in Siria e poi ad Antelias in Libano. Ad esso si riferiscono gli armeni ortodossi del Libano, della Siria, di Cipro, della Grecia e dell’Iran. Nell’America del Nord esiste una doppia gerarchia, una che riconosce Etchmiadzin ed una che riconosce Antelias 11.

10 Traggo queste notizie da R. Morozzo della Rocca, Le Chiese ortodosse. Una storia contemporanea, cit., pp. 181-184. 11 Cf. ibid., pp. 184-186.

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CHIESA PRECALCEDONITA. CHIESA ETNICA ED UNIVERSALE Tra tante vicende difficili e dolorose la Chiesa armena ha saputo conservare intatta la sua identità cristiana. Essa ha stabilito fin dall’inizio del V secolo un saldo rapporto tra fede e cultura, tra religione e nazionalità; un legame che è stato meglio rinsaldato dal tempo in cui uno ieromonaco, Mesrop, e un vescovo locale, Sahak, sostenuti dal loro sovrano hanno creato l’alfabeto armeno perché l’opera di evangelizzazione potesse compiersi con maggiore incisività; e con ciò diedero vita, come si diceva, a una cultura letteraria di notevole rilievo. E non meno diedero impulso alla liturgia celebrata in lingua armena, che, se risente di influssi dapprima gerosolimitani, poi antiocheni, più tardi bizantini, presenta pure sviluppi originali; d’altra parte essa conobbe pure i riti dall’epoca delle crociate e successivamente accolse usi del rito gallicano e del rito romano, seguiti sia dagli ortodossi che dai cattolici. In Occidente per molto tempo si è definita la Chiesa armena come partecipe della dottrina monofisita, anche se in modo mitigato. Attualmente quella connotazione è respinta dalla stessa Chiesa, che si preferisce connotare con il termine di precalcedonita o miafisita. Occorre infatti osservare che fino al XVIII secolo vi furono in Armenia gruppi influenti favorevoli a Calcedonia. Fino ad epoche recenti quella Chiesa seppe raccogliere tendenze teologiche e distinzioni ecclesiali nell’unità di una stessa gerarchia. In tal senso la costituzione nel XVIII secolo (1742) di un patriarcato cattolico segnò in certo modo una frattura. Del resto oggi si deve sottolineare «la consonanza sostanziale, al di là della diversità nelle formulazioni, della cristologia armena con la fede delle chiese calcedonite, credenti tutte insieme nell’unico Cristo, Verbo incarnato, vero uomo in tutto, integro nell’umanità, e Dio vero. Questa sostanziale e piena ortodossia della cristologia armena, come pure di altre Chiese precalcedonite, è ormai, si può dire, di comune possesso, tra gli storici del dogma e nelle dichiarazioni di autorità delle rispettive Chiese, nonostante le reticenze al riguardo, frequenti nel mondo bizantinoortodosso, e certe perplessità che spuntano a volte in seno alle stesse Chiese precalcedonite e che le inducono a sottolineare la propria “originalità” rispetto a Calcedonia. Per la Chiesa armena, un riconoscimento solenne di ortodossia cristologica, su un piano di reciprocità, con la Chiesa di Roma, si è avuta nella comune dichiarazio-

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ne di papa Giovanni Paolo II e del katholikos Karekin I, firmata e promulgata in Vaticano il 13 dicembre 1996» 12. E l’impegno «a pregare e a operare per affrettare il giorno della comunione» è stato solennemente rinnovato nel settembre del 2001, nella cattedrale di Etchmiadzin, da Giovanni Paolo II e il successore di Karekin I, il katholikos Karekin II. Si può ben dire che la Chiesa armena è una Chiesa etnica, nel senso che corrisponde a una nazione. Se così non fosse stata, non avrebbe potuto resistere alle tempeste che la storia le ha fatto subire. Basti enumerare i popoli e le etnie che conobbe e che in qualche modo vollero dominarla e dominare i suoi fedeli: dai romani antichi ai persiani, dai romani d’Oriente (ossia dai bizantini) agli arabi mussulmani, dai mongoli ai turchi, dai russi ai sovietici. Ma Chiesa etnica – per riprendere un discorso già abbozzato in precedenza – non vuol certo dire entità chiusa in se stessa. La Chiesa etnica come Chiesa locale si confronta e si rapporta necessariamente con la Chiesa universale, che anzi rappresenta e incarna, come – secondo l’insegnamento dei Padri dei primi secoli – in ogni particella dell’eucarestia vi è tutta l’eucarestia. Si potrebbe a lungo intrattenersi a questo proposito. Mi è sufficiente attirare l’attenzione su un solo esempio significativo, costituito dal Libro delle lamentazioni, scritto intorno al 1000 da Gregorio che visse nel monastero di Narek, non lontano dal monte Ararat. Si tratta di «una delle opere mirabili che la Tradizione cristiana offre agli uomini di ogni nazione e di ogni cultura»; si compone di 95 capitoli, denominati ban, termine equivalente al greco logos, che vogliono essere, come si legge all’inizio del primo ban, un colloquio con Dio dal profondo del cuore e che portano a dare voce ad una umanità smarrita e dolente la quale sta di fronte alla speranza salvifica, che è il Cristo, come ad una realtà limite capace di impedire ogni frattura e ogni disperazione. Ora nella sua preghiera intensissima e vibrante Gregorio sente «di dover implorare da Dio la forza di rompere i limiti che lo chiudono, per sempre più partecipare alla vita di quel Dio che nella sua

12 B.L. Zekiyan, Introduzione a La spiritualità armena. Gregorio di Narek, cit., p. 30. Una bella testimonianza sulla storia e la dottrina della Chiesa armena – insieme ad una personale esperienza spirituale e culturale – è stata data pochi anni fa da Karekin I: la si può leggere nel libro Karekin I, Che cos’è la felicità? Dialoghi di Giovanni Guaita con il Catholicos di tutti gli Armeni, Milano 2001 (in particolare sulla Chiesa armena si vedano le pp. 69-99).

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carità tutto abbraccia e tutto solleva a sé. Così la preghiera diviene davvero la forza movente di una comunità che non si lascia chiudere nei confini di una sola cultura e di una sola esperienza religiosa. Del resto è proprio sul piano della vita religiosa che già fin da ora l’uomo sente di partecipare all’universalità dell’amore di Dio» 13. La spiccata connotazione etnica e culturale che segna nel profondo l’identità armena – del singolo e della comunità – non solo non impedisce, ma al contrario innerva l’universalità della fede che la anima. Davvero, secondo le parole di Vardan Mamikonian rivolte ai suoi soldati prima del battaglia di Avaray nel 451, per l’armeno il cristianesimo non è una veste che si possa smettere, ma è parte sua integrante, come il colore della pelle. BIBLIOGRAFIA AA.VV., From Byzantium to Iran. Armenian Studies in Honour of Nina Garsoïan, J.-P. Mahé et R. Thomson (ed.), Atlanta 1997. A. Abrahamyan, The Church and Faith of Armenia, London 1920. P. Ananian, La data e le circostanze della consecrazione di S. Gregorio l’Illuminatore, «Muséon», 74 (1961) 43-73; 317-360. L. Arpee, Armenian Christianity from the Begining to our own Time, New York 1946. M.-L. Chaumont, Recherches sur l’histoire de l’Arménie de l’avènement des Sassanides à la conversion du royaume, Paris 1969. G. Dedeyan (a cura di), Histoire des Arméniens, Toulouse 1982. M. van Esbroeck, Témoignages littéraires sur les sépultures de Saint Grégoire l’Illuminateur, «Analecta Bollandiana», 89 (1971), pp. 387-418. N.G. Garsoïan, Armenia in the Fourth Century, «Rev. des études arméniennes», 8 (1971) 341-352. P. Grousset, Histoire de l’Armenie, Paris 1947. C. Gugerotti, Marek emblema del popolo armeno, «Studium» 97 (2001) 555-561. Id., La parola lamento e Gregorio di Marek, in B.L. Zekiyan, La spiritualità armena. Il libro della lamentazione di Gregorio di Marek, Roma 1999, pp. 103-135. 13

p. 13.

D. Barsotti, Presentazione a La spiritualità armena. Gregorio di Narek, cit.,

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CAPITOLO XIII

LA CHIESA DELLA GEORGIA

UNA TERRA MITICA PER L’IMMAGINARIO GRECO Paese meraviglioso per la varietà del clima, ricco per le sue miniere, inaccessibile per la sua lontananza, misterioso ed attraente per le leggende mitologiche che ne hanno tessuto la vita: questa è la Georgia, nota agli occhi degli antichi, in particolare dei greci con i nomi di Colchide o Iberia. Il nome di Georgia è di origine persiana. Essa è la patria dei Titani che, aspirando orgogliosamente al cielo, furono da Zeus puniti; la patria dello scaltro Prometeo che, rubando al cielo il fuoco per portarlo agli uomini, provocò l’ira crudele di Zeus; la patria della maga Medea, perfida nell’uccidere e nel fare scempio del corpo del fratellino Absirto, terribile nel cagionare lutti e morti là dove si recava, ma anche eroina degli Argonauti, attrice di fantastiche vicende piene di passioni e di drammi; la Georgia è ancora la patria delle amazzoni, donne guerriere che avevano costituito una società matriarcale, indomite avversarie di celebri eroi; essa è ugualmente patria dei superbi ultracentenari, custodi dell’immortalità. Così si presentava ai greci quella terra situata sul versante meridionale e occidentale della catena montuosa del Caucaso che divide l’Europa dall’Asia. È questa la Georgia – secondo il nome georgiano Sakartvelo – che si apre sul Mar Nero a ovest, confinando oggi con la Russia a nord, da cui appunto è separata dal Caucaso, con la Turchia e l’Armenia a sud e con l’Azerbaigian ancora a sud e ad est. Terra che conosce zone in cui prosperano la vite, gli agrumi, il tè, insieme a zone impervie per le nevi perenni e ad altre aride e desertiche, che ha quindi un clima vario, continentale sulle montagne e nell’entroterra, subtropicale lungo la costa. Sul suo territorio si ebbero insediamenti umani molto antichi. Le prime tracce storiche risalgono al sec. VIII-VII a.C. Si individuano due aree: una orientale, lungo il tratto medio del Kura-Mt’k’vari (fiume che proseguendo il suo corso attraverso l’Azerbaigian sfocia poi nel Mar Caspio), è

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l’area che le fonti georgiane denominano Kartli, quelle greco-romane Iberia, quelle arabe Djurzan; e una occidentale, il cui epicentro è costituito dal bacino del fiume Rion, che sbocca nel Mar Nero, ed è la Colchide. La posizione geopolitica della Georgia, situata come è tra Oriente e Occidente, la fa essere fin dall’antichità terra di incontro e di scontro tra genti, culture e civiltà le più diverse. Nelle ultime decadi del II secolo a.C. il re del Ponto Mitridate VI Eupatore (132-63 a.C.), proseguendo la politica espansiva del padre Mitridate V, si impadronì delle coste settentrionali (fino al Danubio) e orientali del Ponto Eusino, dell’Armenia Minore e della Colchide. Era suo intento quello di unificare l’Oriente ellenistico e le terre vicine, sottraendole alla mire dei romani. Le vicende storiche dimostrarono la tenacia con cui Mitridate si oppose ai comandanti romani fino alla sua definitiva sconfitta subita per opera di Pompeo Magno presso le rive del Lico, in Armenia Minore, nel 66 a.C. In quel frangente i georgiani, insieme agli armeni, si erano alleati con Mitridate e con lui furono vinti e sottomessi; in tal modo nel 65 a.C. la Georgia entrò a far parte dell’Impero romano e, anzi, più tardi divenne un avamposto contro la tendenza persiana ad allargare la sfera di influenza politica e militare su quell’area. Ma già poco dopo la metà del III secolo d.C., la parte orientale della Sakartvelo subì la tutela dell’Impero sasanide, mentre la parte occidentale rimase sotto quello romano. Con il quale ultimo i georgiani ebbero non di rado buoni rapporti, come dimostra il caso del loro re, Parsman II il Buono, «amico dell’Impero romano», cui fu dedicata al tempo di Antonino Pio (138161 d.C.) una statua nel tempio di Bellona a Roma, in occasione di una sua visita nell’Urbe, secondo quanto ci attesta Dione Cassio 1. LA DIMENSIONE SIMBOLICA E MISTICA DEL CRISTIANESIMO GEORGIANO

La tradizione ecclesiastica locale vuole che siano stati due tra i dodici apostoli ad introdurre il Vangelo nella terra di cui si sta parlando, precisamente Andrea, pescatore di Betsaida in Galilea, figlio di Giona e fratello di Pietro, il «primo chiamato», e Simone detto il

1

Cf. Historia romana 69, 15, 3.

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Cananeo o lo Zelota. Ne parlano fonti tarde georgiane come la Conversione della Kartli o greche come l’anonimo Martyrium Andreae 2; la Vita Andreae di Epifanio Monaco (sec. IX) 3 o la Laudatio Andreae di Niceta di Paflagonia (secc. IX-X) 4. È stata avanzata l’ipotesi che alcune delle fonti citate attingano a una tradizione letteraria risalente al II secolo. In ogni maniera, come è stato osservato da uno studioso georgiano, è questo un elemento di grande importanza anche per l’attualità. Da molto tempo (lo si vedrà meglio nel seguito) la Chiesa georgiana è autocefala e la sua apostolicità rende legittima appunto l’autocefalia, ne è conditio sine qua non (ove con il termine di «autocefalia» si intende la caratteristica delle Chiese orientali che si governano da sé, sono indipendenti ed autonome e quindi non riconoscono l’autorità di alcun superiore e non sono soggette alla giurisdizione di altri). «L’apostolicità è la conditio sine qua non della legittimità dell’autocefalia. Spesso l’apostolicità è di problematica attendibilità storica ma una volta divenuta tradizione ecclesiastica, stabilisce il rapporto della singola Chiesa autocefala con tutte le altre e le conferisce determinati privilegi» 5. Si è appena menzionata un’opera, La conversione della Kartli, sulla quale è opportuno ritornare: essa è punto di riferimento essenziale in relazione all’origine e al primo sviluppo cristiano in quella terra. Si pensa che la redazione originaria sia avvenuta verso la fine del V secolo; tuttavia il testo quale attualmente si legge presenta interventi successivi che mutano il dettato primitivo, cosa che ha fatto a lungo discutere circa la sua affidabilità storica e la sua stessa datazione. Seguendo la redazione più antica dello scritto, si ha notizia che la prima introduzione dell’annuncio di Cristo nel paese è dovuta all’opera di santa Nino. In vero la conversione degli iberi fu argomento trattato da numerosi storici ecclesiastici, da Gelasio di Cesarea (335/336-400ca.) 6

2 3 4

Cf. Bibliotheca Hagiographica Graeca 99. Cf. PG 120, col. 221B. Cf. Bibliotheca Hagiographica Graeca 102. Cf. PG 105, col. 64. Cf. pure M. Bonnet, «Analecta Bollandiana», 13 (1894), p.

322. 5 Cf. G. Shurgaia, La spiritualità georgiana: Martirio di Abo, santo e beato martire di Cristo di Ioane Sabanisdze, Roma 2003, pp. 36s. La recente, ampia Introduzione al Martirio di Abo di G. Shurgaia mi è stata di notevole utilità nel redigere queste pagine, che ho pure sottoposto alla sua attenzione: vada a lui la mia viva gratitudine. 6 La Histoira ecclesiastica di Gelasio di Cesarea è andata perduta: la sua composizione sarebbe stata suggerita dallo zio Cirillo di Gerusalemme e avrebbe costituito la

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a Rufino di Aquileia (350ca.-410), da Socrate Scolastico (380ca.450ca.) a Teodoreto di Cirro (393-466), da Gelasio di Cizico (che scrive la sua Historia ecclesiastica intorno al 475) ad Agatangelo (fine del sec. V) e da altri ancora. È un fatto che la narrazione di Rufino 7, che trascorre lunghi anni nell’Oriente cristiano, è particolarmente interessante. Infatti verso il 380 egli incontra a Gerusalemme Bak’ur, un principe georgiano vissuto appunto tra la fine del IV e le prime decadi del V secolo; costui avrebbe intrattenuto ottimi rapporti con i romani, tanto da porsi a loro servizio. Da lui direttamente lo storico apprende notizie circostanziate sulla conversione della Georgia ad opera di una donna, Nino. Sarebbe stata costei una schiava, di origine gerosolimitana, che, dopo avere guarito miracolosamente la regina, entrata nelle grazie della corte, avrebbe cominciato a fare conoscere il messaggio di Cristo alle persone con cui era in contatto, a cominciare dalla famiglia reale. Del resto la stessa regina si sarebbe fatta parte diligente per convertire il re. Da parte sua, Nino avrebbe compiuto altri fatti miracolosi. Questa serie di eventi sarebbe avvenuta al tempo dell’imperatore Costantino allorché, stando alle fonti georgiane, re dell’Iberia era Mirian. L’imperatore romano, richiesto, avrebbe così provveduto ad inviare presso Nino alcuni presbiteri (della cui identità non si dice nulla) pronti a battezzare nuovi adepti. Cosa che accadde, per avere il re deciso che il suo popolo abbracciasse la religione cristiana. In tal modo quelle terre ricevettero, con l’annuncio di Nino, il battesimo da parte di presbiteri venuti dall’Occidente bizantino 8.

continuazione di quella di Eusebio di Cesarea. Molto si è dibattuto circa l’influsso che essa avrebbe avuto sugli ultimi due libri della Historia ecclesiastica di Rufino, ossia sulla sezione aggiunta da Rufino stesso alla traduzione dei libri eusebiani: a parere di certuni Rufino avrebbe compiuto un’opera originale; a parere di altri avrebbe attinto a Gelasio, come pure vi avrebbero attinto Gelasio di Cizico, l’anonimo autore della Vita Metrophanis, Giorgio il Monaco e Socrate. Per un primo orientamento in proposito, cf. C. Curti, in Dizionario di Patristica e di Antichità cristiane, vol. II, Casale Monferrato 1984, coll. 1438s., s.v. Gelasio di Cesarea. 7 Cf. Historia ecclesiastica 88-92. 8 È interessante rilevare due dati, che sono stati posti in luce: il primo concerne un certo parallelismo del racconto di Rufino con elementi che si incontrano nella Cronaca di Nestore concernente il battesimo di genti della Rus’ nel fiume Dnepr; il secondo riguarda una tradizione cui la Georgia è stata fedele fino ad oggi: come sotto il re Mirian, secondo le antiche testimonianze, il suo popolo si è convertito nell’insieme alla nuova religione, così di recente si è assistito a battesimi di massa celebrati dal Patriarca nel fiume di Tbilisi e sulle coste del Mar Nero negli anni a noi vicini nei quali la perestrojka consentiva alla vita religiosa di manifestarsi di nuovo dopo il lungo pe-

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Naturalmente sono state fatte varie ipotesi sulla personalità di una santa che ha avuto la sorte e la forza di convertire una nazione. Si è detto che la notizia data da Rufino circa l’essere captiva, prigioniera, di Nino non era plausibile, dato che non sembra verosimile che uno “stato” come quello della Georgia, che all’inizio del IV secolo era da considerarsi, per dirla in termini moderni, un “protettorato” di Roma, ricevesse ostaggi o prigionieri. Il termine captiva andrebbe piuttosto inteso in senso religioso, captiva Christi, dato il genere ascetico di vita condotto dalla santa e descritto da Rufino. Il nome stesso di Nino, che si trova unanimemente nella tradizione locale, potrebbe essere una trasposizione della parola latina nonna, con cui in quel tempo si denominava una vergine consacrata. Si è ugualmente osservato che Rufino pare presentare un mito di fondazione di un sistema religioso; il che non cancellerebbe il valore storico del documento, pur dovendo rilevare che si tratta di una “rilettura” dell’evento narrato 9. Altrettanto sarebbe avvenuto per quanto tocca gli avvenimenti riconducibili alle origini cristiane, che, a distanza di tempo, sarebbero stati “riletti” con gli occhi della nuova storia che il paese si trovava a vivere. Essi sono infatti caricati di una ricchissima simbologia. Conduce in questo terreno la narrazione della già citata Conversione della Kartli. Un testo – occorre ancora osservare – complesso, eterogeneo, il quale, come è stato scritto, «pone tanti problemi quanti ne risolve. Quanto viene scritto – o piuttosto raccolto – rappresenta una discreta conciliazione tra il mito ancestrale della conversione degli Iberi, come lo si coglie nell’opera di Rufino di Aquileia, e alcune tradizioni che legano la cristianizzazione del paese a differenti influssi esterni» 10. Quel testo racconta che agli ebrei che abitavano nella capitale dell’Iberia, Mcxeta, era stata affidata da Dio una singolare missione. Al momento della crocifissione di Cristo era

riodo di silenzio forzato e di persecuzione. Cf. N. Kauchtschischwili, Santa Nino e la donna nel mondo bizantino, in Santa Nino e la Georgia. Storia e spiritualità cristiana nel Paese del Vello d’oro. Atti del I Convegno internazionale di Studi georgiani - Roma, 30 gennaio 1999, a cura di G. Shurgaia, Roma 2000, p. 52, n. 4. 9 Cf. P. Maraval, in La nascita di una cristianità (250-430), in Storia del cristianesimo. Religione-politica-cultura, tr. it., vol. II, cit., p. 879. 10 Cf. B. Martin-Hisard, Cristianesimo e Chiesa nel mondo georgiano, in Vescovi, monaci e imperatori (610-1054), Storia del cristianesimo. Religione-politica-cultura, a cura di G. Dayron - P. Riché - A. Vauchez, tr. it., vol. IV, Roma 1999, p. 606.

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presente sul Calvario un ebreo, di nome Elioz, discendente del profeta Elia. A lui fu consegnata la tunica di Cristo perché la portasse a Mcxeta. Questi ritornò in patria con il preziosissimo oggetto, accompagnato da Longino, che è identificato con il centurione romano di cui i Sinottici 11 non fanno il nome, presente alla passione e alla morte di Gesù e che, a cominciare dal V-VI secolo, si vuole sia stato un protomartire di cui parlano apocrifi della letteratura in lingua greca, armena, araba e siriaca. Un episodio questo che emerge in tutto il suo rilievo trecento anni dopo quando Nino predica il Vangelo a Mcxeta. Infatti in quel tempo, ritrovato il luogo ove la tunica era stata custodita, lo si ritiene il “centro del mondo”. Seguendo la tradizione di cui è testimone La conversione della Kartli, la tunica sarebbe stata quella che Gesù aveva indosso durante il battesimo e la trasfigurazione sul Monte Tabor e per ciò avrebbe partecipato della luce; come dice il Vangelo di Matteo (17, 2) al momento della trasfigurazione di Gesù: Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Grazie a una tale luce vivificatrice il cedro del Libano piantato sopra il luogo ove era sepolta la tunica si sarebbe trasformato in “colonna vivente” o ”colonna di luce”, ossia dal cedro sarebbe stata scolpita quella colonna destinata a divenire il pilastro dell’intera cattedrale di Mcxeta. Considerata come una vera e propria reliquia, nella sua storia sono contemplate due fasi: la prima in cui essa è avvolta da una luce abbagliante e intorno ad essa avvengono molti prodigi, tanto da incutere timore; è il periodo che vede diffondersi la nuova religione «grazie alla paura e alla gioia». Nella seconda fase il re fa fare una copertura lignea intorno alla colonna, rendendola inaccessibile alla vista, cosa che non le impedisce di continuare a dispensare prodigi. Ben presto si sviluppa intorno alla tunica e alla “colonna vivente” un grande processo simbolico: la tunica diventa il pilastro spirituale della Chiesa della Kartli; viene a reggere fisicamente la cupola della chiesa che le è stata costruita intorno; ma in pari tempo, per la sacralità che ha in se stessa, lo spazio della chiesa viene considerato un «santuario», nel senso forte del termine, in cui si compie il mistero della transustanziazione. Si comprende allora il motivo per cui, nella epistola scritta dal re Mirian prima della sua mor-

11

Cf. Mt 27, 54 e par.

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te, egli definisca la prima chiesa costruita a Mcxeta Sancta Sanctorum. A sua volta la “colonna vivente”, che regge la chiesa, diviene un fatto mistico, alla stregua della colonna di fuoco che aveva preceduto gli israeliti nel deserto, dopo la loro liberazione dalla prigionia egiziana. Un particolare situato in un luogo determinato si carica così per i georgiani di un significato universale. Giacché la colonna è da porre in stretto rapporto con la tunica – come ha scritto recentemente uno studioso georgiano 12 – su quest’ultima, infatti, «quale reliquia sacra per tutta la cristianità, è fondata la sacra reliquia locale. La colonna si colma di un contenuto universale, assumendo il contenuto della colonna luminosa degli israeliti e ricoprendosi della luce del Giordano e del Monte Tabor. Lungo questa via la colonna di una chiesa concreta, di un edificio, passa in una dimensione universale, portando con sé anche la Chiesa di Georgia». Se la colonna è una sacra reliquia, la tunica, che sta alla sua base ed è causa, con la luce che emana, del miracolo che la prima rappresenta, è l’arca dell’Alleanza di Mcxeta, così come la città stessa diviene la Nuova Gerusalemme, ed i luoghi che le stanno intorno, con un nome nuovo: Betlemme, Eleona, Betania, Monte Tabor, acquistano il loro nuovo e vero valore. Non si dimentichi che, secondo la tradizione, Nino proviene da Gerusalemme; e del resto il suo discepolo, Abiatar, sacerdote di origine ebraica, cui si deve un’intensa attività apostolica a Mcxeta al tempo di Nino, diviene un “secondo” o “nuovo Paolo”. La conversione della Kartli propone ancora altri elementi fortemente simbolici, tra i quali si annovera la leggenda agiografica secondo cui la predicazione del Vangelo è affidata alla “Madre di Dio”, quale segno di speciale predilezione verso il paese. E la Theotokos manda Nino, un apostolo donna, a compiere la missione. Nell’opera menzionata, ben più che in altri scritti in cui si fa cenno alle medesime vicende, si manifesta un’attenzione spiccata alla dimensione spirituale che, a sua volta, diviene feconda di valori culturali e civili del cristianesimo georgiano. Un quadro, quello delineato, nel quale il fondamento e la veridicità storica delle narrazioni fatte assumono minore importanza di fronte alla pregnanza mistica

12 Z. Kiknadze, La “colonna vivente” come fatto mistico, in Santa Nino e la Georgia, cit., p. 47.

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che le medesime suggeriscono e alla consapevolezza religiosa di cui sono portatrici: da tutto ciò nasce l’identità cristiana del “paese a settentrione”. LE NOTIZIE SULLA DIFFUSIONE DELLA NUOVA RELIGIONE

Estremamente scarsa, per non dire quasi nulla è la documentazione riguardante le comunità cristiane nei primissimi secoli. Ioane Sabanisze, scrittore e letterato, appartenente forse all’alta gerarchia della Kartli, vissuto nella seconda metà dell’VIII secolo, attesta che vi erano cristiani in Georgia già nel III secolo; ed è possibile che missionari venuti dalla Siria o dall’Armenia abbiano fatto conoscere il verbo cristiano anche prima di quell’epoca. Né è da sottovalutare la presenza di colonie giudaiche. Ma in proposito non possediamo tracce fondate. Le quali invece si fanno palesi all’inizio del IV secolo. Abbiamo detto del racconto di Rufino e del suo carattere. Più chiaramente i documenti del concilio di Nicea, celebratosi nel 325, mettono in luce la presenza in quell’assemblea di un vescovo, Stratofile, di una città situata nella Georgia occidentale, di nome Pitionte, corrispondente all’attuale Bic’vinta. Abbiamo notizia di un greco, vescovo della Kartli, che sarebbe stato consacrato dalla sede costantinopolitana intorno alla metà del IV secolo. Successivamente si assiste ad uno sviluppo notevole di quella cristianità: durante il V secolo si sa della fondazione di dodici eparchie vescovili, che nel secolo che segue aumentano a trentatré. Poco dopo la metà del V secolo avviene una riforma relativa all’organizzazione e all’amministrazione della Chiesa. Secondo alcuni studiosi 13, fin da quel tempo, sotto il re Vaxt’ang I Gorgasali (†502), sarebbe stato istituito il katholikosato e la Chiesa avrebbe acquisito la propria autonomia, rendendosi indipendente rispetto a Antiochia ed autocefala 14 (la Chiesa georgiana vent’anni fa ha celebrato il 1500mo anniversario della propria autecefalia, il cui inizio è

13 14

Cf. G. Shurgaia, La spiritualità georgiana, Martirio di Abo, cit., pp. 40s. Cf. P. Maraval, in Naissance d’une chrétienté, cit. p. 848.

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fatto risalire al 483). Altri 15 fanno rilevare che non sembra si possa confondere in riferimento all’Alto Medioevo «Chiesa katholikale» con «Chiesa autocefala», dovendo la prima definizione attribuirsi alla Chiesa della Kartli fin dalle ultime decadi del V secolo e la seconda dalla metà dell’VIII. Sembra che il primo katholikos sia stato Saba I (532-552). Dal 650 si conoscono poco più che i nomi dei vari katholikoi che si succedono e si ha cognizione che essi sono ammogliati e perciò non sono monaci. Intorno al 750 si conosce il nome di Mama, un monaco che avrebbe presieduto alla Chiesa di cui si parla e che poi sarebbe stato venerato come santo. Con Giovanni II suo successore, pure lui monaco, riprendono i rapporti con Antiochia, il cui patriarca, essendo venuto a conoscenza degli sviluppi della Chiesa di Mcxeta, le concede il privilegio di consacrare i propri katholikoi. In questo quadro 16, «la decisione di Teofilatto (vescovo di Antiochia), che accorda piena libertà ai vescovi di Kartli di designare e consacrare il proprio capo, senza alcun intervento di Antiochia, sembra segnare gli inizi di quella che si può chiamare l’autocefalia della Chiesa di Kartli». È forse utile a questo punto soffermarsi in breve su un termine che non è familiare al nostro linguaggio e che già in precedenza è ricorso spesso in queste pagine: il titolo di katholikos, conferito a un pastore di Chiese la cui giurisdizione si estende a un territorio di un popolo situato all’esterno dell’Impero romano (ci è noto che il vescovo di Antiochia attribuisce tale titolo al vescovo della capitale sasanide Seleucia-Ctesifonte nella Mesopotamia e dunque entro i confini della Persia dal V secolo; è da quell’epoca infatti che le Chiese orientali, comprese le Chiese dell’Armenia e della Kartli, si trovano dinanzi a casi di comunità cristiane residenti in terre esterne all’oikoumene romana con problemi di strutture e di statuti nuovi rispetto a quelli che si stavano delineando entro quest’ultima). In greco l’aggettivo katholikos significa «generale», «universale»; nel linguaggio ecclesiastico, per l’accezione che ci interessa, la parola non ha ancora ricevuto una spiegazione soddisfacente. Vuol dire «vescovo generale» o «vescovo principale» di una diocesi, di una provincia, di una nazione? Indubbiamente i

15 Cf. B. Martin-Hisard, Cristianesimo e Chiesa nel mondo georgiano, cit., pp. 567 e 589, n. 174. 16 Ibid., p. 589.

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katholikoi sono sempre stati di rango inferiore ai patriarchi; in certi periodi il capo di certe Chiese si distingue con il titolo di katholikos-patriarca, a segno che i due titoli non ricoprono il medesimo ambito 17. IL MONACHESIMO Dal V all’VIII secolo la Chiesa della Kartli vive dunque un periodo particolarmente significativo; e non solo per le vicende cui si è fatto cenno. È il periodo nel quale fiorisce il monachesimo georgiano. Qualcuno vorrebbe vederne il primo rappresentante in Evagrio Pontico (345ca.-399). Ma la cosa è ben discutibile. Certamente egli nasce a Ibora sulle rive del Ponto Eusino, ma ben presto entra in contatto con personaggi eminenti del mondo greco, da Basilio a Gregorio di Nazianzo, di cui è compagno a Costantinopoli; è poi a Gerusalemme, presso Melania; ivi si deciderà – non senza avere avuto molte esitazioni – a condurre vita monastica; sceglierà come sede l’Egitto, prima nel deserto di Nitria e poi a Celle (Kellia), dove conoscerà i due Macario, Ammonio e altri origeniani e dove finirà la sua vita. Ibero, ossia georgiano, è senz’altro Pietro (409-490ca.), figlio del re di Iberia Buzmar. Inviato a 12 anni a Costantinopoli quale ostaggio, egli riceve nella capitale dell’Impero romano d’Oriente una eccellente formazione; nel 437-438 fugge in Palestina presso Melania la Giovane e Geronzio, si fa monaco e riceve il nome nuovo di Pietro. Ordinato prete nel 446, è consacrato vescovo di Maiuma, non lontano da Gaza nel 452, nel momento in cui si leva forte in Palestina l’opposizione a Calcedonia. Pur rifiutando recisamente i canoni di questo concilio e il Tomus ad Flavianum, egli assume una posizione monofisita moderata. Va poi esule in Egitto dove consacra patriarca di Alessandria Timoteo Eluro; ritornato in Palestina, continua a difendere il partito monofisita. Pur essendo vissuto lontano dalla patria, le sue posizioni dottrinali vi sono conosciute e non sono approvate: la Chiesa nel suo paese abbraccia infatti la dottrina

17 Cf. J. Assfalg - P. Krüger, Petit Dictionnaire de l’Orient Chrétien, tr. fr., Turnhout 1991, pp. 85ss., s.v. catholicos.

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duofisita o calcedoniana e quindi giunge a radiarlo dalla lista dei propri teologi. Tra le visioni a lui attribuite alcune si avvicinano a quelle delineate negli scritti areopagitici, il che ha fatto supporre a qualche studioso – georgiano e non solo – che in lui sia da identificare la figura misteriosa e sfuggente di Dionigi 18. Come dimostra il caso di Pietro l’Ibero, monaci della terra georgiana si trovano frequentemente fuori della loro terra. Intorno alla metà del V secolo alcuni di loro si segnalano tra i visitatori di Simeone lo Stilita. Nel secolo successivo si sa che un abate georgiano si trattiene presso Simeone il Giovane e che l’imperatore Giustiniano (527-565) fa restaurare due monasteri georgiani non distanti da Gerusalemme; a partire dal VII secolo altri dimorano al Sinai; altri ancora lasciano traccia in altri luoghi, dalla Bitinia al Monte Athos alla Bulgaria: giacché uno degli elementi che caratterizza quel movimento è la rinuncia alla patria. Tuttavia non per tutti è così: il monachesimo si sviluppa anche in Georgia. Lo incoraggia il re Vaxt’ang I Gorgasali verso la fine del V secolo, facendo costruire il monastero di Op’iza, presso Art’anud&i, prendendo a modello monasteri greci. Verso la metà del VI secolo la venuta dalla Siria alla Georgia dei cosiddetti Tredici Padri siri dà nuovo impulso al movimento monastico. Sono allora fondati parecchi nuovi monasteri, dodici dei quali costituiscono quello che verrà denominato il «Sinai georgiano», mentre l’ortodossia è ulteriormente rinforzata per far fronte alla diffusione della dottrina monofisita. Come altrove, i monaci svolgono un’opera preziosa per la cultura e la letteratura georgiana, e non solo copiando manoscritti o traducendo opere dal greco per immetterle nel circuito nazionale. Anche sul piano civile la terra della Kartli se ne avvantaggia: il fatto che molti di loro provenissero da famiglie di alto lignaggio fa sì che essi rendano un servizio alla loro patria 19.

18 Cf. fi. Nucubidze, Tajna Pseudo-Dionisija Areopagita [Il mistero dello pseudoDionigi Areopagita], «Enimk’is moambe», 14 (1992) 1-55; E. Honigmann, Pierre l’Iberien et les écrites du Pseudo-Denys l’Aréopagite, Bruxelles 1952; S. Q’aux