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Italian Pages 132 Year 2015
L’aquila e il giglio
Aculei
Aculei Una visione pungente della storia.
Collana diretta da Alessandro Barbero
Quando il passato torna a trafiggere come una lama. Ultimi volumi pubblicati:
1266: la battaglia di Benevento
Un re scomunicato, un esercito di musulmani, una “guerra santa” promossa da un papa francese e da un conte ambizioso. Ecco il 1266: una crociata in Italia.
L’aquila e il giglio
13. RENATA DE LORENZO, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, pp. 232. 14. LUCIO VILLARI, «America amara». Storie e miti a stelle e strisce, pp. 120. 15. FABIO NICOLUCCI, Sinistra e Israele. La frontiera morale dell’Occidente, pp. 284. 16. MARIA TERESA MILICIA, Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso, pp. 168. 17. EUGENIO DI RIENZO, Afghanistan il Grande Gioco 1914-1947, pp. 160. 18. ANTONELLO BATTAGLIA, Sicilia contesa. Separatismo, guerra e mafia, pp. 144. 19. BRUNO BIGNAMI, La Chiesa in trincea. I preti nella Grande Guerra, pp. 144. 20. GIULIO FERRONI, La scuola impossibile, pp. 124. 21. PAOLO GRILLO, L’aquila e il giglio. 1266: la battaglia di Benevento, pp. 136.
PAOLO GRILLO è professore di Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Milano. Tra le sue pubblicazioni piú recenti: Legnano 1176. Una battaglia per la libertà (Roma-Bari 2010), Milano guelfa (1302-1310) (Roma 2013), e Le guerre del Barbarossa. I comuni contro l’Impero (Roma-Bari 2014).
Volumi di prossima pubblicazione:
PAOLO GRILLO
22. CLAUDIO VERCELLI, Il dominio del terrore. Deportazioni, migrazioni forzate e stermini nel Novecento.
€ 12,00
La battaglia di Benevento del 1266 è comunemente presentata come una sorta di malvagio scherzo del destino ai danni di Manfredi, il figlio dell’imperatore Federico II, che venne sconfitto dalle forze di Carlo d’Angiò, al quale riuscí in tal modo di impadronirsi del Regno di Sicilia. A partire dalla narrazione “guelfa” degli eventi, che spiegava la clamorosa quanto imprevista vittoria di Carlo con la sacralità della sua missione, voluta dal papa e benedetta da Dio, ha replicato una versione “ghibellina”, appoggiata dall’autorità dantesca, con l’immagine del Manfredi «biondo, bello e di gentile aspetto», che vedeva nella corruzione e nel tradimento dei nobili il motivo della sconfitta dello svevo. Si tratta però di un’immagine deformata che queste pagine vogliono correggere, restituendo tutta la complessità di una vicenda impossibile da ridurre alle letture nazionaliste/regionaliste o clericali/anticlericali del secolo passato.
Paolo
Grillo
La battaglia di Benevento del 1266 è comunemente presentata come una sorta di malvagio scherzo del destino ai danni di Manfredi, il figlio dell’imperatore Federico II, che venne sconfitto dalle forze di Carlo d’Angiò, al quale riuscí in tal modo di impadronirsi del Regno di Sicilia. A partire dalla narrazione “guelfa” degli eventi, che spiegava la clamorosa quanto imprevista vittoria di Carlo con la sacralità della sua missione, voluta dal papa e benedetta da Dio, ha replicato una versione “ghibellina”, appoggiata dall’autorità dantesca, con l’immagine del Manfredi «biondo, bello e di gentile aspetto», che vedeva nella corruzione e nel tradimento dei nobili il motivo della sconfitta dello svevo. Si tratta però di un’immagine deformata che queste pagine vogliono correggere, restituendo tutta la complessità di una vicenda impossibile da ridurre alle letture nazionaliste/regionaliste o clericali/anticlericali del secolo passato.
ac u le i COLLANA DIRETTA DA
a l e s s a ndro b a r b e ro
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paolo grillo
L’AQUILA E IL GIGLIO 1266: LA BATTAGLIA DI BENEVENTO
SALERNO EDITRICE ROMA
Composizione presso Grafica Elettronica, Napoli Copertina: Concept and graphic design: Andrea Bayer (www.andreabayer.it)
edizione pdf: novembre 2015 ISBN 978-88-6973-120-4 a 1 edizione cartacea: novembre 2015 ISBN 978-88-6973-000-9 a
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Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2015 by Salerno Editrice S.r.l., Roma
P REM E S SA DUE RE F RA STORIA E M ITO
1. All’ombra del Poeta Nella landa che dalle sponde del mare porta alle pendici dell’immensa montagna circondata da rocce, i due poeti procedevano cauti, cercando una via d’accesso alla salita. Improvvisamente, alcune persone comparvero e si avvicinarono, sicché i viaggiatori li interpellarono, chiedendo informazioni sulla strada. Dal gruppo si distaccò una figura che si rivolse a uno dei letterati, quello che, curiosamente, proiettava un’ombra, chiedendogli se si fossero mai conosciuti in terra. L’uomo era bello, biondo e di aspetto nobile, benché deturpato da due ferite: un taglio in viso e una ferita al petto. Siamo, molti l’avranno intuito, nel canto iii del Purgatorio, dove avviene l’incontro fra Dante, Virgilio e l’anima di Manfredi, il re di Sicilia caduto in battaglia a Benevento. Ne segue un colloquio carico di pathos, nel quale Manfredi spiega che grazie all’infinita misericordia di Dio egli aveva potuto salvarsi, pentendosi all’ultimo istante dei suoi peccati, benché fosse stato scomunicato. Il ritratto dantesco di Manfredi è indubbiamente segnato dalla descrizione fisica, brevissima, ma condensata in un verso di tale efficacia da esser divenuto proverbiale: « Biondo era e bello e di gentile aspetto ».1 In tal modo, Dante ha eternato un’immagine ben precisa di Manfredi: il giovane bello e sfortunato, colpito da un destino improvvido. Efficace sul piano letterario, tale immagine è però parziale e falsante, tanto che lo stesso testo dantesco, proseguendo nella lettura, mostra un ritratto ben piú articolato. L’incisività del verso sull’aspetto estetico del re ha fatto premio sugli altri, nei quali il poeta dimostra un atteggiamento comunque critico nei confronti di Manfredi. In effetti, dato che lo scopo dell’episodio è mostrare la grandezza della misericordia divina, in grado di mondare anche i peccati piú gravi, Dante ha appositamente scelto quale protagonista una figura che in vita era stata controversa e la cui immagine – in gran parte costruita 7
premessa dalla propaganda guelfa e pontificia – era negativa. La stessa anima di Manfredi in effetti ammette che « Orribil furon li peccati miei / ma la bontà infinita ha sí gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei ».2 Ancora, il Manfredi di Dante fa una mossa che quello reale non avrebbe mai compiuto: durante il suo monologo rinnega clamorosamente i genitori, l’imperatore Federico II e la sua amante Bianca Lancia d’Agliano, saltando una generazione e presentandosi quale discendente della nonna paterna: « Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi, / nepote di Costanza imperadrice” ». La cautela del Manfredi purgante potrebbe essere legata alla volontà di celare l’imbarazzante circostanza della propria nascita illegittima (Federico e Bianca, infatti, non erano sposati), ma il rifiuto di qualsiasi ricordo del sangue svevo, col solo ricordo della normanna Costanza d’Altavilla sembra rimandare a un contesto politico piú complesso. Dante, in effetti, non sembra avere avuto una particolare simpatia per il padre di Manfredi, l’imperatore Federico II. L’uomo attorno al quale tanta storiografia fra Otto e Novecento ha costruito un mito, viene quasi ignorato dal poeta, che lo relega nell’Inferno, fra gli eretici del sesto cerchio, attribuendogli peraltro una citazione puramente cursoria nelle parole di Farinata degli Uberti, che lo menziona fra i suoi compagni di pena, rinchiuso nel sarcofago ardente: « Dissemi: “qui con piú di mille giaccio, / qua dentro è ’l secondo Federico / e ’l Cardinale e de li altri mi taccio” ».3 Insomma, nel Purgatorio Dante sembra voler svincolare lo stesso Manfredi dall’ingombrante figura dell’imperatore considerato eretico. Peraltro, neppure Corradino, il nipote di Manfredi, altrettanto sfortunato avversario di Carlo d’Angiò, ha uno spazio significativo nella poesia dantesca. Manfredi rimane dunque un unicum, forse perché piú legato alla memoria e alle tradizioni fiorentine, in quanto in stretti rapporti con quello stesso Farinata degli Uberti di cui il poeta, pur condannandolo all’Inferno, esalta la magnanimità. 2. Ripensando la battaglia Il Manfredi di Dante è dunque una figura sfaccettata e non unilateralmente positiva. Come spesso accade per i versi del poeta, però, è 8
premessa tale l’efficacia del ritratto iniziale (« Biondo era e bello e di gentile aspetto ») che quell’unico endecasillabo si è consolidato nell’immaginario collettivo, eternando l’immagine di Manfredi kalòs kai agathòs, bello e quindi anche buono, secondo i criteri dell’epica classica. Di conseguenza, come ha rilevato brillantemente uno dei biografi del sovrano siciliano, la battaglia di Benevento è comunemente presentata come una sorta di malvagio scherzo del destino ai danni di Manfredi, dato che « in fondo percepiamo la sua fine come ingiusta ».4 In che cosa consiste, però, questa ingiustizia? Alla narrazione “guelfa” degli eventi, che spiegava la clamorosa quanto imprevista vittoria di Carlo con la sacralità della sua missione, voluta dal papa e benedetta da Dio, ha replicato una versione “ghibellina”, appoggiata dall’autorità dantesca, che vedeva nella fellonia dei nobili e nell’« argento de’ Franceschi » il motivo della sconfitta di Manfredi. Col passar dei secoli, ovviamente, la prima spiegazione ha perso efficacia, mentre la seconda conserva intatta tutta la sua vitalità. Come si vedrà nelle prossime pagine, però, nessun cronista contemporaneo fa menzione di atti di corruzione da parte di Carlo d’Angiò e tale versione dei fatti sembra essersi diffusa non meno di mezzo secolo piú tardi, forse proprio in connessione con l’opera di Dante. L’elemento che forse ha piú impedito una corretta comprensione degli eventi del 1266 è stata la prevalente lettura della battaglia di Benevento come momento a sé, decontestualizzata e separata dagli avvenimenti precedenti. Nello studio di una guerra, invece, le ragioni puramente militari non sono mai completamente soddisfacenti. Come aveva già osservato con grande acume Lev Tolstoj nel suo Guerra e pace, all’occhio dello storico esse appaiono tali soltanto perché sono ricostruite ex post, a risultato già acquisito. Spesso la stessa capacità di agire di un pur abile comandante risulta fortemente condizionata dal contesto politico e sociale in cui egli si trova ad agire. Alla classica domanda se l’esito di un conflitto dipende solo dalle personali doti dei diversi comandanti e dall’imprevedibile ruolo della sorte o se questi sono solo alcuni dei protagonisti – non necessariamente di primo piano – in un quadro piú complesso, nel quale rientrano altri fattori politici, sociali, economici e culturali, la risposta ormai comunemente accettata è la seconda. 9
premessa La battaglia di Benevento va dunque considerata quale il drammatico momento conclusivo di una guerra fra Carlo e Manfredi che durava ormai da un anno, coinvolgendo l’intera penisola, e che aveva visto grandi vittorie angioine nel Lazio, in Lombardia e nella Campania settentrionale. Si trattava di successi che, agli occhi dei contemporanei, non potevano che certificare il favore divino che accompagnava la spedizione. Noi, ovviamente, restiamo scettici di fronte a tale interpretazione, ma fatto sta che Carlo d’Angiò e la maggior parte dei suoi uomini ci credevano. Il principe, sebbene assai meno devoto di suo fratello re Luigi IX di Francia (il futuro san Luigi), era cresciuto nello stesso clima di fervore religioso che caratterizzava la corte di Parigi, pervasa da un misticismo che nella società guerriera dell’aristocrazia francese prendeva le forme della Guerra Santa, un tema ossessivo nel pensiero e nella letteratura dell’epoca. Da piú di mezzo secolo, ormai, le crociate potevano rivolgersi a mete lontane da Gerusalemme, ma comunque proclamate importanti per la cristianità: Tolosa e Albi dove si rifugiavano gli eretici catari, le regioni orientali del Baltico popolate da slavi ancora pagani, le coste egiziane al fine di mettere sotto pressione i sultani che dominavano la Terrasanta. Non vi era dunque alcun motivo perché un regno tenuto da colui che veniva presentato come un fratricida scomunicato, che comandava un esercito composto in gran parte da mussulmani non potesse essere un legittimo obiettivo per una guerra santa. Un vero clima di crociata è evocato per esempio dal poeta francese Rutebeuf, piú noto come autore di testi satirici, che nel 1265 compose la Canzone di Puglia per invitare tutti a unirsi a Carlo d’Angiò nella guerra voluta da Dio contro il blasfemo Manfredi: « Vassalli che siete all’oste / o studenti vaganti / non siate cosí legati al mondo / non siate cosí incoscienti / da perder la grande luce / dei cieli ove mai fa buio: / ora si vedrà il vostro valore / prendete la croce! Dio vi chiama ».5 Nella mentalità dell’epoca, era facile interpretare gli eventi favorevoli come segni del favore divino verso un’impresa, dunque il conte di Provenza e il suo seguito lessero in tale direzione l’incapacità della flotta siculo-pisana di intercettare le navi che portavano Carlo e la moglie a Roma, l’inverno eccezionalmente mite che permise la rapi10
premessa da avanzata dell’esercito via terra e i primi successi militari in Lombardia e in Lazio. In un meccanismo che si autoalimentava, ogni vittoria alzava il morale dell’esercito e lo convinceva della sua invincibilità voluta da Dio, rendendo cosí piú facile la vittoria successiva. Giovanni Villani riporta una frase di Carlo d’Angiò che testimonia con efficacia la cieca convinzione da parte dell’aspirante re di stare compiendo una missione disposta dal Signore. Nel momento in cui stava per entrare nel regno, Carlo sarebbe stato raggiunto da un’ambasceria di Manfredi, che egli però respinse dicendo: « Ales, et dite moi a le sultam de Nocere: o gie metterai lui en enferne, o il mettra moi en paradis » (‘Andate e dite al sultano di Lucera: o io lo caccerò all’inferno, o egli mi manderà in paradiso?’).6 Questo clima di esaltazione, permise a Carlo di sfruttare al meglio l’aggressività e la baldanza che già gli appartenevano di carattere, conducendo una campagna che per rapidità di azione e di movimento sorprese alleati e avversari. Specularmente, la strategia difensiva di Manfredi, pur non priva di una sua logica, appariva completamente passiva. Approfittando anche della stagione invernale, il re di Sicilia si riprometteva di logorare le forze degli attaccanti obbligandole ad affrontare un assedio dopo l’altro in un periodo dell’anno in cui non era semplice procurarsi i rifornimenti per gli uomini e per i cavalli. Dopo qualche settimana, Manfredi avrebbe potuto dare battaglia contro un esercito stanco e indebolito, potendo contare su eccellenti probabilità di vittoria. Carlo d’Angiò, però, replicò impostando una vera e propria guerra di movimento. Conscio a sua volta dei propri problemi logistici, aveva deciso di correre dei rischi pur di non perdere tempo e giungere al piú presto al confronto decisivo. Le città campane, schieratesi al suo fianco, gli garantirono i viveri necessari per proseguire la campagna e le impreviste capacità dimostrate dalle truppe francesi nell’assaltare d’impeto le fortezze fecero il resto. Impressiona in effetti la facilità con cui l’esercito angioino riuscí a impadronirsi rapidamente dei castelli che gli sbarravano la strada: al nord come al sud, Vignarello, Capriolo, Palazzolo, Montichiari, Rocca d’Arce, San Germano e molti altri caddero tutti al primo assalto. Conquistare d’impeto una fortezza (diverso era il discorso per le città) in realtà non era impossibile e di fatto nel Medioevo accadde piú 11
premessa frequentemente di quanto noi pensiamo. Bastava disporre di un efficace fuoco di copertura che obbligasse i difensori a ripararsi e abbandonare i bastioni e possedere una sufficiente dose di incoscienza per lanciarsi all’attacco scalando le mura su precarie scalette di legno. Di entrambi gli elementi l’esercito di Carlo abbondava. Come altre regioni mediterranee, la Provenza era terra di balestrieri, una componente indispensabile degli equipaggi delle galee. Il conte d’Angiò se ne era portati dietro parecchie centinaia, forse alcune migliaia, sia nella sua spedizione via mare verso Roma, sia aggregati alla colonna terrestre. Con i loro tiri di copertura essi diedero un contributo fondamentale nella conquista dei castelli. In questo compito, una volta giunti a sud, furono poi affiancati dai fanti romani, che disponevano pure di macchine d’assedio mobili montate su carri. Quanto all’ardore dei combattenti, abbiamo già messo in rilievo il clima quasi fanatico, da crociata, che animava le forze angioine. Smontati da cavallo, protetti da una cotta di maglia che garantiva una buona libertà di movimento e animati da un’incrollabile fiducia nei propri mezzi e nel favore divino i cavalieri provenzali e francesi si dimostrarono temibili truppe d’assalto. Talvolta, come accadde ad Arce, la differenza di morale era tale che i difensori capitolarono senza combattere, alla sola vista della decisione con cui si muovevano all’assalto i nemici angioini. Carlo non ebbe né scrupoli né timori nello sfruttare allo stremo le proprie truppe e i propri cavalli. I risultati ottenuti dall’esercito angioi no sono impressionanti: in poco piú di un mese, fra novembre e dicembre, esso percorse Piemonte, Lombardia, Emilia, Romagna, Marche, Umbria e Lazio, per giungere a Roma, aprendosi la strada combattendo attraverso il Settentrione. L’attacco al regno durò poco piú di un mese. Per usare un termine oggi in voga fra gli storici militari, la military effectiveness (‘efficacia operativa’) delle truppe angioine fu eccezionale, grazie alla riuscita combinazione fra la nitidezza degli obiettivi strategici, la guida decisa di Carlo e il morale altissimo. La blitzkrieg angioina mise in grave difficoltà i suoi avversari e, alla fine, la battaglia di Benevento ebbe luogo nelle circostanze opposte a quelle previste da Manfredi. Le truppe di Carlo, tutt’altro che logorate dai primi scontri, si presentarono sul campo con il morale alle stel12
premessa le, convinte della propria supremazia e dell’incondizionato favore divino. I cavalieri di Manfredi erano invece demoralizzati dal cattivo andamento della guerra e si trovavano con i ranghi assottigliati dalle perdite e dall’essere stati dispersi a presidiare la lunga linea di confine (basti pensare che 2000 militi furono mandati a custodire l’Abruzzo agli ordini di Corrado di Antiochia). Ancora, a causa della propaganda pontificia e dei crescenti costi della guerra, tra la popolazione del Regno il malcontento verso Manfredi doveva essere piú diffuso di quanto comunemente immaginiamo. Nel momento della guerra, insomma, venivano al pettine i nodi della cruenta conquista del potere effettuata da Manfredi otto anni prima e i limiti del sistema di governo da lui creato in seguito. La mancanza di un retroterra affidabile, il rapido schierarsi a favore di Carlo di molte località campane subito dopo le prime vittorie del conte di Provenza e la stessa fuga di parte dei nobili del Regno durante la battaglia di Benevento furono sicuramente favoriti dallo scarso coinvolgimento delle comunità urbane e dell’aristocrazia in un apparato di potere nel quale aveva un ruolo predominante una ristretta cerchia di famiglie imparentate col sovrano. In queste circostanze, la superiore abilità tattica dimostrata da Carlo durante lo scontro serví solamente a rendere schiacciante una vittoria le cui radici affondavano negli eventi dei mesi e degli anni precedenti. 3. Il mito e la storia Non sembra dunque esserci stata alcuna ingiustizia del destino nell’esito della battaglia di Benevento, che fu invece il frutto della micidiale combinazione fra il talento di Carlo d’Angiò come capo militare, le capacità diplomatiche e propagandistiche della Curia pontificia e, infine, le stesse debolezze di Manfredi, che almeno nelle regioni settentrionali del proprio regno non godeva del consenso di una parte consistente della nobiltà e delle comunità urbane. In realtà, l’idea dell’ “ingiustizia” dell’esito della battaglia di Benevento è legata a una piú generale operazione di costruzione propagandistica volta a esaltare per motivi politici la figura di Manfredi e compiuta dalla storiografia risorgimentale e sabauda, proprio a partire dai celebri versi 13
premessa danteschi. Il mito di Manfredi nacque subito dopo la sua morte, ma si affermò davvero solo fra Otto e Novecento, con finalità ideologiche chiaramente evidenti, miranti a identificare nel suo regno una « prefigurazione dello Stato nazionale italiano ».7 Il 30 marzo 1282 le comunità siciliane, mosse da un misto di volontà autonomistica, rivendicazioni fiscali e nostalgie normanne, si ribellarono a Carlo d’Angiò. Era la cosiddetta Rivolta del Vespro che, dopo un brevissimo periodo di autogoverno, portò l’isola nelle mani della dinastia spagnola dei re di Aragona. Trascurando quest’ultimo dettaglio, i Vespri siciliani entrarono a far parte di quel piccolo pantheon di episodi storici di cui il Risorgimento volle a forza dare una lettura nazionalistica, in modo da farvi affondare le proprie radici. Un’opera di Verdi, un quadro di Hayez e una molteplicità di riferimenti in altre opere e operette (fra cui lo stesso Inno di Mameli), resero l’evento una sorta di luogo comune retorico nel quale Carlo d’Angiò, veniva raffigurato nelle vesti dell’avido invasore straniero. Se Carlo aveva il compito di rappresentare il crudele oppressore, specularmente i suoi avversari, Manfredi prima e Corradino poi, dovevano a loro volta diventare modelli positivi, di eroici quanto sfortunati oppositori del tiranno. Non poteva essere altrimenti, d’altronde, dato che nelle loro vene scorreva il sangue di Federico II, di quello stupor mundi il cui mito – già risalente al Medioevo – fu programmaticamente alimentato dalla propaganda sabauda e fascista al fine di farne un precursore laico e anticlericale dell’Unità d’Italia.8 La contrapposizione fra il malvagio e straniero Carlo e l’italiano Manfredi si concretizza anche sul piano fisico. Se per lo Svevo facevano ovviamente fede i versi di Dante, per Carlo si selezionavano accuratamente solo alcune parole di una descrizione prevalentemente elogiativa scritta da Giovanni Villani. Cosí infatti il guelfissimo cronista fiorentino presentava il sovrano: Questo Carlo fu savio, di sano consiglio, e prode in arme, e aspro, e molto temuto e ridottato da tutti i re del mondo, magnanimo e d’alti intendimenti, in fare ogni grande impresa sicuro, in ogni aversità fermo, e veritiere d’ogni sua promessa, poco parlante, e molto adoperante, e quasi non ridea se non poco, onesto com’uno religioso, e cattolico; aspro in giustizia, e di feroce riguardo; grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso,
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premessa e parea bene maestà reale piú ch’altro signore. Molto vegghiava e poco dormiva, e usava di dire che dormendo tanto tempo si perdea. Largo fu a’ cavalieri d’arme, ma covidoso d’aquistare terra, e signoria, e moneta, d’onde si venisse, per fornire le sue imprese e guerre. Di gente di corte, minestrieri o giucolari, non si dilettò mai.9
Ed ecco cosa rimane del ritratto sotto la penna dello storico tedesco, ma naturalizzato fiorentino, Robert Davidsohn: « Personalmente, gli era ignoto ogni impulso di benevolenza e la sua avidità era illimitata […] quando venne in Italia egli era nell’età del massimo vigore virile, di alta statura ed esperto nell’uso delle armi. Il suo viso giallo, quasi del colore dell’oliva, era deturpato da un grande naso ». Persino il fatto che Carlo non avesse amanti e fosse fedele alla moglie diventa specchio « di una frigida personalità. A lui mancava assolutamente quella piccola dose di spensieratezza che distingue l’uomo serio dal brontolone ». Insomma, si trattava di « una delle piú spiacevoli figure di sovrano del suo secolo ».10 Lo studioso, che scrisse queste pagine nel 1908, volgeva con sistematicità in negativo le parole del Villani, mettendo in risalto soprattutto un tratto caratteriale, la bramosia di denaro, e alcuni cenni sulla descrizione fisica, che prediligono ovviamente gli elementi critici. Avido, olivastro e con un naso pronunciato: la descrizione rimanda chiaramente allo stereotipo dell’usuraio ebreo. Certo nessuno poteva ragionevolmente sostenere che nelle vene del capetingio vi fosse sangue giudaico, ma con una sorta di contrappasso fisiognomico, la sua natura gretta e avara si esplicitava in una fisicità caricaturalmente semitica, che si contrapponeva ai tratti fieramente ariani del biondo Manfredi. Non era dissimile l’atteggiamento di altri studiosi contemporanei. Nell’Italia della breccia di Porta Pia e del Non possumus, Carlo d’Angiò venne ad assumere il ruolo del despota straniero e papalino, con un approccio tanto piú paradossale in quanto portato avanti dalla storiografia sabaudista, a sua volta intenta ad esaltare l’italianità di una dinastia che nel Duecento non era meno francofona ed estranea alla penisola di quanto fossero gli Angiò. Gli studiosi piú vicini ai Savoia rifiutarono a lungo ogni legittimità ai sovrani angioini. Come osserva15
premessa va il napoletano Gennaro Maria Monti, fra Otto e Novecento gli storici piemontesi parlavano degli Angiò come dei “provenzali” anche riferendosi a sovrani ormai da due o tre generazioni nati e radicati nel Meridione.11 Insomma, con questa operazione, la corona napoletana veniva screditata in quanto preda degli “stranieri”, Angiò prima, Aragona, Asburgo e Borboni poi. Il discredito colpiva parallelamente le élites meridionali, incapaci evidentemente di governarsi da sé e in grado soltanto di affidarsi al comando di re non autoctoni. Tale lettura proseguí anche durante gli anni del Fascismo, quando Federico II e Manfredi vennero rivestiti della camicia nera, quali prefigurazioni dell’anima anticattolica e antifrancese del Regime. In una narrazione volutamente sorda alle contemporanee riflessioni della storiografia piú agguerrita,12 per decenni venne proposta una lettura manichea dei due personaggi, nella quale tutto il bene stava dalla parte di Manfredi e tutto il male da quella di Carlo, rendendo l’immagine di quest’ultimo talmente negativa che anche la storiografia cattolica esitava a prenderne le difese. A poco, in questo contesto, sono valsi i tentativi, come quello recentemente condotto da Enrico Pispisa, di restituire all’ultimo re svevo di Sicilia una piú complessa e sfaccettata dimensione storica.13 Proprio le ricerche piú accurate hanno sottolineato invece i profondi legami fra il governo di Manfredi e quello di Carlo. Dopo averlo sconfitto in battaglia, fu proprio l’angioino il piú coerente continuatore della politica dell’ultimo svevo: governo del Mezzogiorno tramite uno stretto accordo con l’aristocrazia baronale, mantenimento di un apparato amministrativo capillare e centralizzato, impegno costante per la costruzione di un’area di egemonia nell’Italia settentrionale e una proiezione al di là dell’Adriatico che da un lato garantisse il controllo del canale di Otranto e dall’altro mantenesse in vita il sogno di impadronirsi di Costantinopoli e della corona imperiale d’Oriente.14 Nel Settentrione, alla rete dei rettori regi nominati da Manfredi si sostituí il cosiddetto “siniscalcato di Lombardia”, creato da Carlo; in Toscana i diritti imperiali, passati al principe di Taranto, furono trasferiti per opera papale nelle mani dell’angioino. Nei Balcani, Manfredi aveva inviato forti soccorsi militari contro l’imperatore bizantino Mi16
premessa chele VIII Paleologo al despota d’Epiro Michele II e, vedovo della prima moglie, ne sposò la figlia Elena. Carlo d’Angiò, dal canto suo, si impadroní dell’Albania, che intendeva utilizzare come trampolino per una spedizione – mai portata a compimento – volta alla conquista di Costantinopoli. Anche gli strumenti con cui Carlo conduceva la sua politica interna ed estera furono a lungo comuni con quelli di Manfredi. Egli mantenne in servizio una buona parte degli ufficiali regi nominati dall’ultimo svevo (che vennero parzialmente epurati soltanto dopo la grande rivolta del 1268 legata alla discesa di Corradino), seppe utilizzare a suo vantaggio le capacità dell’eccellente cancelleria creata da Federico II e salvaguardò la stessa colonia saracena di Lucera, pur limitandone il peso militare. Come Manfredi, infine, anche Carlo dovette d’altronde scontrarsi col papato. Se già non erano mancati gli screzi fra Carlo e lo stesso Clemente IV, con il suo successore, il piacentino Gregorio X, si giunse quasi alla rottura, dato che il pontefice voleva limitare il potere del nuovo re di Sicilia e ne bloccò il tentativo di far eleggere al trono imperiale il nipote Filippo l’Ardito. Le cose peggiorarono ulteriormente col successore Niccolò III, che revocò a Carlo la carica di senatore e assunse direttamente il governo di Roma. Fu solo la minaccia aragonese, dopo la rivolta siciliana del 1282, a far riavvicinare precipitosamente la Santa Sede e la corte di Napoli. Nemici sul campo, Manfredi e Carlo incarnarono dunque una comune idea della politica necessaria al Mezzogiorno medievale. D’altronde i due, al di là dell’inimicizia, conservarono sempre rispetto reciproco: Manfredi, nel Manifesto ai Romani, esaltò le nobili origini di Carlo, deplorando che fosse diventato uno strumento della politica pontificia, mentre a sua volta l’Angiò assicurò un’onorevole sepoltura a quel rivale di cui gli stessi letterati francesi, come vedremo, non potevano esimersi dal riferire le virtú di cavaliere e uomo di cultura. In questa prospettiva, esiste un brano nel quale il cronista angioino Andrea Ungaro mette in bocca a Manfredi un discorso che contiene una clamorosa profezia ex post non priva di interesse. Preparandosi alla battaglia, infatti, il re di Sicilia avrebbe pronunciato un duro atto d’accusa contro l’avidità dei suoi parenti, che sarebbero stati i veri responsabili delle scelte sbagliate da lui compiute e che gli avrebbero 17
premessa reso nemici il papa e i nobili del Regno. Pertanto si sarebbero meritati la dura sorte che Carlo d’Angiò avrebbe riservato loro: Se morirò, morirò da re, concludendo gloriosamente la mia vita per il regno: non pensiate infatti che ci sia una terza via tra vincere e morire, ossia che io sia preso vivo. Invece voi, miei consanguinei, che non combattete per il regno e quindi volentieri sfuggireste la morte, per quanto nobile, dato che mi avete reso odioso a tutti i miei amici nel regno – poiché su vostro suggerimento alcuni li feci imprigionare, altri li feci mutilare, altri uccidere – e non mi avete mai permesso di riconciliarmi con la madre Chiesa, vi vedrò anche dopo morti, con la mia anima, uccisi vergognosamente o rinchiusi in turpe prigionia, con pieno merito!15
Non c’è dubbio che l’idea che Carlo potesse essere il vendicatore dei presunti torti subiti da Manfredi ad opera dei parenti è pura propaganda. Essa però ci mostra come l’opinione pubblica dell’epoca potesse percepire una certa vicinanza non solo politica, ma anche spirituale fra i due rivali al trono siciliano, che ai nostri occhi appaiono invece come nemici assoluti e inconciliabili.
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I UN REG NO CONTE SO
1. Biondo, bello e illegittimo: Manfredi Il 13 dicembre 1250, a Castel Fiorentino, in Puglia, Federico II di Svevia, re di Sicilia e imperatore morí, alle soglie dei 56 anni di età. La scomparsa del grande sovrano giungeva al culmine di un periodo di crescenti difficoltà per la corona. Il Regno di Sicilia era stremato dalla pressione fiscale volta a finanziare le campagne militari del sovrano contro i comuni dell’Italia settentrionale. Anche queste, d’altronde, erano terminate assai male, sicché negli ultimi due anni Federico aveva dovuto assistere alla perdita di importanti città come Parma, Como e Modena – tutte passate al campo avversario – e sopportare la perdita dell’intero tesoro regio nella disastrosa battaglia di Vittoria, presso Parma, il 18 febbraio 1248, nonché la cattura di suo figlio Enzo da parte dei bolognesi nella disfatta della Fossalta, il 24 maggio 1249. In tutto il dominio, da sud a nord, serpeggiavano pulsioni di rivolta, che nell’ottobre del 1250 culminarono a Firenze, nell’insurrezione del cosiddetto “Primo Popolo” e nella cacciata del vicario imperiale. Il testamento di Federico lasciava la successione al regno di Sicilia al figlio maggiore Corrado IV, a cui seguivano in linea il piccolo Enrico, detto Carlotto, dodicenne frutto del terzo matrimonio di Federico, con Isabella d’Inghilterra, e, infine, il diciottenne Manfredi.1 Quest’ultimo, sebbene fosse nato nel 1232 e quindi fosse maggiore di età rispetto a Enrico, pagava il fatto di esser nato illegittimo, da un’amante di Federico tradizionalmente identificata con la nobildonna piemontese Bianca Lancia d’Agliano. Federico sposò verso il 1248 la madre di Manfredi, ma questo tardivo atto di riparazione ebbe solo un effetto parziale: non piú bastardo, ma solo a posteriori legittimato, Manfredi era destinato a conservare a lungo la macchia della nascita. Il padre, che gli era sinceramente affezionato, lo compensò comunque con larghezza assegnandogli quale appannaggio il principato di Taranto e le contee di Tricarico, Montescaglioso e Gravina e con esse, 19
l’aquila e il giglio in sostanza, il dominio su tutta la Puglia. Manfredi ricevette inoltre l’incarico di governatore del regno di Sicilia in assenza di Corrado. Quando morí Federico II, Manfredi aveva già conquistato un ruolo di primo piano nella politica del Regno. Agli inizi del 1249 aveva sposato Beatrice di Savoia, figlia del conte Amedeo IV, uno dei principali alleati di Federico nell’Italia settentrionale. La sua educazione era stata accurata e, nonostante la giovane età, fra i 14 e i 16 anni aveva frequentato gli ambienti intellettuali di Parigi e di Bologna, imparando il latino, l’ebraico e il provenzale, nonché rudimenti di arabo e di tedesco. Era appassionato di caccia col falcone e dedito anche alla poesia e alla filosofia. Cultore dei valori cavallereschi, tenuti allora in gran conto presso le grandi corti europee, Manfredi colpí fortemente l’immaginario dei contemporanei e dei posteri, tanto che tutti i suoi estimatori lo ritraggono esaltando « il suo valore, la sua generosità, la cavalleria nei confronti delle donne, la sua accortezza e la sua abilità diplomatica, oltre che la popolarità fra i vassalli, come pure la capacità di risvegliare l’entusiasmo e destare ammirazione ».2 Anche un poe ta francese a lui politicamente avverso, Adam de Halles, detto il Gobbo, autore di un lungo poema encomiastico dedicato a Carlo d’Angiò e intitolato Du roi de Sezile, descriveva cosí Manfredi: « Buon cavaliere e prode e saggio fu Manfredi / cortese e dotato di ogni buona qualità / l’unica cosa che forse gli mancava era la fede / ma questa è colpa grave in un nobile e in un re ».3 Manfredi sembra esser stato assai legato al padre, col quale ebbe un rapporto affettivo che era mancato a tutti i suoi fratelli e le sue sorelle. Si dice che sia stato a fianco di Federico nella disastrosa campagna di Parma, sicuramente lo seguí nel suo ritorno in Puglia nel 1250 e fu l’unico tra i figli presente al capezzale paterno al momento della morte. Proprio la rivendicazione di questo rapporto particolare e privilegiato rappresentava la principale fonte di legittimazione del suo potere. Il principe di Taranto, una volta assunta la corona di Sicilia, decise infatti di riordinare e pubblicare il celebre trattato di falconeria scritto da Federico II. La metafora che Manfredi inserí nel proemio alla nuova edizione era fin troppo scoperta: come quella politica, l’opera letteraria dell’imperatore era rimasta incompiuta e spettava al sangue del suo sangue portarla a termine. Ancora, in alcune monete 20
i. un regno conteso coniate durante il suo regno, Manfredi si fece ritrarre con il capo appoggiato sul ventre dell’aquila imperiale, rappresentandosi dunque come il « figlio dell’aquila ».4 Ogni espediente propagandistico per rafforzare il potere di Manfredi era utile, dato che l’eredità lasciata da Federico ai suoi figli era tutt’altro che solida, tanto nell’Italia del nord, quanto nel Sud. Negli ultimi anni di vita dell’imperatore, in tutto il Regno di Sicilia si era diffuso un profondo malcontento per la politica dello Svevo che aveva alzato vertiginosamente il prelievo fiscale per sostenere, senza risultati apprezzabili, le sue grandi guerre in Lombardia. Nel 1246 una grande rivolta baronale guidata dal conte Tebaldo Francesco diede per la prima volta visibilità alla crescente disaffezione del Regno nei confronti del suo sovrano. La spietata repressione che ne seguí mostrò che Federico aveva tutte le intenzioni di farsi obbedire, con il terrore se non con l’amore, ma alla scomparsa dell’imperatore le tensioni tornarono ad esplodere ovunque. Le comunità urbane meridionali videro la possibilità di conquistare maggiore autonomia – sull’esempio delle loro consorelle settentrionali – e tentarono in piú occasioni di sottrarsi al dominio regio. In particolare, nella Terra di Lavoro (l’attuale Campania), le città di Napoli e di Capua e le contee di Caserta e Aquino si affrettarono a fare atto di sottomissione a papa Innocenzo IV. Fino alla morte di Federico, suo figlio Corrado IV aveva avuto l’incarico di governare la Germania, compito che aveva assolto con equilibrio e intelligenza, riuscendo tra l’altro a garantire un costante afflusso di cavalieri tedeschi all’esercito del padre. Dopo aver ereditato la corona siciliana, Corrado impiegò circa un anno per organizzare la sua spedizione italiana e arrivò nel Regno via mare agli inizi del 1252 alla testa di un forte contingente di combattenti teutonici, sui quali intendeva basare sia la repressione dell’opposizione politica, sia una successiva campagna di riconquista dell’Italia settentrionale. Manfredi fece buon viso a cattivo gioco e si mise a disposizione del fratello, garantendogli il proprio appoggio. Corrado doveva rapidamente consolidare il proprio potere e, tanto per chiarire subito quali fossero i rapporti nella famiglia regia, si dice che la prima cosa a cui provvide fu eliminare il fratello Enrico, facen21
l’aquila e il giglio dolo strangolare.5 In seguito, egli si dedicò alla repressione delle rivolte e nell’autunno del 1252 piegò militarmente Napoli, alla cui capitolazione fece seguito la resa di tutti gli altri ribelli campani. Dopo aver domato le città tirreniche, Corrado decise di ridimensionare drasticamente il potere di Manfredi, del quale evidentemente temeva la concorrenza. In poche settimane, il principe di Taranto vide i suoi piú stretti collaboratori, fra cui i nobili parenti di casa Lancia, esiliati e costretti a lasciare il regno, i suoi appannaggi drasticamente ridotti e le sue prerogative di governo cancellate. Non c’è da stupirsi se quando Corrado morí improvvisamente, il 21 maggio 1254, mentre preparava una grande spedizione contro la Lombardia, molti pensarono che Manfredi lo avesse avvelenato per sbarazzarsene. Non ci sono prove in tal senso e le accuse di avvelenamento fioccavano ogni volta che un principe scompariva prima della vecchiaia. Di sicuro, dati i rapporti fra i due, Manfredi non dovette dispiacersi della scomparsa di Corrado. Egli, comunque, con la morte del fratello non ereditava il trono di Sicilia, che passava invece al figlio di Corrado, Corrado detto Corradino, un bimbo di un paio d’anni di età prudentemente lasciato in Germania dal padre. Manfredi dunque se ne autoproclamò protettore – senza curarsi del fatto che prima di morire il re aveva affidato il medesimo incarico al nobile Bertoldo di Hohenburg, un marchese tedesco, stretto collaboratore di Federico, che ormai da vent’anni viveva nel sud Italia – e assunse la reggenza di Sicilia in nome dell’ignaro nipote. La situazione era assai difficile. Papa Innocenzo IV stava raccogliendo un esercito per invadere il Meridione e ben pochi fra i potenti del Regno erano disposti a schierarsi con il principe, su cui gravava il sospetto di fratricidio. Le città campane, pugliesi e siciliane cercavano piuttosto di assoggettarsi al papa, sperando di ottenere le stesse larghissime prerogative di autogoverno di cui godevano i comuni soggetti al pontefice in Lazio, Umbria, Marche e Romagna. La ricca e potente città di Messina cominciò a governarsi come un comune indipendente e intraprese una campagna per la conquista della Calabria meridionale, in modo da acquisire il pieno controllo dello stretto. Anche molti nobili guardavano al papa o si gettavano in autonome avventure di potere, mentre i mercenari tedeschi si strinsero per la 22
i. un regno conteso maggior parte attorno al marchese Bertoldo di Hohenburg, loro conterraneo, che a sua volta aprí trattative con il pontefice. Anche dalla Germania, peraltro, gli irritati parenti di Corradino facevano sapere che la reggenza di Manfredi a loro pareva piú un’espropriazione che una garanzia dei diritti del giovanissimo erede al trono. Il principe reggente dimostrò una notevole abilità e una forte dose di spregiudicatezza nell’affrontare i molteplici nemici interni ed esterni. Dopo aver tentato senza successo di costruire un’alleanza col papa contro i suoi rivali, egli decise di puntare con decisione sulla propria eredità sveva. Fu infatti presentandosi come il continuatore della politica paterna che egli riuscí a portare dalla sua parte la colonia mussulmana dei Saraceni di Lucera, gli ultimi discendenti degli Arabi di Sicilia, deportati e insediati proprio da Federico nella città pugliese e terrorizzati dalla prospettiva che un eventuale dominio pontificio li avrebbe visti dispersi o ridotti in schiavitú. La presa di Lucera, avvenuta il 2 novembre del 1254, cambiò drasticamente i rapporti di forze nel Meridione. Nella città era infatti custodito il tesoro della corona, grazie al quale Manfredi poté assumere al proprio servizio centinaia dei cavalieri tedeschi che Corrado aveva portato con sé e che si erano fermati nel Regno quali combattenti mercenari. Utilizzando al meglio questi abili guerrieri, il giovane svevo riuscí a infliggere pesanti colpi ai suoi avversari. Il 7 dicembre successivo, papa Innocenzo IV morí e il suo successore, Alessandro IV, commise il fatale errore di affidare la guerra contro Manfredi al cardinale Ottaviano degli Ubaldini, da tempo chiacchierato per le sue simpatie filosveve e per la scarsa convinzione con cui aveva comandato le forze pontificie contro Federico II prima e contro i suoi vicari poi. Senza smentirsi, l’Ubaldini condusse le operazioni militari contro Manfredi con una lentezza a dir poco sospetta, per poi accordarsi con il principe di Taranto e abbandonare il Regno senza quasi aver combattuto, nell’agosto del 1255. In questo contesto, a poco serví la scomunica fulminata da Alessandro IV contro Manfredi. Dopo la ritirata dell’esercito pontificio, l’opposizione collassò rapidamente e nel corso del 1256 il principe ebbe ragione della Calabria e della gran parte della Sicilia. La maggioranza dei nobili decise di sottomettersi a Manfredi, il quale, nella dieta di Barletta del febbraio 23
l’aquila e il giglio 1256, distribuí ricompense, perdoni e feroci punizioni. Seguí un anno di conflitti minori, trattative e, complessivamente, di consolidamento del potere nel regno, sinché finalmente, dopo aver fatto circolare ad arte la falsa voce che Corradino era morto lasciando il trono vacante, l’11 agosto 1258 Manfredi fu solennemente incoronato re di Sicilia nella cattedrale di Palermo. Dietro il fasto dell’incoronazione, persistevano però elementi di fragilità. L’aristocrazia del Regno era tutt’altro che compatta e fra i banchi della cattedrale palermitana si notavano le assenze di molti nobili che, pur chiamati a partecipare alla cerimonia, non volevano assentire a quella che, di fatto, era un’usurpazione.6 Bisogna ancora sottolineare che molte città dovettero essere assoggettate con la forza: Messina, Foggia, Oria e Brindisi, avverse a Manfredi, non si erano arrese se non dopo lunghi assedi. Napoli, prostrata dalla sconfitta del 1252, era tutt’altro che amichevole e L’Aquila e Erice ancora erano ribelli e furono piegate militarmente soltanto nel 1259 la prima e nel 1260 la seconda. Alcuni centri, è vero, ricevettero poi privilegi e esenzioni, ma la maggior parte delle comunità urbane non fu favorita dal re e continuò a riservargli una sorda ostilità.7 Manfredi decise di conseguenza di basare il suo potere sulla costruzione di una cerchia ristretta di collaboratori fidati, in gran parte scelti fra i parenti per linea materna. A costoro, in particolare, furono affidate nuove circoscrizioni feudali – contee e baronie – ritagliate a danno del demanio regio e dotate di ampi poteri. Il re richiamò dall’esilio i membri della famiglia Lancia e gli zii di Manfredi, Galvano e Federico, ebbero rispettivamente i titoli di gran maresciallo del Regno, governatore di Abruzzo e Terra di Lavoro e conte del principato di Salerno il primo e di conte di Squillace e vicario di Sicilia e Calabria il secondo. Un altro Lancia, Manfredi, fu giustiziere di Bari e terra d’Otranto e poi castellano di Messina. Sposo di una Lancia fu poi l’ammiraglio della flotta di Manfredi, il cipriota Filippo Chinard. Ramo cadetto dei Lancia erano i da Agliano, che espressero Giordano, conte di San Severino e vicario di Toscana, e Bonifacio, capitano di Molise e conte di Montalbano. Imparentati con il re per parte di madre erano anche i Maletta: Manfredi Maletta ebbe le contee di Gesualdo e di Mineo, il titolo di governatore di Manfredonia e fu came24
i. un regno conteso rario del regno ininterrottamente dal 1256 al 1266, con la responsabilità ultima di gestire le finanze pubbliche. Suo fratello Federico fu prima capitano di Capitanata e Lucera nel 1257, poi capitano di Sicilia, dove rimase ucciso nel corso di una ribellione. Ulteriormente uniti fra loro da legami matrimoniali, questi nobili rappresentavano una formidabile quanto ristretta élite di potere, legata a doppio filo al re.8 Manfredi, insomma, seppe governare con equilibrio e favorire una certa pacificazione interna del Regno, ma promosse anche la creazione di una ridotta oligarchia di potere, nella quale poca o nessuna voce in capitolo avevano i nobili meno vicini alla corte e, soprattutto, le comunità cittadine. Lo stato era stabile, ma al prezzo di molti rancori: piú di un fuoco covava sotto la cenere. 2. L’ostilità papale L’ascesa di Manfredi veniva guardata con sospetto e ostilità dalla curia pontificia. I papi rivendicavano la loro alta sovranità sul Meridione d’Italia da quasi due secoli, ossia da quando, nel 1059, papa Niccolò II aveva concesso al capo normanno Roberto il Guiscardo il titolo di conte di Puglia. Questa soggezione era stata ribadita da Federico II nei confronti di papa Innocenzo III, ma in seguito il re imperatore si era progressivamente emancipato dalla tutela della Curia, fino a diventarne un accanito avversario. Ora Manfredi sembrava avviato sulla stessa strada, dato che dopo un breve tentativo di dialogo, il principe di Taranto aveva assunto una posizione nettamente avversa al papa. Al momento dell’incoronazione palermitana regnava a Roma papa Alessandro IV, il nobile laziale Rinaldo di Ienne, un personaggio piuttosto incerto nelle sue mosse politiche, che non era riuscito a trovare altro modo per contrastare Manfredi se non colpire lui e i suoi seguaci con una serie di inutili scomuniche.9 Come vedremo, il nuovo re di Sicilia seppe approfittare dell’inazione pontificia per affermare la sua autorità anche nell’Italia comunale, proponendosi come punto di riferimento per quelle famiglie e quelle città che dieci anni prima avevano appoggiato il padre, Federico II. Morto Alessandro IV, il 29 agosto 1261 venne eletto papa il francese Giacomo de Troyes, 25
l’aquila e il giglio esperto di diritto e navigato diplomatico, che prese il nome di Urbano IV. Al momento dell’ascesa al soglio, Urbano era ormai ultrasettantenne e, nelle intenzioni dei cardinali, doveva essere una figura di transizione in attesa che il collegio definisse una linea di comportamento nei confronti di Manfredi, con il quale Ottaviano degli Ubaldini stava cercando di mantenere aperto un dialogo. A dispetto dell’età, però, il nuovo pontefice assunse rapidamente il controllo della situazione e decise di contrapporsi con durezza al re di Sicilia.10 Malgrado le aperture diplomatiche dell’Ubaldini, in effetti, il clima di ostilità fra il papato e il Regno perdurava e le iniziative di pace non erano certo aiutate dallo stesso Manfredi. Questi aveva infatti scatenato una vera offensiva militare contro lo Stato della Chiesa, mirando a strappare al pontefice il controllo delle Marche, che egli rivendicava, in realtà piuttosto arbitrariamente, come dominio regio. Urbano non esitò a replicare colpo su colpo e mobilitò consistenti risorse militari per fronteggiare l’offensiva dello Svevo. Il conflitto divampò con alterne vicende in tutta la regione dal 1262 al 1264 e vide affrontarsi, oltre alle milizie dei comuni guelfi e ghibellini della zona, i cavalieri tedeschi e i saraceni guidati dai vicari di Manfredi che si contrapponevano a un gran numero di mercenari arruolati in tutta Italia e posti agli ordini dei rettori pontifici.11 Insomma, la guerra fra il papa e il re era ormai combattuta su un vero campo di battaglia. Il pontefice, però, si rese conto di non essere in grado di far fronte alla pressione militare di Manfredi: era necessario un aiuto esterno, che Urbano IV decise di cercare nel fratello minore del re di Francia, Carlo, conte di Angiò. 3. Il fratello del re: Carlo d’Angiò Mentre il conflitto fra il papa e Manfredi andava degenerando in guerra aperta, portiamoci per un istante a Roma dove, in una difficile convivenza con l’autorità pontificia, da oltre un secolo esisteva un vivace e potente comune urbano. Nel 1261 il gruppo dirigente cittadino si era accordato per una riforma costituzionale che prevedeva la nomina vitalizia di un governatore – detto Senatore – che avrebbe dovuto assicurare la guida politica della città, al pari dei podestà che 26
i. un regno conteso reggevano i comuni settentrionali. La riforma era stata probabilmente sostenuta da Manfredi, che infatti avanzò immediatamente la propria candidatura. I suoi oppositori, però, gli contrapposero il nome del nobile inglese Riccardo di Cornovaglia. Dato che i due partiti si equivalevano, la situazione rimase in stallo fino all’agosto del 1263, quando, con un clamoroso cambio di fronte, il cardinale Riccardo Annibaldi, benché di famiglia ghibellina, propose e ottenne la nomina di Carlo d’Angiò. Carlo d’Angiò era il minore dei fratelli del re di Francia Luigi IX il Santo.12 Già dopo la morte di Federico II, papa Innocenzo IV aveva valutato l’ipotesi di rivolgersi alla casa capetingia per affidarle il regno di Sicilia e il giovane Carlo era stato proposto quale candidato, ma la freddezza dimostrata dal sovrano francese verso l’operazione fece fallire il tentativo. La carta angioina venne momentaneamente messa da parte, per poi essere giocata a sorpresa dieci anni dopo. Nel momento in cui venne nuovamente coinvolto nello scontro fra il papato e Manfredi per la supremazia in Italia, Carlo d’Angiò era un uomo ormai maturo, dato che era nato nel marzo del 1226 e aveva quindi 37 anni. Rimaneva però quello che Jacques Le Goff ha definito « l’enfant terrible della famiglia » capetingia.13 Ultimo dei sette figli di re Luigi VIII, sembrava destinato alla carriera ecclesiastica, ma alla morte del fratello Giovanni, nel 1232, gli subentrò nella carica di conte di Anjou (Angiò) e Maine, due regioni della Francia nord-occidentale. Nel 1245, papa Innocenzo IV, desideroso di avere l’appoggio di re Luigi contro l’imperatore Federico II, combinò il matrimonio fra Carlo e Beatrice di Barcellona, ereditiera della contea di Provenza, regione che ella portò in dote in occasione delle nozze, celebrate il 31 gennaio 1246. Le ricche città provenzali si opposero però all’avvento di un signore francese e soltanto nel 1257, con l’assedio e la presa di Marsiglia, Carlo riuscí ad avere definitivamente il controllo della regione. Partendo da qui, egli aveva progressivamente allargato il suo dominio a parte dell’Italia nord-occidentale, ottenendo la sottomissione di Ventimiglia, Cuneo, Alba e altri borghi vicini. Valoroso quanto arrogante, Carlo divise radicalmente l’opinione pubblica. Se quasi tutti riconoscevano le doti di Manfredi, il conte di Angiò fu oggetto di ammirazione da parte dei letterati francesi quan27
l’aquila e il giglio to di odio e disprezzo presso i poeti trobadorici provenzali. Anche i cronisti italiani si ripartirono fra chi lo vedeva quale strumento della volontà divina nella Penisola e coloro che ne sottolinearono soltanto l’avidità e, talvolta, la brutalità.14 Fu dunque a Carlo che il papa francese Urbano IV guardò per procurarsi un alleato che scendesse in Italia e soppiantasse Manfredi quale re di Sicilia. Le trattative, comunque, non furono facili. Il papato voleva assicurarsi un certo controllo sull’operato di Carlo una volta che questi fosse diventato re, cosa che ovviamente quest’ultimo non intendeva assolutamente concedere. Nel 1264 arrivò in Francia un nuovo ambasciatore, il cardinale Simone Montpince de Brie, un diplomatico abile ed esperto, che nel 1281 sarebbe diventato papa col nome di Martino IV. Grazie alla mediazione del legato, si giunse infine a un accordo che salvaguardava molte delle istanze pontificie e garantiva, almeno formalmente, la piena sottomissione a Roma del Regno, una volta conquistato. Nel frattempo il papa cercava anche di garantirsi i mezzi finanziari per sostenere la spedizione. Urbano IV riuscí infatti a mettere sotto pressione i banchieri di Firenze e di Siena, che avevano tutto l’interesse a mantenere rapporti d’affari con la Curia, nonostante la posizione politica filosveva espressa dalle loro città. Colpiti da scomunica, in quanto fautori di Manfredi, i grandi operatori finanziari toscani si trovarono presto obbligati a scegliere tra la fedeltà al governo dei loro comuni e i propri affari, dato che l’ostilità pontificia li tagliava fuori dal ricchissimo mercato della riscossione delle decime in Europa e dava ai loro debitori la scusa per non rimborsare puntualmente il dovuto. Un finanziere senese, Andrea de’ Tolomei, descriveva cosí la situazione in una lettera inviata da Troyes nel 1262, evocando il rischio che una condanna papale desse occasione agli ufficiali francesi di sequestrare tutti i beni dei toscani: « E se ’l papa mandase chasuso, qu’i Senesi fusero presi in avere e in persona, sichome si dicie que vuole fare, si credo que sarà ubidite il suo mandato, per chasgiòne que ci à ria giente, che volentieri dirobarebere altrui; e darane la chasgiene del papa, e farano per direbare altrui, se potrane ».15 Come prevedibile, il fascino dell’argento pontificio e la paura delle rappresaglie ebbero 28
i. un regno conteso rapidamente ragione degli scrupoli politici, sicché tra la fine del 1263 e l’inizio del 1264, quasi tutti i principali esponenti delle casate mercantili di Firenze e di Siena fecero atto di sottomissione al papa e accettarono, in cambio del perdono, di fornirgli forti somme di denaro. Una volta reperiti i mezzi per finanziarlo, Carlo era sotto piú di un aspetto il personaggio ideale a cui affidare l’impresa. Non solo, infatti, egli godeva dell’appoggio della piú importante dinastia regnante europea, ma aveva anche il carattere avventuroso ideale per affrontare una sfida assai pericolosa. Attaccare il Regno di Sicilia era infatti un’impresa non poco azzardata: Manfredi disponeva di grandi risorse finanziarie e militari, poteva schierare un consistente esercito e contava su alleati potenti, che controllavano gran parte dell’Italia centrosettentrionale, sicché era difficile pensare di poterlo seriamente minacciare. L’impresa, insomma, era ardita quanto rischiosa. Niente di piú desiderabile per Carlo, che già in molte occasioni aveva mostrato il suo carattere aggressivo e bellicoso, tanto che re Luigi IX aveva dovuto non di rado frenarlo per non essere coinvolto in continui conflitti con le potenze confinanti. Cresciuto nel mito della cavalleria, il conte di Angiò era appassionato di tornei, ai quali si dedicava con perizia e valore, e non aveva paura delle guerre: aveva dimostrato le sue capacità militari piegando in armi una vasta rivolta della Provenza, fra il 1251 e il 1252, al termine della quale aveva rivolto le sue ambizioni verso il Piemonte sud-occidentale, combattendo in piú occasioni contro il comune di Asti per la supremazia nella regione. C’è anche chi dice, malignamente, che il pacato Luigi IX il Santo abbia favorito le ambizioni mediterranee del fratello anche per allontanare dalla corte una pericolosa testa calda. Ma proprio di una testa calda aveva bisogno il papa in quel momento.
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II L’ITALIA DI MAN F REDI
1. L’offensiva ghibellina Mentre il papa e la curia cercavano un candidato da contrapporre a Manfredi, quest’ultimo continuava a consolidare il proprio potere. L’ascesa del nuovo re di Sicilia era resa ancora piú preoccupante – dal punto di vista della Chiesa – dal generale peggioramento del quadro politico nell’Italia centrosettentrionale. Dopo la sua incoronazione, infatti, il figlio di Federico aveva rapidamente allargato la sua azione a tutta l’Italia, con l’evidente ambizione di subentrare al padre anche quale punto di riferimento di tutto il partito imperiale (ghibellino) delle città comunali. Manfredi voleva infatti affermarsi come il successore di Federico nel ruolo di protettore e coordinatore delle forze filosveve nell’Italia comunale. A tal fine egli creò, sul modello paterno, una propria rete di ufficiali e vicari nel centro-nord, benché a dir la verità egli non potesse in alcun modo rivendicare autorità al di fuori del regno di Sicilia. Il chierico e intellettuale romano Saba Malaspina scrisse fra il 1284 e il 1285 una documentata e dettagliata Cronaca degli anni di Carlo d’Angiò. Benché vicino agli ambienti della curia, Saba non era pregiudizialmente ostile a Manfredi e mantenne un atteggiamento distaccato e spesso critico nei confronti del principe angioino, rendendo in tal modo preziosissima la sua opera, che utilizzeremo spesso nelle pagine a venire.1 Egli sintetizza cosí con grande efficacia il progetto di Manfredi: Avuto il debito consiglio, Manfredi nominò suo capitano e maestro dei ghibellini il marchese Oberto Pelavicino, mandò quali suoi vicari generali in Toscana Giordano di Agliano – suo consanguineo, a cui aveva già concesso il comitato di San Severino dopo averne mandato in esilio il titolare, conte Ruggero – e nelle Marche Percevalle Doria, suo affine e uomo di corte. A tutti forní grandi contingenti di cavalieri, provvedendo periodicamente a pagarne il salario tramite le casse dello stato.2
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ii. l’italia di manfredi Nell’Italia comunale, in effetti, Manfredi aveva vasti margini di manovra. Contrariamente alle speranze del fronte pontificio, la morte di Federico II non aveva causato il collasso dello schieramento filoimperiale. Milano e le sue alleate avevano pagato un prezzo altissimo, umano e finanziario, per respingere le offensive di Federico II e dopo il 1250, terminata la tensione della guerra, proprio due tra le capofila di questa lotta, Milano stessa e Piacenza, caddero nel caos. A Piacenza, fino a quel momento schierata nel campo filoecclesiastico (guelfo), nel luglio del 1250 il popolo prese il potere e attribuí poteri speciali al suo leader Oberto Iniquità, perché pacificasse la città permettendo il rientro dei ghibellini che ne erano stati scacciati durante la guerra. Tale decisione trovò però l’opposizione della potente consorteria dei Fontana. Sconfitti in una battaglia per le vie della città, i Fontana e i loro seguaci si rifugiarono nei loro castelli del contado e iniziarono una guerriglia contro il nuovo regime popolare che, conseguentemente, si avvicinò al fronte svevo e nel 1253 attribuí la signoria sulla città al vicario imperiale Oberto Pelavicino. Oberto governò Piacenza in stretta collaborazione col capo ghibellino locale, Ubertino Landi, non senza però continui conflitti armati con gli avversari guidati dai Fontana.3 Ancora piú grave fu quanto accadde a Milano, l’indiscussa leader del fronte guelfo. L’esercito milanese era stato disastrosamente sconfitto da Federico II a Cortenuova nel novembre del 1237, ma la città era miracolosamente riuscita a risollevarsi e a continuare la lotta grazie all’attiva partecipazione dei ceti artigianali e produttivi, ai quali erano stati aperti grandi spazi di governo. Terminata l’emergenza bellica, però, la nobiltà cittadina tentò di riprendere il controllo della vita politica e ottenne una grande vittoria con l’allontanamento del legato pontificio Gregorio da Montelongo: Gregorio, che era stato il primo fautore del coinvolgimento del popolo nella guerra, fu infatti nominato patriarca di Aquileia e trasferito nel 1252. La tensione fra i popolari e gli aristocratici raccolti attorno all’arcivescovo Leone da Perego crebbe progressivamente finché la guerra civile scoppiò aperta nel 1257. Negli scontri per le vie cittadine le milizie del popolo si affermarono militarmente e Leone dovette lasciare Milano con i suoi seguaci, proseguendo il conflitto dal contado. Una pacificazione nel 31
l’aquila e il giglio 1258 si rivelò effimera e nel 1259, dopo una nuova stagione di scontri di piazza, i popolari presero definitivamente il potere, affidandosi alla guida del nobile Martino della Torre, proclamato “anziano perpetuo” della società di Popolo milanese e, di fatto, signore della città.4 In questa caotica situazione, Manfredi poté trovare eccellenti margini d’azione. Egli seppe gettare sul piatto sia il prestigio che gli veniva dall’eredità paterna, sia le consistenti risorse economiche e militari di cui disponeva, creandosi rapidamente una rete di importanti alleati fra Lombardia e Toscana, sicché nel biennio 1259-’60 egli conobbe una spettacolare serie di successi politici e militari. Dopo la morte di Federico II, le città filosveve del Settentrione si erano raccolte attorno alle figure dei due vicari imperiali ai quali Federico aveva affidato il governo della regione, il marchese Oberto Pelavicino (piú noto come Pallavicino) per la Lombardia e il Piemonte e Ezzelino III da Romano per il Veneto. Dopo la scomparsa di Corrado IV, però, i due avevano progressivamente preso posizioni diverse, dato che Oberto aveva sviluppato i propri legami con Manfredi, mentre Ezzelino guardava piuttosto a Corradino e, in alternativa, sosteneva la candidatura di Alfonso X di Castiglia al trono imperiale. Nella tarda estate 1259, scoppiò infine il conflitto aperto fra i due vicari, che si contendevano il dominio su Brescia. Per contrastare Ezzelino, il ghibellino Oberto Pelavicino e il guelfo Azzo d’Este, signore di Ferrara, si unirono in un’alleanza rapidamente estesa a un altro storico sostenitore della Chiesa, il comune di Milano, su cui all’epoca dominava Martino della Torre. Proprio su Milano puntò Ezzelino, che sperava di impadronirsene con l’appoggio degli aristocratici locali. Le forze popolari di Martino della Torre, però, lo obbligarono a ripiegare verso l’Adda. Qui, presso Cassano, il 27 settembre Ezzelino fu aggredito dalle forze del Pelavicino e di Azzo d’Este, venne sconfitto e, ferito da un colpo di balestra, morí in prigionia pochi giorni dopo. Non era per niente chiaro, secondo una rigida logica di schieramenti, chi avesse vinto a Cassano d’Adda. Il fatto che Ezzelino fosse stato sconfitto da una coalizione che comprendeva i guelfi Azzo d’Este e Martino della Torre indusse il cronista padovano Rolandino a 32
ii. l’italia di manfredi celebrare la battaglia come una vittoria della Chiesa.5 Fu la miope politica di Alessandro IV a trasformare la battaglia in un successo ghibellino. In odio a Manfredi e ai suoi alleati, infatti, il pontefice non tentò di approfittare dei contrasti tra i vicari imperiali per attirare il Pelavicino nel suo campo, ma condannò tutti coloro che gli si erano affiancati. In particolare, rifiutò categoricamente di nominare arcivescovo di Milano un parente di Martino, Raimondo della Torre. Questi provvedimenti non fecero però che aggravare la situazione, spingendo proprio Milano nello schieramento ghibellino. Ben lungi dal cambiare posizione, infatti, di fronte alle pressioni pontificie Martino della Torre strinse ancor di piú la sua alleanza col Pelavicino e nel 1260 lo chiamò in città quale capitano di guerra. La rabbiosa reazione del papa, che scomunicò Martino e tutto il consiglio comunale di Milano, fu vana: in questa maniera tutta la Lombardia era passata allo schieramento vicino al re di Sicilia. Il fronte si spostava cosí in Toscana, dove in quel momento si contrapponevano Firenze, filopapale, e la sua avversaria da sempre alleata agli svevi, Siena. Quest’ultima, minacciata militarmente dai Fiorentini e dai loro alleati, chiese l’aiuto di re Manfredi che inviò nella regione il conte Giordano di Agliano con un contingente di 400 cavalieri pesanti tedeschi. Questi ultimi ebbero un ruolo decisivo nella battaglia di Montaperti, il 4 settembre 1260, rompendo con una carica lo schieramento fiorentino e permettendo cosí ai senesi di cogliere una clamorosa vittoria. I morti di Firenze e degli altri centri guelfi di Toscana furono migliaia, i prigionieri ancora di piú: la città del giglio, prostrata, dovette capitolare, riaccogliere i ghibellini e mettersi agli ordini del loro leader, Farinata degli Uberti. Alla resa di Firenze seguirono quelle di Prato e poi di Arezzo; in tutta la Toscana, la sola Lucca riuscí a resistere alla montante marea degli alleati di Manfredi. Soltanto nell’Italia orientale, il panorama politico si presentava piú avverso al re di Sicilia. In Veneto, la caduta di Ezzelino da Romano e di suo fratello Alberico, signore di Treviso, aveva portato all’affermazione di regimi guelfi, oltre che a Padova, già liberata dal signore ghibellino nel 1256, anche a Vicenza e nella stessa Treviso. A Verona si stava affermando la famiglia della Scala, che manteneva una linea politica prudente, nella quale convivevano continuità col passato ez33
l’aquila e il giglio zeliniano e dichiarazioni filoecclesiastiche di facciata. Fra Emilia e Romagna si ergeva invece il piú robusto bastione guelfo del settentrione, capeggiato dal comune di Bologna e dal signore di Ferrara, il marchese Azzo d’Este. Nel Lazio l’influenza di Manfredi era consistente. Anche se i ripetuti soggiorni pontifici a Orvieto e a Viterbo tenevano saldamente le due città nel campo della Chiesa, la potente famiglia filosveva degli Annibaldi esercitava una forte influenza su Tivoli e Ostia e a Roma il partito vicino a Manfredi e quello avverso si equivalevano, creando una situazione di stallo politico. Nell’Urbe e nei territori circostanti il re di Sicilia manteneva una forte schiera di seguaci e una temibile rete di cospiratori: nel 1257 i suoi sicari raggiunsero e uccisero uno dei nobili ribelli del regno, Pietro Ruffo, che si era rifugiato a Terracina; tre anni dopo la stessa sorte toccò agli ambasciatori mandati a Roma da Corradino ad annunciare che il legittimo erede alla corona era vivo e vegeto e non intendeva rinunciare ai suoi diritti. Non c’è da stupirsi se il papa preferiva tenersi lontano dalla città e risiedere nella assai piú sicura e fedele Viterbo. Insomma, fra il 1263 e il 1264 le possibilità che Carlo d’Angiò riuscisse a raggiungere il Regno attraversando un’Italia a netta prevalenza ghibellina erano praticamente nulle. In queste circostanze, chiamare il conte di Provenza quale nuovo sovrano del Meridione poteva rappresentare un azzardo fatale per il papato, che restava esposto alle rappresaglie, anche militari, di Manfredi. 2. Manfredi all’attacco Manfredi, in effetti, cercò di contrastare le iniziative diplomatiche papali con una mossa militare: dato che ormai i rapporti con la Santa Sede erano compromessi, il sovrano decise di attaccare direttamente il pontefice marciando armi in pugno su Roma e su Orvieto, dove il papa al momento risiedeva. Nell’estate del 1264, dunque, mentre Urbano IV attendeva ansioso l’esito dei suoi tentativi di cambiare i rapporti di forza in Lombardia, l’esercito del Regno si mosse all’offensiva. L’operazione fu preparata da una vera e propria campagna propagandistica. A fine maggio, la cancelleria di Manfredi produsse un’ampia lettera circolare in cui si professava la buona fede del re di Sicilia, 34
ii. l’italia di manfredi a cui ingiustamente il papa negava il diritto all’eredità paterna. Contestualmente alcuni poeti provenzali e italiani cominciarono a produrre testi nei quali esaltavano il re di Sicilia quale unico avversario dei chierici corrotti e falsi che, ovviamente, facevano capo alla curia romana. Manfredi, insomma, non faceva altro che difendersi dal falso mondo clericale, come affermava ad esempio il provenzale Raimondo de Tors, in una poesia composta proprio in quell’anno: « Poiché è fine e puro / il re (Manfredi) in tutti i suoi affari / che è un principe nobile e caro / contro di lui si accaniscono / tutti i chierici pieni di inganni / quindi i suoi lombardi e i suoi tedeschi / dei quali si compiace / con lui li colpiranno pesantemente / con spada e con lancia ».6 L’operazione era ambiziosa e l’esercito fu mobilitato al gran completo, richiamando anche buona parte delle truppe prima schierate in Toscana e nelle Marche, fino a disporre di parecchie migliaia di cavalieri pesanti tedeschi affiancati da robusti contingenti di cavalleggeri e tiratori saraceni e da un certo numero di nobili pugliesi. Manfredi intendeva condurre una vasta manovra a tenaglia, attaccando le difese pontificie da ben tre fronti: il grosso del contingente regnicolo si sarebbe mosso dall’Abruzzo, da dove un reparto di militi a cavallo e di arcieri avrebbe attraversato il ducato di Spoleto e valicato gli Appennini, per puntare su Orvieto, allora residenza di Urbano IV. La delicata missione era stata affidata al comando di Percevalle Doria, uno dei piú stretti collaboratori di Manfredi, che con lui era anche imparentato alla lontana. Esule ghibellino da Genova, abile politico e poeta dilettante, Percevalle era un personaggio di buona esperienza militare e di indubbio carisma, nelle cui mani il re aveva posto un compito di grande importanza: impadronirsi della persona del pontefice o, comunque, metterlo in fuga e in condizioni di non nuocere.7 Mentre il Doria puntava su Orvieto, una seconda colonna, guidata dal nobile campano Riccardo Filangeri, sarebbe avanzata da sud, valicando il confine tra le attuali Lazio e Campania, con il compito di congiungersi con un nobile ghibellino romano ribelle, di nome Pietro di Vico. Questi, che aveva a sua volta ricevuto in rinforzo i cavalieri teutonici di Giordano d’Agliano, prima schierati nelle Marche, doveva rincuorare le famiglie romane filosveve e indurle a insorgere contro l’Angiò. La superiorità di Manfredi era totale. Dopo la sua 35
l’aquila e il giglio elezione a senatore, Carlo d’Angiò aveva mandato a Roma quale suo luogotenente il nobile provenzale Giacomo Ganthelme, giunto nell’Urbe nell’aprile del 1264 con un piccolo nucleo di qualche decina di cavalieri, una forza poco piú che simbolica e assolutamente insufficiente ad affrontare una vera minaccia militare. L’esercito di Roma era forte e agguerrito, ma la sua affidabilità non era certa. Fra l’aristocrazia dell’Urbe non mancava un forte partito ostile al papa e gli equilibri interni al comune romano potevano variare in qualunque momento. Davano probabilmente piú affidamento le milizie civiche di Orvieto e di Viterbo, ma le due città potevano schierare poche centinaia di cavalieri e qualche migliaio di fanti, troppo pochi per affrontare validamente la massa dei cavalieri tedeschi, pugliesi e saraceni mobilitati da Manfredi. L’offensiva del re di Sicilia fu però condotta assai male. All’ambizione del piano originale non fecero riscontro né la convinzione, né la decisione necessarie per portare a buon fine le operazioni. Non è facile spiegarsi le ragioni di tali esitazioni: lo stesso Manfredi, d’altronde, sembrava condividere tale atteggiamento poco convinto e invece di mettersi personalmente a capo delle truppe si trattenne presso Capua. Forse l’idea di attaccare militarmente Roma e il papa – un gesto che neppure Federico II aveva mai compiuto fino in fondo – spaventava il re e i suoi generali, speranzosi nel fatto che la semplice minaccia delle loro forze avrebbe indotto Urbano IV a piú miti consigli. Le operazioni iniziarono subito sotto una cattiva stella. La colonna orientale si mosse infatti con decisione verso Orvieto, ma nel guadare il fiume Nera, presso Arrone (oggi in provincia di Terni), Percevalle Doria cadde da cavallo e annegò. Fu rapidamente nominato un nuovo comandante, nella persona del nobile reatino Giovanni Manerio, ma buona parte dell’esercito si rifiutò di procedere oltre, dato che la triste fine del Doria fu considerata un segno funesto, che dimostrava quanto una spedizione contro il papa fosse malvista da Dio. Mentre nell’esercito regnicolo dominava l’indecisione, giunsero un forte contingente di orvietani – dotati per l’occasione da Urbano IV dei privilegi dei crociati – e il maresciallo pontificio Bonifacio di Canossa, alla guida di 800 cavalieri e 200 balestrieri mercenari. Nel frattem36
ii. l’italia di manfredi po, anche Narni, Perugia, Todi e Assisi mobilitavano le loro truppe per impedire all’esercito regio di muovere verso nord. Queste forze sbarrarono definitivamente la strada agli invasori che infine, demoralizzati, agli inizi di luglio ripiegarono sulle basi di partenza.8 Sembrò destinata a miglior successo, almeno inizialmente, l’attività bellica di Pietro di Vico che grazie ai cavalieri teutonici riuscí a impadronirsi della città di Sutri, obbligandola a prestare giuramento di fedeltà al re. Anche questo risultato, però, andò rapidamente perduto dato che la popolazione di Sutri, fedele al pontefice, si ribellò, obbligando i tedeschi alla fuga. Le forze di Pietro si ritirarono disordinatamente nel castello di Vico. Vedendo l’occasione di eliminare il ribelle, l’esercito romano accorse prontamente, ponendo sotto assedio la fortezza. Il maltempo incalzante e le voci sull’avanzata della colonna del Filangeri, però, preoccuparono gli assedianti inducendoli a ritirarsi a loro volta e a rientrare a Roma agli inizi di giugno. Pietro di Vico riuscí cosí a muovere le sue forze verso nord, dove a luglio, nel comitato di Viterbo, riuscí a infliggere alcune sconfitte alle truppe pontificie, forti di 700 cavalieri, guidate dal milanese Pipone da Pietrasanta. A questo punto, però, il di Vico osò troppo. Pietro portò infatti i suoi uomini di sorpresa a Roma stessa, rioccupando le sue case in Trastevere e impadronendosi dell’Isola Tiberina. Da lí egli probabilmente sperava di indurre a insorgere i seguaci locali di Manfredi, ma stavolta la reazione del vicario angioino Giacomo Ganthelme fu prontissima: raggruppata la sua piccola scorta di cavalieri provenzali egli piombò immediatamente sugli attaccanti, nonostante fosse in inferiorità numerica. In tal modo, i ghibellini romani non riuscirono a organizzarsi, mentre i guelfi si raccolsero prontamente dietro al loro leader Giovanni Sabelli e si gettarono a loro volta in battaglia. Sotto il duplice attacco gli uomini del di Vico si sbandarono: il comandante si diede alla fuga con un pugno di seguaci, mentre il grosso delle sue truppe si arrendeva e veniva tradotto in carcere. Mentre Pietro tentava il suo fallimentare colpo di mano sull’Urbe, Manfredi aveva già rinunciato ad attaccare frontalmente la città. La colonna del Filangeri si era a stento affacciata nel Lazio meridionale e, con l’arrivo di luglio, rischiava di restare esposta alla terribile minaccia estiva della malaria 37
l’aquila e il giglio nelle Paludi Pontine. Cosí, mestamente, l’esercito del Regno si ritirò verso le proprie basi di partenza, mentre lo scoraggiamento si diffondeva fra i ghibellini laziali. L’offensiva, oltre a essersi rivelata un completo fallimento militare, aveva rappresentato un vero disastro diplomatico e propagandistico. Papa Urbano IV, che non aveva alcuna intenzione di capitolare e si era prudentemente rifugiato a Perugia, annunciò immediatamente a tutta Europa che la Chiesa era sotto attacco. Gli abili cancellieri papali ebbero buon gioco a denunciare che un’armata di infedeli stava avanzando su Roma, e lo faceva agli ordini di un principe cristiano. Già a maggio, all’inizio della campagna, Urbano scriveva ai principi di Francia, Fiandre e Provenza che l’esercito di Manfredi aveva preso possesso di alcune località appenniniche favorevoli alla Chiesa e le aveva consegnate nelle mani dei Saraceni. Bollato come “sultano di Lucera”, il re di Sicilia veniva additato all’opinione pubblica del continente come una sorta di quinta colonna degli islamici in terra d’Europa. Nello stesso periodo, fra l’altro, la guerra fra Cristiani e Musulmani si era riaccesa anche in Spagna, dove gruppi di guerrieri berberi erano entrati al servizio del re di Granada e avevano attaccato la Castiglia, per cui non era difficile evocare un significativo paragone fra le due aggressioni. Non poteva esserci miglior giustificazione alla richiesta del papa di bandire una vera e propria crociata contro Manfredi. Alla corte francese le accorate proteste pontificie cancellarono le ultime esitazioni di Luigi IX, che si decise a dare aperto appoggio alla spedizione del fratello. Un simile disastro diplomatico sarebbe stato un prezzo gravoso da pagare anche per una vittoria sul campo, e, dato l’andamento delle operazioni, finí col trasformare l’insuccesso in una vera e propria disfatta. 3. L’offensiva diplomatica pontificia Manfredi, insomma, aveva logorato il suo esercito e il suo prestigio nell’inconcludente attacco al papa, distraendo la propria attenzione dall’Italia settentrionale dove, al contrario, l’abile diplomazia pontificia stava incessantemente operando per mutare i rapporti di forze. Agli inizi degli anni Sessanta la stabilità politica della Lombardia si 38
ii. l’italia di manfredi basava su un tacito compromesso fra due grandi dominazioni sovracittadine in formazione. Nella parte sud della regione prevaleva il marchese Oberto Pelavicino, l’uomo di fiducia di Manfredi nel settentrione d’Italia. Il Pelavicino era signore di Cremona, di Piacenza e di Brescia e controllava, direttamente o tramite suoi stretti alleati, anche Tortona, Alessandria e Pavia. Piú a nord si era invece affermato il potere della famiglia della Torre di Milano che, oltre alla metropoli ambrosiana, governava anche Como, Lodi e Novara. Come abbiamo appena ricordato, il marchese ghibellino Oberto Pelavicino e il guelfo Martino della Torre si erano alleati nel 1259 per contrastare l’espansionismo di Ezzelino da Romano e la loro amicizia era stata suggellata da una sorta di condominio su Milano: qui nel 1260 Martino, « anziano perpetuo del Popolo di Milano » ed effettivo signore della città aveva chiamato Oberto come capitano di guerra con un mandato quinquennale. Il Pelavicino aveva dunque un ruolo subordinato, ma tutt’altro che trascurabile negli equilibri politici milanesi. Ciò non toglie che l’alleanza fra il Pelavicino e i della Torre avesse i suoi punti deboli. Innanzitutto, Milano aveva una lunghissima tradizione di opposizione agli Svevi, che affondava le sue radici nelle dure guerre contro Federico I e Federico II, sicché un rapporto cosí stretto con il rappresentante locale di Manfredi non era ben visto da tutti, tanto piú in considerazione delle pesanti condanne spirituali emanate dal papa contro la città proprio a causa dell’alleanza con il marchese. Ancor piú, i della Torre e il Pelavicino, nonostante l’amicizia pubblicamente proclamata, erano rivali e avevano interessi divergenti, dato che ambivano ad allargare i propri domini a spese l’uno dell’altro. In particolare, entrambi miravano a impadronirsi di Bergamo e di Vercelli, sulle quali concentravano la loro pressione politica. Finché visse Martino della Torre, l’alleanza rimase salda e il Pelavicino rese servizi indispensabili al leader milanese guidandone l’esercito contro i fuoriusciti. Il 18 novembre 1263, però, Martino morí lasciando il potere al fratello Filippo della Torre, subito proclamato nuovo anziano perpetuo dal consiglio comunale. Filippo aveva maggiori ambizioni rispetto al predecessore ed era tutt’altro entusiasta di dover condividere il potere su Milano con il Pelavicino. Nel dicembre del 1263, Filippo ottenne la sottomissione di Bergamo, causando 39
l’aquila e il giglio la veemente protesta dell’alleato. La tensione fra i due crebbe talmente che Oberto da Pellegrino, parente di Oberto e podestà di Milano, preferí lasciare di nascosto la città per evitare di essere imprigionato. Su questa incrinatura seppero battere con abilità i pontefici: prima papa Urbano IV, poi, dopo la sua morte avvenuta il 2 ottobre 1264, il suo successore Clemente IV. Quest’ultimo, al secolo Guido Foucois, era francese come il suo predecessore ed era sicuramente il miglior candidato che il collegio cardinalizio potesse esprimere per proseguire nella politica di alleanza con Carlo d’Angiò. Esperto giurista, il Foucois era stato consigliere personale di Alfonso di Poitiers, signore di Tolosa e fratello di Carlo, prima di diventare, nel 1259, vescovo di Narbonne. In tale veste aveva piú volte mediato nelle numerose liti fra Luigi IX e sua moglie Margherita da una parte e Carlo d’Angiò dall’altra. Nel 1261 Urbano IV lo aveva nominato cardinale e tre anni dopo lo aveva inviato in Provenza, assieme al legato Simone de Brie, per risolvere gli ultimi dettagli dell’accordo fra il papa e l’Angiò per la discesa in Italia di quest’ultimo. L’elezione del Foucois a papa, il 5 febbraio 1265, inviava dunque un messaggio molto chiaro: i vertici della Chiesa si erano ormai convinti della necessità dell’alleanza con il conte di Provenza al fine di condurre una lotta senza quartiere a Manfredi.9 Non sappiamo come si siano svolte le prime trattative fra Carlo d’Angiò e Filippo della Torre, anche se un libro di conti marsigliese del 1264 riporta un gran numero di spese sostenute per pagare i ripetuti viaggi dei messi angioini in Lombardia. I contatti fra le due parti furono tenuti dai piú stretti collaboratori dei due signori, i giurisperiti Accorsio Cutica, per i della Torre, e Roberto de Laveno, per l’Angiò. Entrambi erano legatissimi ai rispettivi signori per i quali avevano anche svolto il ruolo di governatori in alcune città soggette (Como per Accorsio e Marsiglia per Roberto). Il papa rimase formalmente estraneo al dialogo fra le due parti, una delle quali, Milano, era ancora sottoposta ad interdetto, ma sicuramente anche la diplomazia pontificia fece la sua parte, forse facendo balenare ai della Torre la possibilità che Raimondo della Torre fosse finalmente nominato arcivescovo di Milano. Il primo effetto delle trattative si ebbe l’11 novembre 1264, quando Filippo della Torre si rifiutò di rinnovare il mandato di 40
ii. l’italia di manfredi Oberto Pelavicino quale capitano di guerra di Milano e lo allontanò dalla città. Oberto si trasferí a Cremona e subito diede ordine di arrestare tutti i mercanti milanesi presenti: la tensione passata tra i due vecchi alleati si era ormai trasformata in una frattura insanabile e irreversibile. Il 23 gennaio 1265 l’alleanza fra Angiò e della Torre fu solennemente stipulata. Il patto prevedeva le classiche clausole di amicizia e di reciproco aiuto fra le parti, ma, soprattutto, mostrava esplicitamente la sua natura militare e delineava chiaramente il piano strategico dell’Angiò. I della Torre si impegnavano infatti a Dare con tutta la loro potenza consiglio e aiuto al detto conte (Carlo) e ai suoi figli e ai suoi cavalieri e ai suoi balestrieri e a tutte le sue genti d’arme che già siano o giungano in Lombardia e la attraversino o ne ritornino al fine di conquistare il regno di Sicilia e di Puglia o per altre cause e di garantire a quell’esercito libero transito in tutta la Lombardia.10
Dopo la redazione del trattato di Aix, l’offensiva diplomatica guelfa proseguí rapidamente e dopo poche settimane l’alleanza fu estesa al marchese Guglielmo di Monferrato, un nobile piemontese, anch’egli rivale del Pelavicino al quale contendeva il predominio su Alessandria e su Tortona. Nel marzo del 1265 prese servizio il nuovo podestà di Milano, il nobile provenzale Embaral des Baux, presentatosi alla testa di un piccolo, ma significativo corpo di 300 fra cavalieri e balestrieri provenzali. L’accordo fra i della Torre e gli Angiò era insomma ormai pubblico e operativo. Nel frattempo, il 25 febbraio, le città soggette ai della Torre (Milano, Como, Lodi, Novara e Bergamo) si allearono con Mantova e Ferrara, in un trattato volto a combattere in maniera congiunta i nemici della Chiesa di Roma, della quale si auspicava esplicitamente la piena riconciliazione con i signori di Milano.11 Da Milano a Bergamo, da Mantova all’Adriatico ormai i cavalieri francesi diretti a sud avrebbero trovato una distesa di città alleate. Restava solo un problema: fra Bergamo e Mantova si estendevano i territori di Brescia e di Cremona, soggette al marchese Pelavicino. Lí si sarebbe dovuto combattere.
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III OBI ETTIVO ROMA
1. La lenta mobilitazione per la crociata La fine del 1264 e l’inizio del 1265 erano insomma stati ricchi di successi per gli accorti diplomatici pontifici. Carlo d’Angiò aveva finalmente iniziato a prepararsi e, con il cambio di fronte di Milano, l’equilibrio strategico in Lombardia era mutato radicalmente rendendo possibile l’idea di una spedizione di terra per invadere il Regno. Muovendo dai possedimenti piemontesi di Carlo, l’esercito avrebbe attraversato la Lombardia con l’appoggio dei della Torre, sarebbe sceso in Emilia e in Romagna, trovando l’aiuto di Bologna e avrebbe proseguito per le Marche e per l’Umbria, dove negli anni precedenti le forze di Manfredi erano state battute e ridotte all’impotenza dai comuni guelfi dell’area. L’impresa, però, rimaneva pur sempre colossale. Si trattava di raccogliere in Provenza una massa di molte migliaia di uomini e di cavalli e farla procedere per centinaia di chilometri, valicando le Alpi, gli Appennini e diversi grandi fiumi. Era indispensabile mobilitare risorse logistiche e finanziarie eccezionali, per pagare e nutrire su un cosí lungo itinerario una simile massa di combattenti. Di ciò, ovviamente, si preoccuparono in primo luogo i pontefici, Urbano IV prima e Clemente IV poi, bandendo la crociata contro Manfredi, atto che invogliò un certo numero di cavalieri a partecipare alla campagna in vista dei benefici spirituali connessi, ma che soprattutto consentiva di chiedere alle chiese di Francia e di Italia una contributo straordinario – la « decima per la crociata », appunto – destinata a pagare gli uomini che prendevano le armi verso il meridione. L’azione contemporanea della predicazione dei legati papali e delle promesse di guadagni presenti e futuri fece sí che molti guerrieri del nord e del sud della Francia volgessero la loro attenzione alla spedizione.1 Una cronaca francese anonima contemporanea racconta con vivacità la mobilitazione dei nobili del settentrione: 42
iii. obiettivo roma Ora vado a nominarvi alcuni dei baroni francesi che andarono con Carlo, ma non tutti, perché ci vorrebbe troppo tempo. Il primo fu il vescovo Guido d’Auxerre, partito dal suo vescovato ben fornito di cavalieri arditi e vigorosi e di buoni sergenti, e un giovane uomo, Roberto, figlio del conte di Fiandra, sposo di una bella e saggia damigella, figlia del detto conte Carlo. E andarono anche i conti di Vendôme, che erano cavalieri molto vigorosi e di grande apparenza, e ci andò Guido, maresciallo di Mirepoix, con grande compagnia di buoni cavalieri: tutti questi e molti altri che non posso nominare per non dilungarmi andarono nella compagnia di Carlo conte d’Angiò e di Provenza, per danneggiare e colpire il re Manfredi. Quando furono tutti pronti, si radunarono a Marsiglia, che era nella terra del conte Carlo, e egli stesso portò con sé buone genti d’armi dalla terra di Anjou e da quella di Provenza, che erano suoi uomini.2
Anche un altro cronista contemporaneo, Baldovino d’Avesnes, elenca un buon numero di nobili che, oltre a quelli già ricordati, si unirono alla spedizione: Lodovico di Vendôme, Filippo e Guido di Monfort con i loro fratelli, Guglielmo e Pietro di Beaumont, Gilles li Bruns, connestabile di Francia e Giovanni di Soissons, figlio del conte Giovanni. A questi ancora si possono aggiungere Guido de Montomercy-Laval, Ugo di Sully detto Arcivescovo e suo fratello Enrico.3 Insomma, l’appello alla crociata lanciato da Urbano IV ebbe sicuramente una massiccia risposta in seno alla grande aristocrazia francese. Lo stesso papa favoriva in ogni modo la partenza degli aristocratici. Quando nel giugno del 1264 il conte Burcardo di Vendôme, decise di prendere la croce contro Manfredi, da Orvieto partí una vera e propria salva di bolle solenni che concedevano al nobile prima 500 e poi ben 3000 lire di Tours di sostegno per il viaggio (prelevate sui fondi destinati alla crociata), l’assoluzione da ogni scomunica o interdetto, l’esenzione da ogni contribuzione alla Santa Sede per i chierici del territorio e il permesso a questi ultimi di lasciare la diocesi per accompagnare Burcardo nel viaggio.4 Non è chiaro chi Carlo avesse posto alla testa delle truppe. I cronisti dell’Italia settentrionale sembrano esser stati colpiti in particolare dalla figura di Roberto di Fiandra, al quale attribuiscono in maniera concorde la guida della spedizione, mentre i francesi e i toscani indicano quale comandante Filippo di Monfort,5 un aristocratico france43
l’aquila e il giglio se, figlio del signore di Tiro. Giovanni Villani, a sua volta, parla di un Monfort, ma di Guido, il fratello di Filippo. È possibile che in assenza di Carlo d’Angiò non esistessero gerarchie troppo definite: Filippo di Monfort sembra in effetti essere stato l’organizzatore materiale della spedizione, ma la guida militare pare esser stata affidata Roberto di Fiandra almeno finché le truppe, giunte a Roma, non tornarono agli ordini del conte di Provenza. I cronisti italiani e francesi riportano cifre assai diverse sulla quantità di uomini che si mossero per raggiungere Carlo a Roma. Si va dai 1500 cavalieri pesanti menzionati dallo storico fiorentino Giovanni Villani (di solito bene informato, ma con una certa tendenza a fornire cifre assai ridotte rispetto agli altri cronisti coevi) ai francamente improbabili 60.000 uomini a piedi e a cavallo di cui parlano gli Annali di Parma. Fra i due estremi, altre valutazioni variamente dettagliate ci forniscono comunque dati impossibili da conciliare fra loro: 6000 cavalieri, 600 balestrieri a cavallo e 10.000 a piedi oltre a altri 10.000 fanti per gli Annali Genovesi o 5000 cavalieri, 10.000 fanti e 5000 balestrieri per il modenese Giovanni Bazzani.6 In realtà erano tutte valutazioni fatte a spanne, dato che non risulta che siano mai stati redatti documenti amministrativi con le cifre reali dei partecipanti. Lasciando per un attimo da parte il balletto delle cifre fornite dai cronisti, proviamo a fare un calcolo, per quanto approssimativo, della consistenza della spedizione. Come vedremo in seguito, raffrontando le testimonianze disponibili, possiamo stimare che alla battaglia di Benevento Carlo disponesse di 5000 cavalieri o poco piú. Sappiamo anche che di questi almeno 2000 erano già presenti nella penisola, tra uomini arrivati via mare a Roma e alleati guelfi italiani aggregatisi in momenti diversi alla spedizione. Si può dunque pensare che dalla Francia si siano mossi circa 3000 cavalieri pesanti. Alcuni documenti redatti a Napoli dopo la conquista del Regno, ci informano che i nobili provenzali che parteciparono alla spedizione furono circa 140 e che costoro rappresentavano circa un quarto del totale degli aristocratici transalpini, che comprendevano anche uomini della contea di Anjou, della regione parigina e della Champagne. In totale, dunque, dovevano esserci circa 550-600 fra piccoli e grandi signori delle campagne francesi. Come abbiamo visto i piú ricchi fra 44
iii. obiettivo roma costoro (ai quali bisogna inoltre aggiungere anche un importante contingente fiammingo), erano accompagnati da una nutrita schiera di seguaci. A questi poi vanno aggiunti tutti i combattenti a cavallo che non portavano il titolo di “cavaliere”, gli avventurieri, i fanti e i balestrieri che di propria iniziativa si aggregarono alla spedizione.7 Nella seconda metà del Duecento, in effetti, solo una parte minoritaria dei combattenti a cavallo era rappresentata da cavalieri in senso stretto, ossia guerrieri che avevano ricevuto formalmente il titolo di miles (‘cavaliere’) nel corso della cerimonia detta “addobbamento”. Il rituale all’epoca era diventato lungo e costoso e soltanto i figli maggiori delle famiglie piú ricche potevano permetterselo. Anche chi non era ufficialmente cavaliere, però, era di solito altrettanto abile a combattere; anzi, questi “sergenti”, come venivano chiamati nella tradizione francese, costituivano ormai il nerbo degli eserciti feudali. Possiamo quindi ipotizzare che attorno al nucleo di 600 nobili addobbati vi fosse un numero almeno triplo o quadruplo di altri combattenti privi di titolo, oltre a alcune centinaia di balestrieri montati e a parecchie migliaia di fanti. Un testimone oculare, il cronista Pietro Coral della città di Limoges, nella Francia sud-occidentale, presenta con efficacia il modo in cui, grazie all’abbondanza di denaro garantito dalle decime pontificie, si procedette all’arruolamento delle truppe di piú bassa estrazione sociale. Nell’anno seguente (1265) giunse a Limoges il cavaliere Pietro de Beaumont e promise uno stipendio a tutti coloro che avrebbero preso la croce: ai cavalieri 10 soldi piú 30 lire di anticipo per equipaggiarsi, ai balestrieri 5 soldi e 15 lire di anticipo, e ad alcuni dava anche di piú, secondo quanto gli pareva. Per questo motivo, molti della città e della diocesi di Limoges presero la croce, col patto di radunarsi a Lione entro l’ottava di San Michele (7 ottobre).8
Possiamo insomma valutare che nella colonna angioina ci fossero fra i 2500 e i 3000 cavalieri, di cui il 20% addobbati e i restanti sergenti. Aggiungendo loro i 600 balestrieri montati di cui parlano gli Annali di Genova e un numero circa triplo di fanti e ausiliari, arriveremmo a un totale di oltre 12.000 uomini, di cui un quarto a cavallo e il resto a piedi. La massa dei combattenti angioini era imponente, ma sarebbe stata sufficiente per conquistare un regno? 45
l’aquila e il giglio Manfredi, infatti, non era affatto rimasto passivo di fronte alla mobilitazione angioina. Nell’agosto del 1264, l’ultima città guelfa di Toscana, Lucca, aveva ceduto alla pressione militare degli uomini da lui inviati nella regione e si era arresa, accettando un vicario regio: in questo modo, qualunque velleità da parte di Carlo di percorrere la via che correva lungo la costa ligure e tirrenica era stata spazzata via. Al conte di Provenza restava solo la strada attraverso la Lombardia. Manfredi decise dunque di rinforzare il fronte ghibellino nell’Italia settentrionale e nello stesso anno inviò al marchese Oberto Pelavicino 600 cavalieri teutonici alle sue dipendenze e il denaro per arruolarne altri 1000 fra toscani e lombardi. Il Pelavicino rappresentava la prima barriera difensiva contro gli Angioini ed era ben conscio di questa responsabilità. Secondo la testimonianza del cronista Andrea Ungaro, il marchese aveva addirittura inviato una lettera minacciosa a re Luigi IX, suggerendogli di trattenere l’irrequieto fratello, altrimenti « lo stesso Pelavicino non avrebbe potuto tollerarlo e gli si sarebbe opposto con 800.000 uomini armati di cui 80.000 cavalieri pesanti corazzati dotati di bellissime armature ».9 Andrea Ungaro, come vedremo, benché sia il narratore piú cronologicamente vicino alla battaglia, non è sempre attendibile. Egli intrecciò un dossier di testimonianze scritte coeve (lettere di Carlo d’Angiò e di altri nobili partecipanti alla spedizione) e di racconti orali al fine di creare un resoconto coerente – anche se ideologicamente schierato – volto a presentare la conquista del sud come una crociata, promossa dalla Chiesa e sostenuta dalla volontà divina.10 La sua partigianeria è dunque esplicita: ciò non toglie che Andrea spesso citi carte di prima mano, altrimenti perdute o corrotte e sia dunque una delle fonti piú ricche e interessanti a nostra disposizione.11 Se il cronista angioino riporta con fedeltà la missiva (e in effetti nel testo vi sono alcuni indizi in tal senso), è evidente che Oberto tentava un grandioso bluff, dato che neppure richiamando ogni singolo uomo in grado di combattere nelle città e nei contadi di Piacenza, Cremona, Brescia, Pavia, Alessandria e Tortona si sarebbe potuta raggiungere una cifra simile. Oltretutto, una tale massa di soldati non addestrati a combattere insieme sarebbe stata impossibile da portare in campo, da manovrare e da nutrire. Con tutto ciò, è vero che il Pelavicino poteva mo46
iii. obiettivo roma bilitare ai suoi ordini forze assai imponenti: sappiamo che Pavia poteva portare in battaglia piú di 1000 cavalieri pesanti, cosí come Piacenza, mentre la piú grande e ricca Cremona disponeva di forze quasi doppie. Solo le tre principali città ghibelline di Lombardia potevano dunque schierare contro i franco-provenzali circa 4000 militi e un numero almeno quadruplo di fanti, ai quali dovevano aggiungersi i mercenari teutonici e i vassalli delle terre del Pelavicino. Si trattava di una forza almeno all’apparenza piú che rassicurante, tanto piú che Oberto era un comandante di grande abilità, che fino a quel momento aveva trionfato su tutti gli avversari. Insomma, gli invasori avrebbero dovuto aprirsi la strada combattendo attraverso la Lombardia, impegnarsi in una logorante marcia lungo l’Emilia Romagna, le Marche, l’Umbria e il Lazio, solo per poi affrontare il temibile esercito del Regno di Sicilia. Quest’ultimo era molto cambiato durante gli ultimi anni: il servizio dei nobili locali, che aveva rappresentato la spina dorsale delle forze dei re normanni, aveva perso importanza già sotto Federico II e ai tempi di Manfredi era stato quasi completamente rimpiazzato dall’uso sistematico dei mercenari tedeschi. Si trattava prevalentemente di esponenti della piccola aristocrazia germanica, impoveritisi e alla disperata ricerca di fonti di guadagno. Parte di costoro era stata al servizio di Federico II, altri erano giunti al seguito di Corrado IV e altri ancora erano accorsi nel Regno quando si era sparsa la voce delle laute paghe elargite da Manfredi: in totale si trattava di parecchie migliaia di agguerriti ed esperti combattenti equipaggiati con ottimi cavalli e, almeno in parte, dotati di nuove armature con placche metalliche poste a rinforzo delle tradizionali cotte di maglia di ferro. Ai teutonici si affiancavano i saraceni di Lucera, la colonia mussulmana fondata da Federico II trasferendo forzatamente in Puglia gli arabi di Sicilia. Questi sapevano di dovere la loro sopravvivenza come comunità alla loro utilità militare e rappresentavano un corpo armato d’élite, fanaticamente fedele al sovrano. Noti soprattutto come arcieri, in realtà gli uomini di Lucera fornivano anche reparti di cavalleria leggera e, complessivamente, potevano mettere altre migliaia di uomini agli ordini di Manfredi, il quale, in caso di necessità, poteva arruolarne altre centinaia nell’Africa settentrionale. In previsione della 47
l’aquila e il giglio guerra, infine, il re aveva cercato di rivitalizzare il servizio dell’aristocrazia feudale e nell’aprile del 1264 aveva dato ordine di compilare nuovi cataloghi degli obblighi militari dei vassalli regi.12 Insomma, l’impresa di Carlo era indubbiamente azzardata. Lo storico fiorentino Giovanni Villani, che pur scrivendo negli anni Trenta del Trecento era assai ben documentato sulla storia italiana del secolo precedente, non aveva torto ad affermare che « a Manfredi parea esser, e era, signore del mare e della terre e la sua parte ghibellina era al di sopra e signoreggiava Toscana e Lombardia e la sua venuta (di Carlo) avea per niente ».13 2. Un arrivo a sorpresa Il re di Sicilia già nella primavera del 1265 si riteneva pronto a parare qualsiasi minaccia. Al contrario, la mobilitazione dell’esercito di Carlo procedeva con estrema lentezza e non vi era alcuna garanzia che le sue forze sarebbero riuscite a giungere sino a Roma. Alla tranquillità delle forze ghibelline, corrispondeva dunque il crescente allarme che si diffondeva nell’Urbe, dato che Manfredi era intenzionato a riprendere con ben altro vigore l’offensiva malamente esauritasi nell’anno precedente. Superate le esitazioni, il sovrano preparava un unico, efficace colpo ammassando le sue truppe a Carsoli, sul confine tra Abruzzo e Lazio. Carsoli, con il vicino castello di Celle, era una località di grande importanza strategica che permetteva un rapido accesso a Roma, tanto che piú volte, anche nei decenni precedenti, era stato l’epicentro di rilevanti fatti d’armi. Grazie all’appoggio di alcuni aristocratici laziali suoi simpatizzanti, il re controllava anche i principali castelli che avrebbero dovuto sorvegliare il confine dal lato pontificio, sicché avrebbe potuto puntare direttamente su Roma, distante neppure 70 chilometri, un paio di giorni di marcia a cavallo. Non appena le truppe si fossero concentrate, Manfredi avrebbe potuto sferrare un colpo decisivo. Di fronte a questa minaccia, le milizie guelfe erano quanto mai esigue. Già a gennaio Guido Foucois, il futuro Clemente IV, poco prima di essere eletto papa, aveva scritto in una lettera all’Angiò nella quale sottolineava, con cortesia molto cardinalizia, che le forze finora inviate a Roma erano troppo ridotte e mal equipaggiate: 48
iii. obiettivo roma I romani vogliono che coloro che li governano compiano atti magnifici e parlino con voce tonante, come è giusto per coloro che un tempo ebbero il dominio del mondo. Apprezziamo in queste cose il vostro vicario Giacomo Ganthelme e i suoi compagni, soprattutto per la gagliardia, notiamo però che il loro numero è scarso e hanno poco denaro a disposizione, sicché è la vostra stessa dignità a esserne sminuita.14
In mancanza di riscontri alle proprie lamentele, il pontefice alla fine di febbraio mandò urgentemente il cardinale legato Simone de Brie in Provenza, perché continuasse a insistere per la partenza di Carlo e facesse il possibile per risolvere i problemi che la ritardavano.15 In risposta a tali pressioni, Carlo nella tarda primavera riuscí a mandare a Roma una galea che portava il nobile marsigliese Ferri de Saint Amand, con un gruppo di balestrieri provenzali. Ferri era ancora giovane, ma destinato a diventare uno dei piú stretti collaboratori di Carlo, per il quale avrebbe poi ricoperto importanti incarichi nei decenni successivi. Il suo arrivo a Roma era un vero pegno per garantire che il conte l’avrebbe seguito in tempi brevissimi. Dal punto di vista militare, però, si trattava di un apporto poco piú che simbolico. Il venerdí dopo la Pasqua del 1265 (ossia, il 16 aprile), Giacomo Ganthelme scrisse una lettera accorata a Carlo, comunicandogli la tremenda scarsità delle truppe disponibili per la difesa dell’Urbe. A Roma e nella Sabina, il vicario poteva schierare soltanto 70 uomini d’arme e 80 balestrieri a cavallo tra francesi e provenzali. A questi si aggiungevano 22 militi romani e 500 cavalieri provenienti dal Lazio meridionale (la cosiddetta Campagna), posti al soldo del papa; 800 tra fanti e balestrieri romani, erano di guardia alle porte, ma non disponevano che di 7 balestre pesanti e mancavano completamente di equipaggiamento da guerra. In piú, il denaro era quasi terminato, per cui la maggior parte dei combattenti d’Oltralpe aveva dovuto dare in pegno le armi al fine di ottenere piccoli prestiti necessari per mantenersi. Infine, il Ganthelme si lamentava di non aver piú notizie da Filippo di Monfort, che stava raccogliendo le truppe di terra, e esortava Carlo a muoversi al piú presto con forze consistenti.16 Il quadro era preoccupante, perché era impossibile sperare di difendere una grande città come Roma – la cui cinta muraria di età 49
l’aquila e il giglio imperiale misurava quasi 20 chilometri – con meno di 1500 uomini. Certo, i nobili e i popolari romani avrebbero potuto unirsi alla lotta e rinforzare significativamente lo schieramento, ma avrebbero davvero voluto farlo? Il Ganthelme riporta nella sua lettera la notizia di un fatto d’arme ignorato dalle altre fonti, avvenuto agli inizi della primavera e forse condotto dal solito ribelle Pietro di Vico. Le parole del vicario disegnano con disarmante efficacia lo stato dei difensori: Ancora, vi comunichiamo che nella notte della Domenica delle Palme (4 aprile) i nemici si portarono presso Roma, e erano forse 1000 cavalieri e 500 balestrieri, e volevano entrare da una porta che avrebbero dovuto trovare aperta grazie alla corruzione. Noi però siamo venuti a conoscenza del piano e siamo rimasti tutta la notte sui nostri cavalli ben sellati, assieme ai nostri cavalieri della Campagna e a qualche alleato romano (ma erano poca cosa) e ai nostri sergenti di Francia e di Provenza, che però erano quasi tutti senza armi. Quando i nemici si accorsero di noi, si ritirarono senza tentare nulla, ma sappiate che se fossero entrati, grazie all’aiuto dei loro partigiani in Roma e del denaro che possono spendere a volontà, avremmo resistito ben poco, perché non c’è un solo fante romano disposto a combattere per noi senza essere pagato.17
Come se non bastasse, le forze angioine nella tarda primavera subirono uno scacco militare, limitato nelle dimensioni, ma dalle imprevedibili conseguenze sul morale. Con le scarse forze provenzali elencate nella lettera e alcuni cavalieri della Campagna, Ferri de Saint Amand venne rapidamente schierato di fronte a Carsoli, per fronteggiare la minaccia delle truppe di Manfredi che si stavano raccogliendo al di là del confine. Con la tipica baldanza che caratterizzava i cavalieri transalpini, il comandante provenzale confidò troppo nelle sue forze e, nonostante i pareri contrari dei suoi collaboratori italiani, attaccò in maniera assai azzardata il castello di Vicovaro, dove risiedeva l’esule ghibellino Giacomo Napoleone. Questi, con l’appoggio di un contingente di combattenti tedeschi, inflisse però agli aggressori una clamorosa sconfitta e lo stesso Ferri, abbattuto da cavallo, venne preso prigioniero e inviato a Manfredi in catene. La situazione sembrava sul punto di precipitare. Il re di Sicilia celebrò in grande stile il pur modesto successo, considerandolo la pre50
iii. obiettivo roma messa a una trionfale marcia su Roma, e affrettò i preparativi per l’avanzata. Pietro di Vico aveva ripreso ancora una volta le armi e infestava la Sabina con continue incursioni. Nel frattempo nell’Urbe dilagava la sfiducia e molti si facevano beffe di Carlo, affermando che era un vile e un truffatore e si sarebbe tenuto ben lontano dal campo di battaglia, restandosene al sicuro in Provenza. Mentre in tutta Italia si diffondeva un’ansiosa attesa sulle sorti di Roma, però, da Marsiglia prendeva il largo una piccola, ma agguerrita flotta provenzale, composta da 27 galee e 13 legni minori. Totalmente inaspettata, verso la metà di maggio, la squadra sfilò al largo di Genova, sotto gli occhi sorpresi delle sentinelle che vegliavano sulla sicurezza del porto ligure. Sulle navi era imbarcato Carlo d’Angiò il quale, sfidando la minaccia della marina pisana e di quella siciliana – che disponevano di forze assai superiori alle sue –, aveva deciso di raggiungere l’Urbe per la via piú rapida e pericolosa. Con una mossa coraggiosa, il conte di Provenza si era mosso per precedere il grosso dell’esercito e precipitarsi a Roma al fine di consolidare il suo controllo sulla città e impedire che vi prevalessero i sostenitori di Manfredi.18 L’arrivo della squadra provenzale, che approdò a Ostia il 21 maggio, fu un duro colpo per le ambizioni dei partigiani dello Svevo. Assieme a Carlo arrivavano infatti anche consistenti rinforzi. Sulle 40 navi erano stati caricati ben 500 cavalieri pesanti appiedati e 1000 balestrieri, un contingente in grado di cambiare nettamente i rapporti di forza nel Lazio. Di colpo, in tal modo, le truppe e disposizione per la difesa di Roma raddoppiavano. Non minore fu l’effetto morale: la comparsa dell’Angiò in persona e delle sue truppe rianimò i guelfi e depresse i ghibellini, molti dei quali si affrettarono a riconciliarsi con il conte e il papa e a prestar loro omaggio.19 L’ingresso degli angioini in città fu a dir poco trionfale. Il 24 maggio, festa dell’Ascensione, il conte di Provenza entrava in Roma, accolto da una moltitudine di uomini e donne festanti e condotto in processione fino alla chiesa di San Paolo Fuori le Mura dove prese alloggio con i suoi cavalieri. Nell’esaltazione del momento, in realtà, Carlo ebbe l’idea di trasferirsi presso il palazzo pontificio del Laterano: ciò causò però la profonda irritazione di Clemente IV, che si affrettò a scrivergli ingiungendogli di abbandonare immediatamente l’edificio di proprietà papale. Carlo ab51
l’aquila e il giglio bozzò e si trasferí all’ospizio dei Quattro Santi Coronati. Fu il primo di una lunga serie di piccoli screzi che costellarono la difficile convivenza nel Lazio del papa e del conte, due personaggi dalla personalità indubbiamente sanguigna, la cui collaborazione era accompagnata da una sorda rivalità e da una continua pressione esercitata dal pontefice al fine di ricordare a Carlo chi avesse l’autorità superiore. Manfredi fu colto di sorpresa dalla mossa delle forze angioine. La flotta siciliana e quella pisana erano ben piú forti di quella provenzale, ma esse, ostacolate dal maltempo, non ebbero modo di intercettare la squadra nemica. Soltanto dopo l’arrivo del conte a Roma, 60 galee regnicole comparvero sulla costa laziale, si portarono all’estuario del Tevere e lo bloccarono affondandovi due navi cariche di pietrame e costruendo una barriera di pali acuminati. In seguito effettuarono un’incursione sulle coste della Provenza spingendosi verso Marsiglia. Rientrando a sud, intercettarono al largo di Portovenere la squadra angioina di ritorno da Roma, catturarono due unità e ne affondarono altrettante. Si trattava però di un modesto successo simbolico: poco tempo dopo, altre quattro navi provenienti da Marsiglia portarono a Roma Beatrice di Barcellona, moglie di Carlo, dimostrando che il blocco navale siculo-pisano era tutt’altro che efficace. Ormai Carlo e i suoi uomini erano a Roma e le ambizioni dello Svevo dovevano essere drasticamente ridimensionate. 3. Una drôle de guerre L’arrivo di Carlo obbligò Manfredi a cambiare i suoi piani in modo radicale. Se fino ad allora il re di Sicilia si era limitato ad accumulare truppe, tenendole ferme al confine appenninico, ora la presenza diretta del suo rivale a Roma lo obbligava ad assumere un’iniziativa piú decisa. L’attacco era però diventato assai difficile, dato che i nuovi rinforzi portati dal conte di Provenza avevano decisamente aumentato le capacità militari dei difensori. In risposta alla comparsa di Carlo, nel giugno del 1265 Manfredi convocò una grande assemblea del regno a Benevento, richiamando al servizio militare i suoi feudatari e altri combattenti da tutte le province, per affiancarli ai mercenari tedeschi e creare una possente massa d’urto destinata a sferrare un nuo52
iii. obiettivo roma vo grande attacco a Roma. Questa volta il re si mise personalmente alla guida dell’esercito, che avanzò dall’Abruzzo e attraversò la piana di Tagliacozzo, congiungendosi con i primi contingenti già schierati a Celle di Carsoli. Il re di Sicilia aveva richiamato forze imponenti, anche se probabilmente Andrea Ungaro esagera attribuendogli ben 15.000 uomini fra cavalieri del Regno, tedeschi e saraceni.20 Nello stesso tempo, l’esercito senese, appoggiato da contingenti di altri comuni ghibellini toscani e da 400 mercenari tedeschi comandati dal capitano regio, conte Guido Novello, marciò da nord per minacciare la filopapale Orvieto.21 Anche questa volta non mancò un’accurata preparazione propagandistica. All’assemblea di Benevento Manfredi pronunciò un lungo e bellicoso discorso promettendo alle sue truppe un’immancabile vittoria. Poco prima, alla fine di maggio l’abile cancelleria napoletana aveva emanato un documento destinato a diventare celebre, il Manifesto ai romani, con il quale il sovrano prometteva, non si sa con quale credibilità, di ricostruire la grandezza di Roma e di attribuire nuovamente ai suoi cittadini il diritto di eleggere l’imperatore. L’evidente speranza era di eccitare gli animi dei romani contro il papa e Carlo in modo da suscitare una ribellione nell’Urbe.22 Cosí, nel testo, Manfredi presentava dal proprio punto di vista lo stato dello scontro fra lui e Carlo: Cosí, l’avidità della chiesa romana, vedendo che nessuna delle sue subdole macchinazioni era riuscita a fermare la nostra ascesa […] sperava di far muro contro di noi coinvolgendo un alleato, come è solita provvedere nella sua nequizia, ossia Carlo, conte di Provenza, uomo di stirpe nobile e potente, a cui ha donato il nostro regno […] Noi però, posto il chiarissimo simbolo della nostra aquila invitta sotto la destra di Dio, non solo abbiamo potere su quasi tutte le regioni d’Italia, ma dominiamo anche sui mari e sulle isole di Sardegna e di Tunisi e sulla maggior parte delle terre latine d’Oriente e inoltre per ricchezza d’oro e di uomini, superiamo in potenza qualsiasi cristiano, e virilmente dominanti, abbiamo riso e ridiamo, senza curarci di tutti i loro complotti.23
Dal canto suo, Carlo aveva già cominciato a comportarsi quale re di Sicilia, emanando privilegi e nominando ufficiali nelle terre che pur 53
l’aquila e il giglio ancora non controllava.24 Si trattava di atti propagandistici, che miravano a rassicurare l’opinione pubblica sulla sicura conquista del Regno. In realtà, le difficoltà aumentavano drammaticamente: in Francia, la mobilitazione dell’esercito di terra era ben lungi dall’essere completa sicché l’arrivo dei rinforzi non poteva essere dato per scontato, il denaro inizialmente raccolto si stava rivelando del tutto insufficiente e re Luigi IX, che pur aveva dato un appoggio indiretto all’operazione, permettendo la partenza dei suoi nobili, non intendeva intervenire in prima persona né con truppe, né con aiuti finanziari. Le continue richieste di contributi alle chiese creavano malcontento fra la popolazione e in Francia si segnavano gruppi di contestatori che cercavano di impedire la predicazione della crociata contro Manfredi.25 Una missiva di Clemente IV a Carlo, del 1° agosto, mostra chiaramente la precaria situazione del fronte filoangioino. Dopo aver constatato che la sua richiesta di decima di crociata aveva avuto in Europa un’accoglienza a dir poco tiepida, il pontefice doveva suggerire al novello sovrano che Se vogliamo proseguire nell’impresa, non ti servirà avere un esercito se poi non hai di che mantenerti. Se quindi non disponiamo di risorse sufficienti per entrambi i fini, ossia mantenere l’esercito e provvedere alle tue spese, sarà molto meglio aspettare ad arruolare nuove truppe, quando ci saranno risorse future, piuttosto che spendere in questo modo il denaro di cui disponi e che serve per mantenere te e gli uomini che ti hanno seguito dalle tue terre.26
Carlo decise però di ignorare tali avvertimenti e arruolò un buon numero di cavalieri italiani chiedendo soldi in prestito ai mercanti romani. Costoro, confidando nella futura vittoria del conte, accettarono di dilazionare i rimborsi, attendendo la conquista del Regno, in seguito alla quale sarebbero stati abbondantemente ripagati. La pressante ed efficace propaganda di Carlo e di Clemente IV fece poi sí che un numero crescente di volontari guelfi e di ghibellini intenzionati a cambiare campo si unissero alle forze angioine. All’inizio dell’estate Carlo, insomma, ormai poteva contare su un esercito abbastanza rassicurante da permettergli di passare all’offensiva. Anche la mobilitazione delle truppe del Regno, infatti, si era rive54
iii. obiettivo roma lata piú faticosa del previsto. Ciò permise infatti all’assai meno esitante conte di Provenza di assumere l’iniziativa e aggredire le forze di Siena agli ordini di Guido Novello, eliminando la minaccia di un attacco a tenaglia contro Roma. Alla fine di giugno, infatti, un migliaio di cavalieri provenzali e laziali raggiunse Orvieto. L’esercito senese, impantanatosi davanti alle fortezze di Radicofani e di Chianciano, a oltre 50 chilometri dall’obiettivo, si affrettò a ritirarsi.27 Le truppe filoangioine, affiancate dagli orvietani, corsero a loro volta le campagne senesi, dandole al sacco, per poi puntare verso Viterbo, dove una serie di improvvide inchieste degli inquisitori antierieticali aveva alienato al fronte guelfo le simpatie della cittadinanza. Riportato l’ordine anche nella città laziale, i militi angioini rientrarono a Roma, ad attendere l’assalto finale da parte dei ghibellini. La situazione a questo punto appariva in stallo. Manfredi aveva terminato la concentrazione delle sue forze, ma sembrava indeciso sul da farsi. L’incertezza della situazione è chiaramente percepibile dalla documentazione pontificia. Il 14 luglio, infatti, papa Clemente incitava il rettore della Tuscia (la zona attorno a Viterbo) a non perseguire le comunità che non avevano inviato aiuti, perché, essendo Roma minacciata dai nemici, non era il caso di turbare la provincia. Quattro giorni dopo, però, poteva rassicurare Luigi IX, scrivendogli che l’avanzata regia sull’Urbe sembrava ormai abortita. Contestualmente, il pontefice doveva tentare di trattenere la bellicosità di Carlo, che aveva già deciso di contrattaccare e riprendere il controllo di Celle e di Vicovaro, col risultato però di esporsi, con le sue poche forze, alla superiorità nemica.28 Finalmente, agli inizi di agosto, Manfredi si decise a muovere all’attacco e puntò con decisione su Tivoli, dato che la conquista della cittadina laziale gli avrebbe consentito di minacciare direttamente Roma. Tivoli, posta su uno sperone roccioso alle pendici dei monti Tiburtini, si trova in una posizione facile da difendere e le sue fortificazioni avevano piú volte dato filo da torcere ai romani, per cui Manfredi contava soprattutto sull’appoggio dei suoi seguaci in città, che avrebbero dovuto aprirgli le porte. Il complotto fu però scoperto e neutralizzato, sicché al sovrano siciliano si pose la prospettiva di un difficile assedio. Nel frattempo, Carlo aveva lasciato l’Urbe con le sue 55
l’aquila e il giglio truppe e si era portato a nord, tra Farfa ed Arsoli, in modo da minacciare le retrovie dell’esercito del Regno.29 Sappiamo nell’occasione che vi furono anche scontri sanguinosi, dato che Andrea Ungaro ricorda che l’esercito di Manfredi impegnò duramente le forze di Carlo. Una delle vittime fu sicuramente il cavaliere francese Giacomo Rusticus di Saint-Omer che nel dicembre successivo Carlo ricompensò con una pensione vitalizia, per aver perso una mano combattendo « nella zona di Tivoli, con altri nostri fedeli, contro i ribelli e i nemici ».30 Svanita la prospettiva di una rapida presa di Tivoli, però, Manfredi improvvisamente decise di lasciare la spedizione e di rientrare in tutta fretta nel Regno, portandosi a Capua. Papa Clemente, in una missiva che descrive in dettaglio gli avvenimenti politico-militari di luglio e agosto, si dice all’oscuro dei motivi di tale rientro, ma gli Annali di Cava dei Tirreni riportano la notizia che agli inizi di dicembre la stessa città di Cava fu distrutta e spopolata da Manfredi.31 È probabile dunque che il crescente malcontento delle città campane fosse sfociato in episodi di ribellione che avevano obbligato il sovrano a ritornare precipitosamente in patria e a attuare drastici provvedimenti repressivi. Abbandonato dal suo comandante in capo, l’esercito regnicolo si impegnò in qualche operazione militare minore, per poi prendere a sua volta mestamente la via del ritorno. La conclusione dell’offensiva era stata ancora piú umiliante che nel 1264. Il pur possente schieramento di Manfredi non era stato in grado di infliggere una sconfitta decisiva alle forze nemiche, assai minori, e di fatto si era ritirato senza mai affrontare a viso aperto gli angioini. Malcontento e demoralizzazione dilagavano nel Regno: da almeno sei anni le comunità urbane e rurali erano sottoposte al pesante prelievo della colletta e a un generale indiscriminato aumento della pressione fiscale a fini militari, senza che i numerosi e costosi cavalieri teutonici arruolati avessero conseguito alcun risultato utile. La rivolta di Cava dei Tirreni mostrava chiaramente che il perdurare della guerra causava uno scontento sempre crescente fra la popolazione. Il 13 novembre, papa Clemente IV dava mandato all’arcivescovo di Cosenza e all’abate di Montecassino di assolvere dalla scomunica tutti coloro che intendevano abbandonare Manfredi, segno evidente che la compattezza del fronte regnicolo cominciava a sgretolar56
iii. obiettivo roma si.32 La propaganda pontificia, unita al disastroso esito delle due offensive contro Roma aveva minato drammaticamente il prestigio di Manfredi, che in queste circostanze si era rivelato un comandante esitante e timoroso.33 Ci si chiedeva ora se Carlo avrebbe potuto approfittarne, muovendo all’attacco del Regno. Per far ciò, però, gli erano indispensabili i rinforzi da terra, che avrebbero dovuto aprirsi la strada attraverso la Lombardia. La tappa successiva della guerra si sarebbe combattuta al Nord.
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IV LA G UERRA I N LOM BARDIA
1. Le prime mosse sulla scacchiera Fra la primavera e l’estate del 1265, mentre le forze di Manfredi e di Carlo si fronteggiavano nel Lazio, solo all’apparenza l’Italia settentrionale sembrava piú tranquilla. In realtà, gli alleati dei due principi stavano conducendo una vivace attività volta a consolidare le proprie posizioni in attesa che si scatenasse il grande conflitto. Affiancate dagli onnipresenti legati pontifici, furono soprattutto le potenze filoangioine a condurre iniziative politiche e militari volte a far cambiare schieramento a diverse città nemiche disposte lungo l’itinerario che la colonna di Filippo di Monfort e di Roberto di Fiandra avrebbe dovuto percorrere. A febbraio le forze modenesi guidate dal marchese Obizzo II d’Este e rinforzate dagli esuli fiorentini attaccarono Reggio nell’Emilia e riuscirono a reintrodurvi i fuoriusciti guelfi, cacciando i ghibellini. In maggio, i milanesi avevano preparato un colpo di stato a Brescia, che avrebbe dovuto portare la città nel loro campo, ma Oberto Pelavicino, signore di Brescia, di Piacenza e di Cremona, ebbe sentore del complotto e si affrettò a sventarlo facendo arrestare diversi maggiorenti bresciani e inviandoli come ostaggi a Cremona. L’improvvisa morte di Filippo della Torre, deceduto proprio mentre avanzava verso Brescia alla testa delle truppe milanesi, diede il colpo di grazia al tentativo.1 Il successore di Filippo, l’ambizioso Napoleone della Torre, aprí comunque subito un altro fronte e con l’appoggio di papa Clemente IV cominciò a trattare con il vescovo di Vercelli, Martino Avogadri, esponente della piú importante famiglia guelfa locale, per abbattere il regime ghibellino di quella città.2 Stupisce, invece, la relativa passività di Manfredi. Non abbiamo alcuna testimonianza di suoi tentativi per reagire all’iniziativa diplomatica pontificia nel Settentrione. A quanto pare, concentrato nella preparazione delle operazioni militari contro Roma, il sovrano aveva 58
iv. la guerra in lombardia deciso di affidare il fronte settentrionale alle esclusive cure del Pelavicino, che badava soprattutto a rinforzare le sue truppe preparandosi per fronteggiare il nemico incombente. Il re fece comunque arrivare importanti aiuti militari al suo alleato, dato che, come abbiamo già accennato, a marzo gli inviò un contingente di 600 cavalieri teutonici e il denaro per pagare il soldo ad altri 1000, fra toscani e lombardi. Oberto Pelavicino, l’uomo a cui Manfredi aveva affidato le sorti del fronte ghibellino nel Settentrione, è un personaggio la cui importanza nell’Italia duecentesca è stata purtroppo inversamente proporzionale all’attenzione dedicatagli dalla storiografia. La tradizione ne ha tramandato un’immagine quasi caricaturale, di corrusco e violento signore, orbo da un occhio, noto per alcuni episodi aneddotici come quello che nel 1260 lo vide far rizzare una fila di forche ai confini dei suoi territori per minacciare e tenere lontani i membri del movimento devozionale detto dei “flagellanti”. A questa raffigurazione negativa ha probabilmente contribuito il fatto che la storiografia cattolica non lo ha amato in quanto ghibellino e quella opposta non ne ha potuto fare un’icona della lotta anticlericale, come accade a Manfredi, poiché poco prima di morire Oberto si convertí e si spense nel suo letto riconciliato con la Chiesa e circondato da frati confessori. In realtà, Oberto Pelavicino fu uno degli uomini politici e dei capi militari piú rilevanti della sua epoca. Sfruttando accortamente il prestigio derivatogli dai suoi rapporti con i sovrani svevi, egli seppe costruire una vasta signoria sovracittadina, entro la quale egli esercitava la sua autorità in accordo con altri potenti ghibellini locali quali Buoso da Dovara a Cremona e Ubertino Landi a Piacenza. Egli fu inoltre capace di intessere buoni rapporti con le forze emergenti dei mercanti e degli artigiani dei diversi centri a lui soggetti. Il suo vasto dominio nel 1265 si estendeva a cavallo fra Lombardia, Emilia e Piemonte meridionale, partendo dalle terre avite poste nell’Appennino fra Parma e Piacenza e allargandosi alle città di Piacenza, Cremona, Brescia e Tortona. Ancora maggiori erano senza dubbio le sue doti di comandante in guerra, grazie alle quali già nel 1250, a capo delle poche forze imperiali rimaste nel Settentrione dopo i disastri di Vittoria e di Fossalta, era riuscito a infliggere una clamorosa sconfitta all’esercito della guelfa 59
l’aquila e il giglio Parma. Nel 1258 e nel 1259 era stato il reale protagonista prima della vittoria di Ezzelino sul legato pontificio Filippo da Pistoia e poi, come abbiamo già visto, della sconfitta dello stesso Ezzelino, divenuto suo nemico, a Cassano d’Adda. Ancora, come capitano delle truppe milanesi aveva conseguito importanti successi contro i fuoriusciti antitorriani nel 1263. Insomma, benché l’età di Oberto – ormai quasi settantenne, dato che era nato verso il 1197 – non fosse piú quella piú adatta per affrontare il campo di battaglia, i capitani dell’esercito angioino non potevano in nessun modo sottovalutare l’avversario con cui stavano per scontrarsi. 2. Lo sfondamento del fronte ghibellino Agli inizi di novembre, dopo una mobilitazione all’apparenza interminabile, Filippo di Monfort e Roberto di Fiandra finalmente si mossero. La lunga colonna di cavalieri francesi, fiamminghi e provenzali entrò in Italia attraverso la valle Susa, e, appoggiandosi ai domini piemontesi di Carlo d’Angiò, fece campo ad Alba per riorganizzarsi. Le truppe aggirarono poi l’ostile Asti, passarono il Po e giunsero a Vercelli. Qui il colpo di stato ordito dal papa e dai milanesi ebbe pieno successo, dato che all’avvicinarsi delle truppe angioine, i guelfi Avogadri e il vescovo presero il potere, cacciandone i ghibellini Tizzoni. Subito essi aprirono le porte ai francesi, impedendo cosí una possibile reazione armata della fazione avversa. Come nuovo podestà venne chiamato un membro della famiglia della Torre, Paganino, a cui venne assicurato l’appoggio di un piccolo corpo di cavalieri e balestrieri provenzali per tenere sicura la città. Dopo questo primo successo i franco-provenzali entrarono nel territorio di Novara. Qui la città era controllata dai guelfi e dai della Torre, ma nelle campagne i ghibellini Tornielli possedevano alcuni castelli, dai quali cercarono di ostacolare la marcia degli Oltramontani. Il tentativo venne però presto stroncato, dato che le truppe angioine si impadronirono al primo assalto della fortezza di Vignarello, sulla via che collega Novara a Vigevano, e la rasero al suolo, soffocando cosí le velleità di resistenza degli oppositori novaresi.3 Finalmente, dopo un mese di marcia, gli uomini di Carlo raggiun60
iv. la guerra in lombardia sero Milano e poterono farvi una prima sosta di una decina di giorni per riposare e ristorarsi. Le possenti risorse della metropoli lombarda non faticarono a garantire i rifornimenti per le truppe angioine. Nel frattempo, Napoleone della Torre provvedeva a mobilitare l’esercito cittadino e quello della vicina Bergamo per affiancare gli alleati nell’assalto alla principale linea difensiva ghibellina. Fra Milano e Bergamo l’esercito di Carlo d’Angiò si muoveva infatti in territorio amico, attraversando le città controllate dai della Torre e addirittura scortato dalle forze dei due comuni. Procedendo verso est, però, esso avanzava verso i domini di Oberto Pelavicino. Le truppe di Brescia e Cremona controllavano i transiti del Po e del fiume Oglio: sarebbero riuscite a sbarrarne il passaggio? Oberto sembrava aver scelto proprio l’Oglio come posizione su cui attestarsi per impedire l’avanzata delle truppe di Carlo. Aveva infatti posto guarnigioni nei castelli che controllavano i ponti e si era concentrato con il resto delle sue forze piú a sud, fra Soncino e Orzinuovi, al confine fra i territori di Brescia e di Cremona. Si trattava di una posizione strategicamente importante, da dove avrebbe potuto sia bloccare un’eventuale svolta nemica verso sud, nel caso che gli angioini avessero voluto assalire direttamente Cremona, sia attaccare sul fianco la colonna angioina nel difficile momento del passaggio del fiume. Le forze del marchese erano tutt’altro che trascurabili, dato che egli aveva con sé gli eserciti di Cremona, Brescia e Piacenza, nonché la cavalleria di Pavia, i propri fedeli e un contingente di cavalieri tedeschi. Anche se alcune centinaia di questi uomini – in particolare i bresciani – erano dispersi a presidiare le fortificazioni, la loro massa doveva essere comunque impressionante. Il cronista fiorentino Giovanni Villani attribuisce a Oberto il comando di 3000 cavalieri pesanti, un ordine di grandezza verisimile, anzi, forse essi erano anche leggermente piú numerosi.4 Affiancati da diverse migliaia di fanti, i militi di Oberto erano sufficienti ad affrontare la colonna franco-angioina, che però aveva il vantaggio di essere appoggiata dalle forze di Napoleone della Torre. Non sappiamo quanti uomini questi avesse richiamato fra Milano e Bergamo, ma questi dovevano essere in buon numero, dato che i due comuni avevano messo in campo i rispettivi carrocci, segno di una consistente mobilitazione di fanti e cavalieri. Essi erano dunque sicuramente ab61
l’aquila e il giglio bastanza per determinare una netta superiorità numerica a favore dello schieramento guelfo. I due alleati agirono in maniera coordinata e si mossero all’attacco della linea dell’Oglio a settentrione, evitando cosí di affrontare frontalmente il grosso delle truppe del Pelavicino, schierate a sud. Sulla sponda orientale del fiume, presso il punto dove esso esce dal lago d’Iseo, si trovavano i due villaggi fortificati di Capriolo e di Palazzolo sull’Oglio: essi sorvegliavano dai due lati l’importante ponte di Calepio, che però non era stato tagliato. Le forze guelfe lo usarono dunque per passare velocemente sulla riva sinistra: poi i franco-provenzali puntarono con decisione su Capriolo, mentre le avanguardie dei milanesi procedettero all’assedio di Palazzolo. Fu un momento decisivo per l’esito della spedizione. Una parte consistente delle forze guelfe era al di là dell’Oglio, collegata solo da un ponte alle proprie retrovie. Dato che non era possibile sguarnire uno dei capi del ponte, le truppe erano divise dal fiume e vulnerabili a un eventuale contrattacco: se l’assedio ai due castelli si fosse prolungato, un abile comandante come il Pelavicino non avrebbe esitato ad approfittare della situazione. Anche i comandanti angioini dovevano essere consci del problema, dato che decisero di non fermarsi ad assediare Capriolo, ma optarono per un attacco d’impeto, con le scale. Violento e improvviso l’assalto ebbe un immediato successo, dato che i cavalieri franco-provenzali riuscirono a salire sulle mura e ad aprire le porte, permettendo l’immediata conquista del borgo. A Capriolo si consumò uno degli eventi piú drammatici di tutta la spedizione, dato che, una volta entrati nella fortezza, gli angioini passarono a fil di spada tutta la guarnigione e anche gran parte della popolazione civile. Un osservatore contemporaneo, il frate parmigiano Salimbene de Adam, ci fornisce una sintetica quanto efficace narrazione della travolgente avanzata angioina: Messer Oberto Pelavicino, podestà di Cremona, con i cremonesi e tutte le altre sue forze, cercò di impedire il passaggio al conte di Fiandra, comandante dell’esercito del signor re Carlo. Infatti il detto conte passò a forza il fiume Oglio presso Palazzolo e distrusse il castello di Capriolo. E tutti gli abitanti del castello, uomini, donne e bambini, furono passati per le armi, dacché avevano impiccato uno dei cavalieri del detto conte.5
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iv. la guerra in lombardia Come si vede, frate Salimbene giustifica la strage di Capriolo con un crimine precedentemente compiuto dai difensori, ma non ci sono altri cronisti che ne confermino la versione. Può darsi invece che Roberto di Fiandra avesse perso il controllo dei propri uomini o che, addirittura, avesse deciso coscientemente di compiere il massacro per spaventare i difensori delle altre fortezze e indurli a una rapida resa. Voluto o no, il terribile esempio dato a Capriolo si rivelò in effetti assai utile per gli assalitori, dato che la popolazione della vicina Palazzolo, per evitare di condividerne la sorte, decise di ribellarsi, imprigionare la nutrita guarnigione di fanti bresciani e cremonesi e consegnare il castello ai milanesi, il 15 dicembre. Ora l’esercito angioino aveva eliminato i centri di resistenza sulla sponda del fiume Oglio e poteva oltrepassarlo in tutta rapidità per proseguire attraverso il territorio bresciano, mentre i della Torre, compiuto il loro dovere di allea ti, riportarono indietro le proprie truppe. Per i signori di Milano, la scelta di campo filoangioina si era rivelata un vero affare. Il prestigio del Pelavicino nel nord era stato distrutto, tanto che egli non costituiva piú un vero rivale. Vercelli era entrata nell’orbita torriana e aveva accettato come podestà un membro della famiglia, Paganino. Nella stessa Brescia, umiliata militarmente, si stava sviluppando verso il marchese un sentimento di ostilità, che nel gennaio successivo avrebbe portato la città a ribellarsi e a passare nel fronte guelfo. Va osservato, incidentalmente, che Andrea d’Ungheria asserisce che la dinastia milanese aveva tentato di tradire Carlo e di impedire l’avanzata del suo esercito, ma non vi sono altre testimonianze in tal senso ed è probabile che il cronista, scrivendo verso il 1272 in un periodo in cui Angiò e della Torre erano diventati nemici,6 abbia volutamente travisato i fatti. In pochi giorni, le truppe di Roberto di Fiandra attraversarono il territorio bresciano, seminandovi morte e saccheggi; per spregio si portarono anche di fronte alle mura della città tirando all’interno alcuni colpi di balestra. I bresciani assistettero impotenti al transito della colonna angioina attraverso il loro contado e forse per questo, poche settimane dopo, si sarebbero rivoltati contro il Pelavicino, aderendo all’alleanza guelfa capeggiata da Milano. Infine, gli attaccanti raggiunsero il forte castello di Montichiari, che fu a sua volta preso 63
l’aquila e il giglio d’assalto e rapidamente piegato. Ora i franco-provenzali potevano dirigersi a sud-est, verso la guelfa Mantova, valicare il Po e proseguire in territorio amico. Il trionfo di Roberto di Fiandra era stato completo e impressionante. In pochi giorni egli aveva piegato la resistenza di tre forti castelli e sfondato la linea difensiva sulla quale Oberto Pelavicino aveva sperato, se non di fermarlo, almeno di rallentarne significativamente l’avanzata. Il tutto con perdite minime e senza dover affrontare alcuna battaglia campale, dato che il grosso delle truppe dei ghibellini lombardi rimase immobile fra Soncino e Orzinuovi, senza osare affrontare il nemico. 3. Verso sud La facilità dello sfondamento angioino stupí tutti i contemporanei. Per giustificare la mancata opposizione a Carlo, si ricorse alla piú tradizionale delle spiegazioni, il tradimento. Per questo Dante colloca uno degli alleati di Oberto Pelavicino, il cremonese Buoso da Dovara, nel fondo dell’Inferno, nella distesa ghiacciata dell’Antenora, il girone dei traditori della città o della parte: « El piange qui l’argento de’ Franceschi / “Io vidi” potrai dir “quel da Duera / là dove i peccatori stanno freschi” ».7 Buoso, insomma, secondo una voce raccolta anche da Giovanni Villani, avrebbe trattenuto il Pelavicino dal dar battaglia, permettendo cosí che gli angioini passassero indenni.8 In realtà, però questa interpretazione sembra essersi diffusa soltanto verso la fine del secolo, mentre nessuna cronaca coeva riporta sospetti in tale direzione. Gli Annali piacentini ghibellini dicono che Roberto di Fiandra entrò a Capriolo per la “stoltezza” dei difensori. Non è chiaro perché costoro si siano meritati tale critica, che potrebbe evocare una scarsa sorveglianza delle mura, il mancato sbarramento del ponte di Calepio o forse l’ingenuità nell’accettare una resa precoce, ma non certo indicare un tradimento.9 Bisogna allora riconsiderare l’atteggiamento di Oberto, che da molti è stato ritenuto sorprendentemente passivo. Innanzitutto, valutiamo i rapporti di forze. Come abbiamo detto, il marchese aveva con sé a Soncino e Orzinuovi un nucleo di mercenari tedeschi, gli eserciti di Cremona e di Piacenza e la cavalleria pavese, ossia, proba64
iv. la guerra in lombardia bilmente, circa 3 o 4000 uomini a cavallo e forse 10.000 fanti. Una forza imponente, senza dubbio, ma inferiore a quella dei francesi, dei milanesi e dei bergamaschi uniti. Se le fortificazioni sull’Oglio avessero resistito, il Pelavicino avrebbe potuto tentare qualche azione sul fianco degli avversari impegnati in un difficile transito del fiume, ma la repentina caduta di Capriolo e Palazzolo gli impedí anche questa mossa. Come avevano già dimostrato nel territorio di Novara, sicuramente le forze franco-provenzali avevano una particolare attitudine a prendere d’impeto i castelli, probabilmente gettando scale contro le mura e salendovi di slancio. Come vedremo, questa tattica fu loro molto utile anche nel seguito della campagna. La differenza nelle operazioni contro Capriolo e Palazzolo è estremamente indicativa: mentre la seconda fu cinta d’assedio dai milanesi e capitolò patteggiando solo dopo la caduta di Capriolo, la prima venne assalita con vigore dagli angioini, che ne ottennero la resa in poche ore. Le forze di Carlo, inoltre, avevano saputo abilmente sfruttare la loro posizione di attaccanti, dato che gli avversari erano obbligati a disperdere i propri uomini per presidiare il territorio e consentivano cosí ai cavalieri franco-provenzali di colpire in massa le guarnigioni creando localmente una superiorità numerica schiacciante. La rapidità di movimento della colonna guidata da Roberto di Fiandra non permetteva agli avversari di radunarsi a loro volta e di contrattaccare: si trattava di una strategia rischiosa, ma estremamente efficace, che sarebbe stata replicata anche nel Meridione. Non bisogna infine dimenticare le perdite subite dalle truppe ghibelline a Capriolo, Palazzolo e Montichiari, che gli Annali di Parma valutano a 400 cavalieri e 1000 fanti tra cremonesi, bresciani e vassalli del Pelavicino.10 Si tratta di cifre significative, in grado di deprimere ulteriormente le capacità di combattimento dell’esercito di Oberto. Al Pelavicino in teoria restava la possibilità di provocare a battaglia campale i nemici e poi confidare nella buona sorte. Si trattava però di un rischio enorme, soprattutto se si considera che il marchese aveva già avuto modo di scoprire che i cavalieri francesi erano avversari temibili. Nella primavera del 1265, infatti, era avvenuto un episodio trascurato dalla maggior parte dei cronisti, ma probabilmente non privo di peso. Il Pelavicino aveva da poco sottomesso Alessandria e Tortona, 65
l’aquila e il giglio spingendo cosí il suo dominio verso ovest, sino ai confini di quello di Carlo d’Angiò e sottraendo territori a Guglielmo VII marchese di Monferrato. Nel maggio di quell’anno, le forze del Pelavicino, guidate dal nipote Ubertino di Scipione, si scontrarono con quelle provenzali e monferrine presso Nizza Monferrato e subirono una clamorosa disfatta, in seguito alla quale 200 cavalieri furono catturati (ma c’è anche chi dice che fossero 500). Fra loro vi era anche il cognato di Oberto, Alimperto de Marca, che subito Guglielmo VII di Monferrato fece inviare in catene in Provenza. Il colpo fu talmente duro che in Toscana si sparse la voce che lo stesso Pelavicino era stato ucciso in battaglia.11 Si era sicuramente trattato di una dura lezione sulla grande combattività dei cavalieri provenzali, che l’abile Oberto non poteva sottovalutare. Insomma, come mestamente osservano gli Annali ghibellini di Piacenza, mentre gli angioini passavano da trionfatori nel contado di Brescia, « Il marchese Oberto Pelavicino con gli uomini di Cremona e di Piacenza e i loro carrocci e la cavalleria di Pavia, se ne rimase fra Soncino e Orzinuovi, e permise ai nemici di passare senza combattere, dato che non si fidava dei bresciani ».12 Passata Montichiari, l’esercito di Carlo puntò a sud, discendendo il Mincio, fino a giungere a Mantova. La città, dalla salda tradizione guelfa, controllava i fondamentali ponti sul Po, che avrebbero permesso agli angioini di passare il fiume senza correre rischi. Qui inoltre li attendevano rinforzi e rifornimenti procurati dall’efficace macchina diplomatica pontificia. Nel frattempo, il papa aveva inviato quale legato il suo cappellano Goffredo di Beaumont, dandogli amplissimi poteri per favorire con ogni mezzo la discesa dei franco provenzali. Cosí gli scriveva Clemente, il 18 ottobre 1265: « Affinché l’esercito in aiuto di Carlo possa transitare sicuro per le località ancora in dubbio della Lombardia, ti concediamo piena autorità di punire a nome nostro tutti coloro chi gli si oppongono, privando i chierici di tutti i loro benefici e tutte le loro cariche, i laici di tutti gli uffici, gli onori e i feudi e di tutto ciò che detengono dalla Chiesa ».13 Goffredo aveva percorso l’Emilia e la Romagna rastrellando denaro e arruolando cavalieri per rinforzare il contingente angioino. Frate Salimbene da Parma, che udí a Faenza una delle sue prediche, ne dice un gran bene. Senza gli eccessi retori66
iv. la guerra in lombardia ci dei predicatori italiani, il cappellano francese puntava decisamente all’obiettivo, criticando l’operato di Manfredi, annunciando l’arrivo dell’esercito angioino e promettendo ai guelfi una rapida vittoria grazie alla superiorità delle truppe transalpine.14 In tal modo, egli riuscí a raccogliere una forza assai considerevole, di almeno un migliaio di cavalieri fra mantovani, ferraresi e romagnoli, anche grazie all’attivo appoggio del marchese Obizzo II d’Este e del conte Ludovico di San Bonifacio, capo dei guelfi veronesi esuli da quasi un trentennio. Altre truppe, fra cui i fuoriusciti guelfi fiorentini, forti di circa 400 militi, si congiunsero all’esercito durante la marcia. La colonna angioina, attraversata la Lombardia, entrò finalmente nell’Italia orientale, piú saldamente e tradizionalmente guelfa. I francesi transitarono da Bologna, nelle Marche, in Umbria e finalmente, valicato l’Appennino, passarono nel Lazio, dove arrivarono alla fine di dicembre. Avevano percorso a piedi e a cavallo in meno di due mesi un itinerario di circa un migliaio di chilometri, conquistando almeno quattro fortezze nemiche e forzando la linea dell’Oglio: un’impresa titanica che, agli occhi di molti contemporanei, fu resa possibile soltanto dalla protezione divina. Cosí narra infatti la marcia frate Salimbene da Parma: « E accadde un grande miracolo, poiché quell’anno non vi fu freddo o gelo, ghiaccio, neve, fango o pioggia, ma trovarono una strada bellissima, sicura e piacevole, come se fosse maggio. E ciò fu opera del Signore, dato che venivano a soccorrere la Chiesa ».15 Benvolere divino, buona organizzazione o semplicemente fortuna: quali che fossero le motivazioni, l’esercito di Carlo era giunto a Roma ben prima di quanto tutti si aspettassero. Ora la conquista del Regno era davvero a portata di mano.
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V AS SALTO AL REG NO
1. Due sovrani per un Regno Mentre la colonna angioina raggiungeva Roma, Carlo d’Angiò riceveva la corona del Regno. Il 6 gennaio 1266, quattro cardinali delegati dal pontefice allo scopo, lo proclamarono solennemente sovrano di Sicilia, durante una fastosa cerimonia svoltasi nella basilica di San Giovanni in Laterano. L’atto fu seguito da grandi festeggiamenti, volti a rafforzare il consenso di cui godeva il nuovo re a Roma e a innalzare il morale delle sue truppe: In occasione dell’incoronazione furono organizzate nuove e memorabili feste solenni e compiute grandi manifestazioni di gioia e solenni celebrazioni. Tutti i cavalieri, si danno ai tornei, come di costume soprattutto i nobili romani. Tutti, secondo le loro possibilità economiche, si acconciano di abiti eleganti e seguiti da comitive di cavalieri e con gran pompa e superbia si esibiscono in parate di gioia.1
Ormai il dado era tratto: i sovrani di Sicilia consacrati erano due e solo uno sarebbe sopravvissuto. Come si vede, però, Clemente IV non aveva osato lasciare Perugia per procedere alla cerimonia, affidando il compito ai suoi messi. In effetti, nonostante i primi successi ottenuti dagli angioini, la situazione era tutt’altro che tranquilla. L’accrescersi delle forze di Carlo aumentava anche i problemi, dato che si poneva ora la grave questione di come finanziare il resto della spedizione. Era assolutamente necessario far trovare a Roma viveri, altri rifornimenti e denaro, al fine di pagare le truppe e affiancare loro nuovi contingenti. Si valutava infatti che i due eserciti, quello in marcia e quello già raccolto a Roma, costassero complessivamente fra le 1000 e le 1200 lire di argento di Tours al giorno, una somma tremendamente alta. Ancora una volta si rivelò indispensabile l’appoggio di Clemente IV, che ordinò ai grandi enti ecclesiastici laziali di offrire le loro terre quali garanzie per i prestiti richiesti da Carlo. I finanzieri 68
v. assalto al regno romani misero cosí a disposizione dell’aspirante re quasi 35.000 lire di Tours. Una cifra imponente, ma sempre insufficiente a pagare i costi della grande spedizione, per la quale il papa riteneva necessarie almeno 100.000 lire di Tours.2 Giunto nell’Urbe alla fine di dicembre, l’esercito di Carlo vi si fermò circa tre settimane, indispensabili per rifornirsi, riorganizzarsi e riposare uomini e cavalli dopo la marcia forzata attraverso la penisola. Nonostante il grande sforzo della curia, però, il denaro faticosamente raccolto non era sufficiente per mantenere ancora a lungo l’esercito, sicché risultava impossibile attendere la classica stagione delle guerre, la primavera: era necessario rischiare e attaccare d’inverno, confidando nella clemenza del clima e nella rapidità delle operazioni. Sulle decisioni di Carlo dovettero pesare non poco anche gli inviti a non perdere tempo che, con toni ultimativi, gli faceva pervenire Clemente IV da Perugia. Cosí scriveva il papa il 31 dicembre 1265: Non avendo altre risorse per procurare denaro, abbiamo dato in pegno il vasellame d’oro e d’argento e le pietre preziose, insomma tutto il tesoro della Chiesa, e grazie a tale, benché insolita, garanzia, abbiamo la speranza di avere, non subito, ma a breve, 50.000 lire di Tours. Non oltre, perché i pegni non valgono di piú. Rifletti dunque, figliolo carissimo, su quali siano le tue necessità per mantenere i tuoi uomini, sia quelli già al tuo fianco, sia quelli in arrivo, e quelli che hai lasciato a Milano e in altre parti d’Italia: pensa a come mantenerli e come procurar loro i rifornimenti e quando ti deciderai ad avanzare verso il Regno, da dove troverai il denaro e i viveri necessari.3
Bisogna però considerare anche la possibilità che Clemente IV calcasse la mano, nel descrivere la situazione, al fine di accelerare la partenza di Carlo, con il quale si era accesa una chiara rivalità. La presenza del conte di Provenza a Roma turbava il papa, dato che Carlo si stava costruendo una rete di potere nel Lazio alternativa e concorrente con quella pontificia. Insomma, prima l’aspirante re si fosse mosso per conquistare il proprio regno, meglio sarebbe stato, anche per il governo temporale della curia. L’ultima lettera di esortazione di Clemente fu inviata l’11 gennaio. Il 20 successivo, effettivamente, Carlo si mosse verso sud. Il conte di Provenza nella sua avanzata verso Napoli, precedette seguendo esat69
l’aquila e il giglio tamente il tragitto dell’attuale A1, l’ “Autostrada del Sole”, dirigendosi verso Ceprano. Si trattava del tracciato della vecchia via romana detta Latina, che aggirava dall’interno le paludi Pontine. La via però si snodava tra le montagne ed era accidentata e facile da bloccare. Manfredi contava di fermare o almeno rallentare l’avanzata di Carlo sfruttando alcuni ostacoli: il ponte di Ceprano, sul fiume Liri, proprio al confine tra il Regno e il patrimonio di San Pietro, la rocca di Arce, nove chilometri piú a ovest, e infine il borgo fortificato di San Germano, alle soglie di Montecassino, una ventina di chilometri a sud. In queste ultime fortezze, il re aveva posto forze consistenti. Manfredi aveva in effetti scelto una strategia difensiva articolata. Egli aveva schierato robusti presidi nelle postazioni piú vicine al confine, contando sul fatto che in tal modo l’avanzata di Carlo si sarebbe impantanata in una sequenza di lunghi assedi. Quando le forze nemiche fossero state logorate dai combattimenti, dal clima invernale e dalla mancanza di denaro e di rifornimenti, il re si sarebbe mosso alla testa della sua riserva strategica di cavalleria pesante, schierata presso Capua. A tal fine, il sovrano svevo cercò di rinforzare il proprio esercito, per radunare un’imponente massa di cavalieri. Egli aveva richiamato tutte le truppe precedentemente inviate nell’Italia centrale e settentrionale e sperava che i ghibellini della penisola si schierassero dalla sua parte. La reazione fu però piuttosto tiepida. In effetti Manfredi fu raggiunto da piccoli contingenti di truppe fiorentine, al comando di Pier Asino degli Uberti, e piacentine, guidate dai figli del capofazione locale, Ubertino Landi, ma la risposta dei suoi seguaci fu sicuramente piú lenta di quanto egli aveva sperato. Uberto Pelavicino, ormai minacciato dai della Torre nei suoi stessi domini, non si mise in azione. Forse gli stessi alleati di Manfredi furono sorpresi della rapidità con cui gli angioini si erano mossi. Agli inizi di febbraio, quando già Carlo stava avanzando nel Regno, il nobile ghibellino fiorentino Azzolino degli Uberti era ancora in patria e stava contrattando senza fretta l’acquisto dell’equipaggiamento che gli sarebbe servito per partire verso sud con i suoi seguaci.4 Il re di Sicilia comunque aveva altre risorse e nell’estate del 1265 aveva inviato messi in Germania al fine di arruolare altri 2000 cavalieri teutonici, ai quali aveva promesso dop70
v. assalto al regno pio stipendio rispetto al solito. Questi soccorsi, dunque, andavano pagati a caro prezzo, con un costo che sarebbe stato scaricato sui sudditi. Per finanziare la sua guerra, Manfredi aveva da tempo reintrodotto la colletta, la piú odiata fra le tasse, dato che gravava in egual misura su tutti i contribuenti a prescindere dalla loro ricchezza. Crea ta da Federico II, la colletta era stata abolita da Corrado IV nel 1253, ma Manfredi era tornato a riscuoterla regolarmente, aumentandone notevolmente l’importo e diffondendo il malcontento fra le comunità urbane e rurali.5 L’esercito si rinforzava, ma al prezzo di una crescente ostilità popolare alle politiche del sovrano. 2. Il nemico alle porte Il 20 gennaio, come si è accennato, Carlo lasciò Roma. Le sue forze erano imponenti: divisi in otto grandi reparti, organizzati sulla base della regione di provenienza, circa 4000 cavalieri francesi e provenzali aprivano la marcia, seguiti da almeno un migliaio di italiani, fra cui spiccavano, per determinazione e compattezza, i 400 esuli guelfi fiorentini. Alle loro spalle procedevano fra 10.000 e 15.000 uomini a piedi: balestrieri provenzali, fanti romani, provenzali e francesi e combattenti irregolari aggiuntisi un po’ da ogni dove nella speranza di trovare un’occasione di far bottino. Chiudeva la marcia una grande quantità di carri, trainati da asini e da buoi e forniti per la maggior parte da Roma e dagli altri centri laziali, che trasportavano i rifornimenti necessari a uomini e cavalli, le armi e le armature piú pesanti, tende e attrezzature da campo e, infine, alcune macchine d’assedio. L’impressionante colonna si allungava per diversi chilometri, mentre procedeva verso sud attraverso il placido paesaggio del Lazio meridionale. Nonostante le dimensioni, le truppe angioine si mossero con rapidità: l’esercito, dopo essere passato per Formia, il 23 gennaio si accampò presso il castello di Molaria e due giorni dopo raggiunse il confine fra il dominio di San Pietro e il regno di Sicilia, nel villaggio di Ceprano, sul fiume Liri. Qui il cardinale Riccardo Annibaldi, che lo accompagnava, abbatté simbolicamente il cippo che segnava la frontiera. Con la benedizione apostolica, l’assalto al Regno poteva iniziare. 71
l’aquila e il giglio Non sappiamo se e quali apprestamenti difensivi fossero stati allestiti di fronte a Ceprano. In un processo celebrato quasi sessant’anni piú tardi, un testimone ricordava l’esistenza, al capo del ponte, di una torre di legno fatta costruire da Manfredi, che però sembra esser stata piú un posto di controllo daziario che una vera fortificazione.6 A Ceprano, comunque, non vi fu battaglia e le truppe angioine poterono valicare il Liri senza incontrare resistenza. Ancora una volta è Dante ad attribuire la mancata difesa del ponte al tradimento dei “bugiardi” baroni pugliesi: « a Ceperan, là dove fu bugiardo / ciascun pugliese ».7 La notizia fu ripresa da alcuni cronisti posteriori. Cosí, per esempio, narra gli eventi Giovanni Villani: Allora il conte Giordano veggendo sí potente la gente del re, abandonarono la terra e ’l ponte, chi dice per paura, ma i piú dissono per lo trattato fatto da re al conte di Caserta, imperciò ch’egli non amava Manfredi, però che per la sua disordinata lussuria per forza aveva giaciuto colla moglie del conte di Caserta, onde da llui si tenea forte ontato, e volle fare questa vendetta col detto tradimento. E a questo diamo fede, però che furono de’ primi egli e’ suoi che s’arrenderono al re Carlo.8
Anche qui, è però opportuno ricordare che nessun contemporaneo fa cenno a un presunto tradimento9 e, anzi, Saba Malaspina afferma decisamente che, confidando nel fatto che la violenza delle acque sarebbe stata sufficiente a rallentare la marcia dei nemici, Manfredi preferí schierare piú all’interno il grosso delle proprie forze: « anche se avrebbe dovuto ordinare alle sue consistenti forze di resistere a Ceprano, aveva lasciato gli accessi al regno abbandonati e privi di presidi a custodirli, in modo che l’ingresso risultava libero per i nemici. Al contrario, diede ordine a 2000 saraceni e 1000 cavalieri di presidiare per sicurezza il castello di San Germano ».10 Lo stesso Villani, come si può vedere, dà tutt’altro che per sicura la notizia di un accordo fra Carlo e il conte di Caserta, desumendola piuttosto dal comportamento posteriore del nobile e motivandolo con il ricorso ad uno dei piú banali luoghi comuni, ossia una storia di letto. Fatto sta che Carlo d’Angiò passò senza colpo ferire, cosa che in effetti stupí i contemporanei. Il cronista genovese non esita ad attribuire il successo alla volontà divina: 72
v. assalto al regno Carlo, preparato l’esercito, giunse al passo di Ceprano. Il passo era presidiato dagli uomini di Manfredi e Carlo lo temeva molto dacché era facile da difendere e pericoloso a passarsi. Ma chi è condotto da Dio, passa senza pericolo ovunque, per cui, dato che re Carlo procedeva in nome di Cristo e combatteva per la Chiesa, per restituirle le sue terre, passò con tutto l’esercito senza trovare ostacoli.11
In realtà non è necessario né pensare a miracoli o tradimenti, né criticare Manfredi per la scelta di non schierare le truppe sulla linea di confine. Nonostante le opinioni di molti – legate forse, in Italia, anche al mito della resistenza sul Piave durante la Prima Guerra Mondiale – organizzare una linea difensiva lungo un corso d’acqua è tutt’altro che facile. Demolire rapidamente i ponti in muratura, cosa problematica oggi con i mezzi tecnici di cui disponiamo, era quasi impossibile nel Medioevo e cercare di difenderli a mano armata poteva rivelarsi assai rischioso di fronte a una vigorosa carica nemica, come lo stesso Carlo d’Angiò avrebbe imparato due anni dopo, a Tagliacozzo. Inoltre, le truppe schierate a difesa sulla sponda erano vulnerabili ai tiratori nemici e, nel caso che gli esploratori avversari avessero trovato un guado da qualche parte, il rischio di essere aggirati e annientati spalle al fiume era altissimo. Le truppe di Carlo avevano già dimostrato lungo l’Oglio che passare con la forza un corso d’acqua non li spaventava, sicché dar loro battaglia lungo il Liri sarebbe stato inutilmente pericoloso. La prima vera barriera difensiva, dunque, non era il fiume, ma la possente fortezza di Arce, un castello posto a circa nove chilometri da Ceprano. Come aveva fatto il Pelavicino sull’Oglio, la tattica utilizzata dai difensori regnicoli era di non combattere sulle sponde del fiume, ma di mantenere il controllo di alcune fortezze nei pressi del ponte, in maniera da ostacolarne l’uso. Se Rocca d’Arce fosse rimasta nelle mani delle forze di Manfredi, l’esercito angioino sarebbe rimasto sotto la costante minaccia che una sortita dalla guarnigione potesse tagliargli i collegamenti con Roma, i rifornimenti o, nel peggiore dei casi, la ritirata. Ancora oggi, Rocca d’Arce rappresenta uno spettacolo impressionante, posta com’è sulla cima di una collina che si inerpica per oltre 73
l’aquila e il giglio 400 metri rispetto alla bassa valle del Liri. Come era risultato evidente in Lombardia, però, i francesi non avevano timore delle fortezze: la fanteria diede rapidamente la scalata al monte, circondando le mura. Secondo Saba Malaspina, il castellano di Arce, intimorito, offrí la resa della rocca in cambio del permesso di lasciarla con tutti i propri beni, mentre Andrea Ungaro dice che il castello fu preso con la forza. È possibile, per conciliare le due versioni, che vi siano stati alcuni scontri preliminari e che questi abbiano convinto i difensori del castello a una rapida resa.12 Secondo Saba, d’altronde, il contingente romano che si era unito a Carlo aveva portato con sé alcuni trabucchi, macchine d’assedio in grado di scagliare massi di grandi dimensioni, la cui presenza sicuramente contribuí a soffocare le velleità di resistenza della guarnigione.13 Ora il passaggio di Ceprano era davvero sicuro e la subitanea presa di Arce permise a Carlo una rapida progressione verso sud. 3. La battaglia di Cassino Il primo obiettivo dell’avanzata era il borgo di San Germano, ossia l’attuale Cassino. L’abitato, dominato dalla massiccia mole del monastero fondato da san Benedetto, occupa una posizione strategica fondamentale per il controllo degli itinerari fra Napoli e Roma. Stretto fra fiumi e montagne, esso è molto facile da difendere, come avrebbero appreso a loro spese gli Americani e gli Inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale. Il possesso di San Germano era dunque fondamentale e Manfredi vi aveva concentrato un forte contingente di truppe, composto da un migliaio di cavalieri teutonici e una quantità assai piú imponente – le cifre variano fra 2000 e 6000 – di fanti e arcieri saraceni.14 Il dato piú attendibile, comunque, è quello fornito dal documentato cronista Saba Malaspina, che, come abbiamo già visto, afferma che il presidio era composto da 2000 tiratori islamici e 1000 combattenti a cavallo. Qui si preparava uno scontro già decisivo. Per usare le parole del Villani, Manfredi « in San Germano mise grande parte di sua baronia, Tedeschi e Pugliesi e tutti i Saracini di Nocera coll’arcora e balestra e molto saettamento, confidandosi piú in quello riparo che inn-altro per lo forte luogo e per lo sito, che dall’una parte 74
v. assalto al regno ha grandi montagne e dall’altra paduli e marosi, ed era fornito di vittuaglia e di tutte cose bisognevoli per piú di due anni ».15 I cavalieri del Regno, i teutonici e i saraceni che dovevano difendere San Germano avevano costruito fortificazioni campali basate sulle rovine romane ancor oggi esistenti fuori dal borgo e che permettevano loro di sbarrare il corso del fiume Gari. Si trattava quasi sicuramente dei grandiosi resti della villa di Varrone e delle terme dell’antico municipio romano, che all’epoca dovevano essere assai piú imponenti che ora. La linea difensiva si estendeva poi verso ovest, fino ai piedi della montagna, includendo l’imponente anfiteatro del I secolo. Il 10 di febbraio ebbe luogo l’attacco decisivo. I due schieramenti erano divisi dal corso del Gari, ma questo non costituiva un ostacolo insormontabile. Il Gari e il suo vicino Rapido sono fiumi a carattere torrentizio, micidiali quando sono in piena (come avrebbero drammaticamente imparato i texani della 36a divisione dell’Esercito statunitense, quasi annientata dal fuoco tedesco e dalla corrente durante un azzardato tentativo di attraversamento del Rapido nel piovoso gennaio del 1944), ma dalla portata d’acqua abbastanza ridotta nell’asciutto inverno del 1265-’66. In tali circostanze, il Gari doveva rappresentare una barriera tutto sommato modesta. La battaglia di San Germano sembra aver avuto inizio in maniera abbastanza casuale. Tutto cominciò da una rissa scoppiata fra i garzoni dei due eserciti, che avevano portato i cavalli ad abbeverarsi sulle due sponde del fiume. Lo scontro richiamò i cavalieri angioini che, trovati impreparati i nemici, ne approfittarono per aggredirli. Ecco la vivace narrazione dell’assalto fornita da un cronista francese: Alcuni uomini dell’esercito di Carlo, che avevano piantato le tende a una certa distanza, udito il clamore pensarono che la guarnigione nemica avesse fatto una sortita per colpire i rifornimenti. Allora, prese le armi, si precipitarono da ogni parte verso le fortificazioni e senza timore per il pericolo, si ripararono con scudi piccoli e grandi dalla pioggia di frecce e sassi e scatenarono un violentissimo assalto contro i difensori.16
Cosí, le truppe francesi del conte di Vendôme, di Pietro di Beaumont e di Ugo di des Baux, si gettarono ancora una volta all’attacco frontale delle fortificazioni nemiche, superandole di slancio e penetrando 75
l’aquila e il giglio nell’anfiteatro dove si erano appostati i tiratori saraceni. Dopo la presa dell’arena, i cui difensori furono massacrati sul posto, anche il resto dell’esercito si uní all’offensiva in un assalto travolgente che obbligò i regnicoli a una fuga precipitosa. Un documento giudiziario, che narra gli eventi del 1266 quale antefatto di una lite fra l’abate di Montecassino e Carlo d’Angiò, cosí descrive vividamente i fatti: Gli uomini di San Germano, con le genti di Manfredi, che erano presenti in grandissimo numero, si opposero al re [Carlo] e fortificarono le rovine antiche, assai imponenti, che sono fuori da San Germano, e le sponde del fiume, in modo che nessuno dell’esercito del re sarebbe potuto passare senza aprirsi la strada con la spada. Ma le genti del re combatterono con tale coraggio che li batterono, sicché furono uccisi circa mille fra saraceni e cattivi cristiani, e i superstiti si rifugiarono nell’abitato di San Germano.17
Forzate le difese costruite lungo il fiume, lo scontro si spostò cosí nel borgo di San Germano. Le narrazioni di cui disponiamo divergono nel presentare i protagonisti della battaglia, ma non nel narrarne lo svolgimento. Secondo il Villani, il conte Burcardo di Vendôme, accompagnato da suo fratello Giovanni, spiegò la bandiera e si gettò con i suoi uomini all’inseguimento delle truppe che ripiegavano dal Gari verso San Germano. Una porta delle fortificazioni rimase aperta per accogliere gli uomini in ritirata e i francesi riuscirono a infilarvisi, alle spalle di questi ultimi. Prima che i difensori riuscissero a riorganizzarsi e a contrattaccare, giunsero anche i fuoriusciti di Firenze che si unirono al primo gruppetto di attaccanti. Ormai era impossibile difendere le mura e gli uomini di Manfredi si sbandarono definitivamente, chi arrendendosi, chi cercando scampo nella fuga. Secondo Saba Malaspina, invece, fu il romano Pietro Proconsole a gettarsi all’assalto, rimanendo però immobilizzato perché colpito dalle pietre scagliate dai difensori. Precipitandosi ad aiutarlo, i cavalieri italiani e oltremontani raggiunsero la porta e se ne impadronirono.18 A questo punto, il borgo e la sua guarnigione offrirono la resa, che fu accettata grazie all’intermediazione dell’abate di Montecassino e di altri religiosi. Le perdite subite dalle forze di Manfredi furono altissime: i cava76
v. assalto al regno lieri teutonici e del Regno poterono in parte arrendersi, mentre non vi fu nessuna pietà per i saraceni, che fuggirono o furono uccisi armi in pugno. Solo un certo numero di difensori riuscí a ritirarsi fino a Benevento, dove poté poi congiungersi alle truppe guidate da Manfredi per l’ultima battaglia. Ancora una volta, insomma, la determinazione con cui i militi francesi si gettavano all’attacco delle fortezze ebbe un peso decisivo. La descrizione di Giovanni Villani è colorita ed efficace nel mostrare i cavalieri che, abbandonati i destrieri, si gettavano in avanti proteggendosi con ripari improvvisati: « I Franceschi con grande furore assalirono la terra e dando battaglia da piú parti; e chi migliore schermo non potea avere, ismontando de’ cavagli e levando loro le selle, con esse in campo andavano sotto le mura e torri della terra ».19 La rapida caduta del castello di San Germano fu un vero disastro militare per Manfredi, in primo luogo per il quasi completo annientamento della robusta guarnigione che vi era stata schierata, con la morte di piú di 1000 uomini, fra cui un buon numero di cavalieri pesanti e la cattura di altre centinaia. Alla conquista di San Germano fece inoltre seguito il collasso del potere di Manfredi nella zona: le guarnigioni delle contigue località di Rocca Ianula, di Montecassino e di altre 32 fortezze minori cedettero le armi e si consegnarono senza combattere alle truppe angioine, che rimasero padrone dell’intera regione.20 A tre settimane dalla sua partenza da Roma, Carlo aveva scardinato l’intero apparato difensivo di frontiera e poteva procedere verso il cuore del Regno.
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VI LA BATTAG LIA
1. Una travolgente avanzata Dopo la vittoria di San Germano, Carlo d’Angiò aveva assunto la piena iniziativa militare. L’apparato difensivo allestito da Manfredi era ormai saltato ed erano definitivamente gli attaccanti a imporre il loro ritmo alla guerra. Dato che i guelfi erano incalzati dalla scarsità di denaro e rifornimenti, tale ritmo non poteva che essere frenetico, tanto che di fronte a San Germano furono anche abbandonate le macchine d’assedio portate dai romani, accusate di rallentare la marcia. In effetti, esse erano ormai inutili, dato che i castelli dell’entroterra, uno dopo l’altro, aprivano spontaneamente le porte agli angioini, senza opporre alcuna resistenza. Dopo aver rapidamente riorganizzato le truppe, Carlo riprese l’avanzata e il 16 febbraio si trovava già a Mignano, una località a una ventina di chilometri da Cassino, procedendo con decisione verso sud. Manfredi si era attestato con la sua riserva strategica di cavalleria pesante presso la città di Capua, una località fondamentale sia dal punto di vista strategico, sia da quello simbolico. Capua era infatti considerata il vero ingresso del Regno e lí Federico II aveva fatto costruire una celebre porta monumentale che sorvegliava il ponte Casilino sul fiume Volturno e doveva rappresentare i fasti della dinastia sveva.1 Qui inoltre ci si poteva appoggiare al corso del Volturno per tentare, ancora una volta, di sfruttare un fiume per ostacolare l’avanzata dei nemici. La posizione scelta dal re aveva però anche uno svantaggio da non sottovalutare, dato che si trovava proprio nel cuore della regione dove l’opposizione al potere svevo e i sentimenti filopontifici erano piú marcati. Non erano passati che pochi mesi dalla drammatica distruzione di Cava dei Tirreni e l’atteggiamento delle comunità cittadine nei confronti di Manfredi non era per nulla cambiato. Una cronaca del XIV secolo, i cosiddetti Diurnali di ser Matteo di Giovinazzo, riporta un episodio emblematico dei rapporti esistenti fra 78
vi. la battaglia il re e le città tirreniche. Nell’autunno del 1265, infatti, il sovrano svevo sarebbe stato raggiunto da una delegazione proveniente da Napoli, che riportava le lamentele della cittadinanza per l’interdetto da cui il centro era stato colpito. Il papa aveva infatti vietato al clero di celebrare messe, battesimi e funerali nelle terre fedeli a Manfredi. Que st’ultimo, sbrigativamente, rispose che avrebbe inviato a Napoli un contingente di Saraceni con il compito di obbligare con la forza i preti a compiere il loro dovere, ma i napoletani tutti risposero: « “Signore non ce li mandate, perché Napole non vole alloggiare Saracini”. Et lo re s’adirao fortemente ». Il malcontento della città in seguito all’episodio era cosí palese che il giorno seguente il re dovette inviarvi delle truppe di presidio: « lo re mandao messer Ioffredo de Loffredo ad Napole e se disse cha havea paura che Napole non se sollevasse ».2 Il testo attribuito a Matteo di Giovinazzo è un centone di cronache precedenti, dall’attendibilità molto varia, ma sia che l’evento fosse realmente accaduto, sia che sia frutto di una rielaborazione piú tarda, l’episodio offre comunque una efficace immagine delle difficoltà dei rapporti fra una Napoli che non aveva rinunciato alle ambizioni di ritagliarsi qualche spazio di autogoverno e Manfredi, che fedele alla lezione del padre, intendeva mantenere sotto il piú stretto controllo centrale la vita delle città. Di fronte alla vittoriosa avanzata di Carlo, tutto il malcontento delle comunità campane, represso nell’ultimo decennio, esplose clamorosamente: terre, città e castelli aprirono immediatamente le porte all’esercito angioino. Venafro, Gaeta e Napoli si consegnarono nelle mani dell’aspirante re senza opporre alcuna resistenza, anzi, alcune fonti parlano di una vera e propria ribellione antisveva scoppiata a Napoli.3 Lo stesso malumore doveva agitare Capua, nonostante la minacciosa presenza dell’esercito regio, tanto che la città finí con l’attirare l’ira di Manfredi. Calcando forse un po’ la mano, Andrea Ungaro narra infatti che « Il già principe Manfredi, riflettendo, aveva deciso che, dopo aver incarcerato i piú eminenti cittadini capuani e aver fatto uccidere tutti gli altri, avrebbe dato fuoco alla città, ritenendo che fosse un male minore distruggerla di sua mano che non correre il rischio che fosse occupata dal nemico ».4 79
l’aquila e il giglio Manfredi non ebbe però il tempo di mettere in atto questi cruenti propositi. La travolgente avanzata di Carlo, infatti, richiedeva mosse immediate. Il conte di Provenza, invece di lanciarsi in un attacco frontale contro il fortificatissimo ponte di Capua, aveva proceduto per vie interne per poi valicare il Volturno nei pressi di Telese, minacciando cosí di aggirare e prendere sul fianco l’esercito svevo. Data l’ostilità delle città tirreniche, quest’ultimo rischiava di venir preso tra i due fuochi e di dover accettare battaglia avendo di fronte le forze dell’Angiò e alle spalle le comunità urbane avverse, quando non in vera e propria rivolta. Manfredi decise dunque che la posizione era indifendibile, sicché si risolse ad abbandonare le campagne di Capua e a marciare verso l’interno, per raggiungere la Puglia. Qui egli, che era stato principe di Taranto, disponeva di appoggi e di basi operative piú fidate, soprattutto la città di Lucera con la sua fedelissima colonia saracena. Il ripiegamento strategico gli avrebbe inoltre permesso di radunare tutte le forze ancora schierate lungo le frontiere nel tentativo, ormai inutile, di presidiarle. In particolare Corrado di Antiochia, figlio del fratellastro di Manfredi, che era di guarnigione in Abruzzo con circa 2000 cavalieri pesanti, venne frettolosamente richiamato e si mosse verso sud per unirsi all’esercito dello zio. Carlo, però, fu informato delle mosse dell’avversario. Indifferente alle difficoltà logistiche e alla scarsità di rifornimenti, che avrebbero consigliato una lunga sosta sulla costa tirrenica, il conte di Provenza si lanciò ancora una volta in avanti, inseguendo le truppe avversarie in ritirata. L’incontro avvenne a Benevento, dove gli angioini riuscirono a intercettare la colonna di Manfredi in movimento verso est. Il 25 febbraio, le forze di Carlo si accamparono sul monte Caprara, circa 7 chilometri a nord dalla città. In quest’ultima era a sua volta giunto Manfredi, che ebbe la sorpresa di trovarvi qualche centinaio di cavalieri pesanti teutonici e di arcieri saraceni scampati alla battaglia di San Germano. Essi però, benché aumentassero la consistenza delle forze sveve, contribuirono anche a minarne il morale, con il triste racconto della disfatta subita. Mentre le truppe nei due campi si riorganizzavano, gli esploratori segnalarono la presenza delle forze avversarie ai rispettivi comandanti, che seppero cosí di doversi preparare alla battaglia. 80
vi. la battaglia All’alba del 26 di febbraio gli angioini avanzarono verso la città e i contendenti si schierarono finalmente uno contro l’altro. Non era possibile evitare lo scontro, dato che per entrambi ulteriori esitazioni avrebbero rischiato di essere fatali. Le truppe di Carlo erano stremate: per un mese, quasi incessantemente, avevano combattuto e erano avanzate a tappe forzate nell’interno del Regno. Ora esse mancavano di tutto: cavalli e combattenti erano al limite delle forze e non avrebbero potuto rimanere in campo ancora a lungo. Le forze di Manfredi a loro volta avevano collezionato una lunga serie di sconfitte e una fuga di fronte al nemico avrebbe distrutto definitivamente il prestigio e il potere del re. 2. Gli schieramenti La battaglia di Benevento è uno degli eventi bellici medievali su cui siamo, almeno in apparenza, meglio informati. Disponiamo infatti di due resoconti abbastanza dettagliati ad opera di cronisti contemporanei (Andrea Ungaro e Saba Malaspina) e di piú sintetiche descrizioni fornite dalle piú generali cronache coeve, provenienti da tutta Italia e dalla Francia, a cui si aggiunge la piú tarda, ma ben informata opera di Giovanni Villani. Ne esiste anche una raffigurazione quasi contemporanea, affrescata sui muri della torre detta Ferrande, nel villaggio provenzale di Pernes-les-fontaines. Ciò nonostante, non è facile mettere in dialogo fra loro queste narrazioni, assai divergenti per precisione e contenuti, al fine di raffigurarsi un quadro organico dell’accaduto. Per evitare di costruire una battaglia immaginaria, composta da elementi tratti a caso da fonti diverse, sarà bene attenersi alle due cronache piú dettagliate e vicine agli eventi – quelle di Saba Malaspina e di Andrea Ungaro – che offrono una narrazione tutto sommato coerente, integrandole, con le dovute cautele e solo laddove necessario, con le altre.5 La prima difficoltà si pone sin dalla valutazione quantitativa delle forze in campo, sui numeri delle quali il Malaspina e Andrea Ungaro danno solo informazioni parziali, mentre le altre fonti forniscono cifre assai divergenti, con evidenti fini propagandistici. Cosí, gli Annali piacentini ghibellini attribuiscono a Manfredi 4000 cavalieri pesanti (ai 81
l’aquila e il giglio quali comunque andrebbero aggiunti i contingenti saraceni) a fronte di uno sterminato esercito avversario composto da ben 10.000 militi a cavallo e da una innumerevole massa di fanti. I cronisti guelfi, al contrario, tendono a valorizzare la consistenza delle forze sveve, per meglio esaltare il valore di quelle angioine. Secondo gli Annali di Parma i cavalieri di Manfredi erano 8000 e per quelli padovani di Santa Giustina il principe aveva una grande quantità di cavalieri regnicoli, tedeschi, ghibellini italiani, mercenari catalani e innumerevoli saraceni.6 Piú equilibrato sembra il tardo, ma bene informato Giovanni Villani, che come al solito dà cifre molto piú basse e parla di 3600 cavalieri pesanti fra le schiere di Manfredi, contrapposti ai 3000 militi di Carlo.7 Un dato frutto dell’osservazione personale è infine fornito da un combattente provenzale – che partecipò alla battaglia e la descrisse in una lettera circolare inviata ai nobili di Francia – il quale valutò a occhio a 5000 cavalieri pesanti le truppe di Manfredi,8 piú o meno equivalenti a quelle angioine. Insomma, è probabile che nella sostanza le forze di cavalleria schierate dai due campi fossero grosso modo simili, diciamo circa 4 o 5000 uomini per parte. Le cose cambiavano drasticamente se invece si tiene conto dei combattenti appiedati. Carlo, infatti, aveva portato con sé parecchie migliaia di fanti e di tiratori, per lo piú arruolati nelle città della Francia meridionale, ai quali si erano aggiunti poi consistenti contingenti italiani, fra cui una parte dell’esercito romano, i volontari emiliani e romagnoli e i fuoriusciti guelfi fiorentini. Bisogna ricordare che il conte di Provenza non era nuovo al teatro bellico italiano, poiché da quasi dieci anni egli controllava una parte del Piemonte sud-occidentale. Durante le ripetute guerre contro la città di Asti, che gli contendeva l’egemonia sulla regione, Carlo doveva aver imparato a conoscere l’utilità sul campo di una fanteria ben addestrata e motivata, tanto che a Benevento egli decise di affiancarla direttamente alle truppe di cavalleria. Riferisce infatti Saba Malaspina che prima della battaglia, Carlo diede i seguenti ordini ai suoi uomini: Siate dunque, prudenti solleciti e attenti, in modo che, quando affronterete la battaglia, che non possiamo evitare, feriate i cavalli piuttosto che gli uomini e colpiate con la punta delle spade e non con il taglio, cosí da abbattere sotto i vostri colpi i cavalli dei nemici. In tal modo i cavalieri abbattuti, prima
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vi. la battaglia che possano rialzarsi, storditi e gravati come sono da armi e armature, saranno trucidati per mano dei nostri fanti. Regolatevi dunque cosí. Ogni singolo cavaliere abbia al suo fianco uno o due fanti, se può, e se non può, almeno un paio di combattenti irregolari (ribaldi).9
Il brano ha suscitato la curiosità di molti commentatori moderni, alcuni dei quali non hanno mancato di accusare Carlo di viltà e di slealtà per il suo approccio cosí pratico e poco cavalleresco alla battaglia. In realtà si tratta di disposizioni estremamente razionali e logiche dato che, come è chiarito poche righe dopo, Carlo sapeva che la stanchezza dei suoi cavalli avrebbe reso meno efficaci le cariche dei suoi uomini rispetto a quelle dei piú freschi avversari: « I nostri cavalli, infatti, stremati dalla lunga fatica della marcia, non sono abbastanza potenti e forti per poter competere con quelli del nemico, a meno che noi non ci comportiamo con astuzia nel corso del combattimento ».10 Il conte di Provenza decise dunque di impostare una battaglia statica, che gli avrebbe permesso di minimizzare questo inconveniente e di valorizzare invece al massimo l’apporto delle fanterie. Al contrario Manfredi, come i suoi predecessori sul trono siciliano, non credeva all’utilità delle forze cittadine o, comunque, non se ne fidava, sicché non poteva mobilitare di un numero significativo di combattenti a piedi. A Benevento il grosso degli ausiliari dello Svevo era rappresentato dai saraceni di Lucera, ma, per quanto fossero addestrati e aggressivi, gli uomini di una sola città non potevano essere sufficienti a pareggiare il numero degli avversari, tanto piú che essi avevano già subito gravi perdite nei primi scontri di confine e nella battaglia di San Germano. La cifra di 10.000 saraceni presenti alla battaglia, fornita da Saba Malaspina, è sicuramente eccessiva e simbolica, volta piú a rimarcare il peso degli infedeli tra le forze di Manfredi che non a fornire un’informazione oggettiva. Le truppe di Carlo d’Angiò, benché piú numerose, avevano però un punto debole. Esse giungevano da un mese di combattimenti e di marce forzate ed erano pressoché sfinite, mentre le forze di Manfredi fino a quel momento erano rimaste di riserva e quindi si presentavano sul campo di battaglia fresche e riposate. Nei giorni precedenti, le difficoltà di rifornimento avevano talmente esasperato gli animi tra le 83
l’aquila e il giglio file angioine che alcuni cavalieri francesi e i carrettieri romani che seguivano l’esercito con armi e vettovaglie erano venuti alle armi in uno scontro che aveva lasciato parecchi morti sul terreno.11 Manfredi aveva invece con sé truppe rifornite e ben equipaggiate. In particolare, i combattenti del Regno potevano contare su una risorsa importantissima, le loro eccellenti cavalcature. Da oltre un trentennio era infatti operativa nel Regno la capillare struttura delle cosiddette arazie, gli allevamenti pubblici di cavalli istituiti da Federico II al fine di rifornire l’esercito con animali di elevata qualità. Manfredi aveva mantenuto e potenziato tali infrastrutture, sicché ora poteva trarne il frutto. Teutonici e pugliesi montavano dunque destrieri selezionati, ben nutriti e riposati. Al contrario, le forze di Carlo da questo punto di vista erano assai meno omogenee: i nobili e i cavalieri addobbati potevano a loro volta disporre di destrieri forti e addestrati, ma molti fra i sergenti e gli avventurieri aggregatisi alla spedizione dovevano montare quadrupedi quali palafreni o ronzini, che non erano destinati specificamente alla guerra. Inoltre, l’ininterrotta e rapida avanzata compiuta nelle settimane precedenti dai guelfi, aveva sicuramente logorato le loro cavalcature. Ancora, i cavalieri dei due eserciti non erano equipaggiati nella stessa maniera, come affermano le cronache e mostrano bene i già ricordati affreschi della Torre Ferrande. La maggior parte dei franco-provenzali era dotata della classica armatura che da oltre un secolo rappresentava la dotazione standard dei cavalieri, ossia una cotta di maglia ad anelli dotata di cappuccio, che riparava il combattente dalla testa alle ginocchia. Gambiere e guanti dello stesso materiale e un elmo aperto dotato di nasale completavano la panoplia. I tedeschi, invece, forse anche grazie ai lauti stipendi versati da Manfredi, potevano disporre di protezioni piú sofisticate, con piastre metalliche o placche di cuoio bollito aggiunte alle cotte di maglia per riparare il petto e il ventre. Essi portavano inoltre i caratteristici elmi teutonici a secchio, chiusi davanti e dotati solo di una stretta feritoia che garantiva la visuale. In entrambi i campi, i grandi scudi a mandorla utilizzati nei decenni precedenti erano stati sostituiti da piú piccoli e agili scudetti triangolari. A compensare questo stato di cose, come si è già accennato, vi era però il morale. Gli angioini uscivano da mesi di ripetute ed esaltanti vittorie, in Lombar84
vi. la battaglia dia come nel Lazio, e si apprestavano a dare il colpo decisivo al nemico, mentre le forze di Manfredi avevano visto disfarsi il loro apparato difensivo, ribellarsi le città della costa e arrivavano a battaglia nel mezzo di una ritirata, sia pur strategica. Con molto acume, Saba Malaspina coglie i differenti stati d’animo dei due schieramenti nella fase finale della campagna: « Infatti, tanto piú si accresceva l’audacia dei francesi, tanto piú si faceva tremante la pusillanimità dei regnicoli, attonita al solo sentire della ferocia gallica e terrorizzata dalle gesta sovraumane degli oltremontani ».12 I due co mandanti in capo prima dello scontro tentarono di migliorare il morale delle loro truppe. Carlo dapprima dovette discutere con una parte dei propri ufficiali, che avrebbero preferito procrastinare il combattimento al fine di meglio vettovagliare i propri contingenti. Prevalse però l’opinione di dar subito battaglia, soprattutto grazie all’autorevole parere del connestabile di Francia Gilles le Brun. Per meglio disporre i suoi uomini, il conte di Provenza, dato che la gran parte dei suoi combattenti a cavallo non aveva il titolo ufficiale di cavaliere, conferí l’addobbamento a coloro che piú si erano distinti fino a quel momento, promettendo di fare altrettanto con i piú valorosi nella battaglia a venire. Sia Carlo sia Manfredi si lanciarono poi in vibrati discorsi, anche se purtroppo non possiamo essere sicuri dell’attendibilità delle parole che i cronisti pongono loro in bocca. Senza entrare nei dettagli, sembra che Carlo abbia ovviamente insistito sulla protezione divina che avrebbe assicurato la vittoria ai fautori della Chiesa e abbia giocato con abilità sulla propria omonimia con Carlo Magno, evocando per i suoi uomini un destino da veri paladini. A sua volta Manfredi, che non poteva giocare questa carta, fece appelli piú generici al coraggio e al valore, confidando inoltre – almeno secondo i racconti non certo imparziali di Andrea Ungaro e Saba Malaspina – in alcuni responsi astrologici a lui favorevoli. Il campo di battaglia è ben descritto da tutte le nostre fonti. I due eserciti erano separati dal corso del Calore, un fiume dalla discreta portata d’acqua che costeggia a nord la città di Benevento. Sulla sponda meridionale, con il centro della città alle spalle, erano posizionati gli uomini di Manfredi, mentre dall’altro lato, discendendo dal monte Caprara, andavano schierandosi i francesi. Le testimonianze a no85
l’aquila e il giglio stra disposizione concordano abbastanza bene sul modo con cui i due eserciti si schierarono per la battaglia. Per quanto riguarda Manfredi, tutti affermano che egli aveva disposto i suoi cavalieri in tre grandi reparti di forza pressoché equivalente, probabilmente fra i 1000 e i 1500 cavalieri, affiancati dalla massa, difficilmente quantificabile, degli arcieri saraceni. Il primo era composto prevalentemente da teutonici e saraceni, guidati da Giordano d’Agliano, il secondo da tedeschi al comando del conte Galvano Lancia; il terzo, formato in prevalenza da nobili e cavalieri del Regno affiancati dai contingenti inviati dagli alleati ghibellini del centro-nord, era agli ordini di Manfredi stesso. Si trattava del classico schieramento adottato da quasi tutti gli eserciti di cavalleria dell’epoca: la divisione delle truppe in tre schiere (sclerae) o battaglioni (batailles) – un’avanguardia, una forza d’impatto e una riserva strategica – era infatti la piú diffusa ed efficace tra le formazioni di combattimento in auge in Europa. Un po’ piú complesso invece sembra esser stato lo schieramento guelfo, dato che i cronisti non concordano nella descrizione, attribuendogli una divisione delle truppe chi in tre, chi in quattro e chi in ben cinque squadroni differenti. In sostanza, tutti concordano sull’esistenza di tre schiere principali, costituite sulla base della provenienza delle truppe: la prima, formata dai provenzali, era agli ordini di Filippo e Guido di Monfort e del maresciallo di Mirepoix, la seconda, con gli angioini e gli altri francesi, era guidata da Carlo stesso e la terza, con piccardi e fiamminghi, era sotto l’autorità di Roberto di Fiandra e del connestabile Gilles li Brun. A questi si aggiungeva un altro reparto composto dai guelfi italiani, mentre non trova nessun altro riscontro la menzione da parte di Andrea Ungaro di un quinto battaglione formato esclusivamente da uomini del Périgord.13 Si preparava, insomma, un classico scontro di cavalleria, come era concepito sui campi di battaglia dell’Europa settentrionale. Nella sostanza, si prevedeva che le prime due schiere dei campi contrapposti si affrontassero frontalmente, lancia in resta, caricandosi reciprocamente. Dopo il primo impatto, se nessuno dei contendenti avesse ceduto il campo, i cavalieri rimasti in sella avrebbero impugnato le spade e si sarebbero dati battaglia in una furibonda mischia corpo a corpo. Man mano che i combattenti cadevano, venivano catturati o 86
vi. la battaglia lasciavano feriti il campo, nuovi reparti si aggiungevano alimentando lo scontro, fino a che uno dei due schieramenti avesse ceduto. In real tà, sia Carlo d’Angiò che Manfredi avevano cercato di introdurre qualche variante a questo schema. Il primo, come abbiamo già visto, attribuí un ruolo offensivo alla fanteria a sua disposizione, affiancandola alla cavalleria nel corso della mischia, mentre il secondo poteva contare su consistenti forze di arcieri saraceni, alle quali, in maniera forse imprevista, diede l’ordine di iniziare la battaglia. Mentre i due eserciti si fronteggiavano, infatti, un folto gruppo di tiratori, non sappiamo se a piedi o a cavallo, fu distaccato dalla schiera di Giordano di Agliano, passò il ponte sul Calore e si diresse con decisione verso gli angioini. Lo scontro decisivo stava per cominciare. 3. L’attacco di Manfredi I saraceni aprirono dunque la battaglia, prendendo posizione nella piana che separava i due eserciti e cominciando a scagliare frecce contro lo schieramento francese. Non è chiaro cosa si ripromettesse Manfredi da questa mossa. I tiratori arabi, con i loro archi, non erano seriamente in grado di impensierire la massa dei cavalieri corazzati angioini e, esponendosi in prima linea, si rendevano estremamente vulnerabili a un contrattacco. Già trent’anni prima, a Cortenuova, Federico II aveva mandato gli arcieri di Lucera allo sbaraglio contro la fanteria milanese, solo per vederli rapidamente massacrati dalla pronta reazione della cavalleria lombarda. Non si può escludere che Manfredi avesse deciso scientemente di sacrificarli come esca, nella speranza che gli avversari si gettassero in disordine contro di loro, rendendosi vulnerabili a una carica dei cavalieri teutonici. Se era una trappola, gli angioini almeno inizialmente non ci caddero. Carlo non fece muovere alcuno dei suoi squadroni da battaglia, ma inviò contro gli arcieri quelli che Saba Malaspina chiama i ribaldi, ossia ausiliari appiedati, armati alla leggera, che non dovevano partecipare alla battaglia campale, ma servivano nell’esercito per compiere scorrerie e saccheggi contro il nemico. Il contrattacco dei ribaldi, in prima battuta fu un fallimento: privi di armature, essi furono falciati in massa dai dardi lanciati dai saraceni. Mentre però questi ultimi erano concen87
l’aquila e il giglio trati su questa minaccia, Carlo distaccò dalle proprie schiere un migliaio di uomini a cavallo: si trattava di sergenti, non di cavalieri addobbati, ma, come abbiamo già ricordato, essi erano comunque combattenti pari a questi ultimi per equipaggiamento e addestramento. La violenta carica colse gli arcieri di Manfredi completamente di sorpresa e, prima che essi potessero rischierarsi contro il nuovo bersaglio, i francesi piombarono su di loro sparpagliandone le linee e colpendoli con ferocia. Si prospettava un massacro, dato che i saraceni non erano armati ed equipaggiati per affrontare un corpo a corpo con la cavalleria angioina. Vedendo che finalmente quest’ultima si era mossa, Manfredi decise di lanciare a sua volta all’assalto i propri militi. Il primo squadrone regnicolo – 1000 cavalieri pesanti teutonici agli ordini di Giordano d’Agliano – discese verso il fiume, lo valicò a passo di carica e attaccò risolutamente i sergenti di Carlo lanciando il proprio grido di guerra “Svevia!”. Furono ora gli angioini ad esser sorpresi a ranghi dispersi, ancora intenti a dare la caccia ai tiratori nemici in ritirata. Il reparto francese venne cosí travolto e costretto a ripiegare in disordine. Per un momento, le sorti della battaglia sembrarono volgere a favore di Manfredi. La violenza della carica, lanciata dai teutonici con i loro possenti e freschi destrieri fu tale che il movimento dello squadrone di Giordano – l’élite delle truppe di Manfredi – parve inarrestabile. Il resto della prima schiera di Carlo, composta in prevalenza da provenzali, scese in campo, ma a sua volta non resse il furibondo assalto nemico e iniziò a ripiegare, minacciando di lasciare i tedeschi totalmente padroni del campo. Con un’efficace metafora, un cronista francese rende bene l’immagine della devastante potenza della massa compatta dei tedeschi scatenati all’attacco « quella falange era composta da teutonici e rappresentava la principale forza e speranza di Manfredi era impenetrabile a causa della sua compattezza e quasi come un muro respinse l’impeto del primo battaglione francese ».14 Dopo i primi combattimenti, lo scontro sembrava insomma volgere a favore dell’esercito del Regno, ma entrambi i contendenti avevano ancora forti riserve. Colui che le avesse usate meglio, sarebbe stato il vincitore.
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VII LA MORTE DEL RE
1. La reazione angioina Di fronte alla crisi dei reparti provenzali, che stavano cedendo sotto la pressione dei teutonici, Carlo mantenne freddezza e lucidità, e, resistendo alla tentazione di lanciare tutte le proprie forze in una controcarica affrettata, ordinò prima con cura i ranghi del secondo battaglione per poi condurlo personalmente nello scontro, al grido di battaglia dei re di Francia: “Montjoie!”.1 Mentre le nuvole coprivano il sole migliorando la situazione dei francesi – che muovendosi da nord ovest avevano avuto sino a quel momento la luce negli occhi – i militi di Carlo riuscirono a mantenere compatto il proprio schieramento e furono in grado di fermare la carica dei tedeschi, affrontandoli in un durissimo corpo a corpo. A loro volta le truppe di Giordano d’Agliano vennero raggiunte da quelle del secondo battaglione di Manfredi, anch’esso formato da teutonici posti agli ordini di Galvano Lancia, ma pure queste non riuscirono a spezzare il nuovo fronte formato dagli angioini. Ormai il grosso dei due eserciti era impegnato in battaglia e quattro o cinquemila uomini a cavallo e un numero imprecisato di fanti si battevano alla disperata in uno scontro dall’esito ancora incerto. A questo punto, secondo Giovanni Villani « subitamente si levò uno grande grido tra·lle schiere de’ Franceschi, chi che ’l si cominciasse, dicendo: “Agli stocchi, agli stocchi, a fedire i cavagli!”; e cosí fu fatto, per la qual cosa in piccola d’ora i Tedeschi furono molto malmenati e molto abattuti, e quasi inn isconfitta volti ».2 Anche Andrea Ungaro riporta un ordine simile, senza collocarlo precisamente nel corso del combattimento, ma attribuendolo esplicitamente alla voce di Carlo: Tra il rumore degli eserciti in battaglia, il comandante della guerra di Dio, cioè l’illustre re Carlo […] cosí, con voce regale, esortava i suoi cavalieri a vincere la battaglia: « colpite di punta, cavalieri di Cristo, trafiggete di punta! »; e non c’è da meravigliarsi, perché il prudente duce e consigliere dei ca-
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l’aquila e il giglio valieri aveva letto in un libro sull’arte militare che i nobili romani non avevano trovato modo migliore di combattere che ferire i nemici di punta.3
Queste disposizioni – riferite anche da Saba Malaspina che però, come abbiamo visto, le colloca prima dell’inizio del combattimento – hanno suscitato negli studiosi un interesse prevalentemente culturale, quale prova della conoscenza dello stile di combattimento classico da parte di Carlo, legata alla presenza di alcune copie del trattato De re militari di Vegezio (un autore latino, del IV secolo) alla corte angioi na.4 Non ne è stato valorizzato, invece, il significato specificamente tattico: i legionari romani, infatti, usavano colpire di punta con il gladio perché ciò permetteva di mantenere la compattezza della linea di combattimento, che si sarebbe invece dispersa se i soldati avessero dovuto dimenare le spade per usarle di taglio. Carlo, insomma, stava esortando i suoi a mantenere i ranghi quanto piú possibile serrati – adottando uno stile di combattimento ad hoc – per contrapporsi ai teutonici i quali, dopo la fine della loro prima carica si erano ormai sparpagliati. I francesi, inoltre, erano dotati di pugnali e di stocchi, con i quali a distanza ravvicinata, potevano ferire gli avversari nelle parti meno protette dalle armature, colpendo nelle giunzioni sotto le ascelle o nel basso ventre. Poiché spesso lo spessore delle corazze dei teutonici faceva rimbalzare i colpi vibrati dai francesi, questi ultimi con lame sottili e affilate li colpivano sotto le spalle, dove trovavano spazi vulnerabili, nel momento in cui alzavano le braccia per colpire, cosí immergevano le loro spade nelle viscere dei nemici raggiungendoli dai fianchi e dalle scapole prive di protezione.5
Come era nelle speranze di Carlo, la battaglia era ormai divenuta una mischia statica, nella quale le spade, le mazze ferrate e le asce da guerra avevano soppiantato le lance e lo scontro si era frammentato in centinaia di mischie confuse e sanguinose, come vividamente evocato da Andrea Ungaro: Come se si trattasse di un torneo, i tedeschi e gli alleati da loro istruiti conducevano la battaglia colpendo con le loro spade assai lunghe, con le scuri e con le mazze, stando distanti dagli avversari per tutta la lunghezza delle loro lame, ma i nostri francesi o intrufolandosi agilmente, o attaccandosi ai nemici
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vii. la morte del re come la carne alle unghie, con le loro corte spade li ferivano ai fianchi per colpirli al cuore e ucciderli.6
Si trattava di una modalità di combattimento piuttosto distante dalle immagini romantiche che ancora caratterizzano l’immaginario sulle battaglie medievali. Esaurito il primo impatto, infatti, non c’era posto per altre cariche o per rapidi movimenti a cavallo. I due schieramenti premevano l’uno contro l’altro cercando di farsi largo, mentre i combattenti delle prime linee si vibravano veementi colpi di spada. Si trattava, è bene precisare, di scontri estremamente cruenti. Le cotte di maglia di cui erano ricoperti i cavalieri in queste circostanze conferivano una protezione relativa e a distanza ravvicinata erano facilmente penetrabili. I fendenti di spada a piena forza erano in grado di amputare braccia, gambe e teste. Le piastre d’acciaio che rinforzavano le corazze dei teutonici potevano aumentare la protezione, ma, come abbiamo visto, solo fino a un certo punto. Corazze ed elmi, inoltre, limitavano i movimenti e la visibilità dei guerrieri. In un corpo a corpo ravvicinato, la maggior protezione garantita dagli elmi a secchio dei tedeschi era annullata dal fatto che attraverso la stretta feritoia per gli occhi era difficilissimo comprendere cosa accadeva attorno. In ogni caso, la polvere sollevata dagli zoccoli nascondeva ai combattenti lo svolgimento generale dello scontro, al di là delle immediate vicinanze. Il fragore delle armi, lo scalpitare dei cavalli, le urla e i nitriti accentuavano lo stordimento e impedivano di udire distintamente gli ordini. Assordati, storditi, spaventati e carichi di adrenalina, centinaia di uomini si battevano con furia per la propria vita, senza avere una chiara percezione di quanto si verificava attorno a loro. La battaglia era resa ancora piú violenta dalla natura dei combattenti: spesso, negli scontri fra i nobili cavalieri, si cercava di catturare il nemico, in modo da poter chiedere un riscatto alla famiglia, ma i mercenari tedeschi da un lato e i sergenti franco-provenzali dall’altro avevano poco da offrire in tal senso. Sulla ferocia dello scontro, fornisce una chiara testimonianza la cruda descrizione del campo di battaglia ad opera di Saba Malaspina: « Tutto il terreno era coperto dai corpi degli uccisi, e quasi non era rimasto alcuno spazio libero. Le carcasse dei cavalli giacevano sopra 91
l’aquila e il giglio ai cadaveri degli uomini. A stento si trovava qualche corpo integro, dato che per la grande violenza dei colpi scambiatisi, erano tutti mutilati e i resti dei diversi uomini si mischiavano in un insieme indistinto ».7 Non si trattava di semplice retorica. La crudezza della battaglia ebbe presto eco in tutta Italia, dato che anche una cronaca padovana coeva, i cosiddetti Annali di Santa Giustina, si esprime in termini quasi identici: « cadde una tale moltitudine di guerrieri che i corpi degli uccisi celavano completamente il terreno ».8 Lo stesso Dante Alighieri, pur facendo curiosamente riferimento solo a Ceprano (dove, come abbiamo visto, in realtà non si combatté) utilizza l’immagine del campo di battaglia di Benevento per illustrare la crudezza della nona bolgia infernale: « S’el s’aunasse ancor tutta la gente / che già in su la fortunata terra di Puglia / fu del suo sangue dolente / […] / e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie / a Ceperan, là dove fu bugiardo / ciascun pugliese / […] / e qual forato suo membro e qual mozzo / mostrasse, d’aequar sarebbe nulla / il modo della nona bolgia sozzo ».9 Gli angioini, insomma, erano riusciti a imporre il combattimento nelle forme a loro piú favorevoli: non una battaglia manovrata, con cariche e controcariche, che avrebbe permesso ai regnicoli di far valere la superiorità delle loro cavalcature, ma una cruenta mischia ravvicinata, nella quale i franco-provenzali potevano affermarsi grazie alla loro compattezza e all’intervento della loro fanteria, numericamente prevalente. 2. L’ultima carica Manfredi non tardò a rendersi conto che la battaglia volgeva al peggio e che la tattica usata dagli angioini stava logorando le sue forze in maniera insostenibile. Egli prese dunque la decisione di lanciarsi nella mischia con tutti gli uomini che gli rimanevano, nella speranza di capovolgere le sorti dello scontro con un’ultima carica decisiva. Si trattava però di un azzardo, soprattutto considerando che Carlo, a sua volta, non aveva ancora mosso la propria riserva, rappresentata dai due forti reparti dei fiamminghi e dei guelfi italiani. Fu a questo punto che nel campo di Manfredi si verificarono alcune importanti defezioni. Tutte le fonti concordano sul fatto che i 92
vii. la morte del re nobili Tommaso d’Aquino, conte di Acerra, e Riccardo di San Severino, conte di Cosenza – non a caso due esponenti della nobiltà dell’ostile Terra di Lavoro – si rifiutarono di seguire il re e abbandonarono improvvisamente il terreno con i loro uomini. È ancora una volta il Villani a fornirci la descrizione piú vivida dei fatti: Lo re Manfredi, lo quale con sua schiera de’ Pugliesi stava al soccorso dell’oste, veggendo gli suoi che non poteano durare la battaglia, sí confortò la sua gente della sua schiera, che ’l seguissono alla battaglia, da’ quali fu male inteso, però che la maggiore parte de’ baroni pugliesi e del Regno, in tra gli altri il conte camerlingo, e quello della Cerra, e quello di Caserta e altri, o per viltà di cuore, o veggendo a loro avere il peggiore, e chi disse per tradimento, come genti infedeli e vaghi di nuovo signore, si fallirono a Manfredi, abandonandolo e fuggendosi chi verso Abruzzi e chi verso la città di Benevento.10
Cominciavano cosí a manifestarsi gli effetti dello scoraggiamento che pervadeva l’esercito regio in conseguenza degli avvenimenti prodottisi nelle settimane precedenti: le forze Manfredi erano state obbligate a dar battaglia a Benevento mentre si trovavano in piena ritirata strategica, dopo aver subito pesanti rovesci e dopo aver visto la rivolta delle città tirreniche, mentre gli angioini avevano proceduto di successo in successo. Il morale dei guelfi, convinti anche di godere della protezione divina, era alle stelle e quello dei seguaci di Manfredi era bassissimo. Inoltre, mentre i tedeschi combattevano per denaro e i saraceni per il loro stesso futuro, i vassalli del re erano obbligati a rischiare la vita per un principe che non tutti amavano. Non c’è da stupirsi, insomma, se alcuni disertarono invece di gettarsi in una battaglia il cui esito si andava rivelando sempre piú avverso. La fuga dei due conti, oltre a indebolire il contingente di riserva, comportava il forte rischio che tutto l’esercito cedesse al panico e si ritirasse. A maggior ragione, si rendeva dunque necessario un intervento deciso da parte del re. Manfredi, coraggiosamente, non esitò a portarsi di persona alla testa delle proprie truppe per rialzarne il morale e guidarle in battaglia. Seguendo il proprio re, la maggior parte dell’ultima schiera, composta da nobili e cavalieri del Regno e da ghibellini italiani – questi ultimi guidati dal romano Tebaldo Annibaldi – si lanciò 93
l’aquila e il giglio alla carica. Roberto di Fiandra, che guidava il terzo squadrone angioi no, si mosse a sua volta al contrattacco, per intercettare l’avanzata di Manfredi e impedire che colpisse sul fianco le truppe già impegnate nella battaglia. Lancia in resta, le due masse di uomini cozzarono rudemente l’una contro l’altra.11 Nessun cronista ci narra con precisione ciò che accadde nel momento in cui Manfredi si gettò nella mischia. Il suo atto coraggioso aveva permesso l’ultima carica, l’estremo disperato tentativo di ribaltare le sorti dello scontro, ma l’aveva anche obbligato a portarsi in prima fila, esponendosi direttamente al pericolo. Quando la riserva regnicola e quella angioina si scontrarono l’una contro l’altra, il re fu abbattuto. Secondo la ricostruzione fatta a posteriori da Carlo e dai suoi sulla base delle ferite mostrate dal cadavere, durante lo scontro il destriero di Manfredi fu ferito ad un occhio da un colpo di lancia e scartò violentemente, disarcionando il sovrano. Subito i fanti angioini, senza riconoscerlo, gli furono addosso e lo finirono tagliandogli la gola. La sorte di Manfredi, insomma, mostra la terribile efficacia degli ordini dati da Carlo ai suoi uomini, secondo i quali i militi avrebbero dovuto colpire prima di tutto le cavalcature dei nemici e i fanti dare il colpo di grazia agli uomini caduti a terra. Né l’autore del gesto, né gli altri combattenti al momento si resero conto dell’accaduto, dato che, dopo il cozzo delle lance, si accese una mischia furibonda che impedí, lí per lí, di riconoscere il cadavere di Manfredi. Nessuno dunque si accorse della morte del re, ma a tutti fu chiaro che la battaglia era perduta. Anche l’ultima carica si era infranta sulla compattezza dello schieramento angioino e con essa era andata in pezzi qualsiasi speranza di capovolgere le sorti dello scontro. Era giunta l’ora che si muovesse anche l’ultimo schieramento di Carlo, composto dalle fresche truppe guelfe italiane. Queste, che ancora non si erano impegnate in combattimento si lanciarono all’attacco contro gli estenuati e demoralizzati cavalieri di Manfredi cercando di prenderli sul fianco e alle spalle. Per usare l’efficace metafora del cronista Andrea Ungaro, si trattava della coda del dragone, che finalmente si scuoteva per dare il colpo di grazia all’avversario. Le forze angioine ormai minacciavano di circondare i nemici, i quali a loro volta iniziarono a ritirarsi, ostacolati però nella manovra dalla presenza del fiume. A questo punto, la 94
vii. la morte del re vittoria di Carlo fu totale. Il fronte svevo cedette di colpo e le truppe del Regno si sbandarono, dandosi a una disordinata ritirata: alcuni cavalieri, tentando di mettersi in salvo, caddero nel fiume Calore e vi annegarono, altri furono inseguiti e uccisi, molti si arresero e pochi riuscirono a trovare scampo nella fuga. I francesi diedero a lungo la caccia ai nemici, poi si volsero verso Benevento, rimasta indifesa, e la sottoposero a un crudele saccheggio. Sul campo restò un gran numero di combattenti di entrambe le parti, anche se, ovviamente, le vittime furono assai di piú fra le schiere degli sconfitti. Colpisce, nelle liste dei caduti e dei prigionieri compilate alla fine della battaglia, lo scarso numero di nobili del regno presenti, a dimostrazione della modesta passione con cui l’aristocrazia meridionale si batté per il proprio re. Oltre a Manfredi, si ricorda che persero la vita il romano Tebaldo Annibaldi, nipote del cardinale Riccardo, il lombardo Enrico di Scipione, nipote di Oberto Pelavicino e l’imolese Uguccione Binielli, preso prigioniero e decapitato subito dopo la battaglia.12 Nelle mani di Carlo rimasero alcuni parenti di Manfredi – il conte Giordano e il conte Bartolomeo di Agliano – e diversi alleati italiani, quali il fiorentino Pier Asino Uberti e i figli del leader ghibellino piacentino Ubertino Landi. Galvano e Federico Lancia riuscirono invece a sottrarsi alla cattura, fuggendo verso est, nella speranza di raggiungere le forze ancora presenti in Abruzzo, agli ordini di Corrado di Antiochia, e animare un’ultima resistenza. Allo stesso scopo, il conte di Ischia Enrico di Ventimiglia si portò in Sicilia. Il conte di Caserta, invece, dopo aver disertato il fronte svevo si consegnò a Carlo che subito lo ricevette nella sua grazia, chiamandolo, in una lettera del 1° marzo successivo, « nostro fedele ».13 3. Il corpo del vinto La principale preoccupazione di Carlo era però la sorte di Manfredi. Essendosene perse le tracce era probabile che fosse caduto durante la battaglia, ma era ovviamente necessario averne le prove. I nobili prigionieri furono cosí portati sul campo e invitati a identificarne il cadavere. Saba Malaspina narra che essi riconobbero il possente destriero di Manfredi, di cui si era impadronito un cavaliere di Picardia 95
l’aquila e il giglio (o forse un cavaliere di nome Piccardo). Del corpo però, mancava ogni traccia e lo stesso Carlo, in una lettera scritta a caldo la sera stessa del 26 e indirizzata a papa Clemente, dava conto delle incertezze della ricerca: « Non abbiamo ancora certezze sulla sorte di Manfredi, se sia morto durante lo scontro, sia stato catturato o sia fuggito. Della sua sorte, però, è indizio non trascurabile il fatto di avere nelle nostre mani il destriero su cui entrò in battaglia ».14 Ci vollero due giorni perché finalmente, domenica 28 febbraio, il cadavere, spogliato dai saccheggiatori, fosse riconosciuto in mezzo agli altri, ad opera di Riccardo di Caserta e dei conti Giordano e Bartolomeo. Saba Malaspina attribuisce allo stesso cavaliere piccardo la morte del re, ma in realtà tutti gli altri cronisti concordano sul fatto che nessuno si era reso conto di aver abbattuto e ucciso il sovrano di Sicilia: « Ed è cosa stupefacente che l’uccisore di un uomo cosí importante sia rimasto ignoto. Infatti, in tutto l’esercito di re Carlo non vi fu un solo uomo che con certezza sia stato in grado di dire “l’ho ucciso io” ».15 Il corpo del vinto rappresenta sempre un obiettivo e contemporaneamente un problema per il vincitore, come dimostrano, solo per fare alcuni esempi recenti, le infinite illazioni sulla sopravvivenza di Hitler alla guerra, data la riconoscibilità solo parziale dei suoi resti ritrovati nel bunker di Berlino, la caotica sorte delle spoglie di Mussolini, prima nascoste e poi inumate nel paese natale, con la trasformazione del tranquillo cimitero di Predappio in un luogo di culto nostalgico o ancora, l’accurato occultamento del corpo di Osama Bin Laden, forse addirittura gettato in mare. Insomma, è difficile accusare di “medievale” crudeltà Carlo d’Angiò e soprattutto papa Clemente IV per il loro comportamento nei confronti di Manfredi. Carlo, in effetti, dovette constatare che il ritrovamento del cadavere di Manfredi risolveva alcuni problemi, ma ne poneva altri. Non di rado, dopo una battaglia, i resti degli sconfitti erano abbandonati sul campo, lasciando al tempo e alle bestie selvatiche il compito di farli scomparire. Manfredi, però, era pur sempre un re e un principe, per cui fargli condividere la sorte dei comuni combattenti avrebbe sicuramente esposto il vincitore all’accusa di voler infierire anche post mortem sull’avversario. Dare visibilità alla sepoltura di Manfredi avrebbe inoltre garantito la pubblicità dell’evento ed evitato il rischio 96
vii. la morte del re che negli anni successivi comparissero falsi principi a rivendicare il Regno, cosí come nel 1261-’62 un preteso Federico II, in realtà un tal Giovanni Cocleario, aveva animato una vasta rivolta contro Manfredi nella Sicilia occidentale, prima di essere catturato e impiccato con molti suoi seguaci. Esclusa la possibilità di una sepoltura ecclesiastica, dato che Manfredi era scomunicato, Carlo decise di rendergli un ambiguo congedo, facendone deporre i resti ai piedi del ponte presso il quale si era combattuto e dando ordine ai suoi uomini di realizzarvi un tumulo. I militi angioini si allinearono cosí di fronte al cadavere, gettandovi ognuno un sasso sopra. Il gesto era ambivalente: il lancio di una pietra poteva sembrare l’ultimo oltraggio al nemico sconfitto, ma la sfilata dell’esercito rappresentava anche una sorta di estremo “onore delle armi” cavallerescamente reso a un avversario valoroso. Cosí, in effetti, lo interpretarono in molti, come l’annalista padovano di Santa Giustina per il quale « lí Manfredi stesso perí, sotto i colpi delle spade nemiche. Carlo ne fece seppellire con onore il corpo presso il capo del ponte ».16 Ci fu anche chi, lavorando un po’ di fantasia, rese l’inumazione di Manfredi un grandioso omaggio concesso da un nobile sovrano a un altro: « trovato il corpo, re Carlo ordinò di ripulirlo dall’oltraggio del sangue rappreso, e dopo averlo fatto lavare, lo rivestí di panni intessuti d’oro e, fatto costruire dal niente un monumento, fece seppellire Manfredi con grandissimi onori, proprio come meritava un simile uomo ».17 Piú sobriamente, quasi tutte le cronache contemporanee danno conto della sepoltura e anche il Manfredi dantesco, come vedremo, sembra esser stato modestamente soddisfatto della sua “grave mora” di pietre presso al ponte. L’interpretazione positiva dell’atto di Carlo quale gesto di rispetto nei confronti dell’avversario caduto, è confermata e contrario dalla stizzita rea zione pontificia. Clemente IV non aveva alcuna intenzione di lasciar qualsivoglia monumento alla memoria del “sultano di Lucera” e diede ordine di esumarne i resti. L’incarico fu affidato all’arcivescovo di Cosenza, che fece poi gettare il cadavere di Manfredi in un’anonima fossa presso il fiume Liri. Ascoltiamo ancora una volta Dante Alighieri, che pone queste parole in bocca all’anima di Manfredi: « Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia / di me fu messo per Clemente allora / avesse in Dio ben letta 97
l’aquila e il giglio questa faccia, / l’ossa del corpo mio sarieno ancora / in co del ponte presso a Benevento / sotto la guardia de la grave mora. / Or le bagna la pioggia e muove il vento / di fuor dal regno, quasi lungo il Verde, / dov’ei le trasmutò a lume spento ».18 Cosí si lamenta il Manfredi pentito e pieno di tristi ricordi del Purgatorio. Per Dante, il rimpianto del principe verso la sorte dei suoi resti terreni è l’occasione per rimproverare ancora una volta la durezza della politica ecclesiastica, incapace di far proprie le ragioni della misericordia divina. Cosí, Manfredi riceveva l’ultimo sfregio. Le sue spoglie mortali venivano infatti sottratte persino alla pietas dei suoi familiari e dei suoi seguaci. In realtà, in tal modo, mentre sperava di averne definitivamente cancellata la memoria, il papa nella sua durezza stava cominciando ad alimentarne la leggenda.
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La battaglia di Benevento segnò sicuramente la sconfitta di Manfredi, ma non la piena vittoria di Carlo d’Angiò. L’esercito conquistatore era stanco e affamato e le risorse a disposizione dell’Angiò erano limitate. Francesi e provenzali si diedero quindi a brutalità e saccheggi che suscitarono le indignate proteste di papa Clemente IV e non contribuirono ad accrescere la popolarità del nuovo re. La popolazione del regno non aveva un atteggiamento univoco nei confronti di Carlo: le città della Terra di Lavoro avevano accolto con gioia il suo arrivo e ne furono ricambiate con privilegi e concessioni. La Puglia gli era esplicitamente ostile e i saraceni scampati a Benevento si erano rinchiusi nella loro città di Lucera, decisi a vender cara la pelle. La maggior parte delle comunità di Sicilia, Calabria e Abruzzi manteneva un atteggiamento sospettoso. In questo clima, i seguaci di Manfredi potevano sperare in una clamorosa rivincita. Federico e Galvano Lancia erano riusciti ad abbandonare in tempo il campo di battaglia e a lasciare il Regno, cosí come il nipote del defunto re, Corrado d’Antiochia, che comandava le truppe di presidio in Abruzzo. Questi e altri personaggi si precipitarono in Germania alla corte di Corradino, il figlio di Corrado IV, proponendogli di rivendicare quella corona che gli spettava di diritto e che in realtà era stato Manfredi stesso a sottrargli. Il giovane nipote di Federico II, allora quindicenne, non si fece pregare e nonostante gli inviti alla prudenza dei suoi parenti, all’inizio del 1267 cominciò a organizzare una discesa in Italia. Mentre Carlo si disinteressava del regno e cercava di sottomettere la Toscana, della quale si era autoproclamato vicario, la situazione precipitò improvvisamente. Il nuovo re di Sicilia non nascondeva le sue ambizioni di governare l’Italia intera, suscitando cosí allarme e malcontento nei comuni centro-settentrionali e dello stesso papa. Col consenso di Clemente IV, nella primavera del 1267 il popolo di Roma elesse quale nuovo senatore il principe Enrico di Castiglia. Ad agosto Corradino si mosse verso l’Italia alla testa di 3000 cavalieri pesanti, mentre il nobile napoletano Corrado Capece, unitosi al gio99
epilogo vane svevo, si recava a Tunisi per sollecitare l’intervento del locale emiro contro Carlo e poi passava in Sicilia a fomentare una serie di rivolte antiangioine. A ottobre, Enrico di Castiglia e Corradino si allearono formalmente. Il principe tedesco raggiunse Verona e poi Pavia, mentre i guelfi lombardi si astenevano da qualsiasi iniziativa militare. Nel maggio del 1268 Corradino era a Pisa con un esercito che si rinforzava di giorno in giorno, mentre le forze angioine in Toscana si rivelavano incapaci di arrestarne la marcia. Sembrava la replica, a parti invertite, della spedizione del 1266. Il 24 luglio Corradino entrò a Roma alla testa di 5000 cavalieri, mentre gran parte della Puglia e della Calabria si sollevava contro Carlo. Lo Svevo decise di evitare la Terra di Lavoro, ancora fedele all’Angiò, e si mosse verso est, per valicare gli Appennini ed entrare in Abruzzo. Qui però lo aspettava il re di Sicilia, alla testa di tutto il suo esercito. Nei pressi di Tagliacozzo, il 23 agosto, si giunse allo scontro decisivo. Altrettanto affascinante che quella di Benevento, la battaglia di Tagliacozzo meriterebbe un’analisi dettagliata. Qui ci limiteremo a ricordare che, contro tutte le previsioni, le truppe angioine, benché inferiori di numero, grazie alla loro abilità tattica colsero un’inaspettata vittoria, approfittando dell’indisciplina degli avversari. Datisi alla fuga, Corradino e i suoi seguaci vennero catturati e consegnati nelle mani di Carlo. Dopo la vittoria di Tagliacozzo, Carlo mostrò il suo lato piú duro e spietato. Dopo un processo farsa, Corradino fu condannato per lesa maestà e giustiziato il 29 ottobre nella piazza del mercato di Napoli. Galvano e Galeotto Lancia l’avevano preceduto nella stessa sorte, mentre Enrico di Castiglia fu condannato al carcere a vita. Nei mesi successivi, un’attenta miscela di repressione e concessioni permise di mettere fine alle rivolte che dilagavano nel regno. Alla fine del 1268 anche i saraceni di Lucera si arresero, avendo salve la vita e la libertà. In cambio si impegnarono a consegnare tutti gli archivi di Federico II e quanto rimaneva del tesoro imperiale, ancora custoditi nella fortezza della città. Le ultime ribellioni in Sicilia furono invece sedate soltanto nell’estate del 1270, quando l’indomabile Corrado Capece fu catturato e messo a morte. Finita la guerra, Carlo poté finalmente mettere mano all’organizzazione dello stato che, come si è già accennato, ebbe una forte con100
epilogo tinuità con l’età sveva. I nobili e i funzionari meridionali che si erano schierati con il nuovo principe rimasero al loro posto, mentre coloro che avevano parteggiato per Corradino vennero esiliati e sostituiti nei loro feudi e nei loro incarichi da cavalieri francesi e provenzali e da fidati funzionari guelfi italiani. Molte famiglie aristocratiche transalpine si trasferirono e si italianizzarono, come i signori della località provenzale di Baux, il cui ramo meridionale (il cui cognome fu tradotto “del Balzo”) si imparentò con gli Orsini e rimase fino all’Ottocento esponente di spicco dell’élite politica e sociale del Mezzogiorno. Nei primi anni Settanta del Duecento, Carlo d’Angiò era all’apogeo del suo potere e controllava quello che gli storici hanno definito un vero “impero” mediterraneo. Oltre al Regno di Sicilia, in Italia gli si erano assoggettate Roma, quasi tutte le città toscane, Cuneo, Alba, Alessandria, Brescia e Piacenza. Carlo continuava inoltre a governare la Provenza, nel 1271 si era impadronito di Durazzo assumendo il titolo di “re di Albania” e aveva stretto legami matrimoniali con i regnanti di Ungheria, mentre l’emiro di Tunisi, già alleato degli Svevi, aveva accettato di versargli un tributo annuale. Era evidente che l’Angiò perseguiva un ambizioso disegno di dominio marittimo che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto culminare nella conquista di Costantinopoli, alla quale il sovrano di Sicilia lavorava alacremente. Al di là della pessima fama che ancor oggi lo circonda, Carlo non fu un cattivo governante. L’avidità di cui fu spesso accusato dalla propaganda ghibellina non trova un pieno riscontro nella documentazione. Le imposte angioine non erano leggere, ma probabilmente non pesavano sulla popolazione piú di quelle di Federico II o di Manfredi. Il principe angioino, d’altro canto cercò di promuovere la vita economica del Regno, di favorire l’impianto di manifatture, di governare cercando un equilibrio fra le esigenze dell’aristocrazia feudale, delle comunità urbane e del potere centrale. Negli anni angioini le città meridionali conobbero un periodo di prosperità e di protagonismo politico eccezionali. Particolarmente favorite furono le comunità dell’attuale Campania, ricompensate come le piú antiche alleate di Carlo. In particolare, Napoli divenne la vera capitale del Regno, sede della corte e di tutti gli uffici dell’amministrazione centrale, prima dispersi in vari centri tra Puglia, Campania e Sicilia. Fu inoltre rilanciata l’atti101
epilogo vità della locale Università, che aveva perso importanza dopo la morte di Federico II. Anche gli altri centri della regione vissero un periodo di eccezionale prosperità, in particolare Amalfi i cui abili mercanti ottennero importanti incarichi finanziari in tutto il Meridione. L’elezione di Napoli a vera capitale del Regno comportava però la diminuzione del ruolo di Palermo, che fino ad allora era stata la sede di almeno una parte degli uffici centrali del Regno. Erede di una storia del tutto particolare, segnata dal dominio esercitato su di essa dagli arabi fra IX e XI secolo, la Sicilia era un’entità del tutto differente dal Mezzogiorno continentale, al quale era stata unita da Ruggero II di Altavilla con la fondazione, nel 1130, del Regno di Sicilia. Da piú di mezzo secolo, però, il suo ruolo nell’ambito dello stato conosceva un continuo declino. Cuore politico, culturale ed economico del regno durante il dominio normanno, la Sicilia era stata trascurata da Federico II e da Manfredi che le avevano preferito la Puglia quale sede della corte. La decisione angioina di concentrare a Napoli tutte le funzioni di governo minacciava di segnare la definitiva marginalizzazione dell’isola. Le élites aristocratiche e urbane della Sicilia erano dunque profondamente ostili a Carlo, alla cui immagine non giovavano i duri colpi subiti dal suo prestigio internazionale. I nuovi papi Gregorio X e Niccolò III, italiani, non condividevano il favore mostrato a Carlo dai loro predecessori francesi. Nel 1276, un’offensiva congiunta del comune di Asti e del marchese di Monferrato aveva strappato quasi tutto il Piemonte al controllo del re e nel 1281 le ambizioni balcaniche dell’Angiò subirono un duro colpo quando i bizantini sconfissero il suo esercito in Albania, presso Berat. Fu in questo clima difficile che il 30 marzo del 1282 in Sicilia scoppiò la rivolta detta “del Vespro” che in poche settimane si estese da Palermo a tutte le principali città, causando la fuga delle autorità angioine. Il 28 aprile, anche Messina cadde nelle mani dei rivoltosi, segnando la completa perdita dell’isola. A lungo considerata una spontanea conseguenza dell’ostilità popolare verso i francesi, l’insurrezione siciliana era in realtà stata una rivolta indipendentista, volta a conquistare l’autonomia dell’isola, nell’esplosione della quale non erano state prive di influenza le manovre dell’imperatore di Costantinopoli, che voleva cosí distrarre Carlo da nuovi tentativi di espansione dei Balcani, e soprattutto dal re di Aragona, Giacomo I. 102
epilogo Dopo Benevento, Carlo aveva cercato di eliminare la famiglia di Manfredi facendone imprigionare la moglie Elena d’Epiro e i suoi figli. Costanza, la primogenita del principe svevo e di Beatrice di Savoia, era però fuori dalla sua portata, dato che sin dal 1262 – appena tredicenne – era stata data in sposa a Pietro, figlio ed erede di re Giacomo I d’Aragona. Per la dinastia spagnola imparentarsi con la casata imperiale di Svevia fu un grande evento, tanto che il primo frutto della coppia, nato nel 1273, fu battezzato Federico, in onore del celebre bisnonno. Re Giacomo aveva da tempo ricercato l’affermazione dell’Aragona come potenza marittima: sin dal 1229 si era impadronito delle Baleari, nel 1238 aveva conquistato l’importante porto di Valencia e dal 1267 aveva cominciato senza successo a premere diplomaticamente per ottenere la corona di Sardegna. Le ambizioni mediterranee degli Aragona si scontravano però con le simili aspirazioni di Carlo d’Angiò, con il quale si sviluppò un’aspra rivalità. Le città siciliane insorte probabilmente volevano sottomettersi al diretto dominio della Chiesa, ma purtroppo per loro il nuovo papa Martino IV, eletto il 22 febbraio 1281, altri non era che quel cardinale Simone de Brie che aveva affiancato Carlo nell’organizzazione della crociata del 1266. Contrariamente alle aspettative, la Santa Sede tornò dunque a schierarsi con l’Angiò e i siciliani, alla ricerca di aiuti militari, si rivolsero agli Aragona, che da un lato erano già ostili al predominio angioino sul Mediterraneo e dall’altro potevano vantare qualche legittima rivendicazione sul Meridione in virtú della parentela acquisita con Manfredi. Ad aprile, dunque, Pietro d’Aragona sbarcò nell’isola alla testa di un nutrito contingente militare, per poi venir proclamato re di Sicilia, proprio mentre a sua volta Carlo mobilitava le proprie truppe per procedere alla riconquista. Il massiccio intervento militare aragonese rese impossibile il recupero dell’isola. Le forze angioine, d’altro canto, erano sufficienti per fermare i tentativi degli Aragona di allargare il proprio dominio sul continente. Ne derivò una situazione di stallo politico e militare, che non cambiò neppure alla morte di Carlo d’Angiò e di Pietro d’Aragona, avvenute a pochi mesi di distanza nel corso del 1285. Fra alterne vicende, la guerra si prolungò per un ventennio, finché nel 1302 le due parti, esauste, conclusero la pace di Caltabellotta che assegnava la 103
epilogo parte continentale del Regno al figlio di Carlo d’Angiò, Carlo II, che ereditava il titolo di “re di Sicilia” e creava nell’isola un nuovo “regno di Trinacria”, indipendente, affidato a un discendente degli Aragona, Federico. La pace di Caltabellotta, in realtà, ebbe una durata relativamente breve. Sin dal 1314 le corone di Napoli e di Palermo ricominciarono a combattersi in una serie di guerre che si interrompevano soltanto quando (e accadeva piuttosto spesso) una delle due dinastie non decideva di trascurare i conflitti esterni perché impegnata in qualche drammatico scontro dinastico intestino. Nel 1409, dopo una cruenta guerra di successione e una vera e propria invasione militare catalana, il regno siciliano perse la sua indipendenza e venne riunito all’Aragona. Il continente, nel corso del Trecento, era stato invece sanguinosamente conteso dai rami di Napoli, di Ungheria e di Durazzo della casa di Angiò. Esponente dei Durazzo, l’ultima regina angioina di Napoli, Giovanna II, proprio in odio ai suoi parenti-rivali, nel 1421 decise di lasciare il trono in eredità al re di Aragona, Alfonso. Scoppiò cosí l’ultima guerra fra la Sicilia e il Continente. Alla morte di Giovanna (1435), Alfonso si mosse per conquistare la sua eredità, mentre papa Martino V proclamava legittimo titolare della corona napoletana il conte di Provenza Renato d’Angiò. Renato e Alfonso si affrontarono in un conflitto durissimo e onerosissimo che vide impegnati molti dei piú celebri (e costosi) condottieri mercenari italiani. Nel giugno del 1442, dopo un lungo assedio, Napoli venne conquistata da Alfonso e Renato si diede alla fuga verso la Provenza. La corona di Francia, però, non riconobbe mai la legittimità della conquista aragonese del Regno e dopo la fine vittoriosa della Guerra dei Cent’anni a Parigi si cominciò a pensare a un intervento diretto nella Penisola per rivendicare quel trono che apparteneva a una famiglia vassalla. Fu con questo intento che nel 1494 Carlo VIII di Valois scese in Italia e marciò su Napoli, conquistandola quasi senza colpo ferire. Cominciavano cosí le Guerre d’Italia, che nel corso del Cinquecento avrebbero portato alla lunga stagione delle dominazioni straniere – francese, spagnola e poi austriaca – su gran parte della Penisola. A molti secoli di distanza, le conseguenze della battaglia di Benevento ancora determinavano drammaticamente le sorti d’Italia. 104
Note bibliografia
NOTE
premessa 1. Purg., iii 107. Su questo episodio, si veda almeno A. Frugoni, Scritti su Manfredi, Roma, Isime, 2006 pp. 85-108. 2. Purg., iii 121. 3. Inf., x 118-20. 4. W. Koller, Manfredi di Sicilia: la base del potere, in Eclisse di un regno. L’ultima età sveva (1251-1268). Atti del Convegno di Bari, 12-15 ottobre 2010, a cura di P. Cordasco e M.A. Siciliani, Bari, Mario Adda editore, 2012, p. 55. 5. Rutebeuf, Œuvres complètes, éd. par di A. Jubinal, Paris, Daffis, 1874, p. 176, vv. 49-56. 6. G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Parma, Fondazione Pietro BemboGuanda, 2007, i p. 413. 7. W. Koller, Manfredi, re di Sicilia, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 2007, lxvii pp. 633-41, a p. 634. 8. C.D. Fonseca, Federico II nella storiografia italiana, in Potere, società e popolo nell’età sveva (1210-1266). Atti delle seste Giornate normanno-sveve, Bari, Castel del Monte, Melfi, 17-20 ottobre 1983, Bari, Dedalo, 1985, pp. 9-24, R. Delle Donne, Storiografia dell’Ottocento e del Novecento, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, Roma, Treccani, 2006, ii pp. 787-802. 9. Villani, Nuova cronica, cit., p. 406. 10. R. Davidsohn, Storia di Firenze, ii/1. Guelfi e ghibellini. Lotte sveve, trad. it., Firenze, Sansoni, 1956, pp. 779-81. 11. G.M. Monti, La dominazione angioina in Piemonte, Torino, Società storica subalpina, 1930. 12. E. Pispisa, Manfredi nella storiografia dell’Otto e del Novecento, in Id., Medioevo meridionale. Studi e ricerche, Messina, Intilla, 1994, pp. 55-88. 13. E. Pispisa, Il regno di Manfredi. Proposte di interpretazione, Messina, Sicania, 1991. 14. Pispisa, Manfredi nella storiografia, cit., pp. 80-87. 15. Andreas Ungarus, Descripcio victorie Beneventi, a cura di F. Delle Donne, Roma, Isime, 2014, p. 55.
capitolo i 1. Su Manfredi e il suo governo si vedano soprattutto Pispisa, Il regno di Manfredi, cit., e Koller, Manfredi re di Sicilia, cit., nonché Eclisse di un regno. L’ultima età sveva (12511268), cit. 2. Koller, Manfredi di Sicilia, cit., p. 57.
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note 3. A. de la Halle, Oeuvres complètes (poèsies et musique), éd. par E. de Coussemaker, Paris, Durand et Pèdone-Lauriel, 1882, pp. 283-93, a p. 291. 4. L. Speciale, Nell’ombra di Federico. Manfredi e i suoi libri, in Eclisse di un Regno, cit., pp. 305-40, L. Travaini, Monetazione, in Federico II, cit., pp. 350-60, a p. 358. 5. Annales Ianuenses, in Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, a cura di C. Imperiale di Sant’Angelo, Roma, Tipografia del Senato, 1926, iv pp. 1-58, a p. 8. 6. Koller, Manfredi di Sicilia, cit., pp. 55-73, a p. 66. 7. K. Toomaspoeg, L’amministrazione del demanio regio e il sistema fiscale (1250-1266), in Eclisse di un regno, cit., pp. 197-224, a p. 207. Sulla vitalità sociale e politica delle città meridionali, spesso sottovalutate: G. Vitolo, L’Italia delle altre città: un’immagine del Mezzogiorno medievale, Napoli, Liguori, 2014. 8. Pispisa, Il regno di Manfredi, cit., pp. 29-84, J.-M. Martin, L’organisation administrative et militaire de territoire, in Potere, società e popolo nell’età sveva (1210-1266), cit., pp. 71-121, Id., L’aristocratie féodale et les villes, in Eclisse di un regno, cit., pp. 119-61. 9. R. Manselli, Alessandro IV, in Enciclopedia dei papi, Roma, Treccani, 2000, ii pp. 393-96. 10. S. Cerrini, Urbano IV, in Enciclopedia dei papi, cit., ii pp. 396-401. 11. Pispisa, Il regno di Manfredi, cit., pp. 344-51. 12. Su Carlo d’Angiò si vedano P. Herde, Carlo I d’Angiò, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 1977, xx pp. 199-226; J. Dunbabin, Charles I of Anjou. Power, Kingship and State-Making in Thirteenth-Century Europe, London-New York, Longman, 1998; G. Jehel, Charles d’Anjou (1226-1285) comte d’Anjou et de Provence, roi de Sicilie et de Jerusalem. Un capétien en Méditerranée, numero monografico di « Histoire et archéologie », 18 2005. 13. J. Le Goff, San Luigi, trad. it., Torino, Einaudi, 1996, p. 216. 14. A. Barbero, Il mito angioino nella letteratura italiana e provenzale fra Duecento e Trecento, Torino, Società storica subalpina, 1983. 15. Lettere volgari del sec. XIII scritte da Senesi, a cura di C. Paoli e E. Piccolomini, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1871, p. 28.
capitolo ii 1. C. Carozzi, Saba Malaspina et la légitimité de Charles Ier, in L’État angevin. Pouvoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle, Rome, École Française de Rome, 1998, pp. 81-97; B. Pio, Malaspina Saba, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., lxviii pp. 803-7. 2. Saba Malaspina, Chronik, hrsg. von W. Koller und A. Nitschke, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, Hannover, Hahnsche Buchhandlung, 1999, xxxv pp. 123-24. 3. P. Castignoli, Il governo dei mercanti, in Storia di Piacenza, ii. Dal vescovo conte alla signoria (996-1313), Piacenza, Cassa di Risparmio, 1984, pp. 279-98, alle pp. 280-83. 4. P. Grillo, Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, economia, Spoleto, Cisam, 2001, pp. 660-68. 5. Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano, a cura di F. Fiorese, Milano, Fon dazione Lorenzo Valla-A. Mondadori, 2004, pp. 543-47.
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note 6. B. Capasso, Historia diplomatica Regni Siciliae ab anno 1250 ad annum 1266, a cura di R. Pilone, Battipaglia, Laveglia & Carrone, 2009, pp. 247-48; Poesie provenzali storiche relative all’Italia, a cura di V. De Bartholomeis, Roma, Tipografia del Senato, 1931, ii n. 158, p. 214, vv. 37-41. 7. J. Göbbels, Doria Percivalle, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 1992, xli pp. 445-49. 8. Capasso, Historia diplomatica, cit., p. 249. 9. N. Kamp, Clemente IV, in Enciclopedia dei papi, cit., ii pp. 401-11. 10. G. Gallavresi, La riscossa dei Guelfi in Lombardia dopo il 1260 e la politica di Filippo della Torre, in « Archivio storico lombardo », xxxiii 1906, pp. 5-67, 391-453, a p. 61, doc. 7. 11. Ivi, pp. 442-52, doc. 6.
capitolo ii 1. Sulla predicazione e il finanziamento della spedizione si veda N. Housley, The Italian Crusades. The Papal-Angevin Alliance and the Crusades Against Christian Lay Powers, 1254-1343, Oxford, Clarendon Press, 1982. 2. Chronique anonyme des rois de France finissant en MCCLXXXVI, in Récolte des historiens des Gaules et de la France, Paris, Imprimerie impériale, 1855, xxi pp. 80-102, a p. 87. 3. Extraits de la chronique attribuée à Baudoin d’Avesnes, fils de la comtesse Marguerite de Flandre, in Récolte des historiens des Gaules et de la France, cit., xxi pp. 159-81, a p. 172. 4. Les régistres d’Urbain IV, éd. par J. Guiraud, Paris, Fontemoing, 1902-1904, 4 voll., ii pp. 319-20, docc. 668, 669, p. 330, doc. 694; iii p. 284, docc. 1813, 1814. 5. Extraits de la chronique attribuée à Baudoin d’Avesnes, cit., p. 172. 6. Villani, Nuova cronica, cit., p. 408; Chronicon Parmense ab anno MXXXVIII usque ad annum MCCCXXXVIII, a cura di G. Bonazzi, Città di Castello, Lapi, 1902, p. 21, Lanfranci Pignolli-Guillermi de Multedo-Marini Ususmaris-Henrici marchionis de Gavio, Annales, in Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, cit., iv pp. 61-77, a p. 74, Iohannis de Bazano, Chronicon Mutinense, a cura di T. Casini, Bologna, Zanichelli, s.d., p. 36. 7. S. Pollastri, La noblesse provençale dans le Royaume de Sicile (1265-1282), in « Annales du Midi », 100 1988, pp. 405-34. 8. Maius chronicon Lemovicense a Petro Coral et aliis conscriptum, in Récolte des historiens des Gaules et de la France, cit., xxi pp. 761-88, a p. 781. 9. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 30. 10. C. Carozzi, La victoire de Bénévent et la légitimité de Charles d’Anjou, in Guerre, pouvolir et noblesse au Moyen Age. Mélanges en l’honneur de Philippe Contamine, éd. par J. Paviot et J. Verger, Paris, Presses de la Sorbonne, 2000, pp. 139-46. 11. F. Delle Donne, Introduzione a Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., pp. ix-liv. 12. P. Grillo, L’organizzazione militare del Regno durante l’epoca di Manfredi, in Eclisse di un regno, cit., pp. 225-52. 13. Villani, Nuova cronica, cit., p. 399.
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note 14. G. Del Giudice, Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d’Angiò, Napoli, R. Università, 1863, i p. 2, doc. 1. 15. Capasso, Historia diplomatica, cit., p. 256. 16. Gallavresi, La riscossa dei Guelfi, cit., pp. 56-58, doc. 5. 17. Ivi, p. 58, doc. 5. 18. Per la consistenza della flotta con cui Carlo d’Angiò si recò a Roma nel 1265 abbiamo testimonianze divergenti (riportate in Capasso, Historia diplomatica, cit., p. 261). Gli Annali di Genova, però, danno un dato assai preciso, ossia 27 galee e 13 navi piú piccole e ho deciso di fidarmi della competenza navale dei cronisti liguri (Lanfranci Pignolli, Guillermi de Multedo, Marini Ususmaris, Henrici marchionis de Gavio, Annales, cit., p. 74). 19. Les registres de Clément IV (1265-1268), éd. par E. Jourdan, Paris, Albert Fontemoing, 1904, i p. 62, doc. 227. 20. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 23. 21. Annales Urbevetani, hrsg. von L.C. Bethmann, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, Hannover, Impensis bibliopolii Hahniani, 1866, xix pp. 269-73, a p. 270; Capasso, Historia diplomatica, cit., p. 253. 22. Frugoni, Scritti su Manfredi, cit., pp. 43-82. 23. Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, hrsg. von L. Weiland, Hannover, Impensis bibliopolis Hahniani, 1896, ii p. 560, doc. 424. 24. Del Giudice, Codice diplomatico, cit., p. 27, doc. 5, p. 31, doc. 7, p. 32, doc. 8. 25. Housley, The Italian crusades, p. 142. 26. Del Giudice, Codice diplomatico, cit., p. 37, doc. 10. 27. Annales Urbevetani, cit., p. 270; Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 24. 28. Capasso, Historia diplomatica, cit., p. 276. 29. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 25; Capasso, Historia diplomatica, cit., p. 279. 30. Del Giudice, Codice diplomatico, cit., pp. 77-78, doc. 28; Andreas Ungarus, Des cripcio victorie, cit., p. 26. 31. Annales Cavenses, a cura di F. Delle Donne, Roma, Isime, 2011, p. 60. 32. Les registres de Clément IV, cit., p. 65, doc. 239. 33. Koller, Manfredi di Sicilia, cit., p. 70.
capitolo iv 1. Il tentativo è narrato in una missiva di Clemente IV: Del Giudice, Codice diplomatico, cit., p. 46, doc. 13. Ulteriori dettagli in Iohannis de Bazano, Chronicon Mutinense, cit., p. 34; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Torino, Utet, 1978, i p. 444. 2. Les registres de Clément IV, cit., p. 324, doc. 834. 3. Annales Bergomatenses, hrsg. von O. Holder-Egger, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, Hannover, Impensis bibliopolis Hahniani, xxxi 1903, pp. 325-35, a p. 334; Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 29. 4. Villani, Nuova cronica, cit., p. 411.
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note 5. Salimbene de Adam, Cronica, a cura di C.S. Nobili, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2002, p. 824. 6. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 30; cfr. P. Grillo, Un dominio multiforme. I comuni dell’Italia nord-occidentale soggetti a Carlo I d’Angiò, in Gli Angiò nell’Italia nord-occidentale. Incontro di studi, Alba, 2-3 settembre 2005, a cura di R. Comba, Milano, Unicopli, 2006, pp. 31-103, a p. 47. 7. Inf., xxxii 115-17. 8. Villani, Nuova cronica, cit., p. 411. 9. Annales Placentini Gibellini, hrsg. von P. Jaffé, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, Hannover, Impensis bibliopolii Hahniani, 1863, xviii pp. 465-623, a p. 514. 10. Chronicon Parmense, cit., p. 21. 11. Annales Placentini Gibellini, cit., p. 514, Davidsohn, Storia di Firenze, cit., p. 798. 12. Annales Placentini Gibellini, cit., p. 515. 13. Les régistres de Clément IV, cit., p. 41, doc. 164. 14. Salimbene de Adam, Cronica, cit., p. 765. 15. Ivi, p. 824.
capitolo v 1. Saba Malaspina, Chronik, cit., p. 158. 2. Del Giudice, Codice diplomatico, cit., pp. 57-64, doc. 20. 3. Ivi, p. 86, doc. 32. 4. Davidsohn, Storia di Firenze, cit., p. 802. 5. Toomaspoeg, L’amministrazione del demanio, cit., p. 217. 6. Del Giudice, Codice diplomatico, cit., p. 99, doc. 31. 7. Inf., xxviii 16-17. 8. Villani, Nuova cronica, cit., p. 414. 9. Una buona ricostruzione della genesi della notizia e della sua falsità è offerta da P. Cafaro, Se i pugliesi furono bugiardi a Ceprano, in « Archivio storico pugliese », 5 1952, pp. 243-50. 10. Saba Malaspina, Chronik, cit., p. 160. 11. Marineti de Martino, Guillermi de Multedo, Marini Ususmaris, Iohannis Suzoboni, Annales, in Annali genovesi di Caffaro, cit., iv pp. 81-94, a p. 86. 12. Saba Malaspina, Chronik, cit., p. 161, Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 34. 13. Saba Malaspina, Chronik, cit., p. 162 14. Villani, Nuova cronica, cit., p. 416. 15. Ivi, p. 413. 16. Guillielmus de Niangiaco, Gesta sanctae memoriae Ludovici regis Franciae, in Recueil des historiens des Gaules et de France, Paris, Imprimerie impériale, 1854, xx pp. 399465, p. 450. 17. Del Giudice, Codice diplomatico, cit., pp. 105-6, doc. 39. 18. Villani, Nuova cronica, cit., pp. 415-16; Saba Malaspina, Chronik, cit., p. 163.
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note 19. Villani, Nuova cronica, cit., p. 415. 20. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 37. capitolo vi 1. M. D’Onofrio, Capua, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti del convegno, Bari 21-24 ottobre 1991, a cura di G. Musca, Bari, Dedalo, 1993, pp. 269-91. 2. Mattheo di Giovanazzo, Gli diurnali, a cura di H. Pabst, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, cit., xix pp. 464-93, a p. 489. 3. Annales Siculi, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, cit., xix p. 499. 4. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., pp. 39-40. 5. Saba Malaspina, Chronik, cit., pp. 166-74; Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., pp. 50-65. 6. Chronicon Parmense, cit., p. 21, Annales S. Iustinae, Annales Sanctae Iustinae Patavini, hrsg. P. Jaffé, in Monumenta Germaniae Historia, Scriptores, Hannover, Inpensis Bibliopoli, Hahniani, 1866, xix pp. 148-193, a p. 188. 7. Villani, Nuova cronica, cit., pp. 418-19. 8. La lettera è riportata da Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 52. 9. Saba Malaspina, Chronik, cit., p. 166. 10. Ivi, p. 166. 11. Ivi, p. 163. 12. Ibid. 13. Extraits de la chronique attribuée à Baudoin d’Avesnes, cit., p. 173, Villani, Nuova cronica, cit., pp. 418-20, Andrea Ungarus, Descripcio victorie, cit., pp. 117-18. 14. Guillielmus de Niangiaco, Gesta sanctae memoriae Ludovici, cit., p. 424.
capitolo vii 1. Villani, Nuova cronica, cit., p. 420. 2. Ivi, p. 421. 3. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 60. 4. P. Richardot, Végèce et la culture militaire au Moyen Âge (Ve-XVe siècles), Paris, Publications de la Sorbonne, 1998, p. 118. 5. Guillielmus de Niangiaco, Gesta sanctae memoriae Ludovici, cit., p. 424. 6. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., pp. 59-60. 7. Saba Malaspina, Chronik, cit., p. 173. 8. Annales S. Iustinae, cit., p. 189. 9. Inf., xxviii 7-21. 10. Villani, Nuova cronica, cit., p. 422. 11. Guillielmus de Niangiaco, Gesta sanctae memoriae Ludovici, cit., p. 425. 12. Salimbene de Adam, Chronica, cit., pp. 654 e 662.
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note 13. Andreas Ungarus, Descripcio victorie, cit., p. 65. 14. Ivi, p. 63. 15. Guillielmus de Niangiaco, Gesta sanctae memoriae Ludovici, cit., p. 424. 16. Annales S. Iustinae, cit., p. 189. 17. Maneti de Martino, Guillermi de Multedo, Marini Ususmaris, Iohannis Suzoboni, Annales, cit., p. 87. 18. Purg., iii 124-32.
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BI BLIOG RAF IA
1. Fonti Andreas Ungarus, Descripcio victorie Beneventi, a cura di F. Delle Donne, Roma, Isime, 2014. Annales Bergomatenses, hrsg. von O. Holder-Egger, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, Hannover, Impensis bibliopolis Hahniani, 1903, xxxi pp. 325-35. Annales Cavenses, a cura di F. Delle Donne, Roma, Isime, 2011. Annales Ianuenses, in Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, a cura di C. Imperiale di Sant’Angelo, Roma, Tipografia del Senato, 1926, iv pp. 1-58. Annales Placentini Gibellini, hrsg. von P. Jaffé, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, Impensis bibliopolii Hahniani, Hannover, 1863, xviii pp. 465-623. Annales Sanctae Iuslinae Padavini, hrsg. P. Jaffé, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, Hannover, Impensis bibliopolii Hahniani, 1866, xix, pp. 148-193. Annales Siculi, hrsg. von, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, Impensis bibliopolii Hahniani, Hannover, 1885, xix pp. 497-501. Annales Urbevetani, hrsg. von L.C. Bethmann, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, Hannover Impensis bibliopolii Hahniani, 1866, xix pp. 269-73. Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, a cura di C. Imperiale di Sant’Angelo, Roma, Tipografia del Senato, vol. iv 1926. B. Capasso, Historia diplomatica Regni Siciliae ab anno 1250 ad annum 1266, a cura di R. Pilone, Laveglia & Carrone, Battipaglia, 2009. Chronique anonyme des rois de France finissant en MCCLXXXVI, in Récolte des historiens des Gaules et de la France, Paris, Imprimerie impériale, 1855, xxi pp. 80-102. Chronicon Parmense ab anno MXXXVIII usque ad annum MCCCXXXVIII, a cura di G. Bonazzi, Città di Castello, Lapi, 1902. Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, hrsg. von L. Weiland, Hannover, Impensis bibliopolis Hahniani, vol. ii 1896. B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Torino, Utet, vol. i 1978. A. de la Halle, Œuvres complètes (poèsies et musique), éd. par di E. de Coussemaker, Paris, Durand et Pèdone-Lauriel, 1882. G. Del Giudice, Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d’Angiò, Napoli, R. Università, vol. i 1863. Extraits de la chronique attribuée à Baudoin d’Avesnes, fils de la comtesse Marguerite de Flandre, in Récolte des historiens des Gaules et de la France, Paris, Imprimerie impériale, 1855, xxi pp. 159-81. Guillielmus de Niangiaco, Gesta sanctae memoriae Ludovici regis Franciae, in Recueil des historiens des Gaules et de France, Paris, Inprimerie Impériale, 1854, xx pp. 399-465. Iohannis de Bazano, Chronicon Mutinense, a cura di T. Casini, Bologna, Zanichelli, s.d. Lanfranci Pignolli, Guillermi de Multedo, Marini Ususmaris, Henrici mar-
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117
cartine
121
Orvieto
1. Le offensive contro Roma.
Viterbo
Radicofani
Sutri
Ostia
Arrone
Roma
Tivoli
Vicovaro
Carsoli
Gaeta
L’Aquila
122
Vignarello
Ticino
Milano
2. La guerra nel Nord.
Vercelli
Novara
Adda
Capriolo
Po
Orzinuovi
Oglio
Palazzolo
Cremona
Soncino
Bergamo
Montichiari
Brescia
Mantova
Mincio
123
Garigliano
Gari
Volturno
Cassino (San Germano)
3. L’offensiva finale.
Gaeta
Ceprano
Arce
Napoli
Capua
Benevento
Calore
indici
I N DIC E DEI NOM I Adam Salimbene de: 62, 63, 66, 67, 111, 113. Agliano Bartolomeo di: 95, 96. Agliano Bonifacio di: 24. Agliano Giordano di: 24, 30, 33, 35, 72, 86, 87, 88, 89, 95, 96. Alessandro IV (Rinaldo di Ienne), papa: 23, 25, 33. Alfonso di Aragona, detto il Magnanimo, re di Sicilia: 104. Alfonso X, re di Castiglia: 32. Alighieri Dante: 7, 8, 9, 14, 64, 72, 92, 97, 98. Angiò, famiglia: 16, 40. Angiò Giovanni di: 27. Annibaldi, famiglia: 34. Annibaldi Riccardo, cardinale: 27, 71, 95. Annibaldi Tebaldo: 93, 95. Aquino Tommaso di, conte di Acerra: 93. Aragona, famiglia: 16. Asburgo, famiglia: 16. Avesnes Baldovino di: 43. Avogadri Martino: 58. Barbero Alessandro: 108. Baux des (del Balzo), famiglia: 101. Baux Embaral des: 41. Baux Ugo des: 75. Bazzani Giovanni: 44, 109, 110. Beatrice di Barcellona, moglie di Carlo d’Angiò: 27, 52. Beaumont Goffredo di: 66. Beaumont Guglielmo di: 43. Beaumont Pietro di: 43, 45, 75. Benedetto da Norcia: 74. Bethmann Ludwig C.: 110. Bin Laden Osama: 96. Binielli Uguccione: 95. Bonazzi Giuliano: 109. Bonifacio di Canossa: 36. Borboni, famiglia: 16. Brie de Simone de Montpince: vd. Martino IV.
Bruns li Gilles: 43, 86. Capasso Bruno: 109, 110. Cafaro Pasquale: 111. Capece Corrado: 99, 100. Carozzi Claude: 108, 109. Carlo I d’Angiò, conte di Provenza, re di Sicilia: 8-18, 26-30, 34, 36, 40-44, 46, 4858, 60-62, 64-85, 87-90, 92-97, 99-104. Carlo II d’Angiò, re di Sicilia: 104. Carlo VIII di Valois, re di Francia: 104. Carlo Magno, imperatore: 85. Caserta conte di: vd. Sanseverino Riccardo di. Casini Tommaso: 109. Castignoli Pietro: 108. Cerrini Simonetta: 108. Chinard Filippo: 24. Clemente IV, papa: 17, 40, 42, 48, 51, 54, 56, 58, 68, 69, 96, 97, 99. Cocleario Giovanni: 96. Comba Rinaldo: 111. Coral Pietro: 45. Cordasco Pasquale: 107. Corio Bernardino: 110. Corradino di Svevia: 8, 14, 17, 22, 23, 24, 32, 34, 99, 100, 101. Corrado IV di Svevia, re dei Romani: 19, 20, 21, 22, 23, 32, 47, 71, 99. Corrado Antiochia di: 13, 80, 95, 99. Costanza d’Altavilla, imperatrice: 8. Costanza di Svevia, moglie di Pietro III di Aragona: 103. Cutica Accorsio: 40. Davidsohn Robert: 15, 107, 111. De Bartholomaeis Vincenzo: 109. De Coussemaker Edmond: 108. Del Giudice Giuseppe: 110, 111. Delle Donne Fulvio: 107, 109, 110. Delle Donne Roberto: 107.
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indice dei nomi D’Onofrio Mario: 112. Doria Percevalle: 30, 35, 36. Dovara da Buoso: 58, 64. Dunbabin John: 108.
Hitler Adolf: 96. Hohenburg di Bertoldo: 22, 23. Holder-Egger Oswald: 110. Housley Norman: 109, 110.
Elena d’Epiro, moglie di Manfredi: 17, 103. Enrico detto Carlotto di Svevia: 19, 21. Enrico di Castiglia, principe: 99, 100. Enzo, re di Sardegna: 19. Este Azzo d’: 32, 34. Este Obizzo II d’: 58, 67.
Ienne di Rinaldo: vd. Alessandro IV. Imperiale di Sant’Angelo Cesare: 108. Iniquità Oberto: 31. Innocenzo III, papa: 25. Innocenzo IV, papa: 21, 22, 23, 27. Isabella d’Inghilterra, moglie di Federico II: 19.
Federico I di Svevia, imperatore: 39. Federico II di Svevia, imperatore: 8, 14, 16, 17, 19-21, 23, 25, 27, 31, 32, 36, 39, 47, 71, 78, 87, 99, 101, 102. Federico III di Aragona, re di Trinacria: 104. Filangeri Riccardo: 35, 37. Filippo III l’Ardito, re di Francia: 17. Filippo da Pistoia: 60. Fiorese Flavio: 108. Fonseca Cosimo Damiano: 107. Fontana, famiglia: 31. Foucois Guido: vd. Clemente IV. Francesco Tebaldo: 21. Frugoni Arsenio: 107, 110. Gallavresi Giorgio: 109, 110. Ganthelme Giacomo: 36, 37, 49, 50. Gavio de Henricus: 109, 110. Giacomo I, re di Aragona: 102, 103. Giovanna II di Angiò, regina di Sicilia: 104. Giovinazzo di Matteo: 78, 79, 112. Göbbels Joachim: 109. Gregorio X, papa: 17, 102. Grillo Paolo: 108, 109, 111. Guglielmo VII di Monferrato, marchese: 41, 66. Guido, vescovo di Auxerre: 43. Guiraud Jean: 109. Halles des Adam, detto il Gobbo: 20, 108. Hayez Francesco: 14. Herde Paul: 108.
Jaffé Philipp: 111, 112. Jehel Georges: 108. Jubinal Achille: 107. Jourdan Edourad: 110. Kamp Norbert: 109. Koller Witold: 107, 108, 110. Lancia, famiglia: 24. Lancia di Agliano Bianca: 8, 19. Lancia Federico: 24, 95, 99. Lancia Galeotto: 100. Lancia Galvano: 24, 86, 89, 95, 99, 100. Lancia Manfredi: 24. Landi Ubertino: 31, 58, 70, 95. Laveno di Roberto: 40. Le Goff Jacques: 27, 108. Loffredo de Ioffredo: 79. Luigi VIII, re di Francia: 27. Luigi IX, detto il Santo, re di Francia: 10, 27, 29, 38, 40, 46, 54, 55. Malaspina Saba: 30, 74, 76, 81-83, 85, 87, 90, 91, 95, 96, 108, 111, 112. Maletta Federico: 25. Maletta Manfredi: 24. Mameli Goffredo: 14. Manerio Giovanni: 36. Manfredi di Svevia, re di Sicilia: 7-14, 1630, 32-36, 38-40, 42, 43, 46-48, 50-53, 5558, 67, 70-74, 76-89, 92-99, 101, 102, 103.
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indice dei nomi Manselli Raul: 108. Marca de Olimperto: 66. Margherita, moglie di Luigi IX: 40. Martin Jean-Marie: 108. Martino IV, papa: 28, 40, 49, 103. Martino de Marinetus: 111, 113. Michele II, despota d’Epiro: 17. Michele VIII Paleologo, imperatore d’Oriente: 17. Mirepoix Guido: 43, 86. Monfort Filippo di: 43, 44, 49, 58, 60, 86. Monfort Guido di: 43, 44, 86. Montelongo da Gregorio: 31. Monti Gennaro Maria: 16, 107. Montmorency-Laval Guido: 43. Morisi Guerra Annamaria: 110. Multedo de Guilliermus: 109-11, 113. Musca Giosué: 112. Mussolini Benito: 96. Napoleone Giacomo: 50. Niangiaco Guillielmus: 111, 112, 113. Niccolò II, papa: 25. Niccolò III, papa: 17, 102. Nitschke August: 108. Nobili Claudia S.: 111. Novello Guido: 53, 55. Orsini, famiglia: 101. Pabst Hermann: 112. Paoli Cesare: 108. Paviot Jacques: 109. Pelavicino Enrico di Scipione: 95. Pelavicino Oberto: 30-33, 39, 40, 46, 47, 59-66, 70, 73, 95. Pelavicino Ubertino di Scipione: 66. Pellegrino da Oberto: 40. Perego da Leone, arcivescovo di Milano: 31. Piccardo: 96. Piccolomini Enea: 108. Pietrasanta da Pipone: 37. Pietro III, re di Aragona: 103.
Pignollus Lanfrancus: 109, 110. Pilone Rosaria: 109. Pispisa Enrico: 16, 107, 108. Poitiers Alfonso di: 40. Pollastri Sylvie: 109. Porta Giuseppe: 107. Proconsole Pietro: 76. Renato d’Angiò, re di Sicilia: 104. Riccardo di Cornovaglia: 27. Richardot Philippe: 112. Roberto di Fiandra, conte: 43, 44, 58, 60, 63, 64, 65, 86, 94. Roberto il Guiscardo, conte di Puglia: 25. Rolandino da Padova: 32, 108. Romano Ezzelino da: 32, 33, 60. Romano Alberico da: 33. Ruffo Pietro: 34. Ruggero II di Altavilla, re di Sicilia: 102. Rusticus di Saint-Omer Giacomo: 56. Rutebeuf: 10, 107. Sabelli Giovanni: 37. Saint Amand de Ferri: 49, 50. San Bonifacio Ludovico di: 67. Sanseverino Ruggero di: 30. Sanseverino Riccardo di, conte di Caserta: 72, 93, 95, 96. Savoia, dinastia: 15. Savoia Beatrice di, moglie di Manfredi: 20, 103. Savoia Amedeo IV, conte: 20. Scala della, famiglia: 33. Siciliani Marco A.: 107. Soissons Giovanni di: 43. Speciale L.: 108. Sully Enrico: 43. Sully Ugo: 43. Suzobonus Iohannes: 111, 113. Tolomei de’ Andrea: 28. Tolstoj Lev: 9. Toomaspoeg K.: 108, 111. Tornielli, famiglia: 60.
129
indice dei nomi Torre della, famiglia: 39, 40, 42, 60, 63, 70. Torre Filippo della: 39, 40, 58. Torre Martino della: 32, 33, 39. Torre Napoleone della: 58, 61. Torre Paganino della: 60, 63. Torre Raimondo della: 33, 40. Tors Raimondo de: 35. Travaini Lucia: 108. Troyes Giacomo de: vd. Urbano IV. Ubaldini Ottaviano degli, cardinale: 23, 26. Uberti Azolino degli: 70. Uberti Farinata degli: 8, 33. Uberti Pier Asino degli: 70, 95. Ungaro Andrea: 17, 46, 53, 56, 63, 74, 79, 81, 85, 86, 89, 90, 94, 107, 109-13.
Urbano IV, papa: 25, 26, 28, 34-36, 38, 40, 42, 43. Ususmaris Marinus: 109-11, 113. Vegezio: 90. Vendôme Burcardo di: 43, 75, 76. Vendôme Giovanni di: 76. Vendôme Lodovico di: 43. Ventimiglia Enrico di, conte di Ischia: 95. Verdi Giuseppe: 14. Verger Jacques: 109. Vico Pietro di: 35, 37, 50, 51. Villani Giovanni: 10, 14, 15, 44, 48, 61, 64, 72, 74, 76, 77, 81, 89, 107, 109, 111, 112. Virgilio Publio Marone: 7. Vitolo Giovanni: 108.
130
I N DIC E
Premessa. Due re fra storia e mito 1. All’ombra del Poeta 2. Ripensando la battaglia 3. Il mito e la storia
7 8 13
I. Un regno conteso 1. Biondo, bello e illegittimo: Manfredi 2. L’ostilità papale 3. Il fratello del re: Carlo d’Angiò
19 25 26
II. L’italia di Manfredi 1. L’offensiva ghibellina 2. Manfredi all’attacco 3. L’offensiva diplomatica pontificia
30 34 38
III. Obiettivo Roma 1. La lenta mobilitazione per la crociata 2. Un arrivo a sorpresa 3. Una drôle de guerre
42 48 52
IV. La guerra in Lombardia 1. Le prime mosse sulla scacchiera 2. Lo sfondamento del fronte ghibellino 3. Verso sud
58 60 64
V. Assalto al Regno 1. Due sovrani per un Regno 2. Il nemico alle porte 3. La battaglia di Cassino 131
68 71 74
indice VI. La battaglia 1. Una travolgente avanzata 2. Gli schieramenti 3. L’attacco di Manfredi
78 81 87
VII. La morte del re 1. La reazione angioina 2. L’ultima carica 3. Il corpo del vinto
89 92 95
Epilogo
99
Note
107
Bibliografia
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Cartine
121
Indici Indice dei nomi
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