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Italian Pages 752 [713] Year 2021
Un’opera necessaria per comprendere e conoscere una delle menti più geniali della nostra epoca. Curato da Aura Ghezzi e Alberto Pezzoa, con un testo di Elisabea Sgarbi, questo libro raccoglie scrii di enrico ghezzi, molti dei quali inediti, che raccontano la sua visione del mondo e dell’arte. L’acquario di quello che manca assomiglia profondamente al suo autore, ne è lo specchio. A partire dai primi articoli scrii alla fine degli anni seanta fino ai lavori più recenti, il volume presenta interviste, rubriche giornalistiche, idee per spot pubblicitari, scrii d’occasione oltre a documenti ritrovati, insospeabili, forse: poesie, riflessioni, ricordi personali, episodi familiari, leere private ad amici e compagni, curiosi aneddoti e retroscena sulle scelte che hanno accompagnato e caraerizzato la nascita e l’evoluzione di programmi cult come Blob e fuori orario, come anche il racconto di mille altre invenzioni, idee e proposte, talvolta realizzate altre solo immaginate. In questo tesoro di materiali non c’è, tuavia, nulla di casuale. L’acquario di quello che manca è un labirinto in cui è bello perdersi e trovarsi. Un ritrao di più di cinquanta anni di cultura, televisione e cinema, un viaggio in compagnia di enrico ghezzi nel suo mondo e nella nostra realtà.
enrico ghezzi, “apolide toscano”, si occupa di cinema e televisione (o meglio – e peggio! – ne è occupato). Dal 1979 lavora e gioca come “riautore di immagini” a Raitre per la quale ha curato e inventato cicli di film, le quaranta ore nonstop di La magnifica ossessione (1985), e i programmi fuori orario, Schegge, Blob. Ha direo il palinsesto di Raitre dal 1987 al 1994, il Festival del cinema di Taormina dal 1991 al 1998 e il Festival “Il vento del cinema” a Procida dal 2001 al 2009. Tra le sue pubblicazioni, paura e desiderio (1995), cose (mai) dee (1996), Il mezzo è l’aria (1997), stati di cinema festival ossessione (2002). Ha curato il volume di Guy Debord, Opere cinematografiche (2003). La nave di Teseo ha ripubblicato nel 2019 il suo libro scrio con Carmelo Bene Discorso sui due piedi.
i Fari.
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enrico ghezzi L’acquario di quello che manca a cura di Aura Ghezzi con la collaborazione di Alberto Pezzoa Introduzione di Aura Ghezzi Con un testo di Elisabea Sgarbi La nave di Teseo
L’editore ringrazia per la collaborazione alla realizzazione di questo volume il professor Cesare Balbo e Riccardo Milo. © 2021 La nave di Teseo editore, Milano ISBN 978-88-346-0095-5 Prima edizione digitale La nave di Teseo dicembre 2021 est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Dammene troppa di Elisabea Sgarbi
C’è una espressione che ritorna in questo libro di enrico a cui mi sento particolarmente legata. È traa da un aneddoto di Chamfort, in cui un bambino chiede della marmellata dicendo alla madre: “Dammene troppa.” “Dammene troppa” avrebbe potuto essere un titolo alternativo per quest’opera, perché di enrico ghezzi non ne abbiamo mai troppo. E così è importante fissare nella pagina – con una scriura poetica, capace di intuizioni e citazioni coltissime e rare – il suo sguardo sul cinema, sulla televisione, sulle cose della vita che il cinema e la televisione, inevitabilmente, raccontano. Si scopre, o si riscopre, la qualità dello scriore ghezzi, autore visionario ma legatissimo alla parola scria, alla verità “truccata” in un mondo di parole al vento che non lasciano traccia. (Tuo è truccato nell’ao stesso del vedere.) Ho imparato ad amare grandi registi apparentemente poco conosciuti grazie al “fuori orario” nourno: mio padre mi ha registrato intere annate di film scelti per fuori orario, la registrazione era come un rito religioso, come i montaggi rivelatori di Blob che sono una guida quotidiana per cercare il senso nelle cose che accadono intorno a noi. Da editore credo che questo libro, curato insieme ad Aura Ghezzi e Alberto Pezzoa, incorpori in sé i caraeri di queste due invenzioni televisive di enrico ghezzi. Al pari di fuori orario, esplora vie meno baute, propone soluzioni meno ovvie, rivelando in quell’apparente fuori sincrono con la contemporaneità tua la capacità del suo autore di vedere le cose prima che avvengano, e di essere
quindi sempre contemporaneo. Così contemporaneo da finire, talvolta, nel futuro. La sequenza delle sezioni di questo libro è un montaggio d’autore, in cui il passaggio dalla politica al cinema, dalla televisione alla filosofia, dalla motociclea al Festival di Sanremo non è mai casuale. Le schegge del pensiero di enrico ghezzi ci colpiscono e ci obbligano a pensare, desiderosi come il bambino di Chamfort. Ancora una volta: “Dammene troppa.”
Introduzione di Aura Ghezzi
Mi ricordo quando mio padre al telefono, credo nell’autunno del 2016, mi parlò per la prima volta di questo florilegio (così lo chiamò): cercava il mio aiuto, ne aveva parlato con Elisabea (Sgarbi), un progeo pensato tanti anni prima ora stava riemergendo. Si traava di un libro che meesse insieme quello che lui aveva pensato sulla televisione, a differenza di Paura e desiderio, dove vennero raccolti a metà degli anni novanta gli scrii sul cinema. Al tempo Elisabea aveva già abbozzato una raccolta sulla televisione. Mancavano quindi circa venticinque anni. Si presentava come un lavoro immane, ma ormai avevo acceato – impaurita e al tempo stesso sentendo che era una fortuna, un’occasione lavorare con mio padre: la possibilità di un tempo e di uno spazio nostro. Inizialmente lavorai da sola, anche se spesso fisicamente accanto al babbo. Cercai di trovare e leggere tuo (?) quello che aveva scrio o avesse preso una forma scria, selezionando i soli testi che parlassero di televisione. Sì, ma dove? Come? L’indicazione di Elisabea era stata quella di andare agli archivi dei giornali, quella del babbo, ovviamente, l’opposta: “Troveremo tuo a casa e in ufficio, credo di avere tuo quello che ho scrio.” Non mi fidavo, motivo per cui consultai i principali archivi online parallelamente, ma facevo male: la sua era un’affermazione precisa, di chi sa di essere un accumulatore seriale, anche se disordinatissimo, di tuo quello che vuole tenere a mente e lo riguarda. Così trovammo anche materiali particolari, che altrimenti avremmo perso. È stato faticoso: a parte poche cose che aveva raggruppato su un paio di scaffali (“Parti da lì, ci sono un po’ di cose, e dal libro verde, la bozza di Elisabea”), ho dovuto aprire ogni
giornale, rivista, catalogo, ma anche capire cosa fossero fogli scrii a macchina, bozze, tuo quello che trovavo tra librerie, scatoloni, borse piene di carta, cassei, cartelline, raccoglitori – la mia ostinazione e ossessività mi hanno impedito di lasciar perdere le volte che avrei voluto dire: “el mucchio di carta faccio finta di non averlo visto.” Si trovavano pile di giornali o riviste chiaramente tenuti insieme perché tui contenenti un suo scrio, ma a volte veniva fuori una pagina da dentro borse in cui si trovava qualsiasi cosa: bigliei di aereo e di treno, dépliant, vecchie leere, biglieini e fotografie, programmi di festival, ricordi di ogni tipo – è stata una lunga dissezione di una memoria esterna che il babbo aveva accumulato per decenni, casa dopo casa, ufficio dopo ufficio, in scatoloni di traslochi precedenti a volte mai aperti. Una volta eliminati i testi che chiaramente non riguardavano la televisione, lessi. Da sola una prima volta, poi insieme al babbo, soprauo gli articoli in sospeo di essere fuori tema (a malincuore ne abbiamo dovuti eliminare tanti). Lo sforzo di comprensione che ho fao leggendo questi materiali è stato grande ma è stata la possibilità, che poi avrà ogni leore o lerice, di seguire un pensiero che ti richiede di smagliare il tuo, di tirarlo agli estremi, di ampliarlo e dargli nuove strade, incroci, visioni e immagini. Man mano che procedevo nella leura mi è risultato evidente che la sua scriura, andando indietro negli anni era molto diversa da quella che mi era familiare, il suo modo di esprimersi era stato più chiaro agli inizi, quando non lo conoscevo, quando era giovane e aveva più o meno la mia età, per poi diventare più tortuoso con il passare dei decenni, con l’elaborazione di un sistema di pensiero e di mondo complessissimo e mutevole, che si fa e si disfa velocemente, pieno di giochi illusionistici e di parole. Sono emersi poi temi, pensieri, storie e cronache che araversavano i materiali in maniera trasversale, come fili che si svolgevano in vari articoli, elaborati da lui in decenni. Ne ho parlato con il babbo e abbiamo pensato a sezioni che potessero suggerire dei percorsi, oltre quello meramente
cronologico: io li vedevo, c’erano – meravigliosa per me, nata nel 1988, la storia della televisione e di Rai 3, forse il mio percorso preferito; ma non voglio parlare di ognuno, credo che lo facciano da sé. Non voglio rendere sistematico un pensiero che ha scelto la forma del frammento. Il mio occhio esterno aveva seguito questi fili, la testa del babbo, le sue parole e la sua abilità nell’inventare titoli splendidi gli hanno dato dei nomi. Spero che questi testi, pensati da lui a streo contao con la realtà, restituiti così al dibaito contemporaneo, siano un grande contributo teoretico e pratico per la vita, per la politica e per la filosofia contemporanea e futura.
1. (In)teoria
Il buco nell’Acquario
Ogni volta che qualcuno sembra intuire come si faccia e si sia (speacolo in) televisione, degenerazioni rapide tolgono le illusioni. Portobello si rovesciava costantemente in ignominia. E l’invenzione Bontà loro? Un centro colpito per caso, parrebbe adesso. La scoperta “misteriosa” di come una conversazione ben stimolata e assorbita, con in più le vaghe noie e incertezze della direa, potesse piacere interessare appassionare (?) in TV. Un trionfo della “chiacchiera” nel momento in cui più si inveiva contro le chiacchiere video e radio. Certo, una collocazione precisa e limitata, un appuntamento da “dopofilm” familiare con pantofole e bicchierino. Ma spesso una cosa da seguire, se non altro didaicamente, per il gusto di vedersi sviluppare come speacolo televisivo una conversazione “rituale” ma mai maniacale: esempio di come un “gioco” fao di nulla può fare molto in TV, di come un minimo di intelligenza può “bucare” la Rai e produrne immagini un po’ diverse, di come il video, più della radio, tolleri benissimo e anzi apprezzi e solleciti la “parola”. In Acquario invece sono gli elementi esteriori di “speacolo” a emergere: la suspense in aesa dei “visitatori”, l’acquario a colori in primo piano in bilico tra oggeo provocante gadget astrologico o terrificante simboluccio. La modesta lezione di Bontà loro non è servita; i mezzi tuora volutamente scarsi sono però impiegati in direzione opposta, con queste cose che servono e “cantano”; la porta decisiva sullo sfondo, e ahimè le bambole o altri “segni” da prendere in deaglio. Così, Costanzo per ora si limita a interrogarsi su quale sia la posizione migliore rispeo all’acquario, il tête à tête impossibile con Susanna Agnelli o il fianco a fianco con
Oriea Berti con davanti i pesci che danno all’inquadratura (è “quella” che si nota e si segue, in quel momento) un’aria da film di Imamura o Masumura. Limitata nella prima parte del “gioco a due” obbligato e presto monotono, l’aesa di una evoluzione, insita in ogni situazione comunicazionale che si possa spiare, condividere, o semplicemente guardare in TV, viene poi sovrastata proprio dal surplus di suspense: chi arriverà dopo? Sarà amico o nemico? Disturberà o divertirà? Nulla di male. Il fao è che bisogna essere Hitchcock o Rossellini per dare intanto un interesse in sé a una conversazione che si svolge in aesa di altro: e la promessa scontata di “imprevisto” frustra l’imprevisto che davvero può prodursi ogni momento. In più, una questione tra il televisivo e l’aziendale. I programmi Rai più applauditi negli ultimi tempi sono nati tui (vedi anche Odeon) su idee di partenza piccole piccole, magari di tipo “giornalistico”, sufficienti a “rompere” col grigiore uniforme: difficili però da “gestire”, proprio per la loro intelligente “ovvietà” difficilmente monopolizzabile una volta aperta la via. Il timore di restare senza nulla di “proprio” in mano spinge gli “autori” (qui sta l’equivoco) televisivi di successo all’invenzione (?) a tui i costi, al delirio di una originalità da perseguire. Si perdono le rare felici scoperte della “casualità” televisiva. Si cerca speacolo senza vedere quando c’è già. Si entra nella logica di Acquario. Che però andrebbe allora spinta al massimo: ci vorrebbero incidenti, estrosità, insuccessi clamorosi, cambiamenti continui di strategia: una serata a caso davvero dedicata, dopo rapide presentazioni, ai pesci dentro la vasca, inquadrature dell’acquario fisse o con movimenti morbidi a seguire un rosso o un giallo, e intanto sopra solo l’audio delle persone che “fuori” conversano, magari Costanzo e Andreoi. Oppure una sera l’aesa prolungata di ospiti invadenti o temuti, un parlare tuo sospeso e colto solo in parte, in aesa dell’irruzione. Poi niente, la porta non si apre. [“il manifesto”, 14 novembre 1978]
Pippo Baudo in Alexanderplatz
Si può esser certi che nessuno ha preordinato, nel palinsesto Rai, l’auale mercoledì sera in cui alle magnifiche ossessioni sirkiane (su Raitre ieri si è visto Secondo amore) seguono le immagini ossessionanti del Berlin Alexanderplatz (Raidue) visto da Rainer Werner Fassbinder, che di Douglas Sirk aveva fao il suo unico altare cinematografico scrivendo un saggio memorabile e chiudendolo così: “Ho visto solo sei film di Sirk, erano i film più belli del mondo.” Se mai lo stesso Fassbinder, con la morte, ha accelerato in parte la programmazione del suo film TV favorendo la coincidenza (coincidenza invece non sarebbe stata se la Terza rete avesse mandato in altra serata delle stesse seimane i Magnificent Obsession e Imitation of Life di Stahl remakati vent’anni dopo da Sirk); con la sua morte davanti a un televisore, eccitandosi di immagini e di tempi diversi compressi come al solito in uno solo, magari cercando di vedere uno degli altri trentatré Sirk che dieci anni prima si rammaricava di non aver visto. Ma la prima sera (13 oobre) della rassegna Sirk, senza ancora Fassbinder, le coincidenze erano state ancora maggiori, soo il segno del melodramma-feuilleton. Insieme con Come le foglie al vento partì il Verdi, e nel giro di due ore si ebbe modo di vedere anche Dynasty, una replica di Dallas, esta ragazza è di tui gran mélo di Pollack con Natalie Wood. Al Verdi (su Raidue) fece seguito un Amore in cià… ma quello era “neorealismo”. Non c’è bisogno davvero di pensare a programmazioni mirate. Le “coincidenze” sono miriadi nel mondo televisivo e triturato mille volte, quasi liquido o addiriura gassoso ormai e fluido al punto che le particelle-immagini si scambiano di posto con frequenze vorticose o esplosive (ed è giusto che un multiteorico come Michel Serres si rivolga alla meccanica dei
fluidi in cerca di modelli più utilizzabili – per analisi e “discorsi” di qualsiasi tipo). Che lo scontro Rai-network abbia prodoo in una sola serata un tale gorgo di passioni e fornace di capitali è più legato all’addensarsi e aggrumarsi in immagini (e il desiderio di immagini) di milioni di percorsi individuali ciechi e incredibilmente simili gli uni agli altri che alle mosse taiche o strategiche degli staff televisivi. E si ricorderà un’altra serata notevole, la scorsa primavera, quando il tema della “riforma istituzionale” cominciava a tornare centrale. Il poderoso e straordinario Ike di Robert Duvall (film TV non straordinario ma di incredibile fascino e precisione nel feuilleonizzare la guerra come dramma imperniato innanzituo sul conflio alla Executive Suite tra gruppi “aziendali” all’interno dello stesso schieramento) su Canale 5, un buon episodio di Hill Street (su Raidue) dedicato alle preoccupazioni del distreo di polizia per la visita presidenziale al quartiere; e Mike Bongiorno a flashare su Raiuno. Fu allora che in quel tripudio di presidenti passati o futuri, veri o immaginari, e in mancanza di aentati, Pertini toccato dalla grazia telefonò in direa a Bongiorno; ma era ancora una volta un caso, impulsività e generosità personale (aveva riconosciuto un signore che lo aveva ospitato tanti anni prima), non certo calcolata astuzia, anche se di colpo con la presenza della sua sola inconfondibile voce si pose sopra le altre immagini presidenziali della serata. Sovrabbondanza, sovrimpressioni, ore piene, tempi paralleli senza via d’uscita. Come accade ogni domenica con Domenica in e Blitz. Due “tempi lunghi”, due tentativi di televisione “tota(litaria)”, fortunatamente mascherati dietro bonomia e complicità, contenitori entrambi di speacolini e immagini per tui i gusti. Due filosofie diverse. Due domeniche fa il personaggio ospite (col suo “clan”) di MinàBlitz era Monica Vii: saluti, familiarità, strizzate d’occhio tra amici, grande spreco per mostrare immagini vere di simpatia o appunto complicità tra tui i presenti in studio, tui facenti parte di una stessa soo-classe (speacolo-cultura-celebrità) e accomunati dalle cene in traoria della sera prima. E Blitz
offre questa immagine vischiosa e compaa, nonostante il titolo, mediazione tra cultura alta e speacolo basso che si mostra ammiccante “tale e quale” al pubblico. Saltavi sulla rete uno per la domenica insieme a Baudo e trovavi lo stranito e lunare Antonioni Michelangelo da Ferrara sooposto all’ineffabile interrogatorio di Pippo. Subito pensavi all’ennesima bizzarra coincidenza, all’eccesso al pieno-pienissimo che è poi scarsità. Vii di qua e Antonioni di là, due protagonisti dell’incomunicabilità che la ribadiscono e la negano contemporaneamente divisi in canali soo gli occhi di milioni di speatori. Ma il professionismo di Baudo ghiacciato mostrava la diversità del meccanismo Domenica in, meno moderno ma molto più televisivo: non mostrare la mediazione (alto-basso, così gratificante), ma darla da fare al mezzo stesso, alla televisione, trasmeendo magari pari pari la differenza e la distanza tra i poli. Cineteca, museo, vee del pensiero, il Palazzo nei suoi più ovvi rappresentanti (i ministri) da una parte; la Boega, la provincia, il tinello, il fotoromanzo dall’altra. Baudo non è la mediazione ma già il portavoce di una parte: informatissimo, perfeo, trasmee le domande senza reverenze paure complicità, quando non si limita a collegare per telefono l’Altissimo (ministro) e il bassissimo. Così il pubblico scopre con semplicità che il rigorosissimo Antonioni ha girato uno short per la Renault, divertendosi a sperimentare per milioni di persone quello che un pubblico… più ristreo non acceerebbe forse in sala dentro la narrazione di un film. E soprauo una cosa bellissima, ricordando i “buchi” di Henry Moore, Antonioni l’ha dea a proposito delle motivazioni e delle ispirazioni e via blablando… Come per esempio Identificazione di una donna sia nato proprio da un vuoto, da un’idea di figura femminile che non conosceva e che gli ronzava in testa, così indefinita e inconoscibile da decidere di doverla fotografare, di volerci fare sopra un film. Si sa, infai, nonostante i pieni delle serate e delle domeniche televisive, che le cose (e le persone) nascono e/o (a scanso di equivoci) si trasmeono davvero solo nel vuoto.
[“il manifesto”, 4 novembre 1982]
L’autore sommerso
Inscria nel nome dell’autore la Biennale Cinema di quest’anno. Nella pubblicità televisiva “d’autore”, invece, è ben difficile inscrivere il nome dell’autore, più violentemente fuoricampo che in altri generi, di nome appunto oltre che come corpo. Equivoci: certo come in ogni genere ci sono stili e tecniche personali e riconoscibili; riconoscibili dagli addei ai lavori, dagli esperti e dagli amatori. Equivoco allora è il nome stesso di “autore”. “Pubblicità d’autore” è probabilmente quella dei geni sconosciuti (al pubblico cinematografico e a noi stessi), dei nomi senza aura che in diversi paesi confezionano capolavori di 45, 40, 30, 15, 8 secondi. La ricerca dei nomi di autori e registi di cinema che hanno lavorato e lavorano in pubblicità è un altro percorso, la verifica di filmografie “sommerse” e sicuramente marginali, costeggiare un bordo mai del tuo definito di una rete che coincide oggi – come estensione – con gran parte del territorio del cinema mondiale. Visto con occhi non “tecnici” è un territorio dalle dimensioni inconsuete più che inaspeate. Una fantasy land in cui il cinema si rareà, diventa cortissimo e raggiunge probabilmente i più alti costi “al minuto”, se il “sessantasecondi” di Paolo Taviani per la Renault 18 (non per il mercato italiano) è costato più di mezzo miliardo, se certi budget inglesi e americani sembrano arrivare agli 800 milioni. E, in un certo senso, televisione pura scarnificata in una sintesi violenta di tempo/denaro, se si pensa al costo elevatissimo del tempo televisivo per gli spot. Sempre più breve e ficcante, sempre più costoso. alcosa che eccede non solo i nomi del cinema, ma il cinema stesso e
la stessa televisione. Forse il corpo vero delle immagini di oggi: invisibile ma effeivo, il capitale, l’investimento che solo produce l’immagine. E insieme, cortocircuito rapidissimo, l’immagine che serve a produrre altro denaro. Potenza talmente geometrica da stritolare ben altri corpi che quello da sempre diafano dell’autore o semplicemente del regista. Allora il carosello, immagine già nostalgica ma quanto consolidata, tua provinciale e italica, originalissima, continua a rimandarci – in ricordi sogni d’infanzia o incubi – dei corpi, delle risate, dei piccoli intrecci. E questo ci è emerso di fronte durante la ricerca, neamente correlato all’assenza dell’autore: gli “aori”, così come le “cose” da far vedere e da vendere. Ben identificabili, l’aore e la merce, ben separati il raccontino e lo spot pubblicitario; due diversi “ai di vendita” di merci diverse, in fondo. Il lavoro allora è stato quello – dall’altra parte – di sostituire un vuoto di conoscenze precise con dei nomi: il puro nominare, più che le “personali” d’autore. Ripetere, “nominandoli”, i caroselli e gli spot che “si sono sempre visti”. Fingendo inevitabilmente, nella visione nostra, che fosse cinema; anche se non è né cinema, né TV, né – forse – solo pubblicità. Criterio decisivo quasi sempre, nella ricerca, l’autorizzazione: nel senso specifico della conferma o nello svelamento da parte del regista/autore (in genere al telefono) che sì, quel carosello o quello spot lo ha fao lui. Dopo si riconosce la cura e l’eleganza di Olmi, il professionismo e la sicurezza del Taviani…; ma può capitare di inseguire la Vespa sbagliata per un “piaggio” di Brass, o di scoprire un anonimo e bravissimo italiano o francese dietro un supposto Ridley Sco. E la stranezza di distanze e proporzioni si conferma per esempio nell’improvviso convivere di due diversissime coppie di fratelli filmici, gli Sco e i Taviani, diversi anche in pubblicità ma uniti da un campo finalmente omogeneo. Oltre la moviola di ricerca, prima di essa anzi, lo schermo è già confuso e debordante: quello del Palazzo del Cinema al Lido ha ospitato non più di due mesi fa il trentesimo festival internazionale del Film Pubblicitario. Kon Ichikawa era un
nome già passato di lì, per esempio con uno spot per uno smacchiatore di carrozzerie d’autore. E Costa-Gavras anche. E degli italiani, Avati fece un Cynar con Lionello tanti anni fa (curiosamente parlandone il fratello accenna a Venezia per datarlo: “Doveva essere il primo anno delle Giornate autogestite degli autori, credo il 1970…”). E stiamo cercando fino all’ultimo momento gli Shell fantascientifici di Petri che sembrano scomparsi. E spuntano le querelle, Antonioni riconosce come “suo” solo il “sessantasecondi”, la versione più lunga che ha fao per la Renault R9; il “trentasecondi” è stato rimontato e sconciato; proprio oggi ci arriva però un “quarantacinquesecondi”: dubbio da inesperti, un “trenta” gonfiato o un “sessanta” scorciato? una terza versione…? Accanimento per avere qualche sicurezza di aribuzione. Trovato il Chevron-Figlia-di-Ryan (Sabina Ciuffini) di Ponzi, ma i brevissimi telecomunicati “tic-tac” di Amelio non esistono più…? Nella ricerca di nomi alcuni “testi” passano oltre, bellissimi Lancia con Catherine Deneuve di Jed Falby (ecco l’ultimo ancora inedito – è per seembre – “firmato” dal ciak in campo) non li possiamo “inserire”. Si moltiplicherebbero all’infinito, i nomi, se uscissero dal cinema, da questo gioco doppio di pubblicità che si fa pubblicità col nome dei cineasti e viceversa, di Venezia 1993 che fa pubblicità all’autore e viceversa, come un grande carosello di film che ruota aorno a uno spot, un commercial (il cinema…?). Il tuo omologo alla presidenza di giuria di Bertolucci, che non ha mai fao pubblicità e un po’ se ne dispiace. Certo la scuola inglese scoraggia, tanto è piacevole e avanzata: gli Sco, Hugh Hudson, Alan Parker, Adrian Lyne…; come se dessero una grande lucidata complessiva al cinema d’oggi. Un rapporto rovesciato col cinema, anche come carriera (non il nome preso-noleggiato dalla pubblicità, ma il regista che si fa il nome con la pubblicità; in Italia è capitato a Baiato, che si è conquistato la fiducia dei capitali americani con i suoi commerciali), una ricerca di immagini che è unica, in un gioco di specchi tra commerciali e fiction
(vedi sempre gli Sco) che ti fa chiedere quale dei due “cinemi” sia il replicante. Oppure solo nello spazio tra gli specchi, tra queste due immagini sempre più ricche sempre più autosufficienti e celibi, sempre più simili, sta ancora una riconoscibilità del cinema, un “punto di identificazione”. Nel gioco dei supporti, negli spostamenti e sfasamenti di schermi, un carosello visto in sala Volpi come un film in TV; o nella guerra stessa, nel gioco di massacro tra specchi che si annullano e si smacchiano l’un l’altro, nel telecomando del cinefilo che cerca di uccidere la pubblicità, la cancella e la tortura e magari raschia via un Antonioni inconnu, o nel videoregistratorista che elimina un Azione donna fotografato da Storaro per i Taviani, a favore di un film ridoo ai minimi termini nel suo schermeo. Ma naturalmente il punto è sempre un altro e le linee si infiiscono e ingarbugliano (come insegna l’alta definizione veniente): tra la filologia “autoristica” che tra caroselli e spot dovrebbe comunque cercare i soliti “mille autori” – o render merito agli artigiani tuofare alla Emmer – dallo sceneggiatore al fotografo al copywriter geniale capace di inventare prima di tuo un’idea base buona per cento commercial in dieci anni e l’aenzione all’evoluzione formale del genere ciò che vince è l’incertezza della demarcazione, la convinzione di parlar comunque d’altro e mostrare comunque altro. Anche l’incertezza nostra piccola e infantile, la curiosità ingigantita dalle reticenze o dai dinieghi troppo certi o dal “si dice” dell’ambiente, “Fellini ha mai fao pubblicità?” appare un po’ ridicola mentre La cià delle donne fa la siglapubblicità in TV per il cinema delle sale. In testa e davanti agli occhi compaiono immagini prima silenziose poi assordanti, bollicine come quelle geniali improvvisamente sonore dell’Alka-Seltzer. [“il manifesto”, 27 agosto 1983]
Mezzi non giusti
Il linguaggio è per la filosofia ciò che è per la musica e per la piura: un mezzo non giusto di rappresentazione. Novalis La prima impressione, oggi, è che si trai di grandezze e di qualità tra loro incommensurabili. Cinema, scuola, televisione. Nessuno dei tre nomi può però essere astrao da un contesto di riferimenti su scala planetaria, e questo è il loro elemento comune. Nessuno dei tre nomi può essere sooposto in toto a un progeo capace di stabilire fini e modalità. Tui e tre si riferiscono a oggei o sistemi assolutamente privi di orientamenti in sé, e anzi sospesi in un senso già perduto che può tornare solo in frammenti indipendenti da una visione complessiva (come da un punto al di fuori da tuo). Una costellazione che li comprenda, non può ragionarsi che dandosene ragione, cioè senza evitare la questione etica, il dover essere. Almeno due di tali oggei sono infai oggi nella situazione di dover giustificare la propria esistenza: il cinema, la scuola. Il cinema come mezzo di produzione precisato storicamente, di immagini coordinate in film, è già oggi in tuo il mondo strangolato in una spirale di costi che dà come risultato ridicolo quello di una globale stagnazione in un momento di fortissima crescita della potenziale base produiva (intesa come “coloro che potrebbero o desidererebbero fare film,”) e della domanda di “immagini”. In certi casi (quello italiano? quello tedesco?) è di fao già in condizioni tali da dover ricorrere al finanziamento pubblico, non diversamente da un ente lirico o da un teatro stabile. E.T. è il paradosso di un film relativamente poco costoso, semplice dal punto di vista produivo, che ha bisogno della più “grossa” industria cinematografica mondiale e di essere direo da Steven Spielberg, regista di Lo
squalo e di Incontri ravvicinati, invece che da un sedicenne della provincia italiana o francese o australiana o americana o russa. La scuola, in società senza progeo (fini) o senza matrici, condivide del cinema lo sfasamento temporale, benché in senso opposto. Nel conceo di educazione (per permanente che sia) il discorso è sempre volto a un futuro prossimo lontano o immediato, a un processo interminabile di fao, che può coincidere col tempo per esempio di un’analisi (in senso psicoanalitico) o di una vita (in senso biologico). Così come nel cinema il discorso si volge o meglio si fa inevitabilmente al passato. Di entrambi (come “sistemi” se non come “nomi”) si potrebbe tollerare una sparizione, collegata a una loro “presa in carico” da parte del sistema/televisione, l’unico che lavori direamente sul presente e come presente, fino al punto di surrogare il presente. La televisione, e la sua proliferazione telematica, assume il ruolo di cosa complessiva, capace di aggregarsi tuo il resto e dissimularlo per intendersi: più La cosa di Carpenter che la costruzione di quella piccola “cosa” tenera deliziosa e circoscria che è l’E.T.. Percorrendo e riassumendo la realtà, producendo il reale, la TV è un primum logico da cui ormai si è costrei a ridurre i singoli altri oggei e sistemi. Lo sforzo di adeguamento/riduzione che la cultura in generale il sistema scolastico in particolare hanno sempre dovuto operare in rapporto alla complessità ed estraneità del cinema appare oggi ridicolo, in un mondo abbondantemente costruito dai media, per generazioni che, dagli anni quaranta a oggi, hanno imparato a camminare seguendo e percependo con gli occhi la camminata di Gary Cooper o quella di John Wayne, e che oggi hanno come struura temporale quella dei palinsesti televisivi, costruiti per scansioni analoghe a quelle degli “orari” scolastici ma incredibilmente più potenti di essi. Non siamo più in un sistema dove il linguaggio (scrio-orale) si fa carico della funzione di dire e parlare di tuo, con lo scarto doloroso del suo essere inevitabilmente “un mezzo non giusto di rappresentazione” (e all’elenco – nel frammento di
Novalis – di oggei non ben rappresentabili dal linguaggio si può ben aggiungere il cinema, e la televisione stessa). ando la televisione rivela una complessità tale da mimare perfeamente quella del linguaggio vuol dire che la televisione stessa ha raggiunto quello che era il luogo intersoggeivo in cui il linguaggio adeguatamente “rappresentava”. È il sistema televisivo oggi il luogo in cui (o che) (si) parla di tuo: la TV è a tal punto un mezzo non giusto di rappresentazione per qualsiasi cosa da rappresentare esaamente il linguaggio (anche se probabilmente, ammeiamolo per quanto possa essere indifferente, “in modo non giusto”). In quanto oggeo, in quanto mezzo, la TV non ha certo bisogno di essere introdoa nella scuola. Ogni individuo ne ha continua e facile esperienza, essa è ormai una struura preventiva, un dato dell’esistere auale come il mangiare o il bere (nel senso che il rapporto con la macchina video rientra ormai nella “naturalità”, e che l’uso della protesi TV non ha più nulla di traumatico, e anzi come una amputazione apparirebbe l’assenza di essa – vedi anche, nella particolare situazione italiana odierna di TV opulenta, come la mancanza di segnale di alcune stazioni venga spesso avvertita come sofferenza). Il cinema invece è già qualcosa di cui si presume di poter fare la storia, e anzi la “storia del cinema” è la dizione più frequente e inauale con cui il cinema entra fuggevolmente nei programmi scolastici inferiori e permane (in ritardo…) in quelli universitari. Assodata una “insegnabilità” media tecnico-cronologica della storia del cinema (con tui i problemi didaici che comporta la “non-giustezza” del linguaggio), essa appare comunque ormai questione marginale, ai limiti del “nozionismo”, e realmente indipendente dai film e dalla pratica filmica. Di Pudovkin o di Ejzenštejn sarà ormai molto più utile e stimolante la leura alla moviola di Oobre con la celebre figura retorica del leone di pietra animato (così spesso citato da Della Volpe nel suo ragionare della “metafora filmica”). Posto che in diversi short
pubblicitari, visibili parecchie volte al giorno in televisione, si trovano esempi più chiari e complessi e meno rudimentali di operazioni del genere. Così, l’uso del videoregistratore e della leura video in una scuola dovrebbe fin dall’inizio svincolarsi dalle linee di formazione di una “videocineteca ideale” faa di classici e di capolavori. Tentativi di adeguamento ritardato a una realtà didaico/museale già superata nella pratica di altre discipline. Il video potrebbe invece configurarsi didaicamente come una “memoria colleiva”, una banca dati di immagini e insiemi di immagini richiamabili a piacere. Se non è questione di “inserimento” della TV nella scuola non è neanche importante discutere del contrario. La sovrapposizione dei due sistemi di “traamento” e di “riempimento” e “conformazione” del tempo è già in ao. Compito della scuola (e questo termine desueto proveniente dall’universo etico del dover essere è tuavia il più preciso, il più legato in ogni senso alla scuola) sarà quello impossibile di “parlare di televisione” per parlare di tuo il resto. Rispeo all’astraezza del linguaggio verbale/scrio/orale e delle sue struure, la televisione – che certo non eccede i linguaggi – ha il vantaggio o meglio la qualità di essere oggeivata in un sistema di speacolo/informazione ben riconoscibile. Più che come specchio (funzione tra l’altro spesso in passato demandata al cinema nei tentativi di tipo “sociologico” di introdurre il cinema nella scuola) dei tempi e della società, la televisione funziona da contenitore, da forma, oltre che, come si sa da McLuhan, da “mezzo”. Ma in questo momento è anche una struura così diffusa e riconoscibile da rimandare alla forza che ebbe un tempo o che ancora ha l’istituto familiare: la banalità di formule come quelle di “nonna eleronica” non deve far trascurare la possibilità di inserire la TV in un’antropologia delle auali “struure della parentela”. Abbiamo quindi una “cosa” che ha parecchie delle funzioni e delle possibilità di universalità del linguaggio. E
che in più è un oggeo, un sistema, un elerodomestico perfino, familiare come il telefono. Prima che anche la TV telematicamente diventi un puro “mezzo” di tipo telefonico, scomparendo in questione di bollee e perdendo completamente il profilo e l’eccesso “teorico” e antropologico che ancora le è proprio, divenendo insieme puro nome (funzione) e puro elerodomestico, è possibile forse (nella scuola?) aualmente usarla come il gigantesco laboratorio che in effei è, aldilà di qualsiasi monopolio o struura burocratica o economica di mercato. Il cinema, oggeo così vicino insieme così diverso, così sfruato e maltraato e insieme così vezzeggiato dalla TV, così poco in direa ma tanto spesso trasmesso, può essere il primo stimolo e una grammatica generale dell’universo televisivo. Non si traa ancora (cioè: “non è più tempo” o “non è giunto il tempo”) di lavorare sulle grammatiche filmiche sedimentate nella pratica storica o sulle sintassi ridicolmente estrae dai film. Si traa “solo” di imparare a riconoscere, a distinguere, a paragonare, a farlo anche nel sistema di informazione e trasmissione più misto, veloce, sintetico e caotico che sia mai esistito fino a oggi. Assumere il cinema come primo reperto individuabile nel mare dei detriti televisibili, e come il primo da classificare, può essere un compito affascinante, utile quanto imparare il latino e l’inglese insieme. Riconoscere i film, i corpi, il genere di speacolo, gli stili, e insieme cercar di capire fino a quando un film è un film. Fino a quando una narrazione funziona, fino a quando un discorso si percepisce, o come si modifica (oltre che nel racconto verbale tipo telefono senza fili) nei passaggi di medium o di “nastro”: fino a quando Casablanca è Casablanca? Lo è anche alla sesta copia di cassea in cassea, con quaro marchi di TV privata e distributori sovrimpressi, con le scrie per i donatori di sangue e per annunciare il telefilm successivo, magari con la scria Casablanca (“primo tempo”) che aiuta a non sbagliare? Cosa cambia dal Casablanca miticamente originale sognato dai cinefili in copia splendente? Cosa c’è in meno o in più? È o no lo stesso film?
Non funziona forse allo stesso modo? Fin dove arriva la leggibilità – ci si chiede vedendo appunto un film per la quindicesima volta (perché?) dietro un velo di disturbi eleronici trasversali vagamente colorati… Ma questa è ancora solo leura (o visione, al massimo). Mentre l’esplosione video – o semplicemente la possibilità media di usare il video – permee, e obbliga a qualcosa di più complesso e fondamentale. Leura e scriura, anzi l’inestimabile movimento ambiguo e incessante tra le due. In bilico c’è infai il gioco tra leura e scriura: il riuso di immagini, la possibilità di fare antologie personali di sequenze, rimontaggi, smontaggi, contaminazioni, alterazioni di velocità, sovrimpressioni (cosa è Sentieri selvaggi più Johnny Guitar – o meno Johnny Guitar – inteso come i due film che scorrono insieme nello stesso tempo su uno stesso nastro, mixati come due suoni in sovrimpressione? Certo un gioco, anche facile e anche stupido, ma una possibilità ancora da sperimentare fino in fondo, quella del riempimento su più strati visivi del “tempo filmico/televisivo”). Nell’assenza sacrale del testo (ben difficile da “evocare” oggi con le pratiche normali e di massa), consumare e usare immagini (preesistenti) può essere l’unico modo per non essere consumati e usati (come puri fruitori) da esse. Scriura è in effei la parola chiave, per quanto curiosamente desueta proprio nelle scuole (e fuori di esse, a proposito di esse, ci si affanna ancora ridicolmente in dibaiti “da giornale” – non a caso – sulla superiorità didaica e educativa della forma riassunto sulla forma tema, come se non fossero due forme identiche applicate a “oggei” diversi). Già dal continuo arito informazione/speacolo nel sistema televisivo sta infai fuoriuscendo un surplus in aesa di scriura, pratica “eccessiva” e di per sé non necessaria nell’universo economico televisivo. Scrie eleroniche, coloraggi e viraggi, uso spinto del chroma key (fondale eleronico mediante il quale è possibile intarsiare diverse immagini con risultati molto più ampi e sfruabili ed economici di quelli del vecchio trasparente cinematografico),
sovrimpressioni: un armamentario di scriura televisiva, che fino a poco tempo fa era – in Italia – il segno della povertà (da ovviare) di soware (programmi) delle emienti private più scalcinate, riaffiora oggi nei quiz e nelle scrie che anticipano le domande e i temi per le telefonate e per gli ospiti del film-dossier, nei telegiornali e negli studi del varietà, nella pubblicità soprauo che unifica il tessuto teleprivato tappando e aprendo buchi con fantasmagorie in squeeze zoom (strumento eleronico, per ora molto costoso, un computerino per “traare immagini” oenendo istantaneamente effei che avrebbero richiesto ore o giornate di lavoro in truka). Per quanto si possa ipotizzare e auspicare una diffusione “privata” (nel senso di “home” e “personal”, non di un’emienza) di strumenti e pratiche di mixaggio di immagini, non è tuavia questa (o solo questa) la scriuravideo che la scuola potrebbe favorire, promuovere, ospitare. È un’aitudine complessiva di scriura (o meglio appunto di Scriura-Leura) in cui “materia” dello “scrivere” sono i corpi come le parole, le immagini come le scrie sulle immagini o le scrie senza immagini, e in cui ciò che si legge sono i film come i capelli dello speaker del telegiornale, le sigle come le interruzioni, le gambe di un’arice come la trama di un telefilm. Mixaggio “mentale” e perceivo, se si vuole; scriura/leura nel senso di un “mixare” che vuol anche dire saper leggere la realtà telemixata, saper vedere un’immagine dietro un’altra immagine e poi un’altra, secondo il tipico sistema di dune del deserto del senso. O un’immagine dentro un’altra, un suono fuori da un’immagine, un’immagine dentro un suono. Senza bisogno di imparare lingue. Staccandosi anzi neamente da tue le ipotesi didaico/filmiche passate. Vedere o “imparare” i film come le poesie, come i testi da imparare a memoria della nostra infanzia scolastica, quando già sapevamo parlare-/leggere-/scrivere, e appunto ci bastava parlare leggere scrivere. E, in un rapporto inverso rispeo all’apprendimento della lingua madre, imparare adesso a
riconoscere parlare i “dialei”, i linguaggi particolari, gli idiolei di questo o quel soggeo (Antonioni, Godard, Coppola, mio fratello, tuo zio, lo speaker del TG). Possedendo già – ora e in partenza, se non “per sempre” – la lingua TV/cinema/video. O anche – e meglio – fingendo di possederla. Perché l’importante è già posseduto (e inaingibile, certo; oh), è l’hic et nunc del tempo, è il fao che il nostro tempo non può più contenere la “Storia” che a sua volta non può raccontarlo. Un fao tuo interno alla mutazione didaico-/antropologica che con poche parole (nell’intervista con Peter Bogdanovich contenuta in Fritz Lang in America) Fritz Lang individua nel diffondersi dello speacolo cinetelevisivo di massa, ben oltre le infinite elucubrazioni sul cinema-fabbrica dei sogni, oppio e illusione eccetera ricorrenti per tuo il Novecento: “I miei genitori andavano a teatro due volte al mese e poi ne discutevano a lungo con gli amici; era un evento: avevano assorbite due storie di persone. Ma vedendo un film al giorno si assorbono molti più fai, storie, nozioni sulla vita a velocità sempre maggiori. Si vive più velocemente in tuo. E pensando alla frequenza dei divorzi tra i giovani mi chiedo se una persona oggi può accontentarsi di un’altra, oppure assorbire molto più di prima, mogli e mariti compresi.” Il “come se” della finzione di possedere il linguaggio del presente dovrebbe essere rivendicato dalla pratica telecinescolastica. Anche contro ogni realismo del presente produivo, una volta conosciuto nei suoi meccanismi. Non credo sia utile seguire ideologie del “fai da te”, né che sia meno pericoloso il mito dell’opera colleiva rispeo a quella dell’autore (a proposito delle scolaresche che “fanno cinema”), ma certamente il punto è qui, nell’auare una pratica di scriura cinetelevisiva, nel colmare lo scarto tra il film e la leura. Nell’ignorare per un aimo, una volta descriolo, lo scarto tra “il film” e la sua realizzazione/produzione. Proprio la “storia della produzione di film”, con le sue incongruenze industriali e logiche, con le
sue casualità mascherate da strategie può permeere oggi – mentre più grande è la frustrazione delle migliaia di individui con il film-copione nel casseo che non trovano sbocchi – a bambini-ragazzi-adolescenti di non vedere le differenze che vi possono essere tra la loro panoramica in superoo o in video familiare e quella di un film-miliardo in superdolby. O di non arrossire constatando che il loro copioncino è interessante e speacolare almeno quanto quello medio di Spielberg/Lucas (ma sono fenomeni normali, o lo sarebbero se l’organizzazione social-familiare non limitasse drasticamente la percentuale di affioranti Alfred Jarry quaordicenni con i loro Ubu). O infine di spingere il “come se” fino al fantasma della realizzazione di un film, considerando utopisticamente uguale il loro spezzone incompiuto o solo scrio o immaginato per mancanza di soldi e I cancelli del cielo del bambino-Cimino che con i suoi capricci fa arrabbiare il babbo. Nel 1971, uno dei registi emergenti del cinema mondiale, il polacco Skolimowski, dichiarava in un’intervista (“Filmcritica”, 213): “Sono un uomo un po’ stanco, con una porzione di talento e di oimismo nei riguardi del mio lavoro, ho passato i trent’anni – cioè appartengo alla generazione media. Ma veramente il film lo debbono fare i giovani. Forse coloro che sono stati bocciati all’esame di ammissione alla scuola di Łódź (la scuola statale di cinema polacca), coloro che non sapevano rispondere alle domande dei professori, ma che potrebbero rispondere ad altre domande a cui invece non sarebbero in grado di rispondere i professori. Il film appartiene soprauo ai giovani. Io ho iniziato a ventiquaro anni con Rysopis. Se lo avessi fao prima sarebbe stato migliore. E quali somme ridicole bastano. Rysopis è costato appena 10.000 złoty. Invece da girare un film da 5 milioni, meglio farlo da 50-100.000 złoty. esti giovani andrebbero in autobus allo studio, farebbero tuo da sé, anche la recitazione. E sono sicuro che la maggioranza di questi film sarebbero più interessanti della nostra presente produzione. Purtroppo la nostra cinematografia cerca di creare una nuova
scuola – e sarebbe già la quarta o la quinta – dando debuanti più vecchi di me, cioè più stanchi… Purtroppo i tre quarti dei nostri registi non conoscono il mestiere… Non credo nei giovani architei o nei giovani compositori, ma il film lo darei ai giovani. È un’arte di generazione. Si può creare un ensemble di ventenni, ma non di quarantenni, perché ognuno di loro è un’individualità.” Oggi, con la possibilità per tui (dati i costi comunque non proibitivi) di fare “video” anche da soli, a casa, produrre immagini in movimento non tanto dissimili da quelle dei circuiti “industriali” non è solo un sogno (visto che anche Coppola comincia a produrre direamente col video i suoi sogni). E naturalmente si ha, e si avrà sempre più paura (da parte dei critici, delle maestranze e dei clan del mondo “separato” che si chiama cinema) che dall’auale afasia diffusa si passi alla genericità di migliaia e migliaia di impulsi puramente “fatici” sparsi. Il sogno aerrisce, o intimorisce, ma certo per essere decentemente “scuola” una scuola media dovrebbe oggi produrre più cinema (e TV) di quanto ne produce una normale “scuola di cinema”. Dovrebbe saper lavorare più televisivamente sulla miscela di ignoranze e di saperi delle persone che la compongono. Ed essere capace di percorrere e vedere il cinema come traccia che va oltre i film, oltre la televisione come è oggi, chiusa nel campo della rappresentazione sintetizzato dai due poli dell’informazione e dello speacolo. Se il cinema, con la messa in gioco che implica del soggeo tra campo e fuori campo (il fuori campo in cui deve nascondersi il soggeo per produrre l’immagine), è un oimo modello teorico di tipo “idealistico-teologico”, la televisione, medium al quadrato al cubo all’infinito, è oggi un modello cosmologico che moltiplica il mappamondo dando insieme l’idea dei mondi “possibili” e “paralleli” e il conceo vuoto della trasmissione-rappresentazione. Parlare di televisione, o meglio farla parlare, o meglio ancora parlarla e scriverla (fare televisione) è oggi porsi entro i margini diffusi del centro, e
obbliga a un pensare di tipo cosmologico (kepleriano, si potrebbe dire; e anche galileiano, ovviamente; se per esempio Dallas ha il successo mondiale che ha, fino a spostare completamente il senso della propria titolazione geografica). Ripeterei: sicuramente è un mezzo non giusto, ma sembra il più vicino a “rappresentare” i labirinti del linguaggio e forse perfino a dare – saldandosi telematicamente al computer – una mappa della mente/inconscio da porre in fascinosa sovrimpressione con quella freudiana. E se “fare televisione” (a scuola) può voler dire un allucinante “far tuo” (scrivere/leggere il tele-mondo), “fare cinema” ne è già parte, ed è già per oggi, per questo momento, proprio grazie alla televisione, alla sua immagine spezzeata in tante linee e punti. Punti e linee di “reale” (non sembra a volte aguzzando gli occhi nel buio o nella luce di vederli, di percepirli, i nostri “puntini di immagini”, magari semplice pulviscolo atmosferico, o particelle di luce o miopia…), alfabeto infinito già dato che la scuola dovrebbe indurre a ritrovare in ogni propria occhiata, paragonando il panorama della propria finestra a un’immagine di Scorsese e la propria opaca o viva scena familiare con quella cinetelevisiva di Troisi. E, per rovesciare una vecchia linea didaica – anche televisiva –, per quanto riguarda lo scrivere TV si può in ogni momento voltare la lavagna o cancellare e oenere il nero in cui ogni immagine avrà la sua luce: non è mai troppo presto (almeno quanto non era e non sarà mai troppo tardi; all’intersecarsi dei due luoghi comuni giace il presente, il più comune di tui). Sao ko kelle terre… Naturalmente (orrore), senza motivo. (Che non sia misteriosamente semplice e “naturale” come quello che spinge in certe noi decine di milioni di persone a guardare la stessa immagine, o ad aspeare che dal fondo del pozzo TV affiori un’immagine che non sia un corpo gelato.). [in Ciak, lezione! Cinema, scuola e professionalità, a cura di Guido Barlozzei, Roma, Bulzoni, 1983]
Troppo presto, troppo tardi
Mentre finiva L’uomo che amava le donne nella versione di Blake Edwards, in onda giovedì su Raitre, è successa una cosa strana. Dopo l’ultimo sguardo di Julie Andrews verso l’uomo Burt Reynolds (tanto amato e amante) in sepoltura al camposanto, ecco un inconveniente tecnico. Era accaduto già qualche seimana fa, in coda a un altro film: per errore (di un) tecnico o (mi piace pensare) per automatica imperfezione o sensibilità della macchina, il nastro su cui la pellicola riversata stava andando in onda ha cominciato a riavvolgersi, a tornare indietro a velocità vertiginosa col sibilo dell’ampex simile a un lamento per il ritorno inaeso. indici secondi di disturbo, il senso scheggiato di un’abituale procedura tecnica (la bobina, finita la trasmissione, si riavvolge) cui – nel lavoro televisivo – non riesco mai ad assistere senza un’emozione o una sensazione forte. Allusione impressionante allo scorrere veloce indietro, al “ripasso” forzato e lancinante del punto di morte (il punto, del resto, da cui parte e in cui finisce ciclicamente ogni narrazione). Colpiva, certo, l’esaezza dell’errore, in quel momento terminale e tombale del film di Edwards. Più forte ancora, nell’impossibile invertirsi del senso (direzione) e del ritmo mutato delle immagini, la percezione di essere, come sempre, in direa. Se no, non essere. Fino a oggi resta inevitabile l’essere in direa della catena di trasmissione in TV, la possibilità che il nastro si rompa, che qualcuno impazzisca, che arrivi una scria col risultato di calcio o con la disgrazia. Tuo è in direa, e a quello straordinario esempio e momento di televisione che diventa in TV un film come Sentieri selvaggi di Ford si aggiunge la ferita della “direa”, la mano sospesa pronta a scrivere sul muro (o finestra in
trompe-l’oeil) che chiamiamo per ora televisione. In aesa della frantumazione telematica della “distanza”, il massimo di “sapere TV” oggi (della direa in particolare) si ha nello sfondamento iperbolico del luogo comune operato da Celentano/Fantastico. Per la prima volta “fantastici” non sono i lustrini e gli annunci ma i silenzi i vuoti gli imbarazzi, contemporaneamente costruiti/sollecitati e automatici del personaggio-Celentano. Stupefacente, si svolge per la “plateaItalia” del sabato sera un corso di media paurosamente preciso ed efficace, non eguagliabile dai contornamenti e dai divertimenti degli zavoli e degli arbori. Con autorevolezza ministeriale vi è affermato che la direa per il varietà sarebbe un di più esornativo e retorico. Ma non meno retorico è infai il mito della direa nell’informazione del TG (di chi e di cosa siamo o dobbiamo essere contemporanei? ale è l’aimo giusto in cui comunicare l’aimo? Chi è in grado di riconoscerlo? Non torna a essere un problema del re, di cui ha o vuole avere il potere di censura?). Celentano, con la sua intensità, con la semplicità della sua figura magnificamente stagliata dalle luci dentro un set oscuro, racconta quanto sia connaturata al mezzo tale retorica (anche nelle situazioni più dimesse), e quanto la direa dia l’intensità del “fino all’ultimo respiro”, dell’aimo vissuto come fosse ogni volta l’ultimo (e non è questa la situazione stessa della “vita televisiva” di Celentano, sempre a rischio di essere interroa…?). Spaesata, la Laurito arboriana abituata al ruolo trasgressivo, ammee che qui… è troppo, è costrea a reinventarsi, a muoversi dentro un terreno che è fuori dalla dialeica ordine/trasgressione, un puro luogo di intensità e aese (e disaese). Nell’azienda televisiva più professionale d’Italia la non-professionalità di Celentano (che già fece ammutolire il Baudo di Fantastico chiudendo la bocca a metà di un playback) e le lamentate “prove in direa” dell’avvio di Domenica in (sublime, la sola prima puntata) e di altre trasmissioni sono il trionfo del gioco TV più intenso, troppo più forte della professionalità sempre più grintosa e perfea dei bravissimi Baudo e Bonaccorti. Direa come trasformazione a vista, come “effeo speciale di
verità”, come verità del tempo televisivo anche quando non è in direa (così Celentano fa diventare direa la registrata di Canale 5 inglobandola; così – ricordo – le “diree da Venezia” pur essendo quasi solo materiale registrato – a cominciare dai film – erano fae in direa, con l’intensità e gli errori del tempo streo e dello stress, forse anche con le lucide connessioni che solo la visione allucinata e stanca e reale – lì, al festival, senza “prepararsi a casa”…). Direa come fotografia del ritardo continuo cui il tempo inchioda qualunque puntualità. [“il manifesto”, 29 novembre 1987]
Nel videoschermo c’è un nomade
La migrazione, o meglio ancora, la mobilità di alcuni nomadi, è un modello forte per leggere la televisione oggi. Non parlo solo della migrazione delle star passate da un’esclusiva all’altra, portando dentro Reteitalia grande inutile professionalità (e migliorando i loro livelli precedenti). Si intravedono percorsi più tortuosi e bizzarri, spirali e zigzag. Chi non è incaricato di rappresentare una rete (o strapagato per farlo) araversa un solo spazio (lo schermo), in tempi diversi (ovvero set diversi; in TV il tempo è il set) ritrovandosi non di rado simultaneamente presente nel mondo parallelo di due o tre canali. Non è un fenomeno nuovo: come quando i TG si toccano mostrandoci quasi le stesse immagini nello stesso momento, come quando i film propongono (senza nessun bisogno di architeura cosciente del palinsesto) ogni sera alchimie di nomi corpi autori per linee esterne alle reti, filmografie trasversali permesse dal metamontaggio. Oltre a dare l’immagine precisa di una confusa enciclopedia (e mitologia) universale, il gioco dei passaggi da uno schermo all’altro dentro lo stesso schermo si è evidenziato fino a oggi soprauo come pubblicità. Più forte diffusa diagonale di qualunque rete, la pubblicità dirama programmi (gli spot) e soggei e corpi identici su tue le reti. Pubblicità come forma della necessità e dei desideri. Il grande aore in tournée teatrale compare a poche ore o minuti di distanza nel saloo buono o nello sfarzoso show di una vera rete e nel tinello casereccio della TV locale. La sfilata ossessiva degli ospiti autopromossi disegna percorsi allucinanti, bibliotechine di autoritrai video il cui semplice “montaggio” – se riproposto – avrebbe effei esilaranti.
Affascinante come raccolta antropologica, il tour pubblicitario televisivo è interessante solo come fantasma distillato di un’immagine del metacanale, di rete nelle reti. Se con la pubblicità il lussureggiare sregolato delle apparizioni è effeo di una semplificazione formale, assunta da soggei deboli o forti la forma nomadica disegna qualcosa di più che la solita non-forma cancerosa del capitale (o del desiderio capitalizzato, del capitale desiderato ecc…). Come araverso fiere di paese, senza riguardo particolare per l’importanza della piazza, l’autonomo televisivo si porta dietro (senza dimenticare di pubblicizzarsi) una lieve coscienza di intercambiabilità e poca paura di sprecarsi. Potenzialmente, da solo o col suo gruppo (vedi Arbore), è una rete intera, o una rete a sé (vedi Celentano, nomade solo per i suoi film, programmati da Reteitalia). Ma non è questo il punto (penso a Riondino; che non sarà forse primavera, ma ondula di qua e di là; e se mi fa rabbia quando lo vedo da Costanzo e so che farà Matrjoska – Ricci, Italia Uno – e fuori orario nostro – Raitre –, sento comunque che il suo è un modo per non essere di nessuno e che il talk-show di Costanzo è il sintomo del rimescolamento televisivo – in Italia e altrove –, dell’uscita dalle competenze, della coltivazione dell’improprietà), non voglio parlare qui di individualità, né dell’intensità particolare dei grandi personaggi chiusi in se stessi davvero come uno schermo dentro lo schermo, comunque se stessi perché mai solo lì dentro il quadro. Il punto sono le linee di collegamento, le fratellanze, le affinità tra programmi diversi e persone diverse in reti diverse. Sicuramente già esistono e sono esistiti contropoteri, lobby economiche sovra-reti e sovra-aziendali nell’universo televisivo. Importante è che ora si manifestino (magari contro le predee…) reti di affinità – oltre le gabbie dei generi – nei programmi stessi. Il virus del cacao meravigliao è già trasversale, abbae il marchio “Raidue” come quello “Arbore”, fa balenare di nuovo il fantasma dell’incontrollabilità televisiva che tanto ossessiona (terrore della mutazione) e che è invece la sola forma capace di porre all’ordine del giorno la questione (sempre futuribile e futurizzata) della democrazia
televisivo-telematica. Con la quale molto hanno a che fare le migrazioni, le ondulazioni, le apparizioni, le frequenze, le frequenze delle “apparizioni” (cessato il viaggio della cometa – ma quali re magi l’hanno davvero vista? – Celentano resta forse un “personaggio Raiuno”?), la leggerezza dei teletanghi, la pesantezza della direa. Più chiaramente che mediante una sigla comune (se tui gli “affini” vari canali, si meessero un palloncino rosso o azzurro legato al braccio…?) personaggi e programmi molto differenti si danno la mano e si salutano intanto araverso la porta streissima (la fessura) del telecomando. [“il manifesto”, 31 gennaio 1988]
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Scrivi, o video amato, l’enciclopedia senza fine
Nel momento in cui si comincia a scrivere una qualche cosa a proposito di un qualche programma televisivo (un testo TV), il testo “televisione” è già mutato irreversibilmente da quando quel pezzo di TV è stato visto da chi scrive. Il sicuro fascino dello scrivere (e parlare, e pensare) di televisione sta nell’inaualità. Forse per questo la “critica televisiva”, in Italia come altrove, gioca tanto a confermare la propria “aualità”, a tenere il suo “diario minimo”, a descrivere il contesto o la circostanza privata dell’ascolto, a “datarsi”. Leggiamo molta cronaca di esperienze di visione televisiva. Che si aggiunge alla larghissima cronaca su tui i giornali avviluppante la programmazione televisiva con i suoi retroscena i suoi divi il suo mercato i suoi effei. Si parla spesso di “politiche” televisive, si intervistano presidenti generali colonnelli sergenti, nessun soldato è “semplice”. Da noi come in Francia, negli ultimi mesi, la notizia televisiva in prima pagina è abituale. E il genere leerario della “deplorazione-contestazione” dell’eccessivo spazio e della troppa importanza aribuita alla televisione ha recentemente acquisito a sua volta una dignità di prima pagina (vedi “Repubblica”, “Corriere”, “Stampa”…). Non mi pare si parli troppo di televisione. Il dammene troppa sublime del bambino (Chamfort che chiedeva la marmellata alla mamma disegna la natura del desiderio televisivo). E certo si darebbe eccessiva importanza alla televisione tentando (o fingendo) di togliergliela. Nel vortice enciclopedico di nomi teste corpi giochi generi che la TV propone e ripropone giace nascosto sminuzzato frammentato il desiderio di tui, la memoria del passato, la forma del futuro. Censurare il desiderio di sapere (o di credere di sapere) qualcosa in più sul più innocuo e leggero dei divei
televisivi vuol dire non capire i flussi e come ci si stia dentro tui; per non dire della tenerezza “stupida” e inevitabile con cui “sappiamo” che tanti di quei nomi scompariranno come piccoli fiori dalla vita breve non per questo non amati o non coltivati dal giardiniere. Non si finirà mai, per questo, di ridire l’importanza di Celentano (e quella del cacao meravigliao, ben aldilà del geniale Frassica). Nella precisione con cui i suoi sermoni confusi legavano parole come democrazia, pace, televisione, pubblicità, ecologia, c’è la percezione di un unico metodo soerraneamente al lavoro, di un discorso che non è l’“importanza della televisione”, ma la gigantesca operazione a cuore aperto che tra eleronica e telematica, buchi neri e miniaturizzazione, bioingegneria e cablaggio, satelliti e veori, fantasmi e zombi, corpo e simulazione, orma e sovrimpressione, quantitativo e qualitativo, sta mutando la nostra immagine mentre muta il nostro corpo (e mentre le “necessità” dell’aivistico “progresso” cominciano a somigliare al suo “contrario” ipotetico, la contemplazione). I tic, le incertezze, le sicurezze a volte assurde dello spiazzato “critico”, le banalità e le intuizioni, marcano allora l’impossibilità e la necessità di questo allenamento a parlare del mondo che davanti sfugge e insieme resta. Teso a cogliere le leggere “informazioni”, e a darle, il critico di TV sconta la totale parzialità e casualità del giudizio solo con l’intensità della passione o l’esaezza formale con cui riesce a rinviare ad altri ambiti, fuggendo dai trabocchei dello “specifico” (così il critico “umanista” spesso tonante contro le banalizzazioni, sarà però pronto ad apprezzare uno sperimentalismo “eleronico” un po’ banale, la “vera TV”… e viceversa). E il giudizio è sempre giustamente “raccolto” da chi lavora in TV, proprio per la sua rappresentativa casualità ed episodicità, anche quando paradigmaticamente lo emee il personaggio piccolo o grande che per una seimana fa lo “speatore critico” per un quotidiano. Che il “discorso sulla TV” risulti così globalmente autorevole e ascoltato, aldilà delle singole autorevolezze (rispecchiando un fenomeno televisivo
oh quanto deprecato), la dice lunga sulla forza della TV (capace di conferire potere automatico a un discorso su di sé) e sulla sua “debolezza”. Incapace di produrre un proprio discorso (essendolo forse, o essendo “tui i discorsi”) “parallelo”, la TV continua a desiderare parole, inventando o ammeendo un “fuori” in cui vengano proferite. Così, senza scandalo si spiegano gli spiazzamenti indignati (e le conversioni i ripensamenti gli abbandoni) di tui i protagonisti TV all’apparire terroristicamente critico di Celentano. La schizofrenia di un mezzo che ha già abituato tuo il mondo a fare almeno due cose contemporaneamente, si rifrange infine nel critico, che vede non programmi offerti a un pubblico ma una TV offerente pubblico ai venditori o agli sponsor. E scrive di sé, (cioè) dei programmi. [“il manifesto”, 14 febbraio 1988]
Schegge di morale
Durante uno dei giorni in pretura TV una bambina (una figlia, Martina, see anni), mentre assiste a una microcondanna bonaria pugliese di due giovani per furto d’arance, come sempre un po’ spaventata emee la sua sentenza: “La prigione è brua, nessuno dovrebbe andare in prigione; se è colpevole si dice… e basta.” La pubblicità della pena come sostituto della pena. Assomiglia ai giochi penali, alle gogne interplanetarie inventate da certa fantascienza. O al futuro “cinematografico” sognato dal folgorante Chlebnikov poeta durante un dibaito a Rostov nel 1921: “In Cina bruciano le bambole di carta che rappresentano il criminale, invece del criminale in persona. Il futuro del moderno ‘gioco delle ombre’ costringerà il colpevole, seduto nella prima fila di platea, ad assistere alle proprie sofferenze nell’universo delle ombre. Dalla poltrona al cinema il bandito seguirà la propria esecuzione… Vengano le persone a guardarsi geate in galera invece che esserci veramente. Assistano alla loro fucilazione in veste di ombre invece di essere fucilate. Sarà davvero così, lo garantisce la lunghezza delle code davanti al cinema, lunghe come quelle per le razioni alimentari.” Resta libero e intao il corpo, manipolata e torturata è l’ombra (l’anima?) intrappolata dalle visioni e dalle proiezioni (Doxa) in cui si puniscono e si sacrificano i corpi. (C’è qualcosa anche nella “cura Ludovico” di Arancia meccanica? Essa più legata (sic) al montaggio ejzenšteiniano pavloniano burroughsiano…) Certo la visione pubblica di un dibaito e di una decisione penale è già qualcosa di più (o di meno) di essi. Certo pretori, avvocati, giudici possono avvertire compiaciuti il brivido dell’aore, come gli imputati, e poi ritrarsene preoccupati. Indipendentemente e prima del montaggio, la
registrazione stessa modifica la cosa, la complica (e insieme la sveltisce, forse inducendo maggior chiarezza). Che Un giorno in pretura sia un programma registrato e montato e Complimenti per la trasmissione di Chiambrei una direa non toglie che siano parte di uno stesso processo. E cominciano i timori (critici o di casta) sulle telecamere nelle aule, oltre l’unanimità sullo straordinario valore antropologico e la qualità speacolare del risultato. Timori anche rispeabili, come quelli per Telefono giallo. Del resto i programmi di crime watching (crimini ricostruiti o addiriura “raccolti” in direa, appelli per l’identificazione di criminali), già in auge, domineranno la prossima stagione TV americana. Con grandi investimenti, che faranno spesso sospeare la più semplice “costruzione” del crimine ad hoc. Meno diffusi i dubbi sull’angelico cartoon Chiambrei (meno di un anno fa qualcuno trovò “caivo” il suo divano in piazza dove con stupendo artificio, in una piazza/set, passanti venivano invitati ad assumere ruoli beffardamente illustri – la moglie di Gheddafi… – per un’intervista, “se no mi licenziano”…). Pure, si potrebbero ipotizzare aste per i dirii televisivi sui quartieri delle cià, come sugli ospedali, sui tribunali, (oggi sugli stadi) (TV che “finanzia” vita, istituzioni, affei…?) In senso più soffice, meno allucinantemente di mercato, più radicalmente soile, i processi in TV preludono al giudizio telematico, alla pena comminata (tele)colleivamente (indolore? Aseico dolore via cavo? Reclusione come negazione dell’accesso alle reti? La pena paradossale della “non-pubblicità” della propria immagine, come si inibisce al teppista l’accesso agli stadi…), e già sono il salutare svecchiamento e il crollo anarchico di alcuni re nudi rituali. Oh, la televisione non è necessaria (si dirà, si dice). Non più del telefono. Non più della vita stessa. (Continua – per forza.) [“il manifesto”, 22 gennaio 1989]
Saper cucinare gli avanzi
I miei genitori andavano a teatro due volte al mese e poi ne discutevano con gli amici a lungo: era un evento, avevano assorbito due storie di esseri umani. Ma quando ci si abitua a vedere uno o due film al giorno si assorbono talmente tante più cose, tanti fai, tante storie di vita. Il tempo va più veloce. E forse la questione, a proposito di tui i matrimoni tra giovani che finiscono male, è: un uomo o una donna hanno abbastanza con un’altra singola persona? Forse oggi si può assorbire molto di più, compresi mogli e mariti. Fritz Lang Aggiungere ai film (telefilm sceneggiati soap) tua la real life television (dai processi ai crimini a…) o la TV tout-court. Un aore di Dynasty: “Nella TV via etere si è fortemente identificati col ruolo. Tue le seimane siete nelle case della gente. E dato che la gente non paga, la cosa sembra meno una prestazione d’aore che uno spicchio di vita.” Mentre si discute dei film vietati in TV, di prima o dopo le 22.30, di tagli e sliamenti, un seimanale non impopolare esce finalmente regalando una delle opere più genialmente efferate di uno dei grandi profeti del duemila, Sade. Nulla di ciò è semplice: né la questione dell’imitazione (se il vedere per esempio filmato un gesto induca a ripetere il gesto stesso) intorno a cui con gran fragore ci si schiera pro e contro. Né quella della “libertà”, così soilmente diffusamente affermata
e minata, nei primissimi tempi della Rivoluzione francese, dall’abolizione di ogni censura preventiva e dal rinvio soffice e minaccioso a una successiva censura verso ciò che risulterà in contrasto con i nuovi “valori”. Individualissimo Chiambrei (Piero: in occasione di una sua comparsa a Fantastico poche seimane fa, i giornali chiamavano chi emilio chi enrico chi giorgio… comunicati stampa difeosi…?) si infila eleronico sublime terribile nella “società” e le ricorda che è già in TV, tocca i circuiti dentro la gente. Nel libro stupendo e sinistro di Debord, Commentaires sur la société du spectacle (1988, se ne parlerà) è citata una frase: “Presto per strada si vedranno solo artisti, e si avranno grandissime difficoltà a trovare un uomo.” Speranza da biliardino, quando ci si sente come in un gran gioco far corpo con la natura (della)/macchina. Come se biologicamente davvero aumentasse la capacità di adaamento alle alte velocità, alte assunzioni, alti assorbimenti (di qualunque polluzione o di qualunque “spicchio di vita”), sovrimpressioni multiple. E orrore di questa mutazione genetica, anche oscillando verso l’orgoglio tremendo che permee di sopportare/essere il nulla. Non davvero analizzabili (per fortuna), ma analitici, i dati brutalmente autoreferenziali dell’ascolto TV costituiscono un formidabile archivio di misurazioni, oscillazioni temporali, sovrapposizioni micro-decisioni, traieorie di schegge di desiderio, più paurosamente fascinose ed esae – meno ovviamente inquinate – di qualunque sondaggio o dato finale eleorale. Altro bell’esempio discusso – il meccanismo/sondaggio/dato finale – di vortice temporale, di confusione pianificata, di ritorno al futuro, di mascheramento informatico, di previsione spinta fino a determinare l’accadere o fino all’impasse derivante dalla mancanza di fondi o di tempo o semplicemente di macchine. Nessuna intelligenza televisiva va oltre il tentativo di comunicare che incontro spesso vicino a un ascensore in
fondo a un corridoio nel labirinto Rai, due sordomute o altro (lo sguardo non riesce a soffermarsi per definire) che parlano, mute – con gesti e smorfie – di qualche quotidianità facile e arcana. [“il manifesto”, 29 gennaio 1989]
Venti anni di guerra con “La società dello spettacolo”
Che piacere, un libro che squarcia la struura sgargiante e rutilante dell’oggi. Una boccata di grigio davvero triste (grigio come la copertina), dentro l’aria comica smaccata del tempo; qui e ovunque lei e leori, aori finti e finti speatori, tui impegnati, arai, avvinti nella facilità illimitata e potente della koiné comica che ha tolto perfino la possibilità della frivolezza. Dedicato “alla memoria di Gérard Lebovici, assassinato a Parigi, il 5 marzo 1984, in un agguato rimasto misterioso”, è uscito a Parigi (appunto per le edizioni Gérard Lebovici), un anno fa d’agosto, Commentaires sur la société du spectacle di Guy Debord. C’è una parola assente (mai nominata, come per esperimento) in questo libro: televisione. Primo rifiuto di una facilità insopportabile, rioosità verso l’omaggio all’evidenza, folgorante scorciatoia. Non si nomina la TV come non si dice ogni volta parlando, “oggi, in questo mondo, sul pianeta Terra…”. Debord allude alla televisione come un sintomo obbligato e scontato, allo stesso modo in cui il mondo è il sintomo di un ipotetico “reale”. Nel testo capitale e quasi “conclusivo” del pensiero situazionista, La società dello speacolo, del 1967, la televisione era più volte nominata da Debord; oggi, dello speacolo, ciò che l’ossessiona non è la visibilità, né i meccanismi sempre uguali, ma la maschera nascosta e segreta. Meno di 100 pagine, 33 paragrafi, una prosa ampia e implacabile, frasi stupendamente scrie, quasi secentesche, raramente enfatiche, lontane dalla qualità dimostrativoaforistica dello scrio di vent’anni fa, volutamente (ironicamente) messe nel linguaggio del grande moralismo pessimista. Che non si trai di cinetv-video e di altre mirabilie
del futuro-prossimo è subito chiaro. La citazione iniziale è dall’Arte della guerra di Sun Tzu: “Per quanto critiche possano essere la situazione e le circostanze in cui vi trovate, non disperate di nulla; perché è nelle occasioni in cui tuo è da paventare, che nulla bisogna paventare; quando si è circondati da tui i pericoli, che non bisogna temerne alcuno; quando non si ha alcuna risorsa, che bisogna contare su tue; quando si è sorpresi, bisogna sorprendere a nostra volta il nemico.” Debord si ritiene in guerra con la società dello speacolo, non s’illude e non illude che la guerra sia finita, fa balenare il sospeo (e mai cita Gorbačëv, altro “inutile” da nominare) che lo speacolo sia anche la prosecuzione indefinita della guerra con altri mezzi (come dubitarne, anzi?). L’approdo sulla propria astronave Società dello speacolo in orbita dal 1967 ancora intaa risulta ancora più amaro che traumatico, il libro più saccheggiato e meno citato dal ’68 a oggi, ancora avanti rispeo alle analisi sociospeacolistiche più aggiornate e correnti; (da noi, dove si recupera qualunque ultima svenevolezza baudrillardiana, il libro di Debord ultimo non si vede ancora…), viene rivisitato con terrore lucido. “Nel 1967, ho mostrato in un libro […] ciò che lo speacolo moderno era già nella sua essenza: il regno autocratico dell’autonomia delle merci arrivato a uno statuto di sovranità irresponsabile, e l’insieme delle nuove tecniche di governo che accompagnano questo regno.” Ostico, in questa fase di oimismo sfrenato (non fosse per l’esistenza finalmente assillante dell’orologio ecologico), un occhio così duro. E la singolare bonomia, l’ammirazione (quando non l’adorazione) con cui si guarda oggi a qualunque accumulo di “ricchezza” ed esibizione di “successo”, compatibile col pensiero “debole” e “civile” e col ritorno continuo strumentale caricaturale della parola morale in gazzee e TV, non sono fae per leggere e reggere pagine retoricamente impietose. (ando l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi speacolari non son altro che questo…). Difficile non leggere questo testo con la stessa
posizione filosofica con cui si può leggere un Dick o un Pynchon. Un incubo verosimile. Il non-analizzabile (la terribile scala “uno a uno” dello speacolo) analizzato. Il normale, l’ovvio, l’evidente mutati di segno. Perfino il furore paranoico del discorso che si vuole totale e che è costreo esso stesso misteriosamente alla parzialità del segreto, del mascheramento, del cifrato (i bellissimi tristi “appelli” che aprono e chiudono il libro, le citazioni da dizionario sul significato di parole come fallace, ingannatore, seduore, simulatore e poi vanamente, invano, inutilmente…) per non consegnarsi intero ai “servizi segreti” del nemico totale. Come già nelle citazioni da dizionario, un dubbio permane prima e dopo la loa, perversa ipotesi che tuo il linguaggio sia mutato o almeno mutante, tuo rivoltato o in codice. “Si può mantenere il nome quando la cosa è stata segretamente cambiata (della birra, del manzo, un filosofo). E si può cambiare il nome quando la cosa è stata segretamente continuata; per esempio in Inghilterra l’impianto di traamento di scorie nucleari di Windscale è stato portato a far chiamare Sellafield il luogo in cui sorge, per meglio sviare i sospei dopo un disastroso incendio nel 1957, ma questo traamento toponomastico non ha impedito l’aumento della mortalità per cancro e leucemia nei dintorni. Il governo inglese, lo si apprende democraticamente trent’anni più tardi, aveva deciso di mantenere segreto un rapporto sulla catastrofe giudicato non a torto tale da scuotere la fiducia accordata dal pubblico al nucleare.” Perché Debord torna sul luogo del delio, cui non ha cambiato il nome? Intanto perché il processo “speacolare” in vent’anni è grandemente progredito, la prognosi teorica è tua avverata, con un cambiamento che rende la società dello speacolo più inevitabile, ampia e interstiziale insieme. Potere dello speacolo concentrato (grosso modo: le diature contro-rivoluzionarie, di tipo nazista o staliniano) e potere dello speacolo diffuso (modello americano della società dei consumi) si sono avvicinati e mescolati, abbracciati nello speacolare integrato. Fine e menzogna della società, lo
speacolo è quindi ormai totalmente multiforme, insieme concentrato e diffuso. Forma estrema del governo, della merce, “il governo dello speacolo, che oggi detiene tui i mezzi per falsificare l’insieme della produzione oltre che della percezione, è padrone assoluto dei ricordi come è padrone incontrollato dei progei che foggiano il più lontano avvenire”. (“Regna da solo ovunque; esegue le sue condanne sommarie.”) E “la società modernizzata fino allo stadio dello speacolare integrato si caraerizza per l’effeo combinato di cinque trai principali, che sono: il rinnovamento tecnologico incessante; la funzione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso senza replica; un presente perpetuo.” Rivendicato con orgoglio quasi dissennato, quello di Debord sembra l’urlo lanciato prima che le sue stesse parole gli si sfacciano tra le mani, mentre già “non è più possibile credere […] a nulla che non sia stato conosciuto e verificato da se stessi e direamente, e quando già si può giocare solo fuori scena, su ciò che non è nominato (e che è lasciato alla nostra immaginazione, alla nostra speranza/disperazione), che non rientra nel codice binario delle banche dati informanti e disinformanti”. Con gesto oscillante tra il distacco e la cupezza accorata, Debord araversa fai e figure. Il generale Noriega, perfeo principe del nostro tempo, che tuo vende e tuo simula (noi sappiamo in più che sia il suo luogotenente sia uno dei suoi più fieri oppositori hanno studiato al Dams di Bologna del professor Eco…!). La Mafia, trionfante in tuo il mondo col diffondersi del neooscurantismo speacolare. Il dominio del segreto, le sempre più vaste zone d’inaccessibilità (fisica; pensiamo anche solo, banalmente, ai diffusissimi club o villaggi esclusivi ipersognati…). L’inutile “obbligo di giocare” lasciato agli speatori, comandamento insensato mentre non si sa chi guarda gli statisti occidentali che abboccano in massa alla falsa “armata di pietra” cinese… (nel 1967, rovesciando Hegel, Debord notava che nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso).
Rada la collana di citazioni (spesso di secondo grado: un rammentare) da Marx, Feuerbach (la società che preferisce “l’immagine alla cosa, la cosa all’originale, la rappresentazione alla realtà”), Lukács, Clausewitz, a adornare il filo postmarxista più im-possibilmente conseguente che esista. Pesantissime e microscopiche come una concentrazione atomica le stille di una personale mitologia/necessità (la paura per la catastrofe ecologica, il mito dell’autenticità, una certezza forse eccessiva sulla datazione recente della cospirazione comploo società dello speacolo). Eppure, aria pesante di una sigarea non fumabile, volutamente “ignorante”, come di chi decida di non adorare la complessità, di rifiutare la cieca civile “fedeltà sempre mutante, il seguito di adesioni costantemente deludenti a prodoi fallaci, correndo dietro all’inflazione dei segni deprezzati della vita”. Terroristicamente semplice come Essi vivono di Carpenter. In aesa degli occhialini giusti, sappiamo che può essere così. E sappiamo di non sapere perché, nazione dopo nazione, c’è stato il passaggio alla TV a colori, tanti tanti anni fa. Se pensiamo che già vengono imputate lontane opposizioni a tale avvento… e che tuo ha da sembrare naturale o giusto dentro il mercato, quando è già così poco naturale e ovvio che i sassi di quest’isola stiano insieme e non si sbriciolino o non diventino vele o colori liquidi. [“il manifesto”, 6 luglio 1989]
Le schegge e il nervo elettronico
Vorrei cominciare da una breve citazione da una leera del dicembre del 1893, quindi di un paio di anni precedente alla prima proiezione cinematografica dei Lumière a Parigi. R.L. Stevenson (da Leere dai Mari del Sud), rispondendo a una missiva di Henry James a proposito di Catriona, in cui James si diceva entusiasta del romanzo limitandosi a lamentarne la carenza di visibilità, affermava di apprezzare questo rilievo, perché James aveva percepito dei propositi che egli aveva deliberatamente perseguito. Stevenson così riassumeva i suoi intenti: “Primo, guerra all’aggeivo; secondo, morte al nervo oico.” E poi aggiungeva: “Non mi sembra che viviamo in un’epoca in cui il nervo oico la fa da padrone: ma per quanto tempo la leeratura è andata avanti senza che ce ne fosse traccia!” Due anni dopo cominciavano le proiezioni cinematografiche e la posizione di Stevenson potrebbe sembrare quella di uno sconfio. Invece contemporaneamente iniziava la sua grande fortuna cinematografica, in particolare – ecco il destino doppio – con Lo strano caso del door Jekyll e del signor Hyde, che è ancora oggi, almeno per i film conosciuti, il soggeo portato al cinema più volte. Se ne contano infai dalle cinquanta alle seantacinque versioni, a seconda che si allarghi il campo fino alle avanguardie o meno. esto doppio destino mi piace abbastanza perché – saltando molte questioni – ho l’impressione che anche in televisione, forse soprauo in televisione, l’immagine captante che si vuole assolutamente far vedere e ricordare, magari registrare e rileggere, cominci a essere lievemente sgretolata (e ciò soprauo oggi, alla fine degli anni oanta dominati dalla televisione, grazie per esempio al diffondersi
degli spot, che non nascono come televisivi, ma che in televisione si affermano, si moltiplicano, diventano potenti, più araenti e funzionanti). È questa l’immagine che, secondo me, ha un po’ guidato e schiacciato gli anni oanta. In rapporto alla televisione ho spesso l’impressione che sia non dico banale, ma un po’ triste entusiasmarci per cose come i video interaivi o come taluni tipi di videogiochi che possono essere utilizzati mediante il televisore. Mi sembra che il televisore, forse da sempre – oggi sicuramente – funzioni comunque interaivamente; che non esista la situazione per cui si dice “visione passiva” o si parla di televisore programmato centralmente (perché ovviamente ci sono delle reti governate da poteri o politici o economici, imprese, aziende oppure governi. indi la televisione è comunque un mezzo di passaggio, per immagini in qualche modo imposte, sulle quali lo speatore non può intervenire se non spegnendo o togliendo l’audio). Oggi, lo sappiamo, si possono fare cose e auare percorsi nel video che nel 1961 erano impensabili. E non si traa solo della possibilità di cambiare canale. Le nostre possibilità di interazione sono molte anche se aualmente non possiamo fare altro che questa operazione. ando poi, oltre a cambiare canale, telefoniamo, o magari parliamo di quello che stiamo vedendo, e insensibilmente uno dei nostri piedi si muove come quello di uno dei personaggi di un talk show, ecco, stiamo videogiocando o comunque interagendo, forse talvolta in modo incosciente, ma non so se in modo meno libero o divertente, rispeo all’eventuale interaività mirata cui ci porta un programma, ad esempio, su videogioco, o comunque un programma che ci obbliga a rispondere, a entrare a un certo punto in contao, a intervenire sulle immagini. Anch’io sono molto interessato a usi di questo tipo. Ricordo ad esempio una trasmissione di Raidue dei primi di seembre, dedicata al premio automobilistico di Monza, che ha avuto un alto indice di ascolto. Contemporaneamente su Raitre abbiamo mandato in onda la ripresa dell’ingresso della
curva parabolica del circuito, dove c’è una staccata mozzafiato, a volte si verificano anche degli incidenti, e comunque è il luogo più speacolare quando arrivano più macchine insieme. Era un primo tentativo di delegare, mediante l’uso di più di un canale, una piccola parte di regia allo speatore (in questo caso all’appassionato), che poteva preferire di giocare sulla curva cercando i passaggi delle macchine o i momenti di guida di alcuni piloti invece di seguire la regia imposta, buona, curata, la regia italiana e poi mondiale, irradiata in tui i paesi del mondo da Raidue. Un’altra cosa molto semplice da cui volevo partire è una citazione traa da “Panorama” del 22/10/1989 che mi ha molto colpito. È una strana paura quella espressa da due bravissimi studiosi di semiotica, Omar Calabrese e Paolo Fabbri, in un articolo intitolato Eppur si muove. Ebbene, giunge adesso notizia dall’America che Robert Abel sta andando ben oltre. La sua ultima fatica è un documentario su Guernica, la celebre opera di Picasso, che il tecnico californiano è riuscito a trasferire su un videogioco interaivo. Che cosa vuol dire? Che il documentario può essere visto normalmente sul televisore, ma può anche essere manipolato dallo speatore. In questo modo: collegando TV e computer, il leore può arrestare l’immagine quando vuole, e chiedere per esempio l’approfondimento di un deaglio dell’opera; oppure, può lui stesso intervenirci sopra graficamente; o ancora può inserire nel video ulteriori immagini che abbia immagazzinato nel proprio cervello eleronico. Fino a produrre un proprio personale nuovo documentario. La procedura, certo, è molto costosa. Ma sul mercato c’è anche qualcosa meno caro. La Apple ha infai prodoo un programma per computer, dal nome Mona Lisa, col quale si inserisce la Gioconda di Leonardo nel calcolatore, e poi la si trasforma a piacimento (le si possono fare i baffi come Duchamp, le si scrivono sopra testi e didascalie). Gli autori sono dunque portati a concludere che “si instaura la sola Età del Gioco”. E questa è forse la giusta profezia finale. “Stiamo entrando in un’epoca in cui tue le aività intelleuali si vanno sia allargando a livello di massa, ma
soo una parvenza totalmente ludica. A noi piace l’idea di una società estetizzata, in cui tui possano irridere il capolavoro o modificare a piacimento i messaggi. E però paventiamo che quella stessa società annulli e assorba tue le forme di eversione che nel gesto avanguardistico, seppure un po’ elitario, risiedono. Una società ‘giusta’ non deve essere tranquilla. Ha bisogno di un po’ di veleno per poter continuare a pensare. E qui, invece, non si fa altro che produrre antidoti e tanta buona digestione.” Ecco, questa paura mi ha molto impressionato da parte di studiosi che negli ultimi quindici anni hanno spesso indicato, salutato, auspicato l’avvento e l’uso di esperimenti di questo tipo, cioè ad esempio la possibilità di farsi da soli un documentario su Picasso, ma che si spaventano non appena la cosa viene lea finalmente su “Time” e non su una rivista di video. Non appena la cosa diventa, per l’appunto, molto facile (per la IBM e la Apple stanno studiando programmi che costeranno quaro milioni, quindi diventeranno davvero accessibili per tante persone), quasi che cadano dei discrimini, delle linee in qualche modo separanti, non dico steccati, ma gerarchie tra le possibili forme di eversione (si parla proprio di forme) a seconda di chi le pratica. Non mi interessa qui analizzare l’articolo di Calabrese e Fabbri come testo, ma la paura che ne esce, appunto, ha essa stessa un aspeo che spaventa: quello di temere il dilagare del gioco, la diffusione del gioco sui testi; quello di considerare pericolosa la possibilità di produrre – giocando – testi e anche di riprodurre, riformare, deformare, vedere in mille, diecimila modi nuovi opere preesistenti (sono ormai 16.000 i colori di alcune tavolozze di computer, e oggi si parla sempre più di quantità e di disponibilità diffusa di opzioni di questo tipo). Ricevo un’impressione negativa da questa paura, espressa da studiosi che hanno lavorato sulla televisione e quindi hanno presente il fao che la televisione è sempre, in qualche modo, videoarte, almeno rispeo a tuo quello che riproduce e trasmee: l’esempio più noto è quello dei film, che
diventano immediatamente un’altra cosa nel passaggio araverso il video. Non insisterò a lungo su questo argomento, perché mi sembra stucchevole parlare qui della questione film/spot in TV, che è molto utilizzata politicamente e retoricamente. È però indubbio che il film in televisione, oltre a essere spesso magnifico, è comunque un’altra cosa, una cosa molto eleronica, molto vibrante, e che tuo – perfino le vecchie cose che ripassano in televisione – nel momento in cui ripassano, o in cui sembrano ripassare (perché molto spesso la televisione sembra replica e non lo è) hanno una qualità che credo si possa analizzare esteticamente in modo abbastanza preciso. Spesso è difficile contrapporre argomenti alla forza – che può anche essere politicamente immonda o tuo quello che si vuole, o invece piacere molto – di alcuni “faccioni”, compreso quello di Bruno Vespa, che a volte è illuminato in modo straordinario, rispeo ad alcuni giochini certosini o agli esperimenti di piura eleronica, giochini che poi sono, tra l’altro, spesso destinati a essere superati dalla successiva definizione dell’immagine o dal nuovo gioco tecnologico messo in opera. Un’altra tendenza a ridurre il ruolo del nervo oico, che forse oggi viene incarnata dalla televisione, è quella dei talk show. Bella forza, potremmo dire: la televisione, quasi ovunque nel mondo, salvo che in immagini estremamente curate – certi spot, certe sigle, certi interstizi; margini, momenti che si incuneano dentro produzioni che devono costare di meno – è faa proprio di brue immagini. La ragione è soprauo economica: se un minuto di un talk show dovesse costare un decimo di una sigla, i talk show costerebbero ognuno come un kolossal, e invece i talk-show costano pochissimo, hanno delle luci quasi sempre pessime, con alcune inquadrature obbligate ecc… C’è però un programma come Un giorno in pretura che ha quasi sempre delle luci molto brue, crude o semplicemente piae, e che allo stesso tempo, per quel che riguarda l’Italia e l’Europa, è uno dei programmi più innovativi degli ultimi
cinque o sei anni sul piano del corpo sociale. Non voglio qui parlare di televisione che incide sul reale, televisione che riproduce il reale: un dibaito reale con tui i problemi etici e tecnici che ne derivano. Tui questi problemi esistono, però si dà qui abbastanza per scontato che la televisione è anche il reale, che in Italia la TV è anche un’istituzione come quelle che sembrano passarci dentro, e che forse proprio con programmi come Un giorno in pretura mostra come non esista la formalità costituita, aseica, definita (chissà, forse buona, sembra pensare ogni tanto qualcuno) del sistema giudiziario che ci è cambiato soo gli occhi nelle ultime seimane; formalità che viene improvvisamente pervertita dall’introduzione delle telecamere, che produce una nuova forma di videoarte, probabilmente perché ci sono gli aori: gli aori-avvocati, a volte – pare – gli aori-imputati, qualcuno del pubblico, gli aori-pretori o pubblici ministeri ecc… ello che la TV mostra banalmente e realisticamente è la recitazione che a volte compiono gli aori-imputati, e che sempre compiono gli aori-avvocati (ma anche quando non c’era la televisione si poteva già sapere, fin dai film di Totò, che la giustizia era un’altra cosa, non dico seria, ma tanto diversa; una cosa in effei lontana perché veniva vista pochissimo in alcuni film, araverso i quali sembrava solo una delle invenzioni della sceneggiatura all’italiana. Sappiamo bene che oggi tui gli sceneggiatori del cinema italiano guardano Un giorno in pretura per farne sceneggiature). Perché queste preture, queste aule, anche quando ci sono i grandi processi, ci si mostrano spessissimo come luoghi di una commedia che viene minimamente modificata, a volte incentivata, a volte forse spenta dalla presenza della telecamera o dal fao che si sa che abbastanza facilmente questa cosa finirà anche in televisione. Credo che una situazione molto semplice come Un giorno in pretura debba essere comunque valutata senza dimenticare che il programma che noi guardiamo è stato registrato e
montato assolutamente non in direa; è stato rimontato, sicuramente manipolato con un filo dovuto agli autori e alle autrici del programma (che lavorano in un modo piuosto onesto, ma che comunque presentano un prodoo sicuramente modificato nella sua versione definitiva). Credo che questo aspeo potrebbe permeere molti discorsi su quello che è il corpo sociale televisivo, telematico o come altro lo si vuole chiamare. Un’assonanza molto facile che mi viene sempre sulla televisione è la sua vicinanza, come immagine, al Grande vetro di Duchamp che si rompe e che resta così, anche roo, sempre grande vetro e sempre Duchamp – cioè, quindi, anche non-Duchamp. Il televisore è un oggeo mutante, prodigiosamente mutante, anche prima dell’avvento del telecomando, che ovviamente enfatizza l’esplosione della mutazione TV che torna circolarmente su se stessa. Se pensiamo all’impressione che la TV ci faceva da piccoli, che per anni ha fao anche su molti artisti; se pensiamo all’immagine cangiante a seconda dei differenti punti di vista, allora valuteremo adeguatamente l’importanza di questo oggeo mutante che giace da decenni e decenni nelle case in tuo il mondo, di questo orizzonte, di questa finestra che si modifica di minuto in minuto (o anche di ora in ora). La TV è impressionante all’interno dell’insieme, della somma di immagini che si possono fruire, anche esteticamente, sia in casa che all’interno del paesaggio metropolitano o non, semplicemente del paesaggio. Vorrei aiutarmi con un video di Rybczyński che vedrete domani, Fourth Dimension. È un esempio straordinario di autore probabilmente legato al video solo per una questione di costi, per la possibilità di fare cose che col cinema diventano un pochino più difficili e sicuramente più costose. Il video nell’insieme risulta una specie di esplicitazione degli stati diversi della vita di un corpo entro un unico interno. La cosa è abbastanza vecchia e poi, dopo i primi dieci minuti, probabilmente anche noiosa: nel senso che soo c’è una musica eleronica abbastanza banale; c’è questo interno
graficamente bruo, con un caivo gusto che Rybczyński si porta dietro ed è presente in molti suoi video. Però, mentre la vedevo e rivedevo addormentandomi ogni volta almeno uno o due minuti, mi rendevo conto che era ingiusto giudicare la qualità di questa immagine video (e lo facevo con grande senso di colpa, pensando che fosse ingiusto giudicarla), e ancor più criticare la sua qualità di immagine ultra-kitsch, e comunque anche di livello molto basso come kitsch. esta componente era solo lo sfondo o comunque solo il quadro di riferimento grafico e figurativo di questo artista, cineasta, videasta o come lo vogliamo chiamare, che peraltro tentava – e secondo me ci riesce, a trai – di superare una certa irrappresentabilità, per eccesso di rappresentabilità, del mutare di un corpo nel tempo, che il cinema (e la televisione ancora più perfeamente) documenta sempre, naturalmente secondo una scansione che non è poi comprimibile, che non è allargabile – pena la vita, leeralmente. Ed invece in Rybczyński c’è questo tentativo di sintetizzare in pochi minuti una vita e i suoi coinvolgimenti, i suoi contorcimenti, i suoi intorcinamenti. D’altra parte, se pensate al brevissimo video – più riuscito, più facile anche – Imagine, basato sulla musica di Lennon (e che è stata la sigla di Immagina dell’anno scorso), si traa della stessa ossessione trasportata oltre il singolo movimento e la singola ripresa, con i passaggi da un luogo all’altro a vista, e con tui i casi della vita, recitati però: qui siamo oltre il gioco di Fourth Dimension, e siamo in un gioco molto più spinto. A me anche Fourth Dimension sembra una cosa oltre all’immagine – per questo scusavo alcune sue bruure – come mi sembra oltre l’immagine un programma come Un giorno in pretura. Direte che tua quella fascia di programmi, per esempio i talk show, sono da sempre al di qua dell’immagine. Non sono certo immagini che si propongono a una visione e a una valutazione estetica. Però è ancora questa una delle linee del video e della televisione (e ne abbiamo un esempio molto forte in questi
giorni anche nella TV italiana con un genere che spesso in passato era al di qua dell’immagine: parlo dei Promessi sposi), nonostante siamo in un momento in cui la televisione più prestigiosa, più potente e più ricca punta per l’appunto alla ricchezza, al prestigio e alla potenza degli spot, e quindi a volersi far leggere, a orientarsi chiaramente verso la futura alta definizione e verso una somiglianza qualitativa di grana dell’immagine – anche riguardo al cinema – piuosto che a una forza drammatica che ha avuto e che ha il grande cinema, ma che hanno avuto anche mediocri sceneggiati. Pensiamo alla cura enorme di quasi tue le cose che si vedono nei recenti Promessi sposi televisivi, e nello stesso tempo alla non-cura assoluta di quasi tuo quello che è supposto non vedersi: dalla recitazione, ad alcuni movimenti delle masse. Tuo il non vedersi di quello che veniva considerato da Hegel come superamento della figura nel senso dell’estetica postromantica, la dissoluzione dell’estetico vista da Hegel nel raggio di luce sul cappello, sulla pannocchia di grano al tramonto, che è stata in quasi tui i seori di immagine l’estetica degli anni oanta. È quindi importante che accanto a questa tendenza di immagine, anche in televisione ci sia invece un’immagine che ti fa dimenticare “quel che si vede”. In questo momento non ho un’immagine di quei fai concreti o comunque di quelle storie molto umane che si vedono in Un giorno in pretura: non ricordo mai il colore di alcune aule (crema? verdolino?) e veramente non ricordo la forma dell’inquadratura; ricordo la forma di altre cose, altre questioni e, anche esteticamente, ricordo la forma di un dramma diverso. Tornando alla paura di Calabrese e Fabbri da una parte, e al destino doppio di Stevenson e del suo Jekyll-Hyde dall’altra – oltre che alla morte desiderata, almeno come linea personale, del nervo oico – mi sembra che l’orizzonte sia quello piuosto di una sparizione di differenze che si può delineare in due coppie: interno/esterno e corporeità o fisicità/immaterialità o non-corporeità. Se pensiamo che il
video diventa contemporaneamente sempre più grande – mega schermo – e nello stesso tempo sempre più piccolo, sempre più walk-man (anche il video handy-cam tra un po’ lo avremo davvero handy-cam, nel senso che starà tuo nel palmo di una mano), sappiamo già che l’orizzonte non è “cam” ma è “body”, che l’orizzonte sarà “dentro”, così come già ci sono le cose all’interno degli occhiali dei piloti: tra l’altro dico “sarà” e magari tuo questo succederà tra dieci o quindici anni, o alcune cose non verranno commercializzate, ma fondamentalmente il discorso funziona – e questo secondo me è il punto essenziale – già come se le cose stessero in questi termini. Mi ricordo i primi fax che ci venivano mostrati esaamente come performance artistiche: il primo che ho visto in funzione a Roma, proprio all’interno di una performance sarà stato il 1979 o il 1980 –, non mi ha fao una grande impressione, perché sapevo che si traava di un dispositivo già realizzato. Ma tue le prospeive di sviluppo futuro dei media ci pongono di fronte a cose talmente astrae e incorporee, talmente tendenti al telepatico o alla teletrasmissione – che poi è la prima frontiera del corpo (il passaggio soo una campana, come si è visto tante volte nei film di fantascienza: dissolversi per poi riapparire in un altro pianeta) – che man mano si dissolve la distanza fra presente e futuro. Perché questo futuro è sempre più un presente rinviato. Per quel che riguarda l’immagine, ciò avviene non tanto nel rapporto tra la copia e l’originale, tra l’immagine e la riproduzione, tra la registrazione e quello che eventualmente stava all’origine, all’inizio della storia. Il processo di verifica tra noi – se vogliamo parlare ancora di soggei o di diffusione di soggei – e quelli che possono essere fin d’ora i nostri robot, esaamente come l’immagine sintetica, l’alta definizione, la ricerca della TV di essere identica al cinema. Tue queste differenze si annullano rispeo a modi già in ao e ci fanno pensare alla riproduzione finale di situazioni semplicissime; per cui invece ogni volta, anche solo di fronte a una ecografia
ancora rudimentalissima, si ha quasi il senso di sollievo di un miracolo sia artistico, sia estetico, sia di immagine. [in Mass media eleronici: estetica e risvolti sociali. Ai del Convegno, Università degli Studi del Molise, Campobasso, 2425 novembre 1989, a cura di Riccardo Lauada, Guido Gili, Lucia Natale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992]
Ritorno al passato. Regia del consenso e paleoinformazione
Ho visto che c’è un percorso, se non proprio dei passaggi tra un incontro e l’altro. Dopo un inizio storico, quasi storicistico e alcune questioni non molto dell’oggi si arriva a ipotizzare un futuro che in qualche modo si libererebbe, mediante interaività e scenari virtuali, dell’indubbia pesantezza che ha ancora oggi il sistema televisivo. esto percorso mi può interessare, non solo perché lavoro da una decina d’anni su queste cose, ma anche perché il titolo più preciso del tipo di lavoro globale che mi capita di fare in televisione è secondo me proprio ritorno al futuro più che ritorno al passato. Non solo perché lo trovo un titolo geniale di un film che può piacere o meno ma anche perché è sicuramente geniale e affascinante per la precisione teorica con cui racconta il futuro come passato e viceversa. Soprauo il lavoro sull’idea di reperto che facciamo è un lavoro che in qualche modo rifiuta fin dall’inizio il discorso storico di periodizzazione, di sistemazione, diciamo di costruzione, di cronologie. Intanto perché è talmente arretrato il lavoro sui reperti televisivi, era talmente arretrato, in parte lo è ancora, che il puro scavo era il momento intanto soggeivamente più emozionante, il tirare fuori la cosa, farla vedere, in molti casi rivedere. Noi eravamo, siamo, tue persone che hanno cominciato a vedere la televisione intorno ai dieci anni, parlo del mio gruppo, raramente prima, siamo intorno al 1963/64, a seconda di chi aveva avuto prima la televisione in casa e quindi abbiamo lavorato prima di tuo sulla memoria. Poi col desiderio, con l’assenza di memoria, ovvero sulle cose sapute, lee, studiate e quindi con la voglia di tirarle fuori. Infine su elenchi i cui semplici nomi ci costringevano a sintesi e collegamenti che ci facevano venire altre voglie.
Parto da una storia di vissuto del lavoro, perché è in qualche modo l’unica cosa raccontabile. Il resto secondo me è molto avveniristico, molto fuori dagli oggei vari delle immagini, dei servizi, della televisione che abbiamo ritirato fuori. Per vissuto intendo anche il fao che questi programmi di Schegge che avendo in mente da tanti anni proposi a Guglielmi non appena ebbi la possibilità di occuparmi del palinsesto, partivano come possibilità di uso a bassissimo costo di materiale, riuso affidato soprauo a passione e conoscenza personale, quindi era un’offerta di lavoro molto comoda in realtà per la rete. In più serviva a riempire, in maniera che io credevo più agile, i buchi, gli interstizi. Mi ricordo che lavoravo addiriura sui venti secondi, che avrei voluto eliminare i neri che d’altra parte invece mi piacevano molto. Ho sempre vissuto in modo scisso questo lavoro. Da una parte cercavo di non progeare fino in fondo il palinsesto, di lasciare dei buchi, dall’altra ero anche la persona che doveva occuparsi di tapparli. Però tappare questi buchi era divertente perché era molto difficile. In realtà lo è tuora, nonostante abbiamo pronti centinaia di pezzi, visto l’auale ritardo della dotazione tecnica che non viene certo rinnovata ogni sei mesi né in Rai né in nessun’altra azienda. È uno dei paradossi dell’evoluzione tecnica che non si lascia progeare e quindi ancora capita che magari per see giorni di seguito vada lo stesso intervallo, la stessa scheggia di passaggio tra un telegiornale regionale e un cartone. È un motivo di scacco molto forte anche se le cose sarebbero organizzate per evitarlo. L’idea era appunto quella di scheggiare continuamente l’antico deposito. Schegge è un filone che ho proposto perché mi piaceva in molti sensi, nel senso della scheggia che si infila nella pelle, che dà fastidio, oppure della scheggia che addiriura arriva in pioggia dopo un’esplosione. Piano piano, come sempre capita, i titoli acquistano. Le parole invece di dare senso lo acquistano loro e Schegge secondo me, soprauo adesso, è una sorta di ricaduta, di detriti di un immaginario che è in gran parte esploso, che comunque è difficile da recuperare. Intendiamoci, non perché è televisivo ma perché visivo, fao
con immagini in movimento. Insomma il primo e il più importante dei videoartisti, anzi direi videoteorico, Nam June Paik fin dall’inizio si rese conto, per primo peraltro, che il suo lavoro sarebbe stato un lavoro invisibile. Non invisibile perché troppo difficile, troppo alto, troppo raro ma al contrario, invisibile perché essendo fao di nastri, di durate, lui stesso presto si sarebbe trovato nell’impossibilità di rivedere le sue cose. Se si traasse di vedere tuo analiticamente per montare Blob, non lo monteremmo mai, oppure lo monteremmo soltanto se per montare un Blob potessero bastare tre ore di programma. Insomma tre ore e lavori solo su quelle e monti tranquillamente un quarto d’ora se sprofondi in questo materiale. indi questo rapporto sulla durata, sul quale insisto, quello che comincia col palinsesto e con le indicazioni di durata, improvvisamente finisce, ed è nato così anche fuori orario. Finiva Samarcanda la prima volta che l’abbiamo spostato in prima serata e non finiva mai a un’ora giusta, c’erano venti minuti o mezz’ora o un quarto d’ora. Un altro programma votato al margine, votato all’essere lungo o corto, all’essere annunciato o meno. Vengo subito al tema dell’informazione, anche se siamo un po’ sulla meta-informazione. Come molti si sono accorti l’informazione su questo genere di programmi, da Schegge a Vent’anni prima a fuori orario, non parliamo di Blob che si autoinforma e autoinforma fortunatamente, è stata all’inizio quasi nulla non solo per mia personale pigrizia rispeo a un’informazione ulteriore verso l’esterno e per pigrizia legata al convincimento che la televisione comunica in maniera talmente potente che semmai bisogna non dico smorzare volutamente, dichiaratamente, ma insomma bisogna in qualche modo a un certo punto disinteressarsi. Io credo che non solo in televisione ma in televisione particolarmente, non bisogna cercare di dominare, di enfatizzare. Il caso opposto quale può essere? Minoli, Mixer che ogni anno ha per la prima volta le immagini montate da Hitchcock, ritorna su Hitler morto e il suo cadavere, insomma questa serie di inediti continuamente riediti, questa sorta di programmi zombi. Deo questo il nostro modo di fare televisione è molto
vicino a questo, a questa idea dello zombi anche se amiamo molto questi zombi. Non è una questione di loa, al contrario, se ci fosse loa diciamo che saremmo dalla parte degli zombi perché lavorando sul vecchio materiale di repertorio ci siamo resi conto, specie con l’esperienza di Vent’anni prima. esti TG sono andati per più di un anno alla stessa ora dei TG normali su Raiuno e Raidue, subito dopo il TG3, ed erano abbastanza spiazzanti, si traava di un programma che non aveva ambizioni se non quella di riempire uno spazio a basso costo, durante l’ora più schiacciata, quella dove comunque andavano in onda i programmi di maggiore ascolto medio della televisione in Italia, parlo di ascolto medio, i telegiornali. E lì addiriura si piazzava un altro telegiornale, per di più in bianco e nero, per di più con i ritmi lentissimi della televisione. C’erano interi TG che a suo tempo forse c’erano parsi molto incalzanti che invece constavano di uno dei mitici presentatori con dietro una cartina che magari parlava per venti minuti cambiando solo cartina. L’uso dell’immagine in realtà era molto parsimonioso. esto TG parallelo, questo tempo immagazzinato vent’anni prima esaamente, poco montato, con pochissimi tagli, era veramente una specie di incubo. Ricordo che quando siamo partiti ci basavamo sugli stessi giorni, c’era il primo cuore artificiale, era il 1968, e lì avevamo nel ’68 tua la storia del trapianto operato da Barnard. esta è la cosa che ricordo di più. Poi c’era il terremoto, mi sembra del Belice, con un messaggio di grande patetismo e intensità fredda di Moro e cosa ci fu nel ’68, ci fu, mi sembra, un altro terremoto, un’altra calamità auale degli stessi giorni e specie sui fai italiani c’era questo incredibile ritorno, delle stesse cose negli stessi giorni. Il tipico programma sul 1º Maggio a Roma, ma anche gli stessi aori della scena politica, giornalistica, di speacolo. Vent’anni non avevano portato nulla. Ma al di là di questi aspei sociopolitici, lentamente si era formato una specie di nastro trasportatore sul tipo di Ritorno al futuro. esta era proprio la direzione nel senso che c’era l’idea di montare poco, di scegliere il meglio. Certo, nell’insieme questo è il lavoro di
Schegge. Le schegge di Vent’anni prima. Scegliere il meglio, il più intenso. Ovviamente la connessione con l’oggi è data proprio da noi, dai ricercatori che aivano i loro receori. Ovviamente possiamo fissare un campione più o meno rappresentativo e quindi funzioniamo in qualche modo automaticamente in questo senso, non ci preoccupiamo ulteriormente di questo. Aualmente siamo usciti dalla quotidianità del riferimento, non ci preoccupiamo più del calendario e quindi galleggiamo in modo un po’ più libero. Il punto è che abbiamo completamente distruo, credo, l’idea stessa dell’uso del repertorio. Il repertorio in Rai, che era la grande azienda italiana di immagini, molto più di Cinecià che non era un’azienda ma un luogo, molto più delle grandi case di produzione, di distribuzione, aveva e ha tuora un archivio incredibile di una ricchezza paurosa e lo usava poco. C’era un insieme di centocinquanta pezzi tipici che venivano usati in maniera ossessiva, sempre gli stessi, proprio campionati. Allora, abbiamo cercato di tirare fuori. Secondo me è un lavoro di miniera, che però rifiuta in partenza l’idea di montare, di intervenire pesantemente su quei tempi. indi, perché parlo di ritorno al futuro? Perché questi materiali, questi tempi visti, vissuti, immagazzinati venti, dieci o quindici anni prima, venivano riproposti tali e quali, sostanzialmente, naturalmente con alcuni piccoli interventi legati sempre al palinsesto, alle durate ecc…, ma sempre tali e quali. Un intervento di quasi non regia, di negazione di intervento. esto perché? Perché tuora penso, forse non sono conscio ma penso, che il momento importante è quello in cui si prende una cosa, la si ricorda o si rivede e si fa vedere. Nel momento in cui questa cosa diventa semplicemente televisione, per me in quel momento si annulla la storia, è come se ricominciasse la storia. ella cosa viene trasportata, aerra come un’astronave che poi spesso è un nastro trasportatore Rai. Riaerra dieci anni, venti anni dopo. È chiaro che il punto estremo di questo è Blob che è il rovescio del nostro tempo ma il punto estremo proprio perché è il rovescio. Diciamo che Blob archeologizza il reale, è archeologia istantanea, archeologia e archiviazione
istantanea anche, ribalda, inaffidabile, partigiana, manipolante in modo molto evidente. esto è Blob, ma nell’insieme. E Blob si costruisce come insieme. In questi giorni siamo esaamente al quinto anno. Nell’insieme invece forma un’enciclopedia più che un’antologia, che trovo spaventosamente esaa, spaventosamente precisa, in un certo senso. Invece, la campionatura con pezzi sostanzialmente a larga durata dal passato televisivo è meno esaa, è più lunare, più astrale. Riproporre improvvisamente un TG intero oppure un servizio intero di quegli strani programmi culturali che andavano in onda allora magari con dispendio di cure e di mezzi, con nomi altissimi, veder riaerrare oggi un’intervista a Borges, che allora era stata montata ovviamente, ma che ora vediamo intera, in quell’intero montato di allora e non del minuto, dal montatore di Blob all’una di noe, rappresenta un’operazione in cui noi siamo in controllo. esto è il punto debole di questa operazione, il punto che si offre a ogni critica. Siamo noi, io e alcun’altre persone con biografie, enciclopedie personali in parte cementate da un lavoro sul cinema. C’è una specie di arbitrarietà molto evidente, spero evidente altrimenti può sembrare più pericolosa e antipatica. Vengo un aimo al tema di oggi, alla cosiddea paleoinformazione. Si traa di un lavoro che secondo noi è immediatamente informazione di oggi. Proprio quando cominciavamo questo lavoro, la televisione si spostava anche in Italia e comunque su scala mondiale, sulla non stop perlomeno virtuale, sulla non interruzione di programmi, quindi sulla circolarità assoluta. Perciò questa arbitrarietà dello scegliere rispeo a un palinsesto limitato ma pur sempre accumulato in decine d’anni, questo scegliere una volta la seimana prima due ore adesso forse un’ora di materiale è sicuramente arbitrario. Però questa arbitrarietà è in qualche modo compensata dall’intrecciarsi con molti ai arbitrari di questo gruppo di lavoro. Io esco continuamente da questo tema assegnato perché non mi vedo, nessuno di noi si vede, nessuno del nostro gruppo. Mi sento anche molto onesto nel dirlo. Mi resta difficile dire della televisione di allora anche se certamente posso dire di conoscerla e ancor
meno è facile dire del rapporto della televisione di allora con la società di allora, o della televisione di oggi con quella televisione, oppure addiriura affrontare una storia dei quadri politici e della nomenclatura televisiva o dei possibili nessi politici, intendo fra successo, mantenimento di un regime e forza di un progeo televisivo. È sicuro, si è deo più volte che il progeo che ha dominato la televisione italiana per esempio negli anni sessanta, quella di Bernabei, come progeo era sicuramente superiore ai progei che sono in campo oggi. Ovviamente, quelli che sono in campo oggi prima di tuo sono non progei, più che progei sono avventure individuali, Raitre in realtà è un’avventura inventata, vissuta soprauo da Angelo Guglielmi con l’aiuto di alcuni di noi, con una navigazione a vista che in realtà stava molto aenta a vedere i dati di ascolto che sono da una parte un’infamia e dall’altra sono scriura, testo, sono una scriura delle più affascinanti. Non voglio dire delle più esae ma ripeto di quelle che raccontano più cose, esaamente come un romanzo. Bisogna leggere anche quelli! Per esempio credo che Forza Italia, Berlusconi abbiano leo molto bene questi romanzei o romanzoni che sono i dati, i dati di ascolto prima e altri dati, sondaggi, cose che ci fanno orrore ma che sono la frontiera televisiva a proposito del ritorno al futuro. È lì che siamo adesso, in questa frontiera che si sposta. Il sondaggio è il dato successivo, è il sondaggio previsionale, è davvero una sorta di finzione televisiva del presente di domani. Non c’è dubbio che sia una sorta di sublimazione della televisione, quel modo per esempio di costruire una forza che forse non si può più definire politica. Allora, tornando a un lavoro di gruppo, quello che ci interessa, quello che mi interessa, è di proporre tui insieme tanti momenti diversi di tempo televisivo. indi quello del bianco e nero di cui sostanzialmente parliamo oggi per intenderci, quel tempo, ma anche il tempo di Blob. In mezzo ci meo intanto tante operazioni più o meno interessanti, più o meno riuscite che sono quelle su cui personalmente ho più dubbi, tue le varie schegge diciamo di servizio, di montaggio che assemblano momenti simili, che liofilizzano programmi
di due ore, che riassumono, che fanno ritrai di personaggi, che meono insieme alcune gag. Servono, fanno parte della nostra produzione ma sono evidentemente diverse da quest’altro discorso. Credo che messe insieme a tuo il resto possono anche sembrare dei punti di passaggio verso Blob, non lo sono, in realtà sono delle ricadute quasi degradate dall’incrocio Schegge-Blob, Vent’anni prima-Blob, però è chiaro che indicano un’aitudine di leura, una sorta di antologizzazione personale, di connessione secondo codici magari grossolanamente evidenti magari anche primari. Però in una cosa come questa ci sono in mezzo le Eveline. Un’altra cosa che voglio dire è che le Eveline in realtà sono uguali. Adesso ogni tanto se ne parla perché c’è un programma dentro una cosa del TG3 chiamata Omnibus che dato che si fa in maniera più fredda un po’ più elaborata, più distesa nel tempo, ha il tempo di comunicare ai giornali un suo piccolo programma, un suo piccolo palinsesto, oggi si vedrà questo e questo, una cosa che si muove fino al giorno prima. Lavoriamo sul repertorio del circuito televisivo internazionale fino al giorno prima e in certi casi fino a qualche ora prima, in quel caso c’è un’operazione che è di nuovo l’opposto di Blob. Anzi l’idea di base è di prenderle intere o quasi intere, di far riemergere queste immagini che in realtà abbiamo già visto. C’è proprio la filosofia del mai visto. Sono quasi tue cose che o possiamo aver visto o che ha visto quello speatore magari unico, che può dire che l’ho già vista, perché l’ho vista ieri nel TG Montecarlo alle see di maina, ma lo speatore virtuale che potrebbe aver visto quella cosa, l’ha vista nove volte su dieci montata, con l’intervento del giornalista, con dei rumori oppure con un titolo sopra, non l’ha vista in realtà, l’ha per un aimo colpito o non lo ha per niente colpito. Eveline invece propone, e non solo nella noe, ampi pezzi di repertorio, in questo caso quindi molto, molto ravvicinato. Perché ho deo che sembra opposto a Blob per esempio questa operazione? Perché di nuovo recupera, rispeo a un giorno televisivo, rispeo a una seimana, un flusso reale, un flusso temporale televisivo che sostanzialmente è ininterroo. Rispeo a questo flusso ha
poco senso individuare l’interezza, la cellula significante, quella che in qualche modo deve restare intera per potersi capire o per poterci dire qualcosa e quella che invece può essere montata, interroa, commentata. Dipende proprio da quale unità di tempo, da quale unità di misura, da quale misura oggeiva di leura vogliamo partire. Può essere l’ora, la giornata, la seimana, un anno, una vita intera, un momento, un’occhiata. In base a cosa decidiamo che quello è l’intero e quello no? Nelle programmazioni televisive ci sono ormai schegge che si rivedono continuamente. Si vedono due, tre volte l’anno anche nelle principali reti alcuni film, una volta di noe, una volta in prima serata, una volta la maina, una volta la domenica pomeriggio e ormai li vediamo come dire anche noi più velocemente, traendone momenti, rivedendo una scena. Non parlo neanche di uso del videoregistratore che è già un’altra cosa e che in qualche modo è forzatamente lontano dal nostro lavoro. Ci arrivano continuamente richieste di cassee, richieste di registrazioni di quello che abbiamo appena mandato in onda ma questo diciamo è un effeo di normale interazione con un soggeo televisivo forte che sembra avere il potere di scegliere e meere mentre invece è un soggeo che guarda. Per i primi anni della mia vita, dopo aver vinto il concorso per Raitre, è stato ciò di cui mi sono occupato precisamente in televisione, il cinema, la programmazione del cinema, la costruzione, la dimensione dei cicli messi insieme, la messa in onda di film e di altre immagini. Però più volte ho insistito su queste immagini, a volte pessime immagini in bianco e nero, di pessima televisione. Ho riproposto proprio loro che erano televisione antica per di più immessa in una televisione di oggi molto meno sacrale dove l’appuntamento nel flusso, nella ripetizione, nelle repliche è molto meno importante, molto meno rituale, salvo forse in parte la prima serata e alcune sacche legate ai bambini in quella mezz’ora, e a quel pubblico che si ostina a definire di casalinghe nell’ora di pranzo. Ecco, dico che al di fuori di questa sacralità in televisione si è perso l’appuntamento, il rito, allora, mentre noi
rimeiamo in onda vecchia televisione che spesso, appunto, è fuori ritmo, è addiriura fuori da questo flusso. Sono fantasmi, ma hanno una presenza di tipo filmico, sono cose che hanno, vorrebbero avere un inizio e una fine molto forte perché sono come dei buchi, dei buchi in bianco e nero e non i buchini, non la tappezzeria bianco e nero che c’è in ogni programma televisivo oggi. Non si traa di un archivio ormai allargato grazie anche al nostro lavoro ma comunque sempre usato con il quadreo, no, non è un quadreo. Entriamo in una casa che è una casa degli spiriti perché è tua com’era vent’anni prima. E quindi questa cosa la vediamo con un effeo di risacralizzazione che ripeto chiamerei cinematografica con quel tipo di spessore; spessore mi fa ridere perché l’immagine più spessa che ricordo, la più intensa della mia vita televisiva, più ancora di Vermicino, è lo sbarco sulla Luna. Ecco lo sbarco sulla Luna nel ’69 in realtà è una delle cose che ricordo con maggiore intensità e spessore. este immagini non avevano spessore, mi ricordo benissimo che si vedeva… qualcuno lo può verificare se si rivedono oggi, che non erano immagini prese su pellicola. Venivano mandate, ma già negli Stati Uniti arrivavano così e poi per di più via ponte, quindi erano immagini trasparenti, c’erano questi uomini che ballonzolavano in tuta e queste cose erano trasparenti, erano larve, erano immagini assolutamente irreali. Deo questo, quell’esperienza fu molto reale molto spessa e molto intensa. Faccio due esempi. Uno è la cosa che abbiamo fao sulla strage alla stazione di Bologna. In un caso fummo anche accusati, in un altro caso mi telefonò Nanni Morei. Non era proposto come speacolo, però un giorno in cui non c’era Blob avevamo mandato in onda mezz’ora di riprese. Poi l’abbiamo fao anche su una scala più lunga di due ore e mezzo, con riprese crude, utilizzando praticamente Eveline Rai. Per Eveline intendiamo appunto queste riprese ancora non montate, fae subito dopo la strage di Bologna con Bruno Vespa, con quello che parla della pentola a
pressione. Ma non è questo che conta, conta che questo tempo era lunghissimo, contano quelle cose tremende che si vedevano, questi pezzi di carne umana, questi pezzi tangibili di dolore, terrore, stupore ecc… e soprauo questa impossibilità della macchina televisiva, impossibilità ampiamente permessa, ampiamente autoindulgente verso se stessa. Cerchiamo di non allarmare, cerchiamo di non dare troppi deagli, cerchiamo di girare intorno a questo buco. Noi abbiamo ridato, specie nella versione più lunga, tuo questo girare intorno alla cieca, intorno a questo buco. Non c’era una introduzione che denunciava, del resto erano polemiche già avvenute, non c’era un montaggio rapido con le musiche, non c’era il montaggio moderno, clipparolo di Mixer. Allora me lo chiesi, finalmente, ma anche in una discussione con Morei me lo chiesi, perché è rimasto così scandalizzato? È rimasto scandalizzato proprio perché l’abbiamo proposto in qualche modo come un film ed è quello che avrei voluto fare tra l’altro proprio in questi giorni sia con la Somalia, sia con Sarajevo. Proporre immagini forti. Un film può essere una scheggia, e invece un minuto può essere lungo. Siamo abituati a vedere quel tipo di immagini e così stiamo lavorando per cercare di costruire sostanzialmente dei film con sequenze più distese. esto momento di televisione lunga su un tema così civile, doloroso, caldo era parso una specie di sfruamento speacolare di per sé per il fao che usciva da un uso da TG, dove naturalmente se viene faa vedere una cosa del genere magari è perché viene intervistato uno storico, un critico. Ecco una cosa del genere viene presentata con molta più enfasi speacolistica. Lì devo dire, purtroppo o per fortuna, non c’era enfasi, però diciamo che il solo proporlo in quel modo sembrava ad alcuni enfatizzante, troppo duro, troppo speacolistico. Una cosa simile, siamo sempre con lo stesso esempio, è avvenuta con Vermicino. Vermicino è stato un po’ diverso perché abbiamo fao in realtà un’ora di montaggio di una cosa che invece durava molte ore. L’avevo proposto in occasione di un anniversario a Guglielmi ma era molto hard come cosa. Si traava di fare praticamente almeno tua la noe oppure quindici ore di
quella che era stata questa follia o questa verità televisiva, Vermicino. S’è fao un montaggio di un’ora nell’estate del ’91 proprio la sera, era fuori orario, subito dopo Samarcanda, per cui ci fu il problema del montaggio di Blob, Cossiga, comici ecc… e tuo fu coperto da quel clamore. In realtà ci furono moltissime telefonate, per il fao che erano andati in onda alcuni dei momenti più strazianti, per esempio quelli in cui colloquiavano, urlando, il bambino e la madre, Alfredino e anche la madre, e poi erano andati in onda i momenti più terribili, intendiamoci senza… senza colpe particolari di singoli. C’era il telecronista più cialtrone e quello più serio. L’insieme era una specie di fiera di paese, è una cosa uscita di bocca a uno dei cronisti, per errore ovviamente, un lapsus terribile. Abbiamo fao questa cosa proprio perché all’inizio degli anni oanta, in quella estate, la tragedia di Vermicino, il che secondo me è una cosa decisiva in scala mondiale, fu decisiva, come esempio, non tanto come effei. Vermicino è qualcosa che ha segnato il cambiare radicale della televisione in Italia, più ancora della riforma televisiva. Lì c’è stata ovviamente una buona fede iniziale, l’idea di fare un piccolo scoop, però di servizio, uno scoop che mostrava un salvataggio, quindi che induceva solidarietà. Gli effei erano quasi tui positivi o comunque pensabili come positivi, se non diciamo quello dello scoop che è rimasto un terribile, gigantesco scoop, passando da una rete all’altra come ricorderete, ininterroo. Io ero per caso a Roma. Non abitavo a Roma e l’ho vissuta molto precisamente quella cosa. Ero già in Rai, ero stato a Roma a portare una cosa che avevo girato, allora facevo il regista, e avevo incontrato i tecnici che stavano vedendo quella cosa. C’era una direa. La sera ero tornato per il montaggio di questo mio pezzo e c’era ancora questa cosa, poi ero stato a cena con una persona che amavo, c’era la televisione accesa e c’era questo sentimento doppio, un sentimento, un aeggiamento doppio di grandissima partecipazione popolare. Partecipazione popolare che non va ahimè sopravvalutata. ella era la partecipazione popolare che c’è improvvisamente quando in un paese dove la
pallanuoto aira trentamila no, duecentomila persone in tua Italia. La finale olimpica con la Spagna, aira un movimento popolare di adesione, di occhi tesi che porta questo pubblico a magari cinque, sei, see milioni. Non parliamo poi del calcio, la finale, chi non l’ha mai vista? indi c’era da una parte un’aenzione speacolistica e un fortissimo senso di solidarietà, di solidarietà ovviamente a distanza, che non è né lo speacolismo immediato né questo che chiamo solidarietà televisiva, dall’altra c’era invece un aeggiamento già di distanza mediologica. C’era questa cosa che si svolgeva parallelamente in quell’ora, ed era una cosa che uno seguiva con una certa solidarietà e insieme con una certa propensione a guardarla già non come un film ma come uno speacolo, a parte che il riferimento al film era fortissimo in quel caso ma sicuramente come uno speacolo. Voglio dire che le stesse persone ridevano e piangevano. Dicevano, guarda che imbecille, così come si parla di un concorrente a un quiz e dall’altra erano angosciate, erano sempre più contemporaneamente angosciate. Io credo che in quel momento abbiamo visto il puro e semplice funzionamento nudo della televisione. In televisione va via la Carrà, magari ci mei Magalli dopo due giorni l’ascolto funziona sempre. Oppure Ippoliti porta dei normali analfabeti eppure funzionano e sembrano veri. Insomma tuo sembra un’altra cosa. Il TG è un po’ cabaret e invece Chiambrei e più serio del TG. Ce le siamo dee e ridee queste cose. Tui questi opposti sono dentro non quello speacolo, non quel momento televisivo, ma dentro il modo in cui era possibile vivere dentro quella cosa. Eravamo tui dentro, chi viveva allora in Italia, eravamo tui dentro, compresi e tui fuori ma era compreso anche chi era radicalmente fuori. Potevamo essere lontanissimi, magari a Milano, ma eravamo tui, con una parte di noi, eravamo anche dentro quel buco, intorno a quel buco. Bastava anche vedere un quarto d’ora, e un’ora, a quel punto eri contaminato. ella cosa lì andava avanti e se tu incontravi uno che fosse a tavola, che fosse in giro, che andasse a vedere un film, dopo venti secondi c’era la domanda, ma cosa sta succedendo?
Di un fao piccolissimo, di un fao come ne capitano molti, ne sono capitati molti prima, ne capiteranno altri nella stessa estate senza televisione, divampò ed era molto giusto che ci fosse il dibaito. Televisione sì televisione no, mantenere aperta la direa o staccare, chiudere il rubineo delle immagini. È un dibaito giusto secondo me, è sempre giusto tenerlo aperto. Nel momento in cui è aperto, è aperto anche il discorso sul vedere, rivedere, sul far vedere. E vengo alle varie accuse di atrocità su Blob oppure su quanto si fa vedere di insopportabile nelle Eveline. Ricordo particolarmente quella del rifugio antiaereo di Bagdad, era tremenda, perché si sa la morte era morte, un corpo morto è un corpo morto. C’è stato un intervento recente breve bellissimo di Ceronei su questo, sulla massa di morti, di corpi morti, di ombre morte che viene fuori dalla televisione. Posto che dobbiamo sempre ricordarci ed è bene quando ce lo ricordano delle immagini di morti veri, che la televisione, il cinema, sono cent’anni che andiamo avanti così, si avvia ogni momento a essere un deposito di corpi morti, di persone che poi muoiono, restano lì, ma muoiono. E questo non è la televisione che manda in onda le immagini dell’ammazzato, è la televisione che manda in onda lo speaker che parla e che poi verrà ammazzato dal tempo, dalla sua stessa vita e che poi rivedremo in un innocente, si spera, Vent’anni prima. Posso garantire che nessuno di noi aveva un’ansia e un intento necrofilo nel fare Vent’anni prima, però questo è un problema di tua la televisione, questo alone vivo-morto che resta perché gli altri vengono seppelliti, ma al massimo vengono seppelliti negli archivi. Dicevo che di lì si può partire per parlare di consenso, di paleo ed eventualmente di neo TV, perché in una paleotelevisione, diciamo in una televisione anni cinquanta/sessanta/seanta, quella cosa lì non doveva accadere. Ci sarebbe stato un controllo prima ancora di fare la ripresa, oppure man mano che si evolvevano i tempi sulla possibilità di collegarsi. C’era un controllo fortissimo, c’è tuora in Rai, intendiamoci, rispeo a quello che volevamo fare come Raitre e in particolare con questi programmi. Noi volevamo poter intervenire. Chiunque abbia lavorato in una
piccola televisione privata sa che è la cosa più agile di questo mondo e più semplice, mandare delle scrie in direa. Lo fanno alcuni singoli programmi, ma non è possibile ancora oggi, lo stava diventando in queste seimane e mesi mandare in onda da una regia di rete, quindi fuori dal controllo centrale della messa in onda Rai, una scria. esto è la causa, dei tanti disservizi che potete aver lamentato, del fao che parla solo un cartello anonimo che non spiega, che non dice, e le scrie, lo vedete spesso, sono scrie preparate anche quelle, non sono scrie al momento sennò sarebbero più precise, più puntuali. Era molto difficile, ma sta diventando facilissimo accedere alla regia di messa in onda globale, la regia che da quel momento può intervenire in qualunque aimo. È quello che abbiamo chiesto, e che Raitre si apprestava in qualche modo a fare. Avere una specie di colonna continua dalla quale poter mandare anche su qualunque programma di Raitre altri interventi in scria o, anche volendo, in audio. Ecco, questo non era possibile, ma prima era possibile ancora molto meno. Dicevo, Vermicino non ci sarebbe stato. Il controllo politico non è quello di cui si può parlare oggi. Ce ne ha liberato il lavoro quotidiano o l’impegno politico tecnico di molte persone e magari di legislatori, partiti, dirigenti, autori di un programma come… che ne so… il primo programma di Costanzo, Bontà loro. Parlando di Bontà loro resto nel tema perché era vecchio, bianco e nero, ecc… Adesso Costanzo fa questa soap un po’ terribile e un po’ orrenda che è il Maurizio Costanzo Show. Bontà loro invece era un programma incredibilmente innovativo perché andava in onda in direa o come in direa, era già più avanzato di adesso, senza tagli, col rischio che si avvertiva che qualcuno potesse dire delle cose sconvenienti. Era un programma a ruota libera affidato alla bonomia o responsabilità di un giornalista. È una cosa banalissima oggi, allora era la prima volta… Che significa “come in direa”? Come in direa nel senso che magari a volte veniva registrato credo un’ora prima senza interventi. Anche Milano, Italia per quanto riguarda le prime due serie, per problemi tecnici, problemi di orario, delle troupe, veniva registrato
un’ora e mezza prima e poi andava in onda praticamente appena finiva, però era a tui gli effei una direa. esto della direa poi è uno dei falsi più tipici, l’illusione della direa. Molto diverso è il caso di TV7, mi sembra che comunichi molte cose. Per esempio un clima paternalistico aperto in apparenza, che poi era la punta emergente di un controllo del mezzo molto raffinato, molto duro e preciso e talmente forte come controllo, da potersi permeere già in quegli anni, e poi ancora di più nel ’68 e dopo, di rappresentare, pur avendo dietro un potere assoluto, un regime molto colloso e fortemente costituito, molte più istanze di quelle che si rappresentavano in altri luoghi, fori, istituzioni del Paese. Ci lavorava ogni genere di intelleualità, naturalmente con forti penalizzazioni verso l’area di sinistra soprauo sui poteri interni, sulle responsabilità, sulle possibilità di fare e di raggiungere livelli di nomenklatura, ma in realtà, tendendo a rappresentare con una certa ampiezza, ovviamente non per improvvisa apertura o per mecenatismo, ma per precisissimo calcolo politico. Rappresentare tue le istanze sapendo che la televisione non era la giustizia che si può amministrare in sedi separate, che non era un potere come quello del ministero degli Interni, ma un potere che immediatamente si delegava in parte una visibilità. esta visibilità poneva subito dei problemi, nel senso che sarebbe stato troppo visibile il segregare un’intera parte del paese. La prima volta che arriva Togliai in televisione, il primo comizio televisivo di Togliai è tuo sul fao che è la prima volta che arrivano i comunisti in TV, ed era in effei stato vissuto a lungo come scandalo. In quel senso chi gestiva la televisione la conosceva bene, aveva la possibilità di gestirla in modo autocratico, c’era un filo direo col potere politico e allora non era poi difficile auare eventualmente un progeo. Tra l’altro le stesse persone, lo stesso Bernabei, quando lo sentite parlare oggi in televisione, qualcuno di voi l’avrà visto o sentito, oggi esprime le ipotesi più reazionarie per la televisione di controllo ultrapaternalistico, pensa a una televisione che fa impallidire per arretratezza quella dei primi anni sessanta. Credo però che nella coscienza automatica di
dover tenere in qualche modo aperto il video ci fosse una comprensione immediata, molto precisa del fao che la televisione non sia in realtà quantità. ando dico automatica intendo naturalmente una coscienza non cosciente. Visto che in qualche modo questo ciclo di incontri si basa poi sull’idea di informazione che passa dappertuo, fuorché nei programmi definiti di informazione, voglio dire che non è importante quello che dice un leader. Lo sappiamo, è importante quello che un leader fa, è importante come si tocca, è importante… l’impressione di essere controllato o libero, aperto o chiuso, timido in modo simpatico o timido in modo arrogante ecc… ecc… La politica si fa e il controllo si fa, ben oltre le ipotesi di chi controlla, questo è sicuro. Un esempio, scusate il modo un po’ apodiico di dirlo, è quello rappresentato da Berlusconi, Bossi ecc… Io ho l’impressione che la televisione di Berlusconi, da quando esiste, sia stata il veicolo più potente di un’ideologia che possiamo definire leghista nordista. Naturalmente Berlusconi era legato a filo doppio a poteri istituzionali di partito molto precisi e anche quando la Lega si è formata non avrebbe mai potuto in quei momenti collegarsi direamente a essa. Non solo, ma anche quando la Lega si è affermata e il resto del potere si è dissolto, Berlusconi non poteva coincidere con la Lega, che era l’istanza politica più rozza, diciamo, l’assunzione più rozza dei valori vissuti dalle televisioni di Berlusconi. Oggi le due forze nuove, perlomeno tecnicamente, sono una forza che apparentemente non ha avuto per anni una presenza televisiva. La Lega viene fuori in qualche modo da un nulla di rappresentanza politica visibile anche in televisione. Ho appena deo che per me è il contrario; quello che è diventato la Lega era l’istanza più bassa, diciamo Retequaro e Canale 5, di ciò che si vedeva in televisione sulle reti Fininvest. L’altro momento politico, invece, è il venire fuori, lo scendere in campo, come metafora geniale, di chi non aveva avuto nessun bisogno di scendere in campo perché nel campo politico, la scena era occupata da diversi soggei, uno dei quali o due o tre dei quali, l’area governativa, conveniva bellamente agli affari di questa. Vorrei parlare nei termini
meno politici possibili. esto si collega con uno dei vostri incontri, mi pare quello sugli scenari della videocrazia, che non mi trova completamente d’accordo sul fao che ora si sia rovesciato il paradigma del Grande Fratello, del vedere e non vedere. Trovo invece che oggi assistiamo a un indebolimento del potere berlusconiano proprio perché ha dovuto scendere in campo, ha dovuto rendersi visibile. Prima era in qualche modo un signoroo, una sorta di mago della vendita, compresa la vendita della televisione stessa. Adesso è uno che starà sulla scena e non sono d’accordo che questa visibilità consacri il potere; questa visibilità lo sconsacra in buona parte. Ora è un potere che dovrà fare i conti con un potere automatico, che è quello della televisione, con un potere di comunicazione, informazione, disinformazione, manipolazione che è comunque più forte di chiunque lo gestisca, lo manipoli, ci passi dentro. esto in parte poteva essere il pregiudizio di alcuni di noi che, lavorando sulle immagini a partire dal cinema sono arrivati in televisione e a Blob, adesso è un convincimento fortissimo provato continuamente. Per questo, ogni tanto mi viene da ridere pensando alla videocrazia. È vero che Forza Italia ha goduto del suo passare e del suo consistere in parte di televisione, ma sicuramente questo la rende estremamente fragile, volubile, in qualche modo. Se fosse questione di movimenti politici, si traerrebbe di un movimento forzatamente leggero. ando si dice che Forza Italia non ha storia, non ha i collegamenti con la storia, è vero, e, al limite, paradossalmente direi che è un pregio. È come vedere una forza totalitaria lì dietro. Ma non è lì dietro, la forza totalitaria è lì. È la forza totalitaria di questo mezzo trasparente che è la televisione, che è ancora pesante come sistema, ma è questo il punto, con modifiche non pesanti ma leggere, può diventare – ho leo di “my television my media” – la cosa più telefonica. Può diventare esaamente come una rete telefonica, quindi un sistema in gran parte di tipo interpersonale, di comunicazione leggera. esta è la forza del telefono. ante volte viene agitata nei discorsi politici la questione dei telefoni, ma viene agitata solo in termini di affari… a chi viene affidato l’affare dei
telefoni, ma qualcuno negli ultimi vent’anni in Italia ha sollevato la questione politica, morale ed etica del telefono? No. Tuo quello di cui si parla oggi quando si parla di televisione è destinato a deperire, se bene, nel giro di pochi anni. ando parliamo della telefonata che abbiamo fao con l’amata o col figlio, siamo noi ma non altri a sindacare delle nostre telefonate. I programmi sono quelli, i programmi saranno i programmi. Come c’è la radio, ci saranno dei momenti centrali, di servizio e di vendita di servizi, soware, cavo, cose meno private e più rare ma sostanzialmente questo diventerà la televisione. Intendiamoci, io non credo che questo escluda la videocrazia, il problema del controllo, insomma. Anzi lo diffonde. Il potere totalitario può parcellizzarsi, diventare neanche colpibile, può diventare un potere dal quale non ci si può difendere. Trovo molto grave, non lo trovo leggero, che dei telefoni non si parli mai politicamente. Dopo le maledizioni verso i mass media di scuola francofortese o un po’ più lirico reazionaria, adesso il telefono esiste e basta, è come una montagna. Il problema è che costa troppo, oppure crepita, oppure ci sono le disfunzioni, mi staccano il telefono, ma non è un problema così grave. Perché non ci chiediamo mai chi ha in mano i telefoni? Io non lo so, per esempio, con quale facilità potrebbero essere esclusi i telefoni in caso di golpe. Chi è che lo decide, quanto sono autonomi i telefoni, come ci si può ricollegare? Nessuno di noi lo sa, l’informazione è zero, eppure è la cosa che utilizziamo di più quotidianamente. Io credo che il rischio forte televisivo sia questo, che arriviamo in maniera fatalmente tecnologica a una liberazione dai poteri forti della televisione. I poteri forti che limitano e agiscono con e sulla televisione. Credo che ci possiamo arrivare e anche se non ci arrivassimo diciamo che comunque già adesso viviamo in questo orizzonte che è una delle grandi cose della televisione, che ci fa vivere anche in un posto dove non siamo. Il bello della televisione è che ci aiuta a sapere per sempre che non viviamo una realtà, ma al massimo viviamo prossimi alla realtà. La realtà è sempre un libro, uno sguardo, un odore. È sempre sensi. Ce l’hanno deo i filosofi da
sempre. Allora, ripeto, il rischio fortissimo è che ci accontentiamo di individuare chi possiede la televisione, di individuare come viene fao il discorso televisivo, chi è che lo fa in maniera tradizionale, chi lo scompagina, chi inventa, chi diverte. Ci accontentiamo. esta è la vita, la nostra vita. E così è anche con le persone. Non è che scegliamo dopo aver fao un’analisi approfondita o durata tre anni, oppure leggendoci tuo quello che si può sapere sull’uomo prima di scegliere. Purtroppo non è così, non c’è mai tempo nella vita. Adesso stiamo vivendo questa crisi definitiva della televisione che ci dice che non c’è tempo. Poi invece avremo tempo, avremo questi bei mezzi leggeri, che già ci vengono dati come uscita dal mondo, come liberazione e che invece saranno un’ulteriore eternalizzazione. Solo che a quel punto il discorso del tempo sarà superato perché ci saranno milioni di tempi paralleli. [in Prossimamente su questi schermi: la realtà, “I aderni della Mediateca delle Marche. 1”, Ancona, Humana, 1995]
On line no line troppo presto troppo tardi (déjà vu)
ando tuo quello che immaginiamo, e desideriamo, o almeno amiamo immaginare, ci sarà, sparirà la forma è, il presente della copula. Sarà sempre troppo presto troppo tardi, o infine avvertiremo che fu sempre così. Perché saremo stati noi, in un gigantesco eppur soilissimo esperimento, a (ri)produrre il modo stesso in cui noi avvertiamo e siamo il mondo le cose il linguaggio il nostro stesso corpo. Dico “avvertiamo”, e dovrei dire “NON avvertiamo”, se già ci accorgiamo del corpo solo nei limiti del dolore e del godimento, e del “soggeo” (che crediamo di essere) solo nella sua mancanza o nel pericolo. Ogni ipotesi di sviluppo estremo del nesso telematico cibernetico biomutante virtualsintetico speacolare va verso l’aleph indistinto. Meglio: si può anche togliere l’aggeivo “estremo” e si può certo ipotizzare (come anzi ha verificato tuo questo secolo, come anzi stiamo “vivendo”) che continuerà a dominare (per inadeguatezze politico organizzative, per disfunzioni amministrative, per auspicabili (?) resistenze all’immaterializzazione finale del capitale, e del capitale da cui proveniamo, l’incubo della storia filtrato in tradizione) un’immagine a chiazze, con milioni di morti per fame e guerre, con coabitazione e contaminazione di conflii e concordie puramente mentali con lo scontro più fisico e mortale, e il semplice prestotardi tecnologico (il più patetico da verificare: le macchine, fino a oggi, anche le più avanzate, non si succedono in generazioni ordinate e pianificate, si impigliano nei desideri negli affei nella penuria dei soggei e nella voracità di un capitale sempre più immaginario, macchina astraa anch’esso ma ormai incapace di tener dietro alla mutevolezza e immediatezza del desiderio e del
possesso da esso stesso indoa e allusa. I televisori ultrapiai e quasi invisibili, gli automi a comando verbale, sono stati pensati descrii e resi tecnologicamente possibili da decenni, e in certi casi annunciati come imminenti sul grande mercato dell’apparato tecnologico produivo-pubblicitario. Eppure, tra necessità di smaltire tecnologia arretrata, e caos del mercato, sembrano ancora frontiere o imminenze, mentre già ne invecchia l’immagine ancor prima che l’oggeo e la funzione si diffondano. Comando verbale, comando mentale. Evocare queste ipotesi (connesse anche alla mutazione cyborg del soggeo umano) ci può far balenare quanto tecnologico riproduivo sia il movimento verso il futuro. Back to the future: la fantascienza lo ha più volte indicato con precisione, quasi come un’indicazione politica (e lo è stata sicuramente nella politica delle immagini, da 2001 Odissea nello spazio a Alien a Blade Runner e Terminator). Il tessuto che chiamiamo vita è già fao e strafao di comandi verbali e mentali, di contai alla velocità della luce oculare. E la rete iperdiffusa e fornitrice di tue le funzioni di servizio e di lavoro e ludiche più che evocarci un passato sembra evocata da un lontanissimo passato, da una forma che ci pervade e che siamo, da una rete telepatica depositata in noi o formata da noi, avvertibile solo nei punti di crisi, nelle passioni estreme (amore/odio), nel dolore e nei mancamenti vuoti estasi, quando questa comunicazione in ao (se è un linguaggio, un linguaggio che non ci appartiene) non può fare a meno di manifestarsi. Mirabile e patetico insieme, l’affannarsi intorno alla gran macchina mondiale, geando un’altra rete sulla rete. Che dovrà essere invisibile per mimare davvero quell’altra, soggiacente. Fa un po’ ridere (per quanto possa appassionare) parlare di “cinema del futuro” o di “musica in rete”, di “sculture virtuali” eccetera. Piccoli residui di un’illusione artistica che ci muore davanti da due secoli. Il cinema del futuro siamo noi oggi, se un po’ ci sentiamo (dopo cent’anni di luce lumière), nel film e del film. Abbandonati a
affioramenti (i sogni, i déjà vu) di memoria non nostra. E già abituati da film e altre scriure cyberpunk a considerare la nostra stessa memoria una funzione appaltabile esportabile parcellizzabile e vendibile (e certo future oligarchie affiderebbero volentieri a altri, per godere di immaterialità estreme, il vivere fisico tridimensionale violento turistico: altri uomini come “macchine per vivere” al tuo posto…). Bambini che giocano con le reti o con apparecchiei eleronici, popolazioni rock connesse da vibrazioni elementari. Le possenti proiezioni invisibili che investono e araversano qualunque evento. Per avvertire (con terrore o con amore) la musica e il cinema che noi stessi siamo, si corre (mentalmente! Anche mentre si contempla il proprio mal di denti) il rischio di perderci. Perdere le distinzioni di forma tra cui viviamo. La sparizione della forma, e magari dentro una “bellezza” che non supponiamo, pare essere il destino. Non si traa di grande/piccolo, di tensione tra gigantismo e miniaturizzazione. Il gigante c’è già, dorme disteso, esteso quanto l’estensione stessa. “Noi” formicola in esso. Non è quello che gli si debba inventare un’anima. Sul bordo del setaccio, ai margini del set in aesa di reset, ci tocca lamentarci di non poter controllare la rete e la macchina, di non poter verificare, di non poter sapere se quell’immagine fu o è o sarà vera. Proprio (improprio) quello che non sappiamo delle reti pluriaggomitolate e intricate che ci formano e sformano. alcuno/qualcosa “sa” per noi. Sa come sogniamo e vegliamo o vogliamo. Rappresentazione registrazione incontrollabile perché ininterroa, fino a identificarsi con la macchina del tempo. Punti sonori o visivi o taili (il gene dell’illusione?). Oltre la totalità dello speacolo il compito (morale?) discreto o titanico di percepire l’indistinto con assoluta chiarezza e distinzione. Non più il fastidio di essere, né la banalità dell’apparire. Sparire. Sul bordo in cui ci situa il centro che ci credemmo, danzare o saltare (Sconneetemi! oh, amore!) [“Online Magazine”, febbraio 1996]
“Ma il vero idolo è la comunicazione”
Mi stupisce che il cardinal Biffi aderisca così precisamente all’immagine dei media (e della TV) come idolo, quella che lui stesso denuncia. È vero, probabilmente, che un asino filmato anche mille volte non diventa un cavallo. Il problema è che forse diventa (più) se stesso. E comunque mi pare più acuta, più “morale”, la posizione di Wigenstein che ricordava quanto un’immagine di un fiore fosse più vicina a quella di un albero o di un animale che al fiore stesso “prima” dell’immagine. Invece mi pare che Biffi si fermi alla comoda “cosa negativa” che è l’immagine/idolo (o l’idolo dell’immagine, o l’immagine dell’idolo); senza cogliere quell’ombra pur pallidissima di “utopia” che è per esempio nel persistere del fenomeno cinema/TV. A me pare che NON ci sia una “comunicazione” buona da auare con buoni mezzi, o un mondo buono o caivo da mostrare con una sorta di organo astrao e neutro (il medium) che diventerebbe “caivo” e idolatrato solo se sovraccaricato di senso e di peso. Continuiamo a soovalutare e trascurare (anche pericolosamente) questo peso, finché pensiamo i media solo come media. L’idolo, ahimè, è la COMUNICAZIONE stessa, e anche la “buona comunicazione” (di cosa⁇?) che anche da parte cristiana sembra sostituire la comunione, la comunità anche impossibile, l’amore… [“La Stampa”, 16 gennaio 1997]
“Comunicazione”, gigantesca parodia della nostra vita
Petulantemente febbrile, teneramente inane, la “comunicazione” maschera e cementa il nulla e il tuo (da perdere, da salvare) da comunicare in uno stesso totale idolo di cartapesta. Gigantesca parodia del “noi” che non riusciamo a diventare o a riconoscerci, imbellea con un brusio di aività la “caività” potentemente passiva che ci anima e istruisce. Un’aura illuminista finge nel viluppo di trovare o costituire il filo d’oro della chiarezza, la trama di dominio della società “aperta”. Mentre è la coltre dei messaggi satellitari a farsi aura, a fasciarci la testa come turbante, a farci girotondo intorno: la nostra “voce” rimissata ci circonda, ci orbita intorno in un theatrum mundi tolemaico. Da che il cinema esiste (e la televisione poi, che non ha neanche bisogno di esistere, insiste), lo speacolo di questa scissione, di questo cubismo della vita quotidiana, è manifesto; lembi di tempo desquamato svolazzano, pellicine ovunque, il déjà vu è irremovibile ed eterno. Non sentirlo, e aderire al puro ritmo dell’economia (al massimo, dell’economia del desiderio), sembra essere lo scopo quasi “tecnico” della comunicazione e – ancor più – della parola “comunicazione”, che permea l’aids del riprodursi. Fibrilla e brilla (shining...) questa tensione d’esserci/non esserci/riesserci senza mai riaversi, rete di muscoli e tendini aivissima per mantenersi surplace. Fu solo un fioo geniale di sangue misterioso la scoperta, in mezzo al secolo, che il mezzo è il messaggio. Rimarginata la ferita nel discorso globale, continua il lavorio nostro di schiavi bendati. Inebriati di nuove reti, crediamo di doverci (peggio, ci vogliamo?) incessantemente informare, e il mito non riconosciuto (la comunicazione!) ci impedisce la percezione del nostro esser
già informati, del nostro esser “mezzi” di un’altra comunicazione ovunque frusciante. Non mi spingo qui a proporre (come dovrei?) in alternativa una sorta di disperata contemplazione. Ma certo la comunicazione come parola e conceo si riassume in un generico senso/desiderio di pubblicità/speacolo, mancando il proprio possibile, e necessario scandalo radicale, quello della comunione e della comunità e della loro impossibilità. Nell’illusione di dire, di farsi capire, di poter dover comunicare qualcosa, di “far vedere” (show: quando anche un solo fotogramma ci potrebbe far sentire l’impossibilità di conoscerlo), si occultano sia la disperazione di trovarci prigionieri (ciechi, con le orbite vuote e gli occhi in orbita) del nostro fotogramma e programma biologico sia la speranza di avvertire e godere nello stesso istante l’amor che move il sole e l’altre stelle. [“Corriere della Sera”, 17 gennaio 1999]
Grande Fratello? L’avesse fatto Antonioni…
Il Grande Fratello, come tui gli innocenti, sgomenta e spaventa. Purtroppo… non c’è da illudersi: farà pochi danni, nonostante le benintenzionate e virtuose e a volte intelligenti paure e grida d’allarme. Arriva troppo tardi, pallido cascame di un’idea cinetelevisiva forte e ossessiva, insieme antica e fantascientifica (una costellazione tra utopia e “uomo medio assoluto” – senza qualità – che al cinema va da Lumière a Vertov a Zavaini alla traieoria Zelig-Forrest Gump-Truman Show-EdTV…) che già trapassa se mai nelle telecamere in rete (webcam). E non sono la scriura la forma l’elaborazione a mancare, in questo e in altri programmi TV che si annunciano ovunque. Non ci troviamo di fronte all’azzeramento della fantasia e dell’artisticità e della narrazione e della regia e di quant’altro molti paventano e lamentano. Magari, magari questi modesti nipotini del Grande Fratello (dichiaratamente recintati e antitotalitari, antropologicamente correi, mirati al loro target pubblicitario-speacolare) avessero la forza panica di far(ci) avvertire e risentire l’intensità tecnicoautomatica, selvaggia e oltreumana, che già il cinema al suo primo apparire incarnava. Sono invece troppo “scrii”, con troppe regole del gioco, ovviamente troppo aenti alla resa speacolare, ancora proteivi timidi reticenti (diciamo pure per fortuna, per eco residua di tabù recenti) anche riguardo alla tensione forte e inevitabile verso una “scriura feroce” di tipo circense sentimentale gladiatorio. Le tristi e trite preoccupazioni per la “qualità” televisiva (di solito piccole stanche esibizioni di gusto altoborghese intollerante e autoritario, non tanto insofferente dell’industria culturale di cui fa parte a pieno titolo quanto dello squadernamento impietoso che delle sue ascendenze
piccoloborghesi offre a ogni istante la TV) suonano ciniche e insieme impotenti e oppressive, puntando a imbrigliare anche solo il potenziale indizio di sfrenatezze autonomie selvaggerie televisive ormai estinte. Il riconoscimento del caraere automaticofluviale generalista dell’immensa oscura enciclopedia mobile e mutante che è la TV (non parliamo poi della più evidente rete di reti che è Internet…), sostanzialmente indifferente agli sforzi autoriali di qualità, dovrebbe al contrario stimolare e impegnare (a maggior ragione una TV che paradossalmente si definisca “di servizio pubblico” all’interno del mai richiesto e mai ratificato/votato servizio pubblico e pubblicitario che risulta in sé qualunque programmazione televisiva) a un investimento proprio sulla superfluità ed eccentricità di una qualità insieme impossibile e auratica. Si traa dell’orizzonte che hanno indicato, soccombendo e dissolvendovisi, tue le avanguardie degli ultimi due secoli. Nel momento in cui il senso “tecnico” della produzione industrialartistica eccede il ruolo e il senso dei singoli autori e delle singole discipline, “comunicando” con sempre più istantanea e immane potenza, non è il micronarcisismo autoriale (peraltro sempre più) diffuso, rimedio psicologico al nonsenso dell’azione, a trovare e definire una forma nell’informe terribile o affascinante, ma appunto solo il fissare negli occhi tale enorme informità, decriarne il genoma, affrontare il rischio dickiano/kubrickiano di riconoscersi o meglio trovarsi a(u)tomi di uno speacolo. Sembra troppo, parlando di grandi e piccoli (e piccolissimi: pensiamo alle microcamere “spia” intestinali da ingerire senza fili, sperimentate da medici inglesi; insieme corporee e vicine all’invisibilità assoluta del cinema) fratelli? Ma proprio l’imbarazzante TV pubblico-generalista, relio o ostaggio politico, trascurata nella “qualità” a favore del banale e autosoddisfao consumismo targheizzato dei canali a pagamento, lontana dal neoconsolatorio “coesistere” interneistico, può riservare sorprese. Il modo in cui la sua dispersione si accentra di colpo in grandi poli di vuotezza comunitario-speacolare, o la docilità con cui promee
narrazioni e visioni interminabili alla misteriosa passività dei pubblici, lanciano una sfida (al cinema, agli scriori, ai piori, agli autori…) che poche decine di registi artisti aori autori persone riescono a raccogliere nel suo urlo muto. Forse neanche il coraggio folle di affidare un Grande Fratello all’intervento di un godard (o, da noi, di un antonioni un bertolucci dei ciprì e maresco degli straub e huillet di un martone…) muterebbe qualcosa nel dipanarsi meccanico della circolazione eleronicodigitale. ello è comunque il “luogo” in cui baere la caiva scriura e tentare di avvicinarsi a leggere intravedere distinguere odiare amare, nella casualità mineralogica ancestrale elementare di uno sguardo di una dinoccolatura di un gesto di una voce, il confluire infinito o sfinito di altri codici e scriure. Il movimento più semplice di un volto di un foglio di una foglia ci apparirebbe allora degno di un fermarci, aenti a scorgervi l’emergere di diverse sceneggiature e intenzioni dall’assenza da cui provengono e cui sono destinati. [“La Stampa”, 11 agosto 2000]
Pornografia degli angeli
Se fossi un pellerossa, e sempre pronto, e sempre vibrante sopra il cavallo in corsa, cavalcando, sulla terra che vibra, fino a non servirmi degli speroni, poiché non c’erano speroni, fino a buar via le redini, poiché non c’erano redini, e vedessi appena la terra davanti a me come un prato mietuto di fresco, già senza collo di cavallo e testa di cavallo. Nulla di psicologico nell’analisi con cui Kaa folgora il movimento del desiderio. Non è una logica, è la forma stessa del desiderio che si produce solo mentre si annulla. Stupisce che tua la fisica del secolo (micro o macro, nucleare o astrale), dall’apparire/scomparire dei fantasmi dell’elerone e dell’antimateria si dedichi al tentativo di far apparire un istante particelle ipotizzate o virtuali, subito scomparse? E che il vorticare di esse il loro leerale essere ferme e in moto e qui e altrove, il loro baluginare e pullulare costituisca e permea la solidità della materia e la forma degli oggei…? Naturale che nel tramonto dell’oggi (sì, proprio “naturale”, col senso di innaturale che ci brucia la bocca e la mente nell’azzardare la parola) l’oggeo che più di tui appare e scompare, il set più evidente di design, sia il corpo stesso, l’oggeo che ci portiamo addosso e che ci porta, che siamo e che ci è, che vorremmo essere di più o non essere. Vertiginosa, la convergenza verso il biologico (bioingegneria, mutazione, durata della vita individuale…), verso il luogo fisico supposto del soggeo, come condensazione di un umanismo paradossale di un doppio
rimbalzo dalla profondità astrale e da quella del subliminale subeleronico subfotonico neuronale… Vertigine e convergenza del secolo, avvertita da kaa (e, tra gli altri, da valéry benjamin proust joyce nietzsche, per restar lì, lontano dagli “oggei”, o appena soo il loro apparire, dove si agitano la chimica della scriura e la fisica della voce…) proprio nella precisione paradossale di un haiku che si disfa, nell’immaginedesiderio che nell’aimo stesso in cui si manifesta si sgretola e decade (e anzi quella rapidissima assolvenza/dissolvenza da nero e verso nero (o bianco) e l’istante stesso, il riconoscimento goduto e temuto e svanito che lo spazio esista… “prima (e dopo) del tempo”…). Naturalmente (di nuovo…) già baudelaire e rimbaud (con monet e cézanne) hanno trovato o sperimentato l’allucinazione ossessiva che costituisce le forme e gli oggei e la visione stessa del soggeo (a sua volto ondivago, corpuscolare, intermiente); e si può rimontare da jean paul a hölderlin goethe novalis araverso la loa tra (il baito di?) coscienza e incoscienza nell’idealismo tedesco e in kant, e il geniale disperdersi dei lumi, giù e su fino al dubbio decisivo e costitutivo e iperfilmico (oh, la seconda “meditazione metafisica”) di descartes. Forse trovando in edgar allan poe, nella sua chimica dell’immaginario, nel suo landscape gardener, in eureka, nel suo sostituire la figura del maelstrom a quella del maestro, l’allargamento decisivo nella scala degli oggei: il mondo stesso – non solo il pianeta – è un “oggeo” che si forma si beve si sforma trangugia dissolve nell’allucinazione che è il soggeo. Ma è quasi inutile o troppo rudimentale rimontare oltre il secolo. Da poco più di un secolo una macchina (peraltro essa stessa di chimica e fisica rudimentalissime e semplici, e fino a oggi o l’altroggi rimasta sostanzialmente immutata) permee tecnicamente questa “rimonta del tempo”, muta lo spazio in tempo e ne consente la riproduzione registrazione accumulazione (perfino, oltre la ritualità da caverna e sala oscura, la addomesticazione del mondo per via televisiva, il rendersi a domicilio nel mondo in rete…). È lampante, fino a negarci la propria stessa evidenza quanto il processo filmico (oltre la
sua spoglia di genere drammaticonarrativo) abbia reso (nonostante la relativa saltuarietà randomizzata del suo intervenire e prodursi) l’idea stessa di tempo e di storia in un oggeo, un insieme imbobinato e sbobinabile, continuo anniversante ritorno (quasi senza andata) di cui si gode e soffre lo speacolo in una continua terribile rutilante soffice carezzevole celebrazione. Lanterna magica. Cortocircuito qui, appena la si strofina, tra desiderio (di nuovo; ovviamente), cinema (l’oggeo “lanterna magica” è tra i prodromi più costantemente evocati e mostrati dalle archeologie del cinema – come dire: dalle archeologie dell’archeologia di tue le archeologie…), e il cinema senza apparato e senza film, già tuo mentale e reticolare diffuso fraale (senza “design” evidente), inventato infai da freud contemporaneamente ai lumière; da freud con filmicissima passione archeologica: cinema e psicoanalisi producono e rievocano (con diversa automaticità e difficoltà e approssimazione!…) discorsi figure soggei tui come sepolti/dissepolti a strati; in freud il terreno è il mentale, il testo (il sogno come “la vita quotidiana”) è immagine incerta che si fa e si disfa di continuo. Mentre la Kodak annuncia che poco dopo il duemilauno cesserà la produzione di pellicola (indicando il trionfo generalizzato – rispeo al conceo di pelle e a quello di trascinamento/scorrimento – di una forma di tessuto eleronico digitale sintetico, circolare, a spirale, infine random, già dentro l’energia del motore eventuale che trascina(va)/genera le immagini) vien da pensare a quanto la “sovrapproduzione insufficiente” (il cinema è solo ossimori) di innumerevoli immagini “formate” (una moltitudine sterminata, ché infai poi ne avviene lo sterminio nella simulazione del movimento) abbia fao dimenticare la fantomaticità del cinema stesso (la sua “invisibilità”; e l’invisibilità tecnica a causa dell’evocazione degli infiniti punti di vista possibili e della massa di “registrazioni”) e l’incertezza freudiana del suo “registrare”, il suo assoigliare il mondo e il suo proprio assoigliarsi e tendere a zero, a
favore del lussureggiare e manifestarsi di forme (a volte per la prima volta) visibili e riconoscibili. Evoco l’auale mutazione e tramonto della sfera cinetelevisiva perché per la prima volta l’apparato e gli apparecchi e gli oggei stessi mediante i quali si produce si distribuisce si vede il cinema (e TV) dimagriscono rimpiccioliscono deperiscono svaniscono si fantomatizzano a loro volta (dopo essersi man mano avvicinati al corpo come vere e proprie protesi, fino a quella cinepresa da indossare che è la steadycam), tanto più tendendo a sparire quanto più si intensifica la loro potenza e capacità di evocare e far apparire immagini sempre più vivide fisiche tridimensionali corporee. (Naturalmente – per la terza volta… – l’orizzonte aleph o oltrealeph non esclude l’ingombro auale dei megateatri, né la fascinosa estensione architeonica degli Imax, stati tecnologicamente intermedi ma anche templi visibili e necessari per imprigionare glorificare omaggiare ancora – e infine, esorcizzandone il dilagare invisibile peraltro già largamente avvenuto… parlo da una zaera in zona alluvionale… o già nel gorgo?… – la visibilità del cinema, la sua monumentalità). Grazie al cinema alla sua automaticità prensile imprendibile, si è moltiplicata e diramata infinitamente la possibilità di reperire documentare catalogare forme e oggei, con tuo quel che ne deriva di piaceri arcaicodomesticomusealborghesi e perfino di godimento. (Vedere il cinema scenografico di ridley sco, epitome inane della postmodernità, che in blade runner perde gli abissi dickiani e trova appunto e percorre con meraviglia banale il crinale della copia originale…). Ci sfuggì e sfugge costantemente (e ci sfuggirà di più se non acceeremo di riconoscere in “noi”, la transizione che siamo verso un evaporare del visibile) il mai visto che permane il cinema, il suo essere calco negativo diffuso dell’idea stessa di soggeo e di tue le manifestazioni del visibile. Tuo il cinema come una “pornografia degli angeli” (Benjamin), un’evidenza ossessiva che è del/nel vedersi e non del “visto”. Anale troppo anale sarebbe il curarsi delle forme che vi vediamo pullulare e che costantemente in ogni caso il noi/macchina-da-presa (la
mdp che è in noi, il noi che è nella mdp) registra. Infine (ma non è che un inizio) la medicina propone in questo modesto e preciso duemila il viaggio allucinante previsto dal cinema di genere (ma già compiuto cent’anni prima di strange days – tui i giorni del cinema furono strani… – come viaggio oicomeccanico nel mentale) il cinema intestinale non più solo come sonda, occhio terminale di un apparato tentacolare mabusiano. Sono vere e proprie compresse/navicella da inghioire per bocca (e da recuperare come escremento) quelle che si sono in diversi laboratori già sperimentate: occhi viaggianti, che tras-corrono araverso i flussi della macchina digestiva o del flusso sanguigno del corpo. L’ombra mentale concentrata nella sfericità dell’occhio si fa occhiopastiglia, occhio puntiforme, si scioglie nel corpo (prima ancora di impiantarsi come protesi scheda piastrina codice…). Come il denaro è già in carta di credito, l’occhio si annulla, diventa puramente astrao e quindi adao a circolare il/nel corpo, a curarlo/salvarlo forse mentre lo annulla. La forma si (an)nega nel corpo che fu la misura delle forme. Pastiglie, supposte, forme subito sciolte dal/nel corpo, forme dolci erotiche temibili caduche. Ah…! Trasmeono… l’occhio si fa virus… definitivo linguaggio in senso burroughsiano… medici analisti scienziati cineasti speatori guardano guardiamo… esto, se ce n’è uno, è l’oggeo: il codice che siamo, il segno grado zero di 2001, il tempo che vogliamo rimontare oltre la velocità della luce, facendo apparire/scomparire quel che fino a oggi fa apparire/scomparire (e qui: lynch cronenberg kitano, ma anche lang vigo rossellini walsh e vertov e ophüls e…). Non (ci) si vede. Non si vede a chi e per chi, dove e da dove, da quando e fino a quando “trasmeiamo”. Il massimo, che ci sta capitando, è riconoscersi come interruori, o come spazio nero buio informe tra un fotogramma e l’altro, o come frammento desiderante di immagine in cerca di altre tessere. Apparire il nostro sparire. Abitiamo il vento che ci disegna. [“I linguaggi della comunicazione”, II, 1, gennaio-aprile 2001]
(Chi (pensa) ancora al cinema)
Ci pensa da solo, il cinema. Impressiona, dopo più di un secolo (scomparsa quindi fisicamente già una prima generazione di “uomini immaginari”; e proporrei come secolo “finito” del cinema quello debordante che va dal 28 dicembre 1895 all’11 seembre 2001, tanto per essere ancor più chiari), constatare e risentire la distanza che ancora ci separa da esso, e ancor più la “distanza” immessa e insieme rivelata del cinema come qualità essenziale della forma (del) “vedere”. La “proiezione” di desideri sulla proiezione/cinema, e il cinema stesso come proiezione di desideri molteplici di ricerca gioco rappresentazione speacolo, sembrano lontani e siderali, utopie da fantascienza (che siano biblioteche di babele o invenzioni di morel). Anche se poi basta pensare un istante e nell’istante al dispiegarsi del cinema nei mondi paralleli televisivi, alla proliferazione rizomatica e all’intrecciarsi e intersecarsi dei modi di vedersi e del vedersi vedere e veder vedersi nelle reti, per trovarci di fronte, proprio faccia a faccia, con la sostanziale obliquità dell’immagine, con l’ambiguità di essa insieme potenziata e rinviata dall’illusione enfatizzata del movimento, con la “distanza” infine che essa incarna rispeo al desiderio stesso (che a molti pare ingenuamente “realizzato” tecnicamente e artisticamente dall’avverarsi e inverarsi dell’immagine sinteticodigitale) di condensare in essa la cosa e il nome della cosa fino a condensarci “noi” (l’impersonalità evidente e semplice della macchina cinema sembra faa apposta per permeerci di trovare un soggeo nell’accumulazione, nella ripetizione ossessiva di stampo fotogrammatico, nella clonazione) e a riconoscerci in essa. Negli incontri di quest’anno, tra persone e proiezioni, tra persone che pensano e film che un giorno furono certo forse
pensati, tra persone e le loro proiezioni nei loro film o in film altrui, tra persone e la loro immagine ripresa e rappresa in film, tra film e persone che li guardano e li riguardano, più che un gioco inevitabile di sguardi si intenderebbe promuovere una sorta di “sospensione di epifanie” di confronto tra il “pensare il cinema” e il “pensare automatico” che è stato preso in carico dal cinema, tra chi crede di poter pensare il cinema e il “chi” che è invece pensato ipotizzato raggiunto oltrepassato dal cinema (incontro tra fantasmi, forse, tanto più “reale” quanto più capace di porsi o di immaginarsi nello spessore fantomatico, nella distanza sperale, nella trasparenza invisibile in cui consiste il cinema. “Ci pensa il cinema,” dicevamo. Felice ambiguità, nella lingua italiana, di quel “ci”. Insieme progeo plurale che diventa oggeo sociale (il cinema ci pensa, pensa “noi”), e oggeo e destinazione impersonale di cura e di aenzione (a ciò, a questo, a quello, “ci” pensa il cinema). Tra il “chi” e il “ci”, tra il soggeo in quanto domanda e la risposta di un impersonale potente e diffuso, la fragilità assoluta e l’assoluta impermeabilità dell’immagine, che può lacerarsi o spezzarsi in mille pezzi e all’istante essere l’immagine del proprio strapparsi e frammentarsi, rianagramma iperbolico di cui il rudimento-cinema ci consegna più il sospeo che l’enigma senza chiave. [Testo per la quarta edizione della Milanesiana, 2004]
Invisibilità di un’isola
Non lo faccio per parlare di me (che poi non esisto). Ma è divertente che nel tamburino dei programmi televisivi di diversi giornali fuori orario cose(mai)viste sia stato recentemente, anzi sia “aualmente”, gratificato dalla definizione di aualità. Aveva goduto del resto per anni di un varietà davvero eccentrico. Ecco, nel nuovo passaggio da FuoriOrario-varietà a FuoriOrario-aualità l’ossimoro segnala con noncuranza traversa il definitivo (s)cambio di statuto tra il presente televisivo e il passato filmico. Sono felice del piccolo smarrimento tecnico giornalistico che infine deposita l’aualità nel fuoriorario e viceversa. In qualche modo, è sempre stata la passione manifesta quindi segreta del fraale scheggeblobfuoriorario: direizzare il cinema e il repertorio tuo, repertorizzare e slontanare in un’archeologia dell’immediato e dell’istante il “presente” su cui si fonda e che pretende fondare l’ideologia televisiva della direa. Leggerlo così, sancito dall’arbitrarietà precisa di una notazione automatica, fa impressione, e mi ricorda quando dopo un paio d’anni di buona visione lanciati inaesi in testa (e già a volte in coda) a un noir di Ulmer o di Lang o a un western di Dwan o a un Glauberrocha, quel (“mio”) buonavisione! prese a rimbalzarmi addosso dalle labbra dolci di annunciatrici seducenti di silicone in testa a serate TV pochissimo visionarie (era “colpa nostra”, Blob già mostrava che tuo – maivisto e semprevisto in TV – è stupefazione e incanto, materializzazione dell’invisibile trasparenza che è il luogo ozonico della nostra piccola estasi di speatori miranti – fascia intorno all’occhio – il nostro occhio stesso). Nell’assoluta “mancanza di sorpresa” del percorso veneziano di cinema in mostra all’isola/lido (non dico la mancanza di “sorprese” filmiche, ma l’assenza di sorprese nel percorso
stesso, infine l’assenza del percorso stesso, ridoo a corsie sempre uguali e reilinee, senza crash (e anzi con una buona percentuale di bei film), senza incroci, e con pilota automatico a impedire il rischio di velocità pericolose o di rallentamenti eccessivi), è sintomatico che sia apparso a quasi tui un “deragliante” cascame felliniano il Takeshis’ geniale di Kitano, uno tra i quaro prevedibili capolavori (con il de Oliveira Garrel Ferrara) capaci di includere tuo il festival e il più radicale nel non dimenticare mai l’essere qui e altrove e né qui né altrove dell’immagine, nel proporre la perfezione fatale di una serie di traieorie catastrofiche, di “uscite da sé” jamesdeaniane. Come è triste che sia stato considerato al massimo l’ennesimo gioiello di una collana magnificamente stucchevole la scommessa iperbolica dello specchio magico di de Oliveira, rilancio dello statuto appunto di definitiva incertezza dell’immagine, della lampante oscurità e ambiguità silenziosa dell’apparizione stessa. Troppo, per un voler meere in mostra il già costituito, il catalogo delle precostituite diversità. La stessa retrospeiva, unico luogo appassionante in quanto legato alla passione asiatica intensa vera lontana del direore Müller, rischiava di risultare solo un blocco ovviamente informativo, una selezione secondo l’aualità del mercato cinefilo. Mentre una stoccata immobile e vermiglia della sublime giocatrice di Tai Katō, o la miriade di gesti combaenti scolpiti nei nostri occhi dal cinema cinoamericanapolide dei classici cinesi, meritavano di uscire dai formati capitalistici della rileura e della distribuzione digitale dvd per costituire il presente assente di un tempo della visione “lì”, se mai ha un senso ancora vedersi in quell’isola a prevedere e rivedere film. Aualità fuori orario: il cinema italiano cinicamente “in concorso” (salvo Baiato e il fuoriconcorso di Scimeca, e in parte l’autolesionistico sincero Fuoco su di me di Lambertini) era invece – secondo modalità diverse – la declinazione di un “cinema dell’aualità” che molti si ostinano a rimpiangere quando sono invece serviti “a dovere” dalla perfea riaualità del blocco “fiction televisiva” dove tuo si simula presente nel gioco ristreo di quei quindici venti aori corpi
facce che si inseguono da un secolo o da un decennio all’altro secondo la formula allegramente omicida di un eterno presente sempreuguale. Per forza si trova energia di cinema infinitamente più intensa nella (possibilità di un’)isola di Houellebecq, in straordinaria sintonia fuorisincrona con l’isola dei cloni dell’appassionante pornografo MichaelArmageddonBay. Ci torneremo, su questa e altre isole, luoghi della chiarezza assoluta della incrollabile e necessaria e indispensabile inanità del vivere. E tue pensate e viste dall’intelligenza del cinema solo araverso l’invisibilità, le coltri di nebbia, l’assenza di forma se non la forma lussureggiante dell’invisibile. L’isola intravista da un film fantasma (altro fallimento americano di prototipo troppo retorico e filosoficamente oltre) a sua volta solo intravisto e vanishing in rare sale/isola, lo Stealth del Rob Cohen Fast and Furious. Troppo veloce e furioso, vicinissimo a infrangere il muro dell’immagine, la trasparenza in cui si annida la macchina di gioia o di orrore più intensa o potente, la distanza fragilissima soilissima e infinitamente elastica in cui si pensa l’essere. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, novembre 2005]
(Tele)trasporto
Per poter vedere la forma del nostro cervello nudo, le sue volute stampate sulle nuvole, sorvolando il lobo bianco del globo planetario, bisogna – ormai si sa – confrontarsi a terra con la propria pesantezza di viaggiatore. Il panopticon aeroportuale ci riporta alla nudità, la paura del terrorismo induce a riaccorgersi che il re è nudo. Tui re nudi, non più e non solo radiografati come bagagli, ma fotografati nudi soo i vestiti. Colpevoli tui di avere non solo abiti scarpe provviste suppelleili liquidi (quando si troverà il primo kamikaze irrorato da liquido esplosivo in una piccola porzione della circolazione sanguigna? Un giorno un uomo perfeamente nudo e perquisito rimbomberà soo uno scanner, campana a morto per la società “pesante”). Colpevoli di essere ancora un corpo, con volume quantificabile e forma riconoscibile. Naturalmente (?), lavori incontri giochi, desiderio affei amori. Ci si sposta – più “rapidamente” – non tanto per ebbrezza di velocità quanto per reperire più tempo (vuoto) nello spazio, invece di vedere nella trasparenza del sipario temporale lo spazio che ci include ed esclude, ci uccide e ci nutre. Per l’appassionato di fantascienza bricolante scoperte e frontiere, l’onnipresente dogana antiterroristica è tuavia l’intravedersi immediato di un’altra situazione estrema ed estremamente banale. anti di questi incontri sarebbero più semplici direi intensi eppure leggeri (a volte intensi proprio grazie alla leggerezza) se ci si teletrasportasse, elementari fax umani decostruiti e ricomposti come un colosso egizio di pietra. anto inquinamento in meno (ma poi, non potrebbe diventare non meno inquinante e perfino più ossessiva la polluzione di cose e umani teletrasportati? O griglie password schermate dovranno o potranno essere approntate
e installate nelle (play)stazioni, a evitare visite fastidiose o invasioni militari), tuo più pulito e meno sudato. Per ora la prospeiva riguarda solo microparticelle invisibili alle quali abbiamo il dirio e quasi il dovere di restare insensibili. Ma nulla di questo fin da ora, anche solo pensato o vagamente avvertito – ci risparmia o ci risparmierà. Già ora stiamo teletrasportando la nostra vita, percorrendo il nastro di Möbius nitido della deriva tecnologica. Il movimento verso la forma realvirtuale di pigrizia estatica estetica infinita è lo stesso che porta a moltiplicare forme di esperienza che sembrano opposte, già molto sperimentate. L’intensificazione di quella sorta di pornografia dell’esperienza che sono i viaggi estremi, i raid “pericolosi”, i sopralluoghi snuff in zone di guerra o di allarme intenso. Si toccheranno möbiusianamente, le due tendenze, nelle esperienze delegate (da una maggioranza o minoranza) a esploratori gladiatori santi amatori criminali eccetera, in contao telepatico per garantire iniezioni di intensità a una vita sempre più lunga pesante incorporea. Trasporto è una bella parola ambigua. Al senso della comunicazione/spostamento di persone e merci si sovrappone (molto usato in Toscana) il “trasporto” funebre, il funerale, il trao finale del “transito” terreno. E poi, non so se in alto in basso intorno dentro fuori, c’è il trasporto nel senso dell’entusiasmo, l’istante in cui senti il presente quale presente di tuo quello che appare lontano (“tele”), amore che ti oltrepassa ti muove ti vola. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 11 gennaio 2007]
La Rai è un deserto catodico con oasi sempre uguali
Due nomi due parole due persone due star. Impressiona la sortita di (Pippo) Baudo, il suo manifestarsi come pensatore politico della televisione, nella concomitanza col venir meno del pensatore scriore osservatore più coinvolto e infine sconvolto dal mutare dell’oggeo, dallo scomparire della realtà nel virtuale postmoderno. Sgombriamo subito il campo dall’equivoco telesanremese canoro, e dalle beghe sulla successione di Bonoli(s) e Fiorelli vari. Perfino la questione del target pubblicitario, della necessità o possibilità di un recupero impervio di un pubblico anche solo leggermente più “giovane” (si fa per dire) è pretestuosa e ampiamente secondaria, in una televisione generalista (in particolare la Rai) che in generale si lascia tranquillamente andare ad accompagnare il proprio pubblico fedele verso la tomba (sua e di essa stessa). Ammeiamo che la reazione domenicale di Pippo Baudo sia stata viscerale. Bene. È solo l’ultima dimostrazione di come in questo paese brandelli di serietà, di onestà intelleuale, o anche solo di responsabilità individuale siano sempre più confinati in singoli e tra loro diversissimi esemplari di antico stampo. Segnalo solo come la risposta più nobile al voto dei reprobi comunisti e trotzkisti, in mezzo a curiose o a fascinose od obbrobriose prese di posizione (tardo o neo) staliniste, sia stata quella del sano reazionario Oscar Luigi Scalfaro. Certo Baudo incarna anche la televisione più antica e compromessa e commerciale, quella della telepromozione e dei megacompensi (peraltro allo stesso modo di colleghi molto meno anziani, per quanto più aenti a salvarsi l’anima loro con discorsi di qualità e nobili cause), e nel suo sboare si avverte la disperazione e accortezza di chi si sente messo da parte e soovalutato e non abbastanza ringraziato.
Ancor più triste allora che questo tardivo e personalistico rigurgito sia stato l’unico momento non cinicamente politico (o non meno cinicamente teorico) in cui si sia da noi parlato pubblicamente di televisione negli ultimi mesi. L’oggeo stesso del dibaito televisivo è infai ormai quasi estinto, se non del tuo finito. Duemilasee (2007): la questione televisiva è ancora e (molto di più) sempre chi/come farà Sanremo. 2007: senza la minima preoccupazione o vergogna, un megaconvegno ministeriale (ospite mi pare della fondazione di un ex-presidente Rai) sulla nuova forma tecnicospeacolarpolitica della TV viene annullato a causa del voto antigovernativo al Senato. 2007: la Rai è ridoa infine, con buona pace di tuo il quadro politico, a un deserto editoriale in cui si inseguono e agognano miraggi e oasi sempre uguali (i “grandi eventi”, i “grandi personaggi”, Benigni che legge Dante o Camilleri o la sceneggiatura di una fiction; mentre la TV generalista è/ha in sé la chance di essere tua normalmente un “grande evento” e non è), e a un campo di tiro in cui chiunque (qualunque microsoggeo politicosociale) è autorizzato a trovare i bersagli della propria particolare indignazione idiosincrasia sensibilità. Il fantasma della qualità, più volte agitato, è ora pronto a trasformarsi in indice regola clava, perfeo bavaglio teso tra improbabili “ascolti” e “gradimenti”. Mentre si brandisce l’immutabile accusa alla TV che “rende tuo uguale”, come se non fosse questa la principale spiazzante virtù “democratica” della TV stessa, a partire dalla quale inventare riformulare (con l’autonomia – certo responsabile di se stessa – che è la prima e forse unica qualità) differenze (editoriali) di discorso. So che è patetico questo camminare sul crinale mentre il terreno si sbriciola. Gentili mi aveva chiesto di scrivere “qui” (?) qualcosa, se mai mi fossi imbauto in Sanremo 2007. Speacolo civile serio professionale tuo, pare. Ma a casa continuava a non funzionarmi – da mesi – il televisore, venerdì e sabato ero in un piccolo teatro di Napoli, con due bravissimi musicisti, a fare Fuorioraria, una deriva direa
della doppia improvvisazione cinetelevisiva musicoeleronica, una sorta di duello tra see fonti di immagine e due di suoni risintetizzati all’istante. Tra le altre cose, affiorava spesso l’eterno look blu di Sanremo, brandelli che carpivamo al volo da una TV ultrapiaa, conduori e condoi, introduori e cantanti introdoi e commentatori, fino alle prime rimostranze domenicali di Pippo (anche se più eccitante fu poter mandare al volo a cavalcare in una prateria fordiana verde e azzurra di cielo scorta su Telenapoli John Wayne su se stesso palombaro morente nella profondità della Strega rossa). Senza offesa per nessuno, credo di non essermi perso il meglio. L’intervento “arretrato” e “politico” del vecchio presentatore/mediatore. Almeno preciso e fatale nel far balenare la scomparsa di una TV che nessuno ammeerà di voler o di aver voluto far scomparire (basta vedere l’accordo silenzioso e implacabile per cui qualunque banalità filmica speacolare giornalistica – spesso in replica e per pubblici ancora largamente minoritari – gode di diffusione mediatica amplissima e sproporzionata, imposta o autoimposta dai nuovi obblighi di consumo). La guerra del Golfo non avrà avuto luogo, fu quindici anni fa una formula celebre di Jean Baudrillard. Nel nonluogo speacolare diffuso pareva svanire il conflio, senza lo scontro filmato, visibili solo traccianti e cieli verdi laser. E se lo stesso Baudrillard ebbe da dire poco più che sbigoimento di fronte all’inferno torreggiante delle Twin Towers insieme inaeso e scontato, ci avviciniamo (per esempio appunto qui, ora) al momento in cui la sparizione di un vedersi sociale sarà venuta e non avrà (avuto) luogo perché appunto essa in quanto spazio sarà stata erosa e dissolta, e una forma di noi con essa. (Baudrillard 1998: “Non si traa di produrre. Tuo sta nell’arte di scomparire. […] È del resto l’unico modo che l’Altro ha di esistere: a partire dalla vostra stessa sparizione”). [“Il Riformista”, 9 marzo 2007]
Insistente/inesistente
So che nello stesso fruscio di parole perdute nel mercato comune mondiale dello scambio capitalistico di “tuo”, per tornare in un secondo giro nello stesso nastro di Möbius del “vano” scorso (una vera fiera delle vanità), si annida oltre allo stridio del vento demoniaco una possibilità di angelico soffio maestoso. Il riecheggiare omicida del baito sempre più frenetico delle stesse cose/parole, l’appiaimento sulla pornografia del senso immediatamente riconoscibile, l’annullarsi infine della mediazione linguistica. Prospeiva spaventosa, una sorta di presente come obbligo, il contrario della scelta che è il presente. Eppure, in questo dissolvimento, anche l’ipotesi o il barbaglio di un’abbagliante e impossibile (fino a oggi) “memoria alla Funes” (il personaggio borgesiano che “vive” l’infinita condanna – già allusa dal lord Chandos di Hofmannsthal – a percepire/leggere/vedere tue le singolarità pre/postlinguistiche, ogni singola foglia e non l’insieme concreto o astrao de “le foglie”), non in quanto dannazione ma quale rete comune, anzi comunità virtuosa in sé, che non ha bisogno di comunicarsi cose frasi messaggi codici ma si riconosce in sé fraseggio codice rete comunicazione. Per ora, si assiste solo al praticarsi in noi stessi di un deserto progressivo. In genere secondo l’obbligo del risparmio di tempo/energia/denaro che è il segno del “far soldi”, equivalente direo e precisissimo del fare nulla. Lo spreco fascinoso di senso e di suono che c’è in una frase toscana antica (ma anche in espressioni dei dialei più strei ed economici), e in tue le retoriche e scriure particolari seoriali individuali, viene soppiantato da gerghi sempre più concisi e assoluti, probabilmente sempre più traducibili, anzi già tradoi in un unico codice postlinguistico, nell’orizzonte
unico dell’efficacia. Non si traa neanche di “vendita”, tuo è infai già preacquistato e preve(n)duto, e l’imprevisto stesso è prevenduto, imperceibile valore aggiunto di una sfumatura di diversità rispeo all’automatico riprodursi di qualunque forma (di vita ?) sia individuabile nel suo aspeo appunto cadaverico fisso riproducibile. (Mi rendo conto che non faccio qui nomi e titoli di cose persone prodoi; sono infai fungibili, interscambiabili e interscambiati di continuo in una circolazione che appunto stermina o affida al vento le specie tue, riducendole drasticamente di numero per farci comprendere/capire meglio). Puntuale meccanismo barbaro del dizionario e dell’inventario. Mentre si allarga l’archivio, la conservazione, la memoria, il presente si svuota in omaggio alla semplificazione (se il mio vocabolarieo sms contiene solo “x” parole, in omaggio a verifiche più o meno serie o arbitrarie di frequenze lessicali, facilmente progredirò dimagrendo secondo un “x – y” dove “y” sono le parole man mano meno usate, quindi meno “necessarie” (meno “essenziali”? oh, possiamo illuderci che si arriverà a mantenere solo “amore” o “ti amo?” o “quanto costa?” o “quanto è?”); e lo stesso avviene con i volti gli sguardi i corpi i sogni le aspirazioni le utopie; non diventerà infai infine sola vuota immensa utopia quella della pura sopravvivenza senza limiti né forme, proprio di fronte all’incalzare della catastrofe). Molto vicina all’inesistenza, questa insistenza (“mia”?) sul venir meno e sul resistere in esso. asi aendendo un angelo dell’annuncio che scaturisca materialmente dall’affollarsi e mescolarsi (“melange”/mail-ange, l’angelo della mail?) di miriadi di combinazioni di monadi di senso sempre uguali, particelle matematiche o eleroni pronti a ubriacarsi e a impazzire. Nella combinazione sfrenata dei suoni ipodiici tecnicamente standard e impoveriti già viviamo un esempio preciso del nostro vivere quotidiano da “Ulissi” che ascoltano le sirene già imbrigliate e insieme
esaltate nel walkman che ci avviluppa incatena accarezza le orecchie. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 15 marzo 2007]
Wow: ninfilosofia
Visto con improvvisa aenzione, scheggia nourna promessa amicalmente alla mia visione disaendente e incredula tra lo sfrecciare/strecciarsi statico balenante di spiderman in anteprima e la partenza subito dopo per la prima a mosca del borisgodunov primo teatro di sokurov di colpo sdoppiata dalla morte di boriseltsin, il video il film la sequenza girata da emim con ANS nella vasca di una stanza dell’hotel majestic di roma mi colpisce con la dolcezza di un’epifania catastrofica. Il suo naturale – fuori dall’esagerazione in cui mi era sempre apparsa confinata nella definizione fotografica – riassume il domestico e l’apofanico, la seduzione soddisfacente e l’inanità del già sedoo. Mai arao da annanicolesmith, rubricata nel catalogo innumerevole delle icone camp, bastanti a se stesse nell’evidenza del loro guardarsi già riguardate da me e da tui (star/stelle troppo volontarie per non brillare che della loro sola luce già troppo riflessa e diffusa parcellizzata autodeviata nel prism(a di m)öbius che esse già sono), eccomi preso avvinto sedoo da un frammento di tempo che sembra infinito tanto è in(e)sistente. Non è tempo e non c’è tempo infai. Una sospensione sognante, torsione dello spazio in una perfea disarmonia che mima il mimarsi di un’impossibile marilyn. Così sexy che tuo il sesso sembra esserci già stato, e il corpo diventa pura memoria di quel che non sarà mai stato. (io sconosciuto in quel momento di sguardo distrao e captato sono il suo destino, la sua apofonia; l’innocenza con cui non se ne rende conto – perché i conti son già stati fai, e lei li vive già serenamente e quotidianamente morta nell’eccesso del micromacrodivismo warholiano – mi turba). [testo per Aniconics: Icon Killers – e Unassignable Sign of Seeing, Roma, Caè Leerario, 9-10-11 maggio 2007]
Il set della natura Trascrizione, fuori sincrono, di un discorso oracolare
Se c’è una cosa che mi hanno insegnato cinema e televisione è non arrendermi, non accontentarmi rispeo al conceo di Natura. Credo che qualunque filmaccio, non dico debba, ma possa e potrebbe far balenare un dubbio sul senso stesso della definizione di Natura, sul nome. elli che hanno visto potentemente la televisione, gli autori di fantascienza, Dick, Ballard, Pynchon, ci hanno insegnato che, se c’è deformazione, è in tua la televisione in sé. In modo un po’ più ideologico, freddo, ossificato, apparentemente non comprendente, non comprensivo, è lo stesso discorso che sviluppò la Scuola di Francoforte – Adorno, Horkheimer, meno Benjamin. ando dico tua la televisione, non voglio banalizzare, riconoscendo nella televisione lo stesso movente: la televisione in sé, voglio dire, tua la televisione in quanto luogo che riformula il Tuo, è ciò che assomiglia di più all’idea di totalità nella storia del mondo, una totalità risibile. Ho citato Dick, Pynchon e Ballard, ma potrei citare Malick, Kubrick, se volete Cronenberg, in realtà il cinema in sé, tuo, è un’operazione in cui assisti a un rinaturarsi, un riformularsi della Natura, molto più che filmare il naturale, tanto che il dubbio ti viene proprio sul senso delle distinzioni, fra natura e non-natura, naturale e innaturale, tra umano e non-umano. Su queste distinzioni aveva già deo molto Nietzsche. La televisione è potentemente, o risibilmente, nietzscheana, come è potente e risibile Nietzsche: non è sublime, è grandiosa e subito dopo banale.
ello che si chiama natura e naturale è un’ossessione del cinema, da sempre: il filmarsi del naturale, il filmarsi dell’umano. Nello stesso tempo questa operazione del filmare artificializza tuo ciò che filma, giusto? È molto semplice. Il naturale filmato viene mostrato nella sua artificialità a priori. Il filmabile e il televisibile, tenendo conto dei fuoricampo, delle cose che sfuggono, quindi, direi, l’estensione del visibile, questa rete di satelliti, non dico i fisici ma le orbite intorno al visibile, tuo quello che possiamo immaginare di visibile è ampiamente coperto. Un po’ meno l’interno della Terra, dei corpi, però anche lì c’è un lavorio sordo, un progresso… Natura è proprio quello che viene considerato il filmabile: gli animali filmati sono un tema favorito che rende domestico il naturale: è finita la distinzione fra animali domestici e selvaggi, anzi, gli animali in televisione più sono selvaggi, più sono domestici – il massimo del domestico è vedere un leone che fa a pezzi una gazzella, che se la mangia. È pornografico, ma lì c’è un rovesciamento dei discorsi assodati fino a qualche decennio fa sulla Natura. La Natura è diventata naturalmente artificiale: questo ossimoro è ormai automatico – è naturale che la pensiamo artificiale. esto ha molto a che vedere con alcune ipotesi di leura del cinema, basti citare L’isola del door Moreau, tue visioni che ipotizzano, a volte in modo paranoico, lo spostamento, la revisione del reale, della vita individuale e sociale, secondo un meccanismo simile a quello cinematografico, del proieore, dell’intervallo dei fotogrammi. Tuo questo c’è già in Bergson, in Heidegger. Si traa di una metafora, una figura che ormai sul piano interpretativo nel Novecento ha ampiamente prodoo, anche dal punto di vista filosofico. Addiriura a livello di stereotipi, di luoghi comuni, si sente dire “come in un film”, “come al cinema”, il termine americano è il più interessante perché non nomina il cinema: bigger than life, che ha un doppio significato, come sappiamo, vuol dire anche “risibile”, “ridicolo”, “guascone”, “eccessivo”, non vuol dire
“straordinario”, più della vita, indica l’eccesso, un po’ incredibile, un po’ buffo, sgraziato. Dov’è la Natura in questo? La Natura a me pare sempre più un set, che non si è ancora scoperto come set, un testo di cui non si sono ancora visti i bordi, una situazione, una relazione di potere, in cui il giardiniere, il tiranno è costantemente fuori campo. esto è ciò che chiamiamo Natura. Se invece queste cose sono visibili, è la società umana in quello che ha di artificiale… L’ebetudine della Natura ormai, starei per dire, “esiste solo in televisione”. Se c’è un inganno che la televisione e la cultura di massa perpetrano è proprio quello di proporre il massimo della finzione come fuga da se stessa: ti presento la Natura come porta o finestra d’uscita dalla situazione artificiale che Io, la televisione, e tu stesso, in quanto televisto e televedente, sei. Invece la Natura è uno dei soggei privilegiati, non è certo una lama, un baluginare… [“Argo. Rivista d’esplorazione”, 13, novembre 2007]
La realtà è una truffa
“I fuggiaschi del Sepolcro indiano si salvano grazie a una tela di ragno epifanicamente completata al momento giusto alle loro spalle, cristallo perfeo che indica falsamente un tempo trascorso e un passaggio occluso dal lavoro compiuto. Cadavere artistico che permee la vita.” Un’immagine sublime che non dimentico, quella del film di Fritz Lang. Trasparenza siderale della “situazione immagine”, condensata in un’immagine dell’immagine diabolicamente precisa. Potrei averla sognata. Raramente il senso di occlusione (dell’immagine il più intensamente segreto) è stato mostrato con tanta chiarezza allucinatoria. Intendo, più che illusorietà l’ambiguità e l’incertezza dell’immagine (e molto più che le sue varie avventure proieive e fogge sui diversi schermi), l’immagine stessa in quanto schermo e occlusione. In quella scena, Lang sintetizzava il limite della propria genialità di architeo acuminato e implacabile di frames figurativi, la fragilità del mostrare e l’improbabilità dell’evidenza. Tuo il “ritardo” insito nell’immagine, di cui ogni vedere è già segno, è lì. La tela del ragno, pura tessitura spaziale, simula un tempo che è effeo speciale, salva dicendo che lì “non può essere passato nessuno”. Altrimenti il cristallo della teca mostrerebbe incrinature, la tela sarebbe smagliata. Non mi aardo ancora nella situazione folgorante evocata nei soerranei dell’India artificiale langhiana. Anche se sarebbe utile e indispensabile aardarsi e ritornare, arrestare la macchina che ci illude di una memoria immagazzinando il dato (forse mediante noi, rullini rocchei chip con scadenza incorporata). Se ha un senso la smagliatura delle torri gemelle dissolte dell’undiciseembre, esso non si cela nel chi e nel perché contingente dell’evento, ma nello smagliarsi stesso dell’immagine.
Eppure, nell’ansia di rammendare lo strappo, la flagranza di esso nella nitidezza soleggiata dell’evento 11/9/2001 viene nascosta, e anzi proprio di lì, con il malinteso esemplare del film di Michael Moore, parte il tentativo di usare il cinema a puntello e a dimostrazione enfatica della “realtà”. Realtà come pura ideologia oscurantista. Il boom del “cinema della realtà”, bolla che scoppia a ogni istante, ebbrezza di champagne della “freschezza del reale”, senza le ragnatele del set chiuso; e i problemi si mostrano nella loro trasparenza, e non ci sono condizionamenti, e basta far parlare le cose, eccetera. Non c’è bisogno di fare titoli precisi, l’equivoco della realtà dilaga tra festival e TV e cinema in sala. Ha certo buon gioco e giuste ragioni contro l’aspeo più decrepito del cinema commerciale e industriale, macchina alla ricerca sempre più evanescente e sperale di un’ultima anima speacolare. Ma questo gioco ha già vinto da decenni, la sua stessa vioria (che è poi la televisione tua, proprio tua la televisione nel suo insieme) è diventata uno zombie, e il suo stesso persistere potrebbe e dovrebbe farci sospeare di star già scrivendo interpretando filmando distribuendo meendo in rete l’articolato formicolante Diary of the Dead chiamato anche ancora tuora vita. Non voglio meere in dubbio l’onestà personale degli intenti politico-ecologici (anche se i termini appena evocati richiedono tui la forza del dubbio rispeo alla loro apparenza di semplicità inoppugnabile) di chi esibisce le insegne della realtà. Anzi questo è forse l’apice dell’autoinganno, della cecità paurosa di fronte all’ambiguità delle immagini: si sceglie una supposta “verità” dell’immagine, regredendo a una sicurezza primaria delle distinzioni (fiction/documento, realtà/invenzione, perfino forma/contenuto!) che protegga dalla nostra stessa possibilità e capacità di ritrovare il simile nella diversità, di invilupparsi/districarsi nei reticoli comuni di forme diversissime, di intravedere l’alchimia in ao nei differenti gradi d’immagine. Partire dalla realtà, tornare alla realtà, parole d’ordine puramente ideologiche che da subito occultano e azzerano anche solo il sospeo che la realtà sia proprio questo tornare/partire in uno stesso movimento,
l’allucinazione di tale movimento, e l’immagine l’indizio più prezioso e terribile di questa situazione. Da Huillet-Straub a Straub (scrivo così perché l’ultimo film di Straub, filmato montato visto dopo la morte di Huillet, Il ginocchio di Artemide, basta da solo a dire tua l’evanescenza della mitologia del cinema e insieme l’insormontabile indispensabilità terrestre e planetaria dell’evanescenza; la disperazione del venir meno visibile, non disperazione declinata poeticamente di fronte al nulla inspiegabile, ma la disperazione di intravedere la forma della ragione di quel nulla), da de Oliveira a Carpenter, da Diaz a Romero, da Coppola a Rossellini, da Baiato a Lynch a We Own the Night/I padroni della noe a Ruiz Rousseau Herzog, tuo il cinema che sfiora l’intensità impersonale di quel che sul set, sul set di tui i set, si sta (dis)facendo, è cinema che apre alla visione come sospensione del vedere, al soerraneo e alla caverna e all’ombra che sono in ogni luce. Semplice ma inevitabile corollario di questa intensità sfiorata è il dissolversi di un senso anche minimo (né estetico né morale né politico, per ribadirlo in tre modi) della differenza finzione/documento, se non come dubbio e incertezza dei termini stessi e della situazione. È ciò che accade (vedi l’ultimo capolavoro State Legislature, in TV nei giorni delle nostreloro elezioni) nel cinema vasto monumentale impassibile di Wiseman, documento assoluto e personale (girato da lui solo, palombaro immerso nell’immagine/set) che diventa l’unico romanzo possibile dell’istituzione totale che la vita stessa cerca di diventare o di rivelarsi, torturata oscena gloriosa. Cinema che fa girare la testa. Per non dire di come possiamo far girare noi la testa al cinema tuo. Giullari rosselliniani del cinema. L’immagine a disorientarci. La testa gira perché senti il girare dell’immagine in sé che è in sé. Il cinema, così ancorato anche solo e già al suo margine ridicolmente quadrato, e invece è già uscito da sempre da sé, è lì, rotola invisibile e vorticoso, con noi e contro di noi. Pietra rotolante nel suo stesso fuoricampo, l’immagine ci include questo è il fondo di realtà che inseguiamo mentre rulla in discesa e da cui vorremmo scansarci quando ci
ripiomba addosso in salita. È grave, non se ne esce, forse non si vive se non sentendo in noi il peso dell’immagine e del suo sembrarsi leggera. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, maggio 2008]
Il bello della bolla
Sospeo che una bolla o almeno una bollicina possa formarsi anche nel passare un po’ d’acqua e sapone araverso la cruna di un ago (quando avrò voglia, ci proverò; sempre che non siamo già noi l’esperimento). Nel serio(sissimo) manifestarsi e svilupparsi e definirsi della crisi finanziaria auale, con ritorno conseguente di fiducia nei valori sani e solidi, bolle e bollicine non godono di gran favore, sono anzi l’origine del male; ricordano il ribollire del calderone infernale, la febbre infeante di labbra che troppo desiderano. La leggerezza insopportabile e pericolosa delle “bubble” che scoppiando vanificano miliardi di miliardi (già esiste una “memoria a bolle” informatica; ma fremo in godimento insaponato pensando a quando un nuovo potentissimo telescopio di bHubble dovesse scoprire che galassie e buchi neri hanno la consistenza o le proprietà di una bolla); per non parlare della effervescenza drogata ilare ebbra idiota di chi gioca irresponsabile con i mercati. Il modello liquido dell’analisi sociologica ultima è già inadeguato, fa acqua da tue le parti. Piove, governo ladro! Ma il mondo ribolle nell’onomatopea di bol e bl, e nello spessore della bolla più trasparente inafferrabile lieve in cui la sostanza liquida diventa gassosa c’è già la tentazione informe della forma Blob. Scoprendosi bolla – insaponata o fusa – il mondo sembra voler fuggire o denunciare la via alchemica, per non bruciarsi gli occhi non osa guardare la trasmutazione in ao. Niente pietra filosofale, forse, ma certo la ricerca ossessiva e fideistica di pietre angolari sulle quali fondare cose case chiese. Denunciando e cacciando i capitalisti caivi disonesti irresponsabili truffatori giocatori (con lo stesso rigore di analisi di chi pensa che la questione democratica e del potere oggi sia quella di annullare la deriva dei leader
postspeacolistici trovando ritrovando politici seri dalla maschera granitica del buon tempo andato). Molto più illuminista l’incubo allucinato del Dumbo disneyano, un danzare di bolle di sapone alcoliche che si gonfiano in forme lisergiche si ingigantiscono esplodono dentro la testa e fuori. E la forza di Obama forse viene proprio dal suo soaciuto e rimosso possibile essere una bolla, una pietra sfarfalleggiante, un’immagine di solidità immobiliarfamiliare che alla prima improbabile tempesta si riveli una bolla portata dal vento nel paese del Mago di Oz, o a Brigadoon. Più che di possedere la terra (che già sorriderà solo agli spossessati e alle talpe) si traa di entrare nel regno dei cieli. Veicoli delle monadi angeliche della nostra immaginazione, cocchi d’aria nell’aria, le bolle, visibilità ultima dell’invisibile estremo, sfida tenace e istantanea alla fragilità eterna della forma, sono frammenti di utopia affidati all’aria. Cadono e rimbalzano a volte, o si dissolvono sfiorando la nostra pelle. La loro durata ci sfida, brevissima o involata e imperscrutabile. La forma, sfera sublime che trapassa in plasticità oblunghe, muta nel vento. Molto sappiamo delle bolle, scientificamente. E una bolla d’aria può esser segno di vita o di morte. Ma, prima che il sapere di qualunque tipo si saldi, diventando unico e perfeo, specchio chiuso che neanche ha bisogno di rifleere ma solo si riflee, è utile e appassionante giocare a proieare – su quel che appare infine spiegato – un’ombra di mitologia, storica o istantanea. La finzione di un’ignoranza che ancora fa domande e supposizioni stupide o infondate. Dalla domanda di un bambino su una bolla di sapone svanita potrebbe derivarsi – seguendo il sogno illuminista delirante di risalire fino in fondo la catena dei nessi – tuo il presente con tui i passati futuri precipitanti in esso. Il godimento più carnale disfa e spreca e effervesce bullicante nel gorgo spaziale dentro la bolla intensa e forte che esso stesso avverte di essere. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 5 febbraio 2009]
Efferve-scienza
“Sentirsi giovani.” Luogo comune sventurato, troppo accessibile da parte dei discorsi consolatori e ideologici di cura psicologica politica religiosa del vivere. L’importante è sentirsi giovani. Avvertire in sé la possibilità costante del(l’uomo) nuovo eccetera. In rivolta costante contro l’uno o l’altro dei faori e dei sintomi di invecchiamento, o contro tui insieme, o anche contro qualunque minaccia si profili a meere in dubbio o a minare le shangrila dell’eterna giovinezza. Fin da bambino vecchissimo, direi, ho sentito, ma anche pensato che tuo il cinema (e soprauo il cinema più universalmente automaticamente pacificamente ritenuto tale, quello hollywoodiano), fosse il più mirabile e illusorio paeggiamento con quel mito, la sistemazione indefinitivamente provvisoria di esso in forma di limbo/lembo di vita, in un manifestarsi della ripetizione meccanica che sospende la morte in immortalità irrisoria, in una serie di piccole eternità a termine. La “telefissione” e l’esplosione postatomica del digitale, dell’accantonarsi di dati informazioni registrazioni in una sfera tanto eccedente da sembrarci non nostra proprio nel catalogare le nostre tracce i nostri sogni i nostri DNA, pronti ormai a essere clonati in un soggeo/cosa possibile così vicino a noi, così “la stessa cosa” rispeo a noi da apparirci inesorabilmente estraneo, sono solo l’estensione ancora ridoa di quel che il meccanismo semplice del cinema già induceva nella vita (o almeno e meglio: nel sentirci vivere). Più volte ricordato qui, il turbamento geniale di Valéry rispeo al filmico farci sapere l’avvenire a memoria, si accoppiava nello stesso discorso alla possibilità dell’inversione/regressione dei movimenti e gesti e fai
filmati alla rovescia; legandosi, negli “sguardi” su un mondo auale chiarito dal cinema in quanto automa inauale, al paragone folgorante di storici e faucchiere, dove i primi in più delle seconde hanno il sorarsi facile al rischio della prova e della smentita, ormai forse solo per la maggior difficoltà di aingere al filmpassato, di inventare l’immagine discernendone i contorni tra le macerie delle quinte in fuga. Allora, il pregio del film di Fincher con Brad Pi/Benjamin Buon ringiovanente, controcorrente rispeo al senso di marcia generale del mondo, è proprio nell’arbitrarietà improbabile e faticosa e meticolosa della situazione, nell’apparizione semplice sulla terra di una sorta di banalissima e insieme cristica molecola di vita inversa, di clone del riavvolgimento, di antivita. Speacolo ripreso di continuo eppure chiuso nel campo obbligatorio che è un film, irripetibile ripetuto. Non meno autoriale del sublime Coppola che si dibae disfacendo il suo “film senza film” inverso, Fincher aveva già investito il palindromo filmico in un lontano video con Madonna, e qui ci lascia soli col mistero inglorioso delle (rock)star, l’essere iconosciuti (corsivo perché le dita da sole hanno dimenticato la “r”) senza aver “nulla” fao o vissuto, o solo per l’esser stati giovani. Più radicale ancora di La morte ti fa bella di Zemeckis, il film di Fincher (la vita, in un senso e/o nell’altro, ti fa morto) ci pone di fronte il mostro che è il senso stesso della vita, nell’evidenza programmatica del divo truccato da Tempo ma impaniato nella solita odissea di Spazio. La vita più intensa è quella che si avverte ogni istante troppo vecchia/troppo giovane. Ferma e ripetuta fino alla vertigine (amleto ha/è dieci anni e cento). La giovinezza non può “sentirsi giovane” (segno di senescenza che nessuna senescienza può sanare). Sente solo lo scarto da sé, la differenza la distanza. La presenza, effervescenza che nessuna scienza può riprodurre se non per caso, si scioglie in bozza, e non sa se sia ultima prima ennesima da quale lingua lambita e bagnata (ciccata, amata). [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”,
26 febbraio 2009]
Nel punto cieco
“Si fece avanti imponente, grondando realtà da tui i pori.” O invece. “Minuscola e dolce, sudava realtà da tui i pori.” La realtà: perché importava tanto a tui? ella superfetazione, quello sforzo plebeo, quel proporsi in luogo di un altro, l’illusione di nascondersi nel corpo mentre è il corpo a nascondersi nella melodia che ricordi e ritrovi per strada. Lì affiorava il soddisfacimento se non il godimento di sé, tra cesure e limiti, il corpo costantemente fraurato e ricomposto, passando da un frame mentale a un altro, assumendo con sensibilità prodigiosa forme mutanti sempre più normali e indiscernibili, assunta catalogata, mimata ogni curvatura o escrescenza o impressione globale che potesse anche una volta sola essere (stata) associata a un senso di “normalità”. Ci si accorse che la realtà era una pellicola soilissima, isolante per un verso, traspirante dall’altro. Invisibile e mai “normale”. Un punto cieco esploso e moltiplicato in modo assoluto e imperceibile; presente e invisibile anche nei più sofisticati e totali sistemi di controllo, capaci di enfatizzarlo proprio nel ridurlo al massimo. Si era già vicini alla fine della storia. C’erano stati gli immortali cinquantenni elvis e michaeljackson, morti milioni di volte in pochi minuti e protei dalla stessa patina che li uccide entrando negli organi e sostituendosi a essi. E grossi aerei entravano e sparivano in giganteschi inaesi e risaputi punti ciechi, simili a quelli sui quali si basa la possibilità stessa di percepirsi e l’illusione di una morale. Il gene della bellezza, ovunque riprodoo e diffuso, sperò di indurre un amore universale. Lo scoppio fu immane: veri soili sordi belli, non ce ne accorgemmo. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 2 luglio 2009]
Vivrai e vedrai
Sentendo delle ore dei giorni dei mesi in aesa di “scaricare” da internet immagini o canzoni o film più o meno rari, penso a dove si consuma tale aesa, e in che forma. In quali parcheggi stazioni il desiderio una volta espresso, appeso alla casualità di un mercato misterioso dello scambio ipotetico. So di persone che da quasi un anno sperano in quel western, in quel noir, in quel film di jacquesdemy. O di scarichi che sembrano partir subito per ingolfarsi presto in non so quali naufragi e isole deserte, tra l’affollarsi improvviso delle richieste e il solitario eroe o ladro o impostore in grado di offrire il pezzeo di mistero ennesimo di orsonwelles. Tuo questo già profuma – antico – di spezie e di terre lontane e di bastimenti a vela o a vapore in arrivo; un non esserci snervante e ritardante, che verrà spazzato via dalla trasmissione alla velocità della luce, e poi dal boomerang che la oltrepasserà buandoci addosso schegge di futuro già esploso. Eppure sento già la nostalgia di strozzature occlusioni che disegnano le storte e gli alambicchi del desiderio. La disponibilità istantanea di tuo il desiderabile visibile e ascoltabile, oenuta (vero, mister google?) proprio grazie alle forme ovvie o bizzarre derivanti da anni di richieste in boiglia e di speranza che suoni e immagini emergessero dalla poltiglia delle nostre memorie conservate in cantine oscure, farà giustizia sommaria dei pirati e degli innamorati capaci di aspeare una vita o di bruciarla in un aimo nel tentativo inane e illuso di capire o sovvertire l’economia misteriosa dell’akihasaràdato/akinonhasaràtolto. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 22 oobre 2009]
L’isola (che) scotta
Prima di tuo, la fine. Torni dall’isola che è un festival (Cannes), e torni all’isola. esta. Profeta facile, nel giàvisto vivomorto scorso avevo indovinato la fine di Lost. Grazie al fao di non aver visto aperta [e anche lì, un po’ dormita, nel trasogno della visione TV tardoserale da divano, ombra seriale che diventi, accanto a un altro corpo (il tuo, perfino), perdono tui i nessi nel chiudersi degli occhi eppur poi divinandoli nell’assunzione distraa tua ma troppo aenta di quel che giace troppo sveglio in te dormiente] negli anni più di una puntata della serie, di averla sentita solo per frammenti di resoconti altrui, nei giudizi lapidari degli appassionati, nello snervarsi del rinvio protrao della fine, nel complicarsi filosofico. Più che un’aesa della fine della serie, una serie post-finita di detour dalla/della fine che non ci aende più, perché già la superammo e lei ci oltrepassò (chi sa quale dei due treni era fermo: entrambi forse), e il movimento era effeo di un meccanismo di rianimazione dei due piani immobili; qualcosa nella morte ci fece parer vivi, muovendoci del suo stesso “amore”, che spesso ci pare odio: non divago, anzi la pratica cinefila in cui ancora mi incaponisco patetico, la prima fila senza nulla tra me e l’immagine se non il tuo della trasparenza, me la trasporto in quella della prima fila automatica in cui consiste lo zoom soffice della visione televisiva, e vedo “male” come al cinema troppo vicino, cioè benissimo, senza percepire i margini del fotogramma-isola ingrandito, quindi cogliendo meglio la direzione e i portici e la statica interna delle immagini e i loro confini interni e le faglie, visione vicina che è il contrario dell’entrare ebete nelle immagini e nelle storie: ci si avvicina nella istanza irriducibile (da tuo, se non dal nulla) che è un’immagine. Così, “vedendo” una cosa in TV (lo schermo leggero del computer intensifica la prossimità in tua la sua distanza da dietro)
ostruita da una schiena nuda amata, suoni dialoghi commenti la loro voce la sua, sento neissimo che “lost” non si perde, che non si perde nulla a (non) vederlo, perché tuo ciò che la sa lunga parla da dopo la fine, il naufragio e la catastrofe se ne stanno già lì buoni e russano sull’isola del tuo divano, il perimetro della tua martha’s vineyard è lo stesso di una macchina che ti inquieta nel primissimo piano della stoffa su cui sei steso. La forma dell’isola non la vedi nell’inquadratura perfea del film dall’ultima fila alta lontana faticosa cui ti costringe un ritardo nell’accedere al “palazzo” del cinema. Reangolo magico polanskiano, immagine cerebrale cronenberghiana nello scorsese il cui suono (musica e voci) è per una volta più immagine della tessitura fotografica gonfia. Distanza che illude di poter capire e giudicare un film, mentre ne ve(t)rifica solo l’allucinazione visiva. Così, si fragilizza il polanski sublime, che si direbbe perfea adeguazione all’immaginarsi autoriale del film, il rendersi evidente di uno storyboard ipotetico o effeivo e dell’auarsi di ciò che esso già fu. Si ammira l’eco di un’intenzione e di un sogno nella sua aura digitale, proieato laggiù, schermo inevitabilmente proteivo in quanto riconoscibile subito nella precisione iconografica e fotografica, per quanto ambisca a disturbare. [Grandezza di hitchcock è invece il costruirsi abissale fino ai piani microscopici e quasi invisibili interni all’immagine, che pare non essere eseguita, ma eseguirsi da sola fatale fino a includere nella propria accuratezza e trasparenza pianificata l’incrinatura e l’urlo che sono in essa. C’è qualcosa di più scisso del piano sequenza (simil)unico di Rope, a sua volta ulmerianamente distornante e strangolante? Già, a proposito di film che si srotolano à rebours, fino a farci dimenticare e “perdere” il fao che la fine era ed è sempre nota, e che ogni film è tecnicamente il remake di se stesso. Rientro nell’isola carrellando a Berlino araverso la sala buia le prime file. Mi impressiona Wakamatsu al di là del godimento solito che nei suoi film si forma per l’estrema disponibilità dei corpi a conformarsi nella perversione,
bruciati tra bianconero e colore, giocati nello spazio giapponese sempre costrei tra loro ma in loa contro di esso (se in Ozu la vita è quel che trascorre nel reticolo dei frame, e in Mizoguchi vivere è subire il fascino della legge dello spazio nonostante ogni ribellione, in Wakamatsu i personaggi misurano lo spazio in cui sono compresi oppressi dispiegati, e lo scuotono e lo aggrediscono, tentando di sfuggire all’intensità con cui il regista intravvede sceglie percorre predispone dissolve il set). Caterpillar tra fuoco e acqua propone con esaezza tanto più ossessiva quanto più casuale gli stessi elementi del film di Scorsese, la stessa densità analitica e alchemica nel passaggio tra colpa ed espiazione. Il film è psicodramma, si ri-vive, psicodramma di se stesso quale situazione densa. In Wakamatsu una sola stanza e un lagheo sono tua l’isola e il maniero manicomiale scorsesiano. E di colpo ti rendi conto e “apprendi” – avendolo sempre saputo – che il Giappone tuo è un’isola, prodigiosamente condensata in un set ridoissimo. Ultima coincidenza, la postura dei corpi in acqua nell’annegamento, chiusura figurativonarrativa di entrambi i film. La fine è solo sospensione. In Shuer Island, a mollo nella mente dello speatore chiamato a eleggersi deus asessuato e indefinitivamente incerto da una macchina non sua (o addiriura set gemello della mente-autore, in confronto improbabile con Shining e Providence). In Caterpillar, la dominanza non dominabile del sesso che smee di migrare da un soggeo all’altro per soddisfarsi nel proprio morire, da cui lo speatore non può esimersi che spalancando e sbarrando gli occhi. Sono ancora molte le isole che si affollano dell’arcipelago della memoria, dimenticate e percentualmente ripetute e rifilmate, di rado con la sensibilità di quel che accade nel “ri” – senza che ci sia bisogno di volerlo far davvero riaccadere – dell’Inserto girato a Lisca Bianca, capolavoro ultimo di un Antonioni che non si limita a scoprire il poter tornare solo dove non si è mai stati, ma intravede e intrasente che si resta per sempre nell’isola di cui dimentichiamo di essere stati da sempre. Mantengo appunto, a ricordare che ogni isola scoa
e che la partita possibile da giocarvi (con apparente dominio dei limiti spaziali) è sempre pericolosa, e ci vede da sempre lostperduti, tanto che il ritorno a casa sarà infine più sperale proprio perché più familiare (perfeo il finale agghiacciante di Castaway del grande Zemeckis). Matango che alberga – nella solita isola cinturata dalla nebbia e set di naufragio perfeo – il segreto di una catena dell’essere/riessere incantata e drogata, agita da uominifungo lussureggianti di bellezza colorata, esito e causa di un’antropologia lisergica, allucinazione che copre l’umano, corpo umano che si ammee mutato dal desiderio (qualcosa del genere si trova nel soilissimo eppure spudorato incrocio fisico tra vivo e morto, animale e umano in cui sta tuo il fascino sliante dell’ultimo bel film di Apichatpong Weerasethakul visto “vincere” a Cannes). Costeggiando l’isola e sentendomene braccato, scoato da essa e insieme avvertendola ribollire qui troppo, fin quasi a scuocersi sfogliandosi in troppe forme diverse, è evidente che il limite geografico dell’isola, il suo essere accerchiata e il suo potenziale concentrante, si moltiplica e rinfrange e disperde all’interno. Sembra bastare a se stessa, set separato dal mondo, quindi mondo a sé. Ma rinasce instancabile per quanto estenuata, in essa, la critica della separazione. L’ isola di kimkiduk ne fu l’immagine pura. E i kingkong soprauo, da schoedsack/cooper a peterjackson e jurassicspielberg, hanno provato a preparare noi tui all’isolamento da enclave microscopica interconnessa in cui ci culla lo speacolo immane di massa, a guardarlo negli occhi resistendogli nell’istante stesso in cui nello sguardo della bestia mutante riconosciamo il nostro. La Fotogenia (de oliveira), il Mistero (ruiz), il Socialismo (godard), sono state le parole chiave dei tre capolavori estremi (pericolosamente e fatalmente) galleggianti a Cannes, isole facilmente discernibili (con pochi altri film) nel mar di cinema intorno. Il tesoro maledeo del cinema isola misteriosa si trova seguendo le loro mappe. La fotogenia volante materiale pesante de oliveira, in crociera sull’isola mobile godardiana, arriva al mistero inquieto e tranquillo della fine del cinema: il mondo dopo la fine.
[rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, luglio 2010]
La fama dell’Aviatar
e Most Dangerous Game, il gioco più pericoloso per il cinema, è “in ao” soo i nostri occhi. Possiamo interferire poco con esso, proprio perché è davanti ai nostri occhi, e noi già abbiamo difficoltà nel rapportarci anche solo poche volte nella vita alla velocità della luce che sembra tuavia il passo normale e comune sia del cinema che della vita stessa. Basta il “vedere” a turbarci, a scaldarci raffreddarci agitarci. Possiamo immaginare, dai resoconti delle estasi e di altre catastrofi dello spazio cui siamo abituati, cosa succederebbe se dovessimo “realizzare” (in tui i sensi) che, oltre a “vedere il vedere” (cioè il nostro essere ri-visti: esperienza filmica comune, eppure già quasi insostenibile), nel cinema e dal cinema si evince e si ribadisce che il visibile è la lieve punta di iceberg dell’invisibile. Appena incontrato Pelešjan a Mosca. Rivisti tui i suoi film, un cinema che sta in un solo dvd e che leeralmente non sta da nessuna parte. L’elemento assente è il segreto con cui monta le immagini. Anche nel parlare con lui oggi mi è parso chiaro che procedevamo usando una tabella di mendeleev dove campeggiano in gran parte spazi vuoti. Ora in TV a noe vedo passare una lunga serie di videoclip mai visti prima: da troppo tempo non seguo il treno labirintico della videomusica, un tempo canale sempre aperto muto dove abitavo o stavo. Per un po’ mi sembra che siano russi, poi tra una scria e un riconoscimento, tra crudeltà nourne e coincidenze, vedo che sono editors (i primi: fatalità) prodigy röyksopp cardigans rammstein eccetera. Mi hanno colpito due cose sadiche di giovani costrei a correre bendati nella noe verso il supplizio casuale preordinato. In uno anzi non c’è supplizio, se non la corsa sfrenata a sparire nel buio. Non so e non voglio sapere se mi piacciono o no, né chi è il
regista. Godo della loro pura irruzione in me e della mia in loro. Ora un testo corre e striscia anche lui, su muri e paesaggi urbani diurni. Comincio ad avvertire una mano d’autore: non dei registi, ma di chi ha scelto e assemblato, anche per assonanza semplice. Riconosco il modo di riconoscere allineare spostare, è già familiare, un’esperienza anche intensa, ma l’incanto è perso, lascio trascorrere i video con qualche scivolamento sulla tela che si fa e si disfa in ogni momento dei canali news riempiti dal giallore nel buio delle immagini dallo schianto aereo di Smolensk, un destino inkatinato terribile come una via crucis o un cruciverba. Per un momento ero entrato nello spazio delle immagini, dove si articolano discorsi di nessuno fai di piani, di cose viste, di distanze e di angolazioni. Non un seguito di illusioni oiche, ma una situazione in cui l’oica stessa è l’illusione, e ti pare di percepirne il senso, un ordito di intenzioni senza autore. Ti abbandoni alla potenza del cifrato e alla fragilità delle cifre, e viceversa perché esaamente entri nel viceversa palindromico: ma è tardi, o meglio è troppo presto, se voglio dormire due o tre ore. Prima di partire voglio tornare all’alba sulla piazzarossa vuota, già transennata per lavori alla pavimentazione in vista della parata di maggio. Sopralluogo a un set chiave del grande meschino “andare a parare” nostroloro tra secolo e millennio, all’immagine di esso che trovo e ritrovo nella registrazione della lunga direa televisiva della parata per il cinquantenario della rivoluzione d’oobre. Non c’entra nulla, infai non c’è qui, né lì, il piede invisibile che non spunta [così seppe (farci) vedere Marangoni] da dietro la gamba affusolata nel leggero accavallo di una venere sublime del maestro di cui essendo a Mosca perdo l’ultimo giorno di mostra. Intanto medito e mi arrovello di arrivarci in qualche modo all’ultim’ora, non dovevano prolungarla? Ma il cinema che non si vede è così, un piede la cui stessa invisibilità non si vede, Una situazione moltiplicata a centocinquantamila volte a ogni film, a prendere per buona l’unità tecnica subliminale del fotogramma. Milioni di storie di sensi avviluppati di forme baluginanti, di “velature e ombre” melvilliane, dici fraure
illeggibili, rispeo alle quali appare tragica e irrisoria la volontà di potenza autoriale e speatoriale. Per dire solamente, anche se non è mai un altro discorso, i kubrick o i godard; troppo fatalmente rivelatore del trionfo del narcisismo godardiano che è uno dei vertici anche visivi della sua cappella Sistina sia il Loe in Italia in gran parte scrio pensato deciso direo da un altro. “Pensare” è sempre stato esperienza e reminiscenza di quello scarto, avvertire quel che manca al presente, cioè il presente stesso. Dai presocratici a Bataille, è un’esperienza di cui può essere faa lampeggiare o narrare la visione, la manifestazione. Ma nessun “autore” nel cinema e col cinema può percepire rifare o imitare il gesto cinema, pena il proprio dissolvimento o la pietrificazione in statua di moglie di Lot che ardisce di guardare la catastrofe già avvenuta da cui proviene e si allontana in fuga. Il fantasma del 3D è la spoglia condensata della loa o dell’abbraccio mortale in cui il cinema stringe se stesso non tanto non riconoscendosi quanto riconoscendosi in se stesso, jekyll/hyde di se stesso. Il surplus di stupefazione ingenua ricercato dalla prima generazione industriale del 3D hollywoodiano enfatizzava la percezione dello spazio filmico in senso speacolare, perdendo a priori – nell’operazione segnata dalla protesi occhialino – la baaglia con la televisione, la cui “terzadimensione” era in effei la diffusione domestica simultanea, presenza di passaggio in essa speacoloso di un potenziale “tuo” (o almeno di All at Heaven Allows, per citare il film di Sirk in cui il televisore fa la sua apparizione più traumaticamente so). L’evidenza anche groesca del 3D fa pensare al Drive-In, espediente forse grossolano, ma soile nell’intervenire direamente sullo spazio in cui si vede il film, sparigliando rispeo alla questione delle dimensioni dello schermo, a sua volta espanso in cinemascope. Situazione complicata da una cornice ulteriore. Il vetro dell’auto induce a un tergicristallo interiore, quanto più il modo di visione sembra favorire la distrazione.
Confluiscono e collidono, nel cinema che ancora desidera un’evidenza (industriale o d’autore poco importa, ne abbiamo una sintesi geniale in avatar di cameron), una ricerca di intensificazione sensoriale immediata e quasi pedestre e l’immaginazione di altre visioni, l’incarnazione sempre più spinta e il farsi fantomatico del nostro stesso corpo, l’uscire da noi e il ricondurre tuo ai nostri occhi (strano indizio lo scriversi obbligato al presente delle sceneggiature). Gli aori che siamo sono indecisi. Non abbiamo copioni o forse non li vogliamo. Eppure siamo un copione (strano indizio lo scriversi obbligato al presente delle sceneggiature), e possiamo influire in esso con modifiche infinitesimali quasi imperceibili. Bigger than life o più piccolo della vita, il cinema sembra voler infine ambire a sciogliersi nella vita stessa. Fermi e sempre febbrilmente in moto, ghiacciati nel fotogramma e sempre ossessivamente riprogeati nella galleria dei fotogrammi. Vivere vorrà dire forse schivare questi indizi. Fare cinema sarà orchestrazione del presente e incarnarsi nell’invisibile. [Ora giuro al leore eventuale, ovvero a me che non mi leggo/reggo. La prossima cosagiàvis(su)tamorta scria qui sarà l’analisi e il racconto pedestre del giro dell’Isola forse pericolosa in cui sono stati immaginati e girati e visti (nel particolare effeo 3D che è l’autore) il capolavoro di Wakamatsu Caterpillar, il ghostmovie definitivo di Polanski, l’impressionante esibizione triste di Scorsese (può essere che il suo ultimo grande film resterà Aviator, di cui è rudere stupendo di memoria la dismisura straordinaria di DiCaprio anche in quest’isola); e, non marginalmente, l’inaeso sublime compendio elegiaco dello spazio filmico di Eastwood l’invio, il regista con maggior chiarezza, dopo esser stato gli occhiscope più famosi del cinema, fa il giro fuori orbita che gli fa intravedere le sue e nostre orbite vuote, fino a farci intuire a trai e in apnea serena il modo in cui lo spazio ci respira.] [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, novembre 2010]
In persona
Nell’ode in cui giace lo “splendidamente menzognera” da cui l’ass-ange giovineo trasse il nome di baaglia mendax, Orazio si appella a Mercurio per convincere la donna amata a tornare. Le ricorda che la sola (“face nuptiali digna”) Danaide sopravvissuta aveva mentito fulgidamente al padre, lasciando fuggire lo sposo invece di ucciderlo. In quel “face” si nasconde con leggerezza musicale mercuriale il peso della distorsione e dell’ambiguità acuminata in cui si forma il nostro “vedere”. La “face”, la torcia, dà luce (tra greco e latino) ai misteri orgiastici come alle cerimonie nuziali, tra “phainomai” (apparire manifestarsi) e luce (“phos”), in un viluppo accecante e fuorviante, è insieme ciò che illumina e quel che è illuminato, tramite di luce e luogo per eccellenza in cui la luce risiede e traspare, la faccia. Dallo stesso ph derivano con inestricabile semplicità fenomeno e fantasia. E lo strano fenomeno “cinema”, fotografia mobile di ciò che è fermo fio frequente. Ultima maschera della differenza. Capitale oscurità da cui in Social Network lampeggia l’idea algoritmica di far circolare le facce, aivando il desiderio di riconoscersi riconosciuti latente in una moltitudine di persone abituate a vivere nascoste, illuminandone la rete. (E eastwood hereaer, sublime a filmarsi assente sul confine tra stati diversi, nell’oscurità della luce). “Nulla di personale”. Il moo tragico del(l’ir)realismo capitalista, che rende il mondo una planimetria economica soffocante lo spazio, e chiarisce il tempo quale aura del nostro mancare fino a mancarci della persona/maschera e al dominio puro, speacolo senza inganni e senza volto in cui hai un istante (lungocorto, non importa) per giocare il gioco e vendere il tuo grammo di nudo nulla aerrito e sorridente. Nothing Personal. (2. Fine) [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 20 gennaio 2011]
Fantasmi in persona
Allora non si è mai tanto se stessi quanto nell’impersonarsi fuori da sé, nel sentirsi e nel farsi sentire risuonare oltre il proprio perimetro. Nel “ri” che è il “più” dello speacolo, la velocità forsennata della reazione a catena risucchia le maschere e gli artifici di esso nella collisione imperceibile con l’immagine di sé riconosciuta immagine. I vuoti, gli intervalli tra un’immagine/quadro e l’altra si assoigliano e spariscono, saturate le pareti dei musei si bivacca affollando corridoi e piazze in aesa che venga estrao o chiamato il nostro numero/faccia. Ogni tanto si sentono dei “pop” autiti, esplosioni di piccole bombe innocue, segnali di ritrovamenti e riconoscimenti avvenuti. L’acceleratore ha funzionato a meraviglia, il (fuori)sincrotrone delle immagini/particelle che si guardano si specchiano si buano a capofio l’una nell’altra produce scontri catastrofici continui, materia/antimateria, invisibili agli occhi (indifferentemente chiusi aperti spalancati sbarrati, wideshut) debordati da velocità che li eccedono. C’è, lo speacolo (non che abbiamo pagato un biglieo; il biglieo siamo noi), ma ne parliamo e lo percepiamo in forme obsolete. Navighiamo spazio in navicelle di “vetro oscuro”, un lunapark rétro; il faccia a faccia c’è già stato malgrado noi, maschere a priori del dopo, narcisisti inabissati che credono di vivere e toccare se stessi e invece sono già (nel)l’araverso. (La luce dell’aldilà immaginato hereaer rammenta quella laiginosa annebbiata dell’aeroporto di mosca subito dopo la strage, o il limbo in cui in certi video porno decine di corpi nudi aendono il loro turno glorioso di infernoparadiso con la star. L’ultimo uomo mai visto della terra si nasconde in un fantasma, inseguito da miliardi di occhi e di sensori. Il fantasma ha l’asma, beve non visto la nostra aria causando malori. Verranno scoperti).
[rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 27 gennaio 2011]
Lode all’infilmato (apocalypse snow 2)
Nei giocaoli oici per grandi e piccini – specie quelli di una linea strepitosa invisibilmente cifrata PKD – si affaccia sempre più insinuante l’ipotesi di per sé rassicurante che sia il soggeo (insomma voi, noi, io; per non parlare – leeralmente – di “loro”) a menare la danza del dentro e fuori (campo), quella che non c’è, come hanno trovato ricordato diffuso in teatro carmelobene/Lorenzaccio e lucaronconi/AlPappagalloVerde, al cinema deoliveira/MonCas/rivee/Duelle/lynch/MulhollandDrive. Gli effei sono leggermente perturbanti, gli strumenti (come i nani deforma(n)ti) invece semplici piccoli controllabili. Telecamerine a occhio di mosca che incendiano il filo del fuori fuoco rendendolo fant(aut)omatico, telefonini infantili gialli rossi verdi postpop che diventano specchi magici rifleenti i volti deformati e photoshoppati all’istante. No hay banda, it’s all true, venghino signori a toccare con mano il nulla, non costa nulla, la crisi stessa andrà in crisi soo i colpi di desiderio delle bolle. Il nano che dirige il mondo è a sua volta una marionea riavvolta, preso in un nastro di möbius antigravitazionale. Il diffuso e variamente profondo stato intermedio cinetelevisivo viene continuamente scandagliato nei due sensi. A volte si formano improvvisi rarissimi cortocircuiti (il più vividamente recente, l’undiciseembre), l’intermedietà si assoiglia, materia e antimateria (semplificando potremmo dire “soggeo e antisoggeo”, o allora in deriva lacaniana il mancante e il mancato) collidono tra bagliori accecanti. Nell’ultimo film di francisfordcoppola [Twixt, N.d.R.] – peraltro già “ultimo” e riapocaliico in Un’altra giovinezza e in Segreti di famiglia – la visionarietà conceuale si pone con precarietà dileantesca sublime all’incrocio delle tensioni
opposte in gioco. Il lavoro del 3D sui limiti dell’immagine e dello schermo, è pura schermaglia, lavoro ai fianchi, virtuosismo del barbiere che esercita i suoi tagli tagliando solo l’aria a pochi millimetri dai capelli. Ma il punto non è quel che si vede, il duello e la scommessa vertono sulla cosa che vede, sulla sua possibilità di ri-assumere risucchiare accogliere – infine senza occhiali né altre protesi, sentendo lo stesso “sé” quale protesi intensificata dell’immagine – tuo il visibile. Lo sforzo/cinema sembra oggi tuo teso in una direzione di empietà, di negazione della separatezza dell’immagine (riassunta da Wigenstein: l’immagine di un fiore è più vicina all’immagine di qualunque altra cosa che al fiore stesso). Soile in questo quadro, oltre al rischio coppoliano, il tentativo di zemeckis, magnificamente flagrante in La leggenda di Beowulf, in cui il corpo ricaura la muta l’eco l’ombra del proprio doppio digitale, indossando per così dire se stesso, clone della nostra curiosità di avventurarci al di là, dentro lo spessore dello specchio (basta anche solo quello dell’armadieo di Contact). Troppo facile irridere all’ossessione materna delle somiglianze tra noi fratelli e parenti e gli amici tui e un qualunque sembiante in TV o in skype. Tuo si gioca lì, nel sentire il simile nel dissimile, nel riconoscere che il contao, se lo avvertiamo, è sempre con sé/noi stessi. (2-fine) [rubrica Detour (52), “Film TV”, 8 gennaio 2012]
Le protesi di Proteo
Non posso non ricordare ogni tanto (è una mia festa; triste, ma festa), forse per la vaghezza che da subito contornò il fao e l’immagine e la memoria di essa, il caso anni oanta (ne cercai traccia per mesi nel 1989, per un montaggio fuori orario, per me era una delle immagini chiave del secolo, e lo resta anche se non esistesse o non l’avessi mai vista) di un grande operatore americano specializzato in riprese di lanci acrobatici paracadutistici, la cui carriera finì nella gloria dell’assenza di sé e dell’affidarsi al volo che l’immagine può essere. Aldilà del nome, resta il Milite Ignoto del filmarsi, arsi dalla leggerezza che si perde nella forza di gravità, non più frenata – e leggo in questi giorni che un altro milite si geerà con tuta quasi astronautica da 36.000 metri, arretrando dopo aver superato il muro del suono. Nulla di così estremo, nella situazione che (non) ricordo. L’uomo si geò nel vuoto, con la sua telecamera-protesi pronta a riprendere le evoluzioni dei corpi nell’aria che aveva già registrato e in parte determinato tante volte. Forse aveva o era troppo fumato (la leggenda non dice), forse s’innamorò dell’amore che dimentica tuo e anche se stesso e il proprio amore. Si buò con la telecamera ma senza paracadute. Se ne accorse, si dibaé, sperò forse in qualcosa o qualcuno che come in un film rallentasse la caduta o un angelo che interceandolo autisse lo schianto. Oppure chiuse gli occhi, aspeando di incontrare il troppoumano su cui li aveva sempre automaticamente troppo spalancati. Ormai non cerco più i dati e i reperti, mi acceca e mi calma sentire che – forse senza averla mai vista – quell’immagine impossibile (cosa accadde alla macchina da presa e al nastro in essa? O era un collegamento in direa⁈) esiste in me, e nell’umanità tua la macchinaLuce si installò quasi di colpo e senza paracadute, in una caduta libera senza freni in cui è il corpo a mutarsi in
zoom. (E ha una sua precisione riconoscere qui e ricordare il buco clamoroso lasciato nel detour91 al posto del nome del “grandissimo” – Michael CARRERAS, in effei un grande per alcuni di noivoi, ma forse la x del vuoto era infine più precisa ancora. Ma mi scuso ancora del pasticcio di nomi e degli ircocervi plurinominali dell’arbitrio minuzioso di minuscole e maiuscole, e delle dimenticanze e inesaezze di una lista, che sempre mi sembran criminali e lascian piaghe. E la mia tardessenza rinvia al blow up n. 74 di novembre il rimando a di cosa sia protesi il cinema; questione intricata solo dal mio girarle intorno restandole in mezzo?). Soderbergh allora (da ibridare in un impronunciabile soderbhergzog?) e ancora. Presto sarà al suo quarantesimo film, o c’è già, visto che affiorano titoli di film “privati”. asi chabroliano nella meticolosità con cui i singoli passi filmici han l’aria di irridere al disegno complessivo che solo o specialmente gli importa, soderbergh non lavora però a materializzare lentamente il suo muro di maoni. È leeralmente il cineasta del passaggio, del trascorrersi del cinema; non da un genere all’altro o da un film all’altro, ma di scena in inquadratura, di trasali(mo)mento in cadute libere in effei sorvegliatissime da angeli appena un po’ spiritelli demoniaci. Capacità alchemica stupefacente, leggermente speedy – uno speed al ralenti, ogni film è uno scafo a sé, e se è raing non si annega mai, manca ancora il tempo di morire (e in un film, con Solaris, imperturbabilmente rivelatore, il Che, tua la seconda parte – la “guerriglia nella giungla – ciondola una pigrizia di ritorni continui al vuoto, lentissimo passaggio appunto alla morte, alla fine (ig)nota. Soderbergh – fin dal titolo primario sesso, bugie e videotape – sa bene che poter filmare la vita degli altri si sconta col sapere di dover filmare di continuo la propria morte). [rubrica Detour (92), “Film TV”, 14 oobre 2012]
2. Casa Lumière
A qualcuno piace a colori
Martedì alle 21.40 Raiuno trasmee Il mistero del falco (1941) di John Huston con Humphrey Bogart. Il capolavoro filmato in bianco e nero è stato recentemente colorato, e così, a colori, lo vedremo martedì. Nella retorica dell’ascolto televisivo il crinale tra bianconero e colore sembra il più neo e invalicabile: il colore garantisce maggior ascolto medio, il bianconero (con rare sacrali monumentali eccezioni come A qualcuno piace caldo) è relegato dai palinsesti nei pomeriggi nelle maine nelle seconde e tarde serate, nelle noi. L’aura della culttelevision in b/n è per definizione ai confini della realtà televisiva; il bianconero, vero “colore in più” da almeno dieci anni nel cinema, nella moda, nel design e nell’arredamento, quindi nel video e nella pubblicità, non riesce o non può diventare il colore dell’occhio TV: occhio incolore. Sfumano invece i confini tra bianconero e colore nella memoria come in sogno. Anche il mangiatore di cinema accanito ha allucinazioni cromatiche, cedimenti, ricordi fallaci, sensazioni-colore deviate dall’incontro con fosfeni divoranti o emienti colore nel buio. Capita (troppo) spesso di ricordare a colori un vecchio film in bianconero, oltre che viceversa. Doppio gioco in cui si supplisce al supposto oblio di qualcosa nella visione d’infanzia, o in cui si risarcisce la visione televisiva di un tempo, ovviamente tua in bianconero omologante. Visione spellata, affascinante, mai davvero rimembrata come “mancante” neanche quando infine si aggiunge il colore nella revisione in sala. Scandalo perfeo, per amatori puristi: a pochi mesi dalla morte di un grande patriarca del cinema, ecco il suo primo film, un classico nero, avviluppato dall’ombra mortale della colorization, la colorazione eleronica in video. Il primo film
“colorizzato” passò da noi in TV (sempre su Raiuno) l’anno scorso a Natale; una commedia natalizia, Il miracolo della 25a strada, con un babbo natale infine rosso splendente. Non fu quasi notato, anche per la scarsissima stampa promossa con understatement (o riservatezza, o pruderie) da Raiuno. Non scandalizzò molto, la cosa. Il regista George Seaton non fu “difeso” dal sopruso. Il “Corriere” scrisse che a commediole e melodrammei il colore aggiunto poteva anche giovare, l’importante era non toccare i classici, guai se Roma cià aperta. Razzismi a parte. E ben sapendo che la “colorizzazione” è o sarà un colossale affare per i possessori di pacchei di titoli cinematografici (ma poi la tecnologia – non complessa, per ora costosissima – potrebbe diffondersi, decentrarsi, permeere a chiunque di colorarsi via computer qualunque film)… Non si può che restare sedoi (o almeno: non posso che restare sedoo) dall’effeo insieme sacrilego e sacralizzante di questa “mano di colore” sul “vecchio” cinema. Si potrà discutere (e si discuterà) dei singoli risultati, per quanto un po’ ridicolmente e senza alcun fondamento “teorico” (quali scelte, nello spero delle decine di migliaia di colori eleronici possibili? Colori d’epoca? E di quale epoca, quella in cui fu girato il film, quella narrata dal film, quella in cui vediamo il film? Ma l’oggi ha forse un colore…?). Intanto la definitiva santificazione del cinema, già oggeo di rigori filologici e di restauri, oggi addiriura imitato in sé, warholianamente, deformato torturato martirizzato spiato dai buchi di serrature TV, copiato come in cartoline da quaro soldi. Gli “autori” loano e protestano, giustamente (da Allen a Capra a Kubrick). Amo Kubrick, ma come ho amato 2001 in superoo e in bianconero sicuramente amerei Lolita colorato. E sempre molto basse sono state le proteste d’autore verso i veri e propri medi e suture nel corpo del film che sono i doppiaggi o le “edizioni per l’estero”. È importante che un lavoro sia poi l’autore in un circuito di ulteriore trasformazione e “gioco di sé”.
Come rivolta dell’immagine al look imperante dell’immagine stessa, come spaccatura nel look, vendea beffarda contro la levigatezza del bel bianconero d’autore oggi dilagante non solo nel cinema (e invece la qualità di questo colore eleronico è ancora così bassa, magnificamente incerta; ma un anno fa, un’ora dopo il filmeo di Seaton, la buona copia TV de Il door Zivago non mostrava colori tanto diversi…). Senza cedere ai miti facilini e artefai dell’autentico e dell’originario, la trasformazione televisiva del cinema, anche in questa ulteriore fase, lascia trasparire (più di quanto accada altrove) la forza di un corpo, di un segno/cinema mai riconducibile alla “bellezza” o “integrità” dell’immagine. Occasione di vedere o intravedere come per la prima volta. [“il manifesto”, 22 novembre 1987]
Macchina mangiatempo
Ma l’altro effeo di queste immagini è più strano. esta facilità critica la vita. Cosa valgono ormai queste azioni ed emozioni di cui vedo gli scambi e la monotona diversità? Non ho più voglia di vivere, perché è solo ressembler. So l’avvenire a memoria. Paul Valéry “este immagini”, nelle parole di Paul Valéry (1944), sono il cinema. Profezia geniale e valida subito; non sogni futuribili ma il futuro contenuto nel cinema nello stesso tempo in cui il cinema imbalsama il passato. Passando alla perversità polimorfa del supporto-mezzo eleronico (televisione e video), che ingloba telematicamente il cinema come l’ultima notizia di agenzia e la quotazione del dollaro e ogni genere di informazione-comunicazione l’effeo si moltiplica (posto che possa essere moltiplicata quella “non voglia di vivere” di fronte al rutilare scambievole di azioni ed emozioni che simmetricamente genera anche voglie). est’anno tarda l’almanacco Ieri edito dalla ERI e sempre più apprezzato anche aldilà della cerchia di programmisti Rai in cerca di idee. Il ritardo pare sia dovuto a un grande dossier 1989 che ha allungato i tempi. D’altra parte, come dice Sabina Guzzanti, il tempo restringe. Irrisi criticati amati oggeo di curiosità, gli almanacchi che costellano di passato il futuro prossimo (1989?), ma non solo quello, abbondano e proliferano. E che ritardi il più completo e aggiornato di tui, quello ERI, va bene lo stesso.
Di pari (?) passo con l’esaezza degli anniversari, con l’affluire sempre perfeo delle ricorrenze, con la loro giustezza e sinteticità filosofica e analitica, col loro realismo obbligatorio, ecco l’incertezza o irrilevanza del calendario “reale” e corrente, manipolato senza problemi. Ecco il continuo tamponarsi (come in un imboigliamento stradale) di tempi diversi che presto piallano anche gli eventieventuali. Una seimana (?) televisiva, proprio quella che “segna il tempo”, il cambio dell’anno. Taiche e casualità mescolate insieme dalla regia strategica che per ora resiste a ogni assalto. Sabato 31 si sposta il campionato e con lui va (in onda) Va’ pensiero (di solito domenicale). La sera, i messaggi dei presidenti della repubblica (un’antologia, dal 1960 a oggi) precedono alle 20.00 su Raitre il messaggio 1988-89 di Cossiga, peraltro lievemente anticipato anche da D’Angelo cossighianamente travestito e augurante per Odiens. (Tempismo di Ricci. Come Striscia la notizia era il “subito dopo” comico del tiggì di “vent’anni prima”, entrambi simmetrici rispeo al TG1 delle 20.00.) See giorni dopo, l’Arca del sabato di Damato passa al venerdì di Epifania (con Odiens), di quel 6 gennaio che sta scrio sui bigliei dell’ex “loeria di Capodanno” e che è diventato, nello speacolovetrina di quella loeria, il sabato see. Ieri, appunto. (Oh, non analizziamo le taiche da Auditel e Meter, troppo scoperte.) Più precise della taica, le corrispondenze casuali. elle che fanno pensare di essere al centro di un imbuto con due grandi imboccature contrapposte e simmetriche, un doppio maelstrom. Come se il tempo si fosse fermato o fosse esso stesso sooposto a un continuo processo di “reincarnazione”, dal primo bacio tra due occhi all’ultimo duello Mig-Tomcat. E non parliamo di coincidenze corpose e allucinanti come quelle capaci di mandarci subito a strologare mendicanti all’angolo di una strada. Piccole corrispondenze televisive. Per esempio, l’hostess che si arrampica impeccabile sul soffio dell’astronave in 2001 di Kubrick (sempre l’ultimo
dell’anno) con le scarpee magnetiche per non ondeggiare in stato di a-gravità, e poco dopo sulla rete accanto (C’era una volta Hollywood…) Fred Astaire che fa lo stesso sul soffio di una stanza danzando. E il Danubio blu dell’allunaggio e del finale di Kubrick che torna il maino dopo eseguito dal gran Kleiber del concerto di Capodanno. Allora l’oantanove già tuo previsto e dipanato fa venir voglia di essere Il grande diatore, barbiere e despota, allo stesso modo in cui Chaplin genialmente giocò la sua coetaneità con Hitler (due centenari di quest’anno). Di giocare a palla col mondo e perfino di rischiare di far scoppiare quel pallone facendogli la barba. Volare in a-gravità nel film-astronave di Kubrick dal tempo condensato e nell’aereo capovolto di Chaplin. Oppure di cominciare a pensare davvero il Sessantoo, senza l’anniversarietà che ha predeterminato l’intero gioco dei discorsi dell’oantoo finito. Prima volta che un intero anno era celebrato, forse per questo l’incubo (come la “striscia continua” del TG di vent’anni prima), dopo quello sventato dal primo grande anniversario anticipato e poi ri-celebrato (con un film – il 1984 di Orwell). Ah! preparare il 2001 (un film), almeno come il 1992 “europeo” del nostro continuo micromillenarismo anniversaristico. Il tempo è “finito”, si avvita in un buco a spirale, si ferma e confonde e bae istantaneamente come un cuore o un valzer (passato presente futuro, passato presente futuro), è tuo lì (qui?) come nel finale del film (sempre Kubrick) che anticipa l’ultimo millenarismo. Je sais l’avenir par coeur. Modello cinema. Il lunedì, sempre in quest’avvio d’annata, passa sempre in TV Ritorno al futuro, il film semplice e straordinario che dice la verità sulla grande opera di ingegneria “sociale” (?) messa in ao dal cinema mediante l’inserimento in noi (?) di un time-code (codice tempo) permanente. Il sistema degli anniversari, esaltato dai repertori computerizzati, è lo scheletro visibile di un corpomondo trasparente già mutante. Mentre si lamenta (o peggio, si plaude) l’assenza di “progei”, il macrocalendario del puro
e semplice codice tempo progea per conto suo e nostro: il millenovecentonovantadue sarà l’anno dell’invenzione dell’Europa ma ancor più l’anno della riscoperta dell’America nel cinquecentenario (ne capitano così pochi!). Dalla colorizzazione dei vecchi film all’orizzonte del viaggio nel tempo (fantascienza cui oscuramente si lavora e lavorerà) che rende presente il passato, futuro il presente, passato il futuro?, l’epoca nostra (?) continua ad archeologizzarsi in direa ogni momento, a prodursi e riprodursi per corrispondenze ricorsi ritorni che inquietano. Su scala planetaria, l’effeo terribile (o estatico) del déjà vu, il sospeo d’essere il sogno di un altro o di altri. I ricorsi che precedono i corsi… Forse addiriura il gesto maligno e perverso ipotizzato da Orwell (la riscriura della storia, la cancellazione e la modifica della memoria) come ao “morale” che dà ao della stessa prescriura del futuro sfogliando la sovrimpressione che chiamiamo “passato”. Oggi che lo vediamo in e con la televisione non sembra inventato, il cinema, per impedire infine di vedere, o per far vedere un’ultima volta prima del troppo-nulla eleronico e informatico? Milioni miliardi di autori speatori da un secolo giocano al cinema, loano piangono godono con esso. Ma a quanti fotogrammi al secondo è (ruota, si autoriprende…) il mondo? A quanti fotogrammi al secondo “passa” la vita (?)… Per vedere oggi con gli occhi di un uomo o dell’uomo un minuto di un qualunque processo naturale (un minuto di “tempo”) filmato alla velocità pazzesca di un miliardo di fotogrammi al secondo non basterebbe la vita di un uomo. Chi poi volesse passare così la propria vita vedrebbe immagini fisse non riuscendo a percepirne il movimento (perversione del rallentare il già imperceibile “muoversi” di un fiore) o vedrebbe forse la luce (prima di morire…) o l’agitarsi frenetico delle particelle subatomiche nella materia di ciò che ha sempre visto fermo (un sasso, una luce…) tanto era veloce. Certo tuo questo già avviene, se concateniamo ossessivamente o analiticamente il guardare toccare meere insieme quelle immagini fisse o in movimento (foto, video,
film) svolto quotidianamente al mondo da un secolo e mezzo da miliardi di persone e di macchine: un pezzo del “film del mondo” nelle nostre mani a ogni foto scaata. (Al Beaubourg l’orologio segna il conto alla rovescia verso il 2000, perché non meere una cinepresa o una telecamera – o diverse, una a bassa velocità una normale una ad alta velocità – che dall’alto di un colosseo o di una torre eiffel, o dal basso di un tombino o di un selciato filmino da qui alla fine del secolo… consegnando al futuro dieci anni “di tempo” condensati in un’ora, o dilatati, o solo riprodoi in dieci anni di pellicolanastro…) Modello registrazione (record, in inglese; ricordare, sapere nel-col “cuore”, a memoria, par coeur). (Ovvero, ancora cinema.) (esto, mentre percepisci una malaia dello spazio-tempo imboigliato in un lungotevere di automobili. Mentre avverti la mutazione della specie in tua figlia che assiste senza trasalimenti allo speacolo doloroso e futurista delle sirene che suonano nella noe, a “difendere” orribilmente la proprietà. Già mutata; mia nonna ne sarebbe morta (di testa-orecchie, o di paura). ei bei pazzi di strada – ahimè sempre uguali, molto uniformi – hanno capito e stazionano di solito ai semafori e negli altri punti d’ingorgo per srotolare le loro litanie, mentre un polacco ti pulisce il vetro riportando indietro l’orologio. alche amministrazione non di sinistra ma pur sempre sinistra – in quanto “amministrazione”, per carità! – ti sbandiera dai muri fai, non parole per risolvere il problema del traffico, e finalmente una coda ti permee di leggere le troppe parole che sono lì affisse. (Ora mentre scrivi e una figlia accenna a piangere l’altra si mee a leggere ad alta voce un deato oppure stupita compita i risultati delle operazioni appena digitate su un calcolatorino a baeria solare). Nessuno dei grandi processi di conoscenza e analisi in ao, nessuno dei progei scientifici più ambiziosi può essere compiuto e controllato dalla macchina uomo di oggi, per quanto mutata mutante. Non solo sarebbe (è) impossibile a me vedere “il filmato” della vita intera di un uomo o di una figlia o di chi amo (troppo lungo; eccedente il mio “tempo” o la mia durata).
I calcoli con cui un supercalcolatore risolve un “irrisolvibile” o irrisolto problema matematico non potranno più essere “controllati” da uno scienziato; non possono. Solo impostati. Arrivano i dati, ma non dicono nulla. Rientrano in una dimensione extraumana, o umanamente definibile “eterna” (come eterno – dice Fontenelle – è il giardiniere per la rosa che ne viene curata e infine recisa o che semplicemente smuore). Si programma-elabora continuamente il futuro, mentre la vita (il nostro corpo, i nostri affei, le passioni) continua a essere o almeno sembrare in gran parte quella di quando vivere era soprauo elaborare i passati (nelle varie forme di “tradizione”), nutrire il tempo con la famiglia e le altre struure parentali e sociali, sognare e progeare audacemente futuri. Ora. Mappare il genoma. Avere a terminale i dati minuto per minuto (poi i secondi, poi…) dell’ascolto televisivo, per poter programmare, o per volontà di sapere come è, visto che non si sa cosa è, la macchina dei desideri (as is, Becke). Vengono in mente, più inquietanti e rivelatori di qualunque tossicomania, i geniali anormali minorati capaci di accoppiare istantaneamente una data e un giorno della seimana (che giorno sarà il primo gennaio del duemilauno…?), di effeuare calcoli da raffinato macchinismo matematico. Burroughs (William), di cui non per caso Cronenberg Scanners Videodrome Zona morta (oh, gli occhi di Chris Walken: se ogni immagine vista, come ogni parola dea, fosse una profezia?) Dead Ringers sta per filmare Il pasto nudo, è (stato; oggi dipinge e spara sopra, spara e dipinge sopra… shoot shoot) il primo a entrare nella compagine agghiacciante delle corrispondenze, il primo a vedere l’ombra del calendario Maya – un calendario previsionale e astrologico – nella banca dati Luce, quella di Time Life Fortune (si pronuncia “ilùs”, naturalmente, nulla a che vedere con l’archivio dell’Istituto Luce, massima memoria pellicolare italiana…); il primo a immergere la mano nel fascio nervoso fibrillante delle registrazioni (“Fra l’occhio e
l’oggeo cade l’ombra. – E quell’ombra… è la parola preregistrata”, da Ritorno a Saint-Louis; e leggiamo pure le coincidenze tra il romanzo e Exterminator e il film Terminator). E Dick, Pynchon, a decriare codici sconosciuti, comploi tanto complessi da coincidere con la vita, il mondo, il tempo, tanto ramificati e unari da essere sempre senza avvenire mai. (L’oscillazione del pendolo di Eco e Foucault è più meccanico come sintomo, più elementare e primario e rassicurante nella parzialità dello sguardo.) Kubrick in 2001 (del 1968, appunto di oggi) scopre che si può solo sconneere la macchina, non controllarla, anche se – senza averla in cuore – può essere fondamentale doloroso bellissimo entrarle in cuore per ucciderla e mangiarglielo uscendo dal suo tempo come un inverosimile bambino che passeggia nel cosmo. La macchina peraltro è aivata. In azione già i computer con le scarpe da tennis e gli erasmi lentigginosi. Grazie alle macchine e alle memorie sempre più piccole e capaci, il tempo è spazializzato in mappe. Si può prelevare dal tempo considerandolo una banca dati. Lei ricercati reperiti (anche nel passato, anzi per forza in esso), fortissima la tentazione ultima o la necessità (oh di nuovo il finale “bruo” sublime del film di Scorsese) di raggiungere subito il punto voluto all’interno di un processo, saltare i tempi, concentrarli, utilizzare la donazione, la manipolazione biologica del tempo; tempo manipolato che si fa corpo mutante mutato. Tempicorpi diversi (Lynch) da produrre nell’istante stesso in cui si generano. Dopo (o durante) il grande tentativo di rinviare il futuro (la “storia”…), il futuro “avviene”, anche solo in modello e in ipotesi. Virtuale, è già. Il futuro (la festa) appena cominciato, è già finito. Più avanzato de La mosca, lo straordinario Cronenberg gemellare di Dead Ringers si confronta con la possibilità impossibile di due tempi diversi e identici in due corpi diversi e identici; un soggeo e due tempi, o due soggei e un tempo? Si muore solo a pensarlo. (Intanto un signore in biciclea, civile, socialista, liberale, garbato, svicola dal
traffico verso il centro isola pedonale: in testa, nascostissima, già è avvenuta la loa di sterminio, vivibile e annusabile ai limiti dell’isola pedonale o in una periferia invernale?) [“il manifesto”, 15 gennaio 1989]
Dal grande al piccolo schermo
Non so bene di cosa stiamo parlando. La cassea (migliaia, milioni di cassee) è lì, lucida e precisa, col suo segreto ben custodito e insieme agevolmente svelato da un leore e da un monitor. Oggeo d’arte “minimale”, nel suo formato oggi più diffuso, il VHS, assomiglia più di altre cassee, come rapporto tra dimensioni, al monolito di 2001: Odissea nello spazio. Serve soprauo a registrare e distribuire e vendere e vedere (ve(n)dere) “film”. Film, cinema, l’oggeo mediale più “anziano” (quasi cent’anni), costituito, formalizzato, il più mitico e insieme il più conosciuto. Naturalmente ci sono i video didaici, i cult-video, i videoconcerti rock o classici, le registrazioni d’annata dei vari generi televisivi, videoarte in tirature limitate. Ma è il cinema, sono i film (incluso quel misto inquietante di “cinema-verità”, film didaico, avanguardia, orrore, che sono i film pornografici hardcore), a rendere luccicante rutilante desiderabile il “tesoro” che chiunque può portarsi a casa. Non credo affao che il film in videocassea visto a casa sia una specie di “bambola gonfiabile”, anche se di nuovo conviene ricordare che la prima esplosione dell’homevideo ha seguito proprio le vie basse del desiderio pornografico, consumabile infine in privato. esta (?) deteatralizzazione ultima è solo un’ulteriore mutazione e trasformazione del cinema, o meglio di quella potentissima miscela di desiderio di finzione o desiderio di simulazione cui il cinema risponde anche nei suoi aspei più documentativi e soprauo quando afferma la sua “verità”. Non so bene di cosa si parla. Non che il rapporto tra cinema e video sia in sé complicato, risultando solo la manifestazione più sofisticata e recente del pluridecennale rapporto tra cinema e televisione. In aesa dell’alta
definizione, e quindi di monitor più grandi, e quindi di uno scarto dimensionale meno violento, descrivere il cinema in video (come in TV) sembra voler dire elencarne i difei: bassa definizione, formato ridoo e spesso deforme, erosione della durata (passando dai 24 a 25 fotogrammi eleronici al secondo, un film dura un venticinquesimo in meno; vediamo un po’ meno Marilyn, un po’ meno Bogart, un po’ meno Fellini Mitchum William Hurt eccetera…) interrompibilità e quindi intermienza della visione. Come già avviene in televisione, questi stessi “difei” aggiungono fascino alla visione; si convertono in possibilità ulteriori. Senza raggiungere i vertici televisivi; dove spesso tra marchi e ricezione scadente e scannamento il film diventa (magari nel cuore della noe) uno straordinario “fantasma” di se stesso e uno spezzone di grande videoarte involontaria, o magari – trapassato da spot, solcato da scrie e annunci – un corpo crocifisso e insieme santificato, anche la visione homevideo permee invenzioni e piaceri più o meno perversi. Lo scanning, operazione che ci può far inorridire, è la riduzione di un film in formato scope o panoramico alle dimensioni più contenute e concentrate del paesaggio televisivo; il film viene praticamente “rifilmato”, cambia l’articolazione delle inquadrature, come se una regia TV si impiantasse sul film diventato un set, uno schermo di se stesso. Muta la forma stessa di quel che si vede, cambia il ritmo, si rende chiaro che il film perde alcune caraeristiche originali, alcune precisioni “formali”, per diventare un’altra cosa. Mentre i film si proieano ancora nei cinema (ma presto forse via satellite e in video altadefinizione, “non-home”), lo stato auale dominante del cinema è proprio la “cosa-video”, la cui aitudine alla manipolazione dei testi filmici può far ricordare quanto essi siano stati da sempre (salvo rarissimi casi di iper-autori) incerti, mutanti, affidati a una serie successiva di “last cut” (“taglio finale”, decisione ultima del montaggio), da quello del produore a quello davvero decisivo (come sostiene William Friedkin) del proiezionista.
Noi stessi poi produciamo di volta in volta tagli e buchi ulteriori nel tessuto dei film. Scordiamo una scena, ne enfatizziamo un’altra, ci inventiamo un particolare, saltiamo una frase, deformiamo un dialogo. Come avviene con i sogni, il film è per noi la risultante provvisoria di cancellazioni fraintendimenti censure divagazioni, proiezioni, salti in avanti, distrazioni. Da molto prima che, portato nell’alveo domestico e sorao alla sacralità colleiva e lievemente concentrazionaria della sala, il film favorisse proprio tecnicamente le nostre interruzioni testuali legate ai ritmi casalinghi di lavoro o alle necessità fisiologiche. Mentre sollecita perversamente o almeno titilla un nostro sentimento di possesso e onnipotenza verso i film, la diffusione del video permee anche operazioni opposte, o almeno permee quella forma estrema di dominio che è la cura, la conservazione dei testi, il restauro delle immagini. Sempre più spesso i cataloghi propongono edizioni “critiche” e “filologiche” di film anche notissimi. Vengono recuperati dagli archivi delle case di produzione scene tagliate, provini, doppi finali. Si cerca e si offre l’originale l’integrale, il paratestuale, il “più lungo”, l’integrità temporale bilancia l’erosione dimensionale. Gadget filologici e accademismi universitari (alcune edizioni americane di classici in videodisco portano su piste diverse colonne sonore originali, doppiaggi, analisi critiche…), optional vendibili, proprio come le versioni “colorizzate” dei classici in bianconero. Colonizzazione, perversa oscena affascinante “democratizzazione” della storia del cinema, lanciata infai (“la gente vede film che non avrebbe mai visto, e poi si vendono molte cassee”) dal tycoon della CNN, Ted Turner. Restauro, altra forma di mutazione. Cortocircuito con l’abbellimento, l’imbelleamento, il trucco. La storia (del cinema) come effeo speciale. Effeo speciale lo è davvero, la storia del cinema vista mediante le videocassee, per chi ha oggi più di venticinque anni. Nel sistema (più o meno) integrato auale, TV-homevideo, il film viene riformato dalla cassea, inserito in un
circuito distributivo di tipo librario e in un’area di consumi “a nicchie”, non più indifferenziati; sorao, infine, alla fantasmagoria fiammeggiante in cui i film si inseguono e rimbalzano da un canale e da una rete TV all’altra, seguendo i capricci dei programmatori ma soprauo del capitaleaudience. Il mercato delle cassee tende a ridimensionare l’afflusso indiscriminato, individua riscopre o impone diverse modalità e funzioni di “visione”, ma aldilà dei numeri è travolto della stessa febbre che ha visto virtualmente “tuo il cinema” (nonostante i ghei streissimi in cui sono stati relegati il muto e l’avanguardia) dilagare in TV, trasudare dalla TV in tuo il mondo. Un fenomeno mai visto nella storia delle arti. Magari sempre accaduto, appunto mai “visto” e verificato. Nello stesso mese, nella stessa seimana, nello stesso giorno, nelle stesse ore, la possibilità premendo un semplice telecomando di immeersi ora in un film western del 1949 che narra una storia svoltasi nel 1887, ora in Roma cià aperta (film “contemporaneo” del dopoguerra), ora in Guerre stellari (film di fantascienza ambientato in tempi futurissimi), ora in Orwell 1984 (film girato nell’anno del titolo, basato quindi su un “futuro raggiunto”), ora su un film australiano del 1988 che racconta una storia del 1910, ora sul seimo ora sull’ultimo film di John Wayne, ora in un western girato nel 1968 in un Lazio che vuole essere il Messico del 1870, ora in un film anni seanta con Redford che interpreta un personaggio anni cinquanta, ora nella scalinata della Corazzata Potëmkin, ora in un Truffaut del 1968, ora nella preistoria di 2001 che poi diventa futuro, ora in Metropolis di Lang a colori (1926, colorato restaurato rimontato popmusicato da Moroder sessant’anni dopo), ora nella sua “replica” che è il Blade Runner di Sco (film di replicanti, trao da un racconto del maestro di tempi sfasati, Philip K. Dick), ora in un musical americano che mee in scena una storia d’amore del cartaginese Annibale, ora di nuovo nelle scalinate di della Corazzata Potëmkin in cui “davvero” il geniale videasta Zbigniew Rybczyński ha immesso – “intarsiato” – dei “cineturisti” di oggi (Steps), ora nello spot pubblicitario girato da Sergio Leone dentro un anfiteatro
romano, ora sul volto di Ingrid Bergman che in Europa ’51 continua a aspeare il suo sublime “tempo senza tempo”. Ora i troppi ritorni al futuro e avanti nel passato del cinema sono già stati e sono già permessi dalla televisione, per poter sostenere che il mercato delle videocassee induce una bibliotechizzazione filmica. “Biblioteca” e “museo” sono già stati saltati e resi babelici e impossibili (nel loro lento sedimentarsi) dalla manifestazione incredibile di pluralità già “trascorsa” sui piccoli schermi. Da essa, lo sappiamo, è addiriura già nato il grande cinema americano di oggi, il misaggio di tempi e modi di Scorsese Coppola Lucas Spielberg Carpenter, le videodromie cronenberghiane, le consapevolezze newwave, perfino gli incubi di Lynch, telefilo più che cinefilo (Twin Peaks dimostra). Sospesi nel troppo presto troppo tardi del futuro, possiamo tui con le nostre videoteche e una handycam emulare Lucas Spielberg che per ogni tipo di scena hanno memorie computerizzate in digitale con centinaia di esempi filmici preesistenti, o immaginare quello che presto potrà avvenire saldando videogioco interaività filologia profanazione e cineambiente, dalle “scatole” di (ri)(s)montaggio o di incrocio e collage di vecchi film alla possibilità di compiere mediante occhiali sensori dei “viaggi” tridimensionali all’interno dei film (già gli esperimenti di Lanier si avvicinano a questo). Si può dire che il gioco e il mercato delle videocassee si inseriscono a loro volta come “passato” in un adesso che già include il loro futuro. Dentro l’interconnessione globale delle immagini delle immagini la videocassea preregistrata viene dopo l’alluvione ramificata e piratesca della “registrazione” personale e casalinga di film, il vero fao rivoluzionario dell’ultimo decennio. Naturalmente il fao che lo scenario in cui dobbiamo pensarci o sentirci sia già quello virtuale e futuro non può farci dimenticare le differenze di qualità nella registrazione, le differenti strategie di mercato, le ridefinizioni o alte definizioni probabili, i diversi orientamenti possibili di una videoteca, e tue le gamme che stanno tra il collezionismo più innocente e la più perversa delle
manipolazioni futuribili e futuriste. Né questa disponibilità di testi e di copie deve far dimenticare che siamo dentro una grande macchina di immagini, da prima che il cinema come fao tecnico e speacolare iniziasse, probabilmente. Vedendo, già rivediamo. La prima volta non è mai la prima, l’ultima non è l’ultima. La prima volta in cui vediamo Sentieri selvaggi in cassea, o TV siamo noi e siamo anche andywarhol che lo riprende e un po’ John Ford che lo riprese. L’ultima volta che vedremo L’Atalante di Jean Vigo (in versione ri-restaurata, naturalmente), forse ci renderemo conto che è l’ultima, un aimo prima di morire ma ormai avremo il sospeo che la vita come il film/nastro si riavvolgerà e svolgerà ancora. Con facilità, nei nostri film dell’orrore preferiti, si è inserita in questi giorni la “guerra del Golfo” registrata e replicata all’infinito nella sua temibile e terribile invisibilità. O forse siamo in platea, speatori, ma già con dei monitor al posto della testa, come i Residents e un clip e uno spot ci hanno già mostrato. Non so allora di cosa stiamo parlando. Se il cinema, anche in queste piccole “cassee”, non sia già il futuro/passato dell’uomo stesso e del mondo. Se il superamento della “cosa” da filmare, nell’immagine sintetica, non sintetizzi il non-luogo e il non-tempo, in cui vive l’immagine. Se la mutazione di essa non sia già mutazione del nostro corpo cyberpunk. Se ciò che resta da vedere non sia proprio quella “cosa” anche virtuale che ci affascina, e ci spinge a guardarla, a “sentirci” mentre la guardiamo, e che “resta” fin dall’inizio, e alla fine anche nella copia video più invisibile e sgranata e squartata. Forse, di fronte a questo (poter) “esserci già”, avevano ragione meno di cent’anni fa i Lumière a definire il cinema un’invenzione senza futuro [in VHS Film guida, Roma, Nuova ERI, 1991]
La passione non ha prezzo
Ogni film povero, come Ruiz insegna, diventa un po’ un film d’avanguardia. La pellicola sta finendo, gli aori devono andare, bisogna saltare dei passaggi previsti, inventare soluzioni economiche di ripresa o di montaggio. Oggi, e sempre, il massimo investimento di chi vuol fare un film è l’entusiasmo, la spesa di sé e del proprio tempo, ovvero la passione e l’amore. Nulla se non l’esistenza del cinema (apparato costituito di produzione e distribuzione, corporazione) può costringere un film a costare tanto o troppo. Certo, si nota subito la mancanza di denaro sul set in certe scene di film giovani (carenza di azione e di movimento, set innaturalmente deserti, non inventati e sfruati in quanto tali, trascuratezza nei ruoli minori…). Più spesso (vedi molti primi o secondi o terzi film italiani) è il contrario: una piccolezza e povertà che avrebbero richiesto la metà o un terzo del budget investito, senza il coraggio di rischiare su aori amici e amanti e poco conosciuti dal pubblico, ma con i quali si può lavorare intensamente a occhi chiusi (è il segreto di Morte di un matematico napoletano di Martone, e quello di tue le Nouvelle Vague; o anche del cinema incredibilmente povero e intenso di un Garrel). Alla fine, il cinema che si può amare è nove volte su dieci quello che non ci fa chiedere “quanto sarà costato”, che non esibisce né in bene né in male il proprio budget (perfino Jurassic Park a un certo punto comincia a sembrare un film modesto, un oimo Serie B). Bisogna domandarsi cosa si vuole dal cinema. Esiste l’orgoglio underground, povero ma con investimenti colossali di sé e di lavoro da parte dell’artista. E c’è il giovane dotatissimo che concepisce i primi esperimenti, gli spot, i video, le sigle, le cose TV, come tappe, più che di
apprendistato, di esibizione del proprio talento, di seduzione di “ricchi” produori. In Italia (sì, vivono a Roma da molti anni e non ce li meritiamo) i più grandi cineasti indipendenti e poveri sono Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, autori di capolavori riconosciuti e amati in tuo il mondo. Non hanno mai concepito il cinema come il luogo (anche) di una carriera professionale, per loro il denaro è solo una triste e orribile “necessità capitalistica” per produrre le immagini, i testi, le visioni, la poesia che vogliono fare. Non si lamentano, anzi rivendicano il privilegio di avere sempre fao il cinema che volevano. Oppure c’è la leggerezza apolide di un Ruiz, più rossellinianamente libero, agile nei compromessi col set, che addiriura confessa di non aver mai potuto fare il film voluto al momento voluto. Infine. La TV e il no-budget. E un genere praticato per esempio da fuori orario, cioè un programma televisivo a sua volta quasi clandestino e quasi no-budget. C’è quasi da vergognarsi a lavorare fuori dal mercato perché ancora (nell’antidiluviana TV nostra e non solo nostra) non c’è quasi un mercato del no-budget. C’è da vergognarsi a oenere per meno di quindici milioni i dirii TV di un bellissimo La morte di Empedocle di Straub-Huillet. Con i quindici milioni promessi per i passaggi fuori orario, Ruiz e i suoi oengono i crediti per fare il loro film in Sicilia; e per la stessa “cifra” (a proposito di Sicilia), quanti cortometraggi dei liberissimi Cinico TV. Per questo (e non solo in TV) credo che le mezze misure non servano. Assurdo produrre tanti (che poi non possono essere più di tanti) film “medi d’autore” da 800 milioni, un miliardo, un miliardo e duecento. Meglio, molto meglio investire poco su molti, moltissimi progei promeenti, da far sviluppare con cura, rapidissimamente o anche molto lentamente. Una pioggia che sa dove cadere (lo spirito poi soffierà dove vuole). O magari molti (produivamente) piccoli e piccolissimi film anche una grande opera di un grande autore sicuro e geniale o perfino ricco e famoso, con un budget che da solo assomma tui gli altri.
[“L’Espresso”, 12 dicembre 1993]
La lotta di classe in una sala di cinema
Di cosa parliamo quando si parla di cinema, (s)fortunatamente non si sa. Parliamo di tuo, di troppo, di troppo poco, soprauo d’altro. Risulta disgraziatamente chiaro di cosa parlino le polemiche infurianti su La vita è bella di Benigni: delle piccole loe di classe che gli intelleuali orfani (tui) della loa di classe conducono per lo smodato bisogno di sentirsi vivi. Triste che una persona come Fofi, di costante militanza “critica”, abbia (ancora) il bisogno di distinguersi più che di distinguere. Malinconico che un intelleuale ex-impegnato come Berardinelli avverta l’impegno di recarsi a malincuore al cinema con tua la famiglia, per poter alzare le sopracciglia e sentirsi diverso. Più onesto e divertente “Il Foglio”: non “vede” il film e se la prende con l’aura politico-mediatica di esso, ospitando ahimè interventi non all’altezza di tanta sprezzatura e giusta ribalderia. “Giusta”: il consenso preventivo e poi automatico sul film è stato impressionante, più di quello conquistato a suon di incassi dal ciclone Pieraccioni (o, per essere più caivi, dall’accoppiata Pieraccioni-Virzì), e più ideologiconatalizio, più “importante” (dal paludato Asor Rosa alla palude degli interventi acritici o del conformismo del cuore) in nome di una perfea agognata e chapliniana riconciliazione tra risata e impegno (eccetera: ennesimo segno, si dice, con i teatri pieni e con l’insuccesso di Fantastico, che gli italiani “migliorano”…). Cinico quindi il pur impeccabile spazientirsi di Michele Serra per gli spazientimenti della scolaresca indisciplinata di fronte alla scarsa “classe” di cotanto consenso/impegno/campagna. Anche perché il “valore Benigni” (o quello “Fo”; insomma i nobili innocui caivissimi giullari) sembra diventato l’ultimo codino, cui perfino i più rinomati fustigatori si aggrappano per non cadere, esaltando il sano in braccio a D’Alema
preeleorale. E l’intervento al TG1, e Biagi…; il saldarsi di uno stile di élite popolare (invece che di un’autonomia, di un’indipendenza o di una utopica “comunità comica”…). Ma non si traa né di cinema né di TV. I reciproci fastidi della diatriba intelleualgiornalistica, scontata l’aristocratica ripulsa per il consenso massoso (massiccio gassoso) tradiscono il medesimo impaccio, la miopia ideologica di fronte alla posta filmica ingente messa in gioco da Benigni. L’esaltazione o l’esecrazione per il grande comico che ha il coraggio o si permee di spostarsi sul terreno di Primo Levi, il lager. (Nessuna polemica, nessuna prima pagina, nessuna stroncatura senza lager). In un caso, il regista diventa bravissimo e lodevole perché si adora il vitello grasso dell’impegno divertente. Nell’altro, appassionati di cinema si strappano gli occhi dicendo “modesta regia” (lo si è deo spesso per l’immenso Chaplin…). Spiace che sfugga il modo geniale in cui il film si pone dentro quel formidabile e fragile “indistinto” che è il cinema (come non è apparso fino a oggi quanto sia colto e trasparente e bruciato da sempre il cinema di Benigni, straordinario quasi quanto quello del sublime Troisi). Programmatico (meiamo in scena la situazione più impossibile per un film comico), irritante (aento), sorvegliato, blindato nella sceneggiatura e nelle citazioni (Troisi Chaplin Rossellini Wilder Edwards Lubitsch Totò Lewis Marx Laurel e Hardy…). E caivo. Altro che arruolamento d’ufficio nelle truppe dell’abbracchio (abbraccio all’abbacchio) newage vecchiaroma. La vita è bella, con la sua irrefrenabile lentezza da grande commedia romantica, è l’evidenza perversa del Witz (il moo di spirito, il gioco di parole) dentro Auschwitz. Muore il padre (più crudelmente che in Bambi), in uno stupendo fulmineo fuoricampo, perché il figlio possa sognare/vivere. E nel fermofotogramma lietofinale la madre ha i denti brui. E quegli indovinelli, quei giochi assillanti non sono evasione, non aiutano a uscire dal campo. Sono invasione, loa di classe, rivolta o sterminio mentale, linguaggio come gioco e come virus. E il popolarissimo Benigni for president fugge da sé, dal proprio corpo, resta o diventa marionea, pinocchio che dice bugie
vere Chaplin spielberghiano (il lager è la vita è sogno è…). Salta con amore nel vuoto di Cronenberg Ballard Burroughs, tocca l’energia nascosta nel cinema senza regia alla Men in Black incrociando il comploo pynchoniano, corre sull’autostrada perduta dal möbiusano Lynch, vede la dissoluzione di sé nella fossa/fotogramma de Il sapore della ciliegia. Intravede l’auroralità “disastrosa” del Titanic, noi che ci immergiamo (affondiamo o nuotiamo) nella nuova immagine. [“la Repubblica”, 13 gennaio 1998]
lost highway to Auschwitz
Annunciato da quel grande film disperatamente politico che è Fuga da Los Angeles di Carpenter, chiuso dal suo gemello e Second Civil War di Dante, il 1997 sembra esser stato l’anno dei fuochi d’artificio. Troppo forte, da parere artificiosa, la casualità con cui in Italia si sono incrociati nel tempo e nel titolo lo spazio italico ipertipico di Pieraccioni e il nonluogo del cinema di Kitano. Non ha bisogno di essere “internazionale”, il cinema di pieraccioni, non ha bisogno di essere cinema. Si accontenta tristemente dei suoi titoli assoluti e quasi sublimi nella loro perfea incongruità. Nulla del ciclone (grandezza di Twister), nulla del fuoco d’artificio, se non negli incassi. Una bolla d’aria, di vuoto di cinema, che nei cinema si posa di tanto in tanto, in un paese o nell’altro, sorprendente e a suo modo magica. E sappiamo (come per tui i grandi successi di massa) che in queste bolle irrilevanti è nascosto un mistero mai trascurabile, quello del desiderio, lo stesso desiderio per cui altri o gli stessi vanno a vedere o vedono i film di Kitano Lynch Cronenberg Tarantino Woo Martone De Bernardi Egoyan Lumière. Nel fuoco dell’artificio sta il nesso artificioso dei due film. Fuoco d’artificio, unica “arte” del dopo-Auschwitz già secondo Adorno, aa a dissolversi nell’ao stesso di esibirsi e di creder d’esistere. E il fuoco della visione, il punto di desiderio, è vicinissimo alla filosofia postumana (così supinamente temuta e criticata) degli effei speciali dei grandi film fuochi d’artificio (da Twister a Vulcano, dalla nonregia di Men in Black all’acqua finta di Titanic); film, come quelli comici (superbamente automatici), come tui i grandi successi dell’oggi, che vengono rivisti più volte, in una coazione a rivedere spesso definita infantile o passiva, e invece in evidente insoddisfaa ricerca di qualcosa, o della
“cosa” che il cinemacchina e l’occhiocervello nostro hanno già trovato, e si cela lì, velocissimamente comunicante con noi ma in aesa della nostra comunanza. Per nulla intaccato, Pieraccioni, dalla domanda analitica posta parodisticamente all’inizio (e che regala peraltro, nel suo biancore di assenza tropicale, l’unico momento visivamente non piao del film), a differenza del grande cinema comicoanalitico di Troisi. Nessuna scissione. E nessuna scissione evidente nel cinema di Kitano. Forse perché è già l’esito lucidissimo e tesissimo (il cinema più teso che si sia visto nella fine millennio del secolo cinema, ovvero dell’oriente dell’occidente) di una scissione praticata all’estremo: la star televisiva e l’aore comico, il buffone divino più noto dello speacolo giapponese, che, scontata e scontando la popolarità televisiva immensa, da qualche anno si dedica a un cinema concentrato e rarefao insieme, privatissimo e “alto” per quanto esercitato su generi mainstream (il poliziesco, il mélo); film poco visti in Giappone, quasi ignoti, poi a spasso in qualche festival internazionale o in leerali fuoriorario televisivi e infine di culto lì, fuori dalla propria “cultura”. Così, l’incontestabile e incontestato Leone d’Oro veneziano a Hana-bi riazzera irride toglie il fiato al discorso “evolutivo” del cinema. Sublime galleria che pare a ogni angolo ridarsi un frame diverso incontrando (senza bisogno esplicito di conoscerli o averli conosciuti) altri sguardi, riconoscendoli, i lang melville antonioni bresson siegel fuller kubrick, statico velocissimo ride araverso la profondità dell’immagine fissa che si muove non perché panoramica o qualcuno vi corre dentro ma perché trema e vibra di un tempo interno con cui loa (oh! tenerezza del coinvolgente parodistico agitarsi wongkarwaiano). Mentre pieraccioni non tenta neppure di smarcarsi dalla televisione, di esserne altro, tanto è lo stesso nonformato TV che non ha neanche bisogno di rompere benignescamente in esso a farsi pubblicità. È, onestamente, “pubblicità” e televisione (toscoleghistaulivista, arcitipica intaa archetipica, da Campanile sera). Vederli, questi due film con lo stesso nome, non siamo noi che li vediamo; né lo specchio,
vuoto e inesistente più che araversato, cornice vuota (fratel)marxiana mediante la quale i due “fuochi” si guardano simmetricamente ma non si rispecchiano. Forse li vede Face/Off di John Woo. (O li vedeva già lo straordinario Heat di Michael Mann. Ma lì, come nell’Anno del dragone di Cimino o nelle noi senza fini che si dipanano tra western e noir o in westernoir almeno da Pursued (e da Anthony Mann) in poi, con sguardo classicomoderno per cui il doppio è lo stesso, mutazione di sé; mentre nell’oggi definitivamente postfilmico, nel tramonto aurorale, sono i molti mutanti a dare insieme un possibile sé, è la scissione la forma delle forme, si è riconosciuti scissi dal e nel cinema stesso, prima manifestazione tecnica del mondo come scissione gemmata. Il trascinarsi più o meno potente e sconnesso, dei nastri e delle bobine telefilmiche, in mille rocchei infinitamente paralleli, ci ha già abituati a sentire il tempo come un gigantesco palindromo, un film cui solo la propria catastrofe/riavvolgimento permee o accende un’ipotesi di senso. Per cui è particolarmente assurdo – quanto pateticamente necessario – che nuotiamo tra i titoli e i nomi dell’oggi quando proprio il cinema archeologizza qualunque aualità, slontana ogni set, ogni hic et nunc). Ma ancor più teorico e preciso nell’allucinazione realista, senza più ombra di genere (e infai sono grandissimi film celibi, pietre o piante morte che gemmano e non generano, gli ultimi cronenberg post burroughs e i lynch) è Lost Highway di Lynch, maledeo e maldistribuito (in Italia nondistribuito, dopo quasi un anno, dagli stessi distributori di benigni e pieraccioni). Nel cinema stesso, già identificato come globale nonluogo e terra incognita, twinpeaks immaginario sospeso da un secolo tra sguardo e soggeo, l’autostrada perduta trova le facce scambiate di john w(h)o(o) incarnate dal progeo kitano. Nastro di Möbius dichiarato, Lost Highway si rivela, lontano dal pubblico come un asteroide finché non collide, una porzione fraale della palindromia del tempo, scisso a ogni istante, sempre almeno bilocato, lì e in un altro luogo/tempo, sfuggendo a un set che non sia l’astrazione speacolare concretizzata in Hollywood o il deserto. Sulla pista perduta, il
tempo accelerato fino all’immobilismo che stiamo vivendo, ci porta a raggiungere i nostri fantasmi; la velocità dell’immagine presente (il suo quantum di informazione) spacca il presente dell’immagine in infinite scissioni compresenti e subliminali, come se l’immagine fosse in sé un sincrotrone, un acceleratore di particelle. Non a caso il neocristiano e postangelico Wenders, parlando (a Parma, a dicembre) del suo e End of Violence (un altro film “finale”, un altro film con Bill Pullman, un altro film Ciby 2000… un altro film con difficoltà a chiudersi e a mostrarsi), tenta di saltare il problema delle immagini, della loro forma, del loro montaggio, della loro “diabolica” pluralità; e, lui, il callivisivo automatico e eccellente, invita a andare oltre le immagini, a considerarle solo in sé (in noi) stessi, per quel che diventano contaminate da noi. E fugge, alla domanda se infine il virtuale digitale non ci faccia davvero sentire la realtà come quel che da sempre ci manca, ribadendo “la realtà esiste solo se è amore”, e aggiungendo l’antico timore ingenuo da artista/autore verso il controllo mabuseo delle reti di immagini, delle immagini non viste da occhio umano ma che ci vedono. Non meno scisso e postumano di Lost Highway o di Crash, doppio all’ennesima potenza, è La vita è bella di Benigni. Armato e corazzato (era già così nei bellissimi film precedenti di Benigni ma in modo meno evidente trasparente dichiarato) di sapienza e di citazioni (Troisi, Chaplin come incudine primaria, e poi edwards wilder jerrylewis lubitsch rossellini…) La vita è bella si sdoppia esemplarmente in commedia e tragedia, in dramma sentimentale e gioco di parole, in provincia e universo concentrato e concentrazionario, in prepotenza (popolare) e sparizione (la sublime fulminea morte fuoricampo) del corpo e del soggeo. Entra tra bertolucci e pieraccioni, in una Arezzo di pietra serena vicina alla provincia genialmente guidoriccianamente inventata da Io ballo da sola (film scambiato e magari pensato come estenuato oleografico aristocratico languore buonista; in effei, siderante crudele favola politica sulla prossima Italia disneyland culturale). Sorvegliato e circospeo appunto, come un carro armato che entri incredulo in un
campo di sterminio, La vita è bella uccide in un baleno il padre perché il sogno possa compiersi e analizzarsi. Non è mai selvaggio, ma riesce a superare la “nobiltà” evidente e proteiva del tema con lo spietato rigore speacolare e “hollywoodiano” (alla Schindler’s List) del gioco. Il gioco di parole (o di altri segni) non cambia il mondo, è il mondo. Il Witz è (in) Auschwitz (anche se si poteva pensare che ormai fosse impossibile). Il prima (la prima parte del film) è già dopo. La vita bella è già (può essere il comploo pynchoniano di un pazzo o di un buffone o di una sea di malefici benefici benigni troisi o di “uomini in nero”, prima del campo di concentramento e sterminio. E più volte (prima che lo dica srotolando il tappeto rosso per Nicolea Braschi) in virtù di scriura e citazioni benigni si impiglia e si infila in fatali coincidenze come in strappi nel tessuto del sogno o in rifugi prodoi dalle sconnessioni stesse del nastro/film/vita/highway e collocate in esse. Si aende intanto (e lui vi aende) il gran film del più allucinato maestro dell’allucinazione di realtà, che rinvia o include il più volte progeato A.I. (Intelligenza Artificiale). Il Doppio sogno di Kubrick da Schnitzler, a sua volta a lungo sognato. ello stesso sogno identico, che io e te da tanto sogniamo, senza riuscire a ricordarcelo (prima che il tempo finisca o (s)cada). [rubrica dark passage/evisioni, “[duel]”, 57, gennaio-febbraio 1998]
Fiction and affliction
Andresti a cercare in negozio o videoteca Seminole di Budd Boeicher o anche Il Padrino – Parte II di Coppola, se non per una sciocca conferenza o per sanare un dubbio (vincere una scommessa?)…? Non so tu, sono io che non andrei, già angariato dal sapere che si dimentica è sempre più abbandonato dal non sapere che si ricorda. Bastano, a erodere il godimento della memoria dell’istante (selvaggiamente rivelatrice e fallace) del cinema, a ingolfare e a inceppare la tua enciclopedia neuronale, i festival (tui così ingessati da un’unica zebratura che fa circolare sempre le mille solite garantite piccole grandi modeste bellissime cose) e le riviste i magazine i première i libri i programmi TV le segnalazioni degli amici. Tua un’economia del tempo, che comincia a non apparirti più un gorgo concentrico e smarginato come il cinema e come un film se provi davvero un aimo a guardarlo, ma limitato e chiuso come un film quando ne cronometri la durata, si rovescia su di te, aorce il tuo film che già si sente più freddo e fragile e si dispone a perdersi e a lasciarsi scivolare via (il tempo) come una boiglia di Möbius. Non calcoli, ma automaticamente preferisci godere un abbraccio solo d’occhi con una figlia che non avrà più quegli occhi (anche un po’ rabbiosi perché in quel momento vorrebbe essere altrove o con altri), o andare a quel concerto, piuosto che tentare al cinema quel film che ti appare melenso dal trailer, segnato da volti cui non dai il tempo di diventar mito accogliendo le tue aure, insopportabile già a sentirne altrui lodi o descrizioni. Allora, a farti perdere finalmente tempo, non nel fartelo stanziare nel piacerino piccolo borghese della cassea (cd laser dvd…) con un film “che dura solo centododici minuti”, arriva Seminole. Visto
tanti anni prima nei sentieri selvaggi dell’ultracinefilia clubistica genovese, naturalmente te lo ricordi in biancoenero anche se sai che è a colori (ma certo lo era, in biancoenero, quella copia). Per una volta, al vago desiderio acceso qualche giorno prima dal titolo scorto su una lista di programmi TV, riesce ad accoppiarsi la casualità di una domenica pigra, forse la moto non partiva e sei bloccato in casa, ti torna il titolo in una brezza di sospeo, accendi TMC e il film comincia, titoli di testa. Hai perfino l’ardire di rispondere “ci sentiamo più tardi che c’è seminole di boeicher?” a danièle huillet che chiama con jean-marie. Il resto non si dice, perché il film, uno dei più concentrati ma anche dei più complicati e politici di Boeicher, cambia mondi e set e amori e dirii e violenza e tenerezza ogni tre minuti, proponendo (la luce è di lucien ballard) nourni paludosi e sensuosi dove si capisce subito quello che alla luce del giorno non appare: tui desiderano tui e tuo, e l’invenzione del tempo si occuperà di distribuire e uccidere l’amore. Il resto non si dice, dicevo, perché ci vorrebbe una rivista intera se le riviste esistessero, e presto scompare il frigorifero bianco su cui sta il piccolissimo schermo, e gli intervalli pubblicitari sono avvallamenti necessari quasi in un diagramma di aenzione e intensità, e il film sta lì più preciso e nitido e vividamente e classicamente prigioniero di un capolavoro in un museo. E se in una noe di fineluglio in montagna troppo caldo troppo tardi sono intermiente, accendi verso mezzanoe cercando del calcio su Italia Uno trovi e provi in una pausa un film che hai visto varie volte troppo amandolo, Il Padrino – Parte II, e immediatamente diventa parte ennesima, o visione numero zero… inaeso, non voluto e non cercato, già “visto” già saputo, interroo da lunghissimi bocconi pubblicitari (ti fai quasi tre video su MTV, e poi manchi di due secondi il riinizio…), mortificato da un televisorino d’albergheo; ci precipiti dentro, senza nessuna voglia, e alle due sei ancora lì, svelto e torpido, aento e divelto per quanto ti può svellere questa non dichiarata sinfonia di morte (hai appena intravisto in una didascalia di foto su “Variety” che Coppola pensa quello che tu banalmente pensi dell’ultimo kubrick: è
un film sulla morte…) che non il ritmo della mafia racconta ma il tentativo di sfuggire alla morte con la morte, alla società con la società, alla violenza del capitale con la violenza fisica, e di nuovo alla morte con la piccola morte shahrazadica del cinema. O è il film a colarti dentro di nuovo, a ricordartisi in cuore per quanto l’avevi dimenticato. Il tuffo improvviso nella passività aiva la visione e ne incalza la pigrizia, devi nuotare galleggiare. Trovi parte dell’abbandono nel buio al grande schermo cui spesso ti recasti o ti rechi scegliendo nel cinema l’elaborato rito dell’aesa passiva di quel massaggio. L’opera nero coppoliana raccolta nel suo esserci per caso, lontano dal mito piccino dello speatore/leore che sceglie deve vuole sa cosa vedere, ti riavvicina a ciò cui mai sei (stato?) vicino, l’esser lontano e vicino insieme, in orbita insieme a un occhio che ti vede, a contemplare la sua contemplazione sentendo con tuo il corpo la fisicità vetrosa astraa fragile casuale implacabile di un altro occhio. 131 – We are the earth; and they, / Like moles within us, heave, and cast about: / And till they foot and clutch their prey, / ey never cool, much less give out. / No smith can make such locks but they have keyes: / Closets are halls to them; and hearts, high-wayes. // Only an open breast / Doth shut them out, so that they cannot enter; / Or, if they enter, cannot rest, / But quickly seek some new adventure. / Smooth open hearts no fastning have; but fiction / Doth give a hold and handle to affliction. (… // Soltanto un peo aperto / li chiude fuori in modo che non possano entrare / o, se entrano, non possono restarvi, / e cercan subito nuove avventure. / I chiari cuori aperti sono senza barriere: / la finzione offre presa e appiglio all’afflizione. – Da Confession di George Herbert, traduzione di Maura Del Serra). 137 – Non poteva mancare all’appuntamento con il proprio titolo. Infai manca, confermandolo. EYES WIDE SHUT. L’occhio spalancato sbarrato di Alex. Il più costante e radicale esercizio della regia/messa in scena come messa a morte. In tui i suoi film l’ossessione del controllo coincide
assolutamente con la pulsione di morte. Se qualcosa morì perché nascesse il cinema, se qualcosa muore sempre sul set perché nascano i film, l’ossessione (impossibile dirla “magnifica”?) di Stanley Kubrick è sempre stata quella di far collimare la piccola e la grande morte sapendo (di) assumersi nello speacolo la parte del boia. La parte improbabile di quello che sa chi e cosa va messo a morte. Impressiona, in Eyes Wide Shut (film cui leeralmente solo la morte e l’incompiutezza pubblicitaria sul “cut” e sulla “mask” censoria conferiscono larga visibilità) la precisione con cui si incontrano Shining e Arancia meccanica (oppure, infine, Kubrick e, via Schnitzler, l’Ophüls di La Ronde ma anche quello di Le Plaisir di cui questo film è il rovescio) a mostrare – forse in via definitiva – quanto bruci la freddezza (quasi tuo il cinema più in voga oggi, a parte un’impossibile linea Cronenberg Lynch Kitano Dumont, si affanna a dimostrare il contrario nella sua a volte pur splendida e toccante vivacità), quanto non sia lo speacolo (il voyeurismo) metafora della vita ma sia invece sempre più difficile non sentire presentire (dis-sentire) il contrario. Il sesso come differenza e ripetizione diventa la danza macabra di due ballerini postcartesiani in cui anche il lussureggiante onirico si conferma sempre lo stesso doppio sogno. (Ma di questo infine si postoccupa anche Star Trek, e il cinema da cent’anni sta lì a dirci che il doppiosogno ci è già accaduto, e il fantasma di immortalità che ci anima o aira è (credi di poter entrare) nell’occhio di chi vede il déjà vu.) 177 – La Luna, l’orma sulla luna trent’anni dopo. Il problema era che già allora fu “dopo”, fu una celebrazione dello sguardo in orbita, della terra vista dalla luna, mentre già il nostro occhio voleva andar fuoriorbita, reclamava parole non fai. Toccante la visione della “sala di controllo” a Houston; avventura soo controllo, emozione a terra dove è il set più flagrante. Torri e sale di controllo (Kubrick non volava dopo averne visitata una), e l’immagine out of control. L’immagine è l’astronave batiscafo, ci si può solo salire, anzi è un’enterprise sulla quale siamo già immersi in volo, orientati da sensori che ci sfuggono. Resta fortissimo infai non il
videotechnicolor delle immagini che non si videro allora, ma il bianconero laiginoso più truccato di un méliès di quella che fu l’immagine lumière della luna; la sagoma ballonzolante e scafandrata di un fantasma trasparente come il trabiccolo da cui era sceso, amalgamato sovrimpresso al nero dell’orizzonte e al biancastro del terreno. Nella bassa definizione l’unica cosa a fuoco pareva la appena dissolta aura lunare. 107 – Copia integra di La ragazza in vetrina a Bologna, a miracol mostrare. Film magnifico, folgorante nel passaggio dall’erotismo cupo che è la miniera (corpi sudati quasi nudi che penetrano strisciano scavano lavorano duro si rannicchiano e riposano o muoiono dentro il gran corpo della terra che ogni altra visione occlude) alla doppia trasparenza – non meno rinchiudente – della vetrina e degli occhi di Marina Vlady. 173 – Per lo stesso motivo (…) invidio l’amico Teo Mora che decide o accea di aggiornare la sua mitica Storia del cinema dell’orrore per Fanucci: dopo un intervallo di vent’anni in cui non ha più visto un film (non solo un horror…), per scelta e disamore. Un vuoto da colmare con un esercizio a vuoto, zen o loyolano. Volti incontrati per la prima volta, nomi senza storia, icone conosciute finora solo per caso o per titoli di cronaca. Archeologo che visita e misura siti già scavati, sorvola sguardi millenari e istantanei con codici del proprio presente passato. Ritorno oltraggioso al pianeta silenzioso. 133 – MTV. La tengo spesso accesa. Come sempre nel cinema musicale, ammutolendola la vedi, e ne vedi proprio la sostanza di canzone, di utopia del song (il cinema musicale è il cinema più muto che ci sia). E vedi le frecce che oscurano qualunque cosa. Non l’eccesso di tagli (che poi non regge mai fino in fondo il proprio parossismo; così fosse, almeno…), lo sfrenarsi del montaggio fino a infrenarsi. Piuosto, l’accumulo di sguardi tagliati, interroi, mai sostenuti fino in fondo o fino a un fondo o fino al fondo degli occhi. Ogni stacco, una morte possibile, una caduta uno schianto e l’oblio istantaneo; la morte come ininterroa galleria di specchi.
Educazione alla morte. Giaculatoria che le figlie guardano con la giusta disincantata aenzione di chi non vorrebbe mai chiudere gli occhi o mai aprirli; e invece sta lì, nell’intermienza come noi. 191 – Rabbia ogni volta che sento Rohmer inquadrato da molti in un incantevole minimalismo o nella galleria mitologica di una nouvelle vague postuma. Non vi è forse impresa più colossale e sfrontata e (non) candidamente dichiarata di quella che cerca di trovare e filmare l’istante del raggio verde o dell’aimo di silenzio degli animali tra il giorno e la noe (Reinee e Mirabelle). C’è più spinta estrema e quasi didascalicamente d’avanguardia, sfida alla morte nell’acceazione e nell’aesa stoica e folle di quell’unico fotogramma invisibile inaudibile… che… [rubrica dark passage/evisioni, “[duel]”, 72, agosto 1999]
Paviglianiti e Arcidiacono, famosi per 15 secondi
Il cinema funziona a volte (rispeo al ciclo continuo “digitale” della ruota televisiva) come un quadrante d’orologio vuoto sul quale appaiono a intervalli regolari le lancee/falci che indicano sparizioni virtuali. Muore in questi giorni a novant’anni Claire Trevor, la prostituta gentile di Ombre rosse. Stupore che fosse ancora viva. Reminiscenza d’averla vista tre noi prima in Key Largo/L’isola di corallo di Huston con Bogart sullo schermo laiginoso di una piccola emiente locale. Film strappati al nontempo dell’altromondo in cui galleggiano, e riportati al loro ambiguo perfeo stato di tempo cronologico registrato; quel giorno, quell’anno. Persone personaggi volti riportati lì e solo lì, ma insieme riproieati (proprio da questo annuncio di interruzione del loro stare e peregrinare al mondo) nell’infinito nastro “a eternità ripetuta” di quella “vita evocata” di cui i film (le immagini) per accecanti che siano (e proprio in quanto accecanti) sembrano affioramenti e abbozzi. Allora, cosa accade quando telefona Franco Maresco (il geniale autore, insieme con Daniele Ciprì, delle strisce schegge irruzioni di Cinico TV e dei film Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte) per dirmi che “Paviglianiti è morto”? Da poco; lo cercava da tempo, pare sia morto da un paio di seimane, no, non al canile dove viveva… stava male di cuore, forse. Penso subito che non ne ricordo o proprio non ne so il nome completo. Troppo legato, come altri “monumenti cinici” (Marcello, il ciclista, il signor Giordano, i fratelli Abbate…) e ancor più di essi, a un’eccezionalità o particolarità fisiologica, rinforzata dalla bellezza lunare e retoricamente sublime della luce di Ciprì e Maresco, per essere solo o addiriura un nome e un cognome. Ricordate,
quel grasso immenso dalla pancia quasi sempre nuda, lo sguardo acuto e ebete di un filosofo cinico, l’andatura ballonzolante, l’abbandono pantagruelico e povero al cibo, la replica diventata famosa alle domande provenienti dal fuoricampo: “Certamente…!”. E soprauo il tranquillo ricorso al linguaggio, materialissimo e etereo del corpo: rui, flatulenze. Proprio una sua performance del genere, tenerissima, sostituiva il bue e l’asinello nel riscaldare il bambinello in un magnifico tableau vivant natalizio del presepe cinico, in onda quaro anni fa e rinviato a giudizio dopo una denuncia per “vilipendio della religione caolica”. Mi torna in mente subito un’altra scomparsa non dea, neanche affiorata ai media, neppur sfiorata e quindi mai dimenticata dalla memoria. Antonino Arcidiacono. ’Ntoni. La terra trema. Il protagonista… Faccia bellissima voluta da Visconti per quel suo capolavoro impossibile e fallito, utopia di iperrealismo piorico, canto alla fragilità dei sogni d’autore più che alla vita ai luoghi alla miseria alla luce alla voce dei pescatori di Aci Trezza. È morto poco meno di un anno fa, ’Ntoni, prima dell’estate, convalescente dopo un’operazione al cuore. Lo seppi telefonando a casa sua per riprendere il filo di un lavoro di “archeologia del set” per un film televisivo, Falsi ritorni, girato nell’estate del 1983 ad Aci Trezza da Michele Mancini e da me, e ancora (oggi) da terminare. (Un tentativo di rintracciare le tracce dell’immaginario-cinema sul set, la mutazione diversa indoa nei luoghi e nelle persone, in quel caso particolarmente flagrante, dopo che i see mesi di riprese del 1947 avevano lasciato una memoria intensa e anzi un “a memoria”: le decine di persone/personaggi – nessuno aore – ricordavano tue la loro parte, come una preghiera, una giaculatoria…). Ci era parso fiero del film e insieme rabbioso per essere stato lasciato lì. Entrato nella luce del cinema e subito nel cono d’ombra, in aesa vana di consumarsi su altri set, sfiorati un istante quando in viaggio di nozze incrociò con la moglie le riprese di Senso… la baaglia di Custoza… “Il signor Visconti mi fece indossare una divisa da soldato… in una scena dovrei
esserci…” “… Ma abbiano sperato per tanti anni, che ci chiamasse… invece…”. Nel nostro film lo facevamo girare, vestito con la maglia a righe sdrucite de La terra trema, in cerca affannosa di Nedda (la donna che l’interpretava era nel fraempo emigrata in Australia), fino a abbracciarne e baciarne la sagoma fotografica in cartone, per terra in un ristorante costruito sugli scogli dove era stata girata nel 1947 la scena d’amore. Verrebbe da dire, come nell’epigrafe alla fine di Barry Lyndon, che ora sono tui uguali, divi e comparse, stelle e aori presi dalla strada per un solo film o per essere statue enigmatiche strisciate in TV. Ma non è vero. Il divo guarda in faccia il diavolo mentre gli vende l’anima e in essa vede la propria che gli vende l’anima del cinema, l’incalcolabile accrescimento di “valore”, la circolazione istantanea, l’invecchiamento d’esser sempre se stessi e un altro, forma riconoscibile nel gregge, doppiamente marchiata a fuoco. L’aore più o meno stolidamente o lucidamente paeggia le proprie traieorie e i ruoli, loando nel mercato dei segni e dei volti interscambiabili per aggiungere e rubare un trao più personale. I Paviglianiti e gli Arcidiacono, stelle bruciate subito, sono quelli che danno tuo (e sono tui/noi…) al cinema e che insieme ne irridono il contrao mentre vengono irrisi dai contrai. Sono loro a marchiare a fuoco il cinema, i soli a porsi sul piano della sua mai placata automaticità onnivora. Spiati o istruiti, amati o ingannati, casualmente interceati o coccolati con complicità, ingenuamente aoriali o raffinatamente animali, c’è nel coincidere raro di un trao della loro vita con la macchina mediante la quale si pretende di rubarli e eternarli, in un’intensità rituale molto lontana dal telewarholiano “famosi per quindici secondi” (eppure anche lì, quanti militi ignoti…), un abbandono che per quell’eterno istante li fa santi. [“La Stampa”, 28 aprile 2000]
I vivi e i morti
Era previsto Ghost (il film) l’altrasera, sul canale Mediaset che avrebbe voluto ospitare il faccia a faccia postultimo Berlusconi/Prodi, poi derubricato a faccia a faccia tra Berlusconi e se stesso, infine annullato (il titolo del programma sarebbe stato Terra, all’apparenza più terreno e meno sperale). ei loro incontri non è il titolo dei duelli tra i leader del centrosinistra e del centrodestra che si son potuti vedere negli scorsi giorni in TV. Sono le ultime parole dell’unico dialogo con Leucò di Cesare Pavese, che chiudono (prima di un’immagine, cielo secato da un cavo, che non è il rovescio del pugno chiuso e abbandonato, vinto dalla forza di gravità della (solita) Storia del capitale, di Umiliati) e intitolano l’ultimo film, dei più grandi cineasti “italiani” viventi. Stupendo titolo, nostalgia non di un’origine ma della lontananza di ogni ipotetico presente, in una distanza che è il presente. Nostalgia dell’umano (sola presenza acceabile e non inumana di esso?). Di un calore, di una luce che par sempre lì, vicina e imprendibile a un iperbolico “tiro di schioppo”. Un film raro, ostinato fantasma, si autodistribuisce in poche sale, gesto soile radicale che solo una persona come Franco Baiato osa scandalosamente permeersi, senza che nessuno si strappi le vesti o gli occhi. Musikanten, titolo esotico semplice quasi come II caimano. I finali dei film di Baiato e di Morei rinviano quasi in rima alla stessa ombra sulfurea di sospensione totalitaria della democrazia. La drammatica “mancanza di cinema” (o il mancare al cinema) moreiana rischia (“simpaticamente” evocando tua una tribù dell’autocompiacimento “comunicativo”) di soffocare la filigrana forte del film, che “tui” siano possano essere “berlusconi”, fino all’assunzione
di ciò da parte dell’autore, più trionfante che doloroso, più egotico che autocritico. In Baiato, la figura intermedia (tra terra e cielo) dell’artista (ludovico van b.) viene invece costantemente lacerata trafia spostata nella sua immensità fantomatica, specie per mezzo di sguardi “video” low-fi, di intrusioni e trasalimenti videosonori improvvisi, che non evocano altri “soggei” riconoscibili ma la presenza diffusa di infiniti “spiriti con la Macchina da presa” e il misterioso sussultare di disturbi di frequenza, punture di déjà vu. Sorprende ritrovarle, queste frequenze di visioni altre dilaganti (solo in avvio “giustificate” da videocamere amatoriali e di sorveglianza), in un film di set siciliano (anzi “ciprìmareschiano”, tanto i due cineasti sono apertamente e magari involontariamente tallonati e citati), il magnifico Il regista di matrimoni, che mi pare nel presente il capolavoro e la cosa più disperatamente complessa di Marco Bellocchio. Bellocchio mee in campo l’opacità e l’ousità esibita del “regista” protagonista Castellio (sideralmente superiore rispeo a qualunque sua presenza precedente) talentuosa sensibilissima automatica “macchina/cinema”. È un campo di arazioni e scissioni intricate, dove il regista è “tui i personaggi” e tui i registi di tui i cinemi. È nitida l’operazione che il cinema è sempre, per questo così impervia da far propria se mai lo può essere: nello stesso spazio di colpo render morti i vivi e far vivere il morto. Film politico impietoso senza bisogno di citare silvio b. L’Italia paese comandato indirizzato dai “morti” (vedi ancora l’instantmovie terrificante di Tommy). I promessi sposi, “tradizione” culturale, promessa faa per essere tradita e smentita. Regista di matrimoni, di situazioni rituali di cui non è autore. Da cui uscire fingendo di farlo, trovandosi cinema, essendo “qui” e “là”, assenti/presenti dappertuo. (Scrivo a pochi metri dal geniale cineasta di sinistra anarchica Roger Corman. Autore di un’intera altrahollywood, smisurato straordinario mosaiCorman. Omaggiato a Poggibonsi nei suoi splendidi oantanni. Preoccupato dalla
situazione italiana, il regista de L’uomo dagli occhi a raggi X, uno dei film estremi sull’invisibilità della trasparenza-cinema, sentendo della traduzione del “vangelo di Giuda Iscariota”, rammenta un soggeo suo amato per un film cui tiene, racconto di un tentativo di “clonare Dio”). esto non è un appello al v(u)oto. Appello al vuoto Corman. [“il manifesto”, 9 aprile 2006]
Scala senza scala
Soffoco facilmente il senso di colpa per l’abituale rinvio della visione di quasi tui i film italiani (romanzi popolari o solinghi diari che siano) alle sale e salee dei festival internazionali, specialmente quelle dei “mercati”. Se vedo la cosa da fuori, mi pare anzi di promuoverli, situandoli nel fuoco freddo in cui si incrociano gli sguardi i commerci le curiosità di tuo il mondo. Parlano allora dello spazio in cui sono (loro e io) in quel momento, informandosi vicendevolmente con film simili o diversissimi. Diventano film da/in un altro paese (il “cinema”, se mai?), perdono la pigrizia angosciosa di sentirsi protei dal codice quotidiano nazionale, si spogliano infine rischiando la responsabilità di giustificarsi in sé o di rivendicarsi rifiutando di giustificarsi. Gli occhi mi hanno vagabondato per anni (perdendo spesso uno due tre altri film alla stessa ora; non è un omaggio questo?) tra mirabolanti mostruosità clientelari da finanziamento pubblico irrecuperabili nei loro tre giorni italici in sala, successi consacrati e previsti comunque mai imprevedibili, film visti anni prima dalla loro uscita lampo (l’ultima volta fu il serio De reditu – Il ritorno, da Rutilio Namaziano, del rosselliniano Bondì; lunare nel dire di un oggi trovato in un antico ritorno, eppure senza pubblico, senza incontrare nessuno, più desolato di quel ritorno), molti titoli d’autore, infine troppi di quelli che avrei dovuto (⁇ per quale obbligo? Non so se professionale, di certo non ho una professione, salvo quella sempre ricordata dall’orgoglioso non-cineasta robertorossellini) incontrare prima, per sapere e capire non so cosa (da Özpetek a Muccino, ma sbaglio a fare nomi; anche i loro film acquistano a essere visti o immaginati in/da un altrove). Accade il contrario di quel che si imputa di solito a chi parla di film provenienti da culture o da lingue
lontane: mancanza di codici, leure deviate, sopravvalutazione di elementi minori, impossibilità di apprezzare o giudicare appropriatamente la recitazione, difficoltà a cogliere le allusioni a “enciclopedie” esotiche e indiscernibili (un insieme di negatività che ritengo invece – non solo quando ripensate raggiunte in qualche modo volute ma anche allo stato brado di partenza – piuosto utili a formare una tensione verso quei codici, a intensificare un guardare e un sentire e perché no un “vedere”). i/lì invece, nel ritrovare in terreno apolide quei film senza mai averli visti prima, puoi provare a umiliare il troppo che sai o presumi di sapere e i troppi codici che riconosci, puoi aggiungere a essi una sorta di essenzialità proprio nell’affollamento di tante altre visioni che si elidono a vicenda nelle ovvietà narrative e figurative e teatralaoriali. Credo che appaia una fuga dalla realtà del cinema italiano, e lo è, questo procedimento casuale e riabbozzato a posteriori. È anche quasi sempre impietosa l’esperienza, costrea a cercare l’oblio invece che poterlo godere. Certo capisci meglio quel che fuggi. La banalità sociologica antropologica giornalistica ritarda talmente nuova, che infai di solito oiene esaltata accoglienza dal giornalismo che si occupa di cinema (o di teatro musica piura televisione) solo quando vi ritrova l’eco ulteriore delle proprie povere analisi. Fuggi soprauo la fuga della realtà che il cinema italiano è in modo eminente ed estremo in rapporto al cinema mondiale che pure manca al presente. Praticamente tuo quello che più o meno seriamente sinceramente i cineasti italiani ritengono di dover traare è traato e ritraato costantemente dalla televisione, che provvede già a diffondere e formare un’intensa superficiale citata profonda immagine di ciò. Assistiamo quindi a esercizi su resti rimasticati di realtà che araversano indifferentemente con lo stesso schematismo il successo comico natalizio o la lodevole pensosa rivisitazione del più alto sgomento rosselliniano o la commediola generazionale o l’ennesimo ingigantirsi dell’ombra inquietante del “fratello di muccino” o spesso il film d’autore nobile. Tuo questo, se proprio si vuole, e se di soggei da
raccontare si traa (spero sappiamo che non è così), senza mai peraltro prendere come tema il mondo/TV, luogo in Italia di un esperimento selvaggio acefalo alegale unico al mondo la cui radiazione di fondo è ancora perceibile. (Il solo che provò a farlo fu federicofellini nel suo ultimo cinema a partire da Ginger e Fred. Se no è solo nella radicale distanza/arazione da tale tema che si costruisce il miglior cinema d’autore, da Ciprì e Maresco a Bertolucci, da Martone a Bellocchio, dallo stesso ultimo Corsicato a Scimeca, con la parziale eccezione eccentrica del Musikanten di Baiato. E il rischio del cinema anche più intensamente autoriale è evidente nei due esempi anche politicamente “alti” di Morei e Amelio che, nel volersi dimenticare quanto sia la TV, finiscono per essere parte inconscia di un cinema automaticamente parte di essa). Per una volta, posso usare perfino termini che mi ripugnano: fiction, documentario, racconto. Se non ci si confronta (scontandolo) col metacinema che è la televisione, con la reale forma di vita che è la TV, col documentario infinito e slabbrato che fornisce del nostro vivere mentre crediamo di guardare solo la vita degli altri, è facilissimo digradare (credendo fuggir dall’irreale e magari dal berlusconismo, che già domina appunto da quando qualcuno si è “riconosciuto” nei dolorosi affreschi mucciniani) in una “fuga dalla realtà” mediante il ricorso in extremis al “documentario” o appunto l’inghioimento in una soap televisiva che neanche ha bisogno di andare in onda perché in onda sta già. L’equivoco Michael Moore ha scatenato questo anabolizzarsi del cinema di iniezioni di “realtà” televisiva, di reportage prevenduti all’immenso monoreportage che la TV tua è. Contribuendo all’incredibile cecità o vanagloria dei cineasti che non sentono il frusciare intorno a loro dei milioni di miliardi di punti di vista digitali che si iscrivono in infinite telecamerine. Digitali anche perché stanno in due dita. Caméra-stylo. Il cinema si è raggiunto un’altra volta. Nel nulla digitale ritrova il proprio reale, che è sempre stato (meno chiaramente) il nulla. Con estasi e con tormenti. Fissare più meccanicamente della macchina un punto, vedendo il nulla fino a sorprenderne lo
scao fotogrammatico. esto (non importa quel che (non) si vede) è un modo di corrispondere con passione alla sfida del presente. Ovvero alla scommessa che il presente vi sia, istantaneo e (ir)ripetibile. L’occhio è quella parentesi e da essa è costituito. Colpevole che il mondo ci sembri esistere, e subito disperso negli infiniti punti di vista di una mobilità cerebrale. La realtà da cui non si può fuggire (che il cinema ci dice ogni istante anche non volendo), l’unica da cui si può voler fuggire. (…) [rubrica dark passage/evisioni, “Duellanti”, 96, aprile 2006]
weekend con aurora
In campagna, lontano dal cinema, su un vecchio televisore digitalaccessoriato via cimice, un dopopranzo, diventa impossibile non seguire un capolavoro che ti ricordi e troppo ti ricorda. Solo un quartodora, pensi, e ti addormenti. Il film no, è ancora lì quando ti svegli. L’uomo che volle farsi re. Perché i grandi film degli anni seanta (quelli che sembrano tali) non deludono mai? O perché, da Di pari passo con l’amore e la morte (1969) e La saggezza nel sangue (1979), johnhuston inanella tra gli altri Cià amara – Fat City, L’uomo dai 7 capestri, e appunto, nel 1975, L’uomo che volle farsi re? Non è in questo pomeriggio prefestivo dolce in aesa di una tempesta i cui colori spostati dal vento tardano a manifestarsi, che mi meerò a ridire la vecchia canzone del decennio pesante ancor più del piombo maltese “di cui sono fai i sogni”, e leggero della leggerezza dura e vuota che dee luogo a sogni smisurati mascherati dal velo invisibile del postSessantoo invisibilmente squarciato dai voli di surfanti e furfanti (o fu più semplicemente lo spazio dei nostri vent’anni, tra il 2001 e Barry Lyndon, tra Pelé e Crujff, tra fiori e mirafiori, tra P38 e steadycam). No, non ho voglia di sprofondare in boorman/peckinpah, in hollwoodparty/SK, né di rivagheggiare il Sessantoo fantasma che si sorvola e si prolunga nel salto olimpico record di bob beamon, dieci centimetri ai nove metri non ancora colmati. Né di inseguir titoli nomi date in dormiveglia (Huston aore: miticobiblico in Uomo bianco, va’ col tuo dio! di sarafian 1971 e in Chinatown 1974 di polanski; già “abbé de sade” nel frantumato eccentrico De Sade di Cyril Endfield 1969 direo inizialmente da rogercorman che abbandonò il set scorato dalle ipotesi censorie (il divino marchese era keir “David e Lisa” dullea appena uscito dal davidbowman di 2001 – “david, cosa fai⁉” lo scongiura hal9000. Stop. Nello stesso 1975 e
nello stesso set Marocco, si addensa incrocia sdoppia una traieoria johnhuston/seanconnery. Il regista ha un bel ruolo nel bellissimo Il vento e il leone di johnmilius in cui giganteggia il post007 già protagonista del grande Zardoz di boorman; subito dopo L’uomo che volle farsi re, connery sarà più che un re nel malinconico ironico sublime Robin e Marian di richardlester – grande regista oggi misconosciuto, ma steven soderbergh gli ha dedicato un libro). Un mese fa è morto Andy Griffith. Fu ed è Un volto nella folla (1957) di eliakazan. Un film dove la televisione, leggendo scene volti corpi cose quali frammenti di una lingua sconosciuta e elementi di una chimica appassionante e terribile, è il luogo perfeo enigmatico dell’incontro della pubblicità e del desiderio, di musica delle cose e di immagini correnti dentro il flusso in cui affiora per un leerale istante il mito di un populismo distante e del calore della distanza di cui mancano ancor oggi le chiavi. Andy Griffith era nel film il volto apicale informe invisibile di tuo ciò. Negli Europei di calcio si è ve(t)rificato ancora una volta l’emergente enorminimale del volto. Accade in ogni grande evento televisivo (non solo sportivo): un operatore si concentra o si aarda sugli occhi belli di una ragazza, sul gesticolare di un gruppeo di amici sugli spalti o in un parterre teatrale, sul disperarsi o sul ridere di qualcuno. La regia manda in onda – al posto del replay di un punto culminante dello speacolo o del match – la deviazione sul centro diffuso di esso, frammento di pubblico che subito si riconosce e si addita particella del gioco. Più tardi ma ora (mentre mi appresto a controllare il contenuto di alcuni vhs neri trovati nel sooscala, pensando ammirato al gioco dei ponti nel film di huston appena finito), sbao contro la strage dell’anteprima del nuovo batman. La solita chiarezza oscura dei terremoti umani. Il villaggio di AURORA (denver, colorado). e Dark Knight. La produzione – per rispeo delle viime – rinvia di qualche giorno la comunicazione degli incassi del weekend. [rubrica Detour (82), “Film TV”, 5 agosto 2012]
3. Farsi/disfarsi. Storie e archivi dalla televisione
Come un olocausto divenne spettacolo
Holocaust è un’operazione speacolare perfea, l’esempio tipico di una costruzione dello speacolo nei minimi deagli del suo funzionamento: cioè uno speacolo che prevede i suoi effei e li produce come parte di sé. Un film che recupera la propria “parzialità” rilanciandosi come macchina complessiva (della quale fa puntualmente parte il gioco dei commenti e delle reazioni). i non si traa tanto di “smontare” quanto di osservare alcune delle logiche secondo le quali – in questa occasione – non si è prodoo solo un “super” sceneggiato storico ma anche un pubblico di decine di milioni di speatori. Sembrerà troppo limitato questo “livello della produzione” rispeo ai milioni di “perché” e ai ricordi sanguinosi o fangosi suscitati; sembrerà facile partire dal “trionfo” speacolare quando magari in Germania lo sceneggiato ha trovato inizialmente una collocazione televisiva alquanto riduiva e sì strea, quasi come un “culturale”. Ma sono proprio alcune delle sue struure generali a permeere di sapere in parte perché un Holocaust televisivo può prodursi, con le sue lacrime e le sue polemiche; perché un prodoo fa piangere e pensare, se fa piangere, se fa pensare. In Italia non è molto diverso che altrove il “caso Holocaust”: è partita l’offerta sacrificale televisiva, è partito il circo che ne consegue. Già si dice che la realtà storica era più “nera” e allucinante, più crudele. Entrano naturalmente in campo l’antisemitismo, il razzismo, l’antisionismo lo scandalo della speculazione commerciale ecc… Il circolo delle reazioni “parallele” (stampa radio e televisione) si satura molto rapidamente.
Certo la “medietà” di Holocaust può ingannare: è filmato come un film medio americano senza scai e invenzioni. Dal punto di vista della faura quindi parrebbe da “trascurare” come se non esistesse, ci si dovrebbe limitare a rilevare le inesaezze storico-politiche eccetera. esto è veramente il modo di “separare” inutilmente ciò che si produce invece in pluralità di discorsi. Non è questa o quella inquadratura (nulla di esaltante qui o di particolarmente intelligente, di visualmente affascinante in confronto al cinema americano) a determinare la qualità di Holocaust e a garantirne la “forza”, non l’ovvia presenza di stereotipi di tal tipi, non il nuovo “coraggio” di affrontare questioni “scoanti”. Ma il modo complessivo dell’intervento sugli stereotipi e su ogni materiale di cui si compone. L’idea di fondo, la saga familiare, che proviene da Radici rimanda subito a Via col vento. Ma si vede subito come la storia di Rossella O’Hara avesse ben altra “violenza” nel traamento degli stereotipi, come la loro “piaezza” risaltasse con maggiore violenza e magnificenza figurativa e drammatica. Il fenomeno televisivo Holocaust si rivela al confronto un film “povero” e quasi ascetico, volutamente dissanguato. Come anche le puntate conclusive (quelle dove l’orrore dovrebbe disvelarsi) mostreranno, non è un film del “mostrare” ma del sorarre, dell’allusione elliica, del pudore in ogni singola scena. Strano: vengono messi in scena aorno al groviglio delle famiglie tue le passioni dell’uomo, tui gli eventi principali della vita, nascita matrimonio morte. Ma nessuno di questi elementi viene fortemente “drammatizzato”. Il livello emozionale è quello di una serie di telefilm “familiari” americani con la risata alla fine di ogni puntata; già, un po’ come Happy Days: l’emozione e il coinvolgimento avvengono dopo, davanti al televisore e non dentro i suoi puntini eleronici. E la stranezza svanisce, se si pensa che il principale filone kolossal degli ultimi anni in Usa è stato quello catastrofico.
Non è un paradosso questa evocazione: e non solo perché Holocaust e Radici sono sceneggiati “kolossal”. Holocaust è il Via col vento catastrofico. Cioè il contrario di Via col vento, un Via col vento senza il vento, non melodrammatico. Non mancano le situazioni da melodramma e araverso le puntate ogni genere viene fao giocare: film di guerra, western, avventuroso: ma tui traenuti, mai spinti al loro limite; nulla diventa “grande” o “sublime” nulla di tragico. L’intelligenza dello speacolo è quella di non far “sentire” nulla a un livello tale da diventare un luogo di aenzione privilegiato, un punto “caldo”, un foro implosivo. Si è deo che i lager erano ben altro inferno rispeo a ciò che si vedrà in televisione così come la violenza era ben più feroce; si è scrio che un “documentario” nella sua nudità, è ben più efficace quanto a denuncia delle scene ricostruite. Una “denuncia” non è di per sé speacolo che si segue e si sedimenta. Il momento del “documento” è usato con astuzie incredibili ai fini speacolari: è ciò che rafforza tuo il testo dello speacolo, lasciando intravedere il “più di orrore” su cui si basa, senza farlo vedere. La storia si costruisce come fao “sopportabile”, in cui tue le tensioni emozionali vengono appena accennate, compresa quella dello “shock da verità”. esto, è il catastrofico: Holocaust è come un serial catastrofico: si sa che “tuo” finirà in un disastro, anzi che il disastro è già storicamente avvenuto. L’orrore è già accaduto. Anche la prima ora del film sui terremoti incendi disastri aerei si aarda a definire sommariamente i personaggi e a dividerli in buoni e caivi a forti tinte, spesso anzi li mee in situazioni di forte rilievo drammatico (la donna che deve partorire, il grande amore contrastato, tradimenti ecc…), e le situazioni sono però fatalmente depotenziate: è privato, sì: ma privato che finirà nella catastrofe, che comunque verrà cancellato da essa (anche se i buoni sopravvivono, o anche se i sopravvissuti vanno a fondare Israele), restando infinitamente meno importante di essa. Ecco, Holocaust gioca con una catastrofe suprema, la enuncia ovviamente nel titolo,
e poi ci dà i pezzei del suo “privato”, ci mostra l’insignificanza (ed è la sua unica “verità” oltre che la sua massima efficacia) di questa storia “privata”, cioè l’impossibilità di “capire” – guardando dal punto di vista del privato – il terrore che monta; l’impossibilità di opporsi a chi (nel film il nazismo) controlla il meccanismo di terrore complessivo. Non per metaforizzare a oltranza, però organizzare il “discorso Holocaust” al di fuori del suo gioco su alcune struure speacolari dà appunto una visione in qualche modo “privata” del suo agire e può spingere addiriura a regredire, o al puro plauso per ciò che comunque “rammemora” quel che non si deve dimenticare, oppure alla critica preventiva dell’intelleuale separato. Impedisce di “vedere” come Holocaust costruisce le sue storie fuori dalla storia, ponendo la sua prima forza nel raccontare alcune cose sullo sfondo di un disastro ma proprio come se fosse “dimenticato”. Così, la proiezione avviene: la catastrofe resta in tasca, il “documento” è appena accennato e non interviene a bucare lo “schermo” e a bloccare il correre del film. No, le puntate possono susseguirsi e i discorsi “fuori” del film prodursi in libertà. La facilità classica del racconto, combinata con l’integrazione di un sonoro molto lavorato e continuo (sull’esempio questo di tuo il nuovo cinema Usa), dà la piaezza di uno speacolo parziale che, partendo dalla perfezione combinatoria (alla Guerre stellari), si apre senza indugi a quelli che sa benissimo essere i suoi futuri: i dibaiti, il baage, le interrogazioni parlamentari, le emozioni ricordate con sincerità. Insomma, l’evento Holocaust complessivo. La catastrofe, ahimè, serve solo come assenza e come titolo: latita. Ce ne lamentiamo solo perché quella era la realtà occultata dal film (che mostra presenze, in genere genialmente pasciute anche dentro Auschwitz: ancora un esempio “geniale” di rassicurante irrealismo che concorre a dare sopportabilità e consistenza “realistica” all’insieme del prodoo): lo sterminio. Sterminio come eliminazione di differenze, si sa; e Holocaust conduce con perfezione un gioco simile, di eliminazione di differenze (così l’unico ebreo della famiglia che si salverà sarà quello più tedesco-americano).
Un film che “stermina” la questione, aprendo il campo a dibaiti terribilmente accademici, destinati a ripetersi sempre più impotenti di fronte a produzioni speacolari magari sempre più pudiche e accorte ma anche sempre più avide di “enormità”. Holocaust: se non vuol dire, il palarne, parlare dello sterminio “oggi”, allora è certo meglio parlare di televisione, citare Il mulino del Po. [“il manifesto”, 23 maggio 1979]
Sei ore (TV) negli anni Trenta
Sei blocchi di un’ora ciascuno, ogni volta montati in un ordine diverso, sei ore di trasmissione ogni giorno per sei giorni (da lunedì 25 gennaio a oggi, ore 13-19). Titolo giustamente ambiguo e apparentemente contraddiorio: Frammenti degli anni Trenta, un programma di Nicola De Rinaldo, in onda sulla Rete tre. La lunga durata televisiva è sempre stata riservata al kolossal o al super-evento: le Olimpiadi, le elezioni, la Luna, Vermicino… Coraggiosamente adesso la rete tre, segnalatasi fino a oggi piuosto per la varietà di spezzature e durate minimal (30, 20, 10, 5 minuti) dei programmi, si bua proprio sulla durata. Coraggiosamente perché la durata lunga è nemica dell’indice di ascolto. Coraggiosamente perché non si traa del tipico contenitore inventato per caurare ascolto pomeridiano. Per la prima volta, in Rai, il televisore stesso viene adoato come “contenitore”, elerodomestico, anzi in questo caso vero e proprio frigorifero di immagini che si apre quando si ha fame o anche solo per vedere che provviste ci sono, o per fare uno spuntino. Occasione, sintomaticamente, gli anni Trenta, in collegamento con le iniziative milanesi. Frammenti è allora la parola giusta: sei ore, un nulla rispeo al decennio. Ma anche, grazie alla durata, un tuo: ovvero, l’unico modo di far percepire in parte ciò che in qualsiasi mostra per forza si perde e che solo l’immagine in movimento, per suo destino e condanna, può riprodurre: il tempo. Frammenti da una decina di film (dal bellissimo Luciano Serra pilota di Alessandrini a quelli di Camerini, Righelli, Maoli, Malasomma, Neufeld, Gallone) e da molti cinegiornali e documentari Luce.
Montaggio, e mescolamento del sonoro (quello originale, o al massimo dischi d’epoca). Nessun intervento della voce fuoricampo. Il fuoricampo, si direbbe, è lasciato al brusio storicistico e revivalistico che percorre il paese in questi giorni. anto ai criteri del montaggio, difficile parlarne. Difficile infai dire di aver visto il programma: sei ore! Anche questa utopia arae: la scelta del trascorrere del tempo, più che di quello capitalizzato del lavoro o dell’ascolto finalizzato. Utopia che si definisce tale per i presupposti didaici dell’operazione: sei ore di “tempo anni Trenta” che, grazie alla rotazione dei blocchi e agli spostamenti quotidiani dell’orario di messa in onda, si dovrebbero in effei poter veder tue e dovrebbero poter dare un quadro logico e ragionato del decennio (o almeno delle sue immagini). Ma questo è per l’appunto il sogno di una situazione televisiva ideale, in realtà proprio contraddea dalla scelta della TVelerodomestico che magari sta acceso tuo il giorno ma lo si guarda solo ogni tanto, o ricuperando il programma anche casualmente, dopo giri di telecomando. Contraddizione importante, perché il sogno totalitario del “tuo anni Trenta”, del kolossal fao di frammenti ecc…, finisce col dare l’immagine più perfea di ciò che forse gli anni Trenta non furono del tuo (per i buchi del regime, che spesso lasciano spazio ai ricordi felici del tempo “individuale” e soggeivo di mammebabbi zie nonne…). Un immaginario totalitario e aggressivo per la durata stessa (un ventennio, due “decenni”), per la sua semplice presenza, al di là dei singoli momenti e contenuti. Che si ripropone implacabile a ogni giro di telecomando: qui sei e qui salta. Come se divenisse impossibile (sei ore) eludere il tempo della storia. Come se la televisione fosse già esistita allora (e in effei in Germania nel 1936 apparecchi televisivi trasmisero le Olimpiadi per pochi gerarchi), come se il 1934 fosse già 1984, o già il cinquantenario rovesciato del 1984. Ma, visto che di tempo si traa, un altro effeo sopraggiunge a trasformare il millennio in decennio, a dargli
un’aura millenaristica di apocalisse. elle sei ore di bianco e nero che di colpo si interrompono e lasciano il passo al TG e al futuro repertorio che è la produzione di immagini di oggi, anche quando si traa – come questa seimana la terza rete – di immagini dedicate a loro volta agli anni Trenta, in un gioco affascinante un po’ terribile. Il punto in cui finiscono i “frammenti” e inizia il pieno di un tempo quotidiano semplice ma terribile, forse perfino invisibile visto che, aggiunto il colore, sono gli anni Trenta a ripresentarsi, ricolorati, imbelleati, forse osceni e ahimè auali. [“il manifesto”, 30 gennaio 1982]
Reperto e repertorio in TV
L’importanza del programma Frammenti degli anni Trenta di De Rinaldo è anche di caraere più generale e teorico, in un momento in cui il repertorio diventa fatalmente e obbligatoriamente (con colpevoli anni di ritardo) centrale nella scelta complessiva del riciclaggio e riuso di immagini in televisione (e al cinema). Il documento, senza illusioni di neutralità; anzi, il documento proprio come materiale già tendenzioso e campo aperto per i montaggi di ogni tendenziosità, parzialità, opinione. L’uso dilagante del repertorio sembra infai tragicamente legato ai prodoi formati e conclusi. Il criterio dell’antologia viene riproposto di continuo, con esiti spesso disastrosi; si vedono anche i Tagli, ritagli e fraaglie di Arbore-De Crescenzo. Non a caso si afferma allora come ben più viva ed efficace la replica, la riproposta pura e semplice (quanto sarebbe stato meglio ridare tuo il vecchio Lascia o raddoppia, invece di “rifarlo”…). Ma, ciò che la televisione, e in particolare una rete agile come la terza, dovrebbe scoprire, è appunto l’uso del repertorio come documento, materiale puro e semplice, reperto. Non testo da antologia (seriosa e analitica o divertente casuale) o, peggio, illustrazione obbligata e ricercata, per gli innumerevoli programmi di aualità che cercano nelle immagini già prodoe il loro immaginario preconfezionato. Materiale da immagazzinare (possibilmente senza ridicolo “autore” che tra due dieci cento anni protesterà perché la sua immagine è stata usata smozzicata deturpata…), da lasciare a disposizione di una memoria sempre più labile.
Bene allora ha fao (per citare un programma scandalosamente trascurato da quasi tua la critica televisiva) Massimo Troisi, nel suo geniale special girato sempre per la Rete Tre [Morto Troisi, viva Troisi!, N.d.R.] (dove ha oenuto un indice d’ascolto altissimo, quasi da film: 1,3 milioni), a rappresentarsi per quasi tuo il tempo-morto lui nella finzione iniziale e fondante dello speacolo solo come repertorio, immagine già morta anch’essa e triturata dalla televisione. Il repertorio restava tale ma diveniva per l’appunto reperto (l’unico possibile) di un’esistenza scaramanticamente interroa sul più bello. Non era più da tre, allora, che Troisi ricominciava, ma da cinque, sei, cento, da tue le sue immagini già immagazzinate in TV. Eccolo ricevere i due tre dieci premi assegnatigli, eccolo intervistato da Pippo Baudo; il tuo, intervallato e aorniato, nella camera ardente, da altri innumerevoli volti e nomi altreanti segni e pezzi della friata televisiva: da Lory Del Santo a Pastore, da Gianni Minà a Pippo Franco a Pippo quello di Disney. Divertito ma puntuale come un gioco di parole (per esempio: reperto, mortorio, repertorio…), il gioco di Troisi meeva a nudo il proprio corpo d’aore comico di fronte al vuoto della morte da un lato e dall’altro al pieno già morto e televisivo della sua aività passata e di quella presente sua e dei suoi amici comici, da Benigni in giù, brillantemente riuniti in un ospizio con foto del “defunto” sovrastante. [“il manifesto”, 30 gennaio 1982]
L’inquietante ronzio delle date
Torna il rassicurante ronzio dei calendari, a inquietarci. Torna Ieri, il “calendario ragionato dei personaggi e degli avvenimenti di 10, 20, 30, 50, 100 anni fa…”, “utile strumento”, gioco mnemonico con cui il bizzarro futuro desinenziale Rai diviene in Ieri (del resto edito dalla Eri) gestione archivistica del passato. Volumi di passato invecchiato (nulla invecchia più irrimediabilmente degli anniversari), un’altra variabile nel gioco triste tra passato aualizzato (commemorato, riciclato) e futuro invecchiato cui sembra ridursi il baito del presente. Seguito ininterroo e sempre più gonfio di ricorrenze, il tempo tollera sempre peggio la ritualità della festa e il rapporto tra rito e mito. Il rito è come annullato dalla propria interazione continua che uccide il ritmo, e il passaggio al mito risulta immediato. Fastidiosamente ineludibile è la ricorrenza, quanto più si aualizza il sapere di date e numeri. Tra desideri e costrizioni, progei e casualità, “potere delle parole” e fascino dei numeri, tuo davvero si avvera o almeno ricorre. Tra dicembre 1967 e gennaio 1968, in meno di un mese, l’epopea del trapianto cardiaco. Washkansky operato il 3 dicembre e morto dicioo giorni dopo, il paziente “trapiantato” da Barnard il 2 gennaio durerà invece diciannove mesi (un “successo”; e certo questo decesso rinviato si commemora nel 1989). Tra Natale e Capodanno, la chirurgia italiana fatalmente commemora nell’auare trapianti da noi inediti. Fortunatamente alcune cifre “non tonde”, alcune discrepanze sopravvivono, quasi disturbanti: perché Romanenko resta in orbita solo 326 giorni e non fa subito un anno intero (forse i 365 anzi 366 giorni toccano al suo
successore, non a caso il “cambio” avviene il 30 dicembre… e il nuovo vede in TV, quasi sempre sbaglia). Nata con la distanza nel nome, la TV si avvia ad annullarle tue, le distanze, riconducendole a tempi, e poi forse a un tempo (baito di cuore orbita rotazione) tuo leggibile e leo, in cui la profezia sia solo una forma (un senso) della memoria (come nell’esperienza religiosa o in quella amorosa la speranza è rimembranza). Parodia, per ora, anche di immortalità, con tuo ciò che volle essere ultimo e giovane imbalsamato nella sua ultimità e giovinezza (il destino del rock, del 1968…), ancora non incorporeo e quindi maschera ghignante del non-morto. (Troppo presto troppo tardi manca lo spazio mentre il discorso cambia). Rinviando alla TV come loa tra fantasmi e zombi, spero – non tenendo archivio – di non aver scrio le stesse cose sul Manifesto anni fa parlando di un ieri di allora. Nostalgia non so se del corpo o del superamento di esso, interrompo su una frase della Yourcenar: “I morti più cari, nel giro di pochi mesi sarebbero – se tornassero – degli intrusi nell’esistenza dei vivi.” [“il manifesto”, 3 gennaio 1988]
L’evento e l’ansia del contatto
Non c’è un momento giusto per un’intervista. A Samarcanda (TG3) c’era l’intervista con Franco Piperno raccolta sull’aereo che riportava in patria il professore. Il TG1 ce lo aveva fao vedere intervistato in Canada prima della partenza. Mixer di lunedì aveva proposto un Faccia a faccia, registrato in Canada ancora prima. Di fronte a un oggeo eventuale, e a un evento, i canali concorrono naturalmente, il loro sforzo si esercita sul tempo, sulla possibilità di essere i primi. Il che può voler dire dislocarsi al punto giusto nello spazio, risalire una roa, al limite piazzarsi nel luogo mobile dove avviene lo spostamento (vedi l’indubbio fascino dell’intervista in aereo, mentre lo spazio si annulla e il set sta per cambiare definitivamente; con la drammaticità, poi, dell’altro set incombente, la prigione): tue cose già insegnate da Indiana Jones. L’ansia del contao con l’evento può non solo sminuire o snudare l’aura eventuale piccola o grande di esso (poco male), per eccesso di informazione o di ripetizione di essa; può arrivare ad annullare del tuo l’evento limitandosi alla presa (in) direa intensissima col fantasma di esso (ricordiamo le grandi invisibili aese in direa del monstrum sull’Etna e in Valtellina, poi ripetute smitizzate giocate da Celentano “Monk”). O all’esibizione del “contao”, del potere stesso di diramare l’occhio televisivo: l’affascinante prima pagina di un TG3 nei giorni acuti nel Golfo era un testuale il nostro inviato sorvola in elicoero le navi italiane nel Golfo, e il servizio si esauriva nella notizia di sé, di un aggancio e di un sorvolo riuscito, con cenno biografico del pilota, “un veterano delle Falkland”. Fascino dell’elicoero, protesi dell’occhio e insieme rappresentazione per ogni speatore dell’onnipotenza del suo
terminale televisivo, della sua propria telecamera volante in missione ovunque accada qualcosa. Elicoero e telefono (estremizzando) spingono la TV fuori e dentro verso il futuro. Collegano le reti ad altre reti, macchine ad altre macchine, un modo molto “basso”, senza neanche bisogno dello schermo multiuso del personal computer. Telefono come accesso alla direa (per ora solo “concesso”) e verifica di essa; partecipazione al processo della direa (vedi Celentano) o alla direa come processo, al “processo in direa” (vedi la “linea giudiziaria” di Raitre, da Biscardi ad Augias a Ferrara, che riscopre – aldilà della direa – la verità anglosassone del giudizio in tribunale come potentissima forma primaria del dramma), con aperture sinistre o so verso la democrazia telematica (istantanea?). Nell’aggeivo tra parentesi, istantanea, sta una questione alla base del processo televisivo e che spesso la televisione si prende il lusso di dibaere. Lo fa soprauo nei programmi sportivi, non tanto quelli in direa quanto quelli di commento e dibaito, dominati dalla moviola o dal replay, in cui l’estasi splendidamente idiota e automatica del gesto sportivo e dell’istante agonistico viene bloccata ripetuta sezionata. Araverso giudizi appassionati o competenti o risibili (a volte le tre cose insieme) il giudizio del caso e del gioco viene messo in questione, la storia (cronaca) a pochi minuti dall’evento viene già paragonata a ipotesi parallele. Tra telebeam e ralenti e punti di vista diversi viene messa in moto (sul seore di aività ritenuto più innocuo? O ritenuto più “autentico” e indenne da simulazioni? O più simulato e simulante – theatrum mundi…?) una macchinazione incrociata in cui disperatamente si cerca di far combaciare spazio e tempo, fao e visione. La prova dell’esistenza del fallo (o del fuori gioco) diventa il banco di prova di una civiltà (con argomentazioni non meno intelligenti o stupide di quelle di un Baudrillard). Discussioni – per ora – a vuoto: la decisione è già stata presa (dall’arbitro errante), il gioco è già stato giocato, si è già finto che un dio esistesse. E il “giudizio” che ha permesso il gioco e siglato il risultato è già stato dato,
in buona o mala fede, in quell’istante (come per tuffi o ginnastica anacronistici giudici decidono in pochi aimi ciò che qualunque speatore TV potrà giudicare con più agio ed esaezza). La direa, allora, il fascino terribile (non necessariamente “il bello”) della direa, del possibile giudizio di quell’istante, dell’esercizio inarrestabile in quel momento di un potere (temporale anche burocratico: nel tempo, del tempo). Aldilà della persona, della sua partecipazione per forza indirea e fuoritempo: direa come maschera di un’inadeguatezza del soggeo al suo tempo, di un rinvio continuo al tempo interminabile dell’analisi. (Fuoritempo, fuoriorario, erano gli altri titoli possibili di questa rubrica. Comunque, troppo presto troppo tardi, come ci sigliamo sempre o sempre siamo situati rispeo al presente televisivo inafferrabile.) [“il manifesto”, 24 gennaio 1988]
Non riusciamo a essere chirurgici
Continua la televisione, la guerra “finisce” (?). Ma anche, e prima, la guerra è iniziata è continuata continua, la televisione è o era fin(i)ta. Blob è rimasto (“è la cosa più orribile che abbia mai visto in vita mia”), con nostro stesso sonnambolico stupore, chi non se la sentiva di montare o voleva sospenderlo, chi voleva bombardare o chi resistere. Potente anestetico, il dolore in sé, la terribile durata del dolore, ha presto autito sbigoimento, paura incredulità indignazione, fortissimi, fino a che non si vedeva (quasi) nulla della guerra. E ora: guerra protraa più “reale” e meno immaginaria, un buco di continuo riaperto; minore aenzione, la visibilità è una rata del visibile quotidiano. Televisione cinema comico basso montaggioVertov cartoon satira, rabbia montaggio Ejzenštein nichilismo sesso documentario odioamore costruivismo fiction, anime belle o brue, piccole o grandi e i vari nostri poveri o ricchi soggei individuali nella “rete”. Blob. Prima di tuo, lo squartamento e l’esposizione di noi stessi. Ogni onnipotenza delirante (tua quella TV, tuo quel cinema, tue quelle immagini a nostra “disposizione”…), ogni facilità d’uso, ogni banalità (quante) pagata e scontata col bruciarsi evidente di sé nel “discorso” delle immagini e della guerra, nella guerra delle immagini tra di loro con noi nei nostri organi contro i nostrivostri occhi. Più orrore di noi (di noi emiliofede) e di “voi” (voi ridenti, o ridicolmente “indignati”), nell’unica rivisione possibile, quella durante la messa in onda rivedendoci già sformati nella brecciatura dello specchio. Più interventi sulle immagini, oltre il documentario warholblob (ma il day for night continuo della visione verde al laser da discoteca o da marziani è un trionfo di ambiguità warholiana minimale assoluta): musica su bombardamenti (sì, anche la
scandalosa Tintarella di luna per le visioni al laser), un talkshow soo la sigla, spaccature sovrimpressioni ammutolimenti (molti), immagini/sipario, immagini/sfondo, immagini/set, immagini/carne. Documentare la fiction, fingere il documentario. Nessun filtro se non tui i nostri organi/Blob, anche, campo di concentramento, luogo di esecuzione, caedrale e moschea di preghiera, nave profughi. “War”, ricordava (1970, pacifismo quasi omologante) Eric Burdon, è una strana breve parola, obbliga a prendere posizione oltre che a difendere perdere lasciare riconquistare “posizioni”. Nessuna vergogna, se non la vergogna assoluta e allibita (la stessa avvertita la prima volta che montammo un “funari”) di qualunque aimo di TV (di una voce faccia sincera insincera) una volta rivisto, cioè affidato al gioco ulteriore di migliaia di speatori (ancor più che nostro). La comoda macchina da guerra delle parole, mobilitata ogni volta che i giorni dell’umanità si accorgono di dovere (o poter) essere gli ultimi, non accea che la guerra del golfo dilaghi come blob, preferisce che si fissi in caramello. Golfo: aperto per sempre; dal set geografico preciso e locale a quello immaginario planetario e oltre. Non c’è bisogno di leggere intenzioni individuali birichine o intelligenti o pietose o ciniche o deboli o forti, nella solita – ma più intensa e intollerabile e insoddisfacente del solito – operazione di Blob. Più che mai, mentre magari si deve leggere che il “successo” di Twin Peaks da noi è dovuto anche alla guerra (ma intanto viene interroo negli Stati Uniti), i tempi diversi, le teste diverse che scorrono e si accavallano e si scambiano in Blob ci e vi ribuano addosso quello che, di fronte a qualunque tipo di potere (armato o televisivo o altro) siamo, temiamo di essere, vogliamo (Tienanmen, Tienanmen) essere: carne da cannone. Ah, dimenticavo: spesso non riusciamo ad essere chirurgici. [“il manifesto”, 20 febbraio 1991]
La bomba è già esplosa per tutti
Non c’era nulla da ridere nel buffissimo sbarco in Somalia dei commando accolti dall’unico esercito in grado di sconcertarli, quello della televisione. Come non ci fu da ridere alle immagini degli sbandati iracheni che si arrendevano a una troupe del TG3, nell’incredibile epilogo interruzione della Guerra del golfo. Guerra, fame, miseria, fanno chiarezza, mostrano abbaglianti oscurità: ci fanno intravedere perfino la televisione. Chi volle, nelle verdognole riprese nourne agli infrarossi, capì benissimo il nulla che c’era da vedere in quell’invisibilità, in quella paura del gas, in quelle maschere. Ora, noi occidentali “ricchi”, in dubbio sull’ingerenza umanitaria, sbarchiamo e a fronteggiarci troviamo solo (o addiriura) noi stessi, già pronti a riprenderci e a stupirci che i “nostri” non ci sparino addosso. Una situazione che dice più di tui gli acuminati e poco fantasiosi interventi di prima pagina e dei lamenti sul degrado dell’informazione, sull’etica giornalistica, sulla mostruosità della TV. Da Vaimo ad Asor Rosa, da Eco a Rossanda a Segre: la tramontata qualità TV (con voglia di distacco, di chiusura degli occhi, di “ritorno al libro”), la mancanza di peso e di ruolo dell’intelleuale preso tra Funari e Celentano, la preoccupazione per il tracimare dallo schermo (magari fin sulle immacolate pagine dei giornali) della frivolezza o della volgarità. Si mee in guardia dallo strapotere del mercato, per poi considerare la TV stessa come un banale (banale?) supermercato: catalogo ed esposizione di buoni o mediocri o pessimi programmi. E tante recriminazioni per questo o quel tema o accento o genere “alto” non “traato” dalla TV. Ma la TV è questo tema alto. Se ne accorge l’ex apocaliico Elémire
Zolla, di colpo in TV, immagino e spero non per “vendere” i suoi scrii sulla realtà virtuale, ma perché in TV ci si è, oggi, anche se non vi si appare (Eco); la TV (anche quella povera, arretrata, inea, volgare, che circola in tue le “reti” del mondo) è un gioco virtuale planetario (da troppi anni lo giochiamo senza saperlo), una bomba già esplosa per tui, come Hiroshima. Come se da un’astronave cinquant’anni fa (o cento, con la predestinata luce Lumière del cinema) fosse riaerrato il virus della riproduzione automatica, il gene di un puro linguaggio e catalogo del mondo. Per non essere cosmici, e per non risultare comici, sarà utile capire come il semplice Un giorno in pretura abbia sgretolato e araversato (più di cento giudici) il muro e il mito dei poteri e linguaggi separati in Italia, come il “bruo” (?) Chi l’ha visto? abbia precipitato il Paese in una vertigine mediologica da fantascienza e insieme da romanzo oocentesco, come qualunque talk-show abbia mutato il Paese più di uno Scalfari o di un Bossi. E non c’è nulla di frivolo o volgare (da Cartesio, o almeno da Walter Benjamin e dai passages parigini in giù) nell’utilizzare la TV come enciclopedia antropologica del vedere, del rivedere, del far “parlare”, come caedrale pullulante di orrori e meraviglie, quel che la strada, o la propria strea finestra, sono sempre state per il “ciadino”, per il giornalista, per il filosofo, per il poeta. Come il paesaggio, come il “mondo”, ahimè la TV non finisce quando la si spegne o quando si chiudono gli occhi. [“Corriere della Sera”, 22 dicembre 1992]
Cavalier Berlusconi, lei ha una faccia da Blob
“Come ritiene di essere stato traato dalla Rai?” “Male: molto male. A volte in maniera invereconda, come ha fao Blob mandando in onda una mia immagine deformata che mi consacrava come un mostro parlante.” Così risponde Berlusconi, in un’intervista sul “Corriere della sera” di ieri; e il titolo enfatizza: “L’ira di Berlusconi: mi usano in Blob per aiutare il PDS.” Si parla di cose più serie, nel resto della conversazione. E personalmente credo che la discesa in campo in prima persona di Berlusconi in ambito politico, specie in questa prima fase di scontri retorici, aiuterà nel processo di chiarificazione e polarizzazione della oscura politica italiana, televisiva e non. Ma è preoccupante che Berlusconi si senta maltraato dalla Rai perché “mostrificato” da Blob. Blob non usa infai nessuno schermo proteivo: lo scandalo è quello di proporre, in uno spazio concentrato e ansioso e frammentato, la stessa grammatica e sintassi di tua la televisione, la stessa alternanza di orrido e di sublime, di beneficienza e di orrore, di lacrimoni e sorrisini e sghignazzate che è nascosta perfino in TV, oltre che nella vita. La televisione mostrifica e santifica automaticamente chiunque vi appaia, e noi sempre più spesso usiamo le nostre piccole deformazioni, rallentamenti, ingrandimenti, scambi di sonoro, per restituirne i momenti e i corpi a una leggibilità, a una sorta di “naturalità artificiale”, invece di farli inghioire dalla scorrevolezza ancor più artificiosa in cui sono abitualmente inseriti. La Rai è stata in questi giorni (e forse è ancora, nel “lucido”, perverso disinteresse dell’auale parlamento) a un passo dallo sparire come azienda e come soggeo complesso tra gli aori di trasformazione politica della società. Certo è
inutile continuare a credere in una televisione che “trasmee” qualcosa che avviene altrove (per esempio: il “cambiamento”). esto cambiamento (se ce n’è uno) avviene anche perché ci sono stati i Giorni in pretura, i Santoro, i Ricci, i Lubrano, le Raffai, i Chiambrei, i Blob (o, quanto ai valori leghisti, ben prima di qualunque conteggio eleorale o di equal time, l’insieme delle reti Fininvest). Per tornare alle piccolezze blobbistiche. Diversi personaggi negli ultimi quindici mesi hanno preteso per contrao di non essere montati in Blob (ricordo alla rinfusa: quelli di Saluti e baci, l’arcivescovo Carlo Maria Martini, Nanni Morei, Celentano, Grillo parlante, Arbore) con un misto di presunzione e di paura. Presunzione di controllare assolutamente il destino della propria opera, del proprio intervento, della propria parola o immagine; paura che invece basti un montaggio di Blob a cambiare il senso, la nobiltà, l’intenzione, la leera. Ma la televisione, grazie al cielo, non è una, non è mai abbastanza libera né mai troppo asservita. Gli speatori vedono la natica e poi ascoltano la parola santa, ascoltano la tirata giusta di Grillo e poi si godono la pubblicità maliziosa. La Rai lo usa in Blob per aiutare il PDS. Si tranquillizzi Berlusconi. Non è la Rai, verrebbe da dire citando un programma culto. E Blob, già definito “un servizio pubblico”, non riesce ad aiutare nessuno, anzi forse condivide l’orrore baudelairiano all’idea di poter essere “utile”. Berlusconi parla, si mostra in TV, gioca, è giocato in questo gioco strano e forse (o mai) sopravvalutato che è la TV (un campo, una scena; un giocatore, un aore). Non può pensare di non essere contaminato, tra una scommessa e un’offerta speciale di involtini surgelati, e infai sempre ieri, giocando, si è dato lui per primo al TG3, e domani sarà blobbato. In televisione è ancora più vera la parola evangelica: chi vorrà salvare la propria vita la perderà. [“il manifesto”, 31 dicembre 1993]
Chi vedrà vivrà
Restare fermi non è così raro, in moto. Non lo è per me. Il rifornimento di benzina viene costantemente rinviato, dilazionato, in una contraazione estenuata con me stesso e con le potenze di quest’Ade che è il Tempo. Viaggiare a luce rossa, un piacere teso e assurdo, lontano dalla distensione che è già nella parola “piacere”, vicino alla sospensione del puro azzardo. Stupore che la moto abbia davvero bisogno di carburante, che non riesca a utilizzare consumare (come mi pare di sentire) parte dell’energia che mi sento addosso, o che non passi a me e non sia capace di spostarmi, con o senza moto, l’energia che sento vibrare dal motore. La forza, la avverto dopo, spingendo con fatica la moto verso un distributore perso nella noe, misurando la maledizione dello spazio. La mia moto (da troppi anni mia), una Yamaha 500 SR, GE 151207, è in effei ferma da un anno, con vari guasti incrociati, in aesa di un furgone che la porti a un improbabile e unico riparatore serio capace amoroso. Un monumento, ormai, sui marciapiedi intorno alla Rai di Roma, saldata all’asfalto dal cavalleo sprofondato nel calore. (Le mie ebbrezze moleste da motore soo il sedere sono quasi tue legate aualmente a furti paeggiati della sfera di Nennella, di cui mi piacciono il nome e la forma.) Ora ho dovuto spostarla di qualche metro, oltre la cerchia di marciapiedi del palazzone moderno (perciò così sinistramente archeologico) di viale Mazzini. Dai primi di agosto, non c’è più un’auto parcheggiata. Hanno imposto il vuoto, dopo gli aentati di fine luglio a Milano e a Roma. Dopo il Teatro Parioli e gli Uffizi, e le piazze monumentali, si
è temuto e si teme un aacco ancora più preciso e direo al materiale simbolico. Tuo il palazzo è diventato o si è rivelato allora un monumento più artistico e più cavallo morente della statua all’ingresso. Le bombe. Misure di sicurezza. Da poco erano arrivati alla Rai i “professori”. E la Rai era stata l’ultima a far vedere immagini, a collegarsi con i luoghi delle esplosioni. Ritardo. Vioria delle news di Berlusconi. Polemiche e inchieste. Ripetute più tardi per gli scontri a Mosca, provocati da un elastico teso non per caso tra il luogo del potere simbolico (il Parlamento) e quello del potere immaginario (il più reale: la televisione). Mentana (spiace dirlo), capisce al volo, si mee in direa per tuo il pomeriggio di una domenica di oobre. O forse non ha capito, ha visto le immagini CNN sul circuito internazionale, ha fao qualche telefonata, ha sentito che non si capiva niente, e si è messo in onda, in rete, in aesa sia pure del nulla. La lezione di Tienanmen, un fao di ribellione locale e elitario (gli studenti di Pechino, annegati in un miliardo di cinesi quasi indifferenti), una piazza, un vuoto, che diventano una scena mondiale, la scena della pura aesa ribelle. E dieci anni prima, Vermicino, il buco, la voce, gli occhi, il buio, l’aesa, i poteri impotenti. Volcic ha ragione: c’erano poche immagini, e la Rai doveva seguire il calcio domenicale, inutile allarmare, chi vivrà vedrà… Ma non viviamo per non essere allarmati. E se non ci sono immagini, o immagini vuote, vediamo pure il vuoto, l’assenza, la persistenza dello sfondo, la voce… Oltre, anzi prima dell’I understand (capisco, tengo soo controllo) c’è I see (vedo, capisco). Forse, o certamente, moriremo. Ma se non vediamo, cosa e come viviamo? E se i nostri occhi non muoiono un po’ (immagini inutili, lunghe, ripetute, stupide, vuote), come potremo viverli? Crash. [rubrica Fermo in moto, “Smemoranda – Dire fare baciare”, dicembre 1993]
Freddo bipolare
Non ha il parabrezza. Ama il vento, perfino quello più gelido. Anche la moto lo ama. Il punto di non ritorno è quando si dimentica i guanti; o ha addosso quelli sbagliati, e il giubboo si gonfia come una camera d’aria gelata. Non ci vorrebbe nulla ad abbandonare, passare su un taxi su un autobus su una metro, ritardare un po’. Invece è il momento del volo più estatico. Il percorso sembra breve, l’interruzione forzata ha sempre della piccola morte. L’aggressione del freddo è fortissima, ma sa di arrivare presto. Dalle mani il dolore sale, stringe la testa e intorno si affollano i volti dei rinnovatori. Un Mario Segni corrucciato (crede invece di ridere) gli appare come un fantasma diafano sul pack della cià, un velo ghiacciato da araversare. Se poi ha dimenticato anche il passamontagna o il casco, il freddo non ha bisogno di percorsi. È subito lì. E il volto di Fini, una crosta vetrosa, si palesa grande sull’asfalto, una crosta vetrosa che va in frantumi. Il rumore delle schegge lo riscuote. Chissà perché quell’uomo, Fini, piace tanto alla sinistra… Le labbra se le sente diventare un cornicione barocco istoriato dall’aria gelata. Si chiede perché a lui Fini, sicuramente oggi un politico quasi geniale, continui a sembrare una faccia da tipoche-picchia-le-donne. Si vergogna del pensiero bassamente lombrosiano. Oppure la politica è proprio l’arte di far dimenticare la propria faccia, di occultarla mostrandola? Come c’era riuscito bene Andreoi, beniamino di tue le televisioni e sempre definito “politico raffinatissimo”, “diabolicamente bravo” ma in fondo ritenuto quasi buono, simpatico a tui (me lo ricordo bene: in quanti lo preferivano a Moro, in quella zona vicina alla mia mano che non sento più, abbarbicata alla manopola di sinistra. Una zona che non riesco a visualizzare, a situare), come un caivo
macchieistico da film. Ma le baute andreoiane erano orrende, intrise di grevità e di cinismo romanesco (me ne ricordo un paio in questo momento, riescono a farmi rabbrividire), e allora Fanfani in confronto era un genio dell’umorismo. Che bella luce però. Come i suoni, le immagini pienano più rapidamente lo spazio davanti alla moto, le cose le si infrangono addosso appena scorte, sembrano dipinte su schermi soili di cristallo, con prospeive alterate. Vicinissime, sembrano già passate, e l’assillo di essere più veloce ancora, di arrivare presto a casa, di abbandonare il gelo, si fa meno pressante. Il volto di Berlusconi con la calza, ha invece molto impressionato la sinistra. Era evidente fin dalle prime interviste in maglione, ma si è aspeato di saperlo quasi da un comunicato ufficiale, il giorno della vera e propria “discesa in campo”, per gridare al trucco, alla contraffazione, alla mascheratura. Diventa una vela, quella calza (mi pare di vedermela davanti irreale, che galleggia nel freddo), infai non è sul volto ma sulla telecamera, sul nostro volto, su quello di chi guarda. Forse è già quasi assiderato, in quel deliquio vicino al colpo di calore, ma più terribilmente lucido e blu Berlusconi gli pare gonfiato da quella calza che tui gli tessono intorno, fino a riscaldarne l’impressionante freddezza di immagine (ogni volta che parla rischia di perdere trecentomila voti). E non è l’osannante Fede a costruire il piedistallo, ma il terrore sacro provato verso di lui da tuo lo schieramento progressista, che tra stampa e TV lo evoca continuamente (lo ha fao da subito) facendo risparmiare a Forza Italia miliardi di pubblicità. Si sente scivolare verso un orizzonte di fine marzo dove dovrà votare per il partito o per lo schieramento più schieamente conservatore, quello che si chiama fronte progressista. Polarizzazione: la parola gli viene in mente mentre il freddo gli fa più male (me n’ero appena scordato, preso dall’incalzare
delle apparizioni politiche). asi si augura che nessuno vinca, nessuno dei poli, così freddi. Il sì/no quasi referendario, la contrapposizione maggioritaria, aiutano il trasformismo, lo rendono drammaticamente semplice, basta superare di un centimetro una sola linea. Si chiede se era un sognatore o un pazzo o un provocatore il Santoro d’estate che sognava una rete di sinistra da Berlusconi. Ora si scoprono i debiti. Ora i Gene Gnocchi ammantano di orgoglio di sinistra scelte puramente professionali. Ora il carissimo Goffredo scopre la pericolosità di un progeo. Ora che il cavaliere è lì, finalmente visibile, costreo a parlare, soo il suo proprio tiro televisivo, senza quasi più nulla di occulto. E il suo progeo, se pericoloso, lo è perché ha già vinto, da anni. Gli appare così chiaro che il Berlusconi oggi evocato è già passato, già vincente/perdente, e infai ora passa in TV, in questa sublimazione del passato e del passare senza presente, immediatamente archiviato. Per la prima volta debole, costreo a passare dentro le macchine inghioicarne di Rovagnati che ha a suo modo inventato; e costreo probabilmente da altri, a parte le banche. asi arrivato a casa. Sente già il caldo degli abbracci e degli occhi sciogliergli la camicia gelata che ancora gli si rapprende addosso. Diventa quasi doloroso sciogliersi dall’incastro con la moto (ricorda il vogatore che araversò l’Atlantico continuando a remare assiderato con le mani irrigidite intorno ai remi; poi gli amputarono varie dita). Sale le scale di corsa, e l’immagine è già arrivata, lo ha preceduto. Anzi si è sublimata, è diventata voce: Berlusconi sta telefonando di nuovo a Santoro, in direa. La bollea telefonica sale (seguirà protesta?). Fa freddo, senza brividi. [rubrica Fermo in moto, “Smemoranda – Dire fare baciare”, marzo 1994]
Tremate, tremate! È tornato il Beppe parlante
Non è proprio un caso, anzi è un bel caso che il discorso show di Beppe Grillo in TV (Raiuno) sia avvenuto in giorni di fermento eleorale. Elezioni mutate, polarizzate per legge (nel caso dei sindaci) intorno a singoli volti e personaggi, e culminate nell’incredibile successo dei faccia a faccia. Il trionfo finale di Grillo (più di 14 milioni di speatori) può apparire stupefacente. Anche se è la manifestazione ultima e più chiara di una tendenza, televisiva e non, di tua la società italiana. Crollata, almeno in effigie, l’autonomia politica, privatasi di qualunque credibilità la retorica politica (della quale oggi più che mai ci sarebbe bisogno), trionfano altri leader e altre parole “retoriche”. Da Adriano Celentano (il grande precursore televisivo, fin dai tempi di Fantastico, e l’anno scorso su Raitre) a Paolo Rossi, da Paolo Villaggio a Francesco De Gregori editorialisti su “l’Unità”. Ma non è neanche questione di esposizione televisiva. Piacciano o non piacciano i loro film o la loro musica, Nanni Morei e Franco Baiato oggi sono punti di riferimento retorico politico di moltissime persone (ben più di Occheo o Bossi o Rutelli o Fini, ma anche più di quanto sia mai stato un “artista” come Fellini). E per retorica non si intende qui la verbosità del retore ipocrita, ma la capacità di lanciare e liberare le parole. Il più bello slogan del Sessantoo francese fu il situazionista Vogliamo parole non fai; una sventura italiana fu il prevalere del politicismo taico di conservazione del potere da una parte, e del brutale passaggio terrorista alla retorica dei fai dall’altra, mentre Berlinguer inventava geniali, provocatorie parole retoriche come “compromesso storico” e “austerità”. Poi, Tienanmen, alla fine degli anni oanta, fu il trionfo mediatico di una pura presa di parola che riempie la “piazza
vuota” del potere e viene dinamizzata dalla retorica della direa CNN. Ed eccoci, sul finire di questo 1993, al grandioso successo di Grillo. Un kolossal di ascolto, uno speacolo semplicissimo, “povero”. Una persona che parla. È interessante come si arriva anche “economicamente” a questo. Il grande personaggio, per quanto costi, è infinitamente meno costoso della puntata di un varietà medio. Da Arbore, a Celentano, a Grillo, artisti autori e dirigenti televisivi si orientano verso il singolo evento in due tre puntate, dove il personaggio si mee in scena da sé, esibisce appunto solo la propria storia, la propria forza retorica. (E c’è solo da rammaricarsi, per esempio, che il geniale Roberto Benigni, il Johnny Stecchino di straripante ricchezza culturale e intelligenza politico retorica, abbia tardato e tardi a inventare una sua televisione “evento” invece di limitarsi a comparire in TV come “ospite”, specie in occasione del lancio di un film.) Nulla di nuovo, parrebbe, dal punto di vista del “linguaggio”, nessuna ricerca televisiva. In realtà, una “one man television” che, per ora (anche pericolosamente) a senso unico, è quanto di più vicino ci possa essere all’idea di una TV futura dell’intervento direo dei singoli ciadini o speatori. Una TV che ha imparato da quel prolungamento e trasformazione della realtà che sono nati (e sono) certi programmi di Raitre, da Un giorno in pretura a Chi l’ha visto?, dai programmi di Santoro e Chiambrei a Blob. Ma la TV è ancora vista e considerata una trasmissione. E come “trasmissione” (di qualcosa di preesistente: immagini, valori), il successo dello show di Grillo oltre che liberatorio può apparire inquietante. Demonizzazione facile della merce e dell’involucro, appello al “risparmio” (certo, neanche la Rai ha più un soldo!), e nessun accenno all’astuzia pervasiva del capitale, a quanto la società di oggi si basi sulla produzione di puro plusvalore “immaginario”.
Prudenza nell’intaccare il proprio piedistallo televisivo (quanto costano le parole di un uomo? anto valgono? Forse meno dell’acqua minerale… E quanto costa ascoltare il pubblico, infine venduta la parola di un Grillo che denuncia i prezzi assurdi?). Grande aacco alla pubblicità, e grande pubblicità per se stesso (del resto Grillo aveva inventato un sublime spot della Yomo: lui immobile e muto, sguardo in macchina, con la scria “Pubblicità telepatica”). Non si può avere tuo, in TV. Non si può aaccare tuo. Servono ancora “valori”, per permeere magari faccia a faccia dove volti e corpi si scontrino e ci vengano addosso mille volte. Aspeiamo qualcuno che venga in TV, ci guardi, ci chiami, incroci le braccia, ci faccia ascoltare intensamente il suo nulla, senza nulla proporci. [“Corriere della Sera”, 7 dicembre 1993]
“Buon divertimento a tutti, ma io vado al concerto dei R.E.M.”
Cari, carissimi Sabina (Guzzanti) e Davide (Riondino), vi ringrazio dell’invito a venire con voi a Sanremo, per accompagnare Sabina sul palco nella vostra riserva indiana. Sono stato incerto fino a poco fa. Molti i punti a favore. Voi; un festival che Pippo Baudo scatenato ha portato a una dimensione civile, forse meno strapaesana o “crudele”, certo internazionalmente e musicalmente più ampia, completa, splendente; la presenza sul palco con voi di un gruppo in cui ci sono alcune belle persone. Il pensiero soerraneo ma insinuante che per la prima volta – è sicuramente un’esperienza – mi troverei finalmente consumato da una platea di quindici milioni di persone, e non detestato, amato, logorato da trecentomila occhi fuori orario. I miei genitori, per sapere “come sto”, non dovrebbero aspeare l’una di noe. Forse li saluterei (senza dare nell’occhio) con la manina. Infine, in questi giorni di tentata eliminazione (per via burocratica, la più micidiale) di Blob, Schegge, fuori orario, la possibilità e la volontà di manifestare – dinanzi a sì ampia e festosa platea – una protesta, una sopravvivenza, una resistenza. Proprio quest’ultimo motivo mi convince per primo a non esserci, a Sanremo. Eccoli lì, quelli di Blob, come i bravi metalmeccanici già magnificamente inglobati da Pippo nella stessa occasione tanti anni fa; magari perdenti, ma infine trionfanti nello splendore del massimo ascolto televisivo. Non è disdegno verso sì popolare ambiente, verso il mescolamento di alto e di basso. Siamo esperti di meticciato, e non mi son mai sentito tanto a mio agio, in una conversazione televisiva, come quando fui ospite dell’adorabile “antipatica” e inquietante clone (di desideri giovanili) Ambra di Non è la Rai. Né si traa di riprendere la
polemica di poche seimane fa e chiedersi se la realtà non sia magari annidata in basso tra i ciooli di una via invece che nello schermo TV. Personalmente credo che non sia né tra i nostri piedi, né in TV, né nelle fessure dei muri, ma sia un conceo nel quale bagniamo, e quindi un dentro che diventa fuori e non riusciamo proprio a toccare (anche per fortuna, oh!). Torno a Sanremo (anche se non ci vengo). ello che davvero mi fa paura e che forse detesto (e ancora più nell’edizione di quest’anno – per quanto è stato bravo e ancora una volta salva-Rai Pippo Baudo) è il puntiglio di rappresentare tuo, la voglia generale di accorrere verso il caldo polo del megaspeacolo e del carnevale consociativo lì permesso a poco prezzo. Con le motivazioni più valide e nobili e democratiche (dal Fabio Fazio alla Serena Dandini che avrei forse amato non vedere lì), perché giustamente si fa un lavoro e si opera con un proprio codice (Sabina e Davide), perché si è lì per lavoro giornalistico o genialmente parassitario (Antonio Ricci), o per vanità, o perché tanto il mondo è finito da un pezzo e teniamoci queste belle feste. Allora, della vanità preferisco quella forma esasperata che è il nulla. La trasversalità non ha più molto senso, in una TV che deve oggi (per legge scria o non scria) assomigliarsi ovunque. Non è questione morale: ovviamente non conta dove si è ma come vi si è (immoti, o plaudenti, con un fiore o con una bomba in mano). Ma certo è inutile scandalizzarsi di offese e ridimensionamenti del Parlamento, se l’unico parlamento (o cantamento) da tui riconosciuto è (oltre Sanremo) la talktelenovela del bravo Costanzo, altro fascinoso luogo di rappresentazioni e abbracci totali. Buon divertimento, a tui e a voi di riserva indiana. (C’è anche Robbie Robertson da voi, ma stasera vado al concerto dei R.E.M.) Mi spiace non poter essere sul palco accanto alla incantevole Claudia Koll. Sarà solo questione di stile, o di forme (di vita). Ma non è per questo che uno, se lo fa, loa si dispera si rallegra? Non credo che tuo “finisca in Blob”. Blob è già lo stato iniziale
della realtà (televisiva, politica, e no) e – anche con Blob “il programma” – si vive per trovare inventare riconoscere distinguere incrociare giocare forme da essa in essa oltre essa. Forse, dentro il cinemascope troppo largo di Sanremo, cercherò di vedere la vostra riserva indiana gioiosamente sconfia e recintata. Non dispiaciuto di tenermi dentro solo virtuale desiderio di (non) diventare pellerossa (Kaa, intorno al 1910): “Ah, se si fosse almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, torto nell’aria, si tremasse sempre un poco sul terreno tremante, finché poi si lasciavano gli sproni, perché non c’erano sproni, si geavano via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedeva appena la terra che fuggiva innanzi a sé come una brughiera falciata, ormai senza il collo e la testa del cavallo!” [“Corriere della Sera”, 22 febbraio 1995]
Esserci o non esserci
Non ho ancora capito se, nella moto, sia più intensa e apprezzabile la capacità di farci sparire o quella di farci manifestare. Apparire arrivare esserci o correre via fuggire non esserci. Di certo le due qualità e i due (dis)piaceri coesistono. Spostarsi velocemente e individualmente su un veicolo di dimensioni ridoe equivale in ogni caso anche a dileguarsi, a dissimularsi. Fuggire nella quasi ininterroa deriva urbana porta non al deserto o a un Grande Vuoto, ma inevitabilmente a un altro luogo identificabile e con un suo ruolo (negozio, stadio, libreria, toh casa di chi diciassee anni prima credevi di amare chissà se abita ancora qui, chiesa, pizzeria, piazza, via fani – che nome fané anzi allucinatorio, che apparizioni ci saranno mai qui, ma non è dove rapirono Moro sterminando la scorta?). E poi dipende dal clic nella tua testa, da come ti situa (interno esterno eterno immediato) l’interruore, sei a pochi chilometri da Gubbio ove intendi fortemente recarti e di boo a una curva ti senti lontano da (roma, milano, genova, palermo, los angeles, todi: a piacere), un corpo unico membra-telaio-motore-ruote lanciato su una strada inevitabile mentre percepisci tui i fotogrammi di te stesso nelle curve precedenti, tui ben registrati da te e in te, anche se in quelle curve non ci sei più, sei trapassato come una sagoma rapida. Il breve stato di sospensione che perfino nel tragio casamacellaio “buono”, seicento metri nondipiù, ti mee nei panni dell’automa, illude di una libertà dalla costrizione sociale e politica, e insieme porta a aderire a essa con maggior velocità precisione efficienza. Proprio in moto ti sfiora questa consapevolezza, ti si dissolve quell’ombra di innocenza (eppure illuministica) in cui libravi il tuo piccolo
volo. Certo, lo sapevi già. Ma il fastidio (quando non è angoscia) di non riuscire né a fondere e costruire né a infrangere o araversare il Grande Vetro si muta nella paura di doverti appiaire su quella necessità che speravi di aver confinato tra le tue gambe e soo il tuo sedere, mirabilmente imprigionata lì, compaa, nella macchina. Vive l’amour, mormori o gridi (per te lì in moto non fa differenza; dal marciapiede o dai finestrini, nel secondo caso, ti prendono per pazzo perché sentono benissimo). Per un momento piangi. Intanto è diventato freddissimo ma non te ne accorgi, come in un cartoon o in un racconto mitico classico (spesso si assomigliano) vai avanti con la tua testa decollata soo il braccio e con le mani in bocca. Vorresti adagiarti nell’abbraccio degli altri. Essere, che so?, “contento” che Berlusconi “se ne sia andato” (dove? Da dove? Davvero siamo ancora così legati al Colle e a Palazzo Chigi? Come ci ha fao regredire questa crisi, questa falsa nascita di repubblica nuova. A cosa altro ci aaccheremo nei prossimi mesi e anni… Al (di)p(i)e(t)ronismo ? Al sangue? Alla religione? Moriremo per treviso e ancona e napoli, dopo trento e trieste; neanche – almeno – per firenze e venezia e lucca e lecce e noto per la loro arte che infame si sbriciola come il sublime terribile ponte virtuale di Mostar…). Apprezzare perfino il cinema italiano “giovane”, visto che esiste. Disprezzare con Baricco il meraviglioso Vive l’amour perché è “noioso” e fa correre troppi rischi mortali al cinema, come già dicevano i produori degli anni sessanta (strano che lo stesso Baricco resti tanto folgorato dalla piccola novità di Natural Born Killers, naturale se pur coraggioso trapianto di visualità videotelevisiva; e che abbia il sospeo di essere preso in giro – speriamo sia invece certamente così – dal genialissimo Pulp Fiction di Tarantino) di fronte a quasi tue le nouvelles vagues in quasi tuo il mondo. Vorresti piangere per più dei see minuti finali del film taiwanese. Diventeresti però “cinema”, più chiaramente del solito, per quelli sul marciapiede o che araversano, un pezzo di circo, come Baricco vorrebbe che il cinema restasse o tornasse a essere. Stupore e meraviglia, giochino controllato da noi che la
sappiamo lunga in poltrona, su qualunque poltrona. Oh no; saeare fuori dal set, subito. Non starai mica correndo a scrivere per qualcuno che trova noioso Vive l’amour e rivorrebbe indietro i soldi del biglieo. Cinema. Ci dovrebbe far venire voglia di riavere indietro il tempo, dopo ogni scena della nostra vita, ma nessuna cassa è abilitata. Vive l’amour curre curre coglione sulla tua moto che poi è un vespino una sfera e da un momento all’altro si trasformerà in zucca, è già zucca e tu zuccone da dove credi di allontanarti. Freccia a sinistra, Pulp. Vioria, il mago caivo delle televisioni se ne è andato – per quanto? – Il pendragone arriverà? Davvero qualcuno crede ancora che la televisione sia (solo) quella che si vede in televisione o quella dentro cui passa quel che si vede in TV? prima seconda terza quarta quinta sesta seima nona trentaseesima, non voglio che le marce finiscano, la televisione è il cambio automatico (dell’immaginario, cioè di tuo). Bello però vedere al tramonto un volto ignoto da una vetrina elerodomestica parlare in uno schermo, che canale sarà, chi è, ti è parso che avesse quel lampo di intelligenza di bellezza o d’amore. Il programma sarà già finito, forse una TV locale, sei già lontano con la moto, se torni indietro trovi già chiuso, puoi anche smeere di chiederti chi era, l’incontro è avvenuto e già svenuto. [rubrica Fermo in moto, “Smemoranda – Dire fare baciare”, febbraio 1995]
Se mi leggessi da lettore
Se mi leggessi da leore sarei forse ancor più insoddisfao di quanto lo sono in questo istante (in cui scrivo, 22 aprile sera: si aspea aspeano aspeiamo la liberazione degli ostaggi a Falluja o a Bagdad o a Porta a porta o la liberazione del corpo del povero arocchi – mi chiamavano così a scuola quando volevo giocare a calcio – dalle mani dei rapitori o da quelle delle vespe televisive). Mi chiederei “Perché continui a giocare di parole (o di prole)?” mentre il mondo esplode senza soluzione di continuità e perfino l’Europa sembra agitarsi. Non vedi che si passa dall’assurdità della situazione irachena all’incremento della “legiima difesa” e che lo speacolo anagramma infaticabile e ossessivo forme di guerra e di scontro appena diverse, dal decennale dello sterminio in Ruanda alle reti del desiderio pedofilo. Vedo, probabilmente (e credo starò vedendo anche nel momento in cui state o forse addiriura stai leggendo). Vedendo, poiché tue queste cose e notizie e trame si vedono e trasmeono, risento allora che la bomba già esplose. Ne contiamo senza sosta i frammenti, ne patiamo o godiamo nella carne e negli occhi (in sintesi mentale) le schegge. Gigantesca polaroid pare non tanto il mondo quanto la vita stessa (se la si vuol considerare un virus a parte), immagine in lento sviluppo di un solo istante che (non sappiamo se) sarà o è. Dentro essa, si può esser certo “pacifisti”, per esempio, che è un ao e un sentire zero, puro autoinganno ideologico, se non risente nel soggeo che intende opporsi le stesse dinamiche violente, se non rinuncia alla violenza del volere, se non combae anche la propria porzione interna di “guerra” (combaere, sì, scuotersi di dosso anche pateticamente l’immagine che si è o che si scopre o crede
essere, combaerla quasi assumendo su di sé la loa; proprio contro l’imbalsamazione del fotogramma fisso pacificato che d’altra parte non può non essere il nostro orizzonte; paradosso, o assurdità, questa ultima violenza di combaimento; vicino al racconto delle tentazioni dei santi, in cui l’ultima tentazione è quella di “essere se stessi”, la vanità del riconoscersi, sentir l’altro indossare il tuo discorso il tuo valore la tua forma. E anche qui, a proposito, Matrix svolge alla perfezione il proprio compito psicodidaico), oltre alle forme di guerra dei desideri e dei sensi che è ormai diventato impossibile non tanto non sentire in sé quanto almeno o perfino non vedere. Una forma di salto sarebbe riuscire a “sentire il vedere” (beate le miopi e tui i difei di vista, che intaccano un po’ l’automatismo fondante del senso). Formiamo (il mondo è) rispeo al vedere un enorme unico neonato che si stira, grumo di un sentire oscuro che pure è precisamente il formarsi della (sua) vita, intensissime sensazioni di ogni genere il cui codice è un enigma. La terra stessa (gli “elementi”) ha la febbre o si stira. E tuo (tuo quello che concorre a quel che chiamiamo variamente “tuo”), pare oggi in fremente e tremebondo surplace. Anche la guerra terrorista (intendo quella della terrificante simmetria asimmetrica tra la “safe war” della “polizia umanitaria” di stampo dickiano – mezzi sofisticatissimi e costosissimi per avere magari “zero morti”, e investimenti enormi per (non) raggiungere, magari, un solo bersaglio un solo uomo un bin laden – è il kamikaze, un’armauomo e dieci trenta cinquecento tremila morti) riverbera nel deaglio di tanti bracci di ferro instabili e infiniti. Ti trovi in aeroporto e non puoi non pensare (mentre in pochi anni hai visto mutare più volte la forma radiografata dei tuoi bagagli) che tra “far passare” qualcosa di pericoloso o qualunque arma potenziale e il moltiplicare i modi del controllo, le capacità tecnoumane di “riconoscere” forme elementi sapori colori sfumature, ultima forma sperale invisibile del confronto infinito tra artiglieri e corazzieri, e indizio fremente di tuo quello che muove l’immagine e si muove in essa (inclusa forse la scissione di base che è l’immagine, la sua stessa impensabile
possibilità di rivedersi mentre è essa in sé il ri-vedere che è sempre il vedere). Su un piano non meno chiaro e non meno misterioso, tipo il preciso e infine utilissimo uso situazionista della mappa di una cià per percorrerne in deriva un’altra, segnalo allora il caso piccolo e patrio – ma ormai europeo – del riaffiorare di due nomi “storici” quali l’irredentista martire “nazionale” Cesare Baisti (ora – il nome – rifugiato contestato e incerto in Francia) e Salvatore Giuliano (indossato dal boss che ha forse sparato a una ragazzina nei vicoli di Napoli, o se n’è fao scudo per salvare l’indegna pelle). Risonanze ovvie, e giochi di parole in quanto giocati da “esse” in un tipo di anagramma ancora diverso e striato di altri voleri (in Italia, accoppiare due nomi e cognomi così non è indifferente). Gioco primario il mio, lo ammeo (del resto, a differenza del côté blobbistico del linguaggio telefoninico, che mi gratifica riconoscendomi subito – do for dosi doria il percorso –, quasi tui i dizionari dei computer di soppiao correggono “ghezzi” in “grezzi”, e ben mi sta). Come è primario e mai nuovo quel che affiora nelle reti dell’immagine, per quanto ci dicano le didascalie moraleggianti dei “poteri” (⁇) e della (già) stampa(ta). Terribilmente “nuovo” vederlo riavverarsi su scala planetaria, direa di una differita almeno quanto viceversa. Avevo promesso di raccontare di una conversazione telefonica con Lou Reed (“indici minuti non uno di più”, uno slot per “Rolling Stone”), di un sentir male (ah la tecnica!) mentre lui Reed parlava di splendore del suono del suo definitivo concerto live su doppio cd, ma teneva soprauo al libro di fotografie sue, e si era dentro la parentesi di una lunga conversazione altrui e poi “nella sua poesia Movie” e poi clic e poi la sera al concerto di Blixa con gli Einstürzende Neubauten arrivo tardi ma alla fine vendono già il cd del concerto (ma è tardi davvero, noe quasi giorno, e sono lungo – gli ostaggi non rilasciati ancora). Il concerto, come il film, è sempre già cominciato. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, luglio 2004]
Tra le 9.05 e le 9.12 dell’11 settembre 2001
Tra le 9.05 e le 9.12 dell’11 seembre 2001, George Bush resta seduto silenzioso immobile di fronte agli alunni e al corpo insegnante di una scuola media della Florida. Un suo consigliere gli ha appena sussurrato con gravità all’orecchio che un secondo aereo si è schiantato anche sull’altra torre a Manhaan. È chiaro che il paese è soo aacco II presidente tace, il volto è più da pugile suonato che da uomo di potere macerato, la macerazione appare del resto improbabile per una faccia tanto di bronzo di rame di cartone, oppure uno stato di mutazione e intermienza costante tra sorriso e ghigno e stupore e arroganza. Avemmo voglia di vederli interi o quasi, quei minuti di sospensione nella scuolea di provincia dello stato che gli ha fao vincere le elezioni. Invece Michael Moore (il sempre troppo acclamato regista di Bowling a Columbine) sa bene che bisogna dare un ritmo o comunque dire qualcosa che dia un senso, insomma che sia ve(n)dibile e incalzante impeccabilmente con-vincente (fino all’Oscar se possibile). Bisogna? Si deve proprio interrompere quell’immagine? Dopo averla già sovraccaricata di domande, dopo averne inventato una didascalia politico beffarda: a chi o a cosa starà pensando Bush, forse ai suoi amici sauditi che gli hanno fao uno scherzaccio? Nel momento della “verità”, il film non sa che farsene, preferisce fare di quella situazione (montandola, accorciandola didascalizzandola) una tappa della sua costruzione legiimamente dimostrativa e esplicativa. (Scrivo da Cannes, il 17 maggio, ho appena visto il film, e curiosamente sono ora le 17 e 17). ella pausa presidenziale, soolineata come disfunzione e conferma di ineitudine e di trascuratezza imbelle, potrebbe invece condensare in una durata la profonda ambiguità situata tra vuoto di potere e potere di
vuoto, tra l’altro scaturita da un v(u)oto estremamente incerto e certamente estremo nel mostrare il punto di crisi della democrazia rappresentativa, l’inadeguatezza dei meccanismi, lo scarto e il conflio tra le diverse velocità (ricordate la disputa sul voto postale da oltreoceano, fino a quando aspearlo?) e “qualità” del voto e della volontà (e della possibilità tecnica di votare. In essa si concentra infai la contraddizione più intensa che tuo il film sfrua e riproduce senza mai pensarla e senza mai darla da pensare, ossessionato dalla necessità di chiarezza e di comunicazione della propaganda. A Roma direbbero “Bush, ci sei o ci fai?”, ma – Berlusconi in Italia dovrebbe averci esemplificato la cosa con ammirevole precisione – il potere “gioca” a esserci, e c’è per (fingere di) giocare. Non esiste al mondo un “presidente” televisibile che possa non risultare inadeguato al mondo, al suo ruolo supposto di maschera responsabile, figurarsi poi nel caso del “capo” del “paese più ricco e più forte del mondo” (e il momento in cui Clinton si tirò fuori dalle macchie di sperma del caso Lewinsky fu proprio quello – da tui i commentatori vaticinato come la sua fine politica – in cui testimoniò su di esso davanti alle telecamere, mostrando adeguata paradossale nobiltà solo e soprauo nell’assunzione della banalità e della mediocrità). E un Bush non può non farci paura, ancor che per la sua storia personale (sulla quale mi parve più inquietante un horror di qualche anno fa, e Skulls, trasparente nell’allusione alla sea di potere occulto universitario e postuniversitario tra i cui affiliati sono annoverati i Bush; capitolo che Moore non affronta) e per il suo possibile “sapere”, per l’evidente impasse che in quel momento di vuoto pubblico tocca la massima intensità, ovvero la sospensione e la sconnessione tra i due stati che appaiono vicinissimi del “tuo sapere e controllare” e del “nulla capire nulla prevenire”, facili da aribuire con illuminismo monco al “potere occulto” o ai manifesti interessi personali, ma che non sono certo riducibili – specie nel mondo del pancapitalismo immateriale che pure Moore riesce a intravedere – alla differenza tra un buongoverno e un
malgoverno, tra un potere enorme malriposto e uno più rassicurante. In un altro film visto (ieri) a Cannes, il magnifico Notre musique, infinitamente più didaico e appassionante e mai propagandistico (per una volta) neppure di se stesso, JeanLuc Godard cita le parole di una giovane caolica antinazista poco prima di essere decapitata: l’individuo punta sempre a essere (in) due, lo stato vuol essere uno solo. Anche Godard apre con una sorta di “blob”, come è tuo l’inizio di Fahrenheit 9/11 di Moore. Ma nel film di Moore il montaggio del repertorio è un clip pubblicitario di propaganda che strappa sorrisi razzisti (evidenti e autodenunciati, credo, nell’evidenza quotidiana del Blob televisivo che confessa la maladigestione del montaggio contaminato istantaneo; inacceabili nella finta riflessione del doppiaggio di un “film” che si pretende illuminante mentre ripropone esaamente lo stesso disprezzo e la stessa ignoranza di Bush nei confronti delle capacità del “pubblico” di capire in autonomia e senza forzature; ipotesi che non sembra essere presa in considerazione) con i volti i lapsus le volgarità i tic dei nomi dell’establishment, in quello di Godard è il dolore di riscoprire nel repertorio, nel mescolarsi ararsi respingersi microsvelarsi delle immagini dell’enciclopedia babelicofilmica, un “esser blob” ogni istante decostruito e ricomposto della nostra memoria e vita stessa. Poi, Notre musique, la musica composta suo malgrado dai nostri corpi occhi soggei desideri (con poche interferenze “nostre”, davvero), si sposta a Sarajevo, per una lezione su “il testo e l’immagine” nell’ambito di un convegno leerario. Nessuna illusione che l’immagine “basti a se stessa”. Certo, forse un’immagine, quella immagine, può bastare a noi. Ma noi con tui i nostri linguaggi e la nostra cultura non bastiamo all’immagine. In questo senso “il cinema è il contrario della cultura”. E non nel senso della “brua TV”; che anzi i “grandi fratelli” di tuo il mondo son lì a capirci ahimè più di quanto ci e si capiscano i soloni e i tromboni. Né l’immagine è “saggia”. Troppo veloce, ci oltrepassa e ci include. È terribile in questi giorni qui a Cannes, nel festival onnivoro di tue le
immagini (mai onnivoro come il vostro istantaneo festival del momento in cui leggete, ancora ostaggi eterni noivoi di eterni ostaggi, chissà quali catastrofi già riavvenute), sentire l’indifferenza la distanza rispeo alle immagini di tortura o di teste tagliate il cui contesto più preciso e riconoscibile, il loro più adeguato “teatro di guerra”. Ma certo, ci vorrebbe almeno il coraggio di farsela girare fino a perderla o a farla decollare, la testa. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, luglio 2004]
Immagini di ostaggi. Ostaggi delle immagini
Immagini di ostaggi. Ostaggi delle immagini. Immagini, pietre che rotolano. Pietre, immagini rotolanti fino a che la valanga si infanga e devasta. Nei tranquilli primi dieci giorni di giugno in cui scrivo (e ancor più nello spazio terribilmente istantaneo e eterno, minuscolo e sconfinato, nella prigione inevadibile in cui è (in)scrio chi crede di scrivere), e la sola cosa su cui varrebbe la pena interrogarsi perché non sapremmo cosa dire (o che verrebbe la troppa pena di interrogare, perché non ci risponderebbe nulla) è la boa improvvisa di “estate caldissima”, un’alba del giorno dopo di cui non si dà immagine se non nella catastrofe (per il resto, le immagini – ferme o finte in moto – hanno sempre della catastrofe, dicono sempre di una intemperanza, di un troppocaldotroppofreddo), le immagini – ah già gli “ostaggi” sono stati “liberati” – rimandano diversi segnali e intensi echi di memoria della loro condizione e della nostra. Muore Nino Manfredi. E vorrei dire: “Nino Manfredi muore”; lo merita la sua dignità di soggeo parziale mascherato ambiguo. No, viene fao il rifluire e confluire a forza del gran calderone della memoria nazionalpopolare che ogni scomparso illustre è convocato a evocare e a far apparire, in uno sforzo automatico di pura ideologia post politica, di ritrovamento inquietante di “valori” solo nell’alone democratico della mortalità. Una parodia della “comunione di tui i santi”, che indica nel “(già) rappresentato” e nel “(già) successo” (che sia e anzi è abbia avuto “molto successo”; o neanche più le “madeleine” gozzaniane delle rose che non si colsero) l’unico senso di vita, l’unica aura sociale del politico, a mascherare la spietatezza del dominio digitale economico istantaneo, o meglio a
ribadirla è nella confezione di un album delle figurine che certo solo una assoluta fede nonviolenta (della quale non si vede poi gran traccia in giro) può portare a preferire davvero all’album palestinese con le figurine dei kamikaze. Insomma, Nino Manfredi muore. E ci si rende conto subito che non si può morire (nel/dal cinema italiano) dopo Alberto Sordi. Si traa di appello anagrafico, di “stagione del cinema italiano”, e appunto di convocazione. Impressionava, nei “servizi” TV certo sinceri e dolentemente ilari, il richiamo più stupito che severo alla generazione dei cinquantenni e quarantenni del cinema e a quella dei televisionisti, troppo rada nel passaggio davanti al feretro. Tui, tui bisognava esser lì, a riempire comunque una virtual piazza del popolo o una san giovanni. Malatissimo da anni il grande Nino, imbalsamata e coccodrillizzata la reazione alla scomparsa, la “notizia” diventa la frequenza alle esequie – “ultima sala” – sostitutive del rito della visione al cinema. La distraa riesumazione dei “pezzi” commemorativi quasi sempre omee di ricordare due capolavori di Manfredi e Risi, Venezia, la luna e tu e Straziami, ma di baci saziami, film di fragilità sublime e di astraismo irrealistico, perfei nel lacerare mescolare incrociare le cartoline della provincia italica fino a dirne il volume speacolare. O glissa in accenni pudichi sulla saga pubblicitaria emmeriana della pluripubblicità missoniana dei caè che “se non è buono, che piacere è?”, gigantesca icona dello spero post-marxiano del capitale che mai come oggi si aggira ai bordi del visibile. Meno prepotente e invasivo di Sordi, meno capace di inghioire digerire riassumere i caraeri, Manfredi possedeva però lo straordinario sorriso della passività, come di un’ombra del cugino modesto e provinciale di un marcellomastroianni. Capace più di altri di sentirsi “già di là”, come aveva deo alla morte di Sordi, in aesa di rivederlo con gli altri. Rimontando si torna a Fellini, alla geniale ingenerosità di Albertone che disse di non essere andato alla camera ardente allo Studio 5 di Cinecià (o ai funerali?) del maestro per non lasciar scrutare alle telecamere i segni in volto del proprio dolore. Poverissime e mediocri le reazioni e le elaborazioni del luo (sostituite da sempre da
quelle del loo) alla scomparsa tecnica e decretata di un altro grande (non)aore, il Ronald Reagan diventato il più paradossale e warholiano esempio del paradosso dell’aore, eroe fino in fondo (la lunga morte dentro l’Alzheimer) di un percorso di vita in cui il soggeo non necessita di memoria perché egli stesso è (in) memoria, stratificazione iconica a disposizione di interventi mutanti. Occupati gli scranni della recita ideologica, con lode o vituperio delle reaganomics e degli scudi stellari, i rappresentanti della pubblic(itari)a opinione hanno risentenziato la superficialità del personaggio, la mancanza di spessore del personaggio come dell’aore, buraino al servizio di interessi ben più pesanti (solita metafisica per cui il potere e il capitale sono “quel che si vede” o “altro” mai nessuna domanda o ipotesi su un elemento comune ai due “stati’’; nessuna incertezza, come nel caso dell’elezione di Bush, che parrebbe in effei inesplicabile al solo guardarlo in faccia). Nessuno cita il ruolo centrale di Reagan nel profetico libro mastro di Ballard, La fiera delle atrocità, anticipazione del crash indefinitivo tra reale e immaginario. La deriva di desiderio che permee al mediocre aore quasidivo di impersonare il vuoto del massimo potere mondiale si trovava esibita già lì, nell’immensa crudeltà potenziale o già rappresa nelle immagini dello speacolo, nello speacolo sanguinoso delle immagini. (E già che non ci siamo. Ho cominciato con un chiasmo. Immagini di ostaggi, ostaggi di immagini. Forma verbale di gabbia trasparente, esempio di palindromo puramente mentale. Cinismo della (mia?) “chiosa barocca” di una religiosità irrisoria. Nostalgia frivola immediata, di fronte al mirakolo dell’uscita langhiana (da Fritz Lang) degli ostaggi dall’immagine della prigionia per ritrovarsi nella prigione dell’immagine che i loro osceni sequestratori ci avevano dato la chance di riconoscere, dell’ancor più imprigionante rima in altre lingue “images/otages” o “images/hosta-ges”. Per non parlare della divinazione irakolare). Interrompo il gioco, non solo per lo spazio che si trasforma qui in deadline. Il chiasmo si scioglie, si disperde il suo punto di godimento. L’immagine stessa è ostaggio, almeno quanto l’ostaggio è immagine. Non siamo
ostaggi dell’immagine, siamo ostaggi in essa e con essa. (Essa è ostaggio con noi e in noi?). Farla parlare, parlarle, è fiction trucco missione impossibile e iperbolica; ci si sente piuosto parole di una stessa lingua; le parole si parlano tra loro? I bambino di nove seimane che mi guarda e piagnucola sorride poi in questo stesso momento dell’11 giugno è il corpo e il segno di un’immagine che non so cosa sia e che spero non mi tenga in ostaggio né che sia mio ostaggio. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, luglio 2004]
C’è vita su questo pianeta?
In memoria di Zhao Yang, che non voleva far terminare l’immensa partita a scacchi di piazza Tienanmen) C’è vita su questo pianeta? Ogni momento è troppo presto troppo tardi. Ovvero, se ogni momento è l’ultimo e il primo. Se decisivo è questo istante. ale è lo spazio del presente, in assenza di esso? Seguo con appassionatissima indifferenza il dibaito sul che fare/come chiamarsi della sinistra (l’accento, spero si senta, è sull’intensità della passione). Non è il presente, a muovermi, ma la presenza di alcune domande (per esempio di una figlia?). La risposta che sempre affiora intorno è un primum vincere angoscioso e paralizzante ogni sogno (e, più che garanzia di sconfia, chiarezza dell’aver già perso). “Baere Berlusconi” (o, prima, Bush). Aribuendo implicitamente a questi feticci del nuovo (?) potere (?) il ruolo propulsivo che si vorrebbe esorcizzare. Troppo tardi: la linea berlusconi-putin-bush era già tracciata dieci anni fa, e leggibile ben da prima, se si sapeva che il denaro “ufficiale” circolante al mondo era sufficiente ad acquistare un paio di volte tuo quel che di comprabile c’è al mondo, senza contare la massa esorbitante di denaro “nero”: oscuro, inequivoco segno che il potere se esiste è quello nero e invisibile (pur se tracimante in spiragli di luce) di tue le mafie. La responsabilità di questo momento (qui, e più che mai ora, dopo il lento istante del passaggio di quell’ondata di fine anno, ombra di presente ed eco di terra che trema, segnale smagliante dell’intermienza del consistere più solido), se la si vuol immaginare e infine far esistere, è appunto quella di
far rifiorire il “milanismo” (da “Milan”; lo dico da adoratore acritico di Ševčenko e Kakà, oltre che di don Milani), l’ansia di vincere (antidoto: la presenza esaltante e fragile, il senso “politico”, delle per quaro a tre o cinque a quaro subite e acceate da Zeman in nome del “bel” calcio). E di praticare direamente nell’invivibilità del presente forme di vita anche leggermente differenti, ma vivendo intensamente la leggerezza della differenza, resistendo tenaci nella fragilità di essa. Le azioni tese primadituo a “oenere la maggioranza” sono subalterne da subito alla logica e al discorso e alla forma di vita che si crede di voler combaere; promozioni effeive di un potere insieme risibile e quasi assoluto. Secondo la formula ideologica e ingannevole della governabilità, di sistemi maggioritari pieni e duri (che qualcuno a sinistra vorrebbe da noi introdurre, certo per “giocarcela” e vincere, e perché il vincitore possa esibire la propria egemonia). Mentre non si traa di assicurare la traduzione in un potere ampio efficiente e poco contrastato di un mandato eventualmente espresso da un voto di massa (traduzione che quanto più si vuole piena tanto più apre alle possibilità di nuove tecniche di diatura o di stati di polizia e di schedatura, perdipiù senza in alcun modo intralciare il libero dispiegarsi del movimento e del “desiderio” nero e invisibile del capitale) quanto di scongiurarla o limitarla. Né si traa di competere con la velocità della tecnica e della comunicazione mimandone l’istantaneità, quanto di intralciarla, ridurla, saltarla o agilmente distornarla. Il sistema di voto eleronico istantaneo (dalle fantastiche e verosimili e non verificabili possibilità di falso immediato non mediabile, già avvertibili nel confronto Bush/Kerry) che ci aende, così automatico comodo pulito, ha per esempio un senso non liberticida solo in quanto legato a un esito sempre più distolto dal politico e sempre più indirizzato al recinto amministrativo. (Al contrario, gran parte delle questioni che ci aspeano – dalla procreazione assistita alle varie forme di biotecnologia eugenetica al nostro stesso “ritrovarsi
immagine”, ai titanici viaggi su nuovi “titani” agli “stermini” o sacrifici di massa su cui presto intere società o comunità dovranno pronunciarsi – non hanno quasi nulla a che vedere con gli schieramenti abituali). Non si può continuare a stupirsi ebeti – o peggio a lamentarsi – dell’esaezza con cui da anni quasi ogni contesa eleorale in ogni grande o piccolo paese di secolari tradizioni democratiche si risolve in scarti minimi e in paradossali rovesciamenti di situazione dovuti a tali scarti o a rapidi e progressivi ripianamenti di eventuali scarti maggiori. Tale incertezza non è dannazione ma segno, chance quasi unica. Naturalmente, l’istante zero del presente in cui tuo si annulla è anche quello in cui tuo si riversa e confluisce, in cui ogni decisione (per la prima volta nella storia pensabile prodigiosamente presente e “contemporanea”), infine così esaamente si percepisce – proprio per l’ampiezza e diffusione della percezione – indecidibile sospesa rinviata fuoritempo. Incubo, lo scatenarsi della guerra in Iraq nella primavera del 2003, dopo le manifestazioni immense e unanimi contro di essa cui partecipammo inani (e solo disonestà ideologica può illuderci che con “altro” governo si sarebbero sventolati italici ramoscelli di ulivo sulla via di damasco gerusalemme bagdad). Al terrorismo del potere che si vuole rappresentativo di una “volontà” popolare, è d’altronde cinico o idiota o baro contrapporre il terrorismo del volere ugualmente forzare accelerare l’istante direzione di un obbligato indirizzarsi a un “buono e giusto”. Si può forse ancora provare a fare spazio perché ci sia il “tempo” del dissenso, prima e più che del consenso. E il salutare incepparsi della “conta” dei voti (per complicazione tecnologica o per sospei strabordanti di broglio. Vedi ucraina e la meravigliosa e ancora perdurante piazza non violenta: le (e)lezioni non finiscono mai), limite ragionieristico-capitalistico della volontà “popolare”, può essere mutato in un “rinvio” della troppo esaa
determinazione di esse (d’altra parte, le decisioni da prendere, localmente o mondialmente, di elementare giustizia ridistributiva economico-sociale sono quasi tue da decenni impopolarmente note; e auabili proprio in senso tecnico, se liberate al massimo dall’investimento politico, e proposte magari da una cuoca anarchica elea per sorteggio e ritualmente e arbitrariamente “autoritaria”; anticipo o traccia parodistica di ciò si ha nei regimi oligarchici interni alla vita televisiva, nel tempo limitato di un lievitar di pasta). Possiamo pretendere di continuare a giocare, contro chiunque voglia in un modo o nell’altro “chiudere la partita”. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, marzo 2005]
Bon voyage
Stiamo aspeando ancora (tanto da non rendercene conto) le immagini dello tsunami. Pur lentissima, quell’onda poco prevista è stata finora poco (post)vista, quasi fosse stata troppo “veloce” e repentina nella sua lentezza per poter essere infine subito vista dall’immediata (velocità della) luce dell’immagine, (il contrario della situazione twintowers dell’11 seembre immagine immediatamente rivista nel suo disfarsi stesso, fino a dare per il solo accumulo infinito di trasmissioni di sé il senso di un febbrile istantaneo rammendo della lacerazione prodoasi in essa. Non è un caso, anzi lo è ma è proprio il “nostro caso” – De Oliveira direbbe Mon cas; uno dei suoi film e titoli più stupefacenti – che quell’infiirsi di repliche in onda sia stato superato solo dall’immagine fissa o ripetuta nel movimento di quella cosa immobile che è stato il corpo del papa morto. Di nuovo, in un luogo di alto turismo mondiale, con in più l’effeo del vedere il gesto del vedersi e registrarsi tecnoeleronico dell’immagine che è l’immagine stessa: col pubblico (auto)convocato su scena a celebrare più che la morte di un grandefratello suo, la propria situazione di indossatore portatore agente di uno sguardo che non gli appartiene né appartenne mai). Allora, Triple agent? Il film di Rohmer, arrivato sugli schermi dopo più di un anno di rinvio, certo già sparito mentre leggete, sarebbe il film pietrarotolante immobile di questa volta/mese/pagina? E cosa c’entra con lo tsunami? “È morta, è morta,” dicono solerti ma imbarazzati e vogliosi di sbarazzarsi della questione della verità contingente che fu, gli agenti polizieschi dell’inchiesta sul “triplo agente” scomparso. Rispondono a una domanda sulla moglie di lui la cui morte registrata permee loro di acquietarsi nel sollievo della constatazione del presente (che poi è sempre un/il film) quale
inevitabile consegna malinconica e barrylyndoniana del cumulo di morti che è stato. Non so dove vado, meno che mai in questo spazio più “preciso”. Di sicuro, non al cinema. Solo la semplificazione selvaggia ed errante della memoria mi permee di parlarne, di scriverne. La frontalità mentale e imbrigliata del film di Rohmer, facendo passare con freddezza dolce (penso al lontano meraviglioso sinuoso e non meno politico Stavisky di Resnais) la triplezza della situazione e della figura che la condensa, porta vicinissimo alla distanza/cinema o striplicarsi appunto della situazione/cinema (come minimo: in cosa, in cosa vista, e nella cosa “vedere” che esso è). Il triplo agente di viaggio da fermo mi indurrebbe a raccontare l’andar per visioni, in spazi diversi nell’ambito di una decina di giorni a giugno (procida per vento del cinema/chi pensa il cinema; milano per la milanesiana), a fianco di Manoel de Oliveira, novantaseenne fuori dal tempo. E qui e là, tuo voleva vedere, saltando pasti e correndo da uno schermo all’altro. Moonfleet di Lang in presenza del bambino aore del film oggi professore bibliotecario a Oxford oltre che traccia di una delle più intense paure/desiderio mai viste; un panino per non perdere i girati di Fellini, i muti lumierici inglesi o gli stati di cinema ripresi in diversi decenni nella stessa piazza ungherese, ma poi si alza mi insegue nel buio cambia idea vuole venire a rivedere Francesco, giullare di Dio nella proiezione su una nave al largo dell’isola, e alle tre di noe è ancora in sala a salutare herzfrank e abelferrara. Non sa chi sia paismith, curioso mi accompagna al concerto milanese, lei gli dedica una canzone, lui finisce in piedi baendo le mani a Gloria e “waving” perfeamente peoplehasthepower. Il giorno dopo, prima dell’incontro col pubblico, decido di rivedere mezzora di Inquietude, capolavoro del 1998. Si ferma anche lui, non riesco ad alzarmi, il film è troppo intenso, è davvero troppo il “nostro caso”, con la vita inevitabile prostituzione di un vivere immaginato, con la più semplice delle inquadrature che si striplica crepitando tra un quadro di sfondo nebbioso il primopiano di Leonor Silveira e il fumo appena perceibile del suo cigarillo.
(Nella “mail” si esibisce terribile soffice un messaggio firmato ellroyanamente da un’improbabile spammante Ann Bondurant: you have your watch ready to be shipped, sarà un monito di ferramondo dalla redazione sulla finetempo). Sì, le telecamere che certo hanno filmato l’arrivo frontale dello tsunami si sono perse, per ora. Abbiamo il lento salire delle acque videato dai superstiti allagati. Acqua di cinema che sale, a riempire lo spazio trasparente dell’aria del cinema, a darci la rara opportunità di vederla oltre che respirarla invisibile. Ma si stanno censendo e accumulando da qualche parte le riprese (esse superstiti) dell’ondavalanga che uccide colui che la filma. Mi colpisce nel giornale di “ieri” una cosa dea dallo spielberg sempre più shyamalaniano di Guerra dei mondi, bellissimo soprauo nei lunghi opachi interni di puri segni: “…Agli extraterrestri sulla terra… Non credo più… Con i milioni di telecamere che orbitano intorno a noi… Come mai mi chiedo… Ci sono tante più videocamere sul pianeta e tante meno visite di extraterrestri?” (Oh, proprio tu, Steven, che volesti inghioire in un transistor il futuro⁈). [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, marzo 2005]
(la memoria sterminata)
(la memoria sterminata) voce off di noi stessi, o noi stessi come voce off. Spesso il nostro immaginato personale vivere quotidiano pare il risonarci dentro di una voce “o”, costante presenza fuoricampo a una vita assente. Altre volte, invertiti i piani dei vuoti e pieni del bassorilievo è proprio la vita stessa (quel che si conviene di chiamar così), a esserci voce off, ad accompagnare da fuoricampo, con accanito tessuto di intermienze, il dipanarsi ininterroo di quel che poveramente definiamo o sentiamo o crediamo e pensiamo essere la “nostra vita”. Venne e passò il giorno della memoria (poche seimane fa; ma vi ricordate adesso la data?). Ultimatum alla rovescia, gli anniversari. Sessantanni dopo la “liberazione” di Auschwitz. Ai primi di agosto sarà Hiroshima. Alla fine di dicembre il duemilacinque si inerpicherà – se non già esausto – sui centodieci anni precisi dalla prima proiezione pubblica a pagamento Lumière. Sembra frivolo l’accenno al cinema: ma fu esso a celebrare il proprio mezzo secolo spaccando in due la storia con la rivisibilità (ovvero la visibilità ripetibile, la visibilità in ogni tempo/fuori dal tempo, il visibile come epifania dello spazio che condensa nella più minima delle immagini tua la peripezia del mondo, l’odissea del vagare di nessuno per tornare a una casa/isola ferma di tele disfae e di freccia sempre ancora da scoccare) dell’orrore dei corpi divenuti strame o fumo nei campi e di una cià intera di colpo mutata in campo di calcinazione ed evaporazione dei corpi. Il lampo di magnesio di un Weegee smisurato atomico fotograò il mondo nella sua friabilità, nella permeabilità costante alla catastrofe della luce. (Nei nomi dei due luoghi si cela lo stesso scivolamento furtivo silenzioso e veloce inevitabile di mano di pickpocket e di dito sulla bocca: sh,
sch; e il “witz” anche a non voler sapere che è proprio il “moo di spirito” a sua volta incluso nel lager e che dà tue le ragioni al Benigni de La vita è bella, rimanda in sé un suono serpentesco e sinistro). La bizzarra e pur fasulla persistenza dell’immagine, cicatrice interiore dello spazio, propone di cominciare a ricordare. È il massimo che si possa fare, operazione insieme minima e colossale. Ripetizione rituale che solo nella banalità quantitativa dell’accumulo permee di accogliere l’enormità della tragedia, dello sterminio nel cuore del continente “civilizzato”, dello sterminio che è al cuore dell’Europa unita di oggi. Forse solo proprio l’assuefazione retorica alla ricorrenza può essere eco di quello sterminio, l’affollarsi e sfogliarsi fino a venir meno, gassificarsi. Il rito stesso ha da passare per il camino. Il popolo eleo (ebraico; e con lui, in differenze quantitative, gli elei che furono tue le minoranze, dagli zingari ai comunisti agli anarchici agli handicappati ai malati e a tanti “altri”), di cui non doveva restare memoria, lo si ricorda nello sterminio, handicap di partenza dell’Europa del secolo dopo, se si ha il pedissequo coraggio di dare eco alla banalità del male con la banalità della memoria in senso rituale. La grandezza di quel male consistee soprauo nelle infinite maschere banali di esso sommate, male di “massa”, infai. Ordine di grandezza burocratico del male; e il male che è la grandezza dell’ordine (ordine burocratico del mondo e ritardo inesorabile del vedere (che sembra il gesto più istantaneo. No, quando “vedi” è già tardi, tuo è già avvenuto; alcune istantanee fatali, pochissime da hiroshimauschwitz all’undici seembre, appaiono ultimi bagliori a segnalare il disfarsi segreto e costante del consistere) che portano al mistero della rarità della rivolta contro l’orrore della macchina di morte nazista che si condensa in un altro nome del luogo, Sobibor). In un celebre racconto di fantascienza fulminea, il supercomputer che infine elenca “tui i nomi di Dio” porta Dio stesso a coincidere cabalisticamente con la possibilità di generare tale elenco. Lo sforzo di Spielberg e di altri è ora
quello di dare un nome a tue le viime della Shoah. Riusciremo, prima di lasciare il pianeta o che esso ci lasci, a dare un nome a tui quelli che forse ci hanno preceduto? E cosa sono saranno e furono questi elenchi? Monumenti al morire, agli infiniti militi noti di una baaglia/gioco che ci vede viime costanti e che pure non ci riguarda. Immensa piramide di nomi al cui culmine c’è l’ultimo uomo sulla terra che ciascuno può sentirsi. (Il momento in cui scrivo. 3.37 nella noe tra Pasqua e il Lunedì dell’angelo. L’ora è già legale, per rubare un po’ di luce. Scoppiano a trai vicini qui nella campagna spari di cacciatori. II papa è apparso alla finestra, credendo di parlare ha benedeo la piazza e cià e mondi con voce afona, fuorisincrono di quasi una vita intera. Oggi regalo a un bambino che compie un anno dentro il nome “Adelchi” un notes magico: imparerà che si scrive per cancellarsi e dimenticarsi? E che non c’è spazio, né serve, perché si insiste sempre sullo stesso punto? Il momento in cui tu leggi non è tuo: il tempo sono gli altri). Sepolta in Montaigne, in un punto che non ricordo mai, c’è l’affermazione che bisogna avere una buonissima memoria per poter mentire bene (all’opposto, potremmo dire che lo smemorato non mente mai?). Sapere/ricordare il più possibile, per non far infrangere sullo scoglio dei dati delle date dei nomi e dei ricordi enciclopedici condivisi la bolla del proprio mentire, che in questo senso si configura come una sorta di esercizio fantastico di vuoto, di ricostruzione inedita e torsione anagrammatica di dati condivisi. La riscriura immediata e costante del testo della Storia (cioè della cronaca, secondo una concezione ingenua della registrazione) nel 1984 orwelliano, consente alla propaganda e all’ideologia di coincidere con la verità. La lacerante intuizione benjaminiana che tua la Storia è scria dalla parte dei vincitori (intuizione affine a quella kaiana della legge/sentenza la cui “esecuzione” si scrive in tortura nel corpo dei condannati) non può non incontrare, allargando i cerchi della loa delle classi, la richiesta astorica eccessiva impossibile assurda dell’Irene di Europa ’51 (il film più spirato della storia del cinema) di una giustizia per tui gli
“scomparsi”, per tui i già morti del mondo, tui quelli che non ci sono più. “Ricordati che doveero morire” mormora la memoria al soggeo che immor(t)almente si ritiene vivente. No more hiroshima, no more auschwitz; il monitor di speranza, che si interrompa la ripetizione dell’orrore, può suonare – di nuovo – sinistro e comico come il nevermore gracchiato dal corvo. Giaculatoria e condanna. Memoria dello sterminio e sterminio della memoria (“mai più”, cancellazione). Coazione a ripetersi già nel ripensarsi dell’orrore o promemoria per un oblio. Dimenticare per credersi liberi e “veri”, ricordare per potersi mentirepaludare immaginare quale soggeo responsabile. Resistere all’obbligo di giocare queste partite dialeiche tra illusionismo e illuminismo? Echi di resistenza opposti: il persistere marrano di riti differenti nascosti intrecciati sovrapposti, memoria soerranea e segreta e aiva che non si consegna al potere dello speacolo sociale; o il gesto estremo dei Massimiliano Kolbe nel luogo stesso dello sterminio. Se a morire sono sempre gli altri, morire allora al posto dell’altro, sperimentare fino al possibile la situazione di chi appare perduto più che perdente, assumere il segno e la stella della condanna, farsi (l’)altro. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, maggio 2005]
A corpo morto
Se c’è una grandezza, un anelito di vita e respiro oltre il cinema che non si trova nel Caimano di Nanni Morei, è nel resistere sublime ouso del corpo dell’autoraore nannimorei, nel condensarsi in esso di tuo un cinema in potente crisi di dissoluzione. Tuo il disagio che il film produce e induce, e soprauo quello da cui e in cui si genera, è (in)felicemente e tremendamente racchiuso e spalmato nei corpi sui volti sugli occhi di tui gli aori del film. Per la prima volta in Morei, invece di essere partner o – proprio tecnicamente – sparring partner, tui gli aori e personaggi sono emanazione e manifestazione della crisi dell’autore e aore tradizionalmente principale. Situazione che si dirama fino alle figure minori, alle comparse, quasi tue icone del cinema moreiano, facce di amici e collaboratori. Facce stranamente o naturalmente gonfie sinistre invecchiate impacciate. Esempio estremo, perfino oltre l’abituale silviorlando “doppio minore” e “alter ego simpatico” di sé/morei, è micheleplacido. Il “berlusconi mancato”. Gli sprazzi di “umanità” e “verità” di tui quanti non fanno in effei che confermare un’impressione “fantastica”: tui sono già un po’ berlusconi. Se non altro, nel narcisismo e nello speacolismo più dilagato che dilagante (anche nei personaggi nei visi negli occhi più giovani). Lo stesso “voler(poter) fare un film” si confessa sintomo inconfessabile di volontà di potenza (per ridicola ingenua limitata che sia) e di manipolazione. Il finale, inquietante se si vuole (molto meno del resto del film), è la tenerissima imbelle ma infine sincera autocritica di chi in quello speacolo si è sempre problematicamente eppure tranquillamente inserito.
Non c’è bisogno di vicinanza fisiognomica (come in De Capitani, peraltro il più allarmante dei berlusconi pre-visti dal film), e l’“orrore quotidiano” (troppo evidentemente il berlusconi the real one del repertorio TV) è troppo più intenso di quel che l’aore placidamente potrebbe provare. Il paradosso distruivo del film si ripropone e compie nella mutazione puramente mentale e nominale di morei “in” berlusconi. Assunzione personale e politica della stessa nonmutazione che fin dall’inizio rompe il vetro del cinema facendo fluire e mescolarsi le catarae della fiction in quelle della visione d’autore. Mossa temeraria: tuo il film e tui gli aori sembrano infai involontariamente provenire da quelle catarae di cinema, in un fluire televisivopubblicitario chiaramente e berlusconianamente melmoso. Non è una linea così avanzata, quella dell’identità, ma per Morei, più intensamente e intelligentemente che in altri, è sempre stata quella del fuoco, in cui ha geato il personaggio che solo lui potrebbe e vorrebbe interpretare, il se stesso che non ha bisogno di essere analizzato perché presume di analizzare lui tuo, il nulla-tuo che è nannimorei aore. I suoi momenti di cinema più belli, i soli oltre una “afilmicità” quasi imbarazzante sono e furono Sogni d’oro (cui l’ultimo film si riannoda esplicitamente risultandone una curiosa parodia seriosa), con mutazione marinara finale, e la parte della malaia in Caro diario. ando, aldilà dell’autocompiacimento atletico e del dinoccolarsi autocompiacente, il corpo del soggeo è almeno messo a dura prova, e l’identità stessa per riaffermarsi si torce. Non si può né vuole pretendere che nannimorei sia davidcronenberg, ma è curioso come A History of Violence ponga la stessa questione dell’identità, oltrepassandola. E come la televisione sia in questo insieme la prova dell’identità, l’indizio e il riemergere di questo, e insieme la “menzogna” che la violenza stessa ammeendosi ripercorrendosi ripetendosi nella finzione filmica invererà e infine distruggerà.
L’impaccio del Caimano/film nel confrontarsi (per allontanarsi o identificarsi o altro) con la televisione è il sintomo fascinoso e tu’altro che solo italico del venir meno e del naufragio dell’aore, da cui appunto Morei tenta una sortita (tragica, pur volendo essere “commedia” suprema e impossibile; ma nel film è questione di Dio, di potere, di regia, non di sesso) indossando il proprio opposto, ricongiungendosi col proprio hyde nascosto/hidden. Fa ridere, ma è appunto tragica la rivolta degli aori (e degli sceneggiatori ancor più, certo) contro il dilagare (fintamente? Diciamolo, ditelo pure!) democratico del “reality show”, di grande difesa professionale, simmetrica alla richiesta di partecipare agli incassi da parte del pio virtuoso modesto maestro di provincia del film di Nicolas Philibert che tanto incantò e commosse le platee “democratiche” di tuo il mondo “civilizzato”. Spalti vertiginosi della difesa, le partecipazioni in veste riaoriale, da aori di se stessi, alle varie isole o faorie dei “famosi”, divari già celebri per 15 o 1500 minuti o ore poco importa. Condensazione finale delle due forme cinetelevisive dominanti, entrambe potenti vampire del fantasma che è già il presente. L’imitazione: è l’interpretazione di personaggi di speacolo, di divi di ogni genere, in una sorta di reci-divismo lunare. Un titolo quale Neri Marcorè sarà papa Luciani fa ridere e inquieta nella sua perfezione. Pur già caduco, crepuscolare nell’epoca già digitale. Mentre il geniale de Oliveira che non può morire insegue senza la Deneuve – paurosa – ma con Piccoli i personaggi di Bella di giorno quarantanni dopo, invecchiati come noi, a noi tocca di immaginare chi/cosa sarà il “Berlusconi” giusto (e ahimè pericolosamente invisibile?) dopo le elezioni oltre cui voi siete già, e titoli come: Papa Wojtyla (ri)sarà papa Wojtyla (o anche, e quindi: Nanni Morei non è/ra nannimorei?). [“Rolling Stone”, aprile 2006]
Mancanze
Mi manchi. Senza virgolee né parentesi a evidenziare il fraintendersi e il mancare che è il senso del linguaggio. Mi manchi, dicono gli amanti al telefono. Ti manco? Gli innamorati, anche senza aver leo jacqueslacan, o senza averci mai pensato, avvertono il tremore del mancarsi, il senso almeno doppio che sgretola la parola l’affermazione la frase. Nel mancarmi, mi manchi. Ti manco, ecco perché ti manco. Passando dalla parola intransitiva a quella transitiva, l’amore stesso sembra venir meno in struggimento immediato, rovesciando la sua proprietà più intensa, il mutarsi nell’altro. Ti manco perché ti ho mancato, ti sono mancato perché ti manco costantemente, non ti raggiungo, non ti ho mai raggiunto non ti raggiungerò mai. Né la ripetizione e condensazione orgasmica si oppongono a questo, il venire anzi è subito venir meno, intransitività assoluta, sentirsi mancare, mancare. Troppo vicino al suggello della vita terrena; è mancato, è mancata. (Solo ci possiamo illudere – e tui gli sforzi della civiltà umana infine a questo puntano o si riducono – di avvicinarci per allenamento accanito con perdite enormi alla ripetizione di quell’intensità indicibile nella sua stessa meccanicità, in cui sentiamo la nostra estraneità alla vita e al poterla definire nostra, almeno quanto il desiderio di essa. Il punto in cui passione e indifferenza sono la stessa cosa.) Davvero non c’è bisogno di sapere, né di inventare con troppa creatività. Spesso basta restare al dizionario, a questo primo rinvenire ruderi e miraggi nella parola. L’incrocio delle traieorie del mancare disegna un dubbio incrollabile: la delusione inclusa nel mancarci doppio dell’amore è il mancarci della realtà stessa, è la certezza che essa ci manca. Rovesciando il poeta (ailiobertolucci) diremmo: presenza,
assenza più acuta. Nel sognodiunanoedimezzaestate inscenato da lucaronconi a Milano in questi giorni, la magia pare infai mancare. Trasognare l’immagine della vicenda è compito eventuale dello speatore. Ronconi trova e segue nel testo due traati, una sorta di ars amandi e una summa del gioco teatrale, comicamente o tragicamente speculari, fusi in un sogno (dream, derma, madre, merda, drame, correndo le lingue da corsari) che non è soave o bizzarro o anche feroce interludio ma inizio pervasivo del motore logico del mondo. La magia manca sempre il bersaglio, se pensata o usata come arma. Si mostra invece forma di tue le forme, summa di tui i mancamenti, di tue le nostre assenze e fallimenti nei confronti di persone sensi parole situazioni. In questa magia analitica vorrei addormentarmi innamorato, e alla fine dello speacolo mi ritrovo troppo sveglio o risvegliato. Come nell’abbraccio in cui chi abbracci ti è e ti sfugge, ti abbraccia e ti manca. E ti manchi, e sentendo che ogni istante è un viaggio nel tempo lo manchi. (Assisto ora (blob)a un mancamento TV raggelante. Domenica pomeriggio, Canale 5. La presentatrice domanda a Giulio Andreoi (più o meno): e cosa ha da dire ai giovani, quale futuro li aspea? Silenzio assoluto e quasi assoluta immobilità del divogiulio. Impaccio. Guasto tecnico? Freezeframe? Ripetizione della domanda, silenzio perdurante, sgomento. Pubblico impietrito, e il convitato di pietra in catalessi a occhi aperti. La regia fa irrompere funerea e salvifica la pubblicità. Poi, un cenno confuso a un disguido dovuto alla pubblicità e da dietro le quinte ecco il redidivo giulioandreoi. Una galanteria cristicospiritosa – “Non sono tra due ladroni ma tra due belle donne” – e si congeda. Cosa consigliare ai “nostri figli”?). [rubrica (live in)vàno – Notes magico per futuri rinviati, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 6 novembre 2008]
Edipo e il clone
Se gli androidi sognino pecore eleriche non è più una questione bizzarra. Come troppi altri dei giochi di inversione e estensione logica automaticamente iperbolica profusi da P.K. Dick nella sua opera, è diventata tema e scriura del presente. Scrivo, immagino nuove guerre stellari scaturire dall’incontro tra Edipo e un suo clone, o anche solo dall’incontro fatale tra l’eroe e l’orchestra infinita diventata l’invincibile armata dei cloni del suo complesso. Cerco un dato scientifico sulla pecora Dolly, il primo animale clonato, una decina di anni fa. Mi perdo nelle date, luglio ’96 o febbraio ’97 per la nascita (discrepanza di oo mesi che sembra un intervallo di folle wikipedica gravidanza; no: “nata” biologicamente il luglio 5 1996, è però “naturale” farla nascere il giorno in cui l’esperimento viene reso noto con la pubblicazione su “Nature” nel febbraio dell’anno dopo). La morte, sicuramente nel 2003, il 14 febbraio di sanvalentiniana memoria. L’accanimento sul dato che desidero (un deaglio irrilevante che non limiterebbe l’improbabilità della mia clonaività scrivente) si blocca quando leggo che su Dolly fu praticata un’eutanasia, dopo che la pecorella aveva sviluppato un’infezione polmonare irreversibile. (i a Berlino ho sentito nell’aria del Festival del cinema una frase, mi pare dea da una fanciulla anche incantevole, forse nel barbablù debole della breillat – o invece in un TG europeo intrasentito la noe addormentandomi: questo cervello non è mio, me lo hanno dato. Mi frulla nella testa o nel cervello. Mi vien da pensare quanto il soggeo, il soggeo umano, o l’umano stesso, si definisca oggi nella sua mitica integralità mitica solo sentendosi progressivamente estraneo a qualunque (o comunque a “buona”?) parte di sé. Con buona pace dello star/sentirsi bene, in/con se stessi eccetera).
Anche la scriura si arresta, stanoe, mentre elucubro cosa possa sognare una pecora clonata; incontro “ora” in ritardo, sul televideo di Raiuno acceso a doppiare voci di differite sportive, la notizia di see ore fa la morte di Eluana Englaro. Mi fermo perché mi sembro troppo vicino, e proprio nella distanza festivaliera. Non mi interessa la mia “opinione”. Fuggo dalla condanna all’opinione, all’intervento, al sondaggio permanente ininterroo (mai un sondino che venga levato, qui); anche affascinante, doppio esterno pubblico terribile del costante giudicare interiore che il nostro monologo dipana. Vorrei essere e sono dalla parte di tui e di tue le ragioni in causa (intanto è noe è maina, ecco la parata delle opinioni, di politici strappati all’esibizione del corpo scelto degli incursori, di giornalisti sorai all’eternità quotidiana per cimentarsi con la soluzione di continuità che pare essere la morte, e ancor più questa morte della morte (per alcuni) o vita della vita (per altri); e il duello tra le ideologie ugualmente mortifere della vita o della morte, la gara a chi è più artificiale o naturale), soprauo lì dove era o sarà o è Eluana, fuori dai confini tra il dovere e il volere e il poter morire, lontana dall’assenza di amore di cui trasudano tristi tui i discorsi che la riguardano in quanto problema occasione dovere, ma che non ne contemplano l’indifferenza rispeo al nostro nonsapernullancora. Non mi vergogno di essere “al cinema”. Situazione quasi giusta, districarsi tra l’appassionarsi amoroso a un film e il sentire le persone nella separatezza segreta e secca che i film sembrano esplicitare, e a entrambe le cose abbandonarmi e a entrambe resistere entrando/uscendo. (Visto stasera un capolavoro realizzato nel 1961 da Julija Solnceva – la vedova del grande Dovženko – tra propaganda e amore per il marito, il giovane eroe di guerra sta sempre per morire di nuove ferite e sempre sopravvive, vero fantasma che scivola tra gli alberi sull’acqua del fiume e poi la barca si invola, e gli amanti sognano lo stesso sogno – e la storia tua – e in esso tra terra e cielo si risvegliano). [rubrica (live in)vàno – Notes magico per futuri rinviati,
“Nòva/Il Sole 24 Ore”, 12 febbraio 2009]
Porno scena
Nel reality show e nei grandi fratelli, e infine in tua la televisione la pornografia non promana più dalle pose e dalle azioni e dalla forma dei corpi. Non dal visibile ma dalla situazione invisibile stessa che tuo fa o promee di far vedere. alunque immagine si rivela o conferma pornografica, per soavi che siano i volti o garbate e traenute le trame e le tematiche. Il corpo/soggeo della pornografia, da sempre stigmatizzato temuto invidiato disprezzato nell’esibizione del proprio squadernarsi e protendersi di congegno organico del godimento, (ri)trova una santità rara e pura, con le stimmate della discrezione e della passione. Distinguerlo è impresa ascetica nello spazioporno che dischiude fessure accavallando gambe a partire almeno da ladydiana morente per arrivare al digitale che può fingere ogni corpo in posa porno e al voyeurismo generalizzato del cercare/spiare in internet qualunque “cosa” inserendo il nostro occhio nella rete astraa di webcam che è il pornorizzonte (vedere la rete stessa). INSIDEmarilynchambers (pornostar americana mitica degli anni seanta, morta poche seimane fa). Il “dentro” dei titoli alludeva alla penetrazione delle/nelle dive hard, e a quella nel porno spazio santo/dannato, invariabilmente Hell o Paradise). ale pornostar può (r)esistere al peso immane dell’assenza di gravità dello speacolo diffuso o al pornossimoro della morte tenera semplice arrovellata di MJ? Geniale il Soderbergh di e Girlfriend Experience gioca da escort protagonista una vera pornodiva ventunenne, solo in essa trovando la santa ambiguità della compravendita casta che si svolge lungo il crinale fine tra sentimento del corpo e corpo del sentimento. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 16 luglio 2009]
Non c’è storia
Fukushima e Fukuyama stanno troppo bene insieme. Il luogo della Nuova Chernobyl, nel Giappone che a quella dell’atomica di guerra aggiunge le stimmate del disastro del “nucleare civile”. Lo storico e politologo (ma non negherò che il volto ha un sorriso ironico molto simile a quello di Shinya Tsukamoto di Tetsuo) della “fine della storia”. Più di metà della “storia del cinema” si svolse già soo l’ombrello della luce atomica deflagrante, esempio flagrante della possibilità di spegnere la luce della storia. Eppure il cinema, e la televisione ancor più, sull’esempio di Ozu e di Rossellini e del grande cinema americano degli anni ’40 (scosso e rifondato dal velo della guerra e dall’hiroshimauschwitz che un po’ ci sterminò tui prima di nascere), seguendo il doppio binario del “bigger than life” e del “bigger than cinema”, e quello drammaturgico della ricorrenza implacabile struuralista di un numero ridoo di schemi e situazioni e del viluppo inestricabile di esse, hanno epicizzato il quotidiano (la loa senza quartiere che ci può essere in un quartiere in una stanza in un corpo in un occhio) e quotidianizzato l’eroe nello statuto ambiguo di star/medium/personaggio. (Di passaggio, appassiona reperire nello scarto o dissidio teorico all’interno della “teoria critica” di scuola francofortese, il condensarsi in Adorno e Horkheimer della paura, in Benjamin e Kracauer del desiderio, di risentire la profusione e la moltiplicazione entusiasmante o agghiacciante di punti di fuga detour rinvii vortici fuochidartificio che lo sfarfallare infinito di immagini può ingenerare anche in un solo punto/polla). Per caso – certo – accade che ci ritroviamo davanti a un cinema di X-Men e di altri (super)eroi e transformer da altri mondi o dal nostro trasformato in se stesso in quanto “altro”
(e l’oggeo di misteriosissima semplicità Tree of Life non realizza forse il sogno annisessanta di tue le nouvellevague, sintetizzare le nostre storie dalla presenza di una storia che ci chiama e convoca assenti). Forrest Gump si inseriva in celebri “frame” storici grazie alla possibilità del digitale ancora balbuziente, e mentre Zemeckis si rivolgeva poi (trovato il “contao” miracoloso nello specchio di un armadieo di medicinali) al corpo delle immagini in quanto esse supereroiche scorticate e divise (il suo A Christmas Carol non è meno fantastico e primordial-futurista di La leggenda di Beowulf), Cameron si calava nell’abisso titanietzschiano oltre la frontiera divelta tra digitale e analogico e tra umano e non umano. Ora, le genealogie supereroiche sembrano tipicamente confermare su scala planetaria e oltre il senso di scollamento dall’idea stessa di senso (chiamatelo pure “reazionario” se vi conforta), il loro evoluire tra gli umani si rivela più o meno consapevolmente autoriale nei confronti della storia del mondo che crediamo di conoscere e comunque riconosciamo (con un trionfo di j, kennedy trasformato in icona esoterica del potere impotente). [rubrica Detour (30), “Film TV”, 31 luglio 2011]
la notte si (è/e) sposta
il velo di pirlo / veronica per tui e per nessuno / lascia nell’aria un solco / specchiato nel vuoto / arato in campo, / il pallone intao docile / sarà un altro a colpirlo. Di leggerezza e invisibilità romariane, il gesto di pura invenzione spaziale che apre e libera il campo per il tiro in gol di marchisio resta anche uno dei segni filmici apicali dell’estate. Impresso nell’occhio, il pallone dà luogo alla rete trasformandosi in traieoria fatale inaesa, secondo il rifiuto geniale del campione di intercearne il passaggio. L’effeo finale della finta, sublime, è il caricarsi della palla di un’ombra di intenzione impersonale, che sfida direamente la nostra congiuntiva arrossata e l’illusione nostra di andare in rete (o in retina) al posto della palla stessa. Non sto parlando dei più o MENO strabilianti sistemi di ripresa e riscriura digitale del visibile immaginabile, ma di giochi in cui siamo più direamente coinvolti quanto più apparentemente allontanati dal set e dal campo da gioco. Il cinema, (ri)generato dalla pulsione doppia di godimento giocoso e di sperimentazione scientifica, si trova a essere il set della delusione ultima e prima, quello della previsione/decisione dell’istante presente. (Lo sport e la trasmissione “eventuale” di esso – il “genere” post-televisivo più desiderato e pagato, insieme col porno e col “film” – hanno fin troppo a che vedere (tanto da sbiadirsi nella loro stessa rutilanza) con la delusione, ormai la costante che araversa ogni gioco e performance, individuale o di squadra, proprio nel teatro culminante che l’aende (calcistico ciclistico tennistico sciistico natatorio atletico, o più generalmente “olimpico”) allo smacco o allo scacco, per una sorta di incapacità dei corpi e meccanismi umani, campioni e
“armate”, di gestire la propria “forma” e il coincidere quasi impossibile, a un dato e preciso momento “spaziale”, dell’intreccio di dati di intensificazione psicochimica del corpo, inseguito dai doni e preceduto dai “droni”). DRONE.
L’ultima parola tra parentesi ci ricorda l’ovvietà terribile e facilmente dimenticata: siamo in guerra, una guerra liquida informe interstiziale e “intima”, liquido/gassosa, disgelamento inarrestabile del surplace da guerra fredda. (E siamo tui gavriloprincip, ripetizione e proliferazione impazzita del pallido prence amletico). La congiuntivite (le “vite dei congiunti”, possiamo dirlo?). L’arrossarsi della congiuntiva, la membrana che tiene insieme l’occhio, è tipico e transeunte malanno da cinefestival. Che sia un sintomo inquietante o un effeo collaterale banalissimo di temporanea usura, può far pensare che il desiderio di cinema o del cinema si installi o sia da sempre impiantato. Il “congiuntivo presente” quale modo essenziale del cinema, congiunzione tra il presente obbligato in cui esso si descrive scrive per scrive e l’esserci già stato tecnico della ripresa. Lasciamo da parte un istante l’erosione digitale dell’ultimo bordo accennato (è del resto la linea di fuoco su cui vive e perisce, tra ironia e cecità estrema, il cinema supereroico di michaelbay e degli expendables), e estraiamo a sorte alcuni grandi momenti dell’estate filmica. Aperta dal godard di adieuaulangage. Ovvero, dal primo cineasta ad aver scandagliato agitato rimescolato cinema tuo ritraendosi da esso, osservando dalla caverna sua personale il pelago del nanfragio con speatori, quasi a ridisabitarlo con la sua presenza ossessiva di esploratore/guardiano. (L’isola ancora affiorante in cui scrivo, tra socialismo e sosialismo, si restringe affondando. Solo qualche nome, da straubhuillet e deoliveira a naderi/penn, da abelferrara a gitai, dallo strepitoso tsukamoto che insieme con good kill di niccol rivede la guerra che non abbiamo mai visto, in cui il nostro organismo sussulta sentendola tornare). Sì, fuoco alle polveri ora che la guerra è finita. (È questa l’opera infinita del lavdiaz visto a locarno potentemente segnato da dostoevskij e da un
malvisto impossibile cinema “sovietico”, e poi dopo cinque ore e mezzo un sovraccolpo del corpo aoriale torturato riazzera il film eternizzando la scompagine). [rubrica Detour (159), “Film TV”, 21 seembre 2014]
4. Farsi/disfarsi. Storie de(a)lla televisione
I pesci della terza rete TV
La Rai è anche un luogo dove se un ospite (o un interno) trova in un ufficio o in uno studio una persona di ventisee anni (cioè del 1952, cioè di età sufficiente o troppo “avanzata”) esclama: “Come sei giovane!” L’anno scorso, a uno dei corsi per nuovi programmisti-registi assunti mediante concorso per la terza rete, ci si ritrovò in forte maggioranza appartenenti a questa “annata”. E non sembri un modo troppo personale o particolaristico o locale di affrontare la questione della terza rete, rete decentrata e “locale” per definizione, rete nuova, e “giovane” per ovvia contingenza anagrafica. Una delle grosse novità della terza rete sta proprio nella costruzione di figure professionali come quella del “programmista regista” (che accorpa in sé mansioni funzionariali e ideativo-realizzative, tradizionalmente lasciate all’appalto, fino a configurare il caso ipotetico di programmi seguiti e realizzati in ogni fase e aspeo dalla stessa persona). Altra novità: per la prima volta dal Sessantoo è stato bandito un concorso pubblico per immeere in tue le sedi regionali Rai personale con funzioni di programmista e di regista. Concorsi anche per i tecnici e per giornalisti destinati a completare gli organici locali. Insomma, in un periodo che dovrebbe garantire maggiore informazione e controllo sul monopolio di stato (rispeo ai passati decenni e agli “inizi” delle altre reti), la terza rete sembrerebbe porsi in partenza come un edificio trasparente, organizzato e motivato in ogni sua componente fino a rivendicarsi come proposta di un nuovo “modello gestionale” per tua l’azienda. Se in effei la rete non viene a costare in modo spropositato ciò dipende proprio dagli accorpamenti di diverse mansioni, dall’ipotesi di seimana lunga, dall’agilità delle troupe “eleroniche”
ecc… Tui questi elementi di ristruurazione come imposti alla nascita della nuova arrivata, si vorrebbero estendere all’intera azienda. Purtroppo, alla lucentezza “tecnica” del modello produivo e alla scelta di austerità corrisponde una organizzazione del lavoro che intensifica lo sfruamento del lavoratore fino a livelli raramente visti in Rai. La struura stessa delle agilissime “troupe eleroniche” (nel modello ufficiale della rete è previsto esclusivamente l’uso del mezzo eleronico a colori, il cinematografico è riservato in genere alle produzioni nazionali di rete) composte di tre persone (un programmista-regista, un operatore e uno “specializzato di ripresa” che fa l’autista, il fonico, l’elericista, il manovale…) a bordo di una Lancia Beta, indica lo sfruamento necessario per avere risultati produivi. Infai: straordinario endemico, troupe sempre in moto, crisi se qualcuno si ammala, tempi di ripresa brevissimi per i programmi (non più di 4 giorni per una mezzora), tempi di montaggio quasi “giornalistici”. In quest’ultimo aggeivo sta un’altra delle chiavi della situazione. La terza rete passa infai senza un dibaito culturale e produivo di fondo (se si ecceuano alcuni sforzi del PCI): la discussione su di essa è sempre stata legata esclusivamente alla sua realizzabilità e convenienza politico-economica; nonostante le possibilità di informazione essa parte (e avrà presto la giustificazione che si danno le cose esistenti) senza che vi sia stata (al di fuori dell’élite dirigente che ne ha ideato il modello) una reale discussione e critica del palinsesto e del modello produivo stesso. “Programmi noiosi.” “Canale culturale.” “Informazione regionale diffusa.” esti i messaggi standard sparsi nel pubblico. E a essi non si può opporre nulla, se non il conclamato “impegno” verso le realtà locali trascurate, verso il “sociale” sommerso ecc… Non si può opporre neanche la giustificazione del “rigore”. Rigore che esiste o potrà esistere solo dal punto di vista dell’austerity. Ma per quel che riguarda non tanto la qualità ultima dei programmi, quanto il modo di prepararli e realizzarli, prevale
forzatamente l’improvvisazione. Temi a sfondo prevalentemente sociologico (basta guardare la lista dei primi programmi) che richiederebbero per pura “onestà” ricerche preparatorie di mesi, vengono affrontati in quindici giorni. Non si fanno i “telefilm” per scelta politico culturale economica, ma pressoché tui i programmi devono e dovranno essere prodoi come si producono i telefilm americani di serie e come i telegiornali: a un ritmo forsennato. La contraddizione è evidente: rete “culturale” ma assenza di pause di riflessione. asi l’obbligo di essere “giornalistici” giornalismo culturale naturalmente. E allora sì, i tempi di produzione possono sembrare sufficienti (ma sì, come per le TV private…), la mole di ore prodoe previste non fa più spavento si parte con lo scontato doppio oimismo e pessimismo. Dimenticando: 1. Che il fao di partire con carenze di organico e di mezzi è tu’altro che un incidente sovrastruurale: alle necessità di “occupare la banda” e di mostrare vitalità nascendo si unisce il mito di un modello di rendimento “estremo” che però, partendo incompleto rischia proprio di imporre e accentuare un puro e semplice “ritmo da fabbrica”. 2. Che l’opificio operoso e “totale” potrebbe trovarsi ad appaltare all’esterno (non solo le grosse produzioni) ma anche quella che potrebbe essere la “linea”. 3. Che la ricognizione sul territorio è estremamente sacrificata alle esigenze di produzione (insomma: “non c’è tempo”) e che quindi logicamente e senza neppure colpe o loizzazioni (che pure esistono) le “forze” che emergono ed emergeranno dagli schermi regionali saranno quelle che si trovano già ben in evidenza quando si apre il giornale locale, quando si ascolta la radio o si accende oggi il televisore. Si rischia la riproduzione di tanti piccoli “palazzei” già esistenti, e l’affluenza di forze produive dall’esterno vorrà magari dire solo che si apre la terza rete a chi è già in grado di produrre e produce nel campo degli audiovisivi, anche se
forse fino a oggi solo sul piano locale e subalterno. Più che la promozione di forze nuove si annuncia spesso solo la “nuova possibilità” per tanti già “ben noti” in ambito locale e/o nazionale. Non c’è bisogno di particolari “volontà politiche” perché accada ciò. L’austerity del modello non prevede infai neppure gli sprechi produivi, i tentativi, le sperimentazioni. I budget, bassissimi per le “mezze ore” giornaliere della produzione regionale vera e propria (1.200.000 lire di media: un record) impongono sempre e solo l’intervento sul già avvenuto, sul già esistente, impedendone comunque un approfondimento anche solo in termini di “riflessione” estesa nel tempo. Rinuncia obbligata, forse, alla possibilità affascinante (per una rete che nasce) di contribuire in modo cosciente e non solo automaticamente (perché fa parte dei “media”), a una vera e propria “produzione” di eventi, di conflii, di confronti sul “reale” che siano anche essi reali. Non c’è bisogno di essere “caivi” o di avversare il monopolio (dio ci guardi), o di odiare qualcuno per criticare tuo ciò. È il modello stesso che, non sufficientemente dibauto all’interno e all’esterno dell’azienda, e spesso all’interno fatalisticamente acceato o avversato solo per pur sacrosante questioni di ritmi e di mezzi produivi, impone certi rilievi. Un modello che per ora lascia al “centro” Roma e “logicamente” agli altri centri di produzione (Milano, Torino, Napoli), la fea più grossa del budget, e che non prevede, non può prevedere di destinare altro che magari fondi di aivazione a quello che per esempio potrebbe e dovrebbe essere un obieivo orgogliosamente primario. Lo “scatenamento” sul territorio (proprio grazie alla conclamata “leggerezza” dei mezzi eleronici) di una “volontà” di documentazione che appronti in modo continuo aperto, indiscusso e generoso e quasi “indiscriminato” una sorta di utilissimo “archivio permanente” di memoria televisiva. L’Italia che muore e scompare, gli anziani che si avviano a non lasciar traccia (i nomi noti e gli sconosciuti) i giovani
senza volto e senza nome delle periferie… documentare, documentare, credere nella forza e nella utilità in prospeiva (anche per dei… “programmi”, naturalmente) di una massa di materiale non trasmesso, di un “repertorio” di massa, consultabile da tui vero e proprio riceacolo “eleronico” delle immagini che ogni giorno si perdono in mezzo alle strade o nelle camere in mezzo alla “durata” dei fotogrammi della vita quotidiana. Un compito oscuro ma ineludibile e affascinante, che supera inoltre la dicotomia tra il programma di terza rete “nazionale” curato dalla Wertmüller e l’inchiesta locale di mezz’ora travestita da documentario con elementi di fiction “nouvelle vague” (negli anni oanta) dal programmista-regista in vena di evasioni e in odore di frustrazioni. [“il manifesto”, 20 dicembre 1979]
L’immaginario affiora sul canale TV. Ma la terza rete pesca senza esca
Un anno di terza rete: e gli exploit finali del tele-terremoto. Intanto la Rai nel suo complesso cambia strategia, entrando nella logica precisissima del “palinsesto selvaggio” per competere con l’uso della “durata” che è proprio anche delle teleprivate più scalcinate. Tre repliche e interi pomeriggi ex novo il “tempo Rai” si allunga, anche le mainate festive o prefestive riservano golose sorprese. Si rinuncia un po’ alla sacralità “teatrale” che era tipica dell’appuntamento televisivo “non replicato”: “Chi c’è c’è. Chi non c’è non c’è.” Non più quello speacolo a quell’ora quella sera: per caurare audience o baere la concorrenza, l’offerta televisiva si fa “circolare” e diffusa. La sindrome del sabato sera Negli anni cinquanta la TV ancora rara svuotò le case per riempire i bar e altri locali pubblici (i cinema…) nelle serate di Lascia o raddoppia. Poi, si sa, ha svuotato le cià nei sabati sera degli anni sessanta con il varietà casalingo luccicante e sfarzoso. Ha fao in seguito deserti nelle strade con i grandi appuntamenti in direa del calcio internazionale. Infine – e siamo agli oanta – la televisione in Italia sostituisce e quasi costituisce tue le forme dello speacolo media di massa. Superata la suddivisione in fasce orarie rigidamente differenziate, l’ascolto si è parcellizzato e insieme diffuso: in pratica ogni momento di trasmissione punta al massimo di audience, si popolarizza, si speacolarizza. Errore fatale, mascherato appena dalla scusa patinata della qualità. “Notizie” da tuo il mondo indicano come il prodoo “particolare”, locale, destinato a minoranze di ogni tipo e a fan e acculturati di qualsiasi particolare seore (sport, musica, erboristeria…), addiriura la TV per “i portoricani” o
di quartiere o degli appassionati di yoga, rispondono a una precisa e “forte” richiesta, quantificabile economicamente anche se non misurabile in decine di milioni di speatori. L’errore Rai nella prima risposta di dare a un pubblico che ne ha, per esempio, abbastanza del calcio (come dimostrano i quasi “forni” televisivi dei campionati europei quest’estate) e che da anni non si affolla più davanti al varietà del sabato sera, è stato probabilmente il risultato di una somma di desideri, sogni e impegni “soggeivi”. Con esiti spesso disastrosi, tiranneggiati da indici di ascolto e gradimento, gli autori dei vari programmi (che si traasse di divulgazione scientifica o di aualità culturale, di divertimento per ragazzi o di telefilm serale) hanno puntato tuo sulla vivizzazione registica e sulla potenzialità speacolare. Molti sono stati gli Odeon negli ultimi tre anni, in ogni seore. L’omologazione che ne è derivata, senza neppur riuscire a frantumare i generi ma limitandosi a spappolarli e a renderli irriconoscibili, è stata appunto la maschera di una vernice totalizzante e pretenziosa, nella quale perfino l’approssimazione tecnicoideativa delle prime TV private fece più volte breccia. Se ogni programma vuol essere “quello da seguire” non c’è più nessun programma veramente “da non perdere”. Viene materialmente a mancare (per il pubblico) il tempo per gli appuntamenti “fissi”. Le due reti Rai non sfuggivano così al totalitarismo che in precedenza era dipeso dalla compaezza politica di una impostazione “pedagogica” complessiva in grosso modo sintetizzabile nel modello del telegiornale. La rigidezza dei vecchi palinsesti altamente differenziati si era trasformata nella piaezza con cui ogni momento televisivo ambiva a essere per la sua parte uno “speacolo del sabato sera”. Merce TV replicata Per questo, l’apparente banalità (che non sembrerebbe toccare la qualità dei programmi) del recente ricorso alle repliche e alla dilatazione della durata (soprauo della durata del periodo in cui si può fruire dei nuovi programmi) dei programmi di “intraenimento” per tappare i buchi del
palinsesto e rispondere all’offensiva delle private, è forse una virata fondamentale. La Rai “raddoppia” e si riproduce, ripete i suoi programmi, li fa rivedere non più a malincuore e per stigmatizzabili vuoti produivi o difei di pianificazione, ma per scelta cosciente. Fa fruare al massimo la merce, entra in pieno nell’era discutibile (ma indiscutibilmente “avvenuta”) della “bassa aenzione” ai programmi e della “bassa” definizione degli stessi. Capisce a livello complessivo quello che l’indubbia e feconda “stupidità” de L’altra domenica (programma, non si dimentichi, a basso indice di ascolto, come del resto il 16 e 35 di Placido) aveva abbondantemente mostrato. Sospende per un aimo il confronto sul piano cultural-qualitativo, si adegua a se stessa nel suo seore più (assurdamente) dinamico, quella della produzione di film, in un gioco produivo dove ciò che conta è sicuramente la preparazione, il riverbero, l’intorno, magari il set (Marco Polo…) non certo il prodoo stesso o i soggei in gioco. Vedi la favolea esemplare del “protagonista mancato” del Marco Polo – si gira Marco Polo ma Marco Polo non c’è, oppure c’è e subito vien meno, davvero non ha importanza, forse si potrebbe usare per ogni sequenza un volto diverso o sempre un uomo mascherato. Il “nome” e “l’impresa” bastano a se stessi. Sui canali la telerealtà Col terremoto, in modo ancora più evidente e massiccio ma niente affao eccezionale, la Rai ha insomma scoperto l’importanza della durata da una parte, della circolazione complessiva dei programmi dall’altra, abdicando senza vergogne alla linea dell’appuntamento “guidato” e del momento obbligato per vedere questo o quello. Il prodoo Rai, per mantenersi “totale” rinuncia alla totalità monumentale dell’aimo e alla sacralità dell’evento, per prodursi come evento “continuo” a imitazione dei modelli di televisione evoluta: costruendo cioè una giornata (quasi) ininterroa dagli orari largamente intercambiabili, perfino in anticipo rispeo alla realtà sociale italiana in altri seori (vedi, per esempio, la mancanza di negozi a orari sfalsati, di
supermarket nourni ecc…). Una telerealtà circolare, un rullo che scorre e davanti al quale basta meersi seduti perché prima o poi tuo “passerà”: Totò, il telegiornale, lo sceneggiato, il basket, il telefilm, l’ostetrica, l’aore, la gastronomia, il giornalista, il cadavere del tuo nemico. Perché tuo “ripassa” e si ripete. Non è certo necessario vedere tuo. Ma è proprio l’idea del “tuo” che lo speatore vede passare davanti a sé come un nastro ad anello. Un milione di terzoretisti sognano Rispeo a tale nuova pratica, la terza rete è il punto di maggior contraddizione. Scarse volontà politiche e oggeive difficoltà aziendali e budgetarie sembrano far dimenticare ciò che la più scalcinata TV locale ha dimostrato in modo incontestabile: la “presenza” (anche della TV, beninteso, non solo di “qualcuno” a volte, basta una scria eleronica e un buon repertorio musicale per “far televisione”… così come basteranno a farla le novità tematiche, I prezzi delle verdure e degli altri dati teletrasmessi) e la durata sono più importanti delle scenografie o delle pareti dello studio da cui si trasmee (ancora una volta non era forse “geniale” la coscienza di ciò nello studio destruurato, “bruo” e in fieri dell’Altra domenica?). La terza rete, con le sue durate striminzite, con i suoi salti mortali per rientrare in budget ristreissimi, è l’immagine perfea di un paradosso di politica televisiva. La rete che col decentramento nelle ventun sedi regionali produce in assoluto il maggior numero di ore di trasmissione è quella che adoa come unità di misura principale dei suoi programmi regionali la “Mezzora”. La sua macchina insieme “agile” e complessa produce per i telegiornali e per i programmi una quantità enorme di immagini ogni giorno, e ogni giorno le brucia e le “cancella”. Rete “povera” che continuamente dà l’impressione di andare avanti solo grazie all’amor proprio (o l’orgoglio, i miraggi, le mire) di alcuni, è però quella che maggiormente sperpera (non denaro…) e “si disperpera”: nel senso che spreca ogni momento i propri potenziali su durate giornaliere brevissime. Se il milione di
speatori terzoretisti resta un teo, non è tanto per le difficoltà dell’avvio e per l’insufficiente copertura né per la “novità” che anzi poteva stimolare la curiosità. Il fao è che, rispeo alla massiccia programmazione delle altre reti e sul piano locale rispeo al virtuale non stop televisivo offerto dall’insieme delle emienti private, le mezzeore e le oree dei programmi di Tv3, rappresentano, nel migliore dei casi, la “ghiooneria” da segnarsi sull’agenda se la si vuol davvero vedere, perché, immerse nella ferocissima mega-fascia serale (19/23) rappresentano dei “cantucci” (senza replica) che hanno pochissime probabilità matematiche (tralasciando un aimo gusti e orientamenti del pubblico) di essere localizzate e “fermate” nel vortice dei canali a telecomando. Solo chi “vuole” a tui i costi vedere la terza rete la vedrà. Nell’insieme essa mantiene il fascino e i limiti quasi “aristocratici” di una rete che è già per definizione “sommersa” e dispersa, occulta e invisibile per venti ventunesimi circa (chi potrà mai vedere “tui insieme” i diversi programmi regionali che vanno in onda contemporaneamente?…) seleiva in un certo senso a priori. Il lodevole frazionamento antitotalitario che spezzea l’estensione “kolossal” del fragilissimo sistema terza rete dandogli per definizione un aspeo sperimentale e interessante e inedito, si moltiplica fin quasi all’invisibilità. Si ribadisce il paradosso: ogni giorno una sessantina di troupe agiscono per produrre una valanga di immagini “invisibili”, in uno sforzo che farebbe pensare a De Mille se non rientrasse a volte nei limiti del cineamatoriale o del giornalismo più scontato. Ma nessuna critica seria può essere faa al “progeo terza rete” finché non gli sarà riconosciuto il dirio a una durata e una circolarità decenti. Infai, regionalismo e decentramento produivo non bastano per raggiungere e coinvolgere seriamente un pubblico se i “tempi” dello spazio televisivo non si misurano regione per regione con la realtà dello spazio locale, disponendo della durata come di un elastico.
Comunque per ora, solo l’eccezionalità di un particolare appuntamento può convogliare una vasta aenzione sulle sparse mezzore di Raitre e proprio la più “moderna” delle reti sembrerebbe in linea di principio costrea a far leva sulla “sacralità” del momento televisivo irripetibile quasi scomparso dalle altre. Una conferma è data da tui gli altri “generi” dalla programmazione dei film (non a caso l’appuntamento più “preciso” è “sacrale” per una certa aura culturale della proposta per la sua arcaica “irripetibilità”…). Il terremoto, come già in precedenza la strage di Bologna, può davvero far sognare nuovi “scenari” televisivi, può far nascere smodate golosità nello speatore. Una delle ipotesi aziendali sul futuro della terza rete è drasticamente riduiva rispeo alla programmazione regionale decentrata: se ne propone addiriura la cancellazione, per poter indirizzare lo sforzo produivo delle sedi sui soli telegiornali e sulle rubriche, del resto in ossequio a una politica che ha fin dall’inizio costruito l’intera rete sul modello di una redazione giornalistica, con “tempi” brevissimi di produzione. Può essere invece divertente tentar di uscire dalla forbice impegno e rigore culturale/immediatezza e precisione di intervento nella realtà locale che minaccia la giugulare di ogni operatore all’interno della terza rete e spesso opprime il pubblico, sognando una impossibile e aualmente scarsissima “coerenza di programmazione” fra le tre reti pubbliche, oggi più concorrenziali che coordinate tra loro. [“il manifesto”, 19 dicembre 1980]
1971, 1961, 1881… Ottocento pagine per il goloso di anniversari
10, 20, 50, 100 e 200, 300, fino a mille anni fa: 1971, 1961, 1931, 1881. Un gruppo di ricerca coordinato da Giuliana Colasanti per la “Documentazione e studi” della Rai ha realizzato per uso interno aziendale (in particolare per giornalisti e programmisti) oocento pagine di repertorio degli avvenimenti di cui cade nel 1981 il decennale o il ventennale o il cinquantenario o il centenario o più. Gli avvenimenti sono riferiti a see gruppi di discipline: arte, cronaca, politica e storia, leeratura, scienze umane, scienza e tecnica, speacolo, sport. Criteri di selezione: “importanza dell’avvenimento per gli sviluppi della disciplina a cui si riferisce; capacità di far notizia o programma, anche con riguardo all’aualità; utilizzabilità per notizie flash e servizi più ampi, anche in rubriche specialistiche; utilità per l’informazione o per la programmazione ai livelli sia nazionale sia regionale.” Trovarselo di fronte, questo bignamone per freolosi Rai, fa una strana impressione. Un muro di date, invenzioni, opere, morti, pubblicazioni, esecuzioni, nascite, protezioni, record. L’ovvia sensazione di invecchiare o di non andare avanti, a sentire certi decennali o ventennali (1961: la Storia della follia di Foucault e l’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca; 1971: Galley condannato per la strage di My Lai, e i record di Dionisi nel salto con l’asta. Ecco, soprauo i numerosissimi record sportivi registrati, esaltanti a leggerli tui insieme, appaiono miserini e meschini affogati tra gli altri avvenimenti, superati sempre: non sopportano la distanza tipografica che non rende giustizia a quella temporale). L’effeo di irrealtà nel trovare compresse e schiacciate in due pagine e soo una data (che poi,
traandosi di anniversari, è comunque un oggi...) fai avvenimenti persone lontanissime tra loro. Il tempo si conferma in un gioco perverso, la memoria una colpa da espiare mediante la registrazione e la catalogazione obbligatorie. Cito abbreviando. 7 marzo: nel 1481 è baezzato a Siena il piore e architeo Baldassarre Peruzzi; nel 1931 muore a Davos il piore, scultore e architeo eo Van Doesburg; nel 1881 nasce a Darwen (Inghilterra) il mineralogista omas B. Barker (morto a Oxford il 15 aprile 1931) che si è occupato soprauo di cristallografia sistematica; 1931, muore a Berlino in circostanze misteriose (per avvelenamento) Lupu Pick, deo Lupu-Pick, aore e regista di cinema, uno degli esponenti più noti del Kammerspielfilm. 8 marzo: nel 1961 si svolge in Madagascar una conferenza dei capi delle provincie congolesi, nel 1881 nasce a Firenze Giuseppe Fanciulli giornalista e scriore per l’infanzia (ovviamente), nel 1961 muore a Londra omas Beecham direore d’orchestra, nel 1931 L. (di lui si e perso il nome?) Giacobbe vince la Ventimiglia-Genova percorrendo 170 chilometri alla media di 28,722; nel 1971 Joe Frazier conserva il titolo dei massimi baendo a New York Cassius Clay. Il 21 febbraio, magrolino, c’è solo Italo Zilioli che vince l’oava edizione del Trofeo Laigueglia distaccando di 1’51” Merckx e Moa appaiati… Le singole voci sono compilate bene, e i due volumi (uno a calendario giornaliero, l’altro a soggeo) risultano utili. E divertenti, con quel tanto di raggelante che sta in un certo tipo di divertimento. Disseminati sulle pagine, nomi e fai, movimenti e rivoluzioni, si mostrano secondo contiguità impensabili, elencando una storia resa per sempre arbitraria e capricciosa come un dizionario borgesiano. La società del revival forse non appare nea, dietro la serietà schematica delle note: ma è in essa e per essa che un lavoro del genere si produce e trova il suo senso. Senza bisogno di teorici dell’oblio, l’oblio è ben presente e dominante nel revivalismo che sostituisce la memoria riestraendo di continuo il cosiddeo “effimero quotidiano” dalle pagine di vecchi giornali. Dimenticare è necessario, perché la Rai o “le
private”, o il papà o il fratello minore o quello maggiore, o il professorino, il critico “selvaggio” possano ricordare, rammentare, rilanciare. Nello stesso tempo, un repertorio come questo celebra le ultime sbiadite nozze (civili) tra il mito della Storia e quello del Tempo. Il numero “tondo” ribadisce il suo triste potere di morte soffice; un anno fa sarebbe un rimestare troppe cose identiche e troppe diverse; centotrentasee anni causerebbe inutili disordini negli archivi, o un involontario effeo comico negli annunciatori di giornata dei freschi maini radiofonici o dei pomeriggi televisivi. Certo sorprenderebbe un curioso e impegnativo fra 10, 20, 100 anni (cominciando dai tre che separano dal 1984, così eccessivo per gli oimisti), mentre è invece in ao come speacolo il corrispeivo nell’aualità di un medesimo aeggiamento complessivo: l’instant poll del Flash di Mike Bongiorno, trionfo del sedicente “immediato”, che naturalmente neppure rispecchia l’immediato e lo strisciente, ma solo ciò che di più “sedimentato” (già: nella “memoria”…?) e accertato e scontato (e magari non condiviso, a pensarci un minuto in più prima di rispondere…) esiste nel “pubblico”. Peccato, proprio la televisione (del resto registrata in cifre e date in altre pubblicazioni Rai) manca in questo repertorio. Si può comunque giocare col cinema e con altro, nel bizzarro 1981 in cui cediamo infine al fascino del “secolo” si può registrare il bicentenario della prima edizione della Critica della ragion pura e il centenario dell’entrata in funzione (Appleton, Wisconsin) della prima centrale idroelerica, della pubblicazione di Malombra e dei Malavoglia, di Pinocchio e di Bouvard e Pécuchet (che non potevano mancare in un repertorio) e del primo studio scientifico delle comete. Cent’anni fa moriva il grande Robert Houdini prestigiatore e artista di automi, mentre nasceva Fay Arbuckle. Nel 1931 è nata Leslie Caron, nel 1961 muoiono Gary Cooper, Chico Marx, Charles Coburn e Barry Fitzgerald, nel 1581 viene pubblicato Il Ballarino, “il più famoso traato del Cinquecento sulla danza” (di Marco Fabrizio Caroso, “il più
celebre e ammirato maestro di ballo del secolo”). Musica: nel 1881 Brahms compone il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore, nasce Béla Bartók e tre giorni dopo (28 marzo) muore d’infarto Musorgskij (rock, pop ecc…, latitano in calendario, benché. non “troppo giovani”: non è del 1971 la morte per Jim Morrison?). Per i film, nulla nel 1881, mentre M di Lang, Nemico pubblico di Wellman, Il milione di Clair, Muraglie di Laurel e Hardy, Tabù di Murnau, Disonorata di von Sternberg e Monkey Business dei Marx Brothers, tui di cinquant’anni fa, e Jules e Jim e L’anno scorso a Marienbad e Viridiana e Il posto, del 1961, sembrano più moderni dei più recenti (1971) San Michele aveva un gallo e Trafic di Tati (sempre 1971) è un film di oggi e del futuro, e Accaone (Pasolini, 1961, anno del centenario italiano per eccellenza, Italia 1961), e della Noe di Antonioni, un film senza tempo. Ma il 1881 è ugualmente una data fondamentale per il cinema; si preparino i gestori di cineclub e i programmatori TV a corto di cicli. Mentre “il fisico P. Von Jolly corona gli sforzi, compiuti a partire dal XVIII secolo con H. Cavendish, di calcolare con esaezza la massa e la densità della Terra” e il “Corriere della Sera” dà notizia (16 gennaio) che “è cominciata nei giornali, specialmente inglesi, una violenta campagna di stampa contro il famoso casinò di Montecarlo, che invano nel 1880 si era tentato di distruggere con la dinamite” (e scrive il “Times”: “È provato che nel corso di ogni stagione migliaia di sventurati lasciano le più belle delle loro penne in quel vischio insidioso: si sa pure che numerosi suicidi hanno luogo di continuo nei giardini del casinò”), nascono, oltre a Protazanov (il regista di Aelita; 23 gennaio), Robert Wiene (quello del Gabineo del door Caligari, uno dei film più da repertorio della storia del cinema) e il grande Cecil B. De Mille (il 12 agosto ad Ashfield), l’uomo i cui film (sarà calcolato ancora nel 1959) verranno visti da più di quaro miliardi di persone. Sempre nel 1881 nasce in Polonia Harry Warner che, emigrato in USA a sei anni, darà vita con i fratelli Jack, Albert
e Sam, alla rinomata casa Warner Bros; in qualità di direore dei reparti amministrativi e tecnici della società, “va ascrio a lui il merito delle traative che condussero all’adozione del sistema sonoro Vitaphone che permise alla Warner di presentare il primo film sonoro (1926) e il primo film parlato (1927) rivoluzionando l’intero mondo del cinema. Bizzarra coincidenza, se si pensa alla loa (cent’anni dopo) per il colore in frigorifero da parte di Scorsese, nel 1881 nasce anche il padre-inventore del Technicolor, Herbert Kalmus (Chelsea, Massachuses). Cinema, suoni, colori, nomi e date. A sorpresa, per il 1931 nella soosezione “Tecnologia e scienze applicate”, si trova anche per la TV una notizia “interessante”: “Il fisico tedesco Manfred von Ardenne, professore al Politecnico di Dresda e studioso di oica eleronica, mee a punto i circuiti eleronici della televisione e impiega i tubi catodici per la trasmissione e la ricezione delle immagini. La realizzazione della televisione non è stata opera di un solo inventore, bensì di tanti tecnici che hanno portato agli straordinari risultati odierni…” Non più nomi fondamentali, date importanti e precise, soggei decisivi: solo televisione (magari con repertorio annesso, per non dimenticare; non dimentichiamolo). [“il manifesto”, 8 maggio 1981]
Ma non è una cosa serial
Durante la manifestazione del 24 seembre La testa tra le nuvole dedicata ai fumei, si è anche parlato di televisione. Ma cosa c’entra col fumeo la questione del serial TV? Perché parlare di telefilm, serial, di Rai in occasione di un convegno sui fumei? Il serial si afferma negli Stati Uniti come forma forte dell’industria culturale, sul modello della catena di montaggio e dell’omogeneità del prodoo. La serialità è prima di tuo un investimento economico, la capacità di serializzare e distribuire nel tempo il profio sfruando indefinitivamente l’eventuale “creazione” e risparmiando grazie alla produzione in serie. Il fumeo è, insieme con quella radiofonica, la forma più economica di serial (folgorante immagine storica di serialità fumeo-radiofonica è il sindaco di New York, Fiorello La Guardia, che in piena crisi si precipita alla radio per sostituire gli speaker, in sciopero, che avrebbero dovuto dar la voce ai personaggi dei fumei adaati per la radio). E in Italia, oggi, mentre si comincia (anche in Rai, meglio tardi che mai) a porsi il problema di una produzione di telefilm seriali indigeni, si può dire che le questioni struurali produive legate al telefilm siano più familiari ai seori del fumeo e della pubblicità, che agli apparati esistenti di produzione cinematografica o televisiva. Nella Rai dell’era bernabeiana, infai, al riparo dalle insidie del mercato, la scelta fu nea e in sintonia con l’accurato dosaggio tra didaica e “popolarità”. No al serial e sì al suo rovescio speculare. Il feuilleton travestito e sublimato in sceneggiato nazionalpopolare. Serial era invece praticamente tuo il cinema italiano popolare degli anni cinquanta-sessanta, quello dei generi bassi, che si traasse della serialità centrata sul corpo di Totò o di quella legata al
ripetersi puntuale di trame, contenuti schemi narrativi dal filone avventuroso al mitologico al western all’italiana. Seriale in un certo senso era anche la riproposta continua e forte di figure, aori, situazioni nel grande calderone della commedia all’italiana. In ogni caso, la serialità era quasi esclusivamente dalla parte del pubblico (allora sterminato): seriale era la leura/visione, seriale (in parte) l’organizzazione dei materiali, non certo la produzione, mai giunta a una fase realmente industriale, e sempre legata a una dispersione e casualità dei capitali e delle imprese. La difficoltà di collegarsi a un’industria-cinema in grado di produrre serialmente è quindi uno dei motivi (insieme con la scelta politico-culturale e lo svincolamento dal mercato) della quasi totale assenza fino a oggi di serial televisivi italiani. In tale vuoto, è l’intera programmazione Rai che può essere lea (e che probabilmente per decenni è stata seguita) efficacemente come serial, grazie alla vischiosità delle presenze in video, alla ripetizione ininterroa di modi e temi, alla non necessità di vedere tuo (mentre lo “sceneggiato” che moltiplica dilata e ramifica gli spunti, ha bisogno di essere seguito tuo puntata per puntata). Il telegiornale stesso è stato in Italia il serial più seguito e più proprio, anche per il sostanziale permanere degli argomenti e soprauo dei personaggi traati (la storia politica italiana è certamente più un serial, con gli stessi aori personaggi protagonisti di tante storie identiche e diverse, che un lungo film drammatico fao di pieni e di vuoti, di roure e di aese). Ma è proprio il palinsesto nel suo complesso (fino alla riforma almeno) l’esempio più immutabilmente seriale, con gli appuntamenti rigidi stabiliti per anni interi. Per alcune figure poi (certi giornalisti, i telecronisti, gli Zaerin i Tortora i Bongiorno) il serial ha raggiunto lo sviluppo temporale delle più affascinanti e incredibili soap-opera americane, quelle che hanno visto invecchiare non solo intere famiglie USA in casa davanti al video, ma anche gruppi di aori dentro il video, nelle serie portate avanti decine di anni, con morti e nascite. In un misto di finzione-verità più vicino forse al delirio
zavainiano della cinepresa che segue tua la vita o una giornata di un uomo che non a Starsky e Hutch. Sulla spinta del mercato (costi crescenti del prodoo straniero, aldilà degli effei colonizzanti, e concorrenza con le reti private) la Rai si indirizzerà adesso verso un’ipotesi produiva telefilmica e seriale. Che per il momento coesiste però con una produzione cinematografica targata Rai che aldilà dei risultati e delle autocensure in omaggio a supposti stili inesistenti e grammatiche televisive, non si pone per nulla il problema di agire comunque serialmente all’interno di un palinsesto complessivo (pubblico e privato) ormai assolutamente selvaggio. Il rischio è allora di partire già in ritardo, sulla falsariga americana anni trenta (cinema) e anni cinquanta (TV), magari legandosi a una forma cinema già esistente tentando nuovamente di mediare cultura alta e bassa in un involucro-telefilm. Un’ipotesi di telefilm oggi non può prescindere da una valutazione della rapidità della minimalità delle mutazioni nel sistema televisivo mondiale. A leggere la produzione televisiva recente americana (e i cartoons giapponesi) ci si rende conto che la tendenza è ormai a serializzare e spezzeare all’interno della durata di un singolo “pezzo”. Cioè, ogni telefilm è già un serial intero e non (come potrebbe succedere da noi) un mini-sceneggiato o un mini-film. Evidenti sono certo i motivi pubblicitari (l’introduzione degli spot ogni tre minuti, quindi la necessaria e concentrata autosufficienza dei pezzei) o di concorrenza nell’esplosione dell’universo multicanale. Ma nello stesso tempo questa è ormai una forma in sé, a brevi unità fortemente complesse e compaemente stratificate. Un esempio fortissimo se ne ha infai in un film-film come I predatori dell’Arca perduta, non a caso prodoo dal Lucas che ha inventato e lanciato con le Guerre stellari l’esempio di serial più moderno ed eleronico e ad alto budget. ello stesso Lucas che dichiara adesso, prima ancora di presentare il terzo episodio, di essere un po’ stufo e di non avere più tanta voglia di produrre gli altri sei.
Preferisce serializzare un singolo film, immeendo nell’Arca perduta non meno di dieci puntate e cento personaggi in una volta sola. [“il manifesto”, 29 seembre 1981]
ando il film interrompe la pubblicità. I Caroselli di Manfredi
Senza bisogno di costruire un’immagine documentaria di Nino Manfredi araverso trent’anni di cinema e di costume italiano, la semplice mossa laterale e marginale di aggiungere in coda ai film alcuni dei molti Caroselli interpretati dall’aore lungo tua la storia della geniale forma-Carosello, riesce dove la selezione dei film potrebbe non arrivare. Nell’appuntamento a giorni di distanza, e tra film troppo “distanti” l’uno dall’altro, e in qualche modo casuali – il caso/caos del mercato cinetelevisivo italiano – è difficile seguire la variazione/persistenza nell’aspeo visivo dell’aore, è difficile sempre anche in “trenta film di John Wayne”, se non altro perché esso è preso in altre trame, in altre storie. È allora la scelta dei brevissimi mini-film pubblicitari all’interno del mercatino televisivo d’antan a permeere paradossalmente che venga inquadrato e soolineato ciò che il mercato nasconde e confonde. (Così come la forza dell’aore Manfredi viene durante il ciclo soolineata e premiata non tanto dai film alcuni dei quali pregevoli, a cominciare dal bellissimo Pietrangeli La parmigiana ma dalla riproposta pomeridiana per l’intera seimana pasquale del Pinocchio di Comencini nella versione televisiva di sei ore: un grande personaggio “debole”, il Geppeo di Manfredi e una grande operazione di mescolamento del media: con la serialità/serialità innestata sul seriale debole del “ciclo”). Come sfogliando una raccolta di super-8 familiari, con la stessa malinconia persa nella gioiosità, quei frammenti di cinema e speacolo leggero già inseriti in tempo in TV e ora reinseriti distornati nel tempo TV danno un’immagine del tempo (soprauo stasera quando verranno trasmessi tui
insieme in coda all’episodio manfrediano di Cuori infranti anche qui permeendo il confronto tra due diverse “forme” brevi entrambe sostanzialmente “anni sessanta”). Forse potrebbero addiriura essere proieati a doppia velocità, oppure per immagini fisse. Come foto agiscono infai rispeo alle lunghe durate televisive (e sullo scarso e comunque casualissimo uso della fotografia, per esempio, le poche immagini fotografiche in bianco e nero di una conferenza stampa di De Benedei, dentro un recente special del TG1 sull’accordo Olivei/AT&T, a far pensare il potenziale di piccole differenze e di scarti che l’immagine fissa potrebbe giocare dentro il video sempre fibrillante). Brandelli di un corpo che invecchia mentre l’aore si affina, istantanee di un lavoro che è insieme dell’aore sui suoi tempi e del tempo sull’aore. E uno dei massimi aori della scena cinematografica italiana appare in una delle sue dimensioni più “vere”: quella in cui la merce si vende con e come la simpatia, il prodoo insieme con se stessi, e il mestiere diventa unico, la merce si rivela pur sempre segno o nome universale e magico (il sorriso della Carrà, le gambe di Rummenigge, l’intelligenza di Platini, tue cose senza valore, costosissime solo perché inestimabile è il mercato del magico dei fantasmi del capitale). Più lo mandi giù e più ti tira su appare una massima orientale, monastica, contemplativo/ascetica, e insieme supremamente capitalistica. Il corpo e il volto sorridente di Nino Manfredi lo dicono ogni volta che appare fasciato di Missoni, da solo o in famiglia, in TV o sui giornali, senza neppure il bisogno di dire che è pubblicità. [“il manifesto”, 15 aprile 1984]
Il logos petulante
Croste cicatrizzate di grafici eleronici, si moltiplicano scrie sigle marchi sul video televisivo. Visione anche affascinante, panorama mutato come quello che agli inizi del secolo vide le grandi insegne luminose tracciare di segni ambigui (scrie/lampada) le cià. Drammatica e chiara dimostrazione dell’insufficienza delle immagini, o almeno della superba e drammatica inaualità di alcune di esse. Anche della loro passività indifesa. Nel periodo più selvaggio ed esplosivo della diffusione dei canali in Italia, le scrie e i marchi indicavano proprietà indirizzi recapiti steccati recinzioni nel labirinto etere, baezzando e nominando le emienti, facendole esistere (a volte con stupore), margheritine o immondi fiorucci di fronte al monopolio radicato. Il pirataggio aggiungeva colore e ribalderia alla necessità di riconoscimento. Marchi contraffai e sovrapposti, “raschiature eleroniche” per riciclare programmi Rai o cassee di rari film americani senza dirii (ricordate il saltellante “RAI” fastidioso da un angolo all’altro, per eludere i metodi più semplici di cancellazione e sovraincisione?…) o di programmi indipendenti autoprodoi. Immagini registrate e rubate al volo, riciclate fino a invisibilità che raccontano Storia (la loro “Storia”). Segno pallido di un desiderio di comunicazione e capitalizzazione dello spazio/tempo TV mai saziato dalle immagini. Le interminabili richieste di sangue o i saluti e le “leere” di un’inedita radiofonia videoscria, e gli annunci d’asta che non risparmiavano John Ford, infine le informazioni sui risultati di calcio. Ennesima dimensione dell’opera aperta TV, la convivenza di scriura e segno grafico con le immagini nel flusso televisivo risultava e risulta di fao una delle tendenze più evolutive dall’eminenza centralizzata verso la comunicazione
video (interaiva, “telefonica” ecc…), oltre a ricordare ogni momento la violenza della situazione la guerra del Vietnam inesausta in cui le immagini si affrontano o sono prese conquistate distrue sterminate napalmizzate perdute. Violazione irruzione sovrimpressione, un di più di informazione che rammenta e anzi istituisce una dimensione di direa, di tempo che davvero passa oltre (e durante) il tempo di quel programma quel film quel gioco (così i risultati di calcio mutanti nelle scrie ricorrenti scandiscono un altro tempo dentro il pomeriggio TV, incrociano flussi diversi; così Valenti annunciò grave un pomeriggio che “per rispeo” i risultati non sarebbero passati sopra le immagini della visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma, paradossalmente ponendo l’evento fuori dal tempo e implicitamente presupponendo che le scrie fossero un sopra un più forte un troppo forte un’istanza superiore una “voce” che….). Di tue le retoriche televisive quella del marchio è diventata oggi la più petulantemente istituzionale nella situazione di lieve autorazionalizzazione non regolamentata. Poche seimane fa, il rai già stabilizzato in basso a destra si è trasformato in Raiuno, Raidue, Raitre, più identificante. E mentre i programmi rivenduti da Rai-Sacis o da Reteitalia ai circuiti minori o locali portano il doppio marchio di proprietà a sancire strategie e alleanze (terribile il tricolore di Reteitalia), proprio la proprietà diventa l’ossessione dominante non più e solo delle reti ma dentro le reti. Da Unomaina a Doc (che già nel nome testimonia l’ossessione) a un programma un po’ diverso come Va’ pensiero (che invece ha nelle “scrie in libertà” una caraeristica nuova, simulazione intelligente di una pluralità di soggei all’opera più che di un super-io emiente), il logos interviene continuamente a rammentare dove siamo. Ricordando a tui che non si è speatori ma già “soggei di ascolto” anche fuori del campione Auditel e prima della misurazione. Bisogno di identità, legiimo desiderio di creare affezione e complicità. Mancanza di identità. Coscienza evidente di ciò. Dalla “rarità” di Doc alla chicca “inedita” delibata in un mese
in due o tre programmi (non necessariamente dello stesso network), tuo il repertorio e tuo ciò che immediatamente a ogni istante diviene tale viene marchiato, forse con senso di colpa “informativo” e soprauo per ammeere quel che infine si sa appartenere a un immenso archivio fortunatamente circolante e fortunatamente e graziosamente piratabile. Più economico della sigla e dello staccheo, più intemporale e guizzante, più televisivo e pubblicitario, il marchio passa poi dal repertorio agli studi, ai set dove troppo spesso si sa passano gli stessi corpi e le stesse facce, anch’esse da marchiare (bello il nome “Vanna Marchi”… ). Le linee editoriali (continua) (interrompendosi). [“il manifesto”, 20 dicembre 1987]
Tre reti in cortocircuito
Mancava l’altra sera (mercoledì sei novembre, epifania) un monitor in campo anche nello studio in cui per Raitre si discuteva del senso (del “sesso”?) dell’antifascismo. Uno schermo che mostrasse lo sberleffo frassicarboreo (Raidue) intorno allo schermo (Raiuno) dove stava Celentano con Gianni Minà (un tempo “uomo” di Raidue, ora a Raitre). Già così la situazione era complessa e intrigante (almeno quanto un “messaggio” o uno speacolo di fineanno a reti unificate); se poi l’immagine di Raidue che guarda e fa vedere Raiuno si fosse imbricata in quella di Raitre anche solo per un aimo, la nitidezza del cortocircuito la risonanza il riverbero avrebbero avuto il valore di un lampo che spegne il televisore. Che, in ogni caso, di Celentano si “parlava” anche senza nominarlo, nel programma di Ferrara: proprio per l’incredibile distanza, nell’evocazione “arretrata” e quasi fantasmatica di un’autonomia del discorso (dibaito…) “politico”, di una sua separatezza tecnica. Dopo il monito un po’ troppo (o allora troppo poco) allarmato di Eco, ecco un momento compiutamente televisivo e quindi extratelevisivo, praticamente invisibile, che per descriverlo occorre descrivere momenti contemporanei e autonomi (oh, l’Orlando Furioso di Ronconi…). Più che preoccupare il “peso del discorso” o per le sue leggerezze insopportabili (il personaggio di Celentano non è poi così diversamente o potenzialmente più “pernicioso” rispeo al caè di Manfredi, al cacao di Arbore, alla serenità civile di Zavoli…) la cosa porta in un gioco sfrenato di persuasioni palesi, in uno sliamento mentale so verso una tipologia televisiva casualmente ma finalmente interaiva. Il gesto, più che performativo, è quasi didaico, neanche da sopravvalutare. Serve a distruggere l’illusione retorica
(quella sì pomposa) della direa come “collegamento con la realtà”. Sempre più mostruoso groviglio autoreferenziale (tenero?), la TV diventa con Celentano (grazie anche ai suoi eccessi, alle lungaggini e noiosità, alle “ignoranze” ingenue o no) la direa con se stessa che è in ogni istante, banalmente e misteriosamente. Infine si avverte il tempo, nella relazione ridata tale e quale (operazione warholiana) tra un canale e l’altro. Oltre le interferenze da anni simulate dalla banda Arbore. Il semplice “contao” (mercoledì in prima serata su Raitre c’era stato 2010 – L’anno del contao, un soggeo circolare, il riaerraggio dell’uomo del cinema, della fantascienza sul set del proprio “futuro archeologico”, l’astronave di 2001) con gli altri canali dà la nudità del tempo TV, incontrollabile quanto fragile. Il gioco funziona. Celentano vede Canale 5 e vince la posta. Baudo, giustamente e professionalmente sconcertato anche se in certo modo precursore (lui da Sanremo 1987 ammonì nessun politico ebbe mai una platea come questa!) dice in TV che per un po’ non apparirà. Celentano è stato oggeo facile di “prese di posizione”. E si aspeano facili sermoni e meraviglie scrie per quando su Odeon TV partirà il programma a videogioco interaivo, con i ragazzi che devono giocare a non farsi colpire dal raggio del televisore, il video che comanda il gioco. Come se non fosse già così, come se il televisore non fosse già adesso anche una protesi mentale ai cui impulsi rispondiamo (indignati, magari) o cerchiamo di sfuggire. Senza nessun bisogno di arrivare alla simulazione, il gioco funziona oggi (come molte altre cose) per pura virtualità, anche in assenza. Solo il fuoricontesto di Celentano poteva dare alla sospensione, alla pausa, alla malafede, al collegamento incongruo con un canale concorrente l’intensità provocatoria che certo non avrebbe un doo civile commentato “esperimento mediologico” (superato in flagranza e senso dalle indesiderate fascinose sovrimpressioni che spesso sposano nel televisore mal regolato immagini di canali diversi). Sul filo buffo tra svelamento e ovvietà dello
svelamento stesso, lo sguardo verso il monito che noi possiamo guardare (le partite in direa) nel saloo calcistico di Va’ pensiero e il segno di qualunque cosa altra (o medesima appunto, partite…) il desiderio potrebbe in quel (⁇?) momento desiderare. I giochi poi, sui limiti della continuità (oltre i lacci “politici”), potrebbero davvero sfrenarsi, innocui ma non meno elaborati di un’artisticissima video performance. Se Banfi, una domenica, dallo studio in cui conduce Domenica in, interrompesse una barzellea annunciando che la concluderà dallo studio adiacente in cui si svolge contemporaneamente Va’ pensiero, e si incamminasse verso il bordo del televisore… [“il manifesto”, 10 gennaio 1988]
Venti anni prima
S’era interroo un discorso (seimane addietro) nell’aimo di passare dalla questione del marchio (o del logos) a quella della linea (editoriale) in televisione. Certo il marchio è il modo più immediatamente efficace, brutale, di indicare una linea, secondo una direzione a spirale, di avvitamento delle immagini su se stesse, o addiriura di penetrazione dentro gli strati successivi delle immagini, dentro il loro “passato profondo”. Ma più che puntare al “cuore” delle immagini la linea del marchio – si diceva – è quella dell’appropriazione, della recinzione, della bandierina, del piede sopra (ovvero dell’incrostazione, tecnicamente parlando). Per cui il pregio maggiore (o anche il solo) di programmi come Cinema! di Bortolini e Ma senza resta in memoria l’assenza della scria Rai, richiesta proprio ufficialmente (con fonogramma e tuo) per lasciare intae le belle immagini e gli aori che parlano forse solo per lasciare immagini pulite ai registratoristi e per non interferire con i sootitoli, ma infine ridando allo speatore il compito spaesato di definire il canale che sta vedendo, di compiere un proprio “lavoro” o semplicemente di stare a veder senza voler (dover/voler) sapere chi emee. Oggi, comunque, nella ancora sufficiente confusione TV (italiana) una rete che trasmeesse senza marchio sarebbe la più distinguibile e distinta, la più misteriosa e nitida. Soprauo (tra marchio e linea) si diceva del repertorio, iceberg sommerso ogni istante ingrandentesi fino a bloccare la navigazione. Oltre la quasi-giungla dei dirii e dei problemi legali, il riuso (principio altrove sommamente ecologico) pone forti questioni etiche e politiche e apre al lavorio del capitale (o di altre talpe) uno spazio finora (intendo: fino al dopoguerra/dopobomba) meno contaminato: il tempo passato.
Una linea editoriale televisiva si definisce oggi non tanto nel rapporto più o meno equilibrato tra nuova produzione e riuso (repertorio), o tra la direa e i differenti gradi di déjà vu (in quanto già filmato/videato e quindi “già visto”) che sono tuo il resto che passa in TV (ovvero: la TV è sempre una “macchina del tempo”); ma nella qualità, nelle forme più o meno consapevoli del riuso. Da martedì (dopodomani) per quaro giorni alla seimana (fino al venerdì, e poi probabilmente tue le noi in chiusura) Raitre trasmeerà alle 19.45 una sintesi di circa dodici minuti da un telegiornale di venti anni fa (esai: il 19 vedremo un TG del diciannove gennaio millenovecentosessantoo, il 20 uno del venti, e così procedendo). Subito dopo il TG3 (ore 19.00) e il TGR (edizione regionale). indi, ascoltate le notizie più “vicine” e contemporanee (almeno in teoria), quelle delle cronache e politiche locali, un balzo di vent’anni, un salto nel bianconero, un pezzo molto codificato di “passato” che ritorna. L’inevitabile montaggio operato dentro i trenta minuti e più di telegiornale (lo spazio in palinsesto non era previsto e premeditato: può essere indicativo il fao che il vent’anni prima occupi i quindici minuti previsti per una rubrica parlamentare non ancora pronta) sarà segnalato da un segno/colore a ogni stacco effeuato. La data sarà indicata, resterà lo sconcerto di un repertorio non direamente finalizzato ad “altri programmi” o “citato” storicamente o speacolarmente. Discrete porzioni di quello che fu tempo direo in onda, archeologia di volti ancora noti nella TV a colori (Piero Angela, Andrea Barbato, Arrigo Levi…) o di speaker oggi svaniti, antropologia materiale dell’oggeo “telegiornale” riproposto non più alla sola aenzione degli studiosi di nastroteca. Tra effeo allucinazione ed effeo nostalgia, tra ripetizione (Gaspari e il Belice…) e memoria (Moro…), tra cuori trapiantati che si fermano e razzi vietcong che colpiscono l’ambasciata americana a Saigon, il serial millenovecentosessantoo si dipana come un gioco di società un po’ turpe un po’ tenero. Il
pubblico potrà amare, odiare; forse restare “indifferente”. Il video forse avvertirà un disturbo di memoria, un capogiro. Il passato… commemorerà di fao il presente che lo sta commemorando con copertine e altro in tuo il mondo. Breve polaroid al passato (o il tempo di rifargli una polaroid), poi il vetro appannato da questo fiatocorto (senza “discorso”) tornerà (diciamo) limpido. E su Raiuno (ore 20.00) comincerà il TG1, su Raidue il TG2 sarà stato “in contemporanea col 1968”. I wish I wish I wish in vain / at we could sit simply in that room again / Ten thousand dollars at the drop of a hat… (“un sogno di Bob Dylan”). [“il manifesto”, 17 gennaio 1988]
L’infallibile Ferrara in cattedra
E il magnifico oblio (diciamo: da film) del bravo operatore americano che si bua con la telecamera dall’aereo per riprendere i voli dei paracadutisti, e filma registra finché si accorge con terrore di non aver indossato l’altra superflua protesi; il paracadute: precipita in caduta libera. (Due mesi fa – ? – sui giornali; e alcune gelate immagini in TV.) Non è per sfuggire a una naturale “inconcludenza” che ricomincio dalle ultime delle venti righe saltate in coda al mio intervento (29 maggio) Chi muore si rivede. Né è per accanimento che torno sul ruolo o sul sintomo televisivo “Giuliano Ferrara”. Nell’ultima puntata de Il testimone si è arrivati all’oggeo del contendere, la televisione. E lo si è fao nel consueto modo brillantemente globale ed esclusivo insieme (vedi la divertente acrobatica puntata sulla “scuola”), non come se si fosse traato “della vita e della morte” (rimando alla puntata “eutanasia”). Davvero rispeo all’ironia di Linea rovente, che raffreddava il titolo con la mano (di Ferrara) mostrata accendere cerini per scaldare il filo (e mescolando nei temi il bruciante l’eccentrico il faceto il pesante) il Testimone non ammee repliche (se ne era avuto sentore già nel Linea rovente dedicato alla “sanità”). Vuole contornare tuo il problema; i “vuoti” (ovvero, forse, la sostanza del problema) vengono liquidati, il già noto tuo riassunto riesposto riscoperto. Ma non è una “fenomenologia del Testimone” che interessa qui. E anzi la volontà di sapere e far sapere, e quella di giocare tuo il gioco, trascurando lo snobismo o l’eleganza d’autore dei programmi che restano lì lucidi e precisi, è il pregio primo dell’aeggiamento di Ferrara: rilanciare senza vergogne, riutilizzare subito il rimbalzo pubblico o politico del proprio programma, farne il pezzo di un gioco in progress (vedi il ritorno su Moro).
Dove l’ironico bravissimo Ferrara fa paura (può far paura, nell’aimo stesso in cui affascinati si riguarda disegnarsi un disegno) è nell’acceare e proporre come vero e autorevole il ruolo e il luogo della sua parola, del suo programma, della sua “testimonianza”, con una mancanza d’ironia forse mai mostrata da Baudo. Accade così che l’intera puntata “sulla televisione” trascorra senza che si domandi se la TV possa “parlare” di sé oltre a giocare con sé a manipolarsi incessantemente a “mutarsi”. E che con noiosa alternanza si passi dal punto di vista politico a quello “tecnico” a quello speacolare. Con Ferrara occupato a gestire se stesso come schermo in tui i sensi. Con la sicurezza che questa (⁇) sia la televisione, l’oggi; e che non si possa andare oltre perché oltre è già quel (questo) momento “Artefici”, “protagonisti”, “politici”. Con tui, aldilà della maschera irriguardosa, una grande timidezza, un sostanziale ossequio. Con la pretesa di aver concluso (“forse due ore e mezza sono troppe…”), solo perché il discorso sfugge si frantuma e sfrangia, si spappola, nessuno “tiene” (nessuno ha) niente. Mentre si avverte confermato il personale disagio – la minor spregiudicatezza – di Ferrara rispeo alla forma politica del potere, la questione più forte posta dalla TV (oltre a quella del proprio esistere), quella del potere, svanisce. Con gusto arboriano, ma senza essere abbastanza ballerino, il conduore mostra il grande simulacro, “il telecomando”, la regia ribadisce didaicoassolutisticamente (banalmente) ogni parola: “la TV è una lente deformante”, e il conduore passa davanti alla lente inquadrata. Come se le facce le teste i corpi non fossero già telecomandi (e Ferrara lo sa benissimo), come se ancora una volta ci fosse “la realtà” e la sua “interpretazionedeformazione-visione” (da assumere riassumere contestare spiegare “giocare”…), come se i “qualsiasi” telefilm americani non avessero già distruo (con Wigenstein) tale comodissima convinzione. L’occasione era quella giusta: il processo Celentano. La violenza, la chiarezza dei “momenti-Celentano”. Il contrasto tra i carabinieri a cavallo, il linguaggio aulico, Celentano arcaico e modernissimo dentro il televisore. Pacioso,
conciliante, riduivo, Ferrara plaude sornione all’assoluzione, al buon senso, ai ciadini alla gente agli speatori al pubblico, in grado di decidere da solo. Tralasciando l’immagine fortissima di scollamento, un tribunale che decide di un occasionale presentatore che per ignoranza e geniale malizia ha infranto alcune regole o consuetudini relative al voto in un referendum: accostamenti quasi surrealisti, se visti dal punto di vista dell’intensità (e magari dell’ascolto). Dimenticando la più stupenda allucinante stupida delle invenzioni e performance celentaniche: quella in cui alle spalle di Adriano, da dietro il tendone cupo, spingeva per arrivare a mostrarsi apparire esibirsi in TV una folla di ospiti che comprendeva ovviamente “artisti” e “speatori”. Come se ancora con buon senso si potesse (e indubbiamente si può, anche perché per fortuna molti si sono ritrovati adulti prima di vedere un televisore, della generazione che ha unito col proprio corpo la posta il telefono la radio il motore a scoppio la televisione l’eleronica il computer, tui questi salti) discutere della forma o della qualità di un programma credendo di parlare di TV, o giudicare tranquillamente degli esiti educativi o politici della TV (senza sapere che si sta parlando semplicemente allora del mondo più qualcos’altro). Non è falsa l’affermazione fasulla di Ferrara (sempre a inizio trasmissione) “quest’anno si guarda di più la televisione” (non è vero, l’ascolto globale è ancora diminuito, ma la risonanza è aumentata), più occhi diversi tra loro la guardano, forse il vuoto lasciato dalla diminuzione del corpo d’ascolto permee richiede produce la sfera del discorso dell’aenzione del rimbalzo. So di anziani genitori che ancora dicono “non andare a fare il buffone in televisione”, anche se il figlio deve parlare di fisica molecolare al dipartimento scuola educazione; o di altri che piangono abbracciati per la “consacrazione” che è l’apparire in TV (una sera di sguincio) della figlia. Ma la democrazia televisiva è già in ao, è presente, presente come la virtuale incontrollabilità del voto eleronico (prossimissimo). Il pubblico preme, non è più tale, o vuole esserlo di più, essere “pubblico” pubblico. I dieci minuti di celebrità che la TV promeerebbe a tui non sono una
bauta catastrofista gelida di Warhol ma la semplice utopia democratica. Contro le “dinastie” televisive, contro la fatalità ineluabile dei “volti” e dei “tipi” che “funzionano”, il privilegio o la condanna di essere nel luogo da cui si emeono le immagini. Senza elezioni (in aesa di averle) Gorbačëv è già nella democrazia televisiva di Reagan. Specificità e anormalità del “caso Italia” (o del programma di Ferrara) non possono nascondere la virtualità televisiva onniavvolgente. Come la persona più potente del mondo (il Presidente statunitense), viene elea con non grande partecipazione al voto, così la TV non ha bisogno dei grandissimi numeri, delle grandi percentuali, delle maggioranze assolute, della qualità superiore: è grande numero, maggioranza assoluta, qualità superiore, mutazione in ao. Con quello del testimone, spaventano tui gli anacronismi e i teatrini buonsensistici, e anche le sicurezze apodiiche con cui si crede di leggere il trend. Faceva quasi piacere la sana arretratezza pre-televisiva con cui a Mixer cultura (due giorni prima del Testimone) si discuteva di “intelleuale in TV”, con riferimento a sistemi di valori “altri”, senza ammeere di essere araversati in quel momento stesso dalle nervature tubature correnti terminali (eccetera) del cervello televisivo dispiegato. Altrove infai la questione si ovaa e si salta. Acceando poi o favorendo il miscuglio di piccole teorie morali (poco più che un generico appello ai buoni sentimenti e alla “forza insostenibile di queste immagini”, rispeo ai quali l’ambiguo viva la foca di Celentano impellicciato ha la dignità di manifesto teorico). Alberoni che nell’arca di Damato propaganda il libro scrio con Veca sulla e per la morale (“state buoni, se potete”), citando Kant e il suo spropositato “imperativo categorico” (“Niente paura se cito Kant, era uno come noi…!”). Furio Colombo (che è per una TV so), che sulla “Stampa” apprezza il tentativo di Veca e Alberoni. Giuliano Amato e l’aborto. “Finalmente si torna alla morale.” “C’è bisogno di morale.” Grandi proclami di soffice morale laica, problemi di convivenza col capufficio e di
esportazione di moda, di calo di creatività e di volgarità autostradali (di nuovo Alberoni, che in Pubblico e privato ricolloca i segmenti impazziti del privato/politico dopo l’avverarsi TV del privato pubblico). “Ma senza arrivare all’assolutismo religioso” (già, per carità; e dimentichiamo gli studi filosofici parigini di Pol Pot, che usava il telefono, voleva risolutamente il bene di un popolo, ed è ancora vivo, e non fu abbauto dalla TV occidentale ma dagli arretratissimi vietnamiti). Tornano tui i grandi problemi, ma sembra sempre proprio di essere in una conversazione televisiva. Non perché qualcosa della ricchezza inquietante della TV, della sua superfluità indispensabile, trapeli. Non perché ci si chieda quali poteri l’agiscano. La sua forma risibile passa e si afferma, il suo interno, la sua frea e le sue lungaggini. La morale torna solo come faiblesse de la cervelle. Incapace di leggere qualcosa nel sublime operatore pasdaran che si gea nel vuoto senza paracadute. Incapace di ricordare Vermicino, quel perfeo vuoto senza un conduore e senza una sceneggiatura, pura direa uccidente ed “esaltante”, aspirante ogni altro senso e funzione nel legame direo col nulla. Come se non ci fossero più buchi neri per terra e in testa. Come se si potesse andare in televisione e parlare come se si fosse in televisione. [“il manifesto”, 12 giugno 1988]
Finisce felice “L’araba fenice”?
Nulla comincia davvero, nulla davvero finisce in TV (di questi tempi, in Italia). Più facile che le cose si interrompano, per scarso rendimento o svogliatezza produiva o autoriale, o che vengano rinviate. Tra Indietro tua e Domenica in, Matrjoska e fuori orario, fantastici e cinemafollie, i ritardi negli avvii, gli intoppi, le prove generali in onda, le mutazioni, le trasformazioni, le migrazioni (Ferrara…) gli allungamenti e accorciamenti sembrano la regola. Se i palinsesti si mostrano più architeanti e occhiuti, al loro interno i programmi si slabbrano invece lungo l’asse temporale, i margini non sono chiari, nulla mai appare pronto e finito, tuo è un po’ sempre fuoriorario. Così, mentre Domenica in “riscaa”, finendo ingloriosamente e con gran successo al momento prefissato, il meraviglioso impreparatissimo, scandalizzante inizio, L’araba fenice non può che finire e proseguire insieme. Ancora lontano da Matrjoska Antonio Ricci aveva mostrato ancora la propria intelligenza giudicando il disastro di gradimento e critico della prima seguitissima (Auditel) puntata di Celentano; “è stato come vedere Vermicino.” Oltre l’abbaglio (del giudizio infine “negativo”) la sentenza definiva perfeamente l’incertezza inane del panorama televisivo tradizionale. E dopo il gioco del cacao la finzione assoluta di Matrjoska (il programma che non si vede, ovvero l’evento come eventuale) dirà quanto i buchi e i vuoti siano al centro della televisione e ovviamente della comunicazione. Reduce dal successo/insuccesso di Lupo solitario, programma inchiodato a un piccolo indice Auditel, Ricci con L’araba fenice tocca il culmine, insostenibilmente acuto, della propria carriera di autore televisivo, in bilico ormai tra la fiction cinematografica e il programma-palinsesto (la
disseminazione di sé e dei “suoi” in un intero palinsesto, e non nel “chiuso” di uno o più programmi). Due volte L’araba fenice ricciana ha usato le proprie ceneri; prima beffando un più o meno consenziente Berlusconi e riutilizzando la maggior parte dei pezzi e personaggi matrjoskeski, adesso annunciando una cosa di tre puntate “di montaggio” con pezzi non utilizzati (come se il programma finito (?) lunedì scorso fosse stato altra cosa). Il fraintendimento censorio (politicamente molto indicativo) ha permesso a Ricci un gioco vertiginoso di mutazione genetica e ars, combinazione suprema, un nuovo baesimo di già vecchi materiali. L’esito di ascolto è stato ancor peggiore che per Lupo solitario, logicamente, se si pensa alla singola collocazione seimanale, isolatissima anche in un palinsesto orientato e mirato come quello di Italia Uno. Ancor più logicamente, se si vede che L’araba fenice, superato il gioco facile sui contenitori contenuto nel titolo Matrjoska, e pur annacquando la rudezza e durezza del programma fantasma (lo Scrondo “fenice” non ha quasi mai la forza del primo pezzo di Matrjoska, il montaggio del programma “non visto” concedeva pochissimo ai giochini e agli scambi tra i personaggi), è il primo manifesto di un’etica/estetica della disperazione che in TV non ha mai trovato posto. Errato e forse fallito, produivamente improbabile (ha un senso che non sia di puro spreco estetico produrre i quasi sempre bellissimi LP della Guzzanti “cantante”?), L’araba fenice non riesce (non è riuscito) a oenere una complicità costante, a giocare arborianamente col suo pubblico. E riesce a non volerlo mai. Puro urlo televisivo, indifferente all’assurdità dell’esistenza di un campione Auditel, muto di fronte all’impossibilità dell’inesistenza di esso. Vecchio, audacemente. Chiuso come un film, d’autore come una sceneggiatura, testardo come un filmmaker. Lontano dalle tragedie e dalle violenze televisive, dai tempi veri o finti delle diree, L’araba fenice, ha consumato il
proprio senso televisivo nel sacrificio in anteprima del suo prototipo invisibile (in TV). Nonostante i piccoli scherzi giornalistici (le false anticipazioni ricciane alla stampa), nonostante i difei (…), non ha partecipato agli scenari catastrofici di tanta TV dell’anno. Intessuto di piccole continue catastrofi di disperazione comica, ha mancato il colpo vermiciniano che solo fa esistere la TV. Non la TV che non si vede, che mai si sa (perché non interessa sapere distinguere capire) se sia in direa o in registrata, ma quella del lapsus, dell’errore; della rissa, dell’accesso automatico, dello sperdimento. Non è casuale comunque parlare di ciò a proposito di esempi (in fondo), di “varietà”, come se lì si giocasse la “verità” televisiva. Come se infine lì (nella “vita” e nella “morte” sempre vermiciniana mi vien da ripetere, ancora e sempre: si potrà mai essere “pronti” per una “direa”? E il TG, la menzogna dell’informazione, non è sempre aesa di catastrofe? dei suoi personaggi e dei suoi autori), più che nel conclamato strategico andino rilancio della fiction, si nascondesse l’unico gioco che ci piace giocare, quello la cui interruzione ci fa paura, orrore (o almeno ci inquieta). [“il manifesto”, 19 giugno 1988]
La presunzione dell’idea, nel frullatore televisivo
Impressione o, al solito, sovrimpressione (sempre un fao di tempi, nello spazio finto del fotogramma mentale). Nella seconda puntata di Vita da Cioni (televisione BenigniBertolucci del 1978, anno formidabile) dialogo BenigniMonni, l’ipotesi della fuga dal Paese, Roma e subito l’incontro per strada con il Cinema, Fellini, buongiorno signor Fellini e subito lui “ci fa fare un film”, donne motori ecc…; prosegue il dialogo, gli americani i razzi nello spazio, lo scontro con i cinesi; Roberto è per i cinesi (“Sono un miliardo”), premonizione bertolucciana?, altro che i razzi, loro ci vanno di continuo sulla luna, i cinesi sono tui lunatici. Millenovecentoantanove, Benigni gira con Fellini La voce della luna. (Rivedendo per un montaggio a scheggia il Benigni televisivo in bianconero. Forse qui tra parentesi è il momento per raccogliere una delle più curiose e minime tra le schegge di morale prodoe dal tritio televisivo.) Diciamo che sia un diario? Senza data o sempre con la stessa data, troppo presto troppo tardi. Non vorrei parlare del mio “caso” (?). Né del lavorio senza confini che in ogni campo vede la critica il diario la recensione la produzione in proprio l’essere autore e l’autorevolezza del giudizio confondersi (un costume non bello) o volta a volta dichiararsi/celarsi/affiorare all’opera in uno stesso soggeo illusorio. i è proprio la televisione, luogo e mezzo senza confini, a ingannare. A produrre “ideologia”. Come se si potesse starne fuori davvero. O non respirare per potere allora solo allora parlare dell’aria. O come se essere dentro la TV volesse dire stare dentro lo schermo o in una delle stanze dove
ufficialmente si tende a produrre televisione. Come se non tui gli occhi tesi verso i loro schermi a differenti visioni producessero e fossero TV. E quelli non tesi ancor più, futuri territori vergini da raggiungere-assoggeare con cavi satelliti. Insomma, il gesto di Beniamino Placido – scrivendo di TV su “Repubblica”, non comparirò più in TV – è un vezzo retorico, simpatico un po’ ingannevole. Se è certo che non farà pubblicità o non sarà lievemente sbilanciato in favore di un programma suo o della sua rete è già meno certo che ciò non avvenga in rapporto ai non meno istituzionali reticoli di amici che tra stampa cinema TV sono disseminati e insieme con i quali si è formato il suo gusto e il suo (eventuale) potere. Certo più arrischiato provare l’osceno potere dell’apparire TV (dentro il quadro alla parete), l’illusione di persistenza, la rimanipolazione e intercambiabilità di corpi facce sorrisi sguardi – bellezza tragica del film più soovalutato dell’ultimo anno, Dentro la notizia –, il peso specifico politico dei nomi e degli inchini, e in più sembrare – scrivendo? – il barone famoso che per non precipitare si tira su il codino con la mano. Seducenti e abbandonati, i nomi dentro il quadro o dentro la macchina TV. I poteri, i “datori di senso” (o nonsenso), i produori di marche, stanno fuori quadro e fuoripista, tendono a non apparire, delegano pezzei e talenti da far fruare in un mercato sconfinato e sempre presente). Dall’ideologia alle idee fuor di parentesi. Altra scheggia di morale. Per corridoi e ascensori, per telefoni e leere, corrono le denunce postume, ravvicinate o ritardate del “furto di idee”. “In televisione poi…”, si legge in questa o quell’intervista, dove il presentatore o autore fa capire che deve tacere sul suo progeo a proposito della “famiglia italiana” perché sai, già la sua idea di due anni fa era tanto simile a quella che poi Chiambrei… Come se, in TV come altrove, tra umano e non umano, il problema non fosse riuscire a fare, in un modo nell’altro in tui e due. Meere insieme “soldi”, oenere sorrisi convinti, facce che vogliono scommeere sulla tua idea (simile a migliaia di altre dal
Manzanarre al Reno proposte o solo pensate in quello stesso momento). Visto che molti amano la stessa donna, e la vedono esaamente allo stesso modo, pochi la guarderanno negli occhi, verranno guardati e toccati sulla spalla, amati. La presunzione un po’ ridicola dell’idea, in un mondo che tuo intero si rimanipola ritrucca e ripresenta di continuo in TV, fa pensare (oltre la mancanza del gusto di abbandonarsi alla diseconomia di sé, allo sperpero disseminante, al ritrovarsi eccitante citato/succhiato in quel film o in quel programma o in quella rivista straniera, e solo tu lo sai e ti riconosci) alle leere degli utenti che senza abbandonarsi alla speranza di fare essi stessi un programma, che so?, sulle “bellezze e bruure di Roma”; o alla certezza politica di riuscire a farlo loro… chiedono repliche di un vecchio programma. Che poi, per motivi del tuo indipendenti dalla loro richiesta gentile, un giorno andrà in onda. [“il manifesto”, 12 febbraio 1989]
Bianco e nero, il colore ambiguo di quella notte
“Penalizzata” dai palinsesti, si dice de La noe della repubblica di Sergio Zavoli, quando è essa a “penalizzarsi” per prima, con la sua scelta formale più interessante audace radicale sconcertante: l’uso del bianconero. Programma di (auto) analisi accanita e dilatata, accensione della memoria, e insieme un progeo politico-formale che distanzia, elide, smorza, perfino addolcisce. Tuo ciò che non è la virtuale “direa mentale” dello “studio Zavoli” a colori, in cui il giornalista autore intervista protagonisti in faccia a faccia spesso memorabili o conduce taglia ricuce opinioni e dibaiti, diventa una noe del bianconero in cui molte cose restano o diventano grigio. Savasta e Intini (tante volte visti a colori) immersi nello stesso bianconero distanziante, perché la “storia” come ci si diceva a scuola ha da farsi solo quando si è raggiunto un certo distacco… Sorazione “ascetica” di senso, effeo teatralstraniante come di una luce a virgoleare il tuo (davvero risultano spilli ironici come le virgolee rosse di Raitre le scrie a colori che appaiono sulla cronaca e contemporaneità bianconerizzata di Zavoli). Ma anche “abbellimento”, vezzo videografico, raffinatezza post-pubblicitaria nella quale annegano corpi e sfumano differenze. Da troppo tempo, da quasi vent’anni al cinema e da cinque in TV e pubblicità, il bianconero ritornante è un supercolore, una ridefinizione ben più che uno spogliarsi, come genialmente riteorizzato da Toro scatenato dove Scorsese rovesciava un rapporto consolidato, lasciando il colore solo ai superoo familiari. Naturalmente il documento TV bianconerizzato non ha lo splendore o l’evidenza formale di uno Scorsese o di un testo corto come spot e sigle. Il
bianconero zavoliano rischia allora il bruo, l’opaco, punta a un grado zero che forse solo la cancellazione dell’immagine in certi trai (il puro sonoro) potrebbe permeergli. Inadeguato come segno televisivo “forte”, assediato come è da ben più raffinate interpretazioni e utilizzazioni del bianconero (in ogni caso sfruato come margine, scheggia, irruzione, interpunzione, limite: dal film di tarda serata/primo-maino agli intervalli e annunci di Raitre, alle archeologie). Ingenuo e timido come dispositivo formale (e gli effei videografici e le enfatizzazioni da vecchia sigla indicano la stessa necessità di “arricchire” appesantire suggestivizzare le immagini: sfiducia nei documenti, concessione all’orribile dominio postmoderno, dell’impaginazione). Semplicistico e opinabile come senso politico-televisivo, il bianconero zavoliano “di guerra” (non erano tue in bianconero, le guerre prima del Vietnam?) ci dona infine l’evidenza della propria preziosa ambiguità: la semplificazione diventa raffinatezza che si rivela povertà, la distanziazione usa il modo dell’auazione più post moderna, la decolorazione è una forma oltranzista di “colorizzazione”, i “fantasmi” del passato anche prossimissimo invece di risultare dimensionati e risituati non appartengono più né al passato né al presente, ma al set astrao del banco mixer che dispensa tracce di colore, all’immagine che si lavora si critica si mixa si perde nel tempo. Il proclamato “illuminismo” perde definizione mentre dice di meere a fuoco, le epoche visive e i colori diversi delle età si confondono (in aesa della “parola” di Zavoli e dei suoi ospiti?). Perché il bianconero come sanno i milioni di sfumature di grigio nascoste tra i nostri occhi e il nostro cuore è il colore più ambiguo. [“il manifesto”, 1° aprile 1990]
Il libro di BLOB
Non è BLOB che vi parla, in queste pagine e in questo fascicolo. BLOB non esiste. BLOB resiste, a se stesso prima di tuo. Tre anni e mezzo di un programma come il nostro (vostro) possono sprogrammare chiunque o qualunque cosa. Ma BLOB non aveva un programma (lo è, piuosto; e può essere “giocato”, esteso, modificato da chiunque lo usi), non ha mai avuto un progeo pensato, verificato, auato. Nasce già come mutazione di un’altra forma, quella spina nel fianco della memoria, quel leggero incubo da macchina del tempo all’ora dei TG che era stato per più di un anno (gennaio ’88 – aprile ’89) l’edizione quotidiana di Vent’anni prima. Si rapprende, come un ammasso cellulare semisolido, dentro il flusso a schegge e gocce (percepiamo la frizione fisica e mentale tra i due termini, lo stridore conceualmente insopportabile e omicida) che ha cominciato a segnare la televisione italiana nella seconda metà degli anni oanta (flusso nel quale, personalmente, mi piace pensare di esser stato naufrago consapevole). Un’isola galleggiante. Il culmine televisivo (fino a oggi) di un processo di repertorizzazione e archeologizzazione del presente e, insieme, di “presentizzazione” e “direizzazione” del passato e del reperto. L’istante TV precedente diventa repertorio in BLOB, l’inquadratura del film più arcaico e lontano diventa momento di linguaggio del presente. Il montaggio, lavoro postumo e riflessivo per eccellenza, scelta, riordino, secondo sguardo, intervento su materiali raffreddati e dissezionati, si trasforma a sua volta in direa. Affannosa direa. BLOB non si rivede, non si rimonta, non si trucca allo specchio, deve sempre correre all’appuntamento. Nessuno (noi tanto meno) lo vede e controlla prima della messa in onda. Il completamento, la forma che quella sera,
stasera, domani sera ha assunto o assumerà sono affidati da sempre a voi, ai vostri codici sparsi, alla vostra disaenzione, al vagare dei vostri occhi, al vostro desiderio di leori, alla vostra immaginazione di terroristi o di pacifisti. BLOB aende lo sguardo, le lame altrui che entrino barbare o civili nella sua carne, negli interstizi, a curare o a uccidere, a torturare o ad accarezzare. Non esiste, allora, BLOB. È. In modo puramente virtuale, con intenti virtuali, con un effeo di discorso del tuo virtuale. I discorsi di BLOB, le prese di posizione di BLOB, le caiverie di BLOB, il “qualunquismo”, il “leghismo”, l’oltranzismo di BLOB sono fantasmi, nascono ogni istante dagli amplessi tra i dèmoni dell’analogia e le cellule sparse di materiali visivi, i brandelli di immaginario in cui restano impigliati, le pagine delle vostre enciclopedie mentali e materiali, l’efficienza maledeamente automatica delle sinapsi cerebrali. Anche questa foto di gruppo, con i nostri discorsi e racconti un po’ vani, è una Fata Morgana. Mi spiace essere apparso in TV, essere già riconoscibile (non da me, comunque), perché le nostre foto sono derisorie, potrebbero essere le facce e i trai di chiunque altro, sono testetelevisore dei misteriosi Residents (gruppo rock anarcocaliforniano). Le nostre teorizzazioni, proprio come il montaggio di BLOB, sono superate in velocità da BLOB stesso, sono già memoria evanescente, evaporano. Il sogno che avevo, sui tavolini di un bar, quando BLOB non esisteva e cercavo di convincere Marco Giusti della sua conceuale “bellezza”, per fortuna non si avvererà mai. La breve onnipotenza della manipolazione non dura neanche lo spazio di un giorno di montaggio. Aimi di estasi, sì, di sperdimento, quando pare di essere seduti sulla cima non della TV o del mondo, ma del linguaggio puro, di un filo ininterroo, di un probabile delirio, che in quel lunedì ore quaordici e trentasee e ventuno secondi e see venticinquesimi (fotogrammi TV) si interrompe o si compie e voi siete lì, in quel momento… Ma le altre nove ore di lavoro
sono di pura sofferenza e di divertimento, soprauo di insoddisfazione I fili si perdono e, peggio, si intravedono aggrovigliati e inestricabili, si tende a tagliare il nodo con la spada della comicità, con la violenza dell’orrore, con la biforcazione sessuale. Il tempo (di montaggio) non è sufficiente a discernerli e riannodarli, la durata (del montato) non rende giustizia alla memoria, al numero delle possibilità segnalate e annotate… No, non è possibile controllare questo montaggio, non è più possibile che controllare la nostra vita: ci sfugge da tue le parti, non ci appartiene più proprio mentre crediamo di possederla e indirizzarla. E a voi consegniamo un falso “gioco di BLOB”, quello che vorremmo fare e non possiamo perché il tempo non c’è, ma solo quando il tempo non c’è, BLOB, appare. “Ma è una cosa informe, non è un programma nostro, è una cosa faa di immagini già pronte… è come un blob…” diceva Marco, sempre a quel tavolino di bar. “BLOB!” grido. “Ecco il titolo!” “BLOB”, il titolo del film era diventato molti anni fa il termine con cui nel nostro linguaggio di cinefili definivamo persone un po’ ebbre, confuse, appiccicose, inevitabili… Cosa racconto? BLOB non ha genealogia né morale, forse. BLOB è (in inglese) macchia, frammento, punto cieco, sporcatura, bruscolo in un occhio (ma uno scienziato premio Nobel chiama “BLOB”, i punti della retina in cui si forma il colore). E il suono ci dice di qualcosa di grasso, di hamburger e salsa gocciolante e di ribollire continuo e di noi (di BLOB) che siamo bolliti. E che acceiamo, dopo anni di non promozione (BLOB è l’unico programma TV che non ha mai indeo una conferenza stampa di presentazione, non ha mai emesso comunicati), non di promuoverci ma se mai di declassarci con leggerezza, di offrirci aperti al gioco, senza rileggerci e correggere gli orrori, senza evitare il fraintendimento che (se esso ci fosse mai) fa parte della nostra purezza. Presi ora per un programma comico, o di varietà, o giornalistico, o di critica, o di servizio. Troppo raffinato o troppo sporco. Troppo televisivo o troppo filmico. Sì, è anche questo, un rifilmaggio della televisione, che già televisiona tuo il cinema. Tuo questo. Ma è il minimo.
BLOB,
anzi, è minimo. Non è nulla, un giochino, forse, crudele. Crudele verso chi lo fa, che accea l’indifferenza televisiva, l’informità e ogni giorno testardamente e ousamente gli dà una forma, una durata, un grido (autito, sordo: blob). Non c’è nessuno, tranne noi mostri. esta frase, dal film “BLOB”, incapsulata nella sigla originale di BLOB, è diventata proverbiale, citata in diverse esegesi critiche del programma. Sono certo che non esiste (certo?). Un lapsus. Così come la sentiamo o ripetiamo non ha senso. Probabilmente il polizioo azzurro-blu che esce (dal cinema?) afferma: “Non c’è nessuno, tranne noi e i mostri” e nel doppiaggio italiano o nella copia che avevamo a disposizione quell’“e i” si è persa, si è impastata “con noi”. Non sono mai andato a verificare nell’originale, inglese (magari potremmo pubblicare la sceneggiatura…), non ne ho sentito il bisogno. Per ora, va bene così. Pigramente ed eroicamente, mentre le maschere di BLOB ci sommergono ovunque e ci spingerebbero a “cambiare” (ma come può cambiare un principio di mutazione?). E sappiamo di essere scimmie, le scimmie di noi stessi, noi autori ma solo fantasmi d’autore, fantasmi di altri autori prima e dopo di noi. Gli speatori potrebbero essere già fuggiti. Non c’è nessuno, tranne noi mostri. [introduzione a Il libro di BLOB, a cura di Vladimir Fava, Nuova ERI, Edizioni Rai, 1993]
La nuova Rai? Grandi ascolti, piccole virtù
Con la fantascienza, la satira da troppi decenni è diventata l’unico modo realistico, quasi “naturalistico”, di parlare del reale o di farlo parlare. La deformazione (e l’invenzione) l’unico modo di far apparire la forma del presente. Ma, a differenza della fantascienza, la satira ha, per dirla un po’ con Pasolini, un’irresistibile inclinazione alla “destra”. Lo sghignazzo che cerca e diventa “consenso”. In Italia è da più di un decennio un genere leerario e giornalistico dominante, con un suo potere, a prescindere dagli schieramenti. Avanzi e Arbore, Saluti e baci, Bucce di banana e Scherzi a parte, diversi e su pubblici diversi, esercitano la stessa supremazia. Per questo la satira (per non restare genere, e per non produrre facile consenso) dovrebbe roteare continuamente, in cerchi concentrici a 360 gradi, farsi vuoto intorno, non lasciarsi e non lasciarci appigli. Temperare la sua forza con una scelta tenacemente minoritaria e di opposizione. In Italia, dove l’opposizione e la minoranza, senza alternanza politica, si erano a loro volta sclerotizzate in un ruolo di egemonia “immaginaria”, è difficile uscire dall’appartenenza politica. Anche editorialmente. Foraini sbraita e si considera prigioniero politico, ma la forza e l’intelligenza iperqualunquistica delle sue vignee ha avuto modo di risaltare e di affermarsi proprio perché incastrata nel contesto della sinistra liberaldemocratica di “Repubblica”. Serra col tentativo interessantissimo di “Cuore” si rende conto costantemente (vedi le ferocissime prime pagine) che la satira per poter essere amata-odiata non deve avere cuore o se ce l’ha non lo deve far baere, lo deve traenere come in apnea. E infai si scinde, “Cuore”, negli editoriali che
ricordano la linea e danno i valori e l’agenda di una sinistra mentale e virtuale. Personalmente, adoro la satira poetico mistico nullista (che infai mai definiremmo satira) di Cinico TV, lontana da tuo e che pure mai sospeeremmo baere o baersi per valori cose persone che non ci piacciono. Mi piace (anche se il programma raramente è “bello”) il costante esporsi di Striscia la notizia in un palinsesto minato. Mi piacciono i sogni rovesciati di Paolo Rossi perché sono grande leeratura e grande intensità poetica. Mi piace meno il bisogno del nocciolo duro del leghismo per dare un po’ più di benzina al motorino della caiveria programmatica. Capisco e temo il mutismo auale del guizzante detective Chiambrei (dove è oggi il potere? Non è più occulto che mai? A cosa appigliarsi?). Bucce di banana, infine, col suo spaventoso consenso, è la grande involontaria autosatira del “rinnovamento” Rai e (speriamo non) del Paese. A meno che non significhi il consolidarsi di una linea Raiuno iniziata con Grillo: diree (non più satiriche in sé di una finale di Coppa dei campioni) da luoghi in cui si suppone prodursi una “satira” di grande ascolto (il prossimo sarà Celentano…?). [“Corriere della Sera”, 10 gennaio 1994]
La Trilogia di Raitre: e se fosse uno scandalo a fin di bene?
È scandalo, in questi giorni, per la Trilogia della vita di Pasolini (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una noe), amputata nell’insieme di circa 45 minuti (per oenere il divieto ai soli minori di 14 anni) e mandata in onda da Raitre. Da cui appelli (di critici, registi, amici di Pasolini) perché i film non vadano in onda o perché gli speatori li boicoino. Giusto paradosso pasoliniano; proprio per i film dell’intelleuale italiano più sistematicamente anticonformista si scatena un dibaito che gea luce sinistra sulle passate e “normali” abitudini silenziosamente censorie, televisive e non, intelleuali o profane. Dagli anni sessanta per legge i film vietati ai minori di 18 anni sono stati trasmessi in TV solo dopo revisione della censura. Aggiungiamo i tagli solerti di autocensura Rai o Fininvest (vedi lo scempio di film come Vestito per uccidere di De Palma), ricordiamo che la legge Mammì (con acquiescenza della sinistra) ha rincarato la dose rispeo al regime teledemocristiano bandendo dal video fino alle 22.30 anche i film vietati ai minori di 14 anni. Certo, però, non si avvertono proteste quando un buon film americano arriva in Italia dimagrito di vari minuti, né si accese un dibaito quando Bertolucci consentì i tagli a Ultimo tango a Parigi per la vendita alla Fininvest. Né si intendono grida quando TV e cineclub continuano a trasmeere Bergman nelle lontane edizioni italiane, leeralmente rimontate dai distributori nazionali per autocensura commerciale. E per caso (nessuno, neanche la stessa Raitre, ha accennato alla cosa), domenica scorsa dopo Il Decameron è andato in onda, in versione originale e sootitolata, ma
tagliata per oenere la revoca del divieto ai minori di 18 anni, il film Suzanne Simonin, la religiosa di Rivee, occasione nel 1966 di una furibonda loa del miglior cinema francese contro il governo che l’aveva vietato. Pasolini evoca altri sensi di colpa, e risulta il corpo più mangiato e riappropriato di tua la cultura italiana del dopoguerra. Ora, la censura è assolutamente odiosa. Ma i film di Pasolini sono acquistabili o noleggiabili in cassee per poche lire. Raitre non spaccia le proprie copie per versioni integrali o restaurate. E forse è disinformativo o autoritario ascrivere automaticamente Il Decameron nella discutibile categoria dei capolavori. Forse è un film minore di Pasolini, che sopravvive al demente massacro di genitali e di baute “sconvenienti” in virtù di una trasandatezza rosselliniana. Ma pensando e vedendo un film in TV (almeno fino a oggi) dovremmo sapere che si traa comunque di una tortura, di un leo di Procuste, di una visione carceraria e rimpicciolita. Il che non ha mai tolto al grande cinema la sua forza, che resiste a qualunque taglio, manomissione, velatura e, ancor più e prima, all’illusoria abile o ispirata “violenza” con cui i registi e autori e tecnici gli danno “una” forma. La TV sposta questa forza, ne fa la telecronaca, la diffonde e democratizza in un rapporto nuovo e inquietante di vicinanza “faccia a faccia”. L’intensità di un film non è mai nella leggibilità della sua forma chiusa, ma nelle correnti che lo araversano e che lo hanno fondato e permesso sul set. La trasmissione forzatamente mutilata di questi film fa trionfare l’immagine di Pasolini artista. San Sebastiano che agogna le frecce del martirio. Bene che i tagli siano eccessivi e visibili, non celati. Mangiamo ancora questo corpo troppo sacralizzato d’artista. Pasolini seppe scoprire o inventare “la scomparsa delle lucciole”. Da allora vediamo solo lanterne. Come i film “integrali”. I film non sono mai integrali. Scorrono e mutano, anche i capolavori più certificati cambiano pelle. Giusto loare contro l’usura del tempo e le censure sociali, restaurando e reintegrando. TV e video, per motivi commerciali o culturali, lo fanno da sempre. Il
bellissimo Fiore delle mille e una noe che concluderà la trilogia sarà insieme tagliato e restaurato, perché potremo vedere una sequenza che era stata eliminata dal montaggio finale per motivi di lunghezza e commerciabilità (sarà censura additiva?). Una mano toglie, l’altra aggiunge. [“Corriere della Sera”, 20 marzo 1994]
Così sarà tutto più chiaro
Appare sbalorditivo il modo in cui un piccolo fao, una piccola trasformazione in ao, della quale tuavia molto si parla, si chiacchiera, si scrive, è stato seguito fino a oggi (ieri) dalla stampa (questa forma intermedia tra storia e cartomanzia), dai commentatori, dalle stesse forze politiche, Si parla della Rai, della televisione, del “servizio pubblico”, di quella che viene ancora definita “la prima azienda culturale italiana”. Ci sono urgenze più drammatiche forse, dalla Finanziaria all’Antitrust. Ma appunto è allucinante (di una chiarezza allucinante) l’acquiescenza con cui si lascia tranquillamente languire e deperire un supposto patrimonio, l’inadeguatezza con cui si discute proprio della televisione che invece viene continuamente soolineata come il problema principale per l’esistenza stessa, del Governo guidato da Silvio Berlusconi. Per un mese e mezzo, un gergo tra frivolo e politichese ha accompagnato la vicenda delle nomine. La ventilata conferma o “promozione” (?) di Angelo Guglielmi, direore di Raitre, poi trasformata in una pura rimozione, viene registrata come fosse l’ennesimo balleo. Dando per scontato che la Rai è il solito carrozzone da spartire, da fare a fee e a pezzi anche nel momento della sua massima “sofferenza” industriale e istituzionale. Grande tentazione (ricordate?) per la sinistra, di acceare per esempio la garanzia del nobile e alto professionismo di Zavoli. Poi rientrata perché si credeva di potere sfruare politicamente l’ennesima rabbia rivendicativa a vuoto della Lega. alche nostalgica e benvenuta vignea di Pericoli e Pirella. E ora, finalmente, dopo l’ultimo ao, con moltiplicazione di poltrone e ultime mosse di dama Iseppi-Minoli-La Porta-
Locatelli, un’indignazione manifesta dentro e fuori della Rai con manifesti da firmare e assemblee da fare. Come se il puro e semplice rinvio della questione “Raitre” per tue queste seimane non fosse stato già gravissimo. Come se l’allontanamento di Guglielmi, dirigente inaaccabile sul piano dei risultati, non significasse di per sé l’interruzione, lo stravolgimento o la distruzione dell’unico (su questo purtroppo il giudizio è unanime) esperimento (e già patrimonio) editoriale, televisivo italiano e uno dei pochi mondiali dell’ultimo decennio. alcosa che dal 1987 a oggi ha mutato il modo in cui la società italiana ha percepito e respirato se stessa. Eccoci invece qui tui (⁇) abbarbicati a difendere questa Rai, il servizio pubblico e le decrepitezze, così come sei mesi fa fummo costrei a stringerci intorno a Raitre mentre noi stessi che ci lavoriamo volevamo trasformarla. Non dipende, questo, dal presente Consiglio di amministrazione della Rai, che si limita a completare un processo di ridimensionamento e sfebbramento del sistema televisivo italiano (incluse, in una certa misura, le reti Fininvest) già deciso concordemente più di un anno fa da praticamente tue le forze politiche. Per meere “ordine” nel sistema, per avviare il “risanamento”, ma soprauo per contenere o ridurre proprio la “perniciosa” influenza disfaista della televisione tua e in particolare di Raitre sulla vita sociale, culturale, politica del Paese. Ecco perché il destino di Raitre era segnato. Ecco perché nessun braccio o braccino di ferro si è prodoo sul nome di Guglielmi. E solo oggi, su altri nomi che finalmente tolgono ogni illusione di autonomia e fantasia editoriale, si ha una tardiva mobilitazione. Ma la possibilità di questo lavoro editoriale, di proseguire nello scompaginamento assolutamente e follemente autonomo dei rapporti consolidati tra poteri e linguaggi, è già sconfia e bauta. Né gli appetiti spartitori hanno potuto consentire la pallida erba di una riserva indiana. Meglio. Sarà tuo più chiaro. La televisione/televisione di Raitre va oltre la TV. La sua “fine spaventosa” potrà servire a
leggere la partita che si sta giocando in Italia oggi fra tui i poteri con confluenze e incroci tra i flussi di immagini e i fiumi di danaro sporco, in una tale società già infinitamente e più complessa del vecchissimo modello realtà da una parte/TV-che-la-rispecchia-o-la-influenza dall’altra. Un giorno in pretura, Samarcanda, Blob, Chi l’ha visto, Chiambrei, programmi già arcaici eppure futuristici dentro una TV inevitabilmente “vecchia” (forse uno specchieo per le allodole, mentre si progeano e costruiscono le autostrade informatiche e neanche si ha idea di quali pedaggi si dovranno pagare, e a chi e se…) hanno mostrato intanto che la realtà stessa è un medium, un linguaggio, un cortocircuito di linguaggi, spaventosamente e fortunamente difficile da controllare. Il passato, l’enigma in cui ogni cosa si trasforma appena accaduta, e la pluralità apparente dei futuri conviene sforzarsi di vederli nell’oggi. Loare perfino per Raitre, anche a vuoto, o inventarsene un’altra; magari con un po’ del cinismo disincantato e impolitico di Paul Valéry: “Lo storico fa per il passato quel che la cartomante fa per il futuro. Ma la strega si espone a una verifica, lo storico no”. [“La Voce”, 3 novembre 1994]
Ecco a voi il grande comunicatore
Da tempo sommerse nel lento colare sblobbante di filamenti di seconda Repubblica pre e post-eleorali, le sedute del processo Cusani montate e mostrate in Un giorno in pretura avevano cessato di essere uno speacolo di punta del panorama televisivo. Telenovela tra le altre, col suo pubblico di appassionati, di maniaci, di speatori politicamente o tecnicamente interessati. Ma anche incredibile documentario di inchiesta “in direa”, dove ogni parola, ogni pausa, ogni interruzione, ogni vuoto, ogni faccia raccontavano e raccontano la psicopatologia della vita quotidiana del capitale. Ora Di Pietro riprende alla televisione tuo ciò che le ha dato, che le ha consentito di accumulare. Il Perry Mason di Tangentopoli, grandissimo aore televisivo, porta in aula, come arice, la televisione stessa. Nessun dato nuovo, nulla che non fosse già agli ai. Un puro ausilio. Gli “ai” immagazzinati nella memoria di un computer, vengono riagiti, evocati come fantasmi del cimitero di migliaia di pagine di carta stampata in cui giacciono. Visualizzati, evidenziati, citati, “manipolati” se si vuole, ma in modo chiarissimo e aperto, allo stesso modo in cui il bambino nel suo videogiocare sceglie tra i vari destini possibili delle figurine eleroniche. Chiede aenzione, Di Pietro, e per farlo cambia la forma della retorica giudiziaria. Non parole infinitamente lee e rammemorate in un tessuto vischioso e imperscrutabile per i non-specialisti. Parole che si vedono, parole arici a loro volta. Non gli sia permesso di far vedere anche gli estrai televisivi dei testimoni, perché non era stato previsto e richiesto e perché, ha opinato la difesa, vedere i testimoni o l’imputato, per di più in singole citazioni, avrebbe potuto influenzare emotivamente il giudizio. Così, è risultato ancor
più chiaro quanto la conclamata “concretezza” di Di Pietro sia in realtà vicina alla astrazione più spinta. Cavia televisiva, e appassionato di terminali e di personal computer, Di Pietro è il primo interprete/regista della democrazia telematica/televisiva in cui ci stiamo lentamente non immergendo come in un elemento estraneo, ma semplicemente mutando. Formidabilmente retorico, mee in scena una sorta di giuridico “giudizio sintetico a priori”. È vero, i nessi vengono troppo chiaramente suggeriti dal tabellone video, ma questa manipolazione evidente è finalmente vicina a quella che noi stessi possiamo compiere e compiamo ogni giorno. E nel rievocare in video, eventualmente, le facce dei testimoni, in una inedita “seconda convocazione” puramente televisiva, si riaffaccerebbe sì il sospeo di “gogna eleronica”, con tui i delicati problemi connessi. Ma è quello che già accade in TV sempre e in ogni caso. Con Un giorno in pretura e Di Pietro si incontrano i due più importanti faori di mutamento del nostro Paese. [“La Voce”, 17 novembre 1994]
Verso quell’assoluto fuoricampo
Un film non prova niente, ma nonostante tuo prova sempre qualcosa. In una grande sala di cinema forse ci sono solo tre persone in grado di capire il film che passa sullo schermo. Le due frasi di Jean Renoir ribadiscono l’aforisma lampante di Godard: Il cinema è il contrario della cultura. Ne conosciamo abbastanza il funzionamento tecnico-industriale, la storia, la cronologia, i nomi, i divi, gli autori, i racconti. Ma non sappiamo da dove venga o dove vada. È un manufao, con un marchio di fabbrica legato a una data e a un nome fin troppo precisi (28 dicembre 1895, Lumière). Ben separato da “noi”, isolato su schermi grandi o piccoli, confinato in assurdi e vecchi reangoli, ingabbiato in una bidimensionalità flatlandica. Ma anche stranamente “naturale”, come esistente “da sempre”, senza origine né fine, un organo dormiente fino ad un secolo fa. O una montagna, un paesaggio, una sostanza. Una macchina semplice che fa passare ad ogni secondo 24 (o 25, in TV) frammenti ognuno di incredibile complessità e compaezza, ognuno aimo imperceibile che ha la portata (in comunicazione) di un fiume immenso. Immagini che si dimenticano a ogni istante (il cinema è in sé un’arte antifigurativa), che si depositano in un archivio automatico per poter andare avanti. Ricordabili davvero solo a pao di fermare il tempo, di risalire al colpo di fulmine, al clic con cui si sono incatenate al nostro sguardo/cervello mentre già le dimenticavamo. “Amore per il cinema”, “appassionati di cinema”, “cinefili”; espressioni che trovo oscene, e che pure mi vengono spesso lanciate addosso. Ma è il cinema che entra in contao con noi (che lo amiamo o che
lo odiamo, un film una scena una “cosa” un “punto” un “bit”) alla maniera dell’amore, e poi una vita potrebbe non bastare a ricordare razionalizzare esprimere descrivere “quel momento” in cui gli occhi si erano incontrati. Del resto il tempo è un’invenzione degli uomini incapaci di amare (J. Camae). E l’uscita dalla fabbrica, che per un lungo anno (il 1894) fu l’inquadratura ossessivamente replicata dai Lumière che sperimentavano il loro cinématographe, è proprio il genere di immagine che basterebbe, a un secolo, di essere ricordata, e non dimenticata o sostituita dalla facile e risibile evidenza della macchina (il mitico train che arrive ma tu’altro che futuristico e veloce; arriva à la gare, appena partito il giocaolo wellesiano è già arrivato, fermo in stazione, e ce lo ritroviamo pressoché uguale e allora: 2001 è Lumière, Always di Spielberg è un sublime “per sempre” griffithiano…). esti operai (della fabbrica di materiali fotografici Lumière…) escono dalla fabbrica, e anche già dalla fabbricaschermo congelata (la prigione per gli occhi di Kaa) per raggiungerci in un fuoricampo assoluto, fuori dal lavoro e dalla storia, verso l’ipotesi di una vita immateriale e leggera, lievemente “eterna”, lontana dall’obbligo corporeo… In tuo il mondo, in tui i festival, in tue le manifestazioni istituzionali, le celebrazioni dei centanni Lumière sono state deludenti e mediocri. Giustamente, inevitabilmente. Non solo perché l’insoddisfazione è la chiave del cinema. Illusione di onnipotenza, di libertà, di fuga o uscita dalla fabbrica, e poi pesantezza della ripetizione, evidenza dell’imprigionamento di corpi paesaggi cose organi. Leggera promessa di eternità, di vita futura immateriale, e invece accumulo di uno sterminato archivio di passato che è esso stesso “senza futuro” perché mai ci sarà il tempo di aingervi. (…) È che gli ultimi anni, gli ultimi decenni di televisione (questo film ininterroo, vero e proprio “fiume”…), in Italia ancor più che nel resto del mondo si è potuta vedere la visione più plurale, frammentata e insieme globale che del cinema sia mai stata possibile (…) fino a comporre una sorta
di automatica colleiva allucinata Cappella Sistina del secolo. (…). Un anno fa avevamo proposto all’azienda una programmazione di mille film nel corso di un anno. Non è stato possibile, o meglio non c’è stata risposta. Oggi (…) è stato possibile programmare queste quaro noi (di un sogno lungo cent’anni?), moltiplicate e disseminate nelle tre reti Rai, più un appendice su Raitre che culminerà il 6 gennaio, nella straordinaria epifania filmica che è l’incantato e irraggiungibile Satantango dell’ungherese Béla Tarr, un poema allucinato di see ore e mezza. Proprio la durata, il tentativo di non far finire il cinema e di sfidare appunto il cinema già automaticamente infinito che è la TV, è una delle ossessioni di questa Magnifica Ossessione/Cent’anni di invenzione senza futuro. Ma le quasi cento ore di programmazione complessiva si sono rivelate ovviamente pochissime. E mentre “mille film” avrebbero imposto un criterio di selezione, una pesatura in qualche modo assoluta, i sessantacinque titoli qui presentati (più di metà inediti in TV) seguono da una parte il criterio della rarità, dall’altro quello della classicità di fuori orario (Vigo, Rossellini, Ulmer, Browning, Vertov, Renoir, Ophüls). Non ci sono esclusioni o inclusioni (anche se ci brucia, per limiti di durata o di budget o di tempo di edizione, non presentare nulla di Lang, di Fuller, di Pietrangeli; di Buñuel, di Jerry Lewis soprauo, di Mizoguchi, e di…, e di…). C’è un’idea di spreco, di sfida ai registratoristi impegnati su tre fronti, di “mai visibile” ancor più che di “mai visto”; unico modo, per noi, di giocare lo stesso gioco del cinema, il suo stesso proliferare entropico nei mille tempi paralleli della rete di reti della TV post-satellite (…) [“il manifesto”, 28 dicembre 1995]
Caro Veltroni, non fare il democristiano
Caro Veltroni, scrivo perché molti, ascoltando analisi sprezzanti o amare dell’auale momento culturale del nostro Paese, dicono: “Bisogna farsi sentire, andare a parlare con…, compromeersi un po’, cos’è questa sdegnosità, questo snobismo…” Lo faccio in pubblico. Anche se non credo sia proprio la direzione più giusta. Il politico ha il dovere di essere curioso e fantasioso verso tua la società civile, di domandarsi lui cosa sia lo strano potere che ha in mano, di sospearne la sostanza non di servizio e l’inafferrabilità magica o perversa. Visto che non di “potere” suo dovrebbe traarsi, ma di una simbolizzazione quasi astraa del (piccolo) potere di tui, se democrazia ha un senso. E che altri “poteri”, sempre più immateriali e speacolari, appaiono da tempo più seducenti. Tu Io sai bene, sedoo da Kubrick Dylan Crujff almeno quanto da Kennedy Che Guevara Berlinguer. Allora, finché sussiste quest’ombra mitica della politica, questo illusorio “valore pesante” (ch’io amerei veder dissolto in una vita più immateriale e sognata, con una leggera amministrazione automatico/diffusa e con l’ineliminabile “guerra” diffusa anch’essa in milioni di loe dialeiche immaginarie e sentimentali; come già accade in centinaia di cià al mondo, pacifiche e percorse da innumerevoli conflii privati e “interni” o interiori), perché fingere che sia un rapporto così pulito nitido tranquillo? La vioria dell’Ulivo è stata un superbo risultato della tecnica politica (come ha ammesso e rivendicato D’Alema). Perché fingere che sia anche in sé un grande segno di mutamento culturale (come ora si dovrebbe credere in un Paese stupendamente “pacificator”, rispeo a favoleggiate incredibili precedenti loe dilanianti)? Si son vinte le elezioni con una parola d’ordine molto craxiana (la
“governabilità”), e forse grazie al mancato accordo sul mitico “semipresidenzialismo alla francese” (e al confermato scarso fiuto politico del “bravissimo” Fini). Apprezzo molto la retorica, caro Walter, credo sia la sostanza più sopportabile e viva del discorso politico (oltre quella, resta solo l’esercizio cinico o ouso del nudo potere). Furono sublimi parole retoriche quelle di Berlinguer sull’austerità e sul compromesso storico. Era intelligente e riuscita (per quanto poco fondata e quasi puramente “propagandistica”) la campagna Non si interrompe così un’emozione di qualche anno fa contro gli spot nei film in TV. Ci mancano terribilmente parole che siano già fai e fai capaci di diventare parole. Ma la retorica sul ministero della Cultura scatenata da subito prima delle elezioni (la ricordo al convengo dell’Ulivo al Teatro Eliseo, maldestri e tardivissimi “stati generali della cultura” convocati alla fine della campagna, “come se” – è malizia la mia? – solo a quel punto, con sondaggi infine favorevoli, valesse la pena di occuparsi di “cultura e speacolo”, di pensare al consenso futuro di una casta ritenuta peraltro eleoralmente “sicura” come un tempo i metalmeccanici più fedeli), e subito emersa come punto forte del programma di governo, mi pare di basso livello, incerta, a trai sospesa (scusa) tra malafede e modestia intelleuale. Facciamo pure giustizia dell’ombra lontana del Minculpop (forse in sé non più aaccabile di una bonifica forzata dell’Agro Pontino…). Ma nel giro di un mese il ministero, pensosamente aeso e insieme esorcizzato da Umberto Eco, ridicolizzato con acutezza da Alberto Ronchey, rapidamente discusso in modo coao e sommario da vari intelleuali, ha rivelato un’inconsistenza eccessiva perfino per noi cultori delle ombre. Una vaghezza pronta a coprire tuo. Incalzato di pur ridicoli lamenti sull’indipendenza della cultura, lo hai precipitosamente ridoo a un fao tecnico. Regolamentazione, coordinamento delle aività fino a oggi delegate a differenti ministeri, razionalizzazione, adeguamento alla prassi europea eccetera. E una seimana fa
in TV a Linea 3 ti sei limitato a assicurare (“per fare un esempio”) che il ministero della Cultura servirà a tenere aperti e fruibili i musei in orari decenti, e a favorire il ritorno delle sale di cinema decentrate. Nessun intervento sulla produzione, per carità. Spero che solo per cinismo politico tu possa fingere di proporre un superministero – necessariamente ingombrante – per fini del genere, ovvero per realizzare quel che altri ministeri (perché?) non hanno potuto e non potrebbero realizzare. È evidente che il vero ministero della Cultura (se proprio si vuol fare) dovrebbe invece essere, in Italia, quello forse più importante, e coordinare mille aività (perfino gli orari dei treni, considerando che una cià su due è cià d’arte, dovrebbero in parte rientrare nelle sue competenze…). E in questa linea non ci si dovrebbe mascherare troppo, magari parlando di Florida solo per la Sicilia o per il Sud, quando cià come Venezia o Firenze o Roma sono già principalmente – anche se imperfeamente – delle Disneyland culturali sovrannazionali, e questo appare il forse non esaltante ma neppure disperante destino globale del Paese (nel migliore dei casi?). Con queste smisurate ambizioni o piani in testa o nel casseo, è bassamente “politico” parlare di orari dei musei e di sale di periferia, con aria compunta da benefaore democristiano. E sai benissimo che anche il più blando dei decreti o dei regolamenti, o la più trascurabile delle leggine, possono radicalmente influire sul destino non tanto (per esempio) del “cinema italiano” quanto dei cineasti, delle case di produzione o di distribuzione eccetera. E che quindi qualunque intervento sarà “nella produzione”. Mostrano di saperlo fin troppo bene, e di agognarlo, le associazioni di categoria e i singoli che ripongono in te e nel fantasma del ministero le loro speranze per il futuro. E non a caso Eco propone cinicamente (o per ignoranza) di lasciare a se stesso speacolo (cinema, TV; salvo “controllare” ahimè la “qualità dei programmi”…), di lasciarlo al “mercato” come se esistesse oggi esempio di un mercato filmico ancora sufficiente.
Se vuoi la Florida, o se vuoi sviluppare quell’investimento nell’immaginario che è la cultura, devi investire, non solo regolare con occhio appena un po’ più comprensivo e acculturato e un po’ meno miope. Si continua a fare il nome sopravvalutatissimo di Lang. Lui per l’appunto si è esposto in prima persona anche temerariamente, quasi “da artista”, promuovendo, fecondando, rischiando. Rifuggire da scelte precise e “soggeive”, non salomonicamente eque e cencellianamente distributive e contentinistiche, sarebbe un errore mortale, o una scelta a favore di tui i conformismi e di tue le caste e “cosche” coperte dalla non evidenza e non spericolatezza dell’azione culturale. Non parlo di supplenza ministeriale, né di mero controllo, né della pur necessaria regolamentazione; ma di un’azione parallela, autonoma, rispeosa e anzi fecondatrice di altre autonomie, inventata. Salvo pentirci per sempre e ammeere che anche in campo culturale l’unica soluzione è quella democristiana (invero geniale; vedi quello che sta forse per riaccadere in Rai, giustiziata nel consenso generale la “pericolosa” autonomia della Raitre di Guglielmi) di capitalismo insieme assistito e assistenziale, temperato, smussato e che la cultura (cioè: le prossime “forme di vita”) debba affidarsi ai progei capricciosi o seri del monopolismo di Stato o alla sua benevolenza. Allora meglio con Bataille proclamare e ammeere che la cultura è un lusso e che solo dal lusso nascono bisogni e trasformazioni fondamentali. [“La Stampa”, 14 giugno 1996]
Il fantasma della TV si aggira nell’Ulivo
alche giorno fa, il record sui 200 metri di Michael Johnson a cancellare Mennea. Si è saputo, ma non visto, perché la corsa di Johnson in tui i TG si fermava subito dopo la curva, ancora lontano dal traguardo. C’erano delle esclusive (da noi, per Telepiù) sulla ripresa completa dei 20 secondi scarsi. Eventi sportivi, i più fisici e insieme astrai che si diano. Ma la TV è evento. Non collezione o contenitore di eventi. Evento di per sé; all’incrocio tra cinema, radio, telefono, in un orizzonte quasi “telepatico”, l’evento di comunione (più che di “comunicazione”) più clamoroso e insieme silenzioso del secolo. C’è più sentore di questo in tue le scomuniche o analisi catastrofico-negative (dai francofortesi a Debord, da Ceronei all’iconoclastia spiritualista) che nelle posizioni cautamente e vigorosamente tese a un controllo riformistico. E, non per la ragionevolezza di base, ma per il puro e piao difensivismo, mi pare che non sia un sintomo positivo – per la sinistra italiana – aver adoato come “libro di testo” di un’ipotetica “resistenza televisiva” le tesi ultime di Popper. Come se la sinistra (e l’Ulivo con essa) patisse molto forte la televisione come una sorta di fantasma della sua stessa scommessa e intenzione politica; il fantasma di una possibile democrazia di massa non totalitaria; fantasma, immagine poco conosciuta, poco chiara, disturbante, sospeata di potersi materializzare voltata in puro asservimento. Le tardive discussioni di questi giorni, a ridosso di inevitabili decisioni politiche (un dibaito a “morte improvvisa”) sono più opache e preoccupanti dell’opacità aribuita alla TV. La trasparenza resta un’illusione (si sta arrivando a nomine e riasseo Rai nei soliti modi, solo sperando in insperabili esiti migliori), né è più diffusa la lucidità. Assorbita l’eliminazione dell’anomala e “pericolosa” autonomia della Raitre di Guglielmi (programmata, permessa, auata quasi con
vendea concorde conscia e inconscia da tuo il sistema politico), si è perso un anno in ridicolo accapigliarsi su “cultura e TV”. Vibranti polemiche, Baudo Costanzo Santoro Minoli, la quasi unanime scomunica di Giucas Casella e la benedizione della presidentessa Morai che con apprezzabile cinismo considerò la qualità un deaglio di cui occuparsi in seguito. Il culmine, la trionfante constatazione che La bohème in prima serata può fare milioni di speatori; oenuti ahimè con un martellamento pubblicitario più pesante di una promozione mikebongiornica. Intanto, l’unico “valore” comune dei vari interventi sulla TV è il controllo. Strano modo (stranamente accoppiato ai sempre più conclamati liberismo liberalismi federalismi) di intervenire sulla qualità, puntando non su vitalità e fantasia ma su censure limiti e controlli sempre più “sicuri” e misteriosi (ma la TV è una bomba già esplosa, se ne misureranno così solo le radiazioni). Il blocco di progeualità e fantasia, il nostro ritardo/aesa tecnologicolegislativo, la paura di nuotare dentro la mutazione, hanno almeno il pregio di manifestare la nudità della TV come pura questione politica anzi come la (messa in) questione politica oggi. Produzione, emissione, scambio e traffico di immagine; di evidenza soerranea e sperale, è la questione politica mondiale della fine secolo. Così, non ci si vorrebbe rassegnare di fronte alla riassegnazione di incarichi in Rai. Non per idiosincrasie etiche. Ma discutere in astrao di qualità, digitalità, satellite, pay, interaività, internet, fiction nazionale è meno onesto che parlare direamente di nomi, competenze, progei, e serve a coprire la fine di ogni autonomia televisiva, a favore del controllo economicopolitico. Finché ci si muove solo sulla proprietà dell’hard (frequenze, tecnologia, reti) e su promozione e controllo del so (i programmi), in un orizzonte di servizio pubblico sospeso tra concorrenzialità pubblicitariogeneralista e TV virtuosa e colta, costosa e di bassissimo ascolto (col 98 per cento di certificata “cultura” per certificati cultori), si trascura lo spazio (tra hard e so) dell’invenzione e della spinta editoriale autonoma, sola possibilità di lanciare e far emergere forme visibili e criticabili
dentro il flusso televisivo comunque dominante. La forma editoriale come politica, invece che fingere di scoprire mitiche managerialità esterne buone per tui i poli, o di affidarsi alla improvvisa riscoperta di personale Rai di colpo integerrimo competente mailoizzato. Ma questo (non) è un altro discorso, come non lo è, se la tivvù (quella “vecchia”, “religiosa”, via etere, misteriosa e fascinosa nell’istituire una comunione) può avere ancora un senso “pubblico”, che si possano vedere i 19 secondi e 66 centesimi di un record. [“la Repubblica”, 7 luglio 1996]
Caro Minoli, se ci disprezzi chiudiamo
Non vogliamo un posto al sole, per Blob. Né ha senso “protestare”, lamentarsi, o più stupidamente ancora difendere un’idea di autonomia televisiva che semplicemente (già incredibile e astrale allora) non ha più spazio in Italia dopo la fine della Raitre di Angelo Guglielmi. Fino a oggi, da un paio d’anni, con Blob (e con fuori orario e con Schegge) abbiamo operato in una situazione di resistenza, senza illusioni. Blob non aveva più senso dentro un progeo o un palinsesto; restava come un piccolo urlo critico, con l’ostinazione di un sasso, resistendo a tagli di personale, a riduzioni della durata, a improvvisi annullamenti, in pratica al declassamento a riempitivo casuale e ballerino del programma che era stato sigla e concentrato estremo di un’intera linea editoriale. Siamo i primi, da anni, a voler mutare Blob (se non altro per quanto il “bloblavoro” ci ha già contaminati e mutati), senza esigere se non la possibilità di farlo. Senza aver mai chiesto (ci è sempre parso assurdo farlo) uno spot o una promozione. E non mi illudo di dover o poter rientrare nella linea editoriale cui Gianni Minoli vorrà informare la sua Raitre (credo anzi sia illusorio pensare o vedere oggi le reti come portatrici di linee editoriali particolari). Sarebbe o sarà sicuramente legiima l’eventuale irruzione o cancellazione di Blob per ragion di stato o di rete. Pare invece poco “bello” che – dopo una strumentale contesa per Blob con la Raidue di Carlo Freccero (nella quale certo, per amicizia e affinità culturale, un’ipotesi di lavoro postblocco potrebbe trovare un suo posto in una fiammeggiante e rivendicata ombra) – la direzione di Raitre decida di replicare al posto di Blob (solo questa seimana? Anche la prossima?) la nuova soap autarchica Un posto al sole. Di fao, considerando Blob un programma di repliche? Nello stesso tempo (e questo è molto divertente, chiude il cerchio) ci viene recapitata una leera
della produzione che diffida Blob dal citare immagini di Un posto al sole. Blob (che in oobre, nonostante le precarietà, ha ricuperato buoni livelli di ascolto) andrà in onda questa seimana un paio di volte sì e no. Se la precedente direzione di rete avesse agito con tanto tranquillo disamore e spregio del programma avremmo certo reagito con (inutile) durezza. Se si vuole interrompere (o far traslocare, come può esser giusto) lo straordinario (non per merito nostro) serial che è Blob, meglio dirlo in piena trasparenza (o almeno con lucidità, se si pensa che l’opacità sia obbligatoria anche nella TV pubblica di oggi). Non pretendiamo amore, anche se Blob si è fao e si fa per amore. Né vogliamo sostenere che Blob sia o debba essere un imprescindibile successo da incastonare nel canceroso universo della redditività a tui i costi. Per la novantesima volta, possiamo ridire: meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine. (Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine? Non è questo spavento senza fine, questo eterno sorriso angoscioso e obbligato della televisione, che Blob racconta e convoglia senza fine…?). [“la Repubblica”, 25 oobre 1996]
Il peso della “mai generation”
Guardare Anima mia schiaccia soo il peso della leggerezza. Non a caso Fazio, come già Arbore, tale leggerezza deve continuamente rivendicare, enfatizzare, ribadire, soolineando magari che “noi qui non facciamo nulla”. Ancora le virgolee. Leggerezza autoaribuita come se ancora fosse possibile aggiungere virgolee (restano solo, sublimi e tristi vestigia di una TV che fu, quelle rosse come pendagli alle annunciatrici bianconerizzate di Raitre), come se le virgolee non levitassero già per strada a fianco della gente che cammina, come se non contornassero, in queste cià occidentali, non dico le parole ma già gli sbadigli. Così Gad, Hulk, Inti Illimani, Baglioni, Fazio, il comandante dell’Enterprise loano uniti nella ()loa del viaggio spazialtemporale concentrato nel surplace televisivo di fine millennio (secolodecennio). Applausi a ogni istante, ancor più depurati e astrai che in BaudoCostanzoFrizziMike, perché qui si applaude e si “tifa” con gridolini il puro esserci (stati; o ancora) come performance. Le virgolee, i gridolini, gli ammicchi arboriani servono a lasciare intaa la gigantesca crosticina speacolare (se poi si spacca magari sanguina, e in TV non sta bene; noi siamo angeli…), a far sì che il nullinìo vorticante non lasci trasparire il Nulla (sarà per questo che amo del programma solo il momento in cui un’Estrada o un’ospite Gerini o una Ciuffini si fermano, avvertendosi inquadrate “in onda”, e si rasseano e rasserenano, si autofolgorano nel riconoscimento dell’istante speacolare). Uno i cui vent’anni sono stati già inghioiti dagli anni seanta, non avrebbe che da aderire, entrare nella Nsu-Prinz di certi professori dell’epoca (suggerirei marxbrotherizzare la performance, pigiandoci dentro almeno seantun persone), socchiudere gli occhi… Pure non riesco a abbandonarmi un momento, come se my generation diventasse sempre più una
“mai generescion” nella quale non posso e non vorrò riconoscermi. Freccero (rabdomante del palinsesto e intelligenza televisiva – oltre che amico – con la cui Raidue presto collaborerò), Fazio, Baglioni, Labranca la confezionano in un colorato e gonfio paccheo di memoria il cui trao più atroce (e direi, forzando, filosoficamente “infame”; ma sono sfumature) è la dilagante autosoddisfazione (ovvero: dal lassismo al melassismo). Sarà forse la banale personale “felicità scontenta” che i Rolling Stones abbiano per sempre lanciato la benedea maledizione I can get no satisfaction, a pesare nella disamina mia. Ma qui siamo oltre la tragica e fascinosa pretesa d’esser alt(r)o che fonda il trash; appunto, è il trionfo della leggerezza televisiva che tuo assolve e dissolve in un pulviscolo di soddisfaa presenza. La definitiva soddisfazione di essere speacolo (non è forse il segreto palese dell’enorme successo de Il ciclone?). Che sarebbe quasi un titanico riconoscimento (o un sommesso sgomento) epocale, di “fine della Storia” e insieme di fine della Storia, nel senso di sentir finire, confluire, assoigliarsi la Storia proprio in un altro mondo quasi pellicolare, utopia e già parodia di essa, un piccolo paradiso in sé già altro rispeo agli orrori della loa tra corpi e tra masse. Se non fosse invece ben aento a esser quel che è e vuol essere: speacolino televisivo pulito, senza crepe e inquietudini, fiero d’esser solo televisione. E quindi, senza alcuna ironia, davvero “sorpreso” di non poter “avere” anche Sofri nella serata inaugurale. (Sointeso: “Tanto qui non si fa nulla di male; è uno speacolo dolce, madeleinico più che proustiano; non c’è neanche l’ombra di una violenza tarantiniana, che sarà anche ludica ma poi qualcuno la prende sul serio e bua i massi sull’autostrada.”) “Totale” ma abile nel non mostrarsi tale. Mentre il povero e invero orribile Bianco e nero (il film di montaggio di Paolo Pietrangeli – ora regista del Maurizio Costanzo Show – su fascisti e democristiani “uniti nella loa”), parzialissimo, patetico, inerme reperto di un modo di esibire e offendere le immagini, trasmesso da Raitre suscita unanimi riprovazioni,
disconoscimenti, richieste di dimissioni e di ristabilimento della “verità storica”. Più che mai, gli anni seanta (come i novanta) non sono “miei” né di nessuno. Non si avverte in giro alcuna voglia di sapere che non ne sappiamo nulla (Moro, Calabresi…). Né dei seanta né della TV. Invece di vendere magliee sarebbe più bello e coraggioso togliere le virgolee, dire: qui (non) vogliamo (non abbiamo da) fare Nulla. [“la Repubblica”, 18 febbraio 1997]
BLOB: the end?
Sono grato a Giuseppe Pontiggia che ha chiuso con una riflessione su Blob il suo Album di febbraio (domenica 2 marzo) aperto dalla constatazione del trionfo – nella politica italiana – dell’immobile dinamismo retorico, concentrato nella figura medusea dell’ossimoro. Per Blob, si potrebbe partire dal chiasmo (dal sarchiasmo?). “La politica in Italia è un problema linguistico,” dice Pontiggia. E si può dire: “Il linguaggio è un problema politico.” Oppure: “La politica è un problema televisivo, la TV è un problema politico. Blob: il nulla della TV o la TV del nulla?” Individua, Pontiggia, la normalità di una trasmissione anomala: l’invenzione di quel che c’era già, l’occhio dello speatore e il suo modo di essere automaticamente inventivo. Riguardare la TV come guardata dai milioni di occhi contemporanei di uno speatore Mabuse. Più che cambiare canale con soddisfaa impotenza o con insoddisfaa onnipotenza, fare zapping lungo gli occhi, saltare dall’uno all’altro, riinoculare (inocchiare) un occhio (già televisivo) nella TV stessa. Da subito, fu un gioco d’abisso tra colpi e lampi d’occhio. Impossibile l’innocenza; la TV si sapeva di colpo se stessa e un’altra cosa, sdoppiata, già rivista e in replica la prima volta. Blob caricatura della TV, la TV caricatura di Blob? Parlando di un declino di Blob, di uno spasmo da amante che esagera sentendosi lasciare, Pontiggia enumera difei e consunzioni che ci pare di aver scontato fin dall’inizio. Era crudelmente aprile (1989), e fu subito malinconicamente successo, passato (participio). Dopo l’interruzione estiva ci chiedemmo se continuarla, l’interminabile cronaca interiore di un flusso ininterroo e fraale assunto in quindici minuti o in un aimo. Fabbrica vuota e potente. Risata illimitata, dispendiosamente atletica.
Delirio di onnipotenza: disporre di “tue le storie”; tui i film, i programmi gli aimi paralleli, la storia che è in venticinque fotogrammi (un secondo) di un volto tui diversi (chi può credere di “controllare” il proprio fotogramma?…). Insoddisfazione insoddisfazione insoddisfazione. Non poter mai davvero (ri)finire. Accanirsi per dieci ore dal maino e poi correre alla messa in onda con una cosa non rivista, mentre già si affollano nuovi fili, si rimpiange l’immagine saltata, i nessi nascosti e non visti gridano quelli ovvi pietrificati nel montaggio stridono in testa per il troppo olio. La raffinata rozza semplicità conceuale warholiana di Blob, con automatismo ribaldo, compiva un lavoro subito fatale più che iniziare un “nuovo” lavorio. Ci furono dopo pochi giorni le prime “autosegnalazioni” dei personaggi; le esitazioni le pause gli “errori” di regia ci apparvero spesso fatalmente non fatali ma – proprio nell’artificio o nella corrività – quasi l’unico “senso” della TV, l’unico “fermo fotogramma” in cui scrutarla. Dopo un mese dicevano nei programmi “questo è da Blob”. Blob, roura del tessuto TV, concentrato di vuoti e sfilacciature e seguito insostenibile di acmi e apici, veniva a sua volta inglobato (cor)roo. L’immediato trionfo di sguardo lo costringeva seimana per seimana a illudersi di (r)esistere mutando, combaendo col proprio fantasma dilagato, anzi con la TV tua inverata in sé, percepita come blob planetario e colleivo, scevro dell’equivoco di un controllo autoriale, offerto solo al controllo impotente dell’occhio diffuso. Nel ’91, con la Guerra del Golfo evento parallelo infiltrato senza disturbarli nei varietà, cominciammo a distorcere le immagini, a mutare e incrociare i sonori, a sovrimprimere, scrivere, “urlare”, debordare soggeivamente, tradendo di fronte all’atroce normalità della situazione un’impassibilità “documentaria”. Già allora accusati di hybris, di voler uscire dall’orto della satira (che mai scientemente coltivammo) senza essere all’altezza “empia” delle immagini che mostravamo. “Onesti comici”, ci definì una volta Cossiga presidente, accostato al nano di Twin Peaks. E certo anche troppo spesso Blob in perenne e fondante mancanza di tempo, si è affidato al dio del
comico, che forse “ne sa di più” anche di quello impenetrabile della TV; dèi automatici dai quali tentare contemporaneamente di svincolarsi. La parabola nascitainvenzione/sviluppo-consolidamento/sfaldamento-decadenza risente di un “mito dell’origine”, e si potrebbe più precisamente applicare a una seimana o a una singola puntata di Blob che è nato morto (come il cinema invenzione senza futuro, forzatamente archeologica). Poi ripetendosi accumulandosi deviandosi, è diventato serial TG della TV, “servizio pubblico” (secondo Michele Serra) riassunto critica svelamento della TV, lavoro politico robinhoodesco dentro la doppiezza del linguaggio, autobiografia di alcuni autori/visiona(to)ri sabotatori pirati. Non nego per questo che siamo in fase di malinconico tramonto. Lo mostra la terribile precisione con cui Blob è diventato oggi – senza volere! – “pedagogico” (come dice Pontiggia). Spesso, negli anni precedenti, Blob è stato più di routine o più meccanico o più forzato. Oggi, finalmente fuori dal cono ombra del consenso generico, Blob resta temo l’unica nota dissonante nell’uniforme depressione televisiva. Fa bene Pontiggia a rammentare Guglielmi e il progeo editoriale della sua Terza rete (1987-1994). Arrestato, smantellato, perduto, come l’autonomia TV che ne era l’utopia estrema e la forma prima. Finito quel giocare – politicissimo – tua la realtà come un linguaggio, il Blob di questi giorni pare lungo sgraziato informe, soccombente al proprio principio. Non (come in parte fu sempre) “troppo leggibile”, ma infine quasi del tuo illeggibile. Nessun critico si è accorto – raddoppiato da mesi per motivi spuri, di “palinsesto” – Blob presenta accanto al sé d’oggi un Blob di uno o due anni fa, immutato o appena interpolato. Durata eccessiva, autosblobbamento, sdoppiamento, ma anche allucinazione, difficoltà nel riconoscere una memoria recentissima, mentre impazza in TV una (s)memoria canterina. Blob è ancora un bruo colpo, una sorpresa stancante, un aacco alla pia e comoda illusione che la TV possa o perfino debba “trasmeere”, “rappresentare”,
“comunicare” (realtà…). Propone l’incubo leggero (⁇) del vivere stesso come gioco retorico allucinatorio. La TV (non) è, non sappiamo cosa. Per la prima volta Blob (non-Blob) avverte l’insana voglia e perfino il dovere di durare. (Allora, senza dubbio?) is is the End… [“Il Sole 24 Ore”, 16 marzo 1997]
Celentano, il san(to) pellegrino
“Be’… ma allora ditelo…!” Così esclamava il noto protagonista del geniale spot di un famoso caè, quando, ospitato in purgatorio perché in paradiso il televisore s’era roo, invece di assistere alla partita del Mondiale ’98 si trovava di fronte il calcio in bianconero di Messico ’70. La stessa cosa vien da dire assistendo al trionfo televisivo programmato calcolato esagerato e ridondantemente mediatizzato di Adriano Celentano 1999. Intendiamoci, è utile che ogni tanto ci si rammenti o ci s’accorga di assistere invece che (illudersi di) esistere. E certo è stata una notevole e grande impresa televisiva allestire questo ritorno celentanesco in grande stile. E occhi e orecchie si consolano, col set immenso e strepitoso in un sito di archeologia industriale, con luci e colori bellissimi, di incanto filmico (Francesca Neri vi appare bella come mai fu al cinema, poiché è consentito solo apparire in splendida luce); con un suono intenso e vibrante che lascia intendere la voce ben al di là di errori stonature scempiaggini aacchi musicali sbagliati. Un “trionfo” secentesco, di magnifica o rutilante e insieme aonita “vuotezza”, da togliere il fiato (inclusa la straordinaria esibizione di un Celentano showman completo e union, all’americana), che coniuga la geometrica potenza di un San Remo (o di un altro evento TV da calendario) con la leggerezza e la bellezza e l’assenza tecnica del miglior Boncompagni (quello di Non è la Rai più ancora che del primo Macao) in un’aura da Studio 5 felliniano. Ma dal nullismo boncompagnesco dichiarato e imbarazzante qui si passa a un meno dichiarato e ancor più imbarazzante tuismo (infine, l’imbarazzo può avere l’effeo liberante del “ma allora ditelo…!”). Con una (buona) volontà onnirappresentativa che rammenta il peggiore costanzoshow, aggravata dell’evidente
oligarchia delle scelte, dalla costante “eroicità” riefenstahliana delle situazioni rituali, della montante presunzione da parte dei protagonisti di partecipare a un evento “storico”, dal rapporto leader/massa sul set e non solo. Il megliopeggio del democratismo televisivo risiede nella anche disperata eliminazione del mito a favore di un puro rito indefinitamente ripetuto fino a coincidere con il tempo stesso, che diviene esso il mito, un mito spiatamene vuoto. Celentano officia sapientemente il rito, e sacrifica splendidamente al mito (del) tempo, prendendosi (le pause…) il suo (nostro, di nessuno) tempo; ma insieme propone se stesso, il gran sacerdote in persona, come contenuto/valore e anzi origine mitica dei rito. Così, il geniale ribaditore e quasi inventore (in Italia, col suo Fantastico 1987, a poi con Svalutation) del surplus televisivo, diventa, ora che si è fao sociale e avvolgente (e non solo da noi; c’è una stagnazione globale della parola, delle forme di vita, della capacità stessa di riconoscere e/o vivere la mutazione in rete), un’icona istituzionale, forte, dotata di pieni poteri e di tua l’autonomia che in televisione pareva quasi scomparsa (forse si stava accumulando da qualche parte per donarsi tua intera a Celentano), smaccatamente promossa a quasi insofferente verso le critiche (si veda la reazione urticata alla presa in giro blandamente velenosa da parte di un’alta istituzione televisiva come Striscia la notizia; si vedano gli scandalizzati sbalordimenti da parte di tizio e caio, durante intere mezze ore di altri programmi TV tesi tui a ridondare, per il negarsi scostante di David Bowie – che resterà come uno dai momenti alti del programma all’obbligo dell’esibizione impegnata benintenzionatoumanitaria), perfeamente integrata nel sistema televisivo postblobbistico e nell’impero della comunicazione pubblicitaria. Sarebbe (stato) entusiasmante, vedere davvero una televisione che non si fa ma si disfa, una TV che avendo a disposizione (per potere carisma storia contrao) tuo si fa con nulla (la voce, il silenzio, le luce, gli sguardi). A trai lampeggiava glorioso, questo nulla. Più spesso, è apparso il presente assente di una TV che in tuo il mondo oscilla tra i truman show più o meno inconsapevoli (fiction compresa) gli
“eventi”, e che comunque crede o si illude di potersi o doversi limitare a “trasmeere” il mondo, la realtà), mentre è una forma un modo uno spero diverso del vivere/morire. In particolare, in un paese sempre più “normale” (cioè sempre più riportato alla propria norma, come giorno dopo giorno si verifica…), e sempre più normalizzato culturalmente, la TV del “re degli ignoranti”, tu’altro che immateriale o evanescente, si configura come la TV del Salvatore, che si proclama più forte dalla pubblicità (ma ne adoa gli imperativi comunicazionali) e sintetizza magicamente i totem e i fantasmi alità Cultura Ascolto, proseguendo e compiendo l’opera di Morandi (Gianni) e raggiungendo le ombre dei profeti, che scelsero di non essere tvascoltati (Baisti, De Andrè) precedendoci tui nei pascoli dell’utopia del Canto audiovisivo. Più modestamente e significativamente consacrando un modo teleitalico già ben operante (Baglioni, Gorbačëv, Dulbecco…) e dando la benedizione a un genere che si annuncia senza fine (Zero, Jovanoi, Ligabue…?) dove la parola viene obbligatoriamente ridata e chi già ce l’ha (quante persone e parole nuove si sono affacciate in TV negli ultimi cinque anni? Una mano avanza, per contare), essendo essa sparita (la parola) dal discorso della politica (che pare esser tornato nudamente discorso della guerra – di polizia umanitaria di trincea aerea dove i “buoni” – se ci sono – sono mille volte più potenti dei caivi – o della cifra economica, cioè sempre della guerra). Be’, ma allora ditelo. Ditelo, diciamolo, che dobbiamo tornare alla semplificazione dei biancoenero, che il presente manca perché forse si sta già riavvolgendo, che la democrazia televisiva (dove in un minuto di brua TV si agita più complessità ricchezza incertezza che in tui i pensosi interrogativi celentanici) spaventa, che è meglio seguire l’invecchiamento del pubblico e del paese (che in questo è all’avanguardia). L’immagine è zero. La sete è tuo. Ascolta la tua sete. Nell’anno del san(to) pellegrino in marcia verso il giubileo, in questo testo scrio nello spot di un’altra bevanda c’è più critica economicopolitica e più spietata intensità che nei grandiloquenti silenzi splendidamente inquadrati a
incorniciare/denunciare atrocità giustamente giovedì in prima serata (buona visione).
esibite
il
[“La Stampa”, 2 novembre 1999]
Penso al film “Celentano”
M’accorgo che sto pensando al vero film (da me) non visto l’altra sera, il programma di Celentano, che non mi piace quasi per nulla, e che tanto piacque all’inizio a quasi tui come grande televisione d’autore, salvo poi quasi tui scandalizzarsi per la più intensa delle opzioni di discorso celentanico (dopo il silenzio pausa aesa), ovvero la dichiarazione contro il silenzio-assenso sulla donazione di organi. Allora: dico “film” perché nel cinema italiano dell’anno non c’è nulla (anche per motivi di budget..?..) di così intensamente cinematografico come queste ore kolossali e vuote di tuo fuorché appunto di questa malinconia immensa (altro che la musica) di voler fare del cinema in direa, rivelando il cinema enorme che può esserci nella ricostruzione a vista che è una direa, in quella iperscena dispendiosa, in quella luce sontuosa e magnifica rovinata magari (giustamente?) dalla regia. E dico “giustamente” perché in questo sgangherato estremo filmone in direa si pone, grazie alla TV (dove ancora il fantasma della questione politica appare, prima di svanire in rete), la domanda sul p o t e r e, quella che il cinema sembra aver quasi sempre già risolto con l’ambiguità condivisa e timida della nozione di “regia” o di “produzione” o di “distribuzione”. Perché il divo Celentano può disporre di quel budget e dire “quel che vuole”? Perché gli altri – tui gli altri – non “possono”? O invece, non sarà/è sempre così? Non è così con i soloni irritati e benpensanti, i fazio e i costanzo? Non fanno/dicono essi quel che vogliono, mediando sornionamente come benevoli diatori democratici, non meno autoritari e non meno fragili immotivati inconsistenti di Celentano? Non fanno lo stesso gli psicologi e i cani da guardia di ogni genere, ricorrenti figure di un arrogante monopolio del sapere e di un ancor più pesante monopolio del dubbio? Ecco,
nella sua “irresponsabile” ricerca della felicita in direa (lo ridico: la felicità sembra allora un’idea nuova in televisione) Celentano mina le sicurezze su chi detiene quale potere in TV, su come la TV dissolva e insieme concentri il potere, sempre; instilla non il dubbio ma la quasi certezza che il potere (con il piacere) non sia legato a delle qualità e a delle forme ma sia una qualità e una forma in sé (che include la sempre abbacinante abissale “servitù volontaria” di tui noi/loro). Condensato in una sola persona fisica altro che “anime mie”… un dibaito (civile) più appassionante di dieci faccia a faccia berlusconirutelli, cui infai si sostituisce con tremenda precisione. (Galleggiando nel dolce naufragio che è il cinema; e nell’“Apocalisse oggi” che gioca col tempo). [“l’Unità”, 12 maggio 2001]
Il Berlusconi che non s’è mai visto
Come semplice dirigente della Rai, non ho né i mezzi né il grado per oppormi alla decisione della Direzione di Raitre (Paolo Ruffini) e della direzione della Divisione due (Giuseppe Cereda) di oemperare al pressante invito – da parte della direzione generale dell’azienda – di sospendere per il momento la messa in onda degli speciali di Blob “Berlusconi contro tui”, cui doveva andare in onda iersera la terza puntata di sei previste. Posso anzi dire che capisco le loro ragioni, come anche quelle (solo riferitemi) del direore generale Agostino Saccà. Ogni gesto di autonomia e di sparigliamento viene infai oggi in televisione fatalmente sooposto a una serie di analisi e controanalisi alla ricerca di tracce dopanti ideologicopolitiche contrapposte, che falserebbero i risultati della correa somministrazione del prodoo e – chi sa – del “libero mercato televisivo”. Mi si è parlato di “stupore” per la lunghezza della serie (sei puntate di mezz’ora) e per l’ossessione monotematica. Mi si permeano allora alcune osservazioni da “autore” e responsabile del programma (realizzato dallo stesso gruppo che appunto produce quell’insieme di autobiografia fraale e di ritrao ovale della TV che è Blob), che amerebbe discutere nel merito, e magari a ragion “veduta”. Intanto, il programma, nel titolo appena ironico e regolarmente comunicato all’azienda e da essa diffuso, dichiarava apertamente il soggeo/oggeo principale del suo gioco-lavoro. Che è il presidente del consiglio in carica, Silvio Berlusconi. Ho sentito parlare di par condicio. Del tuo casualmente (non abbiamo ancora introieato la sindrome del danzatore sul filo che non danza, immobile, oberato dai pesi bilanciati che gli vengono imposti da altri) stiamo ipotizzando per i prossimi mesi un complicato serial speciale “Prodi ulivi”.
Non casualmente, invece, subito prima delle elezioni del maggio 2001 avevamo presentato uno speciale in cui i due candidati Rutelli e Berlusconi si specchiavano, dentro lo schermo diviso a metà, nei rispeivi tic, nelle loro pause incertezze ripetizioni ossessioni ammiccamenti, oltranzisticamente costrei allo stesso spazio e alla stessa durata. anto a Blob, il Blob quotidiano, è assai più virulento e immediato, abbandonandosi per forma scelta al montaggio quasi in direa, alle associazioni libere e a quelle coae, alla ribalderia e alla tenerezza, assolutamente a trecentosessanta gradi (c’è per fortuna chi lo giudica un programma troppo nichilista, riequilibrando forse chi lo trova troppo didaico/pedagogico) e difficile a controllarsi tra accessi di acidità cerebrale e derive stomacolese. Consci della diversa e più programmatica esposizione, e della minor selvaggeria dovuta al mancare in ogni caso del forsennato ritmo del montaggio quotidiano, abbiamo in questo caso utilizzato Blob quasi unicamente come quella formidabile “biblioteca d’Alessandria”, sterminata e sempre quasi polverizzata che è memoria accumulata dal programma. Ora: il presidente, del consiglio è uno e uno solo (così come uno era il presidente della repubblica al tempo delle reiterate “cossigheidi” di Blob). E la particolarità e intensità del suo “apparire televisivo” credo sia evidente per tui: il gioco e lavoro intrapreso con “Berlusconi contro tui” è il tentativo di rivivere l’archivio immediato che è la TV, l’inghioimento della memoria dentro la propria stessa estensione, centrandolo con aenzione e quasi pesantezza analitica fenomenologica antropologica, lontanissimo da qualunque riduzione agli automatismi comico-ideologici, sul “segno Berlusconi” degli ultimi quindici anni più o meno, sul suo gestire, sul suo parlare, sul suo intervenire. Berlusconi “con/tro” se stesso, il quarto potere, la TV, i “suoi” (alleati), il comunismo, il resto del mondo. Erano più o meno questi i rapporti, i temi sempre striscianti su cui comunque si addensano le singole puntate. Ne sono andate in onda solo due, la terza (sulla TV) è stata bloccata ieri, già pronta alla
messa in onda. Non si capisce in nome di quale prudenza o timore o ossequio, tanto evidenti sono da una parte la qualità tua documentaria dell’operazione, dall’altra la capacità sbalorditiva e quasi geniale – da parte di Berlusconi stesso – di superare a ogni nuova mossa (lo si è visto anche negli ultimissimi giorni) limiti e timidezze agiografiche autoimbalsamanti. Vien quasi da pensare che, rispeo alla già mal sopportata fantasmagoria di Blob quotidiano, dia ancor più fastidio la pacatezza con cui si danno da leggere quei documenti misteriosi e inesauribili che sono le immagini, il “mai-visto” che si annida in ogni repertorio. [“il manifesto”, 10 oobre 2002]
Il senso dell’angelo
Non meerò parentesi, qui, perché è tua una parentesi. L’ultima e unica volta che ho scrio “di” Angelo Guglielmi, a parte le citazioni continue ogni volta che mi capita di parlar di televisione, è stato “qui”, numero 19 di “Panta”, oobre 2001. L’ultimo intervento del librorivista, dopo le note finali; ultimo di una sezione aggiunta in extremis, intitolata Ultimi arrivi. Il mio titolo: Rete selvaggia (appunti). C’erano anche delle email, più “appunti” di un appunto cartaceo. Consegnai troppo tardi, ma riuscii a inserirmi dopo il crollo seembrino delle twintowers, citate infai a proposito di “volatilità”. esta volta è molto più tardi, in una domenica d’oobre di tre anni dopo. Ho appena saputo che da venerdì “Panta” – non so che numero, non la ricevo più con regolarità – è “chiuso”, depositato in tipografia, lo spazio previsto da mesi per me riempito dalle mie estenuanti mail di rinvio e di promessa, di promesse rinviate e di rinvii promessi. Mi sono ribellato, ho a disposizione un allucinante “adesso”: cinquemila baute entro un paio d’ore, per scivolare nel mio stesso vuoto dentro gli “impianti”, termine insieme ingegneristico e biologico e botanico. Termine, sì. Ultimatum; ennesimo di un periodo in cui la parola “deadline” decapita precisamente il tempo. E ieri è morto Jacques Derrida, col quale – dopo una conversazione lunga inane filmata a fine 2001 sull’immagine della manhaan skyline vanishing di seembre – provavo da un anno a progeare una “cosa” sulla “visione coaa” di cinema e /in TV cui lo obbligava ormai la malaia. Rete selvaggia, appunto. Non solo e non più “raitre”. Il reticolo di scriure ultimative e soprauo non ultimate, cui mi abbandono. La percezione improvvisa e nea, in questo istante, di una ragione intensa e amorosa di quasi tuo – ma
il “quasi”, senza il partito appena preso, l’avrei messo tra parentesi – il mio rinviare. Legato “quasi” sempre non alla distanza da un soggeo, o al non interesse di esso, ma alla vicinanza, all’affeo all’amicizia all’amore per una persona un film una cosa un’immagine. Sointeso: quest’immagine questa cosa questa persona non muore non morirà non morì, forse non nacque infai. Ci sarà sempre tempo, per dirsi spiegarsi scriversi raccontarsi, quindi non è mai tempo e il tempo anzi si sospende o infine annulla. Sono già oltre la metà dello spazio; ho imparato pochi mesi fa a usare il contacaraeri e contaspazi, alla fine del capoverso precedente ero già a duemilatrecentocinquantacinque. Non ho deo nulla ancora di angeloguglielmi. alcosa, poco, della mia nevrosi spazialutopica antitemporale. Eppure, il titolo l’ho indicato da ben prima dell’estate. Il senso dell’angelo; anche qui, nel titolo stesso, elimino le parentesi. Mantengo solo il senso tecnico e insieme struggente di “parentesi” che i see anni di giocolavoro comune a raitre hanno per me. “Angelo”, sì. Di che sesso, non lo si può dire. Proprio perché fortemente sessuato nel senso dell’insensatezza, della follia lucida. Molti di quelli che lavorano o bivaccano in TV, o che la osservano o la criticano o ancora pateticamente la desiderano, trovano o immaginano rituale il mio consueto riferirmi alla rarità estrema della raitre guglielmita. Un omaggio riconoscente in forma di litania, ormai esasperante perché – davvero? – “i tempi sono cambiati” e “dobbiamo guardare avanti” e infine “era una TV bella ma ora improponibile o arretrata”. Anche se metà dei programmi di quella rete restano, e restano i “miei” due, Blob e fuori orario; mentre naturalmente non resta il seminale Schegge, che sarebbe forse traccia troppo evidente imbarazzante nuda dell’esplosione di quella TV. Intimamente benjaminiana senza mai dichiararsi tale. Troppo oltre la deriva postannisessanta della dialeica culturaleditoriale del “paese”, ancora è anzi ancora oggi sospesa tra tui i neoneoneorealismi e i postsperimentalismi
postgrupposessantatré e il fantasma di pierpaolopasolini, comodissimo quale esempio/alibi di cadavere subito seppellito e poi incoronato perfeo e mirabile poetacivile restaurante e restaurato, invece che di scandaloso e scandalizzante narcisista intelleuale unico in italia a metabolizzare sade e a dichiarare il fascino energetico di quel deposito profumato e maleodorante e oscuro ma violentemente infiammabile che è ogni petrolio. Ma proveranno e provano a ricuperare perfino carmelobene, tra l’altro irrecuperabile e “doppiato” – ! – coprotagonista di una lontana intrapresa telefilmica guglielmiana, Tre nel Mille. Ecco, questo sì è immediatamente noioso e stucchevole. Voler giudicare col senno o peggio col nesso di poi lo sprogeo guglielmita di televisione; o rintuzzare gli altrui giudizi di inadeguatezza evidente, o di pelosa e buonsensistica correezza storicopolitica. Nulla “di poi”. Solo il senso di nonsense che è del presente, anagramma sempre possibile e quasi mai tentato o giocato di tui i passati e futuri. Il sesso quasi pornograficamente mostrato di una TV orgogliosamente esibita in direa nel suo disfarsi. Non “pensabile” e rielaborabile davvero in quel “presente”, ma “pensante” essa stessa il presente in quanto mutazione istantanea. Ho già millevolte deo quanto credo che quasi tua l’intensità la follia l’incontrollabilità di quel gioco sia stata dovuta alla caparbia e spesso errante – nel senso anche dell’errore – autonomia di quello sprogearsi. Unico modo non dico per contrapporre un’ipotesi editoriale alla caotica possanza e portata dell’automatico installarsi e autopubblicizzarsi del flusso TV o alla non meno caotica e ingovernabile “fragilità” e cedevolezza di senso di esso, ma per assumerne e mimarne proprio la forza dispersiva e ingovernabile, per marcarne sia pure di sguincio e sempre come per caso l’intensità impersonale. È sarà fu questo il trao più personale e inedito della rete di Guglielmi, capace di accogliere dispiegare intrecciare e giocare elementi e intenzioni già di per sé fortemente e diversamente sessuati: si pensi non solo al rude “kabulismo” genetico del TG3 di Curzi, o alla narratività quasi “oocentesca” della Samarcanda
santoriana, ma a programmi diversissimi l’uno dall’altro come le assemblee lerneriane e le piroee chiambreiane, il dirompente affiorare del linguaggio separato del potere giudiziario in Un giorno in pretura; o la riconduzione solida a una “caolicità” della casa in Chi l’ha visto?, gioco simmetrico a quello di Blob, col quale infai potrebbe scambiare titolo e funzione. Non credo che ci sia stata “coscienza” – in chi la “faceva” – del procedimento faografico e benjaminiano audacissimo che – garantito appunto a ogni programma lo scudo di un’autonomia quasi autocratica – ne giocava le differentissime particolarità soggeività intenzioni stilistiche come “repertori” di un’altra articolazione, realistica e radicata nel “paese” proprio per non volerne essere “trasmissione” e magari sontuosa “fotografia”; anzi, trovandosi le “radici” nell’inventarle, riconoscendole quali mutazioni delle “sonde” lanciate verso il paese, cavi di aracco arrivati dall’orbita extraterrestre “televisiva”. Per fortuna, dico, non c’era coscienza, né ci fu uno “stile”, neanche quando tentato o sperato. Il punto archimedeo di guglielmi fu la follia di autorizzarsi da sé, di appoggiarsi al nulla che è il decidere di farlo, cioè di tuo rischiare, leeralmente senza rete. (i mi arresto. Mi/vi chiudo almeno in fine in una pare(nte)si surplace. Dove racconterei (ma ho paeggiato poco fa seimila e seicento baute, e ora son già più di seemila) infai le incoscienze gli errori i mancamenti i buchi (della rete; tanto da ribadire il “senza rete” che suggerii quale titolo di un libro di Guglielmi e Balassone). Fu un “successo”, ahimè e per fortuna, la rete senza rete di guglielmi. Oggi direi e dico anacoluticamente “fu successa”. Il gioco poteva durare indefinitamente, All’infinito mutandosi in se stesso (anche per questo Blob ne era insieme il trailer e il sigillo, l’emblema e il buco nero) e riosservandosi diverso. Fui grato a Guglielmi – e più lo sono adesso – di essersi “sbagliato” anche con me, di avermi “preso” e “promosso” più per le mie incompetenze che per le mie fin troppo riconosciute e amorose competenze (il “cinema” –?–). Di aver
sentito quanto, aldilà della tecnicità, pensassi davvero che l’unica possibile impossibile paradossale scriura televisiva fosse eventualmente quella del palinsesto. E lo ringrazio di aver acceato la mia lentezza resistente ossessiva renitente disfaiva punteggiata di microestasi velocissime (nascevano così – interpellato da lui spesso in corridoio al volo – i “titoli”, i nomi veri e (im)propri dei programmi; ma perché tendi sempre a chiamarli/chiamarci sempre “fuori”? mi disse una volta), la mia (ri)autorialità evidente nel pretendersi invisibile, riconoscendo in essa una sua comune struura ossessiva, estremamente soggeiva nell’accertare l’impersonalità divertente e terribile dell’ossessione. Proprio da un “buco” nell’apparente struura di ferro del nostro palinsesto nacque fuori orario cose(mai)viste, – sono quindicianni “questo” duenovembre. Assisteva silenzioso e un po’ aonito, rispeoso come verso nessun altro programma se non Blob, a certe derive estreme nostre, alle sovrimpressioni di interi film alle ore di rushes di un solo film. Una tardasera mandai un intero GranPremiodiMonza visto dalla telecamera di una sola macchina, “soggeiva di un nonsoggeo” eccetera (erano riprese, usate per brevi istanti in telecronaca, buate via alla fine, ci misi mesi per averle). La maina dopo si fece coraggio: “A volte sei davvero troppo solipsistico, pensa un po’ al pubblico, makekazzo un’ora e mezza della stessa inquadratura..!.. Va be’ che vai in onda tardi… ma.” (ell’inquadratura ferma in moto ebbe l’ascolto record di fuori orario.) [in Blob Guglielmi – La leeratura la televisione il cinema, “Panta”, 24, a cura di Angelo Guglielmi e Elisabea Sgarbi, Milano, Bompiani, 2004]
el tempo sfumato nei palinsesti precari
“fuori orario cose(mai)viste. Aualità” (dalla pagina dei programmi TV del “Corriere della Sera”). Fraintendimento illuminante, ossimoro folgorante. Ma non protestiamo mai per le mutazioni e i maltraamenti e le noninformazioni a mezzo stampa inflie al nostro nonprogramma. Né ci scandalizza il lapsus appassionato e appassionante dell’amica Cristina Piccino, che su “il manifesto” ha narrato una disavventura da speatrice di fuori orario, allibita giorni fa nel veder sfumare di colpo nel nulla il film Il corridore di Amir Naderi. Ringrazio per la solidarietà, e a nostra volta le siamo vicini in un suo piccolo errore, dovuto forse anche al fao che da molto tempo lo spazio di Raitre nella griglia dei programmi su questo giornale termina subito prima di fuori orario, pur prendendosi lo sfizio di indicare gli ospiti dei talkshow. Un indizio minimo ma preciso del “tempo che fa” in Rai, in televisione, nella cultura che per convenzione si chiama “italiana”. Appare plausibile se non “normale” che un film d’autore di grande intensità e fascino venga interroo proditoriamente prima della fine, per dar luogo alla consueta programmazione del palinsesto nourno. E si denuncia la cosa, con normale e pur giusta indignazione. Ora, fuori orario è un programma né di loa né di governo. Si traa (in questo spero/temo simile a Blob) di una situazione televisiva di resistenza. In primo luogo, di resistenza alle forme obbligate della comunicazione, ovvero alla comunicazione obbligata e alla logica pubblicitaria. La parentesi del “(mai) visto” allude, ancor più che all’inedito (da fuori orario presentato e dissolto a ogni istante, mutato in repertorio), alla porosità che mina e libera ogni immagine, che ne sfalsa la compaezza e la fissità apparentemente
definitiva. Per questo è bello l’errore dell’articolista, e ci par vero. Anche se il film in onda lunedì era Alfabeto afgano di Makhmalbaf, seguito da un montaggio di altre immagini iraniane o iraniche, tra cui tuo l’inizio del film citato di Naderi. Montaggio deo in gergo tecnico “sfumabile”, di cui ci assumiamo (mal)volentieri il carico, preferendo essere “noi” a venir meno ultimi nella noe invece che un qualunque programma riempitivo. La “sfumabilità” (non dei film o delle altre “cose” annunciate, ma di quella mezz’ora almeno richiesta dal palinsesto Rai per assorbire gli sforamenti eventuali della giornata) è un segno preciso – a volte da noi quasi rossellinianamente mostrato – di precarietà soffice assoluta inappellabile fuori orario (come Blob) gode di un oimo rapporto con la direzione della rete. Ma per raro o unico che sia o che venga indebitamente considerato in giro per il mondo, è stato negli ultimi dieci anni, anche nel fineseimana, spinto sempre più indietro nella noe, da “educazionalità” e informazione varia. Sfumabile, ripeto, nei colonnini dei giornali, anche dei più aenti e cinefili, pronti a ossequiare il verbo dei canali satellitari e criptati segnalando anche la ventesima messa in onda del più banale dei mezzifilm di successo (chi si è accorto – per dirne una – dell’imponente affiorare della telefilmografia di Coafavi nei fuori orario dell’ultimo anno?). O sfumato a priori in occasione di annunci aesi di guerre, o dell’esito della lenta ultima agonia papale; con proteste del pubblico visionario, non del mondo del cinema italiano che agogna trasmissioni provvidamente promozionali. fuori orario, duri un’ora o cinque, non è tempo da contabilizzare vendere comprare, è spazio in cui il tempo è già sfumato nell’immagine, tuffato nella sovrimpressione che essa è sempre. Because the night non appartiene a nessuno, se non agli innamorati e agli amorosi, e fuori orario è “expendable”, spendibile, sacrificabile, come le motosiluranti del film sublime di John Ford.
E va bene anche la definizione campeggiante per anni nella pagina speacoli di un altro grande quotidiano nazionale: fuori orario. Varietà. [“il manifesto”, 14 marzo 2008]
Moon walkman
II set della luna e il set delle “stars” si incrociano fino a coincidere in matassa fia di giri di corteccia artificiali; gli anniversari intersecano affollano e costituiscono il giorno (senza più “altro”) dell’oggi. La celebrazione della cinquantenne neomorte/maivita (o chissà, troppovita) di michaeljackson, con prima tappa all’Apollo eater, anticipa e erode lo spazio dei festeggiamenti – per i quarantanni dal primo moonwalk degli astronauti di Apollo 11. Il piccolo passo di un uomo si ripete muta confonde nel piccolo lunare geniale passo di danza per l’umanità. Ogni scala sembra ridoa, sembrandoci del resto già ridoo l’originale. La direa TV dello sbarco sulla luna trae intensità e verità dall’aria di falso rudimentale del set già glocale, dai vuoti d’immagine, dai fantasmi scafandrati sfilacciati saltellanti. Non più improbabili e non meno commoventi dei capi di stato del G8 riuniti smarriti fuoriposto perfei nella “piazza distrua” dell’Aquila, immagine sublime acefala, nonsenso del governare. Il 1984 (!) del walkman è anniversario decisivo per il 1989/2009 (il crollo statuale di unione sovietica e paesi satelliti – artificiali-naturali?): il mezzo è il missaggio, e siamo ovunque turisti di noi stessi mescolatori di spazio e suono. Se neilarmstrong si prendesse la “tipo A”, i maiali volerebbero nella pandemia Influenza Lunare. Lo spirito soffiando dove vuole anche se non può (dicono non ci sia aria né vento nello spazio), lascia intravedere e suggella con la nitidezza trasparente del lapsus un altro mito sovrimpresso, tra incarnazione e assunzione; la condurice di un TG nazionale annuncia: “arant’anni fa l’uomo discese per la prima volta sulla ter… scusate, sulla luna.” [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 23 luglio 2009]
TRENTA(RAI)TRE (spudorate magnifiche
ossessioni)
Non credei mai di meermi a lavorare alla Rai. Né prima né dopo il concorso vinto a venticinque anni per la Terza Rete (a Genova), appunto. Fao solo perché il “posto” si chiamava “programmista-regista” (la seconda parte aveva per me un’aura cinefila intensa; la prima era il massimo della lontananza: mai fao programmi se ho l’ardire di immaginare di aver vissuto, è perché giocando mai ho voluto averne). Mi sentivo vecchio, nonostante l’entusiasmo amoroso (o a causa di esso) con cui studiavo e insegnavo da due anni Cartesio e Aristotele e Hume all’università, vedendo da anni almeno due film al giorno, dibauto tra il cinema (ne scrivevo) e gli anatemi francofortesi antimassmedia e debordiani (la colpa era volendo accresciuta dal programma delirante (Sentieri selvaggi, ovviamente da Ford) che facevo in direa per una radio privata). Il concorso, con bando scoperto appena prima della scadenza e con iscrizione spedita all’ultima ora possibile, fu facile da vincere, non c’era da prepararsi, ogni tema scrio e ogni domanda mi parevano stadi automatici di una conversazione ininterroa, di un gioco in qualche sorta lacaniano, un codice che araversava tuo e tuo rianagrammava. Mi scuso, qui spero finisca il moto impudico di raccontare il modo in cui il mio privato stava forse diventando (parte di un servizio) pubblico, e proverò a raccontare non meno impudicamente alcuni frammenti del gioco per cui un/il pubblico diventa o ridiventa “private”. Nel segno costante di un’appassionata indifferenza che mi portò ahimè o per fortuna fino a oggi, con insoddisfazione felice e con la
sensazione trasognata e privilegiata di non dover scegliere mai e di esser portato (in onda?) come da un vento. Mi accorsi presto che il rischio era quello di restar “giovane” a vita, alla Rai, o di invecchiare quietamente dentro la forbice aziendale del possibile/impossibile. Mi aiutò da subito un’aitudine alla resistenza e insieme allo spreco di me. Microestasi mi si aprivano nelle riunioni più noiose, il gioco non si fermava mai. La scoperta dell’onnipotenza risibile e wellesianamente affascinante e iperfilmica della radio, le corse in macchina con la minitroupe del modello produivo di Raitre, l’amicizia con gli operatori e con gli “specializzati di ripresa”, le discussioni (si litigava utilmente ogni momento, a lui proposi una specie di montaggio seimanale sfrenato tra le efferatezze sublimi delle TV private allora scatenate e pezzi di film e di programmi nostri: era scandalizzato che non ne capissi l’impossibilità tecnicolegale) con il mio primo “capo”, Arnaldo Bagnasco, l’aesa interminabile (in effei poco più di un anno) dell’avvio della rete, l’impressione profonda di non appartenenza e di essere ogni giorno pronto a “tornare all’università” o a partire altrove, nella Genova in cui avevo scoperto e condividevo la follia cinefila, in cui tuo era nascosto dietro i muri bellissimi e il sociale locale lo scoprivi nei treni (ah, anche tu stai a Genova?), segreto e mediato (come la metà oscura della TV), e in cui il terrorismo era fao anche di facce che riconoscevi, e poi ti trovavi nella salea di montaggio in cui corpi di magistrati polizioi funzionari erano inquadrati araverso i vetri frantumati delle auto. Ah ecco sono già in fondo allo spazio che mi è stato dato per una testimonianza chiestami in extremis per la ricorrenza. E allora: ringraziate le persone “Rai” che hanno creduto anche assurdamente in me, magari godendo della mia dispersione insana del poter buare via tuo per una bauta in riunione o di “sprecare” – troppo bello – idee in corridoio lasciandole lì a galleggiare per aria. Beppe Cereda che mi chiamò prima a presentare qualche film, poi a Roma, salvandomi dal rischio di un incidente
nourno in moto sull’autostrada nei miei tentativi di annullare lo spaziotempo tra il lavoro a Genova e un amore immenso a Roma che poi sarebbe diventato famiglia. Giuseppe Rossini e Enzo Scoo Lavina che apprezzando i miei “cicli” (sì, mi trovai a fare in TV il cineclubbaro che mai avevo voluto essere, aiutato dalla carissima Maria Letizia Gambino, ma riuscendo infine grazie alla loro fiducia, nella missione impossibile che (aiutato da Marco Melani) mi inventai a fine 1985 per i novant’anni del cinema, la nonstop, di 40 ore La Magnifica Ossessione. (La noe in TV da noi e in Europa non c’era più stata dopo quella della Luna). In quel programma sfioravo infine al dismisura e mai era sembrata subito la TV, un film senza fine fao di film intracciati, unica e ultima parvenza di scriura il palinsesto, non certo il voler/poter essere autori del proprio segmento. Per quello Angelo Guglielmi – che più di tui ringrazio per la sua autonomia (im)politica folle fino al punto di tollerare o ammeere la mia – mi chiamò a dirigere il palinsesto della Raitre sua e di Stefano Balassone). 1987/1988, e in pochi mesi cambiò la TV, cominciando gradatamente a giocare con tuo il paese come un linguaggio (sono troppi, praticamente tui, i titoli e nomi dei programmi e degli autori e conduori, compagni di banco e di nebbia di una TV che prima non c’era e che non ho bisogno di citare, molti persistendo anche oggi). ello che la Raitre nobilmente culturale degli inizi non aveva potuto voluto saputo fare, sprecando anche la possibilità straordinaria (ormai criminalmente perduta) di avviare uno sterminato archivio antropologico automatico del paese. Più che fare il palinsesto, avrei forse ambito disfarlo. La prima proposta mia fu Schegge, una specie di anarchivio minimalmarginale disseminato e selvaggio e insieme filologico, teso a coprire i buchi della rete, e un po’ anche a aprirli. Ne derivarono o seguirono Vent’anni prima, Pubblimania (con Romano Frassa, con cui inventammo anche il fuori orario in direa nel 1988 e i programmi di cui oggi NON celebriamo i vent’anni, lo potrebbe fare forse solo una rete satellitare o digitale), Blob (cui dee nel primo periodo un contributo intenso Marco
Giusti) e fuori orario cose(mai)viste, incrocio amoroso di gruppo tra schegge e magnifiche ossessioni. Per non parlare dell’altra non-stop isolata sugli anni oanta, Fine senza fine. Tui programmi principalmente di riuso, di “repertorio”, di direizzazione di esso (incluso il cinema), e di archiviazione del presente, con la scoperta (con duchamp benjamin warhol) del presente stesso come archivio che si ripete. Programmi (?) malinconicamente “ecologici”, appendici estreme “inutili” nourne, o inserti spesso tollerati (Blob, spina nel fianco della “regola” TV e insieme Verifica incerta costante di essa; programma “novissimo” e maivisto fao solo di “già visto”), una volta svanita in poche ore – sacrificata alla ragion politica – la bolla dell’autonomia guglielmiana. (Per questo ringrazio la tolleranza e la comprensione di Paolo Ruffini, che – certo non amando il fuorisincrono – ha aderito allo spirito apparentemente residuale di questi programmi consentendo con calore il mantenimento della loro autonomia). Correndo da fermo, immerso in film che sembrano farsi da soli con fatica imperceibile e straordinaria, non mi sono accorto o non ho potuto né voluto accorgermi di malevolenze né di invidie. Ho dato per scontate certe idiosincrasie aziendali, perfino necessarie, supplendo serenamente di persona (anche portando in moto la bobina di Blob – terminato dieci minuti prima perché mi sembrava assurdo non arrivare all’ultimo minuto – alla messa in onda quando dato il traffico la macchina del corriere aziendale non ce l’avrebbe faa) e amando più di tuo, per esempio la cosa ultima e quasi nulla che è la scelta di titoli anche di programmi non miei e mi piacerebbe fare un programma di (contrario della) Cultura solo per il gusto di chiamarlo Ozono. Mi trovo trent’anni dopo ancora fermo in modo lì/qui (ex vicedireore perfino, prontamente destituito e certo incapace di vicedirigere alcunché), facendo una TV placidamente e ufficialmente inosservata e furtiva ma intensamente vista di editorialità iterativa sfinita in un momento in cui l’immaginazione editoriale sembra o forse è una bestemmia (visto che tuo, per prima la politica, sembra rigoverno).
Ringrazio questa rete (in cui sono stato infine fin dall’inizio) per avermi lasciato resistere e ringrazio la TV per aver fino a oggi infrenato e rinviato le velleità autoriali (i film i libri, eccetera). Agli amici e collaboratori (i cui nomi sono tui nei titoli di testacoda dei programmi) rivolgo l’augurio di “buona visione”, la stessa che si trovano a offrire e permeere a un X per cento che non amo quantificare perché sicuramente (traandosi di amore) sarà troppo o troppo poco. [“RAI News” – Notiziario della RAI Radiotelevisione Italiana, NS, LI, 81, 14 dicembre 2009]
luce in macchina
Ha un qualcosa di esotico, sentir parlare di cinema angeloguglielmi, o leggere della sua pratica filmica contaminata tra produzione distribuzione promozione e infine sempre in qualche modo ricentrata entro il cono d’ombra televisivo. E esotico, antichissimo e moderno infai, appare lo stupore scherzoso con cui racconta un aneddoto che subito si fa apologo: la troupe televisiva della Rai mandata a realizzare un reportage sul set del dirompente spoglio bellissimo Francesco della Cavani (inventato da guglielmi per la stessa Rai), si rivela più grossa numerosa opulenta di quella del film stesso. Fin troppo reverente rispeo all’aura del cinema “bigger than life”, il funzionario televisivo si riscopre e mee “qui” a disposizione quasi mezzo secolo della sua vita professionale tra TV e cinema, ridicendola per noi come un piccolo grande rosario di accadimenti fatali, un crogiolo di scriure incrociate in un baluginio di titoli e di epifanie appena accennate, profumate di oscar e delle essenze ambigue del successo, il curiosissimo e napoleonico guglielmi avanza mascherato da intelleuale puro duro impaziente, ma di impazienza e curiosità insieme illuministe e compunte, di trasognato piccoloprincipe che nella trasparenza del deserto nourno partecipa a riunioni aziendali e sa bene della necessità di optare – potendo disporre di un budget – per le scelte impossibili. Non so quanto sia davvero appassionato di cinema, angeloguglielmi. Certo è appassionato dal cinema, e non di rado telefona per sapere cosa mi è parso degli ultimi film che ha visto (come fa(ceva) mia mamma con quelli che non ha visto). Ma per quanto non rinunci a schizzare paragoni tra le arti (ovvero tra i linguaggi), accennando qua e là alla chimera
dello “specifico filmico” (troppo naturalmente, il montaggio?) il grande critico leerario impaziente trasogna il giocolavoro del cinema, dal cui godimento traspare lo sgomento del giocatore di fronte al gioco delle immagini, con le quali si vince sempre e sempre si perde, nello stesso gesto. Più volte, in ufficio o correndo i corridoi e la loro estensione aerea romamilano, negli anni della sua Terza rete (1987/1995) avemmo o ci demmo l’occasione di parlare di questo, da posizioni distantissime o di vicinanza fulminea, col cinema quale pietra di paragone scissa spaccata tra evidenza del vedersi e più o meno misteriosa invisibilità semplice della banalità tecnica che lo permee. Alla fine (⁇) credo ci si fosse tacitamente e insieme pubblicamente trovati d’accordo sulla necessità terribile di fare capolavori o null’altro da parte di qualunque scriore o scrivente nell’oggi del presente eternamente rinviato, quasi schiacciato dalla capacità filmica di registrare automaticamente il teatro del mondo e il suo doppio assente. Del resto, il cinema richiede lo stesso (e più) ai suoi addei cineasti autori dispersi, quella sorta di eroismo ouso che è dei più grandi, un’ousità competitiva con la qualità più assoluta: il fao che qualcosa (anche solo un’ombra del nulla) venga comunque filmato. Vagamente sceico sul cinema in TV, e peraltro irritato se non sbigoito dal marchio di “anticinematografico” (basta vedere la lista dei film cui ha messo mano, dai primi della Cavani e dal bizzarro esperimento medievale di MalerbaGuerra-Indovina Tre nel Mille con un carmelobene doppiato (‼) per esaurimento del budget, al magnifico Cristoforo Colombo di Coafavi, e al Gabbiano di bellocchio, oltre che all’indicazione di bertolucci e di fellini per quelli che saranno Strategia del ragno e Prova d’orchestra) che lo marchia per lo scarso peso della programmazione filmica della sua Raitre, guglielmi mi chiese di occuparmi del palinsesto per il quale fino ad allora avevo curato con selvaggeria ossessiva proprio le proposte di cicli di film tra l’ipercinefilo e il classico, culminate in effei nel programma-palinsesto di 40 ore nonstop (a fine dicembre 1985) inghioite dal grandecinema di
tui i tempi, La Magnifica Ossessione, per i novant’anni dalla prima proiezione Lumière. Mostrando quindi di apprezzare proprio la forma ultrafilmica di un programma che poteva essere considerato un pianosequenza dentro un labirinto filmico di quasi due giorni o un mosaico ipermontato a frammenti, dove qualunque film diventava a sua volta lo stacco o la scheggia di un collegamento in direa con la testa dello speatore cinedesiderante e desiderato dal cinema. Ma questa è storia – impossibile perché troppo affollata di “testi/testimoni” (immagini), troppo ricca e fangosa – irraggiungibile e sempre più non verificabile e ingiudicabile da quel 28 dicembre 1895 in cui il cinema uscì dalla fabbrica e si fermò in stazione. Si potrebbe dire che guglielmi condivideva con me (che avevo avuto dieci anni più o meno nel 1963 della sua avanguardia) proprio l’ossessività del cinema stesso, macchina semplice che complica e rende misteriose le immagini-fotogramma facendole trascorrere e ripetere a diverse velocità, in una sovrimpressione spazialmentale che le muta in corpi/protesi. Troverete le tracce di tale ossessione in questo libro, che presto abbandona i fantasmi suggestivi di robertolonghi e le soigliezze delle differenze tra generi e tra metageneri (gli proporrei per esempio il confronto tra la “lunghezza” del testo filmico più tipico – il lungometraggio – e le serie e miniserie che risultano invece dannatamente troppo “corte” non riuscendo a mimare la vita e le vite nella loro durata, se mai facendo apparire la vita “nostra” un cortometraggio incompiuto) per chiudersi, dopo il racconto dei due mandati (tra il 1995 e i primi anni Duemila) come presidente dell’Istituto Luce, in un mirabile e malinconico sbriciolarsi di titoli cifre leere rendiconti elenchi che inseguono e suggellano lo svanire di molte illusioni e intenzioni. Secondo una percezione del cinema fatalmente “esaa” e scolpita nello s p a z i o e non nel tempo, mediante la quale condurre l’assalto al ruolo retrogrado pluridecennale di distribuzione e
esercizio, provando a ignorare e oltrepassare la “lentezza” costituita della produzione (me lo ricordo scorato dalla prospeiva di non poter dare impulso a un’idea di cinema ma di doversi limitare a curare il girarsi o il completarsi di tanti progei e film approvati da anni) lanciando dal quasi nulla un circuito parallelo e perfino realizzando un sogno di livello europeo nelle due sfortunate edizioni (1998-2000) de “Il Grande Cinema”, rassegna di proiezioni in copie nuove a roma milano e in qualche altra cià di più di oanta film (americani soprauo; e italiani, e europei) scelti tra i più “belli” della seconda parte della storia del cinema (proposta generosa e intempestiva, comunque memorabile anche se utopistica nell’intento di trapiantare di colpo in un paese drammaticamente in ritardo rispeo a francia e gran bretagna ma anche a germania e spagna, l’aenzione e il gusto di un cinema meno affidato allo sfruamento del mercato più brutalmente immediato; guglielmi ricorda di aver avuto il suggerimento da walterveltroni: credo si possa perdonare molto al sereno nichilismo veltroniano, più ancora che per questo abbozzo di iperfestival postmoderno, per la candidatura calda di guglielmi a direore della Terza rete). Io, così contorto e infantile da osservare che l’elenco dei film del Grande Cinema permee al libro di chiudersi con Viaggio in Italia di rossellini, posso ringraziare l’autore di avermi menzionato (a proposito dei film aiutati e cofinanziati dalla nostra rete) quale sponsor del primo film di mariomartone; ma proprio nei giorni di quella segnalazione, di cui mi compiaccio benché non creda sia stata decisiva, guglielmi fu ancor più asimmetrico generoso fiducioso e autonomo, assicurando un contributo sostanzioso per la sonorizzazione di uno dei primi intensi film di pasqualescimeca, Un sogno perso, e comprando (per una cifra tre o quaro volte superiore a quella che riuscivo di solito a destinare a un film del genere) lo stupendo La morte di Empedocle. Fortissima fu poi la sua empatia per il cinematelevisione di Cinico TV (di ciprì-maresco), dal primo momento in cui ne vide un tre minuti occhieggiare e bruciarci gli occhi dal mio monitor, e lo stesso accadde con
Tetsuo di tsukamoto: “Cos’è questo capolavoro che stai vedendo? Bello vero? L’ho strapremiato al festival di fantascienza a Roma, ma non riesco a trovare i dirii, il critico giapponese cui ho chiesto il telefono e il fax del regista mi deve aver dato numeri sbagliati, ho capito che ha odiato il film e me… Tu compralo, facciamo come con le riviste, tu dichiari che la Rai pagherà i dirii a chi si farà vivo, intanto lo mandiamo in onda, ti copro io non ti preoccupare.” (La sera del giorno in cui la nomina al Luce fu ufficiale, guglielmi mi telefonò, senza illusioni ma eccitato. Volevo pensare a una sala romana dove proieare un cinema tuo “mio”, eccentrico fuori orario? Pensando al pubblico ma secondo il mio girar di testa mi misi subito a scrivere una pagina su come avrei voluto far girare la testa al pubblico. Dopo tre o quaro anni, ancora continuava l’odissea nello spazio, a conferma dello spazio come dimensione esteticopolitica assolutamente cinematografica e filmica; piccoli film del centro, sedicenti in affio in locali pubblici, in mora o insolventi da decenni, venivano ricuperati (da chi non ne aveva mai fao nulla se non lasciarli degradare) versando qualcosa all’ultima ora possibile per bloccare stabili o appartamenti; altri esercenti e gestori puntavano chiaramente ad approfiare in vario modo di nuovi “flussi” di speatori eventuali, con rari fiori all’occhiello ma senza alcuna intenzione di una programmazione innovativa. Il cinema Trevi, affascinante resto tra i ruderi soerranei della zona, chiuse quasi subito i cantieri per giusta decisione della sovrintendenza; solo dopo diversi anni di lavoro (ma il progeo era già tramontato) è diventato un sublime incanto archeologico in cui ogni volta che si apre il sipario sulla vista dei resti da cui spessi vetri ci separano sentiamo alitare gli occhi degli sguardi ultramillenari che sfiorano i nostri scivolando verso quelli che soffian via dallo schermo). E voglio rassicurare angelo. Il film che pochi giorni dopo mi chiese di inventarmi al volo per sbloccare due o tre centinaia di milioni di lire altrimenti a rischio di perdersi senza esser stati spesi, si farà. Sì, lo finirò, cioè lo farò, prima
o poi, nel prima di poi o nel poi di prima. Luce in macchina: un assemblaggio di almeno tre ore di sguardi in macchina da quelli dei divi del muto a quelli televisivi dei boss che agganciano e ancorano il pubblico al loro “a me gli occhi”, agli scugnizzi napoletani che araversano di sguardi l’automobile del re o della regina, per schiantarsi morbidi sulle palpebre meccaniche invisibili che ancora non conoscono. Un gao a nizza che si guarda guardare dal genio di jeanvigo. Occhi che non guardano mai il “noi” che fu(mmo) davanti a loro, né qualcosa o qualcuno “oltre” probabilmente. Forse il nulla denso e trasparente che sta nel mezzo, l’unico spazio di cui si nutre il cinema, occhio di tui proteso – dagli angeli, o dal diavolo probabilmente il lucifero la cui luce tecnica sembra interceare e amare e riunire tui e tuo nella protesi dello sguardo. Infine. indici giorni fa a un tavolo di ristorante. Angelo parla del libro con alcuni amici. Viene fuori il nome di fellini, che sembrò a un certo punto davvero interessato a fare un qualcosa per Raitre. Guglielmi, mentre si dispiace di aver dimenticato l’episodio – avrebbe chiuso benissimo il libro – pare ricordarsi che fosse il seguito di Block-notes di un regista. Altri ricordano proposte – una con i giapponesi – bizzarre e arzigogolate, poco plausibili. Io di colpo mi ricordo, anche se forse non ero presente all’incontro che ricordo vividamente. I giapponesi erano nel film, ma non come produori. Si traava di una spedizione giapponese in Antartide, alla ricerca di qualcosa di strano non visto ma in vari modi avvertito: un suono, un’ombra immensa senza corpo, una violenta spinta dell’aria. Si ascoltava rapiti dalla sua voce di miele. alcuno cominciò a immaginare lo Studio 5 di cinecià bardato da polosud. Si interruppe: “Veramente, questa volta sarebbe meglio girare metà film nella location reale, al Polo…” Nessuno rise, poi fellini uscì stringendo mani, serio ma sgravato dal dover pensare a un film. Anche noi sollevati dall’esser stati presi magistralmente in giro. Ora si sarebbe messa in moto – se la cosa fosse scaturita da un presente non
troppo inventato – una rapida “causerie” vertiginosa con angelo, uno di quei giri scoppieanti o già scoppiati: “Ma tu cosa hai capito? Io nulla!” Oggi ci sarebbe venuto in mente quentintarantino, il più colossalmente maestro tra i registi nuovi e quindi già vecchi. O Savinio. Ma cosa vuoi capire, importante è non capire, o capire senza aver capito? E il cinema… Pensa se al polo si trovasse una specie di Invenzione di Morel ghiacciata, forse già in procinto di sciogliersi… prendiamo un gelato, non voglio che la mia memoria si mostri, friatella flaccida. Gelato di cervello per tui! [prefazione a Angelo Guglielmi, Cinema, televisione, cinema. L’ultima volta dell’Istituto Luce, Milano, Bompiani 2013]
5. Per sport
E quelli che vanno in bicicletta
Oggi, si può dire, ricorre la Milano-Sanremo. In questi giorni tra Parigi e Nizza, tra Tirreno e Adriatico, i ciclisti professionisti di tuo il mondo (che è poi in questo caso l’Europa del MEC, più appendici) si sono preparati per quella che era la classicissima di apertura. La gara ormai, oltre che non più di “apertura” è contestata. E solo il mito dell’albo d’oro può tappare la bocca a chi protesta; è una corsa “facile”, si dice, l’unica difficoltà è il gran numero di chilometri a rendere indigesto l’inizio di primavera. I colli finali non sono proibitivi, non c’è baaglia, è una corsa anacronistica con strade così scorrevoli… Ed è tuo vero. Solo che, nell’epoca del ciclismo avaro di campioni e di distacchi, nell’epoca in cui le vitamine hanno livellato (in alto) le capacità fisiche e molte biciclee possono arrivare insieme a Sanremo, un mostro come Merckx riesce a vincere see volte in una decina d’anni questa come tantissime altre corse. Riesce a baere l’insignificanza delle viorie distribuite tra comprimari, a risultare monotonamente primo in un periodo in cui può sembrare banale esserlo. Circonda la sua figura dell’alone strano e affascinante del campione – squalo, affamato sempre e costreo a non essere amato. Scomparso Merckx, il paradosso marxista del ciclismo da era tecnologica, quello che emerge di forza dall’equilibrio di forze e degli omogeneizzati resta il ciclismo. L’enigma di un ciclismo che dura senza campionissimi anche a chi ha solo sentito parlare di Coppi e Bartali, la rivalità Moser – Saronni – Baronchelli – urau – Hinault sul filo dei secondi appare d’acchito meno appassionante. (Un tristissimo giorno d’oobre 1978 ricordo alle dieci di sera solo il ventesimo romano interpellato per strada seppe dirmi che Moser aveva vinto il Lombardia nel pomeriggio…)
E da anni si parla di un rilancio del ciclismo su pista (già seguitissimo nei paesi del clima non caldo, e in Giappone, dove detiene il record delle scommesse legali e non), di un tramonto e di una sostituzione dei grandi giri e delle classiche su strada. Ma il ciclismo su strada continua, ormai come sport preamente televisivo. Per stare in Italia, è dell’anno scorso il caso in cui De Zan, il telecronista, fece ripetere un arrivo che la televisione non aveva fao in tempo a riprendere. E il ciclismo è sempre stato dipendente da una “trasmissioneselezione-amplificazione”, da una mediazione, leerariogiornalistica prima, poi radiofonica, poi appunto televisiva. Il folle straordinario pubblico che aspeava e aspea sulle cime o nelle pianure alle partenze o agli arrivi, era ed è costreo a bruciare ore di aesa in un aimo, avendo della corsa (magari see ore come la Sanremo) un’immagine compressa in pochi minuti perdendo per forza lo svolgimento della gara nel suo insieme riprodoo – condensato – solo dalla cronaca (en passant si può notare come le grandi corse automobilistiche su strada, la Mille miglia di un tempo e ora i Rally, mantengano in fondo questo côté ciclistico). La televisione condensa ma dà anche il tempo della cronaca viva, e nell’Italia degli ultimi cinquanta e dei primi sessanta ricostruisce un ciclismo che pian piano va sostituendo i Coppi e i Gaul con i Pambianco e i Balmamion, oggi forse, senza televisione, il grande ciclismo su strada non esisterebbe. E la televisione è stata beneficata dal ciclismo, anche se negli ultimi anni si è notato un calo nell’amore reciproco. Nei secondi anni sessanta le memorabili sedute dei Processi alla tappa subito dopo gli arrivi del Giro fecero provare il brivido della direa, il gusto inedito del dibaito a caldo: tra corridori sbuffanti o bestemmianti e giornalisti con lo stomaco soosopra per le curve; Sergio Zavoli, massaggiatori, polemiche, le memorabili prezavainiane imprecazioni di Taccone, o, in corsa, corridori che propongono la fuga mentre Zilioli è intervistato in coda al gruppo…; e il primo Giro di Merckx nel 1968, il santone Brera
bofonchiante a ogni processo che il giovane belga considerato (“La corsa in testa!”) sarebbe saltato per aria il giorno dopo, e Bartali e Ormezzano a dir che no, e il giovanoo ancora muto di italiano dietro gli occhi mongoli, e Adorni a proteggerlo con soile dialeica invidiosa… Anche, oggi è curiosamente televisivo “tecnologicospeacolare”, di avanguardia insomma, il destino di uno sport elementare e faticoso, nato semplice eppure già paradossale. Le “due ruote” di varia foggia, bizzarra invenzione e passatempo di nobili e borghesi, si trasformarono presto, nel mezzo di locomozione più popolare e anche operaio. Lo sport ciclistico rimase a lungo, fino a ieri, il sogno di un riscao dalla fatica araverso la fatica; fao di astuzie popolaresche e di sforzi aberranti e prolungati, fuggente per le discese improvvisamente liberato e di nuovo inchiodato alla geografia dal terreno che sale, senza nulla del diporto da tempo libero all’inglese, il ciclismo da noi mimava la povertà di un nord già operaio e ancora contadino (e nordico resta l’itinerario delle due grandi classiche italiane, l’altra è il Giro di Lombardia). Le immagini dei campioni inseguivano – fino al fenicoero o airone Ceppi – la leggerezza, la liberazione dallo sforzo, o mimavano la possanza trionfante (Guerra, la locomotiva umana). Oggi, ridiffuso dalla preoccupazione ecologica, dal rilancio igienistico del turismo povero e gaio, il ciclismo non si esprime più in termini di “liberazione dallo sforzo”, è una sorta di footing di massa a due ruote. ello agonistico, raramente drammatico, è sempre più recita corale, tanti piccoli campioni dai mezzi fisici notevoli e simili in un procedere più omogeneo del gruppo e della corsa stessa. Le medie sono più elevate e meno discontinue, raramente si arriva a passo d’uomo ai piedi di una montagna per permeere poi il volo e la rapida partita delle poche aquile. Il “tui in gruppo” è oggi, nel suo insieme, più potente, professionistico e agguerrito: se l’andatura resta bassa, neanche gli Stelvi riescono a produrre grossi distacchi tra masse muscolari omologhe: se è alta, riesce difficile per
l’aquila reale emergere. Il gruppo scivolerà indietro lasciando però davanti il suo fantasma, il gruppeo dei migliori. Non si vuole tessere un’apologia del ciclismo, né cantarne la purezza. Come sport agonistico organizzato e professionistico non è certo immune dalle magagne sovrastruurali che affliggono gli altri sport (basta pensare alla questione doping) e neppure da certe piccole mafie, da rari sospei di combines. E se ne può soolineare proprio l’aspeo di contaminazione sempre più evidente, i contrasti tra il titanio delle leghe leggere nelle biciclee da record più sofisticate e la forma della biciclea ancora così prosaica, il suo… “dover essere spinta”. I seantanni della Sanremo sono allora i seantanni di uno sport ambiguo e quasi improponibile oggi: lo sport delle sfide tra uomo e cavallo, lo sport più geografico che esista (e insieme quello che ha tardato di più a uscire dalla vecchia Europa solo adesso conquistando i mercati e le strade americane, e la pista nell’affollatissimo Giappone), l’unico che percorra ancora veramente le strade e quello che sta per esserne cacciato; lo sport in cui il rapporto tra strumento (elementare) è più complesso e inestricabile e insieme più facilmente osservabile. Lo sport che non esiste per l’occhio dello speatore fermo nella strada (che pure rimane a guardare magari oggi anche per rivedersi mezzora dopo nella sintesi televisiva delle fasi finali della corsa). Sport, come tui quelli professionistici, che sopravvive per gli interessi economici degli sponsor (e per rare passioni). Come tui gli sport, immagine scolorita ma fisica, materiale e percepibile dell’utopia di una gerarchia giusta di valori, di un luogo in cui il valore si afferma, in cui la quantità e il misurabile diventano qualità, un’utopia che già quarantcinque anni fa ha espresso il suo paradosso, il superamento e l’annullamento del valore-lavoro araverso la sua massimizzazione e implosione: il campionissimo Binda pagato (per manifesta superiorità), per non correre e non vincere, per non fare il proprio lavoro il cui valore non più commisurabile agli altri,
annullava la competizione, lo speacolo, il… mercato – di uomini, tempi, valori, cose alla lunga sempre sostituibili. Tornando rigidamente ai valori in campo: aenti ai nomi che potrebbero emergere alla fine delle see ore di speacolo colorato e anacronisticamente faticoso da Milano a Sanremo (più di 280 km): Saronni, Moser, Gavazzi, Baronchelli, De Vlaeminck, De Wolf, Nilsson, Hovewlingen, Escalassan, Russ, Knetemann (campione del mondo), urau, Van Calster: questo, per quanto riguarda gli uomini forti e in forma. Il che non basta, in una corsa-loeria, pure vinta tante volte dal “più forte”. Come ricorda Saronni: “È facile perdere la Sanremo arrivando freschi al traguardo, con tante energie ancora da spendere, inutili un centimetro dopo la linea per terra che segna il traguardo.” [“il manifesto”, 17 marzo 1979]
La rivoluzione copernicana della formula 1
“Il più grande speacolo del mondo” è oggi probabilmente della Formula uno. I circuiti sono veri e propri Maracanà automobilistici, il giro di affari pubblicitari è enorme. Anche nel paese degli speacoli totali, l’Eldorado statunitense, dove un gran premio era uno speacolo tra tanti e contava infinitamente meno di Indianapolis, l’interesse è in aumento. La “formula” tiene, il circo gira e le folle accorrono. Eppure il “padrino” del circo, l’inglese Bernie Ecclestone, se ne esce un mese fa con una proposta apparentemente delirante: entro due anni una telecamera su ogni macchina, per rendere più speacolari le trasmissioni delle corse. Per alcuni, è la sparata diversiva di un uomo che ha grosse difficoltà nel portare al vertice il trinomio Lauda-BrabhamAlfa. Ma è difficile negare la genialità e lungimiranza della proposta. Certo, raccolto nei pochi chilometri di un circuito, un gran premio sembra autonomo rispeo alla telecronaca, indispensabile comunque alle folle per seguire tue le “tappe” del campionato. Però è innegabile che da anni le gare hanno perso in credibilità e serietà tecnica, a causa proprio della sofisticazione tecnica. Sono note a tui le vicende di aleoni ventole e minigonne. Le macchine sono cocktail la cui riuscita appare tanto più casuale quanto più sono perfezionati gli ingredienti. I piloti ammeono che la qualità delle gomme e la loro resistenza conta più di ogni altra cosa ai fini del risultato. Lo speacolo non si sostenta più dei suoi aspei tecnici (già preponderanti rispeo al pilota), ma dei suoi imprevisti delle carambole, dell’incertezza che determina a volte la casualità dei risultati. esto già, avvicina la Formula uno alle caraeristiche dello speacolo sportivo professionistico americano. Non contano tanto i “miti”, le “imbaibilità” di mesi o di anni, conta che lo
speacolo sia elerizzante, al di là dei suoi protagonisti e delle sue comparse. Nell’ambito dileantistico-universitario la squadra di basket californiana dell’UCLA ha potuto restare al vertice per anni; in campo professionistico, il regolamento delle leghe prevede che la squadra ultima arrivata in campionato scelga per prima i rinforzi per l’anno successivo: i capovolgimenti dei valori sono piuosto frequenti e quasi previsti per statuto, quello che conta è lo speacolo del gioco più che il suo risultato. Il capitale investe sulla resa televisiva e speacolare dello sport, non sulle accidentalità interne e marginali del risultato. Ecclestone sembra avere una percezione acuta di questi fai; lo dice la sua proposta, per quanto pazzoide e magari tecnicamente di difficile realizzazione. Sui giornali sportivi, i puristi hanno già storto il naso, o gridato alla pura fantasticheria: il peso in più delle telecamere, le difficoltà di trasmissione, l’accento spostato dall’assistenza tecnica e agonistica all’apparire speacolare. Ora, per l’appunto, l’essenza della Formula uno è più che mai speacolare, ben oltre la passione per il feticcio tecnico o per la pura velocità (del resto, i bolidi dell’epoca di Fangio andavano più veloci). E Ecclestone “sa” che perfino uno speacolo da cento-duecento mila speatori “dal vivo” a boa non è nulla da solo, rispeo a quello che è o diventa la sua teletrasmissione. Si rende conto che le manie, le competenze, le passioni meccaniche di parte del pubblico contano poco, di fronte alle passioni ed emozioni dei milioni di telespeatori. L’improvviso collegamento, durante una telecronaca, col muso dell’auto di Andrei o di Reutemann, con una Ligier o con una Arrows, diraderebbe in apparenze di individualità l’effeo di gregge che dà sempre il gruppo dei bolidi, o diminuirebbe la noia delle immagini sempre uguali di un dominatore di giornata solo in testa in mezzo allo schermo televisivo. Anche gli ipertecnici avrebbero la loro: poter vedere più da presso lo stile di corsa di un pilota, seguirne il percorso in soggeiva.
E poi la proposta fa sognare, ha di per sé un simpatico effeo destabilizzante su un mondo la cui mitologia è singolarmente arretrata, poco al passo col suo stesso sviluppo tecnologico. Diciamolo: magari i gran premi verranno accorciati per motivi energetici, magari si andrà addiriura più piano; nessuno, in ogni caso, crederà più alla panzana delle corse utili per lo sviluppo delle automobili di serie. In questo campo, si sa, l’unico progresso sarebbe la “sparizione” distruzione o sublimazione dell’auto mangia-benzina (o altro). Intanto, vederla a trai sparire dal teleschermo come forma e silhouee oggeivata, a favore del tracciato del suo “occhio”, sarebbe già qualcosa. E i piloti forse misurerebbero la loro popolarità anche in base alle qualità di operatori autotelevisivi. Loro stessi e la macchina come supporto del teleocchio. Chi è più bravo ad abbordare una curva nel modo televisivamente più piacevole, chi “carrella” più dolcemente a trecento all’ora lungo un reilineo. Oggi, c’è poco da dire: incidenti a sbandate a parte, solo gli esperti possono apprezzare la differenza tra una guida pulita e una più irruente: domani forse si potrà gustare di più il rigore kubrickiano di un Lauda o il fiammeggiante e pericoloso lirismo di un Villeneuve. [“il manifesto”, 10 aprile 1979]
L’aria aperta fa male allo sport TV
ietamente saltellanti sui video dentro il Palasport di Genova venti giorni fa dinanzi a folle calcistiche, le motociclee del motocross indoor (trasmesso dalle reti Crex come già un anno fa, ma in dosi molto meno massicce) sono, insieme con i militari speaker della televisione polacca golpista, una delle immagini più realmente sconvolgenti, innovative, eloquenti dell’anno televisivo, cioè del telemondo 1981. Difficile infai cogliere elementi di novità nella flagranza televisiva del golpe Tejero o dell’aentato a Reagan; per il secondo, tanto poca fu l’emozione del medium che sulla Rete uno il film di Fellini continuò ad andare, per la sua strada, con la semplice aggiunta di scrie eleroniche informative; il telefilm “reagan” poteva aspeare, con i suoi replay che lo definivano in realtà esso stesso un replay. Le scarse immagini polacche denudano invece una semplice realtà del telemondo auale, fortemente legato ai centri di potere politico, tecnico, produivo. Il massimo che si può fare (telecomando o meno) è “collegarsi”, non produrre, inventare o per lo meno scegliere (nel senso di collaborare a costruirle, non di scegliere tra A e B) le proprie immagini e informazioni. Non è quindi più – forse – in televisione che vanno cercati gli effei o le immagini televisive. Nel “freddo” televisivo l’unico caldo comincia a essere quello del vuoto, del buco, dello strappo, dell’assenza di immagini (vedi Vermicino), dentro la quale è più facile vedere presenze di poteri e soggei precisi che decidono di non mostrarsi o di non mostrare. Il motocross indoor (già diffuso negli Stati Uniti e ora inaspeatamente apprezzato anche da noi) è un segno ulteriore del traamento televisivo preventivo cui viene sooposta la realtà, trasformata in un reale senza più confini
precisi senza neanche bisogno di entrare dentro lo schermo. Indoor, televisione: un doppio “dentro”, un gioco di interni che si contengono e rimandano a vicenda. Un avvenimento “indoor” è certo più sicuramente riprendibile dalle telecamere, ma ha anche già una forma televisiva ha la qualità “domestica” della televisione applicata a una realtà topologica e urbanistica più grande della “casa”. Il luogo prescelto diventa direamente set, studio televisivo, oltre che ambiente chiuso, di proiezione concentrata e di massa, come un tempo era il cinema. Non è un caso che il luogo prescelto diventa direamente sport (anche quando non si traa di sport). Oggi il cinema esce, ovunque, cerca di andare a Massenzio. Lo sport, esercizio fisico da sempre legato anche al “contao con l’aria aperta” si rende invece sempre più indoor (generalizzando la “palestra” già necessaria per motivi di confort climatico). Las Vegas e l’Astrodome di Houston sono i centri mondiali di questa tendenza, che in alcuni sport, come il pugilato, potrebbe già largamente prescindere (lo fantasticava anni fa Eco per il calcio) dalla flagranza del pubblico per puntare tuo sulla trasmissione diffusa (in Italia accadde col patetico “secondo esordio” del vecchio Mazzinghi, avvenuto sul ring di un piccolissimo studio televisivo privato deserto). Ma questo è già avvenuto, in ogni seore del trasmissibile. Nel motocross indoor a ciò si sommano altri soili effei perturbanti e “spaesanti”, specie quando ci si rende conto che già anch’essi non ci turbano quasi per nulla, già compaati e acceati dalla percezione sociale. Gli sport motoristici si svolgono ormai in gran parte su set fissi e limitati (lo stesso accadrà al ciclismo? che ancora mantiene con uguale ufficialità l’indoor e l’outdoor…) che potrebbero diventare (risolti i problemi di rumore) del tuo interni; il circuito di Indianapolis potrebbe essere il modello di un automobilismo indoor. L’ambiguità del motocross indoor va molto oltre il progressivo internamento degli sport maggiori già sancito dalle Olimpiadi di Monaco 1972 dove le prove di atletica si svolgevano in uno stadio già largamente coperto, e che
furono portate a termine (nonostante i morti israeliani e arabi) per l’enormità economica dell’impegno televisivo mondiale (lo stesso che ha boicoato il boicoaggio di Mosca: l’Olimpiade non si svolge in quel luogo, ma dentro i televisori dentro le case). Motivazioni di comfort, che sono poi le stesse che garantiscono le precisioni di un appuntamento televisivo, hanno favorito lo spostamento dall’aperto al chiuso di sport anche “naturali”, tendendo a eliminare casualità topografiche o atmosferiche. Comfort, lo stesso che c’è in casa, deve essere ovunque. È in questa direzione futurista che si muove l’insieme della società. Sicuramente quello della casa è oggi il problema politico centrale, proprio in quanto diventa il principale problema dei media mentre esplode la questione dell’homevideo. Anche il luogo e l’avvenimento che vogliono accentrare su di sé una presenza fisica dello speatore sono costrei a porsi nello stesso campo, a riprodurre parte del comfort e delle regole domestiche (perfino “in televisione” – cosa c’è del resto di più indoor della TV? – si veda il larghissimo successo dei “saloi” non più “rispecchiati” ma direamente prodoi in studio la domenica pomeriggio in sostituzione – più che in diffusione – di un saloo che di fronte al video non esiste più), a inseguire la contrazione domestica dello spazio e del tempo di tua l’esperienza del vivere. Il fascino un po’ “selvaggio” e “naturale”, del motocross, l’aria aperta mescolata con la puzza dei gas di scarico, i salti vertiginosi che si stagliano per un aimo contro il cielo, il fango, la pioggia, perdono di fronte alla “coda”, per raggiungere la pista in campagna, e la comoda tribuna di palasport, con aria regolarmente “filtrata”, col fondamentale rumore ancora intao e anzi arricchito di echi inediti (che comunque chi sta a casa può annullare e ridurre a un ronzio di cavallee). Il motore, esemplare prodoo industriale, torna così a casa, riportatovi dal cavallo più agile su cui era stato posto e dalla rivoluzione eleronica. Raggiunge i cavalli, i fiori, le fiere di qualsiasi prodoo vendibile e mostrabile, i congressi dei partiti politici, dopo il lontano e perverso tentativo di Leni Riefenstahl, Il trionfo della volontà, per fare della
celebrazione nazista un avvenimento né indoor né outdoor, ma puramente immaginario e wagneriano, tra luce e ombra di cinema; proprio la stessa regista fece il film di Berlino 1936, Olympia, e negli anni seanta – con una punta nello splendido Perché un assassinio di Pakula – più volte lo stadio coperto è divenuto nel cinema americano il luogo del gioco politico. Tuo si richiude e tende a trovare un suo posto e un suo tempo preciso dentro pareti e limiti: palasport, televisore, casa. Con situazioni TV al quadrato in cui dentro una motorhome (un bel nome) – magari posteggiata come quella di Charley Varrick – si può vedere in TV Punto zero. O con paradossi per cui nella gita sui prati si può fare una pausa per guardare sul televisorino portatile il motocross indoor, o sostituire col micro-TV il paesaggio nelle lunghe traversate autostradali. Più probabile però – se già nel 1968 Kubrick portava indoor la fantascienza nel finale di 2001 e oggi fa di nuovo un film tuo indoor con Shining – il traguardo beffardamente già visto un aimo in Anche gli uccelli uccidono quando alla fine Bud Cort col suo aquilone andava a schiantarsi al centro dell’Astrodome di Houston: il volo indoor, culmine di una ricostituzione del mondo soo-cupola, compreso il cielo. [“il manifesto”, 30 dicembre 1981]
Carl Lewis, terra promessa tra 11 cm.
Euforico certamente fu il millenovecentosessantoo. Viene in mente oggi leggendo sulla patente o sull’assicurazione che la scadenza è nel 1984. Non scadono invece i record, che bauti, superati, proprio allora diventano storia. Un solo record (di atletica) ci è rimasto intao dal 1968, a prolungarne l’aimo. Oo metri e novanta, salto in lungo, Bob Beamon, americano. Più che l’immagine in movimento (erano le sere in cui si faceva tardi alla TV, anche per Gentile non ancora Giasone pasoliniano al salto triplo) si ha in mente la fotografia belluina come di un’energia bloccata fino a mangiarsi da sola (ma, come dice Errol Flynn/Custer a Arthur Kennedy: “La gloria, te la porti dietro”). Folle agitate e disperate, carri armati nell’estate dopo la primavera a Praga, sembrava il disgelo/rianimazione delle immagini ungheresi di dodici anni prima. Cohn-Bendit col suo riso sfrontato (“Nous sommes tous indésirables”). Dick Fosbury che ancora sembra innaturale visto fermo con la schiena che passa sull’asticella vincendo l’alto; oggi moltissimi (specie i meno dotati) saltano come lui, ma la sua fu un’incredibile rivoluzione solitaria, una forma del 1968 che ancora resta e forse andrebbe praticata di più anche in altri campi: saltare come gamberi, andare avanti e in alto ma guardando indietro, noncuranti quasi dell’ostacolo e fissando il “passato” di cui il gesto atletico presente prepara in controcampo il futuro; un movimento che a metà muta e si complica, resta naturale diventando tecnica evidente. Fosbury vince senza record, imperdonabilmente nell’euforia drogata di Messico 1968.
Un ragazzo nato nel 1961, Carl Lewis, si è avvicinato pochi giorni fa per l’ennesima volta (8,79) a Beamon: probabilmente ha fallito: i nove metri solo perché ha voluto vincere tre gare (100, 200, lungo) ai campionati Usa di Indianapolis, avvicinandosi d’un balzo anche ai 19.72 di Mennea. Continua la celebrazione di Beamon, questa rincorsa al suo record incredibile (si pensava potesse durare fino al 2000) e forse casuale, così precisamente e beffardamente 1968 nell’aerrare a così poco (dieci centimetri) da una misura tonda da utopia, sostituendola e dandole un valore di scadenza aritmetica “naturale” come i cento metri verso cui tende il giavelloo. Atletica e sport “naturalmente” sono utopia e storia. Non utopia nel senso dell’isola morale e pulita (anzi!…), ma per il “sempre più spazio in sempre meno tempo” che il corpo lentissimamente percorre: come un bit eleronico al rallentatore che però tende a un cortocircuito, alla follia del giro del mondo in un secondo, al delirio dell’infinito percorso in un aimo luminoso come un raggio, al movimento talmente veloce da parere fermo nel tempo. E storia per come l’intrico degli eventi sportivi (con i suoi stessi “buchi” bellici) avvolge il mondo e i decenni del Novecento e gli anni della vita in una rete di segni, di date, dati numerici, nomi, mediante il doppio procedere dei record, delle prestazioni, delle performance, e degli eventi agonistici stagionali, i campionati. Giro, Tour, mondiali di calcio e di ciclismo, Olimpiadi, Milano-Sanremo, Wimbledon, sono feste e santi da calendario, e in più ritmano il tempo con mutamenti inevitabilmente “progressivi”, sempre di più e sempre più rapidamente (il fine/la fine della storia?…). Naturalmente il gesto del lunghista-velocista, come Carl Lewis, come Larry Myricks, secondo due volte a Indianapolis, è il più adao a esprimere il doppio sogno, in un passaggio dello stesso corpo dal “sempre più in là” al “sempre più veloce” mentre Mennea conduce una loa diversa confrontando i suoi “tempi” con quelli biologici e nervosi del logorio.
Lanciare se stesso in avanti, il proprio corpo di uomo come arezzo, solo il vuoto davanti a sé nell’ebbrezza, senza sapere, se si è “soggeo o oggeo”. E aspeiamo allora la terra promessa (per il 1984?) mancata da Beamon, i nove metri che cancelleranno 8,90, l’unità di misura del sessantoo. Solo undici centimetri la distanza dal mito, meno dell’immagine che su un giornale fotograferebbe il record. [“il manifesto”, 3 luglio 1983]
1984 – Le Olimpiadi, la domenica sportiva
el che l’occhio non vede. Un mese fa, alla Domenica sportiva, Bersellini allenatore della Sampdoria affermava, dopo che la moviola aveva abbastanza platealmente mostrato un fallo da rigore (non concesso) ai danni di un suo giocatore: “La moviola dimostra forse il contrario, ma io confermo l’opinione che ho dato alla fine della partita dopo averla vista dalla panchina: non era rigore.” Non è solo l’onestà della dichiarazione a colpire, ma l’istanza soggeivistica che rivendica la propria “oggeività”, senza il becero argomentare del giornalista al Processo del lunedì. Oggeività del gioco e della partita come evento chiuso che determinerà comunque un risultato e in cui tuo si inscrive allo stesso titolo e nello stesso tempo, senza che sia dato “un altro tempo”, un tempo supplementare per pesare, sceverare, decidere e modificare: la cecità, la svista, la distrazione colpevole o innocente dell’arbitro, il gesto atletico del giocatore, le condizioni del suo corpo e del terreno, l’intesa con i compagni, gli schemi, l’eventuale gioco contraffao di un contendente corroo o sleale, il calore o la freddezza del pubblico. Che la moviola, strumento di informazione e speacolo, estensione moltiplicazione distorsione del set sportivo, venga spesso assunta propagandata invocata come mezzo più preciso e definitivo di giudizio, occhio superiore e unico di un’astraa giustizia-polifemo, indica un travisamento completo del fao sportivo, un’incapacità di percepirne i tempi i ritmi la presenza. Gioco e competizione si dilatano e continuano sul paradigmatico e spoglio set televisivo che è la moviola, in cui, come poi in ogni trasmissione televisiva, in ogni direa, il testo (la performance sportiva) diventa immediatamente anche paratesto (è ciò che del resto avviene anche, felicemente, al film in TV), interno al testo, stiramento di esso.
[inedito, senza data]
Seul, dieci secondi di contatto
Senza l’obbligo doloroso di rintracciare o denunciare le “responsabilità” (ma anni fa non fu proprio il Messico a protestare formalmente per un ciclone destinato agli States e forse deviato con espedienti da “guerra metereologica”?) il ciclone (Gilbert, nell’ultimo caso) ha il pregio surrealistico di rimescolare i segni del mondo meglio e più imprevedibilmente che dieci biennali d’arte (a proposito, cosa dice il cartello ritornante ossessivo nella splendida centrifuga della boega mentale Jasper Johns sempre alla Biennale di Venezia?: “Pericolo di ghiaccio”? o “Caduta di ghiaccio”? o “Aenzione valanghe”? Non ricordo, e a quest’ora – le sei del maino – non mi soccorrono né cataloghi né amici). Aerei, non schiantati ma appoggiati quasi integri col muso per terra, un’ala impigliata negli alberi; navi approdate accanto alla villea a due piani in mezzo a una pianura. Judy Garland che naviga nel cielo biancoenero da documentario dentro la casa sradicata dal tornado nel Mago di Oz. Facilità, velocità, spostamenti improvvisi e inaesi (l’incubo visivo delle cià texane inutilmente vuote mentre i vortici impazzano altrove deviando) delle cose e di sé. Spazio reinventato dislocato annullato, assemblaggi inediti, scambi di set, quasi una compenetrazione dei corpi (ma di quella abbiamo altri esempi, come nella continua microcatastrofe che stratifica negli asfalti gomma e laine e tappi e lembi cartacei e gai morti – avete mai guardato con aenzione un asfalto…? Magari con gli occhi stralunati a terra dopo un incidente…). Ieri (l’altro, per chi legge) mi sono accorto di aver gridato verso la macchina in movimento di un amico (che non avrà capito): “Ricordati stanoe alle cinque e mezzo, i dieci secondi…” Il lapsus sulla gara del ciclone Johnson e
dell’enigma Lewis alludeva naturalmente alla barriera mitica decimale perfea (100 metri/10 secondi) abbauta nel sessantoo, già prima delle gare di Messico, in una cià giustamente chiamata Sacramento. Non so quale sia stato il risultato di ascolto televisivo dei 100 metri. I (quasi) dieci secondi più pubblicizzati dei giochi, lo spot olimpico per eccellenza, un’Olimpiade in dieci secondi. Per me, uno degli istanti che comunque non avrei perso, uno dei pochi appuntamenti con la direa all’interno dell’evento-Olimpiade che in questi giorni pervade pigramente i palinsesti televisivi, con particolare pigrizia e senso dell’ascolto) nella regione televisiva centrale (gli Stati Uniti) che con i suoi orari di prime time ha provocato le levatacce europee. Dieci secondi di contao (anche doloroso: fuori da ogni discorso di “simpatia” – nessuno dei due è né può essere “simpatico” – la superiorità di Lewis mi appare sublime, proprio al limite più forte degli altri, facile bellissimo a vedersi, irridente nel vincere magari di poco, in ognuna delle sue specialità; eccezionale invece la superiorità della macchina Johnson – Johnson boia Johnson boia…: “mostruoso” – e quindi quasi incredibile e “interessante” – il distacco, come lo era nei troppo ampi margini dei miglioramenti moseriani all’ora di Merckx). Il resto, un continuo panorama di gare, senza appigli obbligati. Colonna visiva, solo in Italia almeno quaro canali con la “direa”; e poi la rotazione delle differite: olimpiadi a flusso. Ma l’Olimpiade è il contrario del flusso, è il geo, è il soffio o soffione, è l’intermienza e la scansione, era addiriura l’orologio della storia. Non è solo lo sfasamento temporale a far sbollire la tensione. Non è solo l’invecchiamento o l’adultizzazione del proprio tempo (forse) a impedire la partecipazione violenta dello speatore (penso a me: al primo mese di liceo con le noi occupate dalle grandi gare messicane, al dolore osceno temendo l’interruzione a Monaco dopo gli aentati, alle noi ancora per la boicoata Los Angeles). Proprio l’organizzazione che cerca di ovviare agli inconvenienti di fuso orario ammorbidisce le passioni, risfasando le sfasature stesse, ridimostrando che la direa non esiste; forse in un
gioco di menzogne – oggi che siamo abituati alle diree via satellite con luoghi/set dove la luce è totalmente diversa da quella fuori dalle nostre finestre (com’era artificiale e al neon ai giochi di Seul poco fa nella noe) – sarebbe più follemente “vero” e intenso mandare per esempio le finali di atletica nelle ore in cui si svolgono a Seul (alle dieci di maina nostre per una finale delle dieci di maina…) e non in un’illusoria “contemporaneità”. Nei palinsesti TV si ricupera solo il gusto della défaillance (del resto così diffusa in questi giochi) e dello sconcerto soile per la difficile orchestrazione del contemporaneo, dello sfasato, del replicato; come essere sul treno e fermarsi due volte di seguito alla stessa stazione. E non a caso, ancor più che in passato, gli invitati sul posto a Seul patiscono la stessa sfasatura riguardo allo spazio (in gran parte non vissuto da loro ma televisivo), non padroneggiano il set, non si accorgono di un exploit a pochi metri dalla gara che stanno seguendo… Solo la catastrofe, ancora, buca o ferma il flusso. Per questo, in Italia, benedeo lo Zambia: più che lasciare aoniti, la sconfia nel calcio rilancia l’interesse, fa spalancare gli occhi, forse sarebbe “in direa” anche replicata stasera. E lo sciopero, anzi gli scioperi alla Rai, quelli auati e quelli minacciati, con la mancanza reale o temuta a riaizzare voglia di Olimpiadi. I giornalisti che recedono dallo sciopero, forse anche perché la messa in onda nuda dello sport (solo rumori di fondo e scrie) davvero rischierebbe di far scivolare un po’ del manto giornalistico steso sul mondo (e, come sempre, se volete sentire i rumori, l’incrociarsi dei fioreisti, le bracciate frenetiche, le falcate baenti, lasciate un po’ le voci anche sapienti delle telecronache Rai affiancate alla tosatura inaudita del suono di fondo: dedicatevi allo sport warholiano soffice e disturbante e sempre più diffuso in futuro del cambio di canale sulla stessa immagine cambio di grana, di definizione, di luminosità, di audio, a volte di colori, mentre qualcosa persiste).
Avvolti dal cellofan olimpico che non lascia traccia, solo togliendo riusciamo davvero a vivere quello speacolo sfasato (ricordo ora sempre i 100 di Johnson e Lewis ai Mondiali di Roma, che passammo muti – neanche un rumore – nel corso di una delle diree da Venezia-cinema: vedo in questi giorni gli speciali di Vent’anni prima – sempre Raitre – dedicati alle gare messicane ricuperate negli originali riversamenti a colori di un’Olimpiade, che vedemmo tui in bianconero: gare con i soli rumori di fondo, integrali, anche noiose, a volte, ma affascinanti come un acquario; a loro volta “sfasanti”?) Intanto, mentre i rudimentali gemiti delle differite bloccate spesso in fermo fotogramma titillano l’orecchio abituato al tappeto sonoro, nel televisore di questi giorni olimpici si insinua un virus; prima è senza dubbio il mio, difeoso, a mostrare in filigrana su una delle scene di Ultimo tango una scria e poi le silhouees dello spot sull’Aids: e ieri noe, qualche ora prima dei 100, alla fine di Messaggio d’amore, il miagolato riavvolgimento del nastro con lo stesso spot velocissimamente trascorrente. Encore, direbbe Vecchiali. Ma stanoe è un altro tempo, finisce l’ora legale. [“il manifesto”, 25 seembre 1988]
Nell’occhio cieco del velocista
Cosa vede il velocista nei suoi centometri senza respiro. La pista, lo sfondo dello stadio, la folla, il “filo” imperceibile? Nella vera e propria “deprivazione sensoriale” (cosa ascolta, cosa percepisce, cosa avverte nel palato?), nell’apnea mentale della concentrazione, non sarà simile a un falcone bendato? È stato magnifico vedere il quasi ridere disteso della Griffith nel momento in cui il suo corpo sembrava portarla; o il sorriso ironico trionfante quasi tronfio di Johnson dominante; o Lewis prima guardarsi a lato vinto poi continuare senza (riuscire a) spingere composto trasportato da un tappeto – “figlio del vento” – e ancora nel sorriso incomprensibile che lo conferma per la prima volta, nei 200, grande vincente perdente. “Non lo vedevo,” dirà senza scusarsi Lewis nella finale persa da Johnson. “Non lo vedrà,” aveva deo prima della gara Mennea in TV, indicando il sorteggio in corsie distanti; come possibile vantaggio per lo sfavorito ma superpartente Johnson. Che la gara più aenta e vista delle Olimpiadi (per me, nonostante la delusione, di lì si sono riaperte le noi olimpiche bianche) sia anch’essa in qualche modo una gara cieca, nascosta ai suoi protagonisti, dice molto sulla forma della performance sportiva, modello di altre performance. Neanche il campione padroneggia il set della sua azione, e anzi l’olimpiade mostra quest’anno, come tue le grandi competizioni sportive degli anni oanta, l’incapacità dei campioni o dei favoriti di essere pari al proprio nome. Ritardo sull’immagine, ritardo sulla propria ombra, da Biondi a Grosa a Lewis a Aouita alla Kostadinova agli USA basket a Reynolds allo stesso Johnson in ritardo sulle proprie (o altrui) scelte chimiche. Il loro essere, appesi e affidati a un automatismo sublime del corpo intero li espone alla parzialità della
situazione di gara. Lo sguardo simultaneo dei primi vicinissimi arrivati nelle gare frenetiche di nuoto, dopo l’arrivo mascherato dalle schiume, è per il tabellone, a vedere chi è arrivato primo: spesso il vincente non lo sa, si rivolge all’eleronica oltre l’orizzonte cieco della vasca. A stento la moltiplicata visionarietà eleronica occulta la simile posizione dello “speatore olimpico”. Spesso le olimpiadi di Seul (Seul? Non è Marte, questo intrigo di corsie rosse e azzurre e campi e pedane e ring nibelungici e arezzi e recinti bersagli limiti traguardi di ogni tipo che cola nella noe?) ci mandano immagini poco chiare, la parallasse continua a salvarci dall’esaezza, le voci confondono i nomi (premonizione del rimescolamento di carte – dal Suriname allo Zambia – ricordo uno stentoreo telecronistico cross per la testa di Abdul – non è il titolo di un romanzo? – dai Mondiali di calcio messicani: andai a controllare la formazione dell’esotica squadra, intrigato dal nome, che ahimè non esisteva…). Le riprese stupende dall’alto, perpendicolari sul ginnasta o sul tuffatore o sui pugili, o in linea sull’asticella dei salti (non “in alto” ma “verso la telecamera”), inibiscono il giudizio, mutano l’emozione: c’era un’inquadratura dalla quale i tuffi di Louganis divino erano costantemente meno belli di quelli cinesi; perché i giudici dovevano contrastare quell’immagine o punire la mediocre ginnasta americana o italiana che vista da un cosmico alto era la più aggraziata e audace di tue? La questione della regia (anche in direa) si impone su quella della messa in scena, è la metafora dell’indicibilità indecifrabilità invisibilità olimpica. Nelle parti più straordinarie di Olympia lo aveva capito Leni Riefenstahl, sempre a tagliare i finali dei grandi esercizi ginnici, a passare da un corpo all’altro librato nella stessa sospensione allucinata senza farci vedere l’uscita la chiusura l’entrata in acqua. Perforata l’unicità del salto di Owens che – in aesa di simulazione – abbiamo sempre visto in quella sola inquadratura, perché non ci è data allora la panoramica dal
basso dei quasi record di Lewis, perché piste e pedane non sono di vetro soffice e rimbalzante, tuo permeabile dagli sguardi? Perché non affrearci a vedere tuo, visto che le performance proieano in una fantascienza in cui non ci sarà più nulla da vedere, dopo i cento metri in un secondo (godibili solo al ralenti?) di mister X diafana palla di muscoli nel 2775, dopo l’esercizio “al cavallo con maniglie” in cui le difficoltà sono già adesso “invisibili” rispeo agli stessi movimenti che ricordo calibrati e lenti nei Menichelli negli Shaklin nei giapponesi anni sessanta. Gare di velocità telecinetica tra atleti seduti, o chi riesce a tornare più indietro nel tempo in venti secondi (o in duecento metri…). Intanto, in aesa della mutazione della macchina-uomo, già dentro di essa, nell’angolatissima poltrona di terza fila nel cinema affollato vedi Frantic, socchiudendo in frazioni di secondo gli occhi olimpici stancati e ritrovando Harrison Ford che si risveglia o ciondola dal sonno. Ti sembra bellissimo il film, per lungo tempo, nello sguardo faticoso e diagonale: Ford è più replicante e “fama” che in Blade Runner, e per tuo il film, tra stasi accelerate magnifiche e accelerazioni a vuoto, ti ricordi l’inizio stupefacente, quell’ingresso autostradale parigino dall’auto come in soggeiva e poi su esso sovrimpressi i volti di lui e lei che dal taxi guardano quell’immagine, sovrimpressi i controcampi in uno specchio inesistente. el desiderio di diventare pellerossa che anche in TV vorrebbe farti entrare nell’occhio cieco del velocista o del dio che si tuffa. [“il manifesto”, 3 oobre 1988]
Vedersi/sedersi
ando Michael Johnson taglia ad Atlanta il traguardo dei 200 metri col record incredibile, avviene un piccolo fao straordinario. Riesce mentalmente a “guardarsi vincere”, lanciando uno sguardo a sinistra, verso il tabellone eleronico col suo 19.32. La percezione del record è istantanea, da record la velocità con cui l’evento si scioglie subito nel suo “recordarsi” e sapersi da parte dell’eroe. asi normale nelle corse più lunghe, nelle gare (anche in biciclea, in automobile) in cui la costruzione del trionfo ha il tempo di includerne il godimento di sé e la gratificazione della propria forza e superiorità, tale proiezione di sé nel luogo di chi guarda da parte di chi è guardato è rarissima nelle performance della velocità concentrata e esplosiva. Non di rado (e non solo nei casi in cui la differenza di un centimetro nel presentarsi della spalla al fotofinish scinde le posizioni all’arrivo, come nei centometri femminili di Devers e Oey) il velocista non sa subito neppure di aver vinto, correndo in una concentrazione tale da escludere la vista (e quando gli atleti sbirciano ai lati la cosa appare tanto evidente nei replay, e stridente, da far pensare che abbiano aeso una finestrella imperceibile e brevissima per spiare al volo gli avversari). Costreo alla stessa incoscienza beata e angosciata dei ginnasti e dei tuffatori, che possono solo sentire la propria immersione nel corpo e quella di esso in una forma quasi astraa (il corpo diventa negli esercizi il calco di una forma che pure senza di esso non esisterebbe). (Dei tuffatori invidio e immagino – anche mentre lo intravedo nelle stupende riprese subacquee – il momento in cui dentro l’acqua, lontanissimi dai giudici che daranno loro i voti tra pochi secondi, avvertono il proprio giudizio stesso come una spoglia solubile in una memoria precisa ma amniotica e fluuante).
Al culmine dello sforzo, Johnson non si ferma ma si siede accanto a noi in poltrona, si gioisce si applaude si commenta. Raggiunge nell’aimo l’agio che la sua corsa magnifica e sforzata non sfiora, ma sorprende invece in questo la corsa nea di spada e il percorso di palloola di Donovan Bailey vincitore dei centometri. L’utopia olimpica si svela non tanto e non solo quella dell’agonismo pacifico, di altissima finzione fisica nonviolenta della guerra, ma soprauo della forma, del raggiungimento concreto della forma astraa. Essere in forma. Uno stato di grazia, descrio da tui come quello (amoroso?) in cui quel che si vede e si vuole fare riesce senza sforzo, come effeo naturale di sé; e quando c’è, lo sforzo stesso, anche il più teso e terribile, è aeso e necessario, richiesto dalla forma vuota che deve riempirsi di sé. Oltre gli allenamenti pesantissimi (che spesso allevano atleti polli di baeria) e l’ideologia miserabile della “cura di sé”, un modo raffinato e immediato di contao col motore decentrato che ci abita, probabilmente il direo e raro riconoscersi di esso, come un’accelerata priva di senso, o un salto per aria senza nulla da saltare. Solo qui, e negli stati opposti di disaccordo con i ritmi e le forme (dalla dislessia all’incapacità di guidare un veicolo), si avverte come l’eterno ritorno del “fermo in moto” sia istantaneo e allucinato, un’ipnosi in corso da millenni. Che ci fa paura, se dopo mesi di Ulivo fiorente la grande conquista di moralizzazione popperiana della TV è che a Domenica in (Domenica in! – fin dal titolo il trionfo dell’ipnosi quotidiana) non si vedrà più Giucas Casella, il mago delle ipnosi e delle performance che inquieta e preoccupa il dormiente padre (madre figlio nipote nonno zio) di famiglia. [rubrica Fermo in moto, “Smemoranda – Dire fare baciare”, oobre 1996]
Roma 2004: vivere “per sport”
Non è difficile, volando tra Atene e Roma, scorgere l’Albania. “Vuota” vista dall’alto, priva delle tensioni e degli scontri di questi ultimi mesi. Se si è avuta la fortuna di visitare Olimpia, o Delfi, viene in mente non tanto il vuoto ovvio dei siti archeologici (riempito dalla coazione turistica e dal piacere dei visitatori), quanto il vuoto allucinante, e profeticamente contemporaneo a noi, degli stadi, dei luoghi delle massime competizioni sportive dell’antichità classica. A metà tra la nudità superba o scorticata di qualunque monumento, e il vuoto assoluto, il deserto inconoscibile dei set delle grandi baaglie, da Maratona a Canne a Marengo alle spiagge dello sbarco in Normandia. Luoghi ascetici, dove il vuoto è quasi tangibile, perché furono puri contenitori di sforzo, di velocità, di forza e di fisicità mutate in astraezza e in gloria (e annientamento…) assoigliamento delle forme di vita associata, già “in vita” portate verso un ideale insieme assurdo e terribilmente onesto e esao rispeo agli schermi e ai valori e alle concrezioni e ai resti di tue le altre istituzioni civili. Accade che Atene e Roma siano in competizione per ospitare le Olimpiadi del 2004. E che i Mondiali di Atletica, ormai portati a una frequenza biennale per mera necessità economico-politica (gli sponsor…) e non certo per esigenza degli atleti o del pubblico (vedi i molti vuoti sugli spalti anche per gare prestigiose e aese), appena conclusi proprio a Atene, abbiano mostrato come massimo momento agonistico (a parte uno sprint di Marion Jones, un salto di Bubka, un nullo di Pedroso e poco altro) proprio lo scontro tra le due candidature. Roma ha nel cuore le Olimpiadi del 2004. alche mese fa, incontrare questo slogan (non so se più fantasioso o
menzognero, comunque pura propaganda) sulle fiancate degli autobus, nel traffico caotico per alcuni pur semplici e modesti lavori pubblici, non poteva non incoraggiare variazioni scurrili. Oggi, si avverte o ci viene fao intendere ovunque, la popolarità delle Olimpiadi presso la ciadinanza (i romani) è altissima, come quella di Rutelli sindaco e principale alfiere del futuro evento. È subentrato forse addiriura un orgoglio, uno spirito di corpo. Trovo che ha fao bene il più fiero degli oppositori pubblici del progeo, Ernesto Galli della Loggia, a baersi contro. E ho sempre trovato troppo ingenua o troppo cinica la posizione di diversi benintenzionati sostenitori: le Olimpiadi (insieme col Giubileo, lui piovuto dal cielo e dal Vaticano senza bisogno di scontri planetari: merita altro discorso) sarebbero l’occasione per migliorare il volto della cià, per dotarla di servizi che certo (in un paese “civile” o “normale”, scegliete voi il meno vieto dei termini) non dovrebbero essere legati a eventi straordinari, ma almeno… Ma (davvero). “Perché, babbo, tu e la mamma e le zie e Martina (sorella più grande) siete contro le Olimpiadi? Dice che distruggeranno la cià; ma non sono una cosa bella le Olimpiadi?” Non mi è stato facile rispondere in modo non complicato e ambiguo alla domanda di mia figlia (oo anni). Forse perché si ricordava – che so? – dell’estate di un anno fa, quando in vacanza con lei in montagna mi giocavo intere noi di sonno per seguire in direa Michael Johnson ma anche gare minori o non memorabili. (Anche) per questo mi pare che gli argomenti semplicemente “civili” e educati e correi e di pura convenienza di buone maniere e di spesa non possano che risultare e siano anzi già risultati perdenti. Lo stesso ultimo sacrosanto articolo di Galli della Loggia (sul “Corriere” di ferragosto), sulle scandalose e insieme mediocri magagne di malcostume politico finanziario del CIO e dei singoli Comitati Olimpici, non scalfisce minimamente il vaghissimo e confuso bisogno di certe ritualità sportive (come se i vari scandali di calcioscommesse o di partite rubate o aggiustate in Italia e nel mondo – o la costruzione di
supersquadre economicamente anabolizzate, costruite a colpi di decine di miliardi al supermarket – avessero minato l’appeal del calcio). E ricordo un mesto dibaito televisivo tra Galli della Loggia e Rutelli, tuo ancora giocato sugli investimenti, sul calcolo delle spese e dei ricavi reali, in cui il sindaco “piacione” pareva aver tranquillamente la meglio, pur non andando oltre ragionamenti del tipo “Ma perché criticare a priori? Perché questo accanimento? Una volta che si fa una cosa bella…”. Lo sport è minato, è vero. Dal doping (si pensi ai risultati bizzarri dell’oanta per cento delle corse ciclistiche degli ultimi dieci anni..), dal peso enorme degli sponsor. Dal suo stesso successo. Speacolo planetario, quasi sempre elementare (più elementare di qualunque film o talkshow) e di facile comprensione è in effei (proprio per il suo avvenire in spazi precisi disseminati un po’ ovunque) affidato integralmente alla diffusione televisivopubblicitaria. Le Olimpiadi stesse, appunto, che ogni quaro anni concentrano in un solo paese il massimo di “sport” possibile, hanno bisogno di traare e mercanteggiare in base ai fusi e agli orari nei paesi dotati di maggior peso economicopubblicitario dell’audience, per poter competere con l’olimpiade permanente che avvolge il globo ogni (venti)quaro secondi. Lo sport olimpico è fragilissimo. Proprio in quanto sport di vertice, legato per paradosso infernale alla celia decoubertiniana del “partecipare” più che “vincere”. Ma non è il contrasto olimpico tra aristocrazia (o oligarchia) e democrazia sportiva, il punto. Né l’evidenza capitalistica di uno sport che dà da vivere (professionistico); vivere grazie allo sport invece che “per lo sport”. Eppure forse è un ipotetico – e sappiamo quanto illusorio – vivere per (lo) sport a indicarci l’orizzonte presente in cui decidere, tentare, sbagliare forse. “Per sport”, “sportivo’; appena fuori dagli ambiti agonistici, sono definizioni negative, che indicano ingenuità leggerezza banalità faciloneria (già, come il mitico “dileantismo”). Come dire di una cosa “è da cinema”. Lo sport olimpico è nato proprio i soliti “cento anni fa” (quelli
del cinema, della psicoanalisi, dei raggi X, della radio, del volo…). esto secolo. Risibile utopia che però sceglieva subito una sede miticamente appropriata, Atene, e che sarebbe diventata un affare planetario. Ma anche, precisa come il cinema (e come il cinema non riconducibile a cronologie tecniche o a spiegazioni sociologiche), manifestazione della mutazione antropologica dell’umanità tua insieme ipoteticamente (da quella fine secolo) terribilmente o allegramente scissa sdoppiata travasata in speacolo. Sport (ma anche cinema; e musica e volo: tue cose “fragili” dal punto di vista economico-politico; come la pubblicità stessa, fragilissima e indefinibile eppure potentissima) come forma di vita. Forse insignificante e insensata. Eppure più vicina, nella sua ritualità vuota e (quasi) assoluta, nel suo fissare e scindere in competizioni gesti potenzialità aitudini e aspirazioni semplici o lambiccate, all’aesa religiosa di un senso, o ancor più alla libertà terribile o danzante dal senso, al farsi senso istantaneo. Più umanamente formalizzata, o più formalmente oltreumana (allusione a una vita sperale da inventare, a un’immortalità lieve), rispeo ai cicli del consumo (anche di sport, certo) che sono le stagioni ossessive della nostra vita auale. Non sto chiedendo “coscienza” o “volontà” di questo tipo, alla candidatura di “Roma 2004”. Né voglio librarmi in un empireo rispeo all’inferno di intrighi ricordato da Galli della Loggia. Vorrei che la “politica” o la triste arte del governare, accostandosi in modo così chiaro e prepotente all’idea olimpica (ma è stato di recente ricordato quanto la politica auale in tuo il mondo, faa di “squadre” più che di partiti, assuma sempre più linguaggi e modi dello sport…) riconoscesse e acceasse la sua propria insensatezza. Vorrei che Rutelli, invece di aggiungere un’aureola al proprio monumento mediatico di sindaco facendo di Roma la cià aperta allo sport del Duemila (e una cià più chiusa possibile a etnie e comportamenti difformi) meesse fantasia e bilanci
preventivi, ancora maggiore “sportiva”, nell’inventare forme di vita e convivenza per immigrati esteuropei e nordafricani. Che lanciasse pubblicamente queste sfide (avviandosi al prossimo mandato), che le rendesse entusiastiche e vitali, che in questo impegnasse risorse e energie più che nel convincere corroe oligarchie dirigenziali sportive della bellezza del rifare le Olimpiadi nella cià del Colosseo; lasciandoci in tuo prigionieri non di un sogno o di un mito, ma dell’oceano di denaro nero che rende il mondo un immerso deposito soerraneo delle banche (contrappeso dark dei moti del desiderio che forse assurdamente ancora ci agita). Dall’Albania alla Somalia (ma anche dalle immagini dal deserto terrestre-marziano ai deludenti Mondiali di Atene al successo dello svelto e pubblicitario meeting di Zurigo alla crisi della Federazione Italiana del Tennis… l’estate ci parla di questo. Subito prima dell’inizio di questo decennio immemore e pieno di celebrazioni e di ricordi, ci fu lo straordinario evento di piazza Tienanmen a Pechino. Gli studenti la pienavano, chiedendo genericamente “più democrazia”, ma in forma vaga, ingenua, “per sport” quasi. Il mondo assistee composto allo svuotamento violento e sanguinoso di quella piazza che sembrava chiedere (il) nulla. Nella vicinanza convenzionale della fine millennio, è l’ora di chiedere una piccola cosa “catastrofica”. Per esempio che non si proponga un gioco o un sogno o un ideale per giustificare l’esercizio del potere, ma che si renda una cosa bella e intensa (questa sì impresa difficilissima, opposta agli stermini automatici che ci aendono e già sono in ao) la sfida per vivere o rivivere insieme (senza “motivi” che non siano forse da intonare e cantare) questo “nulla” in cui arriviamo. [inedito, 1997]
Tutto il mondo è surplace
Come un altro dei miei amici su due ruote (Anquetil) di quando avevo dagli oo ai quindici anni (insomma gli anni sessanta), Antonio Maspes non aveva molto dell’atleta, visto in fotografia o in televisione. Poi, avrei imparato che nel ciclismo (e spesso in molti altri sport) la perfezione o la tensione apollinea erano rarissime tra i campioni, che infai dovevano la loro eccellenza a un mancarsi fisico, a un difeo, alla fame di una forma che era loro sfuggita da sempre (la grazia dell’immenso Merckx – non parliamo dei coppibartali… – non era anche nel suo fisico sgraziato?). E amavo poco, per dire il vero, la pista, il suo aspeo di furbizia e di destrezza circense; anche se il rumore delle ruote sul legno o sul cemento dei velodromi, tra sibilo e ronzio, librava la scena in una fisicità non epica come quella del ciclismo su strada (astrao, lontano, incommensurabile con le dimensioni dello schermo) ma ipnotica e di sogno. Tuo avveniva in TV, naturalmente. Maspes vinceva gli ultimi mondiali e in casa nostra era appena entrata la TV, feci forse in tempo a vederlo come avevo visto l’anno prima gli annunci della morte di papa Giovanni e di John Kennedy. Negli anni seguenti mi pare di averlo visto un sacco di volte (seguivo tuo lo sport in TV, anche i Giochi del Mediterraneo e le Universiadi e i triangolari di atletica e il caracollare distante dei trofei ippici lenti e improvvisi), specie nei duelli col neocampione giovane Gaiardoni, per i campionati anche (solo) italiani una volta che il traguardo mondiale iridato si fu slontanato nel crepuscolo. Sono invece certo di quale gesto – tecnico più ancora che atletico – resti per me legato al suono del nome “Maspes” (così strano fulmineo viperino, insieme ostico e scorrevole). Non il guizzo finale imparabile che lasciava insoddisfao
l’avversario come lo speatore non meno sorpreso, o lo scodare abile nel corpo a corpo che stirava a volte la linea del traguardo in un ring. Il surplace. La prodezza di annullare la velocità dello sprint, di rallentare per costringere l’avversario (quando partiva dietro) a passare in testa per poterlo poi rimontare, per poterlo “vedere”, preda davanti a sé; e se l’avversario non ci stava, ingaggiare il surplace, sfida sanguinosa di devastante spreco simmetrico allo sprint finale. Ferme le ruote, schiena inarcata, polpacci tesi; vietato muoversi per più di pochissimi centimetri; chi cedeva prima ripartiva in testa, spesso debilitato oltre che demoralizzato. Troppe volte mi è venuta in mente, per questa finemillennio estenuata protraa sfinita (in Italia e non solo) l’immagine del “surplace”. Sul posto. Negazione e infrenamento della velocità, scontro a perdere, guardarsi di sfingi (o anche, braccio di ferro grandiosamente burocratico). Apnea del movimento fisico. Maspes, in pista, ne fece un’arte (ricordo delle quasi mezzeore, anche se mi par di ricordare un record strabiliante di Giordano Turrini in un campionato minore). Per noi oggi (se c’è un “noi” oggi) è una prigione trasparente e invisibile, una sfida lanciataci nonsisadachi, una sospensione nel troppopresto troppotardi della storia come a rinviare lo scao il soprassalto la fine l’infarto; a farci sospeare che tuo davvero si giochi stando sempre fermi (o fermo) e che il movimento sia solo un’illusione filmica un déjà vu uno scollarsi… [“La Stampa”, 22 oobre 2000]
Giochi (insoddis)fatti
Un uomo senza gambe, o un uomo con supergambeartificiali leggerissime elastiche, corre dietro alle olimpiadi e le raggiunge infine. Fortissimamente voluti dai cinesi (con inizio nel giorno fatale 8-8-2008), si avvicinano i Giochi Olimpici, preceduti (un po’ come quelli del 1968 messicano, col salto immane di Beamon e quello di Fosbury all’indietro, meno bello ma inizio di uno sbobinarsi del palindromo Sessantoo) da una serie di eventi marcanti, dalla crisi tibetana al terremoto del Sichuan. E premono e si affollano altri appuntamenti sportivi di punta, gli europei di calcio, e tornei e finali di ogni genere. Risultati, doping; i risultati drogati. Le voci di una formidabile leva e selezione e preparazione quasi eugenetica di tua una generazione nascosta di atleti cinesi pronti a esplodere nelle varie discipline. Grandezza (anzi, grandeur) e decadenza dello sport. Dissoluzione della mens sana in corpore sano. I giornali francesi rigurgitanti critiche e bilanci festivalieri da cannes danno spazio inusitato ai ritiri anticipati alle anoressie alle nausee dei tennisti del “circuito”. Finalmente, uno psicologo del seore lo afferma chiaro: uno sportivo che sceglie di diventare un atleta di vertice è già un disturbato mentale, lo si può solo aiutare a convivere col proprio squilibrio ossessivo. (E la patologia, flagrante o mascherata, è facilmente decifrabile quale motore di quasi tue le personalità di rilievo riconosciute in qualunque ambito, che acceano di farsi riconoscere o lo cercano e sollecitano apertamente). Mai come nello sport l’inganno del tempo mostra il suo meccanismo. Il ciclo olimpico dei quaro anni è follemente e teneramente improbabile artificioso arbitrario. Affermazione di un presente già svanito, del peso di una performance apertamente teatrale, quel giorno quel luogo quei dieci
secondi quel gesto quella (dis)misura per essere nel libro d’oro. Sappiamo bene (e lo sentiamo, nel fruscio del nastro che si riavvolge all’indietro col doping quotidiano di tua la società umana) che i Giochi sono un puro paradosso, un anacronismo programmato, nel mondo in cui lo spostamento nello spazio di qualunque atleta/aore è diventato cosa automatica, e la telecomunicazione già sfuma nel teletrasporto. Il confronto è continuo, decidere che quello olimpico sia il più importante è ao di pura astrazione, che vale non di per se stesso, ma solo perse stesso. (Sempre più il vincitore delle Olimpiadi è solo il vincitore delle olimpiadi, e non il vincitore dei vincitori.) La “vera” olimpiade sarebbe allora quella permanente, un incrocio di tui gli incontri le partite i record i risultati i campionati, una classifica delle classifiche sul modello dei listini di borsa. Giorno per giorno l’economia dello sforzo, lo stato delle prestazioni fisiche e della salute insana di singoli e squadre, in un campionato ininterroo, “digitale” nell’esser fio di mutazioni minime continue. È già così. Lo dicono la testata del campione modello zidane; e le scosse le isterie i mancamenti degli atleti di punta, sempre troppo avanti o troppo indietro, ipo/iperallenati, slianti nello sforzo di tenere difendere raggiungere una posizione; mai semplicemente “in forma” come ancora posso e voglio illudermi fossero e siano un rivera o un crujff per un istante presenti fermi/in moto nell’essere se stessi solo nel ritmo di (un) altro. Lo dice la forma “sport di tui gli sport” che è lo speacolo, lo racconta l’ultimo (non)film dei Wachowski, Speed Racer, già rubricato per ragazzini e infai più filosofico di Matrix, ce lo ripete il “risultato” del festivaldicannes, trionfo dell’usura della realtà, del trucco della realtà che sfuma proprio (direbbe Walser) per eccesso di ricorso a essa. Drogarsi di realtà e di fisicità è pericoloso per fantasmi e mortiviventi. [rubrica (live in)vàno – Notes magico per futuri rinviati, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 29 maggio 2008]
L’enclave, l’abisso e l’impero del beach volley
Vedere sarkozy che sorride abbronzato a kabul, omaggiando i caduti in imboscata talebana improbabile (con fuoco amico e poche munizioni e forse il trombeiere petersellers in agguato) conferma che da decenni o almeno dall’inizio del millennio ultimo è agosto il più crudele dei mesi. Le Olimpiadi stesse, nella loro astraezza circense, danno il tono politico del presente critico e catastrofico, mostrano la consistenza fantomatica e sperale del mondo tuo diventato speacolarmente e marxianamente merce prevenduta. Pomposamente costree a rivendersi a ogni gara e specialità, con enfasi nazionalistiche inversamente proporzionali al peso sempre più ridicolmente insensato e nullo degli orgogli nazionali. (Non propongo un lamento ennesimo, per quel che è già fin troppo avvenuto. Si traa piuosto di godimento di rivolta, o di rivolta e di godimento, o di altre domande cruciali di quelle che un bambino o uno scienziato pazzo o un giocatore di dadi cosmico si possono porre: “Perché ci piace il gelato?” Né voglio stigmatizzare la tempestività abbronzata del blitz sarkozista; il sorriso non era malvagio o mellifluo, lo si percepiva nella visione muta distraa infallibile in TV tra un lancio di giavelloo femminile e un calcio nel sedere taekwondo, segni del fuoriluogo in cui crediamo di vivere). Il culmine non è stata l’apertura, groesca e a suo modo geniale mai vista e insopportabile calamitante calamitosa sintesi di tue le rappresentazioni (venne in mente il colpo di gong hitchcockiano di L’uomo che sapeva troppo). Un vertice della situazione fu – dopo un incontro di beachvolley vinto – la corsa invasata del giocatore brasiliano naturalizzato ad hoc dallo stato georgiano: si pensò volesse abbracciare la fidanzata o inalberare uno striscione, ma la salita forsennata
tra i sedili si arrestò solo nel punto più alto dello stadio, il topoheworld da cui gridare un rockygodimento immenso. Trionfo dell’enclave quale nuova forma geopolitica del vivere. Nei giorni delle ossezie e delle abkhazie, “enclave” georgiane, pretesto di una doppia guerra, anniversario di praga68 e distanza ribadita dall’ideale olimpico storico della sospensione dei conflii. Troppo (poco) ci sarebbe da dire di queste olimpiadi, speacolo in cui dopo la bici bmx sembra incongrua l’assenza di gare di scapaccioni, o di camminata in montagna e di “giochi senza frontiere” e di specialità circensi. L’enclave olimpica appare inadeguata, semplice e astraa rispeo alla competizione ininterroa televisibile e in rete tra il sorriso di umathurman e di una faccia youtube. Enclave di noi stessi, organi tra gli organi, inclusi e escludenti, in rinvii infiniti di sempre più subita insensatezza shakespearianamente condivisa. Giochiamo a beachvolley (indice divertente e ipnotico dell’abbandono nostro dolcecretino alla rete di rimbalzi già contemplata nell’ipotesi kaiana estrema dell’arte di spaccare noci), corpi ipotetici agili e muscolosi e già svaporanti nella sabbia della spiaggia inscria nello stadio di una cià smisurata senza mare. Dalla TV olimpica di raidue risuona impeccabile lo spot: “L’isola dei famosi è un inferno”. Non riesce a passare il testimone della staffea. esta spiaggia olimpica, lo spazio in cui si vive. [“il manifesto”, 26 agosto 2008]
Campioni di deriva
Nell’enorme eppur limitato catalogo di ripetizioni e di differenze provvisto dall’evento politico (! – leggi: olimpico; stavolta non si traa di correore automatico, è stato un mio lapsus scrivere “politico” invece che “olimpico”, ripetendo subito l’errore nel primo tentativo di correzione), rare immagini opache e parziali emergono da sole (anche se a tue può prestare opacità e parzialità il singolo speatore), svincolate dal rituale che ripropone ogni medaglia e ogni acme o eccesso o depressione, ogni performance o “controperformance”. Immerse in esso, ma svanite e dimenticate, istanti non ripetuti dai replay perché inativi e inerenti all’immagine e spesso indici decisivi di essa e della direzione oscura del gioco, delle immagini, delle immagini del gioco e del gioco delle immagini. Due esempi molto diversi, spazi minimi di resistenza all’ossessione televisiva del far rivedere e del ribadire e del non poter (far) mancare l’evento (connesso al peso politico del piazzamento e alla misura speacolare della disciplina o alla forza della dimostrazione di superiorità), che finisce o anzi incomincia col perdere la motivazione ufficiale olimpica, quella della concentrazione disseminata in un solo luogo spaziotempo (una possibilità utopica di espansione della direa in tante diree parallele, castrata dagli obblighi di vendita di spaziotempi pubblicitari che rendono palesemente assurde incomprensibili autolesioniste le scelte di (ri)montaggio della direa, crivellata in seguito dai ricuperi affannosi di tempi/gesti già morti, che propongono allo speatore la sola opzione di procedere in uno spazio sbilenco e sliante perdendo il senso della performance cieca e assoluta).
Allora, qualche secondo di silenzio o un’occhiata distraa nel chiacchiericcio di commento possono improvvisi incrociare il normalissimo ed eccentricissimo asimmetrico penzolare della mano di un fioreista, la mano vuota che non impugna nulla, quella che non sa nulla dell’altra e di cui l’altra nulla sa. Puro rilascio passivo dell’arto, deaglio di corpo e di immagine, punto di fuga cieco della scherma che i nostri occhi ingaggiano da soli. (Credo che in queste mani sapientemente abbandonate vuote al non-essere del presente e dello scontro si trovi, oltre che la saggezza ripetuta e scolastica di gesti e posture storiche, la chiave o il codice di futuri eventuali e di riconoscimenti ancora inaesi; molto più questo ci prende senza che lo sappiamo, mentre crediamo di appassionarci alle espressioni alle smorfie alle grida della Vezzali o di una sua avversaria russa.) Non meno decisiva la sfocatura improvvisa di un obieivo di telecamera posto in linea col rio vicinissimo dell’asta del salto in alto, certo dovuta all’urto sfiorante di un arto, e il corpo e il volto già non si vedono più, nessuna misura né un nome si inscrive. Cosa è questo vedere cieco o ipermetrope, atomo di una vista oltreumana e non meno cieca dell’umano. Riscuotiamoci, va bene. E fingiamo pure di non assistere a una variata e diramata pornografia assoluta (che l’esercizio sia “obbligatorio” o “libero”), dove la gara e la loa sono solo incidentalmente affare di corpi e di soggei; tra armonia eccesso controllo, svolgendosi ormai oltre e dentro il corpo. E già sentiamo meglio di non capire più perché lì o là siano i punti e gli organi del godimento, e non “qui” (quo? qua?), e da bravo popolo di topi non c’è più nulla che sia estraneo all’arte delle cantanti giuseppine, schiacciar noci, sorridere, far boccacce tuffarsi nel nulla credendo riemergere poi. [rubrica (live in)vàno – Notes magico per futuri rinviati, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 28 agosto 2008]
Superfluo
Sonnecchio (anzi sveglieggio; domenica maina sul divano col giornale preso stanoe; dal sonno sono uscito, è molto diverso dal passaggio sempre onirico tra veglia e sonno nel deliquio in cui ti par d’essere cosciente e le parole se ne vanno da sole in groppi di non sensi o di sensi vietati e i tuoi occhi sono aperti e il tono è aento e chi ti ascolta pensa infine tu sia pazzo; qui, tra l’angolo color crema del divano che occlude in parte la vista del televisore e il mio piede destro che spunta dal basso, assisto invece vigile allo sfilare di immagini che sembrano segnali precisissimi dal nulla). Sciatori o sciatrici scivolano nel privilegio anonimo delle prime gare di stagione intramezzati a entusiasmi doverosi e stanchi per i divi sul tappeto rosso la sera prima al festival romano. Sciaori? Sciarici? Le parole al solito ti giocano (brui tiri) da sole visto che neanche togliendo l’audio i corpi riacquistano il fantomatico sliare sulla propria ripetizione immobile. Gli sciatori non sono meno impacciati, inceppati probabilmente dalla memoria di gare magiche passate – loro o di progenitori mitici (killy, stenmark, thoeni, tomba) – o peggio future, ancora da raggiungere, tracciati della propria ombra in sublime cadenza irripetibile che solo una due tre volte potranno riuscire a echeggiare in quello spazio bianco. Sprofondi nella lucidissima allucinazione della memoria. Misteri. Accadeva che tu o altri vi eccitaste non solo o non tanto per il crack, il campione cannibale del momento. Ma per i gesti stupendamente raffinati e limitati di uno stilista dal nome mitico di kniewasser, un tipo da seimoavo posto non più, forse un austriaco incolto e di eleganza incredibile nel girare intorno a un paleo senza perdere aderenza compostezza. Oppure un giorno, senza nulla sapere di nomi nuovi o di griglie di partenza, sempre nelle insulse mainate
di coppa sempre uguali e impastate delle stesse telefonate, scoprire il campione mai sentito solo guardando gli ultimi quaranta secondi di una discesa libera o l’uscita dal cancelleo di partenza di un grumo di energia multicolore che si sblocca. Dopo le olimpiadi, che risucchiano energie mitologiche e riducono il senso di qualunque altro albo d’oro, e nel danzare ben oltre il baratro dei ballei delle borse, qualcuno direbbe che c’è da vergognarsi anche solo a scrivere di cose del genere. Forse neanche cose: ubbie, miraggi, riflessi in specchio o nei muscoli degli atleti. Su neve artificiale mentre il pianeta boccheggia e i ghiacci si ritirano. Ma lì, o qui, o più precisamente nell’ovunque che non si trova da nessuna parte, si cela il segreto del superfluo; che proprio nel momento in cui l’economico, implodendo/esplodendo le bolle di immenso plusvalore virtuale, si chiarisce essere pura spuma inebriante e superflua e non più e non meno di qualunque altra droga, viene additato quale sintomo di irresponsabilità e incapacità di visione gerarchica dei bisogni e della spesa. Non amo la formula uno, né l’esibizionismo di ricchezza, eppure sento che chi ha brioche da consigliare o consegnare ai sanculoi dei barconi di immigrati, ebbene può e dovrebbe cogliere il momento per farlo e per “morire”, e che le gare nourne dei bolidi rossi siano più umane intense della vita a misura d’uomo strombazzata e imposta con formule magiche e numeri insignificanti. La borsa dell’immateriale, già pesantissima, è ora che si rovesci sui banconi del mercato, sconvolgendolo con profumi inauditi. Tuo quello che non funziona e di cui amiamo godere o da cui ci lasciamo torturare può riuscire con le sue punte inutili a squarciare borse e teche e cervelli da cui potranno colare sangue o amore o nuvole bellissime di quasi nulla striati di sublime. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 30 oobre 2008]
6. Catastrofette
La cosa prima dell’immagine
Guar… (“gua”, secondo altri) sarebbe l’ultima (mezza) parola pronunciata da un pilota del DC9 inabissatosi a Ustica. “Guarda.” L’inutile immagine del missile in arrivo. Troppo tardi il vedere. La visibilità dell’esterno è del resto un criterio sempre più desueto negli aerei moderni, di linea come da guerra. Vedono quasi esclusivamente gli strumenti. In azione di guerra poi le distanze sempre maggiori, rendono tuo sempre più cieco e astrao, gioco di baaglia navale con bip eleronici dove svanisce, il potere. Nessuna possibilità di saperne o vederne di più. Da Ustica al jumbo sudcoreano allo Stark al Vincennes e all’Airbus iraniano, a vedersi sono solo i cadaveri galleggianti sulle pagine dei giornali. Inadeguatezza del vedere, ritardo dell’immagine sulla cosa (cosa?)… Come ci stupiva, da piccoli, il rombo degli aerei supersonici che arrivava sulla testa mentre già il jet spariva, così comincia a sorprenderci la colpa del nostro corpo quale macchina perceiva (e ancor più quella delle macchine protesi di esso, viime della simulazione) nel non riuscire ad anticipare quei trecentomila chilometri al secondo di velocità con cui la luce ci inganna. Il vedere come illusione somma (e ultima prova di verità anche nelle ricerche di fisica subatomica). Oltre il cinema, imbalsamatore artificiale, eccessivo, fiammeggiante e impreciso, ancora riconoscibile come arte postuma, ecco la televisione, maschera della presenza e del presente. TV, fotocopia, fax, continua ossessiva presenza del ritardo, illeggibilità del desiderio che pure si dipana in quelle immagini. Inevitabile anche il ritardo del gesto retorico (finalmente!) con cui Occheo (Okeo) si stringe intorno il partito comunista. Non sarebbe un partito politico: obbligato alla mediazione, alla gestione forzata del ritardo, alla
costrizione sociale. Neissima la risposta a Craxi sul suo terreno, da manuale di teoria dei giochi. Alla nonprogeualità risponde la non-progeualità, la volontà, l’assicurarsi della direzione del partito. Che diventa anche la direzione del partito (il senso in cui va), autoreferenziale. Così il discorso politicamente anticonsociativo di Occheo è abilmente e brillantemente consociativo al suo interno, dalla tematica ambientalista all’orizzonte socialista planetario, dall’egalitarismo alla competenza di tecnici e intelleuali dal perbenismo antidroga all’afflato religioso (solo in questa chiave retorico-politica si giustifica la campagna – altrimenti ridicola – contro gli spot dentro i film in TV, un guar… pronunciato mentre il missile è già esploso e i cavi i satelliti le videocassee agiscono/agiranno già in altro modo. Ma forse non si deve toccare il prezzo del pane caivo…)? La sfocatezza ideologica del congresso assomiglia anche a una sfocatura voluta e politica. Immagine mossa, un po’ flou (non proprio come il blob democristiano), che non rischia la messa a fuoco per non perdere nulla. Nea solo nel definire l’immagine autonomamente politica della macchina stessa (il governo ombra, altra immagine rovesciata nel mirino). Nel sovraccarico giusto di informazioni sul dicioesimo congresso mi ha colpito l’immagine in bassa frequenza (come le partite a Va’ pensiero nel monitor di un ufficio Rai). In direa continua dal Palaeur, senza regia, inquadratura fissa sul podio degli oratori, non più di quindici persone visibili, il resto fuoricampo. Come in una lezione commovente di educazione civica, come nelle prime assemblee a scuola; il dibaito sulle regole democratiche di base, i tentativi di conciliazione impossibile (voto segreto, minoranze ma niente correnti…). Concretissimo e con tui i pregi dell’astrazione data dall’inquadratura escludente persistente surreale (negata ahimè al gran pubblico televisivo). Verrebbe da intervenire, parlare da lì dalla stanza… Col timore-speranza che presto (speriamo lì o in altri luoghi visibili e non nel fuoricampo invisibile e osceno del privilegio economico e politico assoluto) si discuterà (si dovrà) di sopravvivenza e di
sterminio, di cià o civiltà da salvare o da perdere, di immortalità di corpi (bioingegneria) e di anime, di interplanetarietà e transustanziazione, di amore morte risurrezione (all’amore sì, solo, concederemo il privilegio: da esso lo acceeremo), di mutazione o di estinzione (ma adesso forse arriva in tempo la fusione nucleare, non più la fissione pericolosa e sporca: guar…). [“il manifesto”, 26 marzo 1989]
Il disincanto televisivo e il paese che vorrebbe specchiarsi
Ricordiamo, meno di un anno e mezzo fa. Sulle prime pagine e nei titoli di testa dei TG era affiorata come notizia italica centrale una misteriosa “malaia del sonno” in una provincia toscana (e già pareva dilagare altrove, con solito contagio mediatico; fu poi svelata mesi dopo con fin troppa semplicità). Di colpo, il terremoto in Umbria e nelle Marche, con l’offesa a Gioo e le rouloe e i container da baraccati nel cuore geografico-artistico del paese, parve colpire l’illusione stessa del belpaese, minacciarla mostrandola (era già noto, e notissimo dal crollo di Noto in poi) interamente friabile e indifendibile. Non si può dire che quella sveglia abbia funzionato. Il sonno è tornato endemico, senza più notizia, e il trionfalismo sui beni culturali, dal cinema ai musei, ha continuato a imperare. Soprauo i musei. Il restauro dei musei è stato anzi il fiore all’occhiello ulivista. Non saremo mai abbastanza grati per la riapertura di un palazzo Altemps a Roma, che ci ha fao rivedere per esempio sculture che si protendono come chimere fae di millenni diversi, prodoe in Roma antica o nell’Aica, amputate dal tempo e poi rimodellate o dotate di protesi dai Bernini o dagli Algardi, a dirci quanto non si finisca mai di (dis)farsi. Ma certo restaurare un museo è operazione di quasi maniacale immobilismo, e infai immagine perfea del surplace culturale (e non solo) che non solo in Italia sembra deare il passo del vivere della società. Allora, questo paese che per coerenza minima andrebbe messo tuo soo vincolo “artistico“ (comprese le pedagocissime bruure e i didaici scempi) e venezianizzato davvero come una disneyland culturale non riesce a interrogarsi sul suo destino di raffinata vecchiezza e serena
conservazione/clonazione artistica con un decimo dell’intensità con cui il paese della democrazia moderna ha dibauto (con serietà da assemblea cromwelliana) del crinale capitalistico tra vizi privati e pubbliche virtù del proprio presidente, portandolo fino a una inane e sublime e pur ridicola e laicamente sacra deposizione televisiva. Per fortuna la posizione geografica fa di questa disneyland un sogno perforabile da milioni di formiche extracomunitarie, che almeno fanno vibrare l’ombra del surplace globale. Ma di questa sospensione tra tensione e abbandono c’è scarsissima aenzione. Difficile delinearne i volti vuoti. Lo ha fao straordinariamente (anche aldilà delle sue intenzioni) Bertolucci nei suoi due ultimi film; e di questo baito e tremore anche i Martone e Gaudino e Amelio e lo stesso Benigni (e Ciprì e Maresco con l’incubo del vivere/morire mai meno di due volte) hanno sentito l’eco. Come a teatro gli Shakespeare di Cecchi, così tecnicamente politici, e i Ronconi che fanno sfilare tuo il mondo immaginato come parola in teatro, nella polvere scenica e cadaverica del teatro ma poi (come nel bellissimo ribaltamento finale di esta sera si recita a soggeo) si vede che più polveroso e sfarinato e sfinitamente teatrale è chi guarda, già da troppo in scena egli stesso. [dailoscrio, 1998 circa]
Scusi, dov’è il fronte?
Le parole mancano, per questa guerra. O rischiano di suonare esagerate, immani, ridicolmente fuoriscala. Ma fuori scala, ridicola, immane e esagerata è la situazione. La catastrofe, che tanto si teme e scongiura, è avvenuta da tempo. Ci resta una piccola baaglia di una guerra vasta e eterna che ci sfugge e non ci contempla, dove esercizio diplomatico e esercizio militare della forza non sono ciascuno il proseguire dell’altro, ma si confondono costantemente, e assistiamo solo al prolungarsi di “nulla” con altri mezzi. Anche Jean Baudrillard, dopo aver sostenuto che la Guerra del golfo non era mai “avvenuta” in quanto rimasta invisibile, dopo aver teorizzato nostalgicamente la perdita della realtà nel virtuale, sembra riscuotersi e insieme dibaersi (vedi “la Repubblica” di venerdì 30 aprile) per l’evidenza quasi eccessiva di questa realtà, o meglio per la terribile chiarezza con cui la situazione fa a meno delle parole (incluso “realtà”), rendendosi essa parola, perfeamente leggibile come Nuovo Ordine ma insieme inesplicabile, enigmatica. Come era invece di trasparenza petrolifero-illuministica la Bagdad nourna e verde ritrasmessa dalla CNN e dalle altre TV del mondo bombardante, più didaica di mille film di guerra, così per la prima volta oggi la guerra, nonostante il rombo cupo o arrotato come di valanga che ha il vocabolo in varie lingue, ci pare non bastare a se stessa, timida nell’orrore come negli esiti, quasi una lampante operazione di copertura. Copertura di nulla, appunto. Ribadirne gli incredibili “errori” strategici e taici rispeo a tui i fini dichiarati (in primis quelli umanitari) porta troppo facilmente a un assurdo alla Jerry Lewis di Scusi dov’è il fronte? (già…), o a illuderci che davvero il re sia nudo e che lo stiamo vedendo. Oppure, a trame magico-fantascientifiche (oggi, come durante la
campagna irachena del 1991, il “casuale” passaggio in TV del Dune di Lynch risulta l’unica didascalia visiva adeguata e realistica del momento) di flagranti comploi tri o quadri o pentalaterali. Un rito insensato, si direbbe, un potlatch, il rito dell’insensatezza e dello spreco, più che l’insensatezza del rito (bruciando una simile quantità di risorse si potrebbe sfamare un continente…). Eppure l’assurdo non è assurdo. Come non lo è il passaggio repentino dal Clinton del caso Lewinsky a quello che aacca Milošević e che pochi giorni dopo si trova a condannare l’abitudine americana alle armi commentando il modo sanguinoso in cui tre liceali hanno deciso di celebrare i centodieci anni dalla nascita di Hitler. Dov’è il fronte? In Kosovo, a Belgrado, a Tirana, in bocca a Monica, a Bari, nell’Adriatico, a Otranto? A Londra, in Algeria, nel Burundi, a Skopje Aviano Cermis Timor Colorado? Non è meno frivolo l’aacco a Belgrado di quanto lo fosse il caso Lewinsky o non è meno serio del dibaito sulla stagista presidenziale e sullo spergiuro di Clinton di quanto lo sia un voto parlamentare sulla missione anti-pulizia etnica. A questi brandelli di tessuto, a queste macchioline di sperma (diventate quelle di sangue della pubblicità Toscani/Beneon per l’iniziativa di solidarietà del governo italiano), a queste immagini cieche dobbiamo pateticamente aggrapparci per non illuderci di aver visto la nudità del potere. Il popolo (la “gente”? “noi”? – ⁇) infai è nudo. Oh, candore inestimabile di chi pensa ancora possibile incoraggiare la diserzione, o semplicemente non schierarsi. Si è già disertato, da decenni e secoli, in massa, e accuratamente evitiamo di schierarci sulla linea terribile e fatale del presente, sulla frontiera mobile dell’oggi che non esiste. I grandi ossessivi nastri continui della comunicazione/registrazione ininterroa (la TV, la radio, la “musica”, “analisi-psico…”) fanno fatica a traare il coacervo di rime tra fellatio e Balcani, tra 1914 e 2001 tra bancaroa russa e uranio impoverito, tra Giacarta e Sarajevo, tra gonfiezza enfatica del Dow Jones e blow job, spiazzati da giri
velocissimi, dai sempre più istantanei ricorsi e ritorni sullo stesso punto, in una sorta di surplace temporale che come un nastro liso o un disco incantato ci ripete che il presente è assente. Non possono dar conto dell’usura del nastro, perché essi lo sono, il nastro, e la sentono in sé l’usura. Ma la strana chiara benintenzionata imperscrutabile inacceabile guerra di primavera è un’occasione per questo sentire. Forse proprio il cinema lo stadio più arcaico e eroico, il più automaticamente lontano dalla direa della produzione continua di speri e del mutarsi assoigliarsi sparire della (nostra?) forma di vita, risente in modo più esemplarmente scisso l’assenza del presente. I cinque film finalisti all’Oscar di quest’anno erano tui “in costume”, tui proiezioni in/da un altro tempo; due evocazioni di uno stato nascente del potere moderno, l’età elisabeiano-shakespeariana; La vita è bella (a Auschwitz; il titolo più brechtianamente straniato e didaico); e due film di guerra, entrambi (lo straordinario La soile linea rossa e il potente e fragile Salvate il soldato Ryan) “discorsi” non proferiti da un preciso soggeo umano, ma piuosto emanazione elliica e onirica di un soggeo plurimo e disperso, di una rete di soggei in stato di trance… Solo a parlar di cinema, di film d’altri tempi, pare di toccare un aimo il presente, o almeno la sua clamorosa e inquietante (e quietamente acceata) assenza. Già ci sfuggì, il presente, di fronte alla chiarezza di Bush che chiosava in TV l’azione contro Saddam Hussein: “i e ora si sta decidendo il futuro del mondo per i prossimi cento anni…” (saltato d’un colpo il mitico Duemila…). el serio appello al futuro era già l’unico presente, una pura forma autogiustificata. Come oggi il nuovo virtuoso ordine mondiale non è l’orizzonte o il movente ma è il presente sospeso e chiuso, in lieve tremito ma già esso (in tue le sue parti contrapposte e concorrenti) “perfeo” nuovo ordine. Se vien da parlare di cinema o di TV (o magari di rete nervosa dell’informazione in collasso), non è per evadere. Al contrario è forse questa l’unica via per entrare nel presente oscillante che ci vien fao obliare da troppe maschere dinamiche, e dalla dinamica più perversa soprauo, quella che in nome della comunicazione liquida
ininterroamente millenni di “presente” meendoli in memoria (in aesa di un fantascientifico total recall?…). Il film in cui si entra avrebbe allora del “poliziesco”, non nel senso veterototalitario del termine piuosto in quello di genere del cinema americano. Non un regime poliziesco ma il regime (democratico) del poliziesco. Soprauo se prendiamo sul serio (come si deve) il nobilissimo invocato principio dell’ingerenza umanitaria. Che si traduce nell’intervento polizioesco dall’alto, con bombardamenti all’airbag e air conditioning, dai più ricchi forti civili, che produce (oltre “caivi buoni” uccisi per sbaglio) un perfezionamento e ampliamento della catastrofe (esodo) dei catastrofati. Che sia calcolo “sbagliato” o perversamente “esao”, la questione non è l’esito (che si dovrebbe e certo si vorrebbe immaginare o pretendere anche “benigno”) dell’operazione. Ancora una volta, in questione sono la decisione e la situazione stessa (il fantomatico presente) come esito. La morale dell’assurda favola è infai la morale, la possibilità stessa di una posizione morale. Ovvero, di una scelta nel presente. esto è in gioco, bombardato e catastrofato, in gioco per l’ennesima prima e ultima volta (insieme parodistica e serissima; vedi l’idea stessa di remake di una guerra dai Balcani-polveriera; con i soloni a sgolarsi sulla millenaria “complessità” della situazione e non sull’allucinazione del déjà vu) pena il risucchio immediato nel solito speacolo infinito, angoscioso o esaltante, di un ulteriore “vermicino” (vermicino/noi, vermicinoi; o pecore Dolly o lady Diane da sacrificare), sperabilmente a lieto fine, cui assistere. Non è una prospeiva obbligatoriamente “teologica”, anche se il modo in cui allora si dovrebbe discutere perlomeno di “democrazia” ci porterebbe vicini a quella forma. Proprio come in un film… non c’è stato il tempo (come avrebbe potuto? Sarebbe stato solo il presente) di… “discutere”, non c’è stato un momento di aenzione critica al sistema delle deleghe; molti appelli alla comunità europea, al consorzio dei paesi civili e democratici eccetera, senza mai
fermarsi e sentirsi bruciare in bocca questa parola alta (fin troppo), comunità, impunemente e mediocremente spesa. E ci sarà mai (stato) il tempo di non arrendersi a priori a tue le bombe già esplose (il capitale, l’atomica, la TV, la biotecnologia, le memorie registrate e in rete…)? Salvo poi doverne o poterne riconoscere la terribile e pur affascinante fatalità e inevitabilità, fino a scoprire il nostro destino di immagini. Né avremo mai alcuna chance di decriare gli enigmi e i comploi dei nuovi ordini eventuali e globali se neanche proviamo e ci azzardiamo a leggere l’ordito e il disordine che già noi siamo, l’ansia d’esser governati e la pulsione anarchica. Sembra di non aver fao un solo passo oltre i sogni (confermati o indoi nelle assemblee da sogni e apparizioni, infai…) di uguaglianza dei puritani cromwelliani, oltre la stupefaa domanda di La Boétie sul perché della “servitù volontaria”. La detestata e detestabile sovranità di Milošević deve interrogare la sovranità che noi siamo o subiamo (visto che, tra i risolini di superiorità dei commentatori europei, abbiamo perso l’occasione esemplare del caso Clinton/Lewinsky/piazza TV per farlo). E non è deo che, in nome della sicurezza e del comfort dobbiamo perdere la possibilità ludicosociale di opporre al dirio del più forte il rovescio tagliato o liato del più debole. Né che il terrore per i totalitarismi ideologici asmatici, per le ossessioni di controllo, per i monismi e fondamentalismi consolatorioreligiosi (ultimo, un tipo di islamismo), ci debba impedire di riconoscere e di poter voler avversare o almeno da sassolini intralciare il cammino rotante di un mercato non meno unico e assoluto, mercato di desideri e sogni anche. Spietata economia che replica e vende i geni stessi degli individui che temono d’esser assorbiti da altrui sogni (o dal sogno cupo che è la morte, inghioimento automatico di tue le “morti” quotidiane acceate e vissute) ma che già si prolungano clonandosi mentalmente in ordinata inesausta teoria di insei eternamente giovani e effimeri. Di parole, dicevo, c’è mancanza e bisogno. Vogliamo parole e non fai. Slogan glorioso, retoricissimo e di un
realismo unico. Parole (per questo la voce affievolita di Wojtyla, così (im)potentemente sempre più e sola parola, si staglia). Vogliamo (siamo) parole, forse vogliamo anche numeri (e li siamo), ma il bolleino di guerra del maino è il listino delle borse di tuo il mondo. La borsa è la vita? Assistemmo e non ci sollevammo quando ci fu forse il solo tentativo del secolo del cinema di strappare o inceppare la pellicola del film del tempo, a Tienanmen proprio dieci anni fa. Macchina colleiva nonviolenta, di singoli che non volevano impadronirsi di nuovo potere ma solo stare lì, nel vuoto della piazza enorme, fantasmi in aesa di (quasi)nulla, di parola o di sterminio, fermi su poche regole di visibilità/vivibilità democratica. “Parole” loro stessi, senza voler/poter dire cosa si dovesse fare. Cosa fare oggi, per esempio in televisione. Chi decide davvero che per i primi giorni di guerra i TG nourni debbano per esempio due/tre volte a noe interrompere i programmi delle tre reti Rai con bolleini scarsamente urgenti? Forse è solo scrupolo professionale, voler evitare di mancare la notizia della resa miloševiciana o di un massacro… Oppure tentativo più o meno (in)conscio di accelerare l’esito o – prevedendolo tale – segnarne quasi il passo di carica inducendo insieme allarme e senso dell’inevitabile vioria…? Poi le edizioni nourne straordinarie scompaiono mentre l’operazione di polizia (conflio?) si cronicizza, non fa o non deve far troppa notizia nonostante gli errori/orrori… Di nuovo, non è importante sapere chi decide e dirige e perché, ma provare a avvertire il (non)senso, la “direzione istantanea” di tuo ciò, nella contraddizione dei bombardamenti mirati che danneggiano o devastano le sedi televisive ma senza estinguere completamente la produzione e diffusione delle immagini, che devono testimoniare – per nemici e amici – del lavoro fao, del colpo inferto. Gestione incerta e mista delle immagini/minaccia, in aesa del satellite polizioo che un giorno “infallibilmente” individuerà il male e lo “neutralizzerà” senza bisogno di umani, solluccherandoci all’istante in rete con l’immagine (insieme pena e premio) dell’avvenuta caura o eliminazione. Cosa è “meglio”?
Sarebbe stato “giusto”, nel 1981, interrompere la fatale direa salvifica e poi tragica di Vermicino? Non saranno, i plurivituperati “guardoni” di Aviano, più democraticamente – quindi ambiguamente – adeguati e aenti e vigili nella situazione di noi virtuosi che ce lo domandiamo e la sera andiamo al cinema o a teatro o a tavola e ci distendiamo appassioniamo emozioniamo indigniamo teleconnessi fingendo di dimenticare che ovunque è “teatro di guerra”?..) La guerra, evidentemente, è/sarà infinita. [dailoscrio, 1999]
La morte spettacolo
Abbiamo visto le due stragi di questi giorni sulle autostrade? Mentre riecheggia biblico il solito cliché giornalistico ferragostano, esodo, due camion giganti pieni di merci impazziti tra gomme scoppiate, si abbaono sulle auto, uno al Sud l’altro al Nord. Più intensa di un quadro di Bacon, la visione spezzata e informe delle immagini nei telegiornali ripropone in un collage astrao le coordinate del mondo. Completezza degli eventi: nel primo incidente, la strage del carico di pomodori ribadisce e già cancella col vero del suo finto sull’asfalto il rosso elementare del sangue; nel secondo, è un carico di carni macellate in cella frigorifera a rigurgitare sulla strada (la voce del giornalista ricorda poi che più tardi qualcuno ha cercato di saccheggiare quelle carni, quelle carcasse). La morte, così immateriale e asociale e rimossa proprio nel ripetersi e rifrangersi ossessivo in speacolo, incontra la fisicità nello speacolo della merce che ne è ombra precisa. esto potlatch, rito di dono sacrificale e di spreco prepotente ed esibito, sembra contrastare con la vacanza agostana. Pure, sia lo sgomento dell’agosto aonito e pagano intriso di arsura spegnimento morte, sia la festa della Vergine assunta in cielo, come la parolidea stessa “vacanza” parlano di un deludersi e di un venir meno e di uno svanire/trasmutare del corpo. Stanno di fronte alla nuova economia che si accapiglia per reti immagini frequenze dirii virtuali; equidistanti rispeo a essa, si accalcano le schiere come di continuo reincarnate dei clandestini che premono col peso dei loro corpi e del loro tentativo di libertà rispeo alla libertà che li commercia. Un camionista si schermisce delle accuse alla categoria: i guidatori della domenica, delle vacanze, non sanno quello che possono incontrare sulle
strade… Pomodori, animali macellati, e il fantasma di se stessi che circola nelle vene e arterie stradali, senza sapere quale cuore o desiderio li pompi. [“La Stampa”, 14 agosto 2000]
L’ombra di Twin Peaks sulle Twin Towers
Il trionfo dello speacolo. Il trionfo terribile e glorioso e osceno dello spirito dello speacolo. La vioria suicida di Hollywood. Non c’è cinismo nell’ipotizzare che il compimento temporaneo di questo aacco potrebbe darsi con l’esplosione della celebre scria sulle colline losangeline. Se, in aesa del seguito e delle reazioni, vengono in mente l’incendio del Reichstag e l’assalto a Pearl Harbor, la differenza fondamentale salta agli occhi: queste immagini, immagini simili, le abbiamo viste e riviste, ancor prima anzi ben prima. Dai film catastrofici (fin dagli anni cinquanta) a quelli di fantascienza (ultimo Mars Aacks!) col timer inserito (la serie Die Hard con Bruce Willis), siamo abituati a vedere i graacieli di Manhaan dinamitati o sgretolati da terroristi o da marziani o da mostri mutanti, abbauti da onde gigantesche o terremotati; o stadi minacciati dall’alto, o il mondo intero soo tiro satellitare e salvato solo da “missioni impossibili”. E da subito, in modo stupefao e estatico, la CNN per tue le televisioni rendeva “riviste” le immagini delle torri, una colpita in direa dal secondo aereo, entrambe poi collassanti dopo la devastazione e l’incendio. Decine e decine di volte, in un replay sempre più irreale mentre arriva l’ipotesi di diecimila morti, si vede l’immagine quasi archetipica e insieme surrealistica dell’aereo che entra nel graacielo, si vedono le esplosioni, Manhaan coperta da un pulviscolo come dopo un’eruzione di fumo vista da lontano coperta da funghi “bellissimi”. Hana-bi, fuochi d’artificio. La televisione non riesce a non (far) godere di immagini. La guerra è solo apparentemente quella mediorientale (certo greamente anacronistica e arretrata,
nazionalfondamentalista pure anche fatale e “biblica”), e non si traa di dichiarazioni di guerra. Guardando le immagini, si sente che la Guerra continua da almeno mezzo secolo; e continua mentre la rivediamo a sera nei TG, interroa solo dalla pubblicità o da documentari naturalistici. L’alterazione brutale dello skyline di Manhaan (che, rovesciata nel suo sfavillio nourno, costituiva l’astronave aliena di Incontri ravvicinati del terzo tipo) riporta nello spazio urbano tangibile della cià più filmica e filmata del mondo l’immaginario proieato da almeno un decennio sull’altromondo sull’aerlife (si veda per l’appunto come è stato appena rivisto Pearl Harbor da Hollywood), su una vita sempre più immateriale e tesa a cifrarsi e a protrarsi indefinitamente (a costo di congelarsi, di replicarsi, di sintetizzarsi, di non riconoscersi). La rabbia nichilista e “senza causa” (a maggior ragione se dovesse appellarsi al fondamentalismo religioso ed evocare il Grande Satana) di chi “avrà compiuto” gli orridi aentati non rende solo trasparenti e indifesi gli Stati Uniti ma dissolve il mito-feticcio della sicurezza e, aentando all’immagine, riporta come una Bhopal allucinantemente “centrale” al peso dell’immateriale, alla intrinseca fragilità di un mondo costreo/teso a far circolare sempre più velocemente e “liberamente” merci e persone verso l’orizzonte istantaneo del capitale. Wall Street non apre. Alle twin towers del capitale si sovrimprimono ombre di twinpeaks lynchiane… Mentre “qui” (lì?) parte la sigla di Porta a porta, con la musica di Via col vento a sviolinare sulle immagini suggestive della catastrofe come fosse l’incendio di Atlanta in technicolor, si capisce solo che domani è un altro giorno. (Nota. esta cosa era stata scria e proposta ierlaltro sera alle 21. Ieri è un altro giorno. egh) [“l’Unità”, 13 seembre 2001]
Twin Peaks Towers surplace: fantasmi della terra
Nell’immagine avviene l’incontro e scontro terribile tra due fondamentalismi, due sogni, due deliri in base ai quali forse siamo già divisi. Le torri gemelle con gli aerei incastrati dentro, in fiamme, poi in fumo e crollate, sono l’immagine onirica e allucinatoria non tanto di un venir meno del feticcio della sicurezza, ma appunto del confronto tra due (altri!) mondi e stati mentali. Oscuri o chiari che siano, è comunque evidente (nel fao che viviamo) il ruolo dei motivi genealogici storici economico politici e perfino “biblici”. Ma ancor più evidente è come in questa immagine implode la terza guerra mondiale (quella iniziata con Hiroshima) e si manifesti esplodendo la quarta, quella che viviamo e vivevamo già quotidianamente anche andando al mercato e mangiando e respirando (e infai dentro quelle torri gemelle ci siamo (stati) tui anche senza mai esserci stati. Abbiamo visitato quel panorama e lo siamo. Allo stesso modo in cui l’oleografica immagine di Bush nella scuola dove viene raggiunto dall’annuncio dell’aacco in posa con dietro lo sfondo multirazziale di bambini, si rovescia in una sorta di foto di classe tenerissima e indifesa di un verofinto sogno democratico odiosamato, araverso la quale “tui” siamo passati e ci siamo congelati/sgelati un aimo, pronti a restar fermi in quei fotogrammi trascinati da altro o altri, o a credere di poterne schizzar via di corsa velocissimi forrest gump). Si sapranno (?) mandanti e esecutori, eppure la loa è tra un forma-civiltà fatalmente e oscuramente “trasparente” e percorribile (quella del capitalismo estremo che deve “liberare” e velocizzare al massimo la circolazione per avvicinarsi, proprio fantasma, all’orizzonte dell’istantaneo),
tesa sempre più apertamente alla cura e prolungamento e consolidamento indefinito (fino a ipotesi sempre meno innominate di immortalità) della vita, a ogni costo; e una forma (condensata nella figura dei kamikaze) in cui l’altromondo si raggiunge già istantaneamente nel sacrificio terroristico a favore di una causa, con bambini di dieci anni pronti a interrompere in esso la propria vita. Una loa senza quartiere che trova il suo set/quartiere nelle true lies (bugie vere) dell’immagine, nello speacolo. La skyline più fantomaticamente dominante del mondo, Manhaan, muta in direa in uno speacolo oscenamente e automaticamente goduto in un infinito replay (ben oltre la necessità di informazione; l’informazione è quel godimento stesso?). Più che il set topografico reale, dove ora si contano a migliaia i morti nella devastazione, è l’icona manhaan il luogo “pubblico” dell’evento e il set dell’aacco: il terrorismo diventa ao simbolico speacolare pubblicitario. La bomba esplode dentro l’immagine, dove già stava adagiata in decenni di cinema speacolare catastrofico horror fantascientifico di genere (e in secoli e secoli di televisioni: sommate i tempi paralleli…). L’immaterialità sperale dello speacolo ricade sul mondo speacolare con la pesantezza aerea di una Bhopal. Sospeavamo che un film come Fantasmi da Marte fosse “realistico” e “preciso” e incantevolmente lucido almeno quanto le più civili commedie o drammi su integrazioni globalizzazioni disoccupazione lui personali. Ora lo sappiamo. (Nella “nostra” televisione troviamo altre conferme. La pubblicità non si interrompe mai. Durante un programma del maino di mercoledì, doverosamente dedicato nonstop al terribile evento, si passa di colpo, araverso un piano d’ascolto muto di un inviato a Mosca, alla promozione preregistrata dove la stessa condurice poco prima compunta annuncia giuliva: “Sicuramente ora vi verrà voglia di un nuovo “televisore a colori..”). Buona visione? (Un ritorno surplace, scrio anche questo in un “ierlaltro”. Ma sarà mai possibile – o auspicabile – essere o meersi in direa con queste immagini? A domani quindi, a ieri, o al dieci seembre).
[“l’Unità”, 14 seembre 2001]
ICONULLA
(Finisco ora di rivedere due ore della direa dell’11 seembre da manhaan, per una noe di fuori orario. Tra la noe e la maina dell’11 oobre un mese dopo. esto testo, stranamente con un suo gemello sempre girante intorno a quelle twinpeakstowers, è stato inghioito dietro/dentro la cancellazione di un altro, che lo mascherava o nascondeva nella posta. Non ne è rimasto nulla, oppure giace nell’unico anfrao sfuggito a una ricerca nourna che mi pareva sempre più oscena e inane ma non salvata dalla propria inanità. Allora, questo testo non è quel “questo” deo prima. Né un altro, temo. Allora: stupido e banale intercalare avverbiale, allungando anche un’ombra di causalità. Mai così esao invece, nell’etimologia stessa latina: “a quel tempo”, a quell’ora, in quel momento. Allora: riprendere così, dall’inizio, in girum sulla lost highway, e anche captando scrivendo con la coda dell’occhio un “borse europee euforiche” in televideo. Assoluta ambiguità del presente, Allora. ell’allora: infai, ambiguità assoluta dell’immagine. Da una parte, tuo è già (ac)caduto, in quel presente è il manifestarsi troppo chiaramente di un già avvenuto. Dall’altra, in quel mutarsgretolarsi in direa di un’immagine, dell’immagineguglia (più tecnicamente alta) della storia del mondo, dell’immagine proprio condensata della ripetizione/mutazione in (un) “presente” (manhaan), risiede la profezia istantanea di non aver più nulla da vedere, la riapertura del(lo sporgersi sul) vuoto che è il vedere. “Non c’è niente di misterioso che non divenga evidente, e viceversa tuo ciò che è evidente nasconde in sé un mistero” (Florenskij). Ma anche allucinante chiarezza (già nel buio, “allora”, o ancora nel buio; senza bisogno del dèmone
manifesto in pieno giorno), pynchoniana 1973 nella precisione fatale dei punti di interruzione inizialfinali dell’immenso arcobaleno della gravità (set mentale: seconda guerra mondiale, londra soo le V2 e la V2 che si avvicina alle londre a venire…). “Un grido s’avvicina, araversando il cielo. È già successo prima, però niente di paragonabile a adesso. Ormai è troppo tardi. L’Evacuazione prosegue, ma è tua scena. Le luci dei vagoni sono spente. Sono spente anche fuori. In alto, sopra la sua testa, si ergono le travi oblique, vecchie quanto la regina di ferro, e più in alto ancora una vetrata in grado di lasciar filtrare la luce del giorno. Sennonché è noe. La vetrata cadrà giù – presto – sarà un crollo temibile, speacolare, il crollo di un palazzo di cristallo. Però avverrà nel buio più totale, senza neppure un barlume di luce a rischiararlo, un grandeschianto invisibile e nient’altro”. […] “La prima stella riluce sospesa fra i suoi piedi. Adesso… LA DISCESA
Il baito ritmico delle mani echeggia fra quelle mura, dure e lucenti come il carbone: Avanti! Cominciate-lo-speacolo! Avanti! Cominciate-lo-speacolo! Lo schermo è una pagina oscura spiegata davanti a noi, bianca e silenziosa. Si deve essere spezzata la pellicola, oppure si è bruciata la lampadina del proieore. È stato difficile anche per noi, vecchi esperti che abbiamo passato tua la vita al cinema (non è così?), riuscire a capire di che cosa si sia traato, prima che piombasse l’oscurità. L’ultima immagine era stata troppo fulminea perché l’occhio potesse registrarla. Forse era la figura di un uomo che stava sognando il calar della sera in tue le grandi capitali del mondo – una sera sufficientemente luminosa da fargli capire che non sarebbe mai morto – e che usciva fuori per esprimere un desiderio davanti alla prima stella. Però non era una stella, e stava cadendo, un angelo dalla morte lucente. E sulla superficie sempre più scura, orrenda dello schermo, è continuato a scorrere qualcosa, un film che non abbiamo imparato a vedere… ora viene
proieata una faccia in primo piano, una faccia che conosciamo tui… Ed è proprio qui, proprio su questa inquadratura oscura e silenziosa, che la punta del razzo, scendendo a un chilometro e mezzo al secondo, assolutamente, eternamente senza suono, copre l’ultima distanza incommensurabile, proprio sopra il teo di quel vecchio cinema, l’ultimo delta-t.” Allora. Avevo scrio troppo di film, in quel pezzo spezzato dal caso dal tasto dalla mia incuria poche ore prima dell’inizio ufficiale dei bombardamenti su kabul domenica sera. Ennesimo ao della guerra non dichiarata che si dichiarava ora à rebours, sbobinandosi palindromica gestodopogesto paroladopoparola immaginedopoimmagine. A partire dal lunghissimo decisivo istante (durato seimane) dell’ao non rivendicabile e non rivendicato, della “distruzione” che a quel modo anonimo ci vedeva tui autori oltre che destinatari offesi e speatori. Lo “scandalo” del discorso – riportato – di Stockhausen, interroo con sgomento pare, sta tuo qui: nell’esser stato unico o quasi a porsi dalla parte di quello sgomento, ad assumerlo in un’impossibilità soggeiva, come estremo trionfo e catastrofe (catastrionfo sì: l’unico “film” a echeggiare le twintowers collassate è davvero il doppio Titanic affondato di inizio e fine secolo) artistica, come riroura iperbolica del granvetro giàroo che ci sta davanti. Ora che il vetro si è riroo in direa, e la separatezza dell’immagine si è infranta, siamo in faccia ai resti dell’acquario e sappiamo di esserci (stati), sappiamo che la guerra c’era già, gassosa vaporosa monetaria dura in ogni luogo (il terrorismo “without a cause” – davvero vogliamo sovrapporre la territorialità dei “territori” palestinesi alla radice terrosa terrigna del “terrore”? – si assume il terrificante compito di far emergere in ogni “punto” dello spazio-tempo l’i n q u e l m o m e n t o di guerra possibile che vi giace in filigrana “simpatica” invisibile). E nell’immagine ferita (puro risultato dadaista di un crash su una lost highway o di un’uscita di strada da una straight story su un videodrome), solo lì, nello speacolo disintegrato,
tocchiamo la tensione il baito tra “amore di vita” e “amore di morte” (decisiva dicotomia tra kamikazismo e edonismo – evocata infine da un portavoce di bin laden nel secondo messaggio videodiffuso). Tensione di nuovo ambigua, per ciò perfea nel presente diruto dell’immagine. Due forme diverse di ansia di immortalità, di “vedere con chiarezza”, di trovarsi faccia a faccia col viveremorire, oltre l’immagine oltre il corpo, o infinitamente dentro essi. Per questo (ricordate, si tornava appena da un festivaldivenezia ancor più informe del solito, eppure araversato dall’apparire paurosamente esao del palindromo debord, e sovrimpressionantemente marcato dal cinema fermo in moto, fuorifuoco e incendiato, di rohmer e di carpenter (le teste tagliate dei loro film si scambiano e si indossano, la morte vista/non vista e che ci vede e che a sua volta indossiamo come punto di vista: vedi il finale di L’Anglaise et le Duc…), di sokurov e di de oliveira, di campos e di munk, o di pedro costa e di straub e huillet nello straordinario “loro” film infinitamente sdoppiato in una sorta di monumentalità abissale), oltre a correre a vedere per esempio Dust di Mančevski (il suo primo film mi parve una riuscita nitida e sopravvalutata, modesta proprio per il controllo esibito nella costruzione: ma questo Dust, bello nel titolo a suo modo istantprofetico mi airava per l’unanimità del rifiuto riscosso a venezia dove non potei vederlo; nessuna ansia di distinguermi dal comune giudizio, solo la quasi certezza che quelle unanimità segnalano sempre un qualcosa che “resiste” e che rischia di andare in polvere, comunque raro e più vicino all’ousità automatica del cinema e alla sua intensità barbarica che non la media costruzione autoriale o la media trasparenza o porosità del genere. Infai il film, sfasciato nelle ambizioni evidenti e presuntuose, sfilacciato nella sua stessa epica dello sfilacciamento e del rintreccio, malgirato e imitato e smodatamente manierato, resiste e affascina…) ho cercato e incontrato il cinema two lane blacktop (nel senso rohmeriancarpenteriano e twintowers di vedernonvedere e di vivermorire) di Fast and Furious, vicino all’estasi delle macchine (o della macchina cinema, come
anche Driven), o l’autorialmente “bruo” Codice Swordfish del postclipparo Dominic Sena fascinoso per l’in sé catastrionfale Travolta e per i corpi sospesi in fissità mobile da polaroid nelle esplosioni, o Final Fantasy capace di far riconoscere il nonumano e postumano nell’umano… Tui film portati dall’intelligenza artificiale del cinema, da essa sdoppiati striplati scissi e avvicinati alla nostra scissione originaria, cioè allo scindersi continuo e istantaneo che genera la nostra falsa “origine”… Sta per chiudersi la parentesi, non voglio trovare o peggio ritrovare brandelli dello scrioperso… Paura che il cinema sia troppochiaro rispeo alla sospensione morale indefinitamente ambigua innescata o solo lampante nella nube immensa di polvere sollevata dal venir meno ferirsi perirsi dell’immagine dell’incertezza. Allora, appunto, non è possibile scegliere tra le due (im)moralità del far vedere o non far vedere i morti il sangue i pezzi dei corpi di Manhaan. Non è possibile giudicare: la pur minima scala planetaria, appena avverata nella catastrofe dell’immagine “capitale” concentrata e telediffusa, eccede il giudizio sull’immagine. Costringe alla deriva verso comunità inimmaginabili o impronunciabili. Il non appartenerci più dell’immagine (già porta, questo “mai come prima”, al tuo come prima, se il mondo era già stato costruito su hiroshimauschwitz e l’immagine d’oggi è appunto solo postuma e tardiva; diremo allora: lo scoprire che l’immagine – oh, crediamo di costruirle e persino di sintetizzarle, le immagini…? – non ci è mai appartenuta) ci imporrà finalmente di riconoscere e “volere” una nostra non-appartenenza, un’invisibilità… sia pur di speri dopo il naufragio? Convinta senza “prove” (perché appunto il principio lì evidente e pur negato ai fini di uno speacolino mediocre è che non ci sia fine se non nella prova stessa interminabile..) che nel “grande fratello” ci sia più che altrove l’intensità del narcisismo, dello sdoppiamento teologico-speacolare… Insomma basta. Non è deo che non ci rivediamo “qui” – ci siamo infai mai “visti”?
Lo so lo so che è solo per imbecillità mia che il computer non ha salvato – per fortuna – quel testo. Non riesco proprio a premere il tasto salva. Che si salvi lui, che si salvino loro, essi, se vogliono: vivere?) [rubrica dark passage/evisioni, “Duel”, 91, oobre 2001]
Il momento in cui scriv(ev)o
Il momento in cui scriv(ev)o. BAM, bang, you’re dead! Era troppo facile a metà dicembre pensare alla catastrofe imminente; non fu terrorismo né un vulcano, è stato terremoto. Sulle tribune internazionali che hai in mano già si parla di ricostruzione conservativa e innovativa, di chance per gli architei, il palinsesto febbrile che nel presente lavora a cancellarlo si è messo in moto all’istante, non si è mai interroo. (Intanto il maquillage chirurgico, l’intervento restaurativo sull’aspeo del corpo arriva al governo; niente male, come dichiarazione d’intenti, quasi troppo onesta; l’ultimo governo italico non berlusconiano mi capitò di chiamarlo “ri-governo”, e – mammona per mammona, mercato per mercato – non sarebbe male che i governi confessassero rivendicassero scoprissero la piccola arte domestica del “rigovernare”, senza fingere riforme epocali o differenze abissali o fieri contrasti tra valori. Parlando invece di persone che puoi amare: perché lo fa?, davvero non ti amano se credono che gli guardi fisso la guancia o una ruga sul collo o i dolci reticoli del tempo soo gli occhi, o non sentono di essere amate se pensano che tu riesca a uscire così facilmente dai loro occhi). L’antica cià persiana dove un film aveva situato l’eterna aesa di nemico del Deserto dei tartari è travolta da un piccolo scossone del pianeta, uno sbadiglio, e già i computer la riimmaginano. Mentre il nemico lo aendi a ogni istante, non sarà una nuvola di polvere ad annunciarlo, una persona si allaccia la cintura di insicurezza e ti esplode accanto, sei tu con lei una nuvola di polvere. Per cause che ti paiono – se dichiarate – più frivole o allora più metafisiche di un duello d’altri tempi per questioni di precedenza a cavallo o per la mano di una fanciulla senza mani. E in ogni “caso”
impressiona la precisione entropica della catastrofe, il suo corrispondere a una sorta di costante endemica di dolore di scacco di morte di scucitura, allo stesso modo in cui l’espandersi del numero degli esemplari di una specie – o dei dati della nostra singola memoria – sembra comportare una automatica minor intensità lividezza forza dei momenti singoli. Una tensione/intenzione che se imbrigliata – che so? – dai controlli in aeroporto si manifesta in altre forme più impersonali. Turbolenza. Sopra quel cervello di nuvole appena araversato (sì, quando le vedi dall’alto senti obsoleto il modo di dire “la testa tra le nuvole”; l’immagine anatomica del cervello che ormai hai in testa “è nuvole”). Un vento che non vedi ti sposta ti sballoa ti dicono che sarebbe meglio non scrivere ma ci provi. Sai che fuori fa freddissimo, tipo superficie marziana. E che i motori peraltro friggono l’aria, la turbano e consumano mentre i fumatori impediti si vedono sbarrare la toilee. Sai molte cose, quasi tue inutili per l’obieivo pur minimo arretrato misero di ridurre per esempio la miseria alimentare e le forme estreme di dislivello economico. asi sai o sospei di essere tu, a volte o una volta sola per tue, la “farfalla” capace con un suo inavvertito movimento d’ala di far fallire un equilibrio o di far fallo in modo definitivo, di provocare un terremoto a Bam. Come votando: negli ultimi “tempi” è avvenuto troppe volte in troppe democrazie che un esito eleorale venisse deciso da un pugno di voti, per non pensare che il tuo voto proprio il tuo possa essere quello che decide, e nella vertigine non puoi non avvertire quanto insensato possa essere il voler votare a ragion veduta invece che lanciare un dado. Ti fanno spegnere il computer (“Stiamo per aerrare… preparare gli scivoli ec…”), come per il decollo. Immagino la mail di scuse per rollingstone, ennesima (questo del resto è un pezzo tuo riscrio, un palinsesto in cui “si” parlava di tu’altro; mi son trovato troppo lungo al solito), pronto ad abbandonarmi al deliquio proprio della posta eleronica, forma di un “dialeo” estremo e meticcio della scriura, al limite dell’orale, ibrido di appunto biglieo cartolina telefonata stornello improvvisato telegramma confessione
ravvicinata traboccante di anacoluti e di errori di “stampa” e di lapsus favoriti dall’orizzonte istantaneo in cui sai di trovarti scrivendo, quindi di spietata e inerme incorreggibilità potenziale. Mai forma di scriura è stata così “in direa”, così dissolta nel continuo presente spaziale del tempo, così “voce” (più perturbante del telefono, perché meno ci illude di una “naturalità”, la abbiamo vista formarsi la stiamo formando soo i nostri occhi). Si può certo mandare via mail testi classicamente correi di ogni genere burocratico o leerario, ma lo specifico di questa “e-” che non è congiunzione ma qualifica sta proprio nell’evidenza del (dis)farsi in direa, nell’essere aperta all’errore prevedendolo favorendolo esigendolo, nel dipanarsi ipnotica o fulminea, assolo di albertayler finta afasia satiesca filastrocca nenia lamento risata ritornello pop o canzone punk da un minuto. Riaccendo. Nell’ultima turbolenza (in essa il mio terrore costante per il volo dentro la grande macchina che ti sfugge e ti eccede svanisce, sento le ali, le divento, loo e l’angelo non si spezza, il mentale ridiventa fisico, mi chiama invece di oundermi nel ronzio di una sicurezza lontana) sono caduti dalla sacca uno schnike live/dead petergreentheendohegame whatevershebringswesing tim/starsailor oneida “more”. Ah!, dovevo riportare qui il racconto deadlive di quel concerto pinkfloydiano losangelino dei melvins, tagliato per il troppolungo del mese scorso. Non sta neanche “qui”. Si rulla ai margini della pista e del testo, si vola bassi bassi a terra lenti come i fratelli wright o sangiovannidacopertino (quaro)centannià. alcuno un aimo prima avrà pensato d’esser lì per morire. Riporto l’originale latino da cui il verso francese del déadiàvu scorso: Hoc quod loquor inde est. Nel corridoio un bicchiere di plastica di tè rotola. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, febbraio 2004]
Sommersi e salvati
Non so. (Disagio di scrivere qui in lieve fuorisinc rispeo alla finta quasidirea del “quotidiano”. Gli “inserti” sono schegge di un “prima”, supplemento di ritardo. Il mio deadline vano è lunedì noe/alba di martedì. Su questo crinale nourno cerco alla cieca, più accanito dei soccorritori, in una stanza d’albergo europea, notizie del Boeing indonesiano scomparso nel nulla da giorni. Ormai affidati, gli scampati improbabili e noi, al radar degli sciamani, in situazione mitica e biblica; e il nome della compagnia aerea, Adam Line, evoca l’apparire/sparire del genere umano. Verifico on line con macchinosa incompetenza, intanto dai TG di noe e aurora piovono nomi e titoli il cui senso evapora all’istante in perfei anagrammi di presenti sempre diversi (stamane impazza dall’Italia la strage di Erba, pensi al rapporto apocaliico sull’effeo serra in Europa, all’erba del vicino sempre meno/più verde). Svanisce l’illusione “quotidiana”, l’inganno della connessione direa. Ogni scriura, anche la più vicina e balenante, nel manifestarsi è già loin de moi, voce fuggita lontana dal “noi” che la pronuncia o la legge. L’immagine, veloce come la luce, non sfugge al ritardo, lo ribadisce con intensità rapinosa e infinitesima. Mostra in flash una tessera della scultura/mosaico iperbolicoparadossale che ogni istante starebbe, indicando l’assenza del presente. Avvicinando alla sostanza spaziale di esso, solo momento in cui sembra di essere (ancora) in gioco o che sia possibile l’illusione folle di poter giocare a scegliere, lo allontana con precisione illuminista. Ultimo (perché primo, nella visione del set che sono i nostri occhi) schermo in cui si (ri)scrive il reale, l’immagine è già nostalgia lampante della connessione che vorremmo (?) essere piuosto che tecnicamente avere. O già
è così, e si avverte nell’aria l’incrociarsi di schermate innumerevoli di dati e notizie che quasi esigono un nostro (?) poter dover sintetizzare l’infinito presente di un solo istante, onnileggerlo onnivederlo empiamente. E torna dolce il lunare scarto dello scrivere mensile seimanale quotidiano che pure risento e avverso e col quale mi misuro e combao scrivendo, anche in questi due giorni in più/in meno). Non so se l’aereo scomparso e gli adamiti dissolti siano stati trovati o localizzati almeno. In ritardo, mi sconneo a malincuore da un televisore che alle 7.33 si/ci domanda se “fa” prima e meglio la pentola a pressione o quella normale. Non so dove eravamo rimasti, o so che non si resta e non si torna mai dove pur siamo e dove crediamo di tornare. La proiezione speacolare, anche nei suoi aspei più banali, è forma di questo. Produce e sposta altri schemi sempre più soili e quasi respirabili tentando di dissolvere lo scherno (dalla realtà; e lo schermo che il reale è) o di colmare la distanza. Mentalmente pare perfino di averlo sorpassato lo schermo, di essere dall’altra parte. Saremo see miliardi troppo presto, in loa accanita per le risorse e (se non troppo spenti) per le forme di vita del futuro. Ancor prima, sull’orizzonte terribile dell’immortalità sempre più pensabile, ci parrà (già stringe il cuore vedere che gli amici morti giovani diecianni fa di Aids o di altre malaie sarebbero ora faticosamente o agevolmente “vivi”; ogni giorno forse si trovano o provano nuove “penicilline”, affidate poi al caso capitalistico, al profio sfalsato) amoroso o legiimo o perfin giusto tentar di riconvocare risuscitare rianimare i morti (o averli, possederli, interrogarli “dal vivo”), quelli che non poterono immaginarsi clo(ri)nati, quelli che avrebbero desiderato (o meritato? Nuove incredibili loe di classe ci aendono, nuovi amici o diabolici scontri sulle risorse?) esserci, riesserci ancora. L’acqua bolle (ore 7.37): togliere o non togliere il coperchio? [rubrica (live in)vàno – Notes magico per futuri rinviati, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 18 gennaio 2007]
L’arte di sciamare
03.33 al mio orologio. Sussulto in godimento calmo. Muri tremano, mobili sobbalzano. Tuo trema e sta fermo. Nulla cade, il fotogramma è intao, io sono l’immagine stessa che mi avvolge. Più la scossa dura più penso di essere in sogno (alle 3 mi ero svegliato annaspante nel vuoto all’altro capo del leo correndo tra i rovi con mio figlio inseguito da nazipellerossa ululanti). Poi si dilegua, non si è aperto il velo del tempio. Nessun presagio di allarme in TV. Apro le finestre sul silenzio; luci accese, solo noi soliti noambuli a scrutare l’illuminarsi altrui. Lancio sms oniricosismici in cronfusione oraria. Televideo: forte scossa in Abruzzo alle 3.32, crolli a L’Aquila, i carabinieri stanno verificando se ci siano danni alle persone. Di nuovo a leo, mi abbraccia una scossa ondulatoria e muta. Mi addormento in una preoccupazione soffusa che lenisce se stessa. Roma galleggia sul soosuolo acqueo, assorbe indifferente e cinica terremoti e sognomoti. Il risveglio, scandito da morti e dolore in più a ogni collegamento, propone al dolore un’antropoetomitologia del terremoto. Sciami di centinaia di piccole scosse imperversanti da mesi; il radon, gas radioaivo terribile, il cui sprigionarsi intensificato dal terreno sarebbe segno preciso di disastro imminente. Un coacervo di indicazioni disegna una zoologia fantastica, draghi inaesi si agitano soo la crosta di quel che ci sembra più solido. (E anche aghi di amianto escono dopo decenni di aesa in sonno verminante nel corpo umano). Pronta, la molecola ricordi.
PKMzeta
farà dimenticare i brui
[rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 9 aprile 2009]
Spettatori del treno
La guerra alla pandemia sarà o sarebbe guidata da un(a) generale. I piani ideati dalla generalessa dell’esercito americano e svelati dalla stampa hanno fao scandalo. Forse – ancora una volta – la guerra è troppo importante per lasciarla fare ai generali (anche la più semplice e irrisoria delle cose è troppo importante per essere abbandonata alle cure degli specialisti; e il mondo sarà cambiato davvero solo quando una cuoca anarchica e non leninista potrà (ri)governarlo). Scandalizza la franchezza economica che nel confronto con un’epidemia mondiale virulenta mee subito da parte lo spreco tenero sublime geniale che è l’unica mutazione generata quale contrappasso e resto dall’aerea durezza della società capitalistica nel suo incontro con la contraddizione cristiana della scelta di essere (con gli) “ultimi” e di aendere la risurrezione della carne: l’aenzione a deboli e malati. Aenzione anche perversa, in gran parte riservata ai “ricchi”, succhiando risorse alla comunità possibile in nome di un democratismo antieugenetico in effei aristocratico. “Gli speatori impietriscono quando passa il treno.” La prima enigmatica annotazione del diario di Kaa, 1910, descrizione lampante e carpiata della situazione cinema, vale ormai per tue le meduse che dal presente nel presentare il futuro bloccano le rare possibilità di sentirlo nostro. Gli speatori sono anche sul treno, e ne scendono per sempre insieme con quelli usciti dalla fabbrica. Vogliono forse ancora – anacronisticamente – vivere. THIS IS IT. L’intensità del film di/da Michael Jackson è quella della società malata troppovecchia troppogiovane rallentata fino al surplace che non vuole immaginare di essere sacrificata così facilmente negli ospizi di alzheimer al moloch del virus che sarà troppo veloce per poter essere sconfio se non da una qualche lentezza inaesa.
[rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 5 novembre 2009]
Esterno Interno (a bb)
Nell’imbricarsi di catastrofi e di visioni dentro la “catastrofe giappone”, la crisi del nocciolo invisibile di essa (l’energia atomica madre fatale dello sviluppo), con la fusione che parrebbe già in corso nella centrale nucleare di Fukushima nel momento in cui scriv(ev)o, si accompagna a un annuncio di levità surreale, il ritiro dalle sale del Paese del film Hereaer di clinteastwood. La Warner Japan lo ritiene “inappropriato al momento”. Forse è il momento che è inappropriato alla situazione. Il cinema non basta più all’immagine, l’immagine non basta più a tenere a distanza l’orrore, né ad avvicinarci l’amore. Vedo in TV superstiti di Hiroshima in tournée perenne, in questi giorni nel nostro Paese. La catastrofe ci ridice che siamo tui superstiti nello hereaer dello scao di un weegee radioaivo che nell’agosto del 1945 folgorò la condizione umana fotografando la facilità del suo suicidio. Il biancore telematico su cui scrivo scorre soo i miei elicoerocchi, spazio devastato che avverte il premere dietro di immagini terremotate e tsunamizzate pronte a spalancarsi in un clic Vorrei scrivere, con immenso affeo, dei seantanni di bernardobertolucci, cineasta immenso e immensamente soovalutato dai suoi stessi estimatori. Della sensibilità purissima con cui da rabdomante invisibilmente invasato permee al cinema di effondersi in trasalimenti che provengono da una percezione oltreumana. Del cineasta raro capace di dire “L’ultimo imperatore sono io”, indossando fino in fondo (nell’esterno interno che mai si legge nelle sceneggiature, ma che è il set più proprio e misterioso del cinema) il bovarismo filmico estremo, la vuotezza del poeta teso a esser tuo.
(Una “featuree” mi mostra ora la sofisticazione semplice di corpi e forme mutate e spostate digitalmente nell’inappropriato tsunami iniziale di Hereaer. Proprio bb, oscar col film imperialultimo anche grazie all’armata cinese su cui poté contare, entrò nel digitale replicando le file dei cavalieri nell’illuminazione del Piccolo Buddha). Il grado ultimo di tele-fissione (prima della scomparsa accecante delle differenze) sembra essere il nuovo iPad di stevejobs (spero si possano azionare insieme le due microcamere che lo trafiggono guardando una avanti una dietro). La fila di filmatori eroici anonimi homeworldvideo che da un balcone appaiono un istante nella ripresa di uno di loro, affacciati sulla mareonda che schianta e porta via tuo, è la moltiplicazione digitale di Paisà: nulla più da fare, finite le munizioni il partigiano si accende una sigarea e aspea the End. Rivedo il finale del filmino pubblicitario di hereaer. L’ultima inquadratura, un pp del bambino, è divisa in due riprese affiancate (come quelle satellitari col giappone geograficamente mutato); identiche. No, ecco la differenza, in una delle due sgorga digitale dall’occhio una lacrima. [rubrica Detour (12), “Film TV”, 12, 27 marzo 2011]
siamo mai stati (serendipity)
Scusa ma avevo ragione io. Non era la Concordia Costa, a albergare la vacanza troppo piena troppo vuota di Film Socialisme di Godard con paismith e alainbadiou tra gli altri. Sapevo che era la stessa della crociera spoone di neriparenti (sia pur con l’immenso christiandesica irreal(a)socialista a giocare con la propria genealogia). Googola rapida la conferma in post gustosi acuti di jumpinshark del 2011: si traava della nave gemella, la Serena Costa. E mi spingo verso il cinismo ineffabilmente folgorato dalla digitata, che prima di aggiungere e apparentare alla nave i nomi di registi e aori inciampa sulla diciannovenne Serena Costa, travolta e annegata in un torrente di fango soo gli occhi della famiglia Noitui che assisteva all’alluvione genovese del novembre scorso. Ti ricordi quando scherzavo sul Titanic con la “c” dolce di tremonti in parlamento a chiedere sacrifici per tui i viaggiatori dalla prima classe all’ultima? Suonava TITANIETZSCHE. Non c’è bisogno dello scoop godardiano che la repubblica ripubblica. E il vecchio karlmarx ci permee di rivoltarlo nella tomba: è la ripetizione eterna speacolare senza fine – anzi già da prima dell’inizio – a trasformare in tragedia la farsa. Sembrava il Titanic, dicono tui i superstiti. Il relio reliuoso lo ribadisce, torre inesplosa allungata a prender sole e acqua sugli scogli, a irridere il (pre)évenement dell’incidente mancato (o forse noo⁈) godardiano e a comicizzare il colare a picco del set di jamescameron. (Si sussurra che parte dell’acqua e forse del gasolio stesso sia digitale, non lo si dice per rispeo ai morti; del resto la serenità costa, nel giardino galleggiante concorde dei falsi contini; quanto si pagherà, prima o poi, per un giro sul relio? O la nave ri(arvo)partirà? Sauve i Peut(La Vie) – ciao da egh). SE MAI SCRIVO.
[rubrica aluncina, “Blow Up”, 166, marzo 2012]
7. Risacche e rapsodie
La musica è un monitor a colori. Il disco un oggetto nero
Ingombrante e anacronistico il “disco”, sommerso da tui i suoi accessori risultava essere solo un accessorio, a questa esposizione dedicatagli alla fiera di Genova. Trentamila persone in una seimana (la manifestazione si è chiusa il 1° maggio) hanno visitato gli stand e la discoteca, dentro un gigantesco padiglione, quasi tui, giovani tra i dieci e i vent’anni, che nonostante l’arretratezza complessiva della situazione italiana, hanno confermato e dimostrato l’evoluzione in ao nelle condizioni della fruizione dello speacolo-musica e dello speacolo in genere. “Dentro” il Disco-Expo, infai, neanche l’ombra del disco come oggeofeticcio: il disco tiene ancora molto bene come pura “merce” ma la forma del feticcio lo ha abbandonato, e copre un’area molto più vasta del suo ambito ristreo. Ciò che colpiva nell’esposizione, era la flagranza del dominio dell’aspeo “visivo”, dello speacolo musicale né “musica” né “televisione” né “cinema” né tanto meno “teatro”, ma un’“informazione” complessiva che, assai poco speacolare in sé (anzi con molte caraeristiche dello squallore), si mostrava però come speacolo ultimo e definitivo. Musica diversa da ogni stand (case discografiche, radio e televisioni private), disco-musica nell’affollatissima discoteca ma soprauo immagini: il “centro” di ogni stand è il monitor televisivo più o meno grande, normale oppure avveniristico (i superschermi arrotolabili già molto diffusi negli Stati Uniti). Il monitor, i soliti filmati dedicati ai più svariati esecutori della più svariata musica “uguale”. Oppure, sempre con molto successo, Italia-Olanda dei mondiali di calcio, uno degli ultimi gran premi automobilistici (visto che Villeneuve “vola” ancora?), soprauo Goldrake adorato da
tui i bambini che a casa hanno il TV color, telecamere “riprendetevi da soli” a disposizione del pubblico, “guardatevi mentre guardate la nostra telecamera”, Pai Smith, Frank Zappa, Bryan Ferry in poster, magliee Lou Reed, Clash, Pinkfloyd. Sullo sfondo, bisogna ripeterlo, la “discomusic”: apparentemente, l’ultimo trionfo e la rinascita nominale del disco come supporto materiale della trasmissione musicale. In effei, termine dell’implosione musicale, radicale sparizione della “musica” in un’astraezza sonora che lascia tuo lo spazio al “corpo”, al corpo che “si vede” in mezzo ad altri corpi, tra le luci e le ombre in movimento, né il termine opposto sfugge al “bisogno di speacolo” complessivo: la roura punk (distribuita secondariamente dall’esportazione discografica) è essenzialmente legata al gesto dell’happening e all’immagine che lo riproduce, non esiste quasi prima di essa, è solo rock durissimo testi inusuali e sgrammaticatura voluta. La stessa forma-musica si dissolve, non include più il rumore ma è il “rumore” di fondo a includerla. Musica diventa il lampeggiare dell’immagine eleronica, la pluralità di immagini, una dentro l’altra, una a fianco dell’altra, una lontanissima dall’altra. Musica come ordinamento di immagini dentro uno spazio, come ricostruzione di uno spazio mediante queste immagini oltre che mediante le fonti emienti di suoni. Ma, più che il gioco o la disseminazione, sembra contare che il fantasma diventi più potente e sensorialmente completo – sembrava forte e misteriosa “la musica” capace di schiantare rompere oppure opprimere ogni altra cosa – ma non sta più lì, nell’“aria” come luogo senza dominio, né del disco oggeo frangibile rigabile facilmente controllabile: trasmigra in un apparire dove si manifesti di nuovo più concreta e più astraa. Il ragazzo che ha sentito mille volte il pezzo di Baglioni o anche quello di Johnny Roen si bua ugualmente a vedere il filmato che gli ridà lo stesso pezzo televisivamente, magari col cantante in asincrono e certamente senza ombra di stereofonia; il corpo si muove verso quel monitor o, senza
motivazioni, si aggira tra i monitor senza neppure guardarli, percorre lo spazio dell’esposizione con in mano una borsa da dischi piena di cataloghi. È una fiera, infai; dentro un capannone: in fondo, siamo sempre lì, è come la fiera di Milano. La folla (qui i giovani, giovanissimi) ci trova la forma ultima dello speacolo della merce, può vedere “vedere” divertirsi informarsi, far gara a chi ha più dépliant, anche toccare: tanto non c’è “nulla”. [“il manifesto”, 4 maggio 1979]
Sezione TV: frammenti di mercato
Nella strana compaezza linguistico-produiva della sezione “Venezia TV” (su 13 titoli, 5 italiani, due svizzero-italiani, più una coproduzione italiana nel “pezzo” su Praga per Raitre di Chytilová/Menzel), è difficile intravedere gli spezzoni di un progeo, che sia di produzione o di regia (regie) o infine di immagine della sezione stessa. Mi si chiede di parlare brevemente degli italiani. Forse si potrebbe farlo in rapporto alla durata disparata dei prodoi; o forse in rapporto al rapporto che singolarmente intraengo con la televisione. Oppure naturalmente, verrebbe fao di meerli accanto agli altri numerosi prodoi o co-prodoi televisivi presenti nelle altre sezioni (i due casi maggiori: Kaos e Cuore). O infine, al di là della sfuggente “specificità” della sezione, sarebbe istruivo indagare sulle provenienze produive, le diversità di formula, le destinazioni di palinsesto all’interno delle reti. La Rete due della Rai è per esempio presente con tre tipi diversi di prodoo: Nucleo zero di Lizzani, riduzione “civile” di un romanzo civile-politico, già tagliata su esigenze televisive di ritmo, con la contemporanea dilatazione e concentrazione che è il mistero fondante del prodoo televisivo medio; Un caso d’incoscienza di Emidio Greco, esemplare progeo d’autore insieme anomalo film-TV, la cui didaica è affidata a una compaezza d’intenti difficile da far passare dentro il tempo televisivo; Sogni e bisogni di Cii, progeo curioso e quasi affascinante che cerca di ribaltare la linea di contaminazione dalla TV al cinema in un campo (quello del contenuto medio-basso, tra commedia e commediaccia all’italiana) pericoloso da percorrere in modo nuovo e streo, sia in TV che al cinema, nella morsa tra cabaret e avanspeacolo (ma, anche se si legge e si dice e “si
sa” – ? – che è una produzione – di Manzoi – per la Rete due, pochissima promozione Rai era dedicata alla cosa). Presente con un solo “pezzo” (Un delio di Nocita) la Raiuno della già trionfante Piovra di Damiani. E Raitre presente essenzialmente con il momento praghese, un po’ casuale, di una serie che avrebbe potuto essere memorabile (ritrai di cià e capitali europee affidati a registi di prestigio, da Anghelopoulos a Olmi, a Duras) se pensata più in esteso, più complessivamente, meno a “collana di medaglioni” del tuo autonomi, staccati l’uno dall’altro, affidati al mito impressionistico dell’occhio d’autore e non all’intervento di tale occhio dentro una serie e magari allo “scontro”” tra due oiche. Ma appunto non era questione di progei né di tendenze, a Venezia, né di “serie”. L’immagine un po’ curiosa era quella di un non-palinsesto a tui costi; uno spezzone casuale di immagine italiana e frammenti pazzi di mercato. Nessuna contaminazione reale, una scelta di genere “d’autore” che passa ben al di sopra (o forse oggi sarebbe meglio dire al di soo) di qualsiasi distinzione o confusione mediologica o infine “di genere”. Più interessante e televisiva e anche “filmica” di tuo il resto, allora, l’incertezza delle durate, l’impressione che certi prodoi siano ancora “in produzione” e “in lavorazione”, senza durata definitiva e senza forma ultima perché, si sa, se il last cut è solo del proiezionista (Friedkin dixit) in televisione l’ultima edizione può anche essere solo la messa in onda. Soraendoci a un’impressione complessiva di “sporco”, nel senso di una bassa definizione (sintomatica quella del presumibile 16 mm gonfiato di Nocita, mantenuta poi anche nell’emissione TV) non solo tecnica, di una sorta di rumore eleronico di fondo che passava a turbare diversi pezzi ben lieti di passare su uno schermo cinematografico, sarà allora il caso di parlare degli oggei come a sé stanti, esempi stralunatamente non-specifici di uno specifico. (Del resto, negli esempi più tersi della sezione, dico il film di Zanussi e quello di Eyre, la distanza mediale era colmata e negata di colpo, annullata coerentemente in una pratica
d’autore identica a se stessa; ininteressante – Eyre – o affascinante – Zanussi –, comunque una pratica che ha superato le diversità dei set – non a caso Zanussi è uno che odia il set, le riprese come contaminazione del progeo e dell’immaginato, il lavoro “sporco” – utilizzando il mezzo produivo-distributivo TV come una proiezione istituzionale e materiale del laboratorio mentale del proprio “set” individuale). Nucleo zero. Operazione “alla Damiani” (ormai è un “precedente”, per l’Italia): tema di forte impao politico e sociale, regista proveniente da zone cinematografiche analoghe. Con la variante (che non appare decisiva) di partire da un romanzo preesistente. Ma il dialogo quasi “non esiste”; di sicuro non resiste all’ascolto. L’equivoco delle frasi “verosimili”, istintive, “quotidiane”, immediatamente incredibili se immesse nella distanza siderale di un doppiaggio omologante. Operazione riproduiva che diventa ovviamente riduiva (delle singole situazioni, di alcuni “incontri” interessanti, del nodo complessivo della trama) non tenendo conto dello “scarto” – che se non c’è si avverte come vuoto e opacità – che dovrebbe e potrebbe esserci tra regia e messa in scena. Lizzani si conferma buonissimo conoscitore di meccanismi narrativi popolari: magari anche chi si vuole alzare (figuriamoci in TV) resta a vedere “come finisce”. Dove il film, la “cosa” (insomma le due prime serate TV consecutive) appare più interessante della media (e nella media va messa appunto la perfidia consumata del ritmo, stanco e diluito nell’arco generale, chiuso in sé nelle scene chiave e pronto a evitare l’eccesso di interesse che ucciderebbe il momento “debole” – o semplicemente “meno forte” – successivo…) è nel casting. La distribuzione dei ruoli è oima, non solo per la presenza suggestiva di Patrick Bauchau nell’aurea rohmerowendersiana (con intermezzi nel filone erotico). i siamo agli antipodi di quel cinema, ma Bauchau funziona come funzionano tui i “terroristi”, specie i volti femminili, alcuni bellissimi e inediti, tui capaci di immeere a sprazzi quella “verità di immagini”, quella sorpresa di un respiro umano e di
cinema insieme che le situazioni e la confezione non favorirebbero. Un caso d’incoscienza. Bellissimo titolo per il film di Emidio Greco. Soolineo film non perché siamo nel campo del “filmico” più sfrenato selvaggio appassionante, ma perché la coerenza di Greco cineasta, la sua “coscienza” spinta all’incoscienza, è quella di spingere al massimo – nella sua produzione di fiction – l’alterità rispeo agli altri generi televisivi (da lui praticati con frequenza di militante Rai) e a qualsiasi “trao”, anche stilistico, che si possa associare a una pratica televisiva media. Schizofrenia che dee la sorpresa, in un cinema italiano da tu’altro preoccupato, dell’Invenzione di Morel (1973), riflessione acuta sulle macchinerie dell’immaginario e non lontana dal “fantastico” originario di Bioy Casares. E che sembra orientarsi sempre più verso (Ehrengard, 1982) una complessità leeraria, intesa come densità ma anche come possibilità di koiné didaica della parola e della stessa struura romanzesca come alternativa alla dilagante e fiammeggiante “leggibilità” visiva concentrata della videomusic e del cortissimo di ogni genere (pubblicità…). Progeo interessante che si scontra però infine proprio con la superficie dello schermo (piccolo o grande). Facile a essere inghioita in TV (eliminata dalla scelta telecomando…) o a scontrarsi con la sontuosità filmica delle grandi intraprese cinematografiche degli autori schermici. i la fatica è accentuata dalla leerarietà “autonoma” (il soggeo è originale), che si scontra con l’altra “superficie” (le forme concrete, infine) che è il dialogo. Didaica faticosa, fascino freddo delle immagini, distribuzione perfea e accuratissima sulla carta ma anch’essa troppo “programmata” e appunto perfea, figée in una coincidenza senza scarti tra forma/personaggio/aore. Teatro di idee, affascinante se si riesce a fissarlo in una dimensione di “automi” oltre il politico e la storia, ma che necessiterebbe della follia e del budget di un E la nave va. Un delio. Anche qui qualcosa di araente o forse disturbante ma almeno “qualcosa” si annida nella
distribuzione. Il falso curato interpretato dalla Mazzantini, secondo la trama di Bernanos, è un personaggio che fin dall’inizio ci intriga per l’evidente falsità e improbabilità della sua “simulazione” (che spiazza del tuo, quasi in un’aura di ridicolo, gli altri personaggi). estione di voce, ed è rarissimo che nel doppiaggio medio sempre peggiore del cinema italiano emergano anche solo “inquietudini” vocali, eccessi, errori, o perversioni tali da ararre. Se sia merito di un controllo registico o di una falla o mancanza in esso, non si può dire. Certo Nocita – per i precedenti almeno – non appariva più bernanosiano di un Mariano Laurenti, anche se di quest’ultimo si ritrova una certa capacità di usare i corpi e volti. Ma i tentativi di “composizione” (che vadano oltre la Mazzantini e la scena inizialmente magistrale in cui si scioglie i capelli allo specchio) abortiscono in una piaezza figurativa che si accontenta del set e di alcune suggestioni primarie, in una incertezza globale di ritmo che sarebbe troppo pensare studiata per fare emergere le altre presenzeapparizioni, forti e “strane”, di Emmanuelle Riva e Daniel Gélin (che oggi sia più facile avere certi “aori” – loro tastano meglio il pubblico, sanno dove più li si “vede” – in TV che al cinema? Che sia una piccola modifica curiosa in ao?). Sogni e bisogni. Un altro titolo bello per quanto antico. Appena intuibile il progeo (presentati due soli episodi, Micio micio e Il faaccio, dei soli tre qui annunciati), piuosto nuovo, come si diceva. Centrato senza infingimenti sull’aore (Proiei/Ferréol da una parte, Montesano dall’altra, Nuti e altri grossi calibri comici aesi negli altri episodi), e molto pensato produivamente in funzione serial-televisiva; storie appunto intorno agli aori, brevi (mezz’ora) e con situazioni forti, set quotidiani e poco costosi. Ma a una spoliazione televisiva corrisponde anche un di più di amore per il corpo e l’ingombro del personaggio-aore, per la sua volgarità di volumi e di voce; rischioso, l’addensarsi della responsabilità sull’aore è qui però anche un proiearsi intero della regia dentro il campo televisivo, fino a rischiare la perdita di ogni identità (posto che il sogno sia il cinema – ⁇ – il bisogno è certo la TV – ⁇ – …) e magari comunque una non-aenzione
della massa-speatori in aesa di momenti vuoti e di “riposo”, abituata più ai corpi dimezzati dei TG o all’intermienza ossessiva dei baudi che alla presenza tonda e continua. Ma almeno è un rischio, un giocarsi. E si confessa che L’opera favolosa di Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero non s’è potuto vedere (non ho potuto; un ritardo forse, unica cosa non ammessa; un ritardo forse per la quasi contemporaneità di un Buñuel, o per una piccola sovrapposizione; “Venezia TV” si scontrava spesso con la fine di un Buñuel; buon segno o bruo segno, certo una rigidità di regolamenti e comportamenti lontana da qualsiasi flessibilità di palinsesto, una sacralità dell’orario fisso e dell’interezza del testo che a volte i “testi” stessi mostravano di non richiedere o di non “volere”). Problemi di orari, di durate, di rispeo per gli “autori”. Mi scuso. Ma si sarà capito che il mito dell’autore e quello del cinema italiano erano forse più “serviti” (volendo proprio) con i due video disugualissimi (clips musicali) di Antonioni e Bolognini, per Gianna Nannini e Amanda [Lear]. È di sicuro un altro discorso, così come il video non è la TV. Altre durate, altre economie, meno falsi problemi e piuosto un giocoso riproporsi degli inizi della storia del cinema. Sì, sarebbe da vedere perché Fotoromanza è grande e perfeo “cinema” di Antonioni, né cinema né TV. Ma è un altro discorso, e a Venezia era in effei in un altro spazio. [“Bianco & Nero”, XLV, 4, oobre-dicembre 1984]
Ascolta alla radio Hitchcock in TV
Non è una novità assoluta, nel 1984 Raitre e Radio tre hanno trasmesso parecchio Shakespeare della BBC nella doppia versione in contemporanea. Inoltre, permane una certa goffaggine e artificiosità dell’operazione: aaccare la radio o munirsi di radiolina, magari indossare la cuffia, rassegnarsi a provenienza e campo e qualità del suono diverse da quelle abituali ecc… asi un’operazione straniante nella sua scarsa elasticità, a meno di trasformarsi in piccolo ingegnere eleronico. Importante che lo si faccia (per la prima volta in Italia) con un film. È certo notevole l’aspeo di servizio (per chi sa l’inglese, o lo vuole imparare meglio), oltre che al piacere dei filologi/cinefili/hitchockiani, finalmente parificati a colti cultori del più nobile Shakespeare. Se la relativa macchinosità dell’operazione è da salutare di per sé come un felice aentato alla fruizione automaticoamniotica, come un “invito alla leura”, una maggiore naturalezza della cosa permeerebbe un mutamento radicale nella fruizione dei testi televisivi (film, partite, telegiornali, tuo…). Non risalterebbe allora tanto e solo la possibilità di un’integrità filologica mediante un certo “raddoppiamento” del testo, ma anche il suo contrario: molte possibilità “perverse e polimorfe” del testo potrebbero essere saziate, mediante raddoppiamenti reali ed estensioni plurime, riscriure, sovrapposizioni. Il segno dei palinsesti paralleli, o del palinpalinsesto, la riscriura continua, in direa, del palinsesto, testo definitivamente e insanabilmente aperto. Testo (come è della vita) impossibile da cogliere nella sua interezza testuale, perché essa non esiste se non per un soggeo colleivo o un individuo rilanciato dentro mille vite in sovrimpressione.
Non è lontano, tuo ciò, dalla trasmissione di stasera. Già la stereofonia (il suono, più forte e fragile, è la strada prima del politesto), che verrà introdoa entro un anno in TV anche dalla Rai, semplifica il gioco. In Giappone i film inglesi possono essere visti in originale o in giapponese semplicemente scegliendo un canale audio sul televisore. Per le partite, si può scegliere a volte un commentatore della propria fazione. Moltiplicando i canali, ogni testo TV potrà diventare una tastiera per mille audii diversi oltre To Catch a ief. A vanificare il mito dell’emienza centrale sarà il nostro audio-video pirata gentiluomo? [“il manifesto”, 27 marzo 1985]
Illuminazioni
Tuo il segreto sta nel vedere cento anni fa come oggi e oggi come cento anni fa. Marina Cvetaeva Dopo molto, molto tempo, credo di aver capito di colpo quale vicinanza che non sia – per ora – casualbiografica, o distanze che si ammirano, o una stessa fascinazione alta e abissale per il basso, ci sia tra programmi come Blob o fuori orario o Cinico TV/video. L’arazione per la “cultura bassa” spiegherebbe solo l’ovvio entrare in Blob come oggeo privilegiato, come prelevato da una TV esistente. Ma c’è una distanza siderale dai molti esempi locali similmente reperibili e prelevabili, citabili, demenziali, ribaldi, sfrontati. Cinico è intanto uno sguardo. Uno sguardo che si fa vedere, senza trucchi o leziosità visive. Solo con la potenza fordiana e vertoviana (a volte verrebbe da dire riefenstahliana) dell’inquadratura, e quasi sempre ribadito dal suono fuoricampo, dalla presenza evidente, oltre i bordi dell’inquadratura, di qualcuno che domanda, di qualcuno che sceglie i rumori o le musiche che (come solo in Kubrick) diventano la colonna sonora inevitabile e fatale di quelle immagini. La comicità, allora, è il primo indizio. Non urlo o risata fragorosa. Urli muti, subito troncati, senza eco, o le risate a freddo, reiterate tragicamente dentro il solito degrado urbano. Una comicità minima e iperbolica insieme. Minima come il ridere di un povereo che scivola su una buccia di banana, iperbolica come se fossimo noi il povereo che scivola, e ciò accadesse in cima e sull’orlo di un graacielo, o cadendo
riuscissimo ad avere la forza o la leggerezza di ridere per come abbiamo fallato e ci stiamo schiantando. Comicità come primo gesto “critico”, primo spostamento. Cinico è sempre come un aimo prima o un aimo dopo che qualcosa accada, troppo presto o troppo tardi rispeo all’illuminazione che una volta ha provato a meere in scena. E piccola, piccolissima e decisiva si rivela sempre la differenza tra immobilità e movimento, in molti “quadri” in cui scena sfondo quinte urbano-periferiche, aori o corpi, sguardo, restano fissi come in fotografia, e solo un volo d’uccello o di inseo, un occhio che si socchiude controluce, o la parola, li toglie un aimo da quel “per sempre” monumentale. Comicità come tempo, soffio che permee di “ridere dentro” prima e dopo la gag. Laurel e Hardy diventano rapidamente, appena fissati nell’enciclopedia o nel diario visivo dello speatore, segni automaticamente comici, il loro stesso semplice muoversi su un set, o stagliarsi su di esso immoti, ci può far ridere. E in Cinico basta la presenza di un (di quel) ciclista, o di uno qualunque dei suoi compagni, in campo lungo come un albero o un muro, a rendere comica l’inquadratura epica di quelle strade, di quegli spiazzi, di quei casermoni urbani che sono la Monument Valley di Cinico, la reinvenzione di un set siciliano totalmente antimediterraneo, quasi sempre oppresso da nuvoloni o da cieli grigi da deserto americano, con tua la follia della terra o del vento, dei cicloni che possono arrivare. (E a proposito di movimento e di ciclismo. Mi pare che il ciclista sia stato il primo personaggio formato a “uscire” da (entrare in) Cinico; già il residuo, l’eco, il desiderio o il rimpianto di un movimento. Già archeologia di esso. E continuo a immaginarmi un bieco sfruamento di Cinico per un programma quotidiano al/sul Giro d’Italia, in TV; stando naturalmente a Palermo; o portandosi Palermo sul set di tappa?). Insomma Cinico ride. E per ridere si distacca da un imperceibile scarto di tempo, rende poesia questo stesso lieve scarto, filma continuamente la distanza dai propri personaggi, quello spazio che ci è dato per amarli, odiarli,
riderli, temerli. Che sia un’intervista, una conversazione in Sicilia (lo è ininterroamente, Cinico), o un quadro fisso jazzato, o il carrello lungo un muro, Cinico costruisce monumenti e insieme li filma, se li ri-prende. L’altissima e “semplice” lavoratissima qualità dell’immagine non è mai ingenua (come non sono mai ingenui Ford, Disney; come non è mai ingenuo un Ejzenštein), costruisce appunto uno spazio che (di qualunque set o di qualunque corpo si trai) è monumentale, è già incorniciato, è un presente due volte passato, o un quadro sublime dal quale fuoriescono (o nel quale entrano) p(o)eti, che reca la tipica nostalgia “artistica” di qualcosa che si è perduto, che è lì solidificato o stratificato per sempre, scultura, statue, in aesa di un altro sguardo che rianimi o riuccida quelle strade, quelle cià, quei volti e quelle gambe, che capisca quelle parole. Che le cose siano sempre o non siano mai (mai) “viste”. Ecco cosa avvicina Cinico ai nostri programmi, alla loro non troppo ingenua voglia di rovesciare il tempo, di repertorizzare la direa e “direizzare” il repertorio. Ci sono molte altre cose tra il cielo e la terra dell’universo Cinico TV, e molte forme, molti generi usati, molti riferimenti, molte citazioni, un oltre assoluto del teatro senza bisogno di teatro, della piura senza bisogno di muri cui appendere quadri, della scultura senza perdere nelle statue il respiro del corpo e del tempo. C’è il bellissimo procedere jazz per diramazioni, improvvisazioni studiate, il procedere affiatato di un combo che sembra definitivo e che poi miracolosamente si allarga, include nuovi elementi. C’è l’improvvisa fascinazione hard per questi corpi, sculture distanti dentro le quali di colpo viene inghioito il nostro sguardo, dentro il cui “nero” entra la macchina da presa, il video, e resta una voce fuoricampo ma dentrocorpo. Solo questo “di colpo” volevo provare a dire, questa volta. Come in ogni cellula di frenesia comica “cinica” e di cinica altitudine visiva ci sia il terribile rigore politico di stare in posizione inversa rispeo al tempo. L’occhio cinevideo capta e ricalca, succhia e rimpasta e riproduce il tempo, sì. Ma quel
tempo lo riestrai e lo fai “vedere” solo se già guardi l’immagine stessa come un lontanissimo reperto, con tua la vita selvaggia che da quell’accumulo di tempo deriva. La forza disperata, con i lucidi folli (sia gli aori che gli autori) di Cinico, di uscire dal set anche sul set più immobile e mutevole d’Italia, la Palermo che è oggi uno dei luoghi più paradossali del mondo. Vedere cento anni fa come oggi e oggi come cento anni fa. [Testo di presentazione allegato alla videocassea InSenso Cinico, Cinico TV di Ciprì e Maresco, 1993]
Cinico cinica. Cinico video 1989-1999, dieci anni di cinema in TV
Dieci anni fa, a Palermo, il lavoro comune di Daniele Ciprì e Franco Maresco, dopo alcune realizzazioni per la televisione locale TVM, dà vita a Cinico TV, la più formidabile saga della TV indipendente e d’autore nel nostro paese, unica anche nel panorama internazionale. fuori orario cose(mai)viste, che comincia a andare in onda a novembre dello stesso anno, e Blob (prima puntata aprile 1989, duemilacinquecentesima domani, a sua volta espansa in un’intera noe di fuori orario) diventano quasi subito i naturali interlocutori di Cinico TV, facendosene spesso invadere e disseminare e risultandone il primo motore di diffusione (si ricordi l’apprezzatissima e destabilizzante striscia di Cinico Blob per varie seimane affiancata a Blob stesso, come poi quella di Rocco Cane) anche in altri programmi della Raitre di Angelo Guglielmi come Avanzi, Cielito lindo e Pubblimania. esta noe di fuori orario non vuole peraltro essere la celebrazione di un lavoro comune e di passioni vicine (già diverse noi di fuori orario in passato sono state costruite con la direa collaborazione di Ciprì e Maresco) ma, a partire dalla monumentale e ironica rotondità dei “dieci anni”, un araversamento di tua la loro esperienza vista secondo una forzatura che in essa vuole individuare privilegiare “sorprendere” (fin dagli inizi) la forza e l’intensità visiva filmica che rende appunto Cinico TV una costante strisciatura di cinema dentro una TV che invece continuava largamente (come gran parte della critica) a coglierne celebrarne utilizzarne lo spirito comico ribaldo eccentrico eccessivo duro ghignante. Oltre al mitico folgorante e folgorato capolavoro di tre minuti, Illuminati (vincitore e rivelazione definitiva a Bellaria nel 1990) si potranno così vedere o rivedere, insieme
con altre scelte accostamenti sorprese proposte in prima persona da fuori orario, i titoli più amati indicati dagli stessi autori, come Grazie Lia, L’alba del killer, Pasta e fagioli, K, Mafiaman, e i pezzi migliori delle serie dedicate agli eroi mitologici della loro galleria di santi/mostri, come il ciclista Tirone, Marcello, Paviglianiti, Giordano, i fratelli Abbate. E alle strisciate seguono i loro costanti e periodici omaggi e ritorni o dediche ai grandi del jazz (da Coleman a Ellington, da Monk a Coltrane, da Parker a Dolphy…) fino al coinvolgimento direo di Steve Lacy nella performance dal vivo sulla loro partitura visiva di A memoria). Sì, perché la genialità intensa di Ciprì e Maresco (e, di nuovo, la loro qualità filmica) sta proprio nel sapere che l’originalità è una forma più spinta e subliminale di “memoria”. Così, alcune delle immagini più inedite nella storia della TV italiana sono anche invece raffinate e elliiche citazioni e offerte e “dediche” a grandi sguardi occhi allucinazioni di cinema già/mai (stra)visto. Da Kubrick (una vera ossessione di riferimento) a Ford, da Pasolini a Fellini alla libertà rosselliniana, a Buñuel; fino agli incontri dal vivo con i vari (e variamente inquadrati/interrogati) Fuller e Scorsese e Carmelo Bene (loro strenuo fan) e De Seta e De Santis e Bogdanovich e Gitai. Si vedranno naturalmente anche i prodromi (Trinidad, del 1989, dove albeggia l’episodio del cinema porno che si ritrova poi nei film) i trailer i tagli i set dei due lungometraggi (Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte) che hanno marcato la finesecolo del cinema italiano di un’aura nerissima da fine del mondo, fine del tempo, fine del cinema… Ecco la fama di “invisibilità” dei due film non è un’avventura diversa, un mutar genere formato lunghezza per necessaria pigrizia (come accade in troppi passaggi al cinema dal piccolo schermo). esta noe mostra come lo schermo di Ciprì e Maresco non sia né grande né piccolo, ma senza dimensioni, come in Rossellini. E il loro è sempre c i n e m a, anche nella più vigneistica delle strisce, anche nel più raffinato e minimale e videoartistico degli “intervalli”. Annegata generata bruciata nella monumentalità del loro
color biancoenero sontuosissimo, l’immagine celibe (mai vista una donna nel loro cinematv, se non in repertorio magicossessivo) scopre a ogni istante una sacralità amorosa negativa del cinema, la passività memorialfemminile dello sguardo che si sente ferita fessura buco, passato istantaneo che provoca/aende la ri-visione/reazione del pubblico (volente o nolente) a occhi chiusi. [dailoscrio inedito per fuori orario – Cose mai viste, 13 agosto 1999]
Ma la sinistra che va alla City non è Blob
La sinistra italiana è quella cosa che vede Schindler’s List come il tributo commosso finalmente pagato alla memoria e alla pietà dall’autore del “cinico” Jurassic Park. Dico questo perché l’incapacità, non dico di prevedere, ma di leggere i movimenti e le tensioni, sembra il caraere primo della cultura di sinistra. Spielberg, con la sua applicazione (inconscia?) di solo cinema, ci consegna il più eversivo e spietatamente marxiano dei testi anticapitalistici: il campo di concentramento nazista come la forma degenerata ma anche “suprema” del capitalismo. È il capitalismo che si nasconde, sopravvive, vince come una “vecchia talpa”, in quella succursale di campo di concentramento più umano e meno sanguinario e terribile che è la fabbrica. Figuriamoci se la cultura di sinistra italiana può capire come mai la nuova plastica berlusconiana ha “vinto” così facilmente non appena si è travasata dalla TV alle sedi più streamente politiche. Come mai, appena è sceso in campo, Berlusconi (con soci) è subito parso giocare da solo, con la sinistra compaamente schierata sugli spalti a fischiare. Oggi si passa rapidamente alla loa tra bande di tifosi. Tra abbozzi di analisi e ricerca di colpevoli si individua un responsabile primo della “sconfia” nel faore tre (Rai), con una parodia volgarissima e meccanicistica dell’abbandonato marxismo. Se la destra ha vinto, allora la cultura di sinistra che sembrava imperare non era di sinistra ma di destra. I “giovani” che ridono con Blob o citano Tunnel votano a destra divertendosi a sinistra (sfogandosi insomma al bordello della sinistra, per usare una metafora che ridiventa familiare). Forse questo riso era già di destra…, questa rete cinica che ha fao della realtà un gioco è stata il vero grimaldello usato dalla destra dormiente…
Blob è il capro espiatorio più usato, abusato, sfinito, grazie al suo valore di metafora: “La sinistra ha fao Blob” (quanti titoli ci ricorda?). Blob mee tuo sullo stesso piano, irride i valori (così santamente tutelati ormai dal nuovo arco costituzionale da Bertinoi a Fini), spaventa bimbi e anziani acquaati normalmente nel quieto calduccio delle immagini dalla Bosnia o dal Ruanda presentate dai conduori di TG con compunto sorriso sulle labbra. Non è Blob invece (va precisato) la sinistra che va alla City per invocare “credibilità e solidarietà”, che continua a credere nei bei tempi della forza “di opposizione e di governo”, che lancia Berlusconi con prime pagine strillanti scandalizzata pubblicità quando costui indica in Fini il suo e sindaco di Roma, e un mese dopo promuove Fini a campione di onesta liberaldemocrazia (preferibile al demoniaco cavaliere telecrate), trovando di volta in volta in Montanelli, Maurizio Costanzo, La Malfa, Bossi, Del Turco, Spadolini, Tiziana Parenti gli eroi e i paladini della propria loa, che dopo le viorie dei sindaci progressisti grida al trionfo epocale (salvo il misurato e preciso Cacciari) per poi lamentarsi di essere indicata come “pericoloso nemico”, e magari con i toni eccessivi della propaganda, dal centrodestra. Altro che Gadda e Joyce e Pound e Céline. i si parla di Auditel, in modo gratuito e scorreo. ell’Auditel che è il voto politico. E dell’Auditel che comunica un 10-13 per cento di suffragi televisivi all’insensibile e abiea Raitre. Ancora meno, per i programmi del cosiddeo “riso a sinistra” (e anche qui, quanta confusione blobbistica, nel senso deteriore: nulla ha a che vedere l’onesto arboriano quasi “rétro” varietà del Tunnel, della TV delle brave ragazze e dei geniali fratelli Guzzanti con l’anarchismo colleivo di immagini corpi facce spaccate e sintetizzate da Blob, con la statuaria desolazione artistico scatologica di Cinico TV, col virus chiambreiano). Se proprio valessero le cifre, come si può dire che il povero riso sinistro ha eroso il consenso progressista? Il fao è che la sinistra per prima (o meglio, ahimè, per buona ultima) crede al mito della TV che trasmee, veicola, determina valori o orrori, tuo sempre verso (chi si rivede) il sole (o la catastrofe
ecologica) dell’avvenire. Raitre, per progeo o per casualità (nessun soggeo sensato può credere davvero di poter civilmente “dominare” e indirizzare l’autonoma immensa e automatica forza istantanea di comunicazione della televisione) è (stata?) una parte di società italiana, aiva in modi diversi nella trasformazione (meglio: mutazione) di essa. Nel gioco realissimo di capitalismo avanzato e sublimato che è la televisione, Raitre è stata, nel presente, un piccolo pezzo di “mondo nuovo”. Non perché ha trasmesso o non trasmesso i valori della sinistra, ma perché ha araversato il corpo sociale, lo ha smontato, lo ha finto e inventato, ha giocato in lui e con lui (Chi l’ha visto?, Mi manda Lubrano), ha mandato in cortocircuito pezzi di linguaggio e di istituzioni lontani e separati (con Un giorno in pretura, programma fondamentale e anticipatore in direzione trasparenza mani pulite; e oggi perfino utopico come ipotesi di “gogna eleronica” forse odiosa ma certo preferibile, in un futuro “immaginario”, a pene detentive o di morte…), ha spesso (Santoro) costituito la cronaca mentre la narrava. Di fronte a ciò, con pietosa rivalsa, i teorici e critici più seri e seriosi si pongono sul piano dell’aualità gazzeiera (quella che si affanna indecentemente a compilare le proprie liste di prescrizione e di ciò che è nuovo e vecchio, evidentemente dando credito alla visione messianica che un Fede ha dell’avvento del Cavaliere dell’apocalisse) e scoprono che oggi non c’è nulla da ridere. (Ma c’è mai nulla da ridere al mondo? Non è comunque la risata un pianto feroce, una felicità spezzata scomposta distrua?) Eccoli, gli appassionati teorici del forzaitalia cinematografico antihollywoodiano stupirsi se giovani o meno giovani invece di spostare il voto dalla balena bianca a quella rossa votano coerentemente per chi si chiama solamente e vuotamente Forza Italia. Ecco che, mentre il Cavaliere si accorge che la tvtv non basta più perché la TV (come satira dimostra…) è ovunque (è l’ovunque), la sinistra alza il tiro su quello che ritiene uno strumento poderoso e mal usato. Nessuna riflessione, naturalmente, su quel costante 45-55 per cento di voto eleronico Auditel che andava e va a ReteItalia (già) più bucce
di banana. Davanti a quel quasi tuo che si paventa in Berlusconi, ecco appunto il vuoto o la pura reazione conservativa. Se la sinistra non riesce a vincere un po’ questa sconfia, è finita (e non solo per lei). Nulla. Non ci resta che. (Scegliere, a destra o a sinistra: ridere, o piangere. Almeno è un finale aperto.) [“Corriere della Sera”, 8 maggio 1994]
Il disagio della sinistra? È su quella linea d’Ambra
Giorni duri, per Ambra Angiolini. Prima lo smascheramento a opera di Chiambrei. Ovvero l’ascolto vagamente pornografico, durante la celebre puntata del Laureato, del perfeo travaso delle parole di Boncompagni in quelle di Ambra via auricolare. Si sapeva, si diceva: ero già ammirato della cosa, vedendola funzionare “in direa” durante una conversazione televisiva con la stessa Ambra. Avrei voluto ascoltare il suo auricolare anch’io, le dissi. Ascoltato brevissimamente in onda, conferma l’aspeo prodigioso del nulla messo in scena da Boncompagni, e le qualità di showgirl iperreale di Ambra. Non sono mancate le reazioni sdegnate, come il grido di dolore di Lella Costa, su “l’Unità”, per la ragazzina insufflata, plagiata, audiostuprata dal depravato Boncompagni. Più interessante la catena di scoop e controscoop in cui si inserisce il fao. Mauro Parissone, il giornalista che agisce per Chiambrei, è infai lo smascheratore smascherato. Reo di leso Stranamore (aveva scovato un finto innamorato ex piangente), era stato (per vendea?) accusato da Mentana al TG5 di un clamoroso servizio falso su un misterioso testimone dell’incendio della Moby Prince. Ma gli smascheratori dello smascheratore vengono a loro volta smentiti (è l’ultima mossa fino a oggi) da una controtestimonianza raccolta da una TV toscana e ritrasmessa da Ricci in Striscia la notizia a dimostrare che la verità stessa (se c’è) striscia. E che la TV non è un rapporto “vero” o “falso” con la realtà (o con la “verità”), ma un rapporto col pubblico da parte di una realtà che è la TV stessa. Per Giulio Ferroni, una bocca da fuoco della sinistra più “ferma” e nobilmente (?) convenzionale, la verità invece non
striscia affao, sta lì ben salda: a lui, ovviamente, fanno orrore giustamente serpi bisce biscioni e sinuosità varie. E Ambra. È ancor più la sinistra a sangue “alternativo, telematico e blobbistico”, che si occupa di Ambra e forse la pregia, esempio estremo di quella “sinistra metropolitanaprometeica-telematica-avanguardista-nietzschianadesiderante” che ha indoo gli italiani a votare Berlusconi e Lega o forse AN e accompagna il corteo del mondo verso l’abisso come l’orchestrina del Titanic. Eccetera, eccetera. L’aacco di Ferroni appare su “Reset”, ed è direo contro un libreo su Ambra scrio per la Nuova Eri da due blobbisti, Marco Giusti e Alberto Piccinini. Non mi pare una gran cosa il libro, non mi pare del resto che volesse esserlo; e proprio questo è il difeo principale, la mancanza di ambizione, il riflessino automatico di portare su carta la relazione curiosa che da due anni Blob/DiTuoDiPiù intraiene con Ambra/NonÈLaRai (ma tant’è, il libreo – dicono – ha già venduto trentamila copie, e ieri sera all’Hilton di Roma c’è stata una festa con Ambra, le ragazzine di Non è la Rai e gli autori). Ma il fierissimo Ferroni è cascato in pieno nella provocazione, con insperata puntualità. E alla frivola impresa ha dedicato una superfrivola ma accigliata replica, speacolisticamente divulgata in anteprima (lo stesso Ferroni ha furoreggiato mesi fa con la pubblicazione in volume dei suoi interventi non meno vendicativi su “Belfagor”, dove con lo pseudonimo di Gianmaeo Del Brica se la prendeva con i Cacciari i Guglielmi i “beniamini placidi”, ecc…). Incapace di leggere un segno (come, ahimè, quasi tua la sinistra, desiderante o penitente che sia), il serio studioso di leeratura italiana Ferroni, non nuovo agli aacchi contro il blobbismo e le varie culture apolidi o meticce e trasversali, fustiga chi gioca con i segni, chi non dà per finita la possibilità di araversamento della realtà, essa stessa vista come gioco o macchina di parole-cose. Non fosse solo comico, e troppo pieno di traini (suggerirei dei vuoti tra un termine e l’altro, ma Giulio “horror vacui” Ferroni ha in odio il vuoto), l’interminabile epiteto-elenco già citato (da
metropolitana a desiderante) potrebbe anche essere acceato senza vergogna. Per Ferroni, invece, son tue parole che si condannano da sole. Come nichilismo, o televisione, o appunto Blob. Come non avesse mai leo Benjamin (ma è certo una posa snobistica), Ferroni ripete l’accusa di “abbandono delle distinzioni”. Non ci si deve occupare di certa roba, non si deve mescolare il sacro e il profano; e la manipolazione (come la masturbazione) va limitata, regolata, possibilmente punita (immagino). Intanto la capacità di distinguere di una certa cultura di sinistra è così viva e spinta da aaccarsi orgogliosamente, per quanto riguarda la televisione, sulle rispeabilissime tesi dell’ultimo Karl Popper (pubblicate dallo stesso “Reset”), ahimè così critiche da risultare acritiche e forcaiole, oltre che incredibilmente “povere” e generiche dal punto di vista filosofico e politico. Ma sì, sfebbriamo, regolamentiamo, smorziamo (la TV e chi se ne occupa innanzituo, chi ne è occupato e chi la fa, ci passa araverso). Geliamo uno sguardo severamente illuminista in una sola maschera definitiva; inutile proseguire con immagini ulteriori, vero, tuo è già stato deo e tuo è chiaro. Non si faccia confusione, il vuoto deve esistere anzi non esiste, la TV è un elerodomestico o un accidente, va combauto o serenamente considerato un superfluo nonnulla. Con civiltà e cultura, naturalmente. Non si provi a leggerla (anche? o un po’?) come destino e orizzonte, come mutazione, come assoigliamento necessario e terribile della differenza sempre più inutile tra realtà e immaginario, e di essi stessi. No, figuriamoci, l’importante è solo combaere Berlusconi (guarda un po’: perché “possiede la televisione”), con le armi ahimè vuote della sinistra, intuendo che quel vuoto televisivo forse è pesante come il mondo. E magari vincere, nonostante Blob e il desiderio, Nietzsche e Ambra che ci avevano già portato alla sconfia eleorale e ahimè non sono ancora stati estirpati o isolati nei campi di concentramento del linguaggio.
Povera Ambra. Eppure ha un bel nome. Evoca leggerezza, fluidità rappresa e vegetale (resina), ma anche marina e iica (ambra grigia è chiamata una “secrezione dell’intestino del capodoglio usata in profumeria”). Si anagramma piacevolmente in brama (il che in effei è pericoloso). C’è anche una valle, in Toscana, che si chiama così. E si chiamava così, Ambra 13 (un titolo di Boncompagni?), il luogo fisico ma intangibile, preciso e inafferrabile, in cui avvenne una delle orrende, complicate tragedie e stragi che segnano il calendario dell’Italia democratica, l’aerovia lungo la quale fu abbauto il volo Itavia 870, sopra Ustica, e Ambra ancora balbeava, come noi nichilisti senza valori: b-lob blo-b, blob. [“Corriere della Sera”, 23 dicembre 1994]
La pagina accanto
Nella pagina accanto (subito prima o subito dopo) compaiono sempre gli incubi televisivi dell’amico Freccero. Sportivamente, questa contiguità ineludibile è la molla che molte volte riesce a costringermi a esserci, su queste pagine. Molla implosiva, come quelle delle comiche, che collassano e tornano indietro sfasciate, peggio di un elastico roo. Indietro, però; unica spinta davvero necessaria, se prendi la moto già un quarto d’ora dopo l’appuntamento, convinto follemente di poter risalire il tempo una volta montato sulla sella. Vacillo, quando sul numero di febbraio (17) trovo il pezzo di Carlo La finzione al potere. Devo vacillare. Intanto, perché se non si ondeggia e vacilla un po’ in moto si cade, traditi dalle oscillazioni del ritmo. Frenare, incurvarsi, riprendere: quella forma di quasi svenimento e poi di recupero, che ti fa sentire in moto come frizione obbligata e anche dolorosa all’ideale star fermo cui la moto allude, fermo dentro la corazza oscena di te stesso, lanciato su un reilineo assoluto, illuso dal non aver intorno neanche l’involucro dell’abitacolo automobilistico. E poi – vacillo – perché mi colpisce ancora il tono del pedagogo accorato con cui da più di un anno Carlo semplifica la realtà televisiva, quasi dovesse scontare, con una propaganda in senso opposto, la colpa di una sua origine commercial-televisiva e ancora più quella di un’illusione e di un illusionismo, credere di (poter) spingere al massimo le contraddizioni della comunicazione TV, come se la televisione non fosse automaticamente più compaamente contraddioria, gigantesco e insieme leggero volo ossimorico che allarga ramifica estremizza l’ossimoro originale, il cinema (che è, come sappiamo, leeralmente fermo in moto).
Non riesco a essere polemico, con Carlo. Ho come una connessione sensibile, da (troppi) anni, con lui; da quando ci scrutavamo per mesi, nei cinema genovesi e savonesi, o ai festival di Pesaro, col tipico silenzio debole e orgoglioso dei cinefili, perché in ogni film ingaggiano una loa mortale di odio e amore col mondo, giocando a (ri)fare il regista e il dio che corregge il regista, il musicista e lo speatore, l’aore e lo scenografo, inseguendo rivoli di internazionalità e di consapevolezza oltre l’opacità di un qualunque primo piano; perché nessun primo piano è qualunque, prima di riconoscerci e interrogarci e delirare insieme, con le immagini di De Santis o di Michael Snow, di Rossellini o di Godard o di Alan Pakula. Mi riguarda e continua a riguardare quello che fa e pensa e scrive, come se io lo facessi o se procedessimo sullo stesso sellino. Se non concordo, mi sento scisso come discordassi da me stesso (il che, è vero, mi accade fortunatamente molto spesso). Mi sento in sospeo, quindi, quando Carlo si (ci, vi) nasconde il vuoto da cui muove, la sostanza nebbiosa del sellone su cui poggia e poggiamo insieme. Come se qui, dire fare baciare, si dovesse essere speranzosi, poco penitenziali, poco nichilisti. Ma non c’è nulla di sperimentale. È una posizione seria di Carlo. Per questo vacillo. Se no, riaggiusterei in curva (stando davanti o dietro non importa) il suo sbilanciamento da una parte protendendomi dall’altra, o assecondando per prepararmi a un altro movimento. La rigidità invece è pericolosa (e Carlo lo sa: “Bisogna avere prontezza e mobilità”, dice); si cade, e subito lì, sull’asfalto alla prima curva, neanche un bell’abisso. Allora, non mi basta questa dialeichina destra/sinistra o nuovo/vecchio, debitamente incrociata e improvvisamente proposta con una sicurezza che acceo solo se ha la forma estrema (estremamente in-fondata) del dubbio religioso. Mi piace l’immagine della destra body snatcher della sinistra. Che però, dialeicando (e dialeicando, da leticare, per “litigare”) dovrebbe quindi adesso a sua volta ultraccordare la destra inghioendone il gioco e i (non) valori… (?). Mi fa ridere
invece la destra faa “di pentiti della sinistra”. E il “se niente è vero tuo è vero” (che propongo subito di spingere almeno fino al dostoevskiano (nietzschiano) “Se Dio non esiste, tuo è permesso”). Che sarebbe oggi una pericolosa retorica in mano alla destra trionfante grazie al dominio del simulacro. Come dire: abbiamo scherzato, ora il gioco è diventato troppo duro a furia di essere leggeri. Nel suo esilio parigino, credo che Carlo osservi troppo sedoo le giravolte facili del microfilosofo Baudrillard, pronto a comode uscite di sicurezza moraleggianti ogni volta che il suo impianto teorico si mostra inadeguato (oh, Rimbaud, la morale come faiblesse de la cervelle!). Il passo indietro, o la (troppa) prudenza nel camminare, mi sembrano tentativi di essere ancora una volta “un po’ più avanti”. Non è il tuofalso/tuovero della TV il punto centrale del successo della destra, ma il successo stesso, l’accaduto, il costituito come realtà e verità, il valore, spendibile ancora una volta, e in nulla intaccato dalla TV. Fosse solo per questo, mi terrei ben streo a qualunque nichilismo. Poi la vaga speranza di socialismi irreali o di anarchismi mi trasporta ancora verso un orizzonte che forse non è né cinema né televisione, forse non è neanche tanto immateriale… Ipotesi amorosa in cui la TV è una forma di vita (insieme ad altre) con tue le menzogne della vita, e non (al solito) uno specchio o una forma di trasmissione pura (o impura) del mondo, o di deformazione o smascheramento. Dove il nullavero/nullafalso non è strumentale, risulta anzi tragicamente o allegramente simile alla condizione umana. Anche in moto, credo caro Carlo (ma ti ho mai dato un passaggio? Non ricordo se eri di quelli un po’ paurosi; comunque col cinema si viaggia a un’altra luminosa velocità), siamo seduti sul vuoto, selvaggi o servofreni di se stessi. Se non è amore, rischio del dispendio e dell’eccesso a vuoto, il paeggiare (in nome del progresso o della sinistra contro la destra) sui valori blandirli, evocarli, è già “essere di destra”, cedere all’economia reale e eterna senza scompaginarla con un desiderio senza fini e senza fine. Non è un campo, non è un luogo, non è uno schermo, la TV (per esempio), è un tempo della mutazione. Solo nello specchio la sinistra sta di nuovo a
sinistra. Al cinema (e in TV), chi vede e chi filma ha una sinistra diversa rispeo a chi viene inquadrato e ripreso. Il gendarme è dentro di noi, certo (Nanterre, 1968). Si slia, è sdrucciolevole, ma vorrei correre lungo il grande vetro che divide i due campi i due poteri e le due seduzioni (quella di chi riprende e quella di chi è preso), dove si è schiacciati dalle due forze e costrei a loare, a correre sempre di più, o anche a assoigliarsi, annullarsi, fermarsi, essere Occhio per un aimo e poi più nulla. E poi, leggendolo alle tre di noe dopo una corsa bagnata in moto, l’oggi ceroneiano (“La Stampa”) del 13 febbraio è troppo bello e c’entra, ben oltre le stragi del sabato sera: “i s’impara soltanto a fare strage di sogni” (Università di Parigi III, 1968, archivio mio, dice Ceronei. Sooscrivo, archiv-io). [rubrica Fermo in moto, “Smemoranda – Dire fare baciare”, marzo 1995]
Pubblimania
Non sarebbe sbagliato considerare la pubblicità come la forma più vicina al mito più forte e globale della seconda metà del secolo, la comunicazione. Coincidente anzi con essa, al punto da rendere difficile distinguere la pubblicità esplicita dichiarata esibita, dalla forma più generale della comunicazione. La televisione è stata fino a oggi (dopo l’illusione magico-speacolistica teatrale e narrativa condensata nel cinema) il luogo teorico e pratico in cui tale confusione è più evidente. Al di là della paradossale maggiore onestà (e insieme maggior rigore e maggior sbrigliatezza linguistica) della pubblicità che si presenta come tale, è facile notare quanto di autopubblicitario e di “ruffiano” ci sia nel più serio e compìto dei presentatori, degli speaker, dei conduori TV. Si può quasi dire che la tanto decantata “professionalità” televisiva consista nella capacità individuale di far aderire nel modo più trasparente e soffice la propria “figura” (ripeto: anche la più seria, la più colta, la più intelligente o arguta) alla forza automaticamente pubblicitaria della comunicazione in rete TV. Lo stesso avviene per quanto riguarda la qualità e l’efficacia dei programmi e delle trasmissioni. Non è il flusso, non è la ricchezza, non la contaminazione di forme e generi diversi, non il predominio di materiali bassi “pulp” o pop, a rendere “tuo uguale” sul video. Al contrario, è l’intensità automatica della rete TV, la sua estensione vera o presunta o avvertita, a limitare le possibilità di combaere o di giocare alla pari con essa, a ridurre i momenti di differenza rispeo a quelli di ripetizione. In cosa allora la pubblicità si distingue (fino a sembrarci volta a volta un’intollerabile intrusione e interruzione o una benvenuta isola di piccola invenzione formale e una vetrina di linguaggi) dalla televisione tua che ci appare un unico ininterroo gigantesco spot a favore della
merce delle merci, la comunicazione stessa (o il desiderio di comunicazione?)? ale pudore ci porta (se ci porta) a vergognarci o a infastidirci intimamente più per l’evidente propaganda pubblicitaria di singole merci o marche che per la soerranea e subliminale (proprio in quanto continua) vendita addiriura della merce “vita” mediante la riproduzione/ingoiamento “in direa” del suo stesso tempo? Sfrontata, la pubblicità-pubblicità ci appare come un iceberg che dice il vero (o quanto di più simile a esso) sul funzionamento pubblicitario di tua la comunicazione e, insieme, una boa illuministica che indica illustra sorveglia i “pericoli” della massa ghiacciata sommersa. Ma, se di naufragio si traa, il Titanic è già affondato. La forma pubblicità, con la sua illusione patetica e quasi tenera di indicare oggei precisi e di oenere determinati effei (come se il mercato fosse un gioco razionale e padroneggiabile), non ha assolutamente bisogno di contenuti. Walter Veltroni non è – in questo senso – meno pubblicitario di Silvio Berlusconi. La differenza tra la proposta buonista-kennedyana (che non può non piacerci di più) e quella muscolaraziendale si stempera e dissolve in un medesimo dominante mezzomessaggio. Geniale e funzionale, la campagna gadgeistica de “l’Unità” arriva a vendere pubblicitariamente pezzi di memoria passata accumulata (libri-chiave, film in cassea, figurine) per vendere la memoria quotidiana. La memoria (immateriale) come gadget supremo. I Vangeli offerti con la pubblicità (in ultima di copertina, ben visibile, anche se nessuno lo ha fao notare) della rivista “Il fisco”. Errore pensare che tra Dio e Mammona la pubblicità ricopra il ruolo di Mammona (né, magari “occulta”, quello di Dio). Nata per segnalare merci e insieme per individuare o addiriura “inventare” fasce di consumatori, essa è ormai (per quanto ci possa sembrare invadente o per quanto ci possa ancora sembrare una mirabile koiné linguistica dove i linguaggi, gli idiomi, i “vocaboli” nuovi vengono esposti e miscelati) inghioita dal proprio stesso dominio immateriale. Non è più “moneta” o “merce” essa stessa, ma puro valore astrao e immateriale, come il denaro e il desiderio stesso, il
cui unico senso è comunicarsi, diffondersi istantaneamente in una sorta di corpo mistico. Dio è Mammona come ci (si) comunica ogni giorno. [“LiberEtà”, agosto 1995]
L’angelo che può morire (Il cinema in mario schifano)
Sento sempre più intensa come una difficoltà postuma a scrivere di mario schifano. Postuma mia, postumìa. L’interrompersi della sua aività immobile d’artista continua ad apparirmi impossibile, come mi pare impossibile il finire sfinirsi di un amore, e terribile credere di sentirlo, pretendere di capirlo. Ma ancora, qualcosa di più meccanico e automatico e impersonale (per quanto: c’è forse qualcosa così assolutamente impersonale quanto l’amore, quanto il giocolavoro dell’amore fondente?) mi colpisce, come se una macchina in moto perpetuo (e che per questo non ritenevamo macchina: come la luce, l’aria, l’acqua, il mondo, il tempo; ingenuamente) si fosse arrestata, rivelandosi macchina, rivelandoci e rivelandomi macchina, impedendomi di funzionare nell’illusione di una naturalità. “Che peccato che si deve morire,” ripeteva da qualche mese schifano nel 1997. Non credo sentendosi malato. Piuosto avvertendo il gioco insensato, lo spendersi per il godimento sadico di qualcuno. Il rovescio della vita il cui tempo è un palindromo colorato. Con questo dipanarsi meccanico, quasi di automa gioioso fibrillato di sessualità panica, schifano si identifica(va) con naturalezza ossimorica. Da decenni sfidava la ritualità ininterroa della televisione, mantenendo l’apparecchio sempre acceso, schermo piccolo o gigante ma mai protezione guaina difesa occlusione. Un boccaporto sempre pronto a essere inondato, anzi già placidamente allagato di immagini. E con la fulmineità di un gao e la golosità di un bambino (dammene troppa!) mario scaava scaando scai fotografici al flusso mai finito, rubando fotogrammi all’illusione di movimento, fissando quell’esser ferma (sempre!) dell’immagine che il suo occhio
non poteva vedere. La cedevolezza vetrosa della TV costituisce il punto d’appoggio del gomito nel braccio di ferro di schifano col tempo dell’immagine. Scontando il pericolo o la possibilità raccontata da cronenberg che la TV si gonfi facendosi occhiobocca, bulbo fuori dall’orbita e dal frame. Già in Umano non umano lo schermo di schifano viene lacerato. Lacerazione che è poi quasi un abbraccio, sovrimpressione interna all’immagine di un corpo e di un’altra immagine, o il corpo che assalta l’immagine per rendersi essa entrare, in essa farsi fantasma, per trarre da essa la piccola immortalità del fantasma dandole qualcosa della corporeità mortale. Negli stessi anni sessanta, rossellini in Illibatezza (episodio di Ro.Go.Pa.G.) rovesciava il corpo d’amore sovrimpresso dell’Atalante di jeanvigo in una proiezione d’autore sullo schermo disamorato, offerta all’immagine e alla luce proieata, non compenetrata in essa. E orsonwelles a un incognito (ancora oggi…) Don Chiscioe faceva squarciare lo schermo in un duello dove ai mulini a vento dell’allucinazione proieiva si sostituiva l’allucinazione già riallucinata, tecnicamente fisicizzata, maschera e delusione di se stessa (proprio da questa immagine inedita, con la mia complicità, schifano trasse il bellissimo manifesto per TaoCinema 1993). Per tui i donchiscioe il secolo del cinema provvede spietato il movimento virtuale di un millennio o due di immagini incatenate e arrotolate in rulli e fotogrammi, in un vento ripetibile a piacimento, ribuando contro di essi, oggeivata, la loro stessa pulsione. Alla provocazione filmica di un tempo consistente e mobile che si reimmee come una scultura di sé nel tempo (minando o rivelando appunto il tempo stesso come scultura chiusa), chiarendo per sempre la morte/fine (chiusura) hegeliana dell’arte, warhol risponde con una geniale ripresa filosofica (quasi un parmenide visto da aristotele) del tempo come baito dell’immobile, fino alla dissoluzione della quantità e all’indifferenza della durata. Dalla parte del vento dei mulini si pone invece schifano, o più
esaamente si immee e si confonde nel movimento di quel vento, nei due sensi e in tui i sensi. Anche fisicamente, atleta dello sguardo sempre in moto come un corpuscolo di luce. A trovare nella profusione delle serie di quadri l’ossessione fotogrammica filmica, a strappare al cinema con i film il segreto del ritrao istantaneo del tempo. Schifano è questa vibrazione, schifano è la circolarità mobile da rolling stone, è il bambino e il dinosauro (come nella stupenda semplice sigla di La Magnifica Ossessione, dove sul volto, sulla testa, sulla fronte del figlio neonato si sovrimprime la storia mitica del cinema). I suoi tre lungometraggi sono preceduti da una serie di corti generati da un’aitudine sorprendentemente rosselliniana. Non è il frame, il quadro, a contare, ma la capacità di osservare tuo come “già visto”, e di cogliere l’aura virginale di questo esser già visto nel mondo (s)finito dal cinema. Come un’aurora che rendesse conto del numero e della qualità delle volte in cui c’è stata aurora. Le cose le persone i mondi son già cinema, se sono qualcosa, e la chance è quella di sorarre il movimento fiizio per meere a fuoco (e a ferro) l’immagine o inane surplace dell’universo. Satellite. Non si capisce cosa gira intorno a cosa. L’immagine non è un dop(pi)o né un prima. Non si traa né di spazio né di tempo, ma di una quarta dimensione ennesima, in cui le immagini e quel che sembrano sempre raffigurare sono stati radicalmente ma momentaneamente diversi di uno stesso elemento, e l’occhio e il visibile si scambiano continuamente fino a che l’occhio orbita intorno alla proprio orbita, si vede vuoto in quello che sembrava uno specchio, cerca di tuffarsi in se stesso, di rioccupare la propria cavità, e non tocca nulla, non vede più nulla se non la distanza da sé e da qualunque identità, perché si trova già oltre lo specchio e l’immagine è lasciata dietro, alle spalle… Naturalmente l’incanto per una scria, un sorriso, la sagoma di un continente, la traieoria di un pianeta, la curvatura di un corpo e del suo sesso è già l’eco: non dell’immagine né della cosa vista, ma di un poter essere
(l’una o l’altra). E lo stupore di riconoscersi umano non umano, di sentirsi un pallone, un aereo, una stanza, di riconoscere la propria forma in un colore, di non sentirsi più un corpo né un soggeo. Ma di nuovo, una macchina umana che trova l’umano solo nel riconoscersi macchina (fotografica anche), macchina impossibilitata a trovare l’umano perché solo lo è (umana) disumanamente. Trapianto consunzione e morte di Franco Brocani è l’ultimo film. In due anni schifano brucia tuo il (suo) cinema, con un’intensità paragonabile solo alla parabola filmica di Carmelo Bene, ma con ancor più clamorosa radicalità. In entrambi i casi, cinema né da regista né da artista, ma da ri-autore che nuota nella corrente cinema avvertendone e strappandone ogni singolo fotogramma o goccia o pelo o granello. E che anche nel cinema dei film, soprauo lì, sperimenta l’impossibilità del cinema, il suo ossimoro fondante. Certo, l’interruzione traumatica della filmografia, il bordo su cui sembra arrestarsi, si sfrangia in vicissitudini produive, si precisa nell’incompatibilità con la macchina ridicolmente industriale, col nesso mortale finanziamento/distribuzione. Ma il confronto col cinema prosegue altrove, per Bene nell’allucinazione di una vocalità continua e sospesa (come un fotogramma unico sfarfallante all’infinito) fino a interferirsi e mutarsi in immagine; per schifano in un restare anche biografico, restare a contemplare con disincanto goloso il fiume di immagini che, una volta nuotato e araversato, si rivela talmente infinito da far sì che l’occhio si bagni sempre nello stesso punto, perché è il vedere stesso che si muove (che fonda il movimento, che rende consistente e compao lo sfarfallio) con lo stesso intervallo infinitesimale. Così la passionalità, la visionarietà, il calore di schifano, la posa di sciaeria e di trascuratezza, la produzione dilagante, si convertono in un gesto illuminista, che riscopre il filamento di ogni colore o vernice, e che ritrova lo sfarfallio occultato in ogni immagine filmica (ormai per sempre televisiva, virtualmente senza limite nel tempo). Come già nel cinema, e nel tallonamento e ri-incorniciamento del frame televisivo, c’è un’aura di documentarismo estremo,
impossibile e insieme fatale, nell’ossessione di schifano. I suoi film rimangono un ritrao impressionante dell’Italia del Sessantoo: includono insieme il set del cinema italiano, la sua commedia antropologica, i materiali di esso e la loro critica (anche mediante lo spirito internazionale del pop), e sono gli unici a render(si) conto di essere già anche un altro set, un set mentale corrispondente al fao che ormai la terra è vista da un uomo che ha una vista fuori da sé, un occhio che lo guarda dalla luna, uno specchio che gli manda un altro tempo e un altro spazio, e che lo rimanda oltre sé, a un miente/emienza sempre più slontanante. Dopo i film, ecco il film. Ecco la tensione economica a sfilare immagine dopo immagine al viluppo di sovrimpressioni istantanee che è il (creder di) vivere. Un lavoro, gioioso e angoscioso, di sorazione entomologica al blob (lapilli flashati di luce contro le immagini desiderate) e di accumulo enciclopedico. La passione per il ciclismo, per quelle due ruote così facilmente rotolanti nella circolarità visivo mentale, e così faticosamente spinte dal corpo che cerca di far presa, di “esserle” invece che di farle muovere; ma tui gli sport appassionano mario, con la loro prodigiosa galleria di sforzi eccessi primati che voglion diventare naturali e ripetibili, museo di increspature inani eroiche perché esiste solo il mare, proiezioni del corpo oltre il sé, discipline del ritmo e del baito, aese della finestra temporale, del buco, dell’intervallo esao in cui infilare e carpire l’exploit e la prestazione. Ripeto: atleta dello sguardo. Il cui gesto atletico ultimo è quello di ritoccare a mano le migliaia, le decine di migliaia di immagini-farfalla inchiodate dalle sue macchine fotografiche (in gran parte carpite al televisore), come a ricurvarne le forme, a togliere neezza (se ne resta) all’apparire tecnico dell’immagine, a farla vibrare e apparire scissa in sé, a documentare la propria presenza di documentatore, di sentinella in avamposto, di esploratore in giungla amata territorio infestato, a firmare ogni reperto, a ricatalogarlo con il segno del suo “sono stato qui” (il mio occhio è tornato dove la mia macchina ha incrociato un’altra macchina, e la mia mano di antico piore lo vela di nuovo, fa
aderire le tessere del mio mosaico alle tessere disposte nel tempo e in altre dimensioni). L’immersione nell’immagine diffusa, e nella vibrazione che è, sconta l’acqua torbida, il fango, il detrito. Nel detrito c’è anche la propria umanità. L’occhio si sopravvive, dice: “Peccato che si deve morire.” Si scioglie in bocca (caramella mentina medicina) l’immagine della vita. Colpisce al cuore, e il cuore è quando si toccano i bordi del frame, quando la polaroid si definisce tua e respinge la mano che soleva ritoccarla. Mentre scrivo, un cuore di schifano, un regalo che ho visto molte volte regalare, mi sta a fianco sul muro. Fao di rossi e di rosa, autoincorniciato come uno specchio rosso a forma di cuore, ma il bordo cornice del cuore, sfrangiato com’è, pare il lembo della ferita. Fotogramma di un baito sospeso teso nello sforzo di baere il tempo, o di baersi il peo come un peccatore o un primate. Tra disincanto e incanto delle immagini (incanto di ogni cosa vista, che ti fa vivere nell’illusione di esserla: disincanto di vederle tue, le immagini, in quel nonluogo chiuso che è lo studio-casa in cui si risquaderna il mondo solo in TV), il trasalimento di intravedere, in quella macchina piccola banale misteriosa odradek, anche l’immagine di sé, fissata dunque finita (affidata al surplace della circolarità ininterroa a spirale, a una vita (im)propria diversa, dove l’autore supposto non deve più curarsi dell’altro baito infinitesimale fortissimo, decisivo in schifano, tra regalare e vendere). Un riposo, una tenerezza forse di angelo che può infine (non deve) morire, abbandonare la presa e la veglia sulle immagini, lasciarsi andare volare come un foglio dorato. Ma. “Ma l’idea ch’egli possa anche sopravvivermi quasi mi addolora.” [in Mario Schifano: per esempio, a cura di Achille Bonito Oliva, Milano, Charta, 1998]
Il capolavoro sconosciuto (deadline)
Non ho mai incontrato una macchina da visione quale marioschifano. Un visionario dell’istante. Simultaneamente preso dal desiderio e dalla nausea dell’immagine. Inghioito dalla golosità (pochi possono esser stati come lui sempre all’altezza del desiderio abissale del bambino epigrammatico di Chamfort che dice alla mamma o alla nutrice indicando la marmellata: “Dammene troppa!”), e subito invaso dalla noia di dover rivedere; di dover rivedere le stesse cose anche la prima volta. Non nel sospeo ma nella certezza e condanna che in fondo allo stupore e alla ricerca giace, come avviene tragicamente (e oltre qualunque istante di dolcezza) per chiunque provi o si trovi a tenere gli occhi wideshut spalancatisbarrati, un sentirsi nella ripetizione dell’identico, in una trama fatale di cui la successione fotogrammatica è solo la traccia o l’indizio più meccanicamente evidente (eppure subliminale). Lo sforzo, pur automatico, è immenso. La fatica di stare al passo dell’immagine, del suo infiirsi e stratificarsi fino a parer consistere, fino a mascherare e a occultare nella visione il vuoto, o l’invisibile che non può o non vuole esser visto. Fatica kaiana e insensata, porsi a sentinella del passaggio tra positivo e negativo, considerare anche se stesso il positivo di cui il negativo solo resta da fare. E calandosi proprio nel subliminale, nell’invisibile dell’immagine e nell’intervallo tra l’una e l’altra delle immagini (compresse o dispiegate in infinite serie warburghiane). Piore “pubblico”, e istantaneamente (in)civile, autodiffuso in serie e in copie, Schifano condensa come nessun altro la tragedia del pop. Il popolare che esplode e scoppiea ogni momento come le bolle del bagnosbornia allucinato allucinogeno del Dumbo disneyano. L’imprendibile e l’imperdibile (perché perso da
subito nel suo stesso gesto) che è il “pop”, (in)capace di inseguire danzando a perdifiato il ritmo serialpubblicitarindustriale, o di sorprenderlo ingrandendo e monumentalizzando l’istante fotogrammatico, bloccandolo e ignorando o annullando i limiti del fotogramma e di altre forme. (Teso ben oltre il deadline comunicatomi più volte, tra rinvii miei dolorosi e leggeri e futili e insostenibili, mi trovo a cercar di stendere questo testo, a sbobinarlo da me con fatica e con senso faticoso di inutilità, in pieno festival di Cannes. Giusto così, probabilmente). Ammirato (anche troppo, si direbbe) dalla “comunicazione” (specie – è vero – dalla comunicazione altrui), Schifano mascherava nella generosità il proprio segreto. E mediante la piura, per i suoi segni macro o microscopici, tra esplosione del colore e memoria o auspici di immagini senza limite, celava il suo capolavoro sconosciuto: il cinema, e le televisioni. La prima volta in cui ci incontrammo fu anche la prima in cui parlammo della sua passione (e della mia; della nostra, di lì in poi) per il racconto di Balzac amato da Marx. La forma forse più intensa e precisa delle diversamente magnifiche ossessioni cui ci abbandonavamo nei nostri diversi modi di sognare l’immagine e di (insod)disfarla. Ancora oggi il suo cinema resta un effeivo capolavoro sconosciuto. I tre lungometraggi, i vari corti, i molti girati per abbozzi e sopralluoghi. Poi, tuo il cinema e il muoversi d’immagini che guatava di ora in ora, che aspeava e agognava e con gli occhi ascoltava in distrazione golosa guardando i boccaporti televisivi dove speaker delle news film classici o novità ultime si inseguivano con le gare di ciclismo e gli sguardi improbabili con cui showgirl di programmi infimi diroavano dallo schermo altri sguardi. E le macchine, le cineprese, le polaroid con cui fotografava e rifilmava instancabile, mai fermandosi per noia perché la noia era la situazione di base, e anzi la sfida era quella di entrare nel cuore morbidamente freddo della noia per trarne abbandoni e
incanti automatici e voglia di spunti per profanazioni e per glorificazioni rituali. (A Cannes, a Venezia, a Berlino, non di rado un amico comune fungeva da “inviato” personale di Mario (che contribuiva alle spese del viaggio), da vedea per segnalazioni di immagini future. In effei, mi rendo conto ora, tuo il mondo era suo inviato nel mondo, e ogni volta che il suo sguardo incrociava l’enciclopedia babelica televisiva avveniva una consultazione, un prelievo; era il controllo dei messaggi consegnati dai piccioni viaggiatori che erano e sono le immagini, nelle loro zampe sempre altre immagini). Non era l’immagine finale, l’immagine culminante (anche nel racconto di Balzac) ad ararre Schifano, ma proprio il non inizio e non fine eracliteo delle immagini, del fiume di immagini come di una sola immagine. Fotografare e filmare immagini (il presente è il modo giusto) è nella sua opera, più che un gesto di appropriazione e di segnatura, il tentativo di trovarne tue le segnature e i bolli di proprietà per poi contraffarle, non solo scrivendo o dipingendo sopra le foto stampate e correggendole arricchendole semplificandole ma estraendole dal loro continuum di memoria automatica per trapiantarle dolcemente nella sua propria memoria sfogliata disincantata stupita. Ovvero per il gioco più delicato e decisivo di tui, quello in cui si gioca lo statuto sia privato e segreto che pubblico e riconosciuto dell’artista: l’operazione di reperimento in se stesso, nella sua propria personale alternanza di memoria/oblio, di un readymade artistico subito autocopiato, spostato, echeggiato con scarto minimo, leeralmente alla velocità della luce. (Né più né meno che trovare solo nell’impersonale, nella telenciclopedia comune e generica, la propria traccia già doppiata e immagazzinata da un istante o per l’eternità). L’aristotelismo impenetrabile e assoluto della sfinge egizia Warhol trova nel cinema non la conferma del readymade duchampiano, ma l’estensione inarrestabile di esso, fino a una sorta di rovesciamento. Il cinema, gesto meccanico e mimesi
ferma della continuità, capta con sguardo tecnico (mille volte indirizzabile truccabile falsificabile dal soggeo umano, il cui intervento sembra dilagare oggi fino alla riassunzione digitale di tui i processi di produzione correzione mutazione delle immagini, in effei essi stessi gestiti e “processati” quasi sempre da macchine e programmi) ogni cosa e tuo il mondo. Per cui, ogni fotogramma ogni metro ogni centimetro di pellicola e ogni apparente durata di visione sono “arte”, la vita-arte di un soggeo (quasi (a)teologico) che non siamo noi (e readymade diventa se mai l’opera d’arte, la Gioconda senza alcun baffo, (i)l’(u)manufao per qualunque ragione riconosciuto “arte”). Rispeo allo sconvolgimento warholiano e al suo filmare insieme la pellicola/cinema e i corpi e le forme ulteriori del visibile, quasi avendo trovato nel gesto filmico il primo segreto non dell’arte ma della meccanica vitale stessa, Schifano trova invece nell’interstizio di cui sopra, tra immagine e immagine, tra fotogramma e fotogramma, lo spazio zero ambiguo e impervio dell’umano non umano, dell’indeciso e indecidibile. Il suo gesto cinema si gioca in pochi anni (1968-1972). Più o meno gli stessi dell’altro nome/gesto estremo fuori scena dell’arte/cinema italiana, Carmelo Bene, anche lui arrivato al cinema da altrove, anche lui furiosamente contro l’obbligo o gli obblighi del filmare (non possono non incontrarsi, e Carmelo Bene sarà uno dei “ritrai” di Umano non umano). (Ho qui – me li son portati dietro a Cannes con tuo il peso della loro leggerezza, son perfino riuscito a dare un’occhiata a un paio di corti che non ricordavo bene – i dvd dei film di Mario Schifano, in loa impossibile con le durate stratificate e sovrimpresse della forma festival. Ma non voglio parlare dei film, né descriverli. Meno che mai raccontarli. (Tra poco usciranno spero i dvd, e saranno troppo e troppo poco). Non devono entrare nell’opera, come se proprio il cinema dovesse diventare in essa dicibile, mentre – ripeto – ne è il “capolavoro sconosciuto”. Bastano i titoli a darne la
nostalgia, a chiedere di essere (ri)trovati, sorai al cinema e non semplicemente aggiunti o riannessi a esso.) Satellite; Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani; Umano non umano. Come quelli di Carmelo Bene, e più di essi, questi film sono gli unici al mondo paragonabili con il cinema meduseo e definitivo di Guy Debord (per dire un altro cinema che non vuole lasciarsi vedere e dire, regalando solo l’enigma della propria sostanza/forma palindroma: In girum imus nocte et consumimur igni). I titoli disegnano una costellazione in cui la terra è vista dalla luna o dall’interno della sfera, da Alfa Centauri o dall’interno dell’occhio, col cuore che orbita intorno al mondo e gli occhi per sempre fuori dall’orbita. Tanto lo schermo (come il riportare ogni frame tele/filmico a un ulteriore reframing e rinquadrarsi) è la forma ossessiva per eccellenza del cinema di Schifano, tanto il suo cinema è sforzo intensissimo di araversare lo schermo, di lacerarlo (solo alla fine del secolo si troverà che negli stessi anni sessanta Orson Welles aveva lanciato lo spadone del suo Don Chiscioe contro i mulini a vento del cinema, nello stesso gesto del bambino schifaniano), di proiearsi oltre esso. Il suo cinema ha intuito e sfiorato e ripetuto il mito inventato da Poe nel Ritrao ovale (e sono convinto che, così come nel 1985 trovai indispensabile chiedergli la sigla per la postultrafilmica Magnifica Ossessione di quaranta ore senza interruzione su Raitre, lui aveva per primo e da subito il caraere di ritrao ovale di un paese intero e della televisione tua). Cinema splendido, vibrante progeuale immediato random prezioso casuale visceralconceuale (nel senso della sequenza della morte di Hal nel 2001 kubrickiano), mai piorico (per paradosso è infinitamente più piore – spesso in modo sublime e arcaico – Jean-Luc Godard; infai impigliato sullo stesso schermo che viene lacerato). Una sorta di scalpello all’interno della visione; capace di far scoppiare in schegge il soggeo, e di far baluginare l’ammasso schwiersiano (o balzachiano!) o le trasparenze invisibili dei mille piani, e il viluppo degli infiniti punti di vista e delle forme possibili inscrie nella visione stessa. alunque cosa ritragga, già il piore Schifano sa che
nulla si ritrae perché tuo si è già ritrao ritirato ritraato da solo. Come rarissimi altri, soprauo col cinema, ha lavorato e giocato al proprio terribile “autoritrao ovale” che è poi la forma mentale di tui i capolavori sconosciuti. Ovvero al sentire e sapere di non esserci, al lasciarsi risucchiare la vita nell’ao di compiere e ripetere da soli il gesto di rifarla, avendo intravisto il segreto del consistere per accumulo stratificazione ripetizione dell’immagine, del suo inaaccabile e sempre visibile non esserci. (non rileo né correo; inviato così, ore 14.41, venti maggio duemilaoo) [in Schifano 1934-1998, a cura di Achille Bonito Oliva, Milano, Mondadori Electa, 2008]
Gli occhi (eccitati) di Marco Melani
Spiritati e dolci. Pieni di spirito, e spiriti essi stessi, due almeno più visibili e fiammeggianti del solito, tra i molti che abitano e compongono una persona. La rivelazione della foto sulla copertina di questo libro è lampante, scioccante: gli occhi di Marco Melani bambino sono già paurosamente e dolcemente spalancati e sbarrati, dilatati nel vedere e dal vedere. Luminosi nel buio e dal buio, fari di un treno nella noe. (Molto molto tardi mi parlò – o neppure fu lui – di sua madre forse suicida soo un treno). Gli stessi occhi eccessivi che spesso in futuro sarebbero stati considerati tali perché drogati, chimicamente eccitati. Grandi, o pulsanti, e poi sempre più contrai, rimpiccioliti (“l’occhieo”), intermienti e scivolanti nel sonno negli ultimi anni (equivoco comprensibile: lui stesso accreditava facilmente l’ipotesi, e mille volte citava rivedeva riraccontava ammirato gli occhi di Sinatra eroinomane ne L’uomo dal braccio d’oro di Preminger, la precisione tecnica del processo e dei movimenti e dei tempi, la storia di un occhio, degli istanti in cui muta la forma dello sguardo. Fossi costreo a raccontare la storia di Marco, potrei intitolarla L’uomo dall’occhio d’oro, cercando in essa quale fosse il suo braccio, il suo talento, il suo ritmo invisibile; ma sospeo che proprio il suo occhio sia rimasto invisibile). Ci si vedeva ai festival, nel corso degli anni seanta (Pesaro soprauo, qualche Venezia, poi sarebbe cominciato Monticelli/Salso…): marcomelani, a spiccare lato simpatico e umano del gruppo un po’ supponente e intelligente e a sua volta spiccante di Adriano Aprà. A debordare dai bar dei dopofilm in entusiasmi di rossellini e desantis contagiosi. Generosità dispersione disperazione, occhi e bocca sempre spalancati. Lo spreco evidente di sé, di cose pensate in direa,
mai traenute capitalizzate stitiche. La sprezzatura a volte feroce (“Ma che vuoi che dica… è un idiota!…”) eppure sempre malinconica quasi olimpica, una generosità di pietas e di aenzione al dolore che scendeva dalla gran testa alta anche nei momenti più focosi. Distanza forte dalla scriura, dal momento misterioso e soilmente omicida/suicida in cui un pensarsi decide di voler essere e lasciarsi “traccia”, di offrirsi o nascondersi ai mille altri occhi, ai narcisi rifrai all’infinito rimbalzanti dallo specchio roo (nel “migliore” –?– dei casi almeno, quando lo sguardo/scriura è/vuolessere lama o sassata che araversa infrange riga lo specchio, o geo di inchiostro nero che lo vela e annulla). È il paradosso maggiore di questo libro che indegnamente mi si chiede e offre di firmare: raccogliere molti troppi quasitui (e quindi pochi) dei troppopochi e già infai “troppi” scrii di marcomelani (mi accorgo però di quanto fosse più irridentemente precisa e romantica la dizione “immelani” di noi toscani, prima dell’ovvio affeuoso orsesco filosofico e un po’malato “melanone” e del periodo del non meno casualmente esao e adao “mélanigriffith”). (Partecipo aiutando raccogliendo trovando, leggendo poco, di traverso, quasisempre disappuntando; neanche la bella “nota dei curatori” leggo davvero né tampoco scrivo; e fatica enorme – ben e troppo oltre la nota autocondanna al rinvio permanente, alla zona morta del deadline, al rischio continuo e ossessivo di zombi prematuri o abortiti maivisti mailei scrii nell’aria – nello scrivere questa cosa, per e contro l’idea stessa di scriura, scriura “di cinema” poi…, dissociandomene a ogni parola). Gli occhi sbarrati, estatici impauriti deliziati, di marcomelani non si traducevano mai in scriura e stampa. Interceavano ben altra e primordiale e futuribile scriura, quella della luce del cinema, dei raggi che producono inventano uccidono la vita. Ozioso sarebbe, ancor più del solito, opporre la vita al cinema, esaltare il calore e colore della persona rispeo alla crosta gelata e sdrucciolevole dei fotogrammi; o, al contrario, la lucidità dell’opera critica “mobile” e dello sguardo sui film
rispeo all’opacità ossessiva di una vita “dipendente”. Vero, ho incontrato poche persone più dipendenti di lui. Dipendente soprauo dagli amici, dalla loro voce dai loro sguardi dal loro affeo dalla loro presenza. La rete amicale dalla quale in qualche modo il giudizio partiva e di fronte alla quale spesso si arrestava: “È un amico”, e il regista palesemente medio, o appena fuoriforma, diventava o restava un autore da seguire capire amare. Senza alcuna disonestà, con una trasparenza assoluta in cui il movente dell’amicizia, di quella forma estrema del “perdere tempo insieme” che è l’amicizia, era incluso nella comprensione di un film o di un momento di cinema o della parola di una persona, forma di desiderio lontanissima dal cinismo automatico di quasi tui i cinefili cinecritici cineesperti che praticano la forma irriflessa e degradata del “sapere l’avvenire a memoria” che Paul Valéry divinò quale dono maledeo del cinema. Non ho visto mai nessuno farsi “macchina cinema”, vivere il sogno oltreumano del cinema, in modo così allucinantemente preciso. Magari anche ingenuo, ma di nuovo esao nell’abbandono estremamente soggeivo e aperto al prodursi oggeivo dell’immaginefilm, ovvero a quel soggeo postumano che intercea e accoglie e “registra” milioni di tracce soggeive a ogni istante. Per cui il fortissimo aaccamento amicale e la fedeltà autoriale non diventavano mai razzisti, non furono mai esclusione a priori della possibilità (fino a includere, che so?, un apprezzamento del giustamente detestato in quanto regista – Oliver Stone, come sceneggiatore/produore di soggei e situazioni estreme..), dell’apertura dell’occhio spalancato. Magnifica ossessione. Pare teoria, anche vaga. Scrivo girando in torno, brandelli di esplorazioni senza lampadina nelle noi della deadline protraa e stirata fino a decomporsi in punti gommosi dalianbaconiani, tra una giornata e l’altra del festival di Venezia 2002. Non si traa di trovare “idee”, spunti personali e piccole ossessioni. Il lavoro e il gioco sul giocolavoro di marcomelani potrà e dovrà proseguire, manifestando e incrociando: i super8 ancora da “vedere” (home movies? Suoi? Dell’amico Bargellini?) trovati in casa
sua dopo la morte ammassati, le sbobinature di rari interventi videotelevisivi o audio, le sceneggiature sue o a quaromani mai girate da nessuno o mai finite, gli appunti a mano, le molte leere dal carcere (tue illuminanti per il surplus di ossessione e insieme la condensazione depurata di essa, e straordinarie quelle alla compagna Silvana Cielo, vera cronaca di una passione erotica e della tensione poetica del corpo nella separazione coaa). Ma ancora una volta, se l’avanzare della “pubblicazione” permeerà certo il definirsi di una “poetica” interessante e personale, il lato più personale inventivo appassionante di marcomelani è nel maideo/maifao tra cinema e scriura. (“Si può fare, ma si può anche non fare”, sentenziava enigmatico in una bellissima scena tagliata di un film di Tonino De Bernardi). La generosità il dono il dispendio non stavano nella testualità di una frase, nella proposizione o articolazione di un’idea o di una proposta specifiche, ma nel trovarle, nell’apprezzarle, nel magnificarle quasi estrae da una conversazione o da una situazione banale. Marcomelani trovava rendeva capiva autori gli altri, in questo senso agendo, come straordinaria deriva personale di una macchina filmicorosselliniana capace di identificare quale “objet trouvé” duchampiano ogni angolo del visibile, ovvero di indossare qualunque sguardo. Ho già parlato più volte dell’“essere a fianco” di marco rispeo a tanto cinema italiano e mondiale nel quarto di secolo tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni novanta. Davvero, un “fiancheggiatore”. E oggi, a rileggere le testimonianze, un fantasma invisibile già da vivo, di cui risulta difficile dire cosa abbia “fao”, quale sia stato il suo “ruolo” quale resti infine la traccia, se risulta poi così difficile e magari non meno fuorviante – indicarne la flagranza biografica bruciata e “maledea”. A partire dal 1985 (appunto, la Magnifica Ossessione delle quaranta ore non-stop di cinema in TV, per i novantanni dalla prima proiezione pubblica Lumière, 28 e 29 dicembre su Raitre, la cosa più impossibile e difficile estrema noncurante che mi sia capitato di “fare” in televisione), ho avuto l’onore alto (e l’onere) di avere marcomelani a lavorare con me nell’avventura TV. Non so
dire oggi, non so ricordare, un’idea precisa “sua”, un’ossessione più particolare, un suggerimento più definito. So che con lui (e negli anni, via via, con ciro giorgini, sergio grmek germani, carmelo marabello, roberto turigliao…) ci capitava di meere a fuoco bruciare incenerire disperdere in una sola conversazione da ufficio o da divano o telefonica o in piedi fuori da una proiezione ogni volta più suggestioni e ipotesi di quante avremmo mai potuto accogliere e svilupparne noi stessi, di quanto avremmo amato trovare in piccola traccia in “testi” nostri o altrui. alcosa (mi auguro o temo o sospeo) forse restava restò resta, in intensità diffusa più che in cose dee/fae/registrate anche oggi. So che questo entretien infini (da alcuni, esterni o partecipanti – o da amici o da amori toccati dal tempo sconsiderato cioè proprio non considerato, maltraato annullato –, visto vissuto con fastidio) è un rumore di fondo, una radiazione ancora aiva; il “nome” nei titoli – anche in quelli di Blob potrebbe e dovrebbe stare, anche solo per l’aenzione delle sue visioni revisioni segnalazioni critiche – di fuori orario, a troppi anni dal suo non più vivere, non è un omaggio, è una constatazione. E teneva molto, Marco Melani, a che il suo nome apparisse, in questa gloria stirneriana e duchampiana della (nostra) ri-autorialità televisiva. esto credo di aver trovato solo in lui, in questo credo ci siamo incontrati. Sapevo che cercava lavoro, una cosa appena più stabile, me lo fece capire. Intorno alla Magnifica Ossessione si coagulò tra isolati e ex del gruppo di Officina, e echi di “Falcone Maltese” – il piccolo insieme che si sarebbe dedicato poi a Schegge Blob fuori orario. Ma l’unico che fin dall’inizio partecipò proprio alla dissennata ambizione e ossessione di quell’impresa fu marcomelani. Mi piaceva alzarmi presto (e poi dovevo: una figlia piccola, Martina…), poi lavoravo in ufficio a quella rete di immaginate proiezioni desideri che significavano telefonate leere fax acquisti contrai in un confronto snervante e elusivo con la macchina burocratica, il più delle volte per rendermi invisibile a essa eludendola. Nel tardo pomeriggio, in Rai e altrove, i destini personali e le traieorie e le presenze si diradavano decantavano chiarivano. Ancora
dopo, più spesso a casa, cena o dopocena, si apriva il secondo tempo, l’orario – Melani. Inarrestabile, sovreccitato e caricato, pronto ad accapigliarsi con me per un titolo o per l’ombra o il sospeo di un’idea. Confronti esaltanti e spaventosi, che si concludevano per un suo improvviso ingombrante addormentamento, o per la palese esasperazione mia o di Nennella. Dormivo quindi poco, tra il mio troppopresto e il troppotardi melanico. E anche di allora, ricordo poco di preciso, se non di così precisamente inane da risultare irraccontabile. Anche insofferenze, ricordo, quando dalla strada (magari urlando a citofono roo) in via di San Francesco a Ripa pretendeva di salire da me all’una o due di noe perché si era incontrato con l’amico X e insieme avevano pensato che le due noi avrebbero dovuto imperniarsi sulla dicotomia lang/rossellini che era la forma cui stavamo già lavorando da un mese. Ma, ecco, credo di dovere molto proprio a quel reciproco (e poi perdurante) trovarsi e resistersi e correggersi e diramarsi e sversarsi e sprecarsi senza controllo e senza quel copyright automatico tipico dell’ autocapitalismo burocratico di chi subito nasconde (anche a sé ahilui, il più delle volte) e protegge in serra le due o tre ideine che crede di avere. (“On n’écoute pas assez ce que disent les peintres. Ils disent que le peintre est déjà dans la toile.” Deleuze parlando di Bacon.) La Magnifica Ossessione. Il titolo l’avevo proposto io. Ci pareva troppo bello e anche troppo semplice, anche troppo sirk ovviamente, visto che ci si accapigliava e scapigliava tra finoall’ultimofilm e dov’èlalibertà e imilleocchideldoorlumiere e sentieriselvaggi e biggerthanlife. Alla fine la maina dopo era l’ultimo spiraglio perché il titolo uscisse sui giornali – a noe dal citofono mi ansimò arreso: ma sì va bene, è così bello, “con la collaborazione di Marco Melani”; seppi poi che nel pomeriggio, appreso che così sarebbe passato in onda il suo nome, anche nei titoli sulla bellissima sigla di Mario Schifano, marco aveva fao il giro di alcune redazioni, iperconcitato
mentre ci si concitava nelle ultime ore di montaggio, portando a mano il mio comunicato con il rilievo particolare dato alla sua presenza. Ne fui intenerito. Ma non voglio che questo testo così difficile da scrivere e infai nonscrio, tra lampi veneziani di un Kitano sublime e di un magistrale insospeato Tsukamoto, giapponesi proprio “nostri” – sembri a sua volta un omaggio, tra imbarazzo amicalbiografico e riconoscenza generica. Dallo “schegge di eroina” che titolava forcaiolo un pezzo di giornale con la foto e la notizia del suo arresto nel 1988 all’infinito malinconico affeo con cui seguiva il crescere della nostra seconda figlia Aura, che aveva esaamente l’età della sua malaia, all’isolamento forzato degli ultimi mesi, la presenza di marco fu e è per me e per chi vive e gioca con me così frequente, di così intensa frequenza, di così automatico oltrepassamento della distanza negli “stili di vita”, che il rischio è quello di risolvere e dissolvere la forma marcomelani nell’ombra e nell’orma della sua vita (o quindi della sua morte e scomparsa). Mentre, me ne accorgo ora che ho raggiunto e superato la sua “età” (mentre prima c’era tra noi quello scarto che pur minimo si dilatava nella testa fino a un paio di generazioni), ora che mi trovo a un festival di noe e solo il suono di una fontana fa supporre che il tempo sussista immoto, ora che infine e meglio il festival è finito e riprende istantaneo onnipresente proprio oggi nell’implacabile anniversario dell’undiciseembre, ora che appunto il giro di millennio e eyeswideshut sono già stati, la sua forma è stata proprio il rimpianto utopico e la premonizione di quel che fu, il loro riscontrarsi paradossale e coincidere nel cinema. Prestando se stesso al cinema, sentendosene postazione avanzata e vedea in orbita sperduta o in deriva fuoriorbita, come quando riraccontava film giàvisti o malvisti poco importa visti solo da lui nelle lunghe noi insonni passate proprio a coincidere con l’ossessione dell’immagine ripetuta, cinetelevisiva, a spiarne e risentirne e echeggiarne posture e frequenze. (In questo, fino alla fine ancor più nella fine, marcomelani è stato e è un grande autore di fuori orario cose(mai)viste. Perché era l’unico a rivederlo davvero in onda, come insieme, a rendere e
raccontare come maivisto l’appena rivisto). Nella sua (e nostra) personale ossessione per tue le ossessioni, marcomelani incontrò e privilegiò, tra borges e orsonwelles, la figura del don chiscioe, testo/eroe postromantico immenso che non si può non riscrivere per caso identico da sé. Esempio mitico di scriura insieme automatica e iperautoriale. Figura allucinante del cinema come uomo immaginario, misterioso mutante aperto in se stesso così come il cinema squarta e scinde postatomicamente in ogni suo punto visibile il mondo definendolo evidentemente come invisibile. Sì, anche ora sto parlando di marcomelani. Critico e insieme abbandonato alle immagini. Insoddisfao e in aesa fiduciosa. Senza vergogna nell’aingere a tue le fantascienze e al cinema come raro o solo reperto già archeologico di una fantascienza e di una mutazione già avvenute; o nel trovare proprio nel Rossellini che volle essere didaico le notizie e le informazioni che so?– sui primi cristiani. Il cinema per lui, tra festival cineasti incontri proiezioni, era un seguito di “ai di apostoli”, di una comunità impossibile, insieme sacrale e risibilbuffonesca. Per questo, oltre l’ossessione inevitabile del nastro di möbius televisivo, il luogo in cui più fatalmente ci incontrammo con marco fu quella esagerazione parodistica e costriiva della festa che è il “festival” (nel caso, con carmelo marabello e un altro pugno di amici, fu quello di Taormina, tra il 1991 e il 1998, e anche lì la figura hidalgica di marco campeggiava oltre la debolezza occasionale del decedere). Se in TV il gioco nostro era sempre stato e è ancora quello di sciogliere la cristallinità o opacità resistente delle immagini e dei formati e delle durate degli standard delle usanze, o di painare almeno sulle superfici ghiacciate fino a rigarle o infrangerle, foto a far ricollidere campo e fuoricampo agendo da incursori sull’immensa trasparenza invisibile frontiera infinita che li separa, nel festival si traava di provare a rendere leggeri la pesantezza organizzativa, la resistenza dei corpi, il costo dei viaggi, lo spaziotempo limitato e quasi subito esaurito; praticandolo come set aperto fino all’ultimo minuto (non prima dell’inizio del festival, ma del festival stesso),
moltiplicando follemente la forma della sovrimpressione, stressando la macchina fino a farne affiorare eroticamente o orrendamente gli organi (incongrua metafora che la mano si permee ricordandosi da sé della passione di melani per le macchine corposessocervello di Ellroy o di Bret Easton Ellis o della fantascienza e per la resistenza sessuale e per la spietata compassione sadiana ogniqualvolta la si intravedesse in un testo in un’immagine in un film), leeralmente nonchiudendomaiilprogramma. Insieme ci inventammo la nozione fin troppo realista di cinema “apolide”, incarnata negli amici gitai e ioseliani e wendersbertolucci e poi da decine di altri cineasti, e poi dilagata a forma evidente di tuo il cinema che si continua a fare, ritrao ovale senza forma che dissolve il proprio territorio e il mondo abitando (i)l (nostro proprio) essere fantasma. Il non chiudere l’apertura, la spaccatura solo ipotizzata e mai vista che era il mondo, anche nel nostro piccolo gioco, era la passione cui marco restava fedele. Anche quelli che sembrano “gusti” o “opinioni”, come il nostro comune ritenere (pur godendo di molta sublime animazione) che la più mancata e anzi mancante delle noninquadrature di rossellini o delle aese spasmodicamente semplici di straubhuillet fosse più aperta e filmica di tua l’animazione messa insieme, o trovare nel porno traccia di quello spendersi di sé/noi nello speacolo del vivere che invece gran parte del cinema dei budget si applica a cancellare nello speacolo, o.. la passione antimaggioritaria ai tempi del referendum (anche in quel caso, preferiva e preferivamo forse l’incertezza, il rifiuto del chiudersi tombale del potere, la possibilità della mutazione?..), erano segni di libertà dal mondo, di passione del conoscerlo e di disagio e disincanto fortissimo del mondo. Il modo in cui si fece girare la testa… Mi fermo. Sto scrivendo al passato. È un’immagine passata, che avremmo sempre voluto come sigla di tuo, e che poi lo fu della sua morte in pubblico. La sequenza finale di Francesco, giullare di Dio. Farsi girare la testa, solo modo per trovare forse cadendo la strada la direzione il senso. Tanto forte girò e gira la testa di marcomelani, come in un vertiginoso Laurel e Hardy, che
si trovò subito – e cadde – dentro l’immagine, dentro l’immagine stessa nel suo proprio “girarsi”, nella faccia inversa möbiusiana di se stesso e del mondo. Ai molti che si aggirano meravigliati o schifati, entusiasti o indignati, o invidiosi di autorini e autorei, nel luna park e zoo delle immagini, in eterne gitepremio o spedizionipunitive, marcomelani (e per questo anche i più lontani da lui erano incantati dall’eleganza viva del suo giudizio o del suo consiglio) propone invece il cinema e l’immagine come forma di vita tra sé e sé, come lo scoprirsi politicamente scriura angosciata altrui di cui godere iperbolicamente nel riconoscerla, nel sapere “sue/nostre” tue le scriure depositate in immagine. Non sappiamo infai cosa stessero vedendo i suoi occhi bambini spalancati sbarrati in quella foto; né se stessero vedendo qualcosa. [in Marco Melani. Il viandante ebbro. Scrii, testimonianze, conversazioni, a cura di Fabio Francione e enrico ghezzi, Alessandria, Falsopiano, 2002]
Stacco
Stacco. E sia. Parliamo di censura. Di questa cosa che funziona solo quando non si vede e non si avverte. ando si manifesta, ci serve, diventa un potere che evidentemente ci serve, volendo servirci e asservirci. Per questo la più teneramente abiea e la più efficace delle censure è l’autocensura; in ogni caso, desiderata o indoa, assume su di sé quel “potere” (“il” potere), se ne fa annullare permeendogli di annullarsi e mascherarsi nel supposto soggeo individuale che saremmo. (Uso con frivolezza termini assoluti: “annullare”. Tuavia, la censura stessa, oggi, nel suo “presente”, è costrea ad apparire ogni volta parodistica inadeguata inauale. Schiacciata dalla globalità della sfera comunicata e comunicante. Basta un po’ di libertà. O meglio: non esiste “unpodilibertà” nello stare globale. Serpeggia subito “ovunque”, puro o impuro desiderio bellicoso o imbelle (se ne accorse per prima l’ousità gorbacioviana, quando pensò di poter aprire spiragli al mercato, al luccichio della merce, allo shining capitalistico pubblicitariotelevisivo, mantenendo il controllo politico di una macchina di modello troppo arretrato). E la censura, l’ao censorio riconoscibile e riconosciuto, “fa ridere”, tanto evidente è la sua distanza groesca da quella che sarebbe la sua deriva istantanea, la sua unica “realtà”: il controllo assoluto, l’annullamento. Proviamo a farci servire il caso irrisorio ma perfeo (proprio nelle sue perversioni, nei twist, nell’intorcinamento ideologico, nell’artificialità che esibisce), del programma di Sabina Guzzanti non ancora andato in onda su Raitre nel momento in cui scrivo (più o meno tra il cinque e l’oo dicembre), e sempre più scivolante verso il gorgo dolcificante del natale che ounde le fierezze effimere della politichina (immaginiamo le famiglie consumanti o
amanti scendere in piazza per le pur sublimi imitazioni di Sabina, compresa la poco sublime per quanto riuscita imitazione del comiziante improvvisato ad arte? Tui sanno del resto di essere già un po’ o troppo “in piazza” sempre, i singoli ancor più. È il problema dei girotondi, che a loro volta potrebbero solo assumere e rivendicare il loro nulla, facendosi girar la testa e cadere invece di scimmioare i loro “nemici” volendo “vincere”). Un programma “registrato” (del resto, la stessa genialità flagrante delle maschere guzzantiane esige di per sé la perdita della flagranza della “direa”; troppo complicato e lungo il truccaggio in direa, o allora sarebbe troppo banalmente “teatrale”). La “direa” è del resto lo specifico vero della libertà televisiva. Se tuo va in onda “in direa” (e questa è la dimensione automaticamente e intrinsecamente eccedente della televisione, la sua mostruosità magnifica terribile lautréamontiana), che siano nastri persone schededigitali, è però solo nella contemporaneità della presenza, quando sul set che ci viene trasmesso è la stessa ora che “da noi” speatori e il set è più apertamente lo stesso e include il nostro giudizio sulla sua stessa contemporaneità, che il dire l’agire il muoversi escono dal controllo ipotetico delle registrazioni. (Ora, meerò parentesi due o tre dei tagli più o meno lunghi che hanno (in)giustamente sconciato e narrativizzato il mio de(ad)jàvu sul numero scorso. Volevo meerli tui in fila, rovescio dadaista scrio del vostro “leo” – forse – e resto del mio volermi far censurare per chiaro equivoco consegnando oltre la deadline un pezzo lungo quasi due volte il convenuto. Sconvenientemente, avevo proposto as usual di rimpicciolire il caraere fin quasi all’illeggibilità al graffito alla lentedingrandimento obbligata. Convenientemente, rinuncio ora per non mangiarmi altro spazio. Anche se autobomba saltano ovunque nel mondo mentre scrivo apparendo in lievi ronzii scrie sullo schermo minimo del telefonino, piccoli pop di informazione, per nulla rock, a far apparire infame la r-esistenza talmudica nella scriura come non sia). “Annunciata” desiderata auspicata nei bellissimi prossimamente in veste berlusconiana o per l’appunto
annunziatesca, e verificatasi quasi per caso per fessure e esitazioni “editoriali” (assurde e impensabili ovviamente nella compaezza della diatura simulata dalla ridicola par condicio teleideologica vigente) di fronte all’agghiacciante e poi riscaldante (ohdolcepatrialuuosa) unanimità mediaticopolitica (fino a un aimo dopo i funerali) dopo la strage di carabinieri in Iraq, la censura/sospensione, oltre a mostrare ancora una volta (in Italia più chiaramente che altrove) la televisione come unico spazio riconoscibile del politico (elea a ciò da una parte per il ritardo tecnologico con cui la guerra e l’atomica l’hanno resa per più di mezzo secolo pura proprietà dei vari poteri; dall’altra per la sua natura sperale così vicina all’ingombrante e omicida inconsistere di poteri e governi), ha confermato la situazione italiana come luogo della censura di qualunque discorso non si muova e propaghi (pro o contro) sulla lunghezza d’onda della potente e in questo sì “criminale” evanescenza culturaleconomicopolitica del totem berlusconiano. (Mancano tre o cinque righe al limite indicatomi. Affastello. Ricordo la censura da me patita (ahi) nella puntata del programma di Baudo dedicata alla censura in TV (quella guardacaso in cui “rientrava”, anche lui registrato come tui, la viima elea berlusconiana che trovate nella prossima pagina). Tempi perfei, nessun problema mi avevano deo dopo la registrazione. Salvo eliminare poi – certo per problemi tecnici di durata – la parte in cui rammentavo che si era in differita, e quindi censurati a priori in quanto censurabili. Impensabile sollevare un caso su tanta evidente marginalità. Infai. Il momento in cui scrivo: un istante prima di andare a vedere con Ln l’ecografia – che forse (non) vedrete qui/lì a fianco – di un bambino che nascerà ad aprile. Il momento in cui leggete: due gennaio mi dicono. A catastrofi già avvenute. Ne accadono ogni momento, di fini del mondo, qui e lì da voi e da noi appunto. Se siamo qui, o lì, vuol dire che la catastrofe bigbang ci fu e c’è ancora). Ah: “Le moment où je parle est déjà loin de moi” (figurati lo scrivere). [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”,
gennaio 2004]
Apri la porta e trovi Gandhi
Apri la porta e trovi Gandhi. Apri la finestra e trovi Gandhi. Apri il giornale (anzi lo chiudi, di solito è in ultima pagina) e trovi Gandhi. Accendi la televisione, trovi Gandhi. Immagino, ma in questo momento non lo so, che anche entrando al cinema tu possa trovarlo: in fondo, lo spot è firmato da Spike Lee, e certo appare più intensamente filmico di una modellona australiana che corre sulla spiaggia deliziata dal messaggino video. Pure, in questo messaggione video qualcosa stona, anzi risuona sinistro dal sontuoso bianco e nero. Come sarebbe ora, il mondo, se un gandhi avesse avuto a disposizione “questo”? (A questo punto, ma già prima, spero sia scaato un retrogusto di falso o almeno di inesao spinto sovraccarico nel mio discorso: non è vero, infai, che apri la porta o la finestra (però i cartelloni…) e trovi Gandhi. Sarebbe (troppo) bello e inquietante, infai, se aprissi la porta di casa e te lo trovassi lì, ologramma muto o parlante, mansueto duro sereno. Ad aprire un buco nel domestico – anche solo, per esempio, nel troppo domestico cinema italiano ben definito da stanze dei figli e chiavi di casa e al massimo finestre – peggio! – dalle quali vedere gli stessi interni inferni soddisfai di rappresentarsi (e poi si vitupera il grandefratello TV); e anche qui, forse distorno troppo come mi piace(rebbe) Bertolucci, ma quanta distanza e intensa disperazione fredda nei suoi interni estremi di storia astorica minima e assoluta, spaccata dall’immagine aldilà della volontà stessa dell’autore, già nei titoli L’assedio e e Dreamers). Tra (cioè fuori) parentesi, assedio e sogno sono due termini due istanze che ridefiniscono questa situazione nobilmente pubblicitaria di una grande azienda di (tele)comunicazione. Gandhi in forma di sogno che ci assedia. Che ridisogna (il computer si è ribellato due volte alla parola) il Grandefratello da incubo volgendo in idillio l’utopia
totalitaria (che poi vuol essere ovunque e dappertuo in tuo il mondo, o assolutamente “per tui” e di tui – anche di quelli che non avranno né spaziotempo né bisogno di sognarla). L’aentato, la morte (o quasi) violenta e in pubblico, è (stato) dopo Gandhi il destino frequente quasi automatico di molte icone salvifiche (o anche solo “innovatrici”) del secolo che (non) si vuol chiudere (kennedy luther king lady d reagan lennon), dopo la Bomba più anarchica di qualunque anarchico che lo scinde in due, che gli fa da sponda polindromicomöbiusiana. asi le icone avessero bisogno di mostrarsi infine incarnate nel morire o nella ferita inferta dallo speacolo e per lo speacolo. Sinistro è allora il modo in cui si salta, mediante l’icona indiscutibilmente meno “violenta” e più nonviolenta, la (questione della) violenza automatica della comunicazione onnipervasiva, della “grande comunicazione”. Sappiamo che ogni strada totalitaria al convivere è lastricata di “pubblicità progresso”. Ma qui, in uno sfarzo commovente di buone intenzioni, l’immaginazione al potere convoca il passato come dato di fao appunto incontrovertibile, cercando inconsciamente di svuotare quei grandi schermi “fuori dal tempo” (o traccia di viaggi nel tempo fantascientifici) delle icone che più gli appartengono o appartennero (hitler stalin il dollaro; quanto più intelligente e fascinosamente e illuministicamente preciso era stato il film di Zemeckis che raccontando il Contao – comunicazione pura e istantanea – non aveva dimenticato il ruolo auratico e iniziale della teleicona hitleriana), indipendentemente dalla piazzarossa o timesquare in cui siano mentalmente situati. Ideologia pura della Neutralità della trasmissione dell’icona, soilmente e perversamente rafforzata dal senso dell’icona stessa, Gandhi. Con buona pace del defuntissimo McLuhan, deve essere sempre questione di mezzi indifferenti, cui solo la virtù o il vizio dell’aività o della decisione umana conferiscono senso. Siamo tui (⁇⁉?) per l’uso buono e positivo e ben indirizzato, “naturalmente”; a ben vedere anche le teste tagliate possono di volta in volta (tot capitae tot sententiae) servire alla “causa” – già, quando c’è una “causa”
c’è un “fine”, si sa, che è essa stessa. Il Gandhi rimpianto dai grandi schermi (o dai grandi schermi rimpiangente lui stesso di non averne avuti) non si limita a dire che il villaggio vuole comunicarsi o che direamente è il comunicarsi, dà per scontato che il villaggio deve comunicare, che il “bene comune” è il “comunicare” che probabilmente necessariamente possibilmente siamo (sono⁇) “buoni”. Non c’è nulla di “male” (in effei, chi potrebbe dirlo?) nel mascherarsi laico dell’intensità religiosa dell’ut omnes (unus sint) cristiano (ma caraerizzante tue le religioni “rivelate”). Salvo che, caduta la visibilità dichiarata della “religione”, la sua pretesa assurdamente logica di salvezza, la ripresa invisibile di tale visibilità si converte in trionfo del puro potere, dove l’idolo è il potere stesso di sentirsi uniti dallo sguardo verso qualunque monolito che si riverbera di lì verso tui gli occhi che lo guardano. Incontestabile (come la “ragione” gandhiana), il desiderio di salvezza del duemila fa rimpiangere qualunque oscurantismo e medioevo, in quanto include per via dell’immagine (che sarebbe ri-conoscibile e riconoscente) ogni conato o esito illuminista. Assolutismo “buono” e “culturale” che crede davvero “diverso” il concertone gratuito per la pace rispeo a qualunque telesanremo; che trova migliore la piazza planetargandhiana futur-passabile – purché non ci sia mai neanche l’ombra del presente, dato solo come oativo – rispeo ai telegrandifratelli o alle megangale che scivolano frivole leggere impossibili verso l’alto sul teo della chiesa guggenheim di Bilbao. Che dall’altro di elicoeri neroniani si autoestasia delle noi bianche da due o tre milioni di “partecipanti”, un successo di pura autocertificazione di esistenza di passaggio di “abitante” subito recensito quale speatore non pagante di una gigantesca autopubblicità. Segnalo allora l’occasione Turner (a Venezia, mostra sul Turner veneziano) di deturpare la luce della comunicazione, di percepire il doppio oscuro della luce, l’accecamento che va di pari passo con l’intento di illuminare, del vuoto che presuppone e poi ripete e intensifica qualunque ao di
comunicazione (e quanto è disonesto meschino – e all’occorrenza omicida il non ammeerlo). Il “vedere piorico”, in ogni “veduta” turneriana, è occhio che si spalanca fino a bruciarsi della stessa luce che lo araversa, lasciando macchie bianche e isole cancellate, liberate di senso imposto, all’interno di ogni “quadro”. Un film geniale, l’ho già deo, che ha l’ardire e la precisione di chiamarsi e Village, incarna l’utopia fantomatica del cinema e l’illusione delle buone intenzioni, l’oscurantismo pesante dell’immagine (quella che stiamo vivendo vedendo e che sempre più siamo costrei e in più ci costringiamo a sapere o rimpiangere come “passata” e lontana) che se non si/ci riconosce è costreo a idolatrare la propria stessa immagine. Ci dice come sarebbe (stato!) il mondo se potesse sapersi e farsi da sé (As is?). [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, novembre 2004]
(barocco leccese con soubrette gemelle)
Barocco leccese. (È il titolo di un film “girato” eppure mai “fao” da Carmelo Bene, eppure esistente e resistente a suo nome nelle cineteche. Frammenti protrai di inquadrature di barocco leccese riprese durante i sopralluoghi di NostraSignoraDeiTurchi, probabilmente dati in pasto al produore in perdita perché ne traesse un cortometraggio a costo zero con sovvenzioni statali annesse. Storia complicata scombiccherata inesaa. Ma infine le immagini delle pietre dei capitelli, le immagini-pietre, le pietrimmagini rotolanti, parlano mute, a differenza – si direbbe – del chiacchieratissimo barocco lecciso. Credo che nel fraempo – le pietre rotolano veloci ansiose di darsi alla forza di gravità che le rimeerà “a posto” – la vicenda televisiva delle sorelle nulliste danzanti si sarà stinta ricomposta normalizzata. Lascia la gloriosa trionfante tristezza della conferma dell’imbecillità, non della televisione ma di tui i convenuti al gran gioco dei commenti sull’imbecillità della stessa, quasi tui naturalmente in televisione o anche altrove. Al brunovespashow (l’ultima frontiera del “bocca a bocca” della TV generalista italiana) si è condensata in manto marmoreo di estasi berniniana l’immensa voluta barocca della situazione televisiva. Non si traa(va) neanche di disceare di speacolo. Si è talmente dentro allo speacolo ormai, lo si è talmente, speacolo, che l’analisi debordiana dello speacolo (sublimemente sommaria e schematica e aurorale) non basta. La vita non è “slontanata” nello e dallo speacolo (in un teatro di soggeo che vive guarda proiea eccetera) ma trovata in esso nella propria prossimità al nulla. Tale è la precisione e potenza di tale “epifania” (festa appena passata, di bellissimo senso, quella che celebro più intensamente anche da solo; ma da tempo le epifanie – in
modo irreversibile direi a partire almeno da quella dell’undiciseembre – mi appaiono apofanie, termine e conceo così astrusamente terrificante e abbagliante che inutilmente lo cercherete nei dizionari, se non in quelli specializzati di psichiatria) che ci se ne ritrae e – come già per il programmatico “grande fratello” – tuo il discorso si gioca sul senso insensato del successo televisivo, sulla (il)legiimità di esso. Le professioni si rivelano subito “professioni di fede” (vespa ci perdoni). Il giornalista il conduore il politico con indulgenza apprezzano criticano distinguono dialogano civeano con le gemelle leccesi. Circospeo il conduore: sa di costeggiare il bordo del nulla. E le perfee nullafacenti, le subitamente sacre nullaessenti, meono appropriatamente piedi stivali gambe nel piao guardando in faccia lo psicologo moraleggiante crepitante giudizi morbidamente indignati, invero rintronato per la continua odissea nello spazio che lo porta “porta a porta” a sballoarsi tra gli incogniti moventi del delio di Cogne e il significato dei parti plurigemellari e eutanasie e penedimorte e “cosa-mostrare-in-TV”. “E lei per quale motivo, per quale sapere, per quale autorizzazione è qui, in televisione?”; più o meno così, dicono, e la sparano talmente grossa che l’innegabile esperto annaspa borboa balbea quasi annega, sbalordito, non osando rivendicare davanti a tanta improntitudine la laurea le specializzazioni le pubblicazioni i libri e la costanza stessa delle apparizioni in TV. Sente, forse, la profonda vicinanza tra quello che ha portato lì le gemelle e quel che portò e continua a portare lì lui l’esperto. La stessa pigrizia televisiva che reitera rapita e truffaldina la minima scintilla che si accende. La comodità fatale dello “stare”, anche solo lì a fare il se stesso che fa da bersaglio. ell’incepparsi del sapere che vede sanguinarsi il volto allo specchio ferito dal proprio rasoio, vale condensa oltrepassa tue le banalità sgranate in una seimana dal rosario di sociologi mediologi gurutelevisivi filosofi eccetera. Anche perché riconoscere che la vicenda nulla era sorella – del millevolte ricordato e milleunavolte dimenticato buco nero nullissimo in cui cad(d)e per sempre il bambino
Alfredino di Vermicino, sarebbe stato certo troppo, avrebbe tinto di nero la preoccupata o spensierata frivolezza dei commentatori, sempre rioosi a quell’elementare esercizio di onestà – se non di verità – che è il riconoscersi per primi inclusi nel “narcisismo di massa” warholiano di cui cianciano perplessi o ridanciani. Ecco, riconoscere in quel nulla e in quei nulla (fragilissimi ed eterni, caduchi e infrangibili: basta il niet di un capostruura a sospenderli e interromperli, non riesce l’indignazione della presidenza della repubblica a cancellarne l’eterno “essere già stati”), non è facile, non è piacevole, non è neanche redditizio, o è così facile e definitivo da dire che poi neanche ti invitano più al circo. La facilità con cui il cervello che si vuole sensibile e progressivo e l’anima che si vuole (ben)pensante e razionale ingoiano la propria automatica autosoddisfazione colpisce anche in deagli da nulla (ancora una volta; tui tesi a occultare i deagli gli indizi le spire del nulla). Perché per esempio mi indigno del soofondo in cui si dà per acquisita un’indignazione, nel sootitolo e poi in alcune frasi dell’articolo intelligente (con e senza virgolee) nel quale in un quotidiano francese si parla della mostra di un’artista americana costruita sui menù degli ultimi pasti dei condannati a morte americani? “Assurdità di un sistema che nutre i suoi membri nel momento in cui li mee a morte”… eccetera. Non si potrebbe dire lo stesso della vita stessa? E non basta la scelta morale primaria nuda vuota senza eccezioni contro l’esorcismo abieo che è la pena di morte (parodia e vendea della nostra stessa morte), senza doverla condire di pura confortevole ideologia? Cosa sarebbe “meglio”? Un più nudamente democratico pasto uguale per tui? Tre ore di vuoto silenzioso? Un nastro registrato ad hoc con le canzoni preferite (“quelle che vorreste portarvi dietro nell’aldilà”, all’inferno o in paradiso)? L’incontro obbligato con un teologo di propria scelta? Un congresso carnale con una bambola di gomma a scelta o una prostituta da catalogo? Mai ammeere, soprauo (sarebbe troppo assurda allora la
“scelta giusta”, vero? O non potrebbe essere questo riconoscimento la forma della morale stessa come rivolta/speranza anche inane o proprio morale in quanto inane?), che la morte è un pasto nudo. [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, febbraio 2005]
Ultime arie
Sms (Sono Mai Stato) dal traffico infinito. Con pioggia. Venezia lontanissima e svanita. Capolavori cinesi e giapponesi soprauo. Tai kato kato tai! Freddo festival senza cuore. Cinema e festa immagine della bestia. O cuore della bestia. Poteri che si vogliono e devono conservare. Tuavia: almeno una dozzina di film belli o bellissimi (su tui: mary abbraccia takeshis’, amanti regolari davanti allo specchio magico), assenza di presente fortissima, quella su cui almeno i sanzio castellucci con coraggio pochi giorni dopo gridano quieti contro la cultura stessa che li nutre e propone, cultura fetida rancida lucidata splendente, cultura di (ri)governo, arte come ribadirsi dello speacolo in forma di governo. Incapace di vivere e vedere la trasparenza in cui panem et circenses sono la stessa cosa. Cento fiori cento festival cento feste si sente dire alla conferenza stampa dei sindaci amministratori o somministratori o neroni di speacolo. Fioroni per grandi occhielli. Divi. Aori. Il modello-terribile in quanto modello-del teatro d’opera. Lo sciopero stesso dello speacolo, sacrosanto come intralcio resistenza occupazione di spazio sindacale rischia l’ousità della protesta degli autori e aori contro il dilagare mondiale dei reality show speacolo della vitamorte. Ma chi di voi meriterà di toccare l’isola dell’immortalità possibile oltre quella della piccola famosa immortalità… (michel h.– e dio lo perdoni se pensa che il cinema pensante sia haneke e non magari michael bay di un’altra isola… (perso il film sms troppi schermei da rimontare – rinnovare in t9!)… ma infine alle stelle alle comete ora si spara nel cosmo con indicibile frivolezza… – tui solo polvere di stele… e il giudizio di salomone geniale che con la finzione della morte-giustizia induce il non giudizio amoroso si rovescia in separazione obbligata e cristallizzata che si rià speacolo e che viene
religiosamente “comunicata”. (Ecco ultimi metri di blocco davanti alla rai non un buco soo la pioggia. Entro bagnato nel palazzo per riunione fuoriorario. Hall eccitata di fotografi e giornalisti… Una testa bianca… il vecchio caro simpatico omar sharif… – come a venezia! – che abbiano “ragione” loro ? in ogni modo, fuoco su di me, fuoco sul quartier generale e buiamoci in acqua con jean vigo e rossellini e john wayne e gli zombi di romero che tanto non si affoga non si muore mai perché si rimuore sempre.) [“Duellanti”, novembre 2005]
Imperfetta indifferenza (nobody is perfect)
Scrivo le prime parole di questa cosa imperfea nel giorno dei Santi (di tui i Santi, ognissanti). Le ho scrie: sono passati tre giorni, ora che sto cancellando e riscrivendo, sbobinando quel che mi pare già scrio. Scrissi: sono infai passati tre giorni da quando scrivevo queste parole né prime né ultime che adesso si stanno raggomitolando e (insod)disfacendo davanti ai vostri occhi. Potrei restare qui, muovermi in tondo o in serpentine e in piccoli vortici o refoli. Passeggiare nell’eterno presente, abitare la condizione, lo spazio che siamo dannati a non riconoscere, questo inevitabile miglioredeimondipossibili (che possiamo anche chiamare “peggiore”, anche questo ci è possibile; cambia poco) contiguo tangente parallelo a (per noi) infiniti altri modi migliorpeggiori. Avvertendo nell’affollamento della contiguità fotogrammatica questo presente già come cristallo di un passato remoto, istante di una variazione assoluta minima inane, giocata singola di un colpo di dadi, di una manciata di dadi ciascuno a mille facce. A far questo, l’imperfeo aiuta. Anzi, pare proprio l’unico utensile che soccorra nel tentativo di scorrere fuori e dentro (araverso) gli stati di presente, gli spazi che chiamiamo passato, presente, futuro (particolarmente maledeo, il futuro; probabile segreto di ogni suicida, risentire anche solo per un istante tuo intero il peso della ripetizione che si prepara in noi e per noi, che siamo noi: avvertire di colpo la nostra immobilità, il peso specifico di essa, che la fa oscillare senza posa all’interno del palindromo, senza più speranza di non saperlo). Forma perfea e duile, l’imperfeo, per fingere di nuotare il tempo, di tirarlo elasticamente a sé e elasticamente allontanarsene, di temperare la lontananza tra
un fotogramma e l’altro (tremenda e incolmata pur nella contiguità) mimandone esorcisticamente l’interazione. Sto certo immaginando l’imperfeo, a partire dalle parole che lo indicano, dalla declinazione verbale. Sempre un’immagine è il pensare, se appena (ci) si pensa. el movimento come un palleggio uno scao una carezza un godimento che sviene più che avvenire, appena pensato deo ricordato è “immagine”, slogatura del logos, rifilmaggio dello stesso. (Nell’epoca prima della registrazione – cioè prima degli ultimi cento/centocinquantanni – il senso del discorso che si perde proprio nel suo essere più soggeivo, nel suo calco irripetibilmente vocale, è stato deo/immaginato nel modo più folgorante da Persio rifao da Boileau: hoc quod loquor inde est – le moment où je parle est déjà loin de moi; poi le fotografie e i cinema e i nastri di ogni genere, la loro esplosione accumulata e sfrenata, anche troppo facilmente hanno cominciato a portarci al sospeo che l’apparente venir meno sia un’altra traccia di scriure altrimenti registrate, di cui potremmo immaginarci il contenitore il supporto il risultato). Lo sappiamo (quel poco che sappiamo): l’immagine è imperfea e in bilico, pronta a cadere. Da una parte troppo vicina alla “cosa” che immaginiamo raffiguri, indistinguibile da essa e perciò abissalmente ingannevole (“trompe-l’œil”) dall’altra troppo lontana, difforme, irriconoscibile, immagine ingannevole perché immagine non “di”, o solo di tuo o di nulla (vedi il Rorschach, vedi la reazione di indifferenza rosselliniana di Irene/Ingrid Bergman in Europa ’51). L’immagine (come ogni stato anche il più consolidato e persistente) è strato di ghiaccio invisibile e sdrucciolevole, inganno mobile automaticamente allucinatorio, non “forma” ma sospeo speranza timore ombra di essa, smalto vetrificante di un istante spaziale rappreso. L’imperfeo come forma verbale è la funambolica e insieme fatale articolazione dell’incanto del gerundio (l’incantarsi di un disco roo) che è il presente sospeso e puramente aperto e impersonale: amando pensando immaginando si trasformano in cadute secondo la gravità (la forma della pasta di gelato sempre
sblobbante in basso verso la catastrofe, a inquietare Hulot/Tati e tui noi), secondo la pesantezza pastosa malinconica dei soggei (amavo, amavi…). (L’immagine che non inganna e che non mente sarà allora quella che assomiglia solo a se stessa, quasi impossibile a riconoscersi nel suo doppio movimento di combaciarsi e fondersi e di strapparsi da sé?) (Citazione di Leonardo da Vinci dal Traato della Piura, sulle macchie e le cose confuse che muovono l’ingegno a nuove invenzioni). Modo d’aumentare e destare l’ingegno a varie invenzioni Non resterò di meere fra questi precei una nuova invenzione di speculazione, la quale, benché paia piccola e quasi degna di riso, nondimeno è di grande utilità a destare l’ingegno a varie invenzioni. E questa è se tu riguarderai in alcuni muri imbraati di varie macchie o in pietre di vari misti. Se avrai a invenzionare qualche sito, potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse baaglie ed ai pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e buona forma; che interviene in simili muri e misti, come del suono delle campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t’immaginerai. Non isprezzare questo mio parere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie, de’ muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi, ne’ quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l’ingegno del piore a nuove invenzioni sì di componimenti di baaglie, d’animali e d’uomini, come di vari componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e simili cose, perché saranno causa di farti onore; perché nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni. Ma fa prima di sapere ben fare tue le membra di quelle cose che vuoi figurare, così le membra degli animali come le membra de’ paesi, cioè sassi, piante e simili…
Intanto sono passati anche i Morti del calendario sull’agenda, erano subito lì dopo i Santi, festività contigua che turbava e confortava, e che ancora inquieta e confonde. Perfei sembrano i morti, mentre la “perfea letizia” dei santi mistici e dei padri del deserto coincide coll’abbandono a tue le imperfezioni e trascuratezze terrene, alla sporcizia, al lezzo. Un che di fotografato irrigidito cristallizzato frangibile è del resto nell’immagine/parola stessa che designa l’insieme in cui crediamo convivere: “mondo” e “cosmo” sono ornamento cosmesi trucco, immagine-belleo, high-definition 3D del mondo fin da subito inscindibile da un’aura “mondana” caduca e di sostanza quasi hollywoodiana. Pereat mundus! Il mondo infai è pronto a dissolversi di fronte all’imperativo di una legge astraa, perfea. E il mondo si dissolve mentre il soggeo e l’umano si dissolvono in esso (l’umano, lo sappiamo (e se vogliamo fingere di non saperlo, tuavia lo sentiamo), è improprio, parla con lo stesso ruolo e lo stesso peso e la stessa ousa inintelliggibile chiarezza di un granello di colore prossimo a stingere e a sfarinarsi a terra da una tela o da un affresco). Perfeo apologo di ciò, grazie al dato arbitrario e “legislative” di un imperio narrativo, il film e Incredible Shrinking Man (di Jack Arnold, dal racconto Tre millimetri al giorno di Richard Matheson), implacabile progressiva odissea di un uomo irradiato condannato a rimpicciolire fino a sparire, a inabissarsi nelle cantine fino a poter passare dalla grata e dalla rete più fine, a trapassare nell’aria, invisibile, pura voce che dice della propria raggiunta invisibilità e trasparenza. (Dopo il morto, o con esso, l’uomo invisibile, altra figura irriconoscibile e onnipresente di perfezione. Non siamo lontani dalla visione prospeica genialmente sfalsata di Florenskij, nella quale tuo ciò che vale la pena di provare a far vedere, a “dire” mostrandolo, per esempio un dio-lucegloria-amore non può che nascondersi nella vuotezza accecante di un oro senza forma. L’essere che si dice e si vede, non può essere perfeo, è già cedimento al ri-essere e al
voler essere, a un movimento di vanità, di bisogno di immagine di sé.) Il nobody is perfect di Some Like It Hot/A qualcuno piace caldo di Wilder rilancia il gioco perfino aldilà dell’ambiguità della definizione sessuale stessa, che parrebbe “la” definizione. Nessuno è perfeo, è la lezione di Ulisse. Solo nessuno è perfeo, colui che non si lascia nominare se non dall’assenza di nome, lo stesso (guarda caso; anzi, guarda, ma non vedi, perché ora sei cieco e prima avevi un occhio solo) che si è reso invisibile accecando l’occhio che voleva controllarlo. Non fingo di non pensare che qualcuno ora già possa insorgere: “Ma qui non si parlava d’arte?” Sì, si parla d’arte, infai; anche troppo: dell’irrisorio troppo che è l’arte. … Vescovi teologi pensatori eccentrici inglesi del seicento che deducono l’esistenza del male da quella dei mari e dei monti, dai buchi e dalle asperità che negano al pianeta la sfericità perfea. Fechner (amato da Freud) che nell’occhio come nell’angelo vede la tensione alla forma perfea della sfera, abbandonandosi a una fisiologia dell’angelo che qui ci induce a sognare le annunciazioni portate dall’angelo/occhio, a immaginare l’occhio e la visione e il vedere stesso come “annuncio”, presenza di un’assenza. Perfea (sacra o profana che sia) è allora la luce che (s)copre mostruosità e meraviglie, semplicità e eccessi, linee ree e volute, della e nella stessa “visibilità”. Gloriosità del vedere e non del visto (vedi la citazione in Florenskij di Emerson sulla luce e sull’illuminare). Gloria della cecità stessa, forma radicale di visione: vedere il non-vedere. Nonvedere il vedere. (L’accecamento, mito lampante di tuo l’illuminismo, fino a oggi, fino a Kubrick che infine – nella sua opera finale, imprevedibilmente tale e non finita – ritrova nel soggeo umano lo stesso sbarrarsi spalancarsi degli occhi che toccò e tocca al polifemico monocolo HAL estrema intelligenza artificiale di 2001). Parlo in effei di cinema,
dell’imperfezione del veder(mi)lo e della sua costitutiva perfea imperfezione. Un artista-limite del presente, Stockhausen, disse tuo lo sgomento del non poter essere perfeo come l’immagine che si sgretola e si mostra sgretolarsi in direa nel maino soleggiato limpido ombroso dell’11 seembre 2001. Immagine che per la prima volta esibì immediatamente e per tui il suo (non) consistere, la propria tessitura faa/disfaa (e per questo, belli o brui, paiono groeschi tui i progei di ricostruzione sul sito delle Twin Towers, impregnati di una commienza politicosociale che si barcamena tra mimesi e rimozione, tra cancellazione e ricordo; avrei sognato di un’immensa immagine (virtuale; o proieata o impressa in un prodigioso gigantesco cristallo, anzi in un quadrilatero di cristallo), anche delle twintowers stesse, o una pura cortina/recinto di luce, e dietro/dentro di essa il buco/maceria fissato in quel momento; monumento a una nuova “bastiglia”). Non si dà il colore, è il colore a darsi (e il grandissimo El Greco che rinfrescava periodicamente il colore dei suoi quadri “sapeva” questo paradosso, che il colore non si dà, è o si ri-dà). Non si dà misura. Non si dà temperatura. Non si dà né si costruisce immagine. Né cinema (Grandezza di Rossellini, appassionato col suo fotografo Mario Bava di effei oici di ogni tipo, e insieme e proprio per questo che il cinema c’è già ovunque, è l’ovunque, va smascherato, indicato come perfea nudità del re(ale), capolavoro sconosciuto di una cappellasistina invisibile, maschera da nulla e di nulla.) Il perfezionarsi e precisarsi tecnicoartistico della “presa di immagini” è la fase estrema dello spero così difficile da vedere aggirarsi (potremmo chiamarlo ancora “capitalismo”?). Lo viviamo in modo postumo – in particolare cinema e TV e la “rete” stessa ne sono il culto, il rituale sfinito, la celebrazione eccitata e il lamento o threnos (dei Lumière, certo) – per come fu enunciato con laica definitività nel compiersi della morte dell’arte pensata da Hegel proprio in quanto esasperato diffuso trionfo della capacità di (ri)produzione oggeiva infinitamente e soggeivamente espansa (la stupefacente
possibilità di produrre il riprodursi stesso dell’effeo di un raggio di luce su una foglia o su un deaglio di arredamento; Hegel osserva lo sviluppo del naturalismo piorico borghese, ma senza cambiare una parola parecchie pagine del suo ragionare estetico sembrano parlare direamente di fotografia e di cinema e già di video). Il capolavoro non può che essere “sconosciuto”. Impressiona l’incrociarsi e l’oltrepassarsi, in un abbraccio troppo preciso e perfeo per non essere che il fondersi di due pulviscoli in un reciproco mancarsi e venir meno, dell’esortazione di Leonardo a trovare la forma e la figura (la suggestione il baluginare l’ombra di essa, l’immagine dell’immagine, le “nuove invenzioni”) nella confusione e incertezza delle macchie d’umido sui muri, esito non di progeo ma di processi chimico-fisici automatici e naturali, cifra misteriosa del consueto, mappa informe di tue le forme riconoscibili, immagine anagramma di mille altre; e del cammino inverso del piore nel racconto di Balzac, percorso solitario e prometeico nel chiuso dell’immagine e nell’interno dell’immaginare, discesa asfiica nella trama stessa pulviscolare da cui trarre la forma perfea. Affiora il sospeo di una forma riconoscibile, il lineamento di un piede, dal coacervo di segni precubisti, dal viluppo di linee sovrimpresse che volevano dar conto visivo del mutare e muoversi di un corpo o del mondo e della forma stessa. Ma quello che trionfa e risplende nello studio del piore, camera scurissima illuminata per un istante, è il ritrao ovale dell’arte stessa: l’immagine “perfea” infine trovata non uccide il modello umano che si suppone da riprodurre, stermina l’istanza stessa del riprodurre, l’arte stessa e l’artista nel loro stato massimo di tensione e intenzione. E tale immagine è vicinissima alla macchia informe e imperfea cui si rivolge e ci indirizza da mago augurante Leonardo (maestro di sfumati estremi e di sovrimpressioni di linee e di stati luminosi a trai prossimi al disfacimento del vedersi turneriano)…
Inseguire o costeggiare il fraale che un banale zoom cinefotografico reperisce all’istante non solo nella costa di un sito geografico magari visto dall’alto di un satellite, ma anche nella linea ferma e nitida tracciata da un artista o perfino nel più nobilmente chiaro dei gesti morali, è ormai esperienza e pratica quotidiana, inane da raccontare e probabilmente (rispeo all’istante in cui il vedere si percepisce quale un sentirsi vedersi visto, preso personalmente in un impersonale aendersi e tessersi della visione stessa) condensata in uno straordinario passo del Metodo di meditazione di L’esperienza interiore in cui Bataille racconta filma il sentirsi immagine, passivamente aivo in un farsi dell’immagine di cui non è il soggeo. E già poche righe di Kaa, Il desiderio di diventare pellerossa, avevano fornito la soggeiva più impensabile, quella di chi (chi? Cosa?) si impersona nel fantasma araversato dal doppio movimento macchia//capolavorosconosciuto, quel che si fa e disfa a ogni momento nella frequenza di baito che è l’immagine. Né si esce da questo perfeo movimento palindromico mentale e chiasmo logico: perfezione dell’imperfeo e imperfezione del perfeo. Fascino teorico e insieme spicciolo quotidiano del fuzzy, della piccola imperfezione, del piccolo errore ammesso previsto indoo per evitare la grossa catastrofe, del deaglio tecnologico ao a un uso improprio, aperto all’imprevisto, secondo una logica sfumata. O della biotecnologia, a sua volta presa tra restauro permanente e immaginazione o invenzione dell’uomo bionico perfeo, post-umano e post-robotico. Prospeive da fantascienza, eppure vicinissime, rese contigue dall’aspeo di immenso cantiere esteticopolitico che il mondo sempre più manifesta. Manutenzione e imperfeo. Curiosamente il cinema, macchina semplice e limitata, e la ancor più semplice televisione, provvedono un modello infernalmente nitido del chiasmo del(l’im)perfeo. Nella sua menzogna costitutiva dello spazio fermo (il fotogramma) artificialmente messo in movimento dal trenino speacolare, il cinema ribadisce una doppia direzione, due sensi opposti: il perfeo chiuso quasi
carcerario dell’immagine fotogramma (frame) e l’imperfeo iterativo della ripetizione. el che resta intao, nella contesa tra servo e libero arbitrio, è appunto l’arbitrio. Si può cambiare segno, meno o più, e inverare l’illusione che ci sia sempre dato un negativo o un positivo da fabbricare, in relazione al positivo o negativo che crediamo vedere nella forma-mondo. Le ombre omicide mortali infernali dei “paradisi in terra” sono il rifiuto dell’imperfezione, della mancanza che ogni linguaggio e ogni forma artistica segnalano. Dio e il demonio non solo si annidano nel deaglio ma sono il deaglio, il piccolo segno mutante, piccolo oggeo minimo che non cambia nulla se non il senso, il colore delle cornici. Imperfea in quanto malaia mortale è la vita, eppure i film più sideralmente tristi (dreyer, bresson, ozu) ce ne danno la necessità quasi in un entusiasmo insieme empio e teologicamente complice con l’idea di un autore. Ogni normativa estetica che non sconti il proprio arbitrio morale è pura ideologia, inganno diabolico che cerca di incantare lo sguardo col fantasma del reale, quasi che una panoramica potesse infine trovare in un punto l’accesso al mondo dell’arte. Neanche si può dire semplicemente che “compito dell’arte è meere caos nell’ordine”, quasi un rovesciamento meccanico di una supposta classicità. Il gesto altissimo e imperceibile, davvero aristotelico filosofico, di Duchamp e Warhol sarà stato quello di dichiarare immobilmente caos l’ordine e viceversa, speacolare il quotidiano e quotidiano lo speacolare. La profezia warholiana dei famosi per quindici secondi minuti ore istanti secoli non è previsione di sociologia televisiva ma riformulazione impassibile di un baito essere/non essere ritrovato e risolto nella riconoscibilità allucinante del riessere. Il desiderio di diventare perfeo autoritrao ovale, quadro perfeo del soggeo imperfeo, che l’autore non potrà mai completare da vivo né contemplare da morto, è il destino struggentemente elegiaco (oh, Sokurov!) di qualunque gesto artistico che appunto non voglia convertirsi in pura ideologica consolatoria del “contemporaneo”.
Non esiste arte contemporanea. Non esiste perfezione artistica, ma solo l’incanto malefico benefico che ci fa desiderare che vi sia. Vi? Ci? Sia? Ecco l’inganno. Nessuno dovrebbe negarsi il riconoscimento della profonda insoddisfazione e della violenta nostalgia che proprio le opere che ci capita di ritenere più alte e riuscite e senza difei, sublimi e perfee, inducono. O perché mostrano il bordo, hanno dei margini, un inizio e una fine, o perché non li hanno o non li mostrano, proseguono indefinite in tue le direzioni includendoci anneendoci e vomitandoci in uno stesso movimento di desiderio. Non si traa di dimensioni, ma di qualcosa di cui il conceo di “registrazione” è solo pallidissima traccia. Un cristallo o un quadreo hanno la stessa tensione di una vita intera che ambisca a considerarsi dichiararsi divenire “opera”. Tragica incommensurabilità di tue le perfezioni tecniche, di tue le “alte fedeltà”, che infine dovrebbero ambire a trionfare solo facendoci sentire il rumore di fondo del nostro esser trascinati e spostati e svolti e riavvolti. Rumore. Fondo. Sfondo. Strepito dell’indoo sadico del nostro immortale non voler morire. Amore perfeo perfea letizia, il soggeo pronto a morire o a riconoscersi morente ogni istante. Senza pathos. Indifferenza dell’essere immagine forse. Imperfea, non adaata e non adaa. Non linguaggio come grido, ma riconoscere il grido che risuona silenzioso in ogni parola in ogni tentativo di parlare variare (ri)muovere o declinare il mondo. Cosa avevo pensato di poter dire? Cosa dicevo? Vedevo qualcosa o il vedere era una patina? Chi painava su questa patina? Chi painava sui miei occhi, quale angelo si rotolava nel fango trasparente che lui solo vedeva… (?) [Accademia di Belle Arti di Urbino, inaugurazione dell’anno accademico 2005-2006]
Le bolle di sapone funzionano
Deve essere vero, l’ho sentito dire un paio di volte alla radio e l’ho anche leo più o meno su queste pagine. Stanno finalmente tornando di moda gli anni “novanta” (parlano di musica di abiti di atmosfere). Nel “finalmente” speranzosodesideroso è già il senso di quel “tornare”. Forse un istante, in quel decennio, gli anni novanta stessi furono “alla moda”. E forse perfino ora, non per illuminazione ma con illuminismo senza infrangimenti, la rincorsa potrebbe per un momento catastroficamente compiersi, e andar (anzi tornar) di moda il presente, il 31 dicembre del 2005 per esempio (preciso nella sua qualità di “fine” cronologica). Unica possibilità, per il presente, quella di mascherarsi anzi di riconoscersi come ritorno (ripetizione o parodia). Trovo un aimo fa – lo giuro – in un’intervista antica riaffiorata la mia ammirazione nel definire “inauale” il siderale e meraviglioso Uomini sul fondo di De Robertis; ma l’intervistatore aveva doverosamente chiosato: “si scaglia contro l’inaualità del film”… Come riuscire a dire allora del sublime contorto imbricato concerto di inaualità del grande King Kong di Peter Jackson, film per questo intensamente politico e teorico, analisi dello speacolo che spinge al limite il sublimepostromantico (la bella e la bestia che godono il tramonto) con il correlato rischioso dell’orrido più fisicamente mostruoso, nella durata “eccessiva” delle baaglie dinosauriche a mimare l’inesauribile infinitività del videogioco, sfida potente all’invisibile economia che ancora si chiama cinema. Altra notizia ascoltata: un ufficio pubblico dal primo gennaio disaiva il fax, si potrà comunicare pagare informarsi più agilmente via e-mail. Un geniale poeta italiano capriccioso, nel giorno del suo compleanno recente e
pubblico, risponde alla mia domanda se infine abbia anche lui una mail (“Perfea anche troppo, per dispiegare il tuo scrivere perverso polimorfo…” eccetera): “No! Ora ho un fax! Appena preso, ma oggi si è inceppato.” Anche troppo perfea, la mail, in effei scriura diversa e mai esistita ma ora omicida nei confronti del tenero rovesciamento con cui il fax consegnava la copia lasciando in mano l’originale. Terribilità istantanea e irriconoscibile dell’essere tuo “copia” indistinta nello scriversi ipersoggeivistico in rete (polaroid di un soggeo infinito sfinito che non c’è). Una persona che amo molto mi regala un piccolo libro stupendo, e Hidden Presence, una trentina di foto americane tintype della seconda metà dell’800, con sobri commenti e didascalie. Ritrai di bambini, dove “presenza nascosta” sono le madri (o le fantesche, o più raramente padri, o aiutanti dello studio fotografico) quasi sempre dissimulate nello sfondo o coperte da un tendaggio o da un panno o ridoe a busti decapitati o mani amputate. Sostegno necessario, il loro, per tenerfermo il bimbo nei lunghi secondi di esposizione. E si nota in alcuni casi il basamento del supporto (che già impressionò La camera chiara di Barthes) cui a sua volta la persona adulta si appoggia. anto sforzo per tener ferma l’immagine, o meglio per tenersi fermi di fronte all’immagine e in essa. (A guardar bene, anzi a aver solo il coraggio di guardare i grandi film del ’68, gli spazi interni (e)statici chiusi terribili teooculari in cui dibaersi amare godere odiare morire, l’odissea kubrickiana e l’Amour fou riveiano, Playtime e Hollywood Party, in essi si intravede apparire la stessa cosa: il sostenersi inane dei corpi, il loro affollarsi visibile o invisibile, angelico o materico). Anch’io volevo regalarglielo, son quasi sicuro che lei (una donna, una mamma) l’avrebbe trovato sinistro come regalo. O forse lo dico per passione di inversione e disfunzione, mentre le invio il mio Morgenstern (“il Nuovo è solo sfumatura”…). Tanto, anche le bolle di sapone funzionano, funzionano sempre, lo ricorda una voce della coscienza radiofonica. Mi par di aver capito che solo a Natale (o in un anno? Che differenza fa?) negli Stati Uniti si vendano duecento milioni di “fa-bolle”.
Meravigliose bolle, che dovete “funzionare”, come tuo – ci dicono – a questo mondo; ditemi allora per cosa deve funzionare lui, il mondo. [“il manifesto”, 31 dicembre 2005]
Le origini della @
La chiocciola, lumachina di terra, pare sfidare (con le volute del guscio, vertigini senza fine) l’ultimatum mortale; adornò in passato (ricorda il Béstiaire du Christ) mummie e sepolture nobili. Piantata in mezzo agli indirizzi di posta eleronica di tuo il mondo, @ sembra un’alfaomèga immediata, che dà il via indicando già l’indirizzo il fine la fine. Né chi la scelse dando forma all’e-mail negli anni seanta aveva in mente la futura poetica definizione zoomorfa in lingua italiana. L’at inglese, “presso”, era in effei un segno preamente commerciale ben prima di indicare un luogo e un indirizzo. At the price of (“al prezzo di”). Di ascendenza cinquecentesca, fiorentinoveneziana (e diffuso anche in area araboispanica, dove la “a” autoinscria indica una quantità, l’anfora o arroba), reperito di recente in un documento del 1536 dove si menziona la convenienza di andare a comprare e vendere certe merci aldilà dello streo di Magellano, con la stessa identica @ a segnare anche il tempo nell’@ddì della datazione. A quale prezzo si comunica, ogni istante, anche nella leggerezza dell’e-mail, dice eternamente la chiocciolina. Aldilà di ogni ultimatum, di ogni fine e scadenza apparente, di ogni interruzione. Il prezzo del riscao della poesia, da quando (da rimbaudlautréamont a chlebnikov) ha voluto “cambiare la vita”, ovvero sapere che il presente è nel cambiamento e che il cambiamento è solo nel presente (per quel che ci riguarda), è sempre quello di sentire e rivendicare il peso il costo il dispendio e lo spreco della propria gratuità. Capita di chiedersi (giocando a inseguire l’objet petit @ del dirsi del capitale) se Abu Ghraib non si scriva con quell’@. Il sorriso ebete o atono degli autori o autrici autoscaantisi accanto alle cataste di corpi nudi offesi, è
prossimo a una atrocity exhibition saatchi and saatchi e non meno “artistico” e non più acritico dei gesti d’artista più “estremi” della contemporaneità (infai le immagini emerse dal carcere iracheno sono state il colpo più serio alle ragioni dell’intervento Americano). Si insinua in ogni scriversi del mondo la @ warholiana commerciale, odradek, elementare e subito barocca nell’aorcersi, vermicino intorno a se stessa. Perfea semplificazione perversa, non tanto per come fa scivolare inosservato e onnipresente e interstiziale il fantasma del c@pitale, quanto nel dare a esso uno spazio, domiciliandolo automaticamente all’indirizzo di tui. Indirizzo del luogo in cui finiscono tui i rapiti del mondo, a popolare una stessa terra immaginaria, in aesa del riscao che definisca il loro peso economicosimbolico soraendoli a un dominio incognito. Forse anche indirizzo dell’istante subito dopo il bigbang dell’universo, appena “fotografato” da una sonda dopo una “posa” di 13,7 miliardi di anni. (O uno dei rari punti misteriosi dove si può vedereascoltare la radiazione di fondo che di quello sfregar di fiammifero resta e di cui siamo parte?). Rapitori e terroristi e colpevoli e innocenti (e i colpevoli di innocenza) usano la posta eleronica, indirizzo sperale nitidamente disseminato (e la usano i padri per risalire ai siti pedofili e forse per controllarli?; esemplare il “rapimento” di Tommy, intrigo alla pynchon più vertiginoso e politico delle rabbie giovani da caso sociologico alla erika&omar o degli incogniti culmini gotici del delio di Cogne; poste, sindacato, riciclaggio, pedofilia, mafia, ricchezza inspiegabile). Sarà esagerato trarre dalla chiocciolina auspici o timori da profezia apocaliica di “immagine della bestia”, e vedere la stessa cosa guardando col microscopio e col telescopio (lo fa il poeta secondo Bachelard). Ma scrivendo ci si sente saliscendere una scala a chiocciola. [“il manifesto”, 28 marzo 2006]
Il regista di funerali
Appello al vuoto corman: così finiva per errore l’ultimatum precedente. Una nota sfilacciata oltre la fine del testo, rimasta in fondo alla pagina eleronica inviata, rimedio allo sbrindellarsi della memoria istantanea dello scrivere. Eco anticipata di testo, mantenuta dagli amici del manifesto, rispeosi. Difficile essere “regista di ultimatum” (intanto, probabilmente, bisogna non credere in nulla, neanche nella fine propria, sentendosi in sé la/il fine, per poter usare le credenze le paure degli altri, il loro timore della fine; raggiungendo vertici dickiani di perversione; vedi la minaccia (da parte dei rapitori dei tre italiani in Iraq un paio d’anni fa) di uccidere gli ostaggi se entro cinque giorni non fosse stata organizzata una manifestazione per la pace a Roma). Impossibile non esserlo, se si vuole essere o si è (o infine si può) registi, smisurata inane parodia di “dio”. Ogni “stop” è un ultimatum, una fine sospesa e prevista che si abbae a tagliare il tempo della registrazione; ma il set resta, col suo brusio e col suo spazio a coprire lento e istantaneo tuo il mondo, a rassicurare gli ingenui che una “vita normale” continua oltre la “rappresentazione”, a inquietare chi vede in esso un film di cui non sente la fine e che suona eco flebile di un ciak lontanissimo mai udito. La specializzazione ultima, la vera specialità della casa/cosa cinema, dovrebbe essere il regista di funerali. Essi peraltro, salvo quelli perimetrati e protei dei set, si sono dilatati a misura di pianeta, eventi ingestibili da un regista. In questi giorni si è celebrato il primo anniversario del più interminabile imponente funerale dei nostri o loro giorni. Papa Giovanni Paolo II. Con lo stesso Wojtyla a introdurlo e a pre-viverlo postumo nella lunga sublime indecente esposizione del proprio progressivo venir meno nella malaia
e spegnersi. E con la prima scissione mondiale di un evento in miriade di scie di foto e riprese telefoniche (strana epifania nell’immagine di centinaia di telefonini sollevati davanti al feretro in ascolto visivo, orecchio/microfono che si muta in occhio), fragili istantanee che sembrano (per)durare fie fino a oggi. Il tessuto infiito del kronos digitale che tende a coincidere con l’aion, in uno stesso unico spazio. Stesso principio di indeterminazione temporale nelle indecise elezioni ultime supposte decisive. Ennesima ribadita normalità del tramonto che è l’occidente democratico, ben aldilà dell’apparente anomalia berlusconiana (per la terza volta: entrata determinante e non rilevata delle telesequie di tommy nella contesa eleorale). Il voto che a un certo punto improbabilmente e quasi irrealmente si deve dare e contare, segreto, ma “secreto” dopo e prima la serie di sondaggi, stati mutanti dello stesso voto, infine scultura mobile interroa e bloccata nell’ao di diventare perfea parità, levigato zeroazero risultato del coacervo di asperità. Campagna eleorale, fuga di colline digradanti verso una pianura indistinta. Vita sempre più vista e blandamente desiderata in forma di infinito massaggio di tanto in tanto blandito vezzeggiato eccitato da uno snuff movie d’occasione (basta qualunque catastrofe in TV). In aesa del regista di nascite, già molto vicino in epoca di parti pilotati, e ben sapendo che qualunque automatica inquadratura fissa (anche solo – e soprauo di “controllo”) registra infinite reincarnazioni, resterebbe oggi da pensare la figura iperbolica del regista di resurrezioni. Faticosa, atletica (alzati e cammina), impopolare, la risurrezione implica il passaggio duro araverso la fine e il fuoricampo assoluto in cui risiede il chiunque/nessuno registico, la crudeltà del morire per (ri)nascere. (esta scriura di pasqua, nel mese crudo d’aprile, in corso già le pasquee e scampagnate posteleorali, è dedicata a marcomelani, morto diecianni fa il 16 aprile, e mai così aivo). In un aeroporto milanese, una scria lapidaria assoluta accanto alla porta scorrevole soffice, a sancire una normale
prassi burocratico-topologica di sicurezza: “Una volta usciti da questo locale sarà impossibile rientrarvi.” Sarà possibile sognare di non sognare? (Ovvero: vivere). [“il manifesto”, 16 aprile 2006]
Essere e riessere
Enter Polonius. Aria, buona o caiva. Odore di putrefazione, di marcio (roen). Aria di cui è fao e in cui si confonde il corpo degli speri. Estensione di una danimarca sgomenta e planetaria, che ci “danimarca” tui con la sua ondata di calore. Who’s there? Chi è là, chi va là? Il più convenzionale richiamo tra soldati apre la tragedia più inutilmente nota, quella dell’abissale unità di misura che chiameremmo amleto, a definire il soffio smisurato della distanza pneumatica tra essere e non essere. A sorpresa, sul finire dell’anno, entra in scena il Polonio, agente desueto di odore radioaivo che non riusciamo a odorare. Who’s there? diventa domanda cinica estrema beckeiana, come in shakespeare. Seguire le tracce dell’agente radioaivo “polonio 210” porta oltre gli aerei le case i corpi le persone contaminate. Oltre i minacciati i condannati i morti i mandanti, oltre la “trama” che può appassionare sorprendere incuriosire (e nel suo stesso apparire una falsa pista), c’è l’affiorare in sé dell’invisibile, dell’astrazione pura. Nel nome dell’elemento si annida manifesta la concretezza casuale dell’affiorare. Polonio: il lord ministro (e padre di Ofelia e Laerte) in Amleto, prima viima ingloriosa della maanza del teatro del potere e degli affei che la domanda amletica basta a generare. Topo ucciso fuoricampo mentre si nasconde e ascolta, speatore/spia dietro un altro sipario, preda inconsapevole della mousetrap, la trappola che reperisce con acuta ousità: “C’è del metodo in questa follia.” Si impone, la digressione amletica, nel momento in cui un giorno sì e uno no le prime pagine dei giornali risuonano di un tal nome, abusando altresì (o anzi facendo uso ancor scarso) del termine fantasma. Lo spazio modesto di questo
vano vuoto si intende si sente si dibae proprio nello spessore speacolare postamletico, potente e imperceibile, tra essere e riessere. La sentenza marxiana sulla storia dannata a ripetersi, tragedia la prima volta e poi parodia farsesca, pur appesa al mito dell’origin(al)e, definisce alla perfezione il caraere astrao echeggiante entropico del capitale, il passare da cosa a merce a “radiazione di fondo” cosmica comica cosmicomica. Amleto, condannato a ri-essere/rinonessere in eterno nel ciclo delle rappresentazioni, rosencrantz/guildenstern di se stesso, dice lampante la tragedia dell’oggi. Il riessere che quel che crede di essere non può non sentire di essere. Bello: la trama risibile misteriosa del polonio disegna la parodia di tui i poteri. Erode il vago desiderio di sangue elisabeiano dissimulato alla telemeteodiplomazia fabiofaziana dal più lucido dei politici del paesone nostro che assapora la distanza dalle preoccupanti ultime dichiarazioni di xy sulla finanziaria, dal ministro immerso nei problemi ingenti vitali immani “veri” di sopravvivenza e di dirii elementari in tante parti del mondo. Fuga dal presente nell’esotismo di un presente più “hard”, mentre non è da spregiare il nullismo politico estenuante e senza eroi, più vicino al presente virtuale e perfino al braccio di ferro col fantasma di potere assoluto che si prospea necessario per entrare in scenari di surriscaldamento insopportabile del pianeta, di naufragio e fuga extraplanetaria. Mi scuso. Volevo aggirarmi nella sempre più dispersa e introvabile dimensione live (come si dice di un concerto) del presente, nella ripetizione del “registrato” che ormai certifica il “vivo” e viceversa (come il ripetersi rende tragica qualunque parodia almeno quanto il contrario). A partire dalla doppia esecuzione romana entusiasmante del Boris Godunov (“amleto” russo?) direo da Gergiev, in una versione Musorgskij e nella riorchestrazione di Šostakóvič. L’immaterialità polonica porta in altre danimarche e russie. In altre arie. (Polonio: “ough this be Madness, yet there is Method in ’t. Will you walk out of the Air, my Lord?”
Amleto: “Into my Grave.” Polonio. “Indeed, that’s out of the Air. How Pregnant sometimes his Replies are a Happiness that oen Madness hits on…”) [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 7 dicembre 2006]
Con Aura senz’Aura
Non ho visto morire il mio babbo amato, perché in quel momento tentavano di rianimarlo (giustamente, pietosamente; nonostante l’evidenza, non ci saremmo mai perdonati la mancanza dell’inutile tentativo ultimo). Si aspeava, sperando in un’improbabile resistenza fino a invertire il decorso del male e il flusso della disperazione. Con i tracciati istantanei sui monitor dell’unità coronarica, gli ecocardiogrammi colorati, le sintesi efficaci dei medici, tuo appariva semplice e chiaro. anto più ineluabile, tanto più insopportabile. Perché quella macchina biologica così nitidamente monitorabile non era non è riparabile sostituibile riaivabile, “manutenibile” all’infinito? (Aldilà del fao che i padri mi sembrano non morire mai, trasferendo solo su di noi la loro assenza e improbabilità di ruolo, che ci pone di colpo in prima linea nel non essere; mentre le madri morendo segnano il venir meno di uno spazio dove si è stati e dove si torna solo morendo forse.) Per questo sono affascinato e angosciato dal malditesta (altrui; io ne soffro pochissimo e sempre con sospei abissali), specie quello cronico e misterioso intorno al quale si accapigliano le medicine e i medici, e che sento intorno a me nella sua aura pesantissima, onda anomala che risento mia, quasi fossi il Jerry Lewis infermiere iper(co)sensibile del sublime Pazzi, pupe e pillole. Una delle ultime frontiere del “non saputo” medico, terra incognita del dolore in cui in questo momento preciso qualcuno si addentra missando ancora una volta dati di innumerevoli sondaggi e statistiche (non sapevo, quando con marioschifano si intitolavano Con Aura senz’Aura (lui) quadrei dedicati a mia figlia Aura e (io) installazioni che non volevano installarsi, che stavamo
sacrificando alla classificazione dei malditesta almeno quanto a walterbenjamin). I due tre anni passati dallo tsunami di fineanno/capodanno patito dai turisti (goduto da surfisti e subacquei?) e da un mezzo milione di indigeni ci provvedono l’immagine precisa del presente vissuto/visto. Un sudario già steso, lentissimamente o subitaneamente riarrotolato e ridisteso (correzione automatica insistente: “ridisceso”; vedi “sipario”), comunque imperceibile se non nel dono della catastrofe. Che ci definisce tui sommersi e salvati nello stesso set. Nella corsa a inseguimento sorniona tra i due modelli lampanti di immaginare il nuovo mondo presente, Brave New World e 1984, sembra di gran lunga vincente l’ipotesi terribilmente so huxleyana rispeo all’orwelliana infine teneramente hard nel fornirci l’icona malefica del grande fratello. Ma nel mezzo esao, con le foto banali di un abughraib (destabilizzanti solo per diffusione e pateticamente prescimmioate dall’arte “contemporanea”), sta un Saddam (quale sosia di se stesso?) che sale il patibolo in una messa in scena più forte della morte, quale che sia l’esito verofalso. E sta il “concorrere” dei monitoraggi infiniti per la nostra sicurezza, nelle strade spiate da elicoeri, negli aeroporti crivellati dagli scanner, nei nostri corpi che si controllano e spiano per truccarsi/sostituirsi o per liberarsi di sé. Se i satelliti tengono, la fine (segnata da un numero o da una parola precisa usciti a caso da un computer) potrà essere vista in direa dal mondo che finisce svanisce se ne va. (Ma l’ultima notizia dell’anno fa sorridere: “La scienza conferma: il riso è contagioso.”) [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 4 gennaio 2007]
Non fa nulla, è il mailstrom
Provo a scrivere le prime parole, è già tardi, martedì maina alle 7.55 circa. E ora, anzi un istante fa ormai, su Raiuno un cataclisma meteo. L’uomo in divisa che si trova a dover commentare con tranquilla bonomia non più la “scomparsa delle mezze stagioni”, ma il nostro discendere in una stessa unica “stagione all’inferno”, saluta e sta per annunciare il TG, ma di colpo l’immagine trema e diventa incomprensibile primopiano elementare di “qualcosa”, si impenna nei colori dell’uniforme, sembra vorticare. asi un momento hip di uno di quei videoclip tui uguali. Per banale esperienza riconosco l’errore: la regia ha mandato in onda una “camera” invece di un’altra. Invece di un’inquadratura più o meno stabile e composta, in cui una persona “guardava in macchina”, ovvero ci guardava, ci siamo trovati noi a guardare dentro la macchina, l’abbiamo sorpresa mentre (l’operatore) lavorava, alla ricerca dell’immagine successiva concordata o da suggerire. Piccolo piccolissimo incidente di percorso; anche frequente. Di solito si traa di movimenti, comunque riconoscibili nella loro intenzione tecnica e registica, non di rado correi e conclusi in direa, senza neppure “staccare”. Non mi interessa affao il senso psicotecnicogrammaticale del piccolo incidente. Né la discrepanza in sé, con la sua trasgressività minimale. Solo, il sobbalzo infimo e illeggibile di messa in onda, illeggibile gradino aereo o acquatico di un ipotetico (di nuovo ora: notizia Ansa sms delle 9.19, potente scossa sismica in Indonesia, almeno trentacinque morti a Sumatra) e inesistente linguaggio, schiude lo spiraglio di un momento sull’abisso che chiamiamo linguaggio, oltre la rete che per quanto fine e ossessiva infine ci rassicura di un rimbalzo o di una caduta autita.
Ogni volta (anche tra pochi minuti) che mi calo nella voluà semplice e intricata di leggere/scrivere le (mie?) “mail”, non riesco a non essere sfiorato dall’impressione lievissima – un velo – di scivolare inavvertitamente in un maelstrom. Anzi di essere già lì, nell’occhio del mailstrom, calmo, spostato appena dal trasalimento minimo del gioco di parole. Passioni urgenze rabbie fastidi si depositano sul fondo, anzi così credi, subito dopo le vedi turbinare sulle pareti d’aria e acqua intorno a te, e tu sei già il fondo. Profonda nostalgia del linguaggio, oggeo archeologico oltrepassato dalla luminosità istantanea e dark dell’inlandempire dell’immagine. Nel fruscio delle “comunicazioni” senti perdersi le parole (e i dialei, e lingue intere) in un gorgo auschwitz, nel loro stesso vento di segni montato in uragano. Giorno per giorno, minuto per minuto, senti assoigliarsi il vocabolario, parole venir meno. Il meccanismo è semplice e terribile. Il dover essere intelligibile, il doversi far capire del linguaggio stesso. Diventato coazione sociale globale e politica (quanti “parlanti” in TV e radio che si “scusano” di una parola desueta, o anche solo di inerpicarsi in un conceo appena oltre l’unopiùunodue) un automatismo sterminante macina il linguaggio, pialla le increspature e i nodi, brutalizza le sfumature. Anche con “ragioni” evidenti: il congiuntivo dell’ipotesi e del desiderio è una curva inghioita dal reilineo frontale e apparente dell’immagine; ma gioco difficile e intenso può essere allora quello di trovare nell’immagine l’indeterminatezza della mossa precisa che è il desiderio. Non ci può essere reazione a quella che è già una reazione a catena, cui si parteciperebbe ancor più con le opposte scelte speculari della “ricercatezza” snobistica o dell’assolutismo egalitarreligioso o demoglobale. Solo resistere, inventando schegge, tenendoci strei i momenti rari di puro nonsenso refraario al consenso immediato, pronti per trovarli e immergersi e farsi scoppiare quasi i polmoni. Pescatori di perle senza maschere né bombole (se proprio si vuol vivere, si consiglia lo scafandro).
[rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 8 marzo 2007]
Il verde del vicino
Apri la finestra sul maino freddo appena illuminato. Riconosci l’insieme con la precisione di un deaglio. Il grande palazzo giallastro di fronte, le due finestre più vicine, una sempiternamente aperta su un interno vuoto, l’altra accostata, con un’imposta precaria appena appoggiata che ti verrebbe voglia di volare furtivo per fissarla a prova di vento con la stessa manopiede con cui a volte correggi l’obliquità di un tappetino per le scale. Cielo sul punto di passare dal bianco al blu, il massimo di accecanza, la soluzione di continuità tra un caseggiato e l’altro della via, una quinta di altre case sfumanti in ballatoi dove l’occhio miope non arriva mentre crede di vedere le cornacchie che senti gracchiare. Senza odio né noia riconosci, quasi un sollievo. Eppure sai che quell’immagine, tangenza obbligata in quel punto con tuo l’universo mondo, ostruisce il tuo vedere e sapere e sentire, proprio mentre spalanchi gli occhi e ti illudi di costruire il mondo o di identificarne le forme e i modi di costruzione e di prospeiva, mirabilmente indifferenti. Non c’è via d’uscita, sei già fuori. Ti riscuoti, svellendoti dal muro di ciò che esiste e resiste e cui più vorresti resistere. Ti giri, in aesa dei risvegli di altri e delle telefonate e di disfarti nel da farsi, dal suono al televisore già acceso. Una donna vista di spalle confessa la pena per il caso di bullismo subito dalla figlia a scuola. La voce è lievemente alterata e mascherata. Il caso è minimo, lo sgomento sincero della presentatrice del maino è dovuto forse anche a questo, al non saper che dire/fare dei moltissimi minuscoli delii quotidiani senza castigo. Pochi minuti, infai, e dilaga nei telegiornali la confessione dei coniugi della strage di Erba. Sia frontale, sia quietamente spiata e estorta dalla pura situazione di aesa delle prime ore del lontano fermo in carcere filmate
dalle telecamere di controllo della polizia. Sapremo presto (o già si seppe, e non me ne sono accorto) in quale punto esao di un lobo cerebrale o in quale terminazione nervosa di un piede si annidi la matrice della “confessione”. Intanto, continuiamo a restare sconvolti dalla non sconvolgente banalità non tanto del male quanto delle confessioni più terribili di esso. E ci si aggrappa ai delii per sentire un sussulto di realtà di vita. Mentre anche i crimini o gli incidenti più “semplici” diventano implacabilmente insolubili grazie alla moltiplicazione e diffusione delle tracce invisibili o genetiche in cui si sminuzzano e dissolvono il quadro e la scena. Svanisce la nostra distanza dai gesti estremi e dagli eccidi. Un detector – sempre meno avveniristico – di “crimini a venire” alla Minority Report sempre più difficilmente potrà distinguere tra la nostra effeiva pericolosità e il potenziale antisociale immaginario, tra l’azione che è nell’aria (immaginata pensata desiderata voluta) e quella già realizzata filmata (pre)vista. Non conta che la criminalità si aenui nelle statistiche, né si traa solo di perversione speacolare. Sembra un agitarsi di vita “vera”, un rovescio dell’amore che tenta di mimarne l’intensità senza l’esperienza spaventosa sublime del darsi/perdersi nel desiderio o nel godimento dell’altro. In aesa di “delii in pillole” o di pillole deliuose, e di orgasmi senza contao se non con un se stessi mentale colleivo, siamo fin d’ora ridicoli giganti sproporzionati al fremito nanotecnologico che stiamo ri/producendo e in cui probabilmente già consistemmo o consistiamo. Cosa avviene quando ci “accorgiamo” di dove non siamo e di cosa non siamo, quale punto si accorge di quale reticolo di punti siamo, quando l’erba del vicino di colpo ci sembra più verde? [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 20 marzo 2008]
Il deflettore
Sembra un horror. Il periodico interrogarsi del programma di Michele Santoro sul “vuoto di valori” che affligge la speranza di vita dei giovani e degli adolescenti (occasionato stavolta dall’aggressione insensata mortale feroce di Verona) mostra di essi nei filmati – per proteggerli – volti irriconoscibili nel flou eleronico. Ne ascoltiamo le voci mascherate e alterate. La sostanziale delle cose dee (la miseria della vita quotidiana di tua una generazione) non si perde, probabilmente. Ma la situazione parla d’altro. Gli ospiti adulti esperti, i filosofi e gli psicologi, o gli psicologi filosofi, guardano e con disperazione pacata constatano indicano deplorano. Il loro volto esibisce un’ombra di disagio, forse pur percependo il loro stesso ruolo nel rito dello speacolo, mentre non tralasciano di accusare “vent’anni di TV commerciale”. Mestizia arrogante dei “supposti sapere”, senza maschera che possa nasconderne la miseria quotidiana. Per non dire della miseria nostra, incapace, anche nell’incrocio con lo sguardo televisivo altrui contraffao e prigioniero nell’irriconoscibilità della registrazione, di uscire dal cinismo speatoriale automatico con un urlo o un gesto, o con la rinuncia a un “sapere” perenne e incontestabile perché pronto a ripetere il rito mille volte compiuto nello smentirsi da sé (è questo il cuore doloroso e invisibile, il non-deo della generazione del Sessantoo che ogni cinque o dieci anni si celebra). Si srotolano le recriminazioni contro la parodia che l’incubo del “grande fratello” è diventato. Magari in nome del Pasolini (sì, il “pisolini” dormiente nella memoria del correore automatico che non ne contempla il nome) sempre brandito a mo’ di clava reazionaria, mentre un pasolini d’oggi potrebbe e dovrebbe dostoevskianamente abbracciare le
ginocchia dei concorrenti televisivi, stringere il loro “vuoto” più onesto e fondo e trasparente del nostro, o più imperscrutabilmente oscuro del nostro anelito polizioesco alla sicurezza dell’animo nostro e altrui. Il defleore si apre. Da almeno vent’anni non ne tocco uno. Su una Fulvia berlina d’epoca un figlio studente dams e il padre mi accompagnano a un convegno universitariodidaico intorno al cinema di Debord. A centodieci, in autostrada. La velocità torpida e fulminea della memoria. I baibecchi di noi fratelli col babbo. Vogliamo i finestrini aperti, non fa abbastanza freddo sferzante in faccia, o è estate calda. No, la nonna prende aria le fa male. E la macchina “soffre”! E il rumore. E poi il defleore va benissimo (è ingegnere il babbo, lavorò in Lancia, ammirava i congegni semplici), l’aria entra di sguincio, meno violenta. Non ci sono più, i defleori. Deaglio costoso assurdo prezioso (ce l’aveva anche la Cinquecento). La brutalità soave dell’aria condizionata è più funzionale, crepi l’aria deflea e guardiamo la surriscaldata ininterroa fatamorgana sul navigatore. Dormo un sonno senza sonno, sento noi parlare di vecchie moto Enfield e Norton e di vino che berremo, guardo la porticina nel vetro, la forma tra triangolo e trapezio. Dissolta l’aura autoritaria, la parola defleore si sospende in me arcaica e tecnica. In girum imus nocte et consumimur igni. Le albicocche primo fruo estivo, in TV: ricche di potassio sorbitolo carotene. Immagini dalla Cina, didascalie cinesi ma si legge bene il passaggio del terremoto, la voce parla di almeno diecimila morti, la diga delle Tre Gole ha reo, i villaggi e le cià so’acqua tremavano. Ieri sera rivisto scene della giovinezza senza giovinezza di Coppola. Il cinese appreso con memoria onirica automatica, la folgorazione quale unico segno bruciante e annullante del presente, solo modo per intravedere nel passato il ripetersi e accumularsi del futuro che fu. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 15 maggio 2008]
Cinemalinconie
Torna una notizia già sentita in Sport, sport, sport di Klimov, film scanzonato geniale serissimo del 1970, striato di allenatori anziani e custodi di stadi e di palestre, di atlete bellissime e di ginnastiche quotidiane e della traieoria amara del grande Valerij Brumel’. Alcuni scienziati constatarono che la deprecata aitudine allo sport “sedentario” aivava nello speatore sportivo – in forma più blanda – gli stessi muscoli degli atleti soo sforzo osservati dalla tribuna o dalla poltrona TV. Non so quanto sia più intensa la riscoperta scientifica di oggi, che affiora nel giorno in cui la morte di Paul Newman/polniuman, emblematico “uomonuovo” filmico, nuovo della novità estenuata del cinema, umano di un’umanità nonumana, spalma i suoi film e la sua immagine su tui i teleschermi. Sembra meno appassionante del gemello marlonbrando sempre in loa con l’eccezionalità di se stesso in un rilancio continuo di luci e ombre e alterazioni muscolari e sussulti facciali e mutazioni psichiche. Newman è meno “aore”, meno “grande”, meno grande aore. Ma è il solo – tra gli innumerevoli straordinari nongrandiaori perfei del cinema hollywoodiano e non solo – a giocare, appoggiato alla bellezza istantanea vuota fragile tenera dei lineamenti e dello sguardo azzurro, sull’impersonalità misteriosa di essa, istituendo un intervallo assorto, una distanza sospesa tra sé e la propria recitazione eventuale. Un aeggiamento più abissalmente scisso e moderno dell’evidente esibizione di alterità nel dibaersi brandito dall’immensa monumentalità di Brando. Ecco, guardando il sorriso assorto bello distante (anche nelle vesti dei personaggi più aggrovigliati e torbidamente analitici) di polniuman intento a guardarsi lasciarsi guardare vien da
chiedersi quale istanza quale gesto quale azione stiamo automaticamente e inconsapevolmente imitando e anzi precisamente ripetendo, anche noi appena un po’ depotenziati o perfino esaltanti uno stesso gioco muscolare un fissar gli occhi un riscuotersi improvviso di spalle o fronte o zigomi. Non sapremo mai bene (anche perché ne deriverebbe subito – probabilmente – la conoscenza del bene e del male) cosa abbia ingenerato e stia ingenerando la colossale riverberazione cinematografica e televisiva del genere umano, quale mutazione sia avvenuta nell’infrangersi continuo e continuamente riformarsi di un’immagine narcisistica impersonalmente onnidiffusa, da quale desiderio per via tecnica doppiamente non nostro siamo folgorati o iperbolicamente resi incapaci di accorgerci. È noto tra l’altro che la gigantesca “fase dello specchio” così messa in ao è essa stessa non nostra, strabica e asimmetrica: tui potremmo o dovremmo davanti all’immagine filmica reagire con lo sconcerto del grouchomarx ducksoup di leomccarey cui lo specchio rimanda appunto la forma filmica del riflesso, il riflesso visto da un “altro” tecnico, che è lì e lontanissimo. La malinconia estrema e particolare del cinema risiede proprio nel suo non potersi e non poterci esprimere se non in quanto non ci appartiene. Nel farci balenare – più ancora che la proiezione schermica in un visibile visto – l’identificazione con un occhio supplementare volante flessibile onnipotente, con l’istanza che vede il film e riconosce newman nell’ao in cui si forma svolgendosi, quasi pensando di assistere “live” al suo prodursi e anzi di produrlo. Per risentire immediatamente che si traa invece di una spoglia, di una maschera dell’aver/esser già visto, che a sua volta l’aore morto (abbiamo visto) incarna d(all)’altra parte magnificamente ma quale pallido resto sperale, ben altra e ben più inquietante essendo la speralità mascherata in questo gioco (il passaggio lacaniano da un Altro all’altro? O, più brutalmente, l’obbligo di desiderare il desiderio di un altro, di desiderarne l’imitazione nostra quale eco del suo stesso imitarsi?).
Nonostante le star grandi e piccole ci cadano in testa per raccontarci la polvere che siamo, stringe il cuore vederne l’uso patetico e ideologico nei festival. Esagero a insistere sul ridisegnarsi ossessivo, nel procedimento cinematografico di base, della traieoria enigmatica amletica dell’apparire dello spero al tumulto rumoroso del “mortal coil” al “the rest is silence”. Ma il cinema è esagerazione flebile continua dello sporgersi del mondo sul mondo e del nostro ri-evadere ininterroo in esso, riemergendo sempre – dopo lungo scavare – dallo stesso buco dalla stessa parte del muro/immagine. Fa un po’ pena allora che la conferenza stampa il giorno dopo la fine della MostraDiVenezia non affronti la questione di quel poco di audacia di “regia” e di autonomia politica che la renderebbe qualcosa di diverso dalla somma aritmetica dei film in mostra. Lamenti su film e nomi non pronti, con l’ossessione della concorrenza di Toronto, senza l’orgoglio di rivendicare il Leone d’oro (della pur assurda sezione “Orizzonti”) al film di Lav Diaz. Ma già meere in concorso il film bellissimo di Naderi, e presentare Bressane (e German e de Oliveira; con poi Kitano estremo meraviglioso a spingere il cinema alla velocità della lentezza più vertiginosa e alla follia artistica di voler disegnare/riprendere ora, nell’istante spaziale del desiderio di farlo, perché non è vero che il mondo “resta lì”) basta a dar senso al festival e a far prezioso il tempo perso. Melancholia. Infine Lav Diaz dichiara con pudore spudoratamente umile e sfrenato quel che il suo cinema incessantemente risente, sempre più nudamente e scheletricamente (il legame tra il nudo e lo scheletro, l’oltrepassarsi del desiderio dell’uno nell’altro del desiderio, è la forma evidente del film di Bressane). L’esser maschera languida del ri-sentire stesso. E quanto sia spietato il mascherarsi nella malleabilità dura e ambigua dell’immagine, nel suo essere speranza e possibilità di cambiamento e di “rivoluzione”. In meno di oo ore il film riesce a scorciare un immenso poliico della malinconia artistica politica filosofica
– infine solo filmica – del cinema, del ri-essere inesistente del mondo. Deliquio calmo che deliquefa il cinema stesso portandoci – in bassissima definizione minidv – alla soglia mai così luminosamente intravista dell’oscurità “divina” del vedere, del sentirsi sparire con divina ironia. (Il bambino adelchi mi stupisce di nuovo, in una sala gremita (necessaria e incredibile quanto la celebrazione melancholica vista per intero da non più di venti persone a venezia) dove cominciamo a vedere la Mummia ultima (“bella”) direa da Rob Cohen. Se avrà paura, usciremo subito. Dopo tre minuti chiede di andare. Mi volto, ha le mani sulle orecchie mentre continua a guardare. Non lo infastidiscono le frecce letali scoccate dagli arcieri di pietra ma il loro rumore digitale, abissale lontananza troppo presente. Fuori ricorda il bianconero classico di Whale visto ieri: l’uomo invisibile non faceva paura, perché anche quando cadeva nel burrone il treno e tui i passeggeri morivano non si sentiva il rumore. Un giorno mi dirà cosa sente e pensa quando le orme dell’uomo invisibile appaiono sulla neve. O forse me lo sta già dicendo, e io avrò paura di non veder nulla passando davanti al prossimo specchio.) [rubrica De(ad)jà vu/Sovrimpressioni, “Rolling Stone”, novembre [?] 2008]
Acuta vaghezza
Malinconico l’annuncio secco che la sonda Pioneer non trasmee più, dalla superficie di Marte dove si era posata sei mesi fa (aveva confermato tracce d’acqua sul pianeta). Malinconico saltare solo tre gradini per volta della scala che dieci anni fa percorrevi con balzi di see od oo gradini da un pianeroolo all’altro. Malinconico apprendere che la (pare) straordinaria bravura di Obama al poker è stata tenuta segreta fino a dopo il voto delle presidenziali, ritenendo (lui e i suoi consiglieri) che la cosa potesse nuocergli turbando una parte del suo eleorato. Malinconico assistere al rispeo tenero degli studenti manifestanti romani nei confronti del mito cinematografico del tappeto rosso e del divismo della “fiera” del cinema: un breve sit-in e poi liberato il campo. Malinconico renderti conto dopo parecchi secondi o minuti che i titoli e le notizie curiose sui file e sui bivacchi si riferiscono al disagio per le “file” in aeroporto a causa degli scioperi selvaggi. Tuo concorre, senza pena particolare né grandi eventi, alla malinconia di sapersi lievemente ma decisamente sfalsati sempre, e di sentirsi o riconoscersi non solo destinatari precisi o casuali di invii trasmissioni messaggi mancati, ma addiriura di contribuire a tale mancare quali relais o piccole stazioni di cambio o di posta, fallaci danneggiate logore obsolete. L’orgoglio stesso di non sentirti italiano né europeo, e neanche forse il pacificato e avanzato “ciadino del mondo” che vorresti o potresti essere, tende a sospeare una propria radicale inadeguatezza al mondo, una soile delusione e un leggero senso di irresponsabilità, non scelte ma subite, e rivendicate come non appartenenza solo per malafede o cecità ideologica di chi non accea di spossessarsi di nulla, e aspea inane nel suo far quasi nulla un bip da Marte.
ella che chiamiamo “coscienza” ti pare peraltro a trai una negazione incosciente dello stato di incoscienza, scissione pura tra io e un non-io sognato o che ci sogna, in cui il massimo della definizione è la percezione acutissima di un’ousità assoluta, la visione nitidissima di una vaghezza perfea. E il pensare. Apologia del ritardo, trionfo dell’eco, a sua volta sempre più mimato dalle reti neuronali, e anzi forse sempre più da salvare o proteggere proprio nel ritardo, nello scarto, nel suo deperimento alzheimeristico resistente all’immediatezza divina vagheggiata di un’auazione/traduzione sempre più istantanea della volontà (il segno più evidente ne è per ora il plasmarsi digitale senza sforzo delle forme, per quanto poi legato al vero punto cieco della macchina umana, ovvero l’occhio). Forse in questa resistenza e allontanamento dall’immediato cui si anela possiamo intravedere il manifestarsi impossibile della materia nera oscura invisibile ormai avvertita preponderante (il 95 per cento della materia dell’universo?) da tui gli sforzi scientifici di identificare e vedere l’energia che muove il sole e le altre stelle. Alone negativo dell’idea di perdita in sé amorosa, il “danaro nero” che domina il mondo, mafia immensa che a pensarla svuota il dilemma olaborsaolavita (perché non abbiamo o non dovremmo avere (una) borsa almeno quanto non abbiamo (una) vita), è forse un’ombra troppo facilmente penosa di quell’oscurità. Meglio, sperando che il vincitore delle presidenziali americane resti pure carismatico, ma senza troppo precisare lui il sogno o il bluff, lasciando che tui provino a meere a fuoco quel che mai fu acceso, immaginare la propria assenza come le inquadrature improvvisamente anodine irricordabili qualunque dei film più eccentrici geniali autoriali estremi. In esse di colpo nessun marchio personale si libera, e cose figure linee puramente automatiche banali cosali liberano per un istante il campo dalla rappresentazione del sogno, permeendo la percezione pura del campo e della ripetizione possibile. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 13 novembre 2008]
(Col) presente ri(n)corso
“Il Dalai Lama ha dichiarato, in occasione della fallita rivolta del 1959, che il governo cinese…” Ricorre per un paio di edizioni, il lapsus, un semplice vuoto che annulla la distanza storica della ricorrenza, inghioita con professionalità fluida dalla condurice del TG. Anche in Irlanda del Nord ricorre la violenza, senza bisogno di celebrazioni cinquantennali. E il presente della Palestina, di Israele, di Gerusalemme, della striscia di Gaza è un seguito di ricorsi, l’affollarsi schiacciante di sovrimpressioni e fantasmi in pochi chilometri quadrati di mondo, in una sorta di festival concentrato del conflio assurdo. Dati fai nomi didascalie volti concei restano sospesi, fissati in una prossimità distante; in posizioni che la nostra doissima ignoranza può in ogni momento richiamare visualizzare consultare. All’impressione che la sfera informativa culturale informatica ci giri intorno a troola o ci araversi e intrichi quali nodi di rete, si alterna (basta un volo a volte, un’orbita intorno a quel che crediamo di essere e conoscere, o l’uscita quasi estatica da qualunque orbita) l’osservazione improvvisa e aonita del presente in forma di costellazione lontanissima e stravagante, un bassorilievo in cui ombre profondità e alto e basso si scambiano. Ricorrere a fare ricorso in giudizio (alla perrymason). Il ricorrere intransitivo del mondo, dei segni, delle immagini, e il nostro esserne ri-corsi. Infine correre di nuovo. Fino ad araversare e a essere il presente fuggendolo. Presente asfissiato dai suoi stessi ritorni, museo archeologico di maschere infinite dell’istante. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 12 marzo 2009]
Latitanza militante
Lo sento dire due volte in cinque minuti, alla radio. “Crisi latitante.” Un ciadino manifesta in direa sconcerto e riprovazione per il basso impero italico tra veline e (first) lady e tra terremoti e immortalità tra altavelocità e barconi. Scompare subito l’errore; sia lapsus o ignoranza, folgorante è la torsione di senso che in esso si genera. Insieme stridente e veniale, la crisi che latitava o latita o che ancora latiterà è la mutazione estrema della crisi “latente”. Ma abbandonandoci al flusso delle correnti nel mare profondo e agitato in cui l’etimologia si spalanca di continuo in forma di mitologia ci accorgiamo che si traa di una sfumatura lieve. Un falso movimento muscolare minimo del cervelleo, un accento spostato; o, più semplicemente e precisamente, una deriva lieve del soggeo. “Latitare”, tenersi nascosto, è infai latinamente forma intensiva di “latere”, essere nascosto. La latitanza allude spesso a un’intenzionalità personale (quella del “latitante”), la latenza è più impersonale e più impersonalmente nascosta e latente. Entrambe le diramazioni vengono dalla stessa miniera mitica; il greco “lethe” (oblio) e poi “lethein” o “lathein”, essere nascosto e obliare insieme, insomma dal fiume soerraneo infernale le cui acque permeevano alle anime di dimenticare la vita passata, sì da esser pronti a nuove incarnazioni e a altri ritorni (ma anche al “letargo”). Anche “lato” si immischia, per via sanscrita, sia nel senso dei diversi lati sia in quello di larghezza e estensione piana vasta o perfino vuota. alcosa di ciò resta in mano ai latori. A noi nulla: in senso lato. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 14 maggio 2009]
In stanza con svista
Un presidente del consiglio istintivamente e industrialmente esperto di media (al punto di considerare se stesso il medium più affidabile), ospite tempo fa del talk show di una TV maghrebina, si lancia in un “consiglio per gli acquisti” spericolato sincero non antipatico. Lo spot è per il nuovo canale TV dell’amico Tarak Ben Ammar, quello che ha coprodoo anche il semi-tunisino Baarìa. Si parla in francese, la condurice è carina e si merita le galanterie consuete del politico imprenditore, spiritoso e in forma ma più sorvegliato e meno straripante del solito. Solo verso la fine, un lapsus, o una distrazione dovuta all’aenzione nel parlare – peraltro con correezza scolastica – la lingua non sua. Fino a questo momento – dice più o meno – ho evitato di farlo, ma adesso je vous regarde dans la chambre e vi dico: guardate questa rete, è la numero uno. Il primo lapsus è televisivo, perché mentre alza il pollice nel segno entusiastico della supremazia non si accorge che sta guardando la telecamera sbagliata, quella che la regia ancora non manda in onda. Il secondo è una curiosa ritraduzione del termine “caméra”, in italiano “(tele)camera” o “macchina da presa”, da cui “sguardo in macchina”. Guardare dans la chambre è quindi un bizzarro “guardare nella (vostra?) stanza”: l’acme intimo e seduivo lascia intravedere un’intrusione leggera nel privato di tui, se non da grandefratello da fratellone simpatico. La TV, si era affannato a spiegare il venditore, fa “famiglia” (contro tui gli altri fondamentalismi). Di più: dà un’occhiata fantascientifica benevola al vano interno insopprimibile del vivere. Un po’ ci guarda sempre, anche se non la guardiamo, anche se sembra guardare altrove. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 29 oobre 2009]
Il fantasma della libertà
Tocca a tui, prima o poi, di trovarsi di fronte a una “liberatoria”. Non è un’esperienza troppo liberante, ma l’ultimo o il primo gradino legale della società dello speacolo, corollario (parola levitante aerea floreale, si pensa a un erbario, o a una cosa che rotolando perde una ruota e crolla) dei quindici secondi o minuti di fama mediatica profetizzati da andywarhol (e sappiamo che – nell’orizzonte di discorso sempre più quotidiano dell’immortalità so diffusa – i quindicianni non sono più lunghi né più intensi dei quindicisecondi). La libertà di non essere nello speacolo, o di poter resistere a vari stadi di esso, o infine di agitare il fantasma della ritorsione e(c)onomica, si muta in “liberatoria”, rinuncia istantanea a qualunque rivalsa futura sull’uso della propria immagine. Le “produzioni” grandi e (ancor più) le piccine si tutelano dai soprassalti d’orgoglio, dalle furfanterie ricaatorie, dalle oscillazioni della vanità, da resipiscenze e pentimenti. Si ricorda ancora il film intelligente toccante furbo e tanto tenero (su una scuola di campagna nella Francia profonda) o anche un po’ crudele e naturalmente nobilmente “documentario” che pochi anni fa, dato il risultato commerciale grandioso e insperato, dee luogo a varie cause intentate dalle famiglie dei ragazzini non a difesa della privacy ma per legiimo desiderio di partecipare agli utili. Con grida d’allarme di regista e produori contro un precedente che avrebbe rischiato di minare la possibilità stessa del cinema “documentario”. Come se il pao col (dia)volo o col di(a)vo(lo) della nostra fiction di vita e di desiderio non volasse ben oltre le povere recinzioni e distinzioni di date di nascita o di morte e di codici e generi dello speacolo.
[rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 10 dicembre 2009]
In diretta con nulla
Lazy Sunday Aernoon-a. Godo nel far sentire a stellea la canzone geniale esile acidula degli Small Faces, 1968. Oggi si pensa alle faccine sms. Oggi non è oggi. L’occhio che ho sulla coda avverte un urlo muto in TV. L’apnea di un corridore in testa alla volata del tour. Ripresa di fianco bellissima: il ciclista non riesce a uscire dal quadro in cui è streo. La bocca si apre, il respiro rivomita l’aria che lo invade. Il corpo non spinge più, si rilassa, ha vinto, gli sfila accanto in teleobieivo il profilo del secondo. Apro l’audio, Petacchi sull’arcobaleno di un pomeriggio pigro domenicale che segue un sundaymorning coloureed. La voce affannata felice arriva in ritardo neo rispeo all’immagine. Ci meono un po’ a sincronizzare il satellite, chi non è abituato all’effeo penserà di aver fumato troppo. Anche i mondiali di calcio per me sono (stati) una connessione alterata. Non dico del terzo gol tedesco all’argentina, generato dallo slalom incredibile per naturalezza di Schweinsteiger, entrato per caso in un intervallo estatico interno all’immagine/campo e all’area stessa, uno due tre argentini colti pietrificati nello spazio di un’altra partita. Il suono mi porta fuorisincrono. Dalle finestre accaldate del palazzo di fronte arrivano con anticipo costante boati imprecazioni rimpianti. Diversi secondi, che trasformano la percezione in memoria dell’evento appena ascoltato. Ecco l’italia in gol, anzi no, annullato per fuorigioco sentenzia subito l’affievolirsi dell’entusiasmo dirimpeaio, ancor prima che si veda la scena. E so già l’esito di ogni rigore. Il culmine è paraguay/spagna su un canale sudamericano pirata, continuamente interroo e costreo a fuggire su altre onde. Lo scarto è tale che non pensi più a sky (con o senza lucy o diamanti) digitale rai fastweb TV
computer eccetera. Assisti a una partita mai giocata o non ancora. Il gioco è quello. [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 8 luglio 2010]
Perché la notte?
È il 1989. Mancano tre ore alla messa in onda del primo fuori orario cose(mai)viste, una scheggia dalla durata variabile inventata (lavoro al palinsesto di Raitre, e da qualche mese opera la fabbrica del duomo di Blob) per coprire buchi o dilatazioni dalla Samarcanda di Santoro e Mantovani. Indeciso sulla sigla, mi gingillo tra qualche disco e cinque o sei scene di film, mentre il montatore finisce di assemblare il John Ford scabro e feroce e Bale of Midway con una partita di pallavolo accanitissima tra Iran e Iraq. Fuller, Sirk, (Secondo amore, il televisore che si spegne sulle sue mirabilie annunciate), Rohmer, Rossellini, Mankiewicz iolaconoscevobene, Ophüls, Renoir. E John Fahey un istante di chitarra di Blind Joe Death, vocalità sublimi da Orlando di Lasso o da Josquin Des Prés, l’avvio di I Can’t Get No Satisfaction o di Gimme Some Loving, Summer in the City o What a Day for a Daydream dei Lovin’ Spoonful, Peter Green e End of the Game. Manca un’ora e registro la presentazione (F.O. era ignoto e inaeso, una quarantina di minuti non previsti nella programmazione ufficiale di quel 2 novembre 1989). Aacco con gli auguri a mia figlia Aura nata un anno prima, parlo di aura e della riproducibilità tecnica paradossale della stessa. Poi – lo so, lo sapevo – spiego farfugliando perché la sigla è banalmente quella (l’amore tra corpi immagine immaginario acqua aria asfissia visione realtà nella scena subacquea dell’Atalante di Vigo, e un pezzo di Because the Night). Ho deciso mentre registravo, e dico che mi pare una sigla troppo bella e precisa, suono e immagine si aaccano perfeamente ma è sempre misteriosamente così, lo proveremo cambiando ogni seimana. La seimana dopo ricordo al montatore e agli amici lì con me la promessa di cambiamento. Mi guardano e mi guardo io stesso come un
mao. Fuck the theory. Sono ancora lì, Vigo e Pai, amati e rubati. Ogni volta che ho il coraggio di sentirla/vederla davvero (nel fraempo, da quel novembre 1989, ho incontrato troppe volte Pai Smith, decine di volte tra concerti e leure, l’ho sentita introdurre BtN “una piccola canzone italiana”, ho presentato un suo libro; sempre tra imbarazzo e freddezza, mai parlando apertamente di quella sigla fantasma tra di noi, cosa soraa in silenzio e con un velo timido di colpa.) Anche sapendo che la bella canzone (nulla di più) di Springsteen era scivolata via da sola (o con Jimmy Iovine – va bene! – produore in quel periodo anche della Smith) dalle sue prove passando alla sala adiacente dello studio in cui si registrava Easter, dove con poche frasi e singole parole cambiate diventò la più bella (o forse l’unica) canzone dall’interno assente e deserto e pieno di vento del corpo amoroso che nell’anticipare il desiderio già rimpiange il suo esser stato e il suo filtrare filtrato ovunque. E questo tuo e solo nella voce di Pai Smith, che mi ammutolisce a ogni incontro: anche l’ultima volta che l’ho vista da vicino, a mezzanoe di una noe bianca, dai posti del coro di Saint-Germain-des-Prés (dove mi fece entrare David Lynch – “Hi, Enrico!” – vedendomi impacciato e senza passi con Adelchi sulle spalle dietro la transenna). La sigla mi sfugge indietro a sua volta anguilla nell’acqua. Mi trovo a ripetere il circolo, in un surplace di sliamento lieve abissale avantindietro. Il mio ’78 innamoratissimo disperato livedead, il babbo che torna a casa tardi, si appoggia a uno stipite, guarda la televisione precario in piedi in procinto di andar di là perché “la televisione è una vaccata”, il mio amore di lacrime si è appena asciugato, scrivo e anch’io guardo, lui è stupefao (ho lasciato di sfondo muto un programma di informazione), mormora “roba da mai, ma che c’entra⁈”. Ecco, è stupito perché pensa che la musica sia emessa dalla TV, una colonna sonora a oundere tuo. È Changing of the Guards (uno dei pezzi più straordinari e laceranti di Dylan, ballata esaltante con coriste suadenti e stranianti). Tolgo il
disco (Street Legal). Il babbo resta deluso e vergognoso del suo errore. Mi pare stanco. Buonanoe, va in camera sua (mi fa trasalire e rabbrividire di malinconia nell’istante in cui scrivo capire rivedendolo che lì ha uno o due anni meno della mia età adesso – è questo il “rock”, fermo o troppo rolling?). Meo Easter, direamente sul solco di Because the Night (trent’anni dopo, nel 2007 in cui esce anche il Dylanesque di Bryan Ferry, Pai per il suo Twelve di cover sceglie di Dylan Changing of the Guards?). Mi abbandono anarchico patetico unico disperato, andrà avanti fino all’alba nel rumore fioco della puntina che non riesce a finire il suo girare nella noe che non appartiene a nessuno. Al risveglio, se c’è risveglio, la troverò ancora così. [“Rolling Stone”, 83, seembre 2010]
Rifarsi gli occhi
(Un morso a un pezzo di pane. Un dente si spacca si stacca, la bocca sussulta si divarica, i denti inghioiti la lacerano, il volto si scuote vibra la pelle cede e si sfila, gli occhi scompaiono nelle orbite, non si vede più nulla. Eravamo allo specchio. Si dia il via alla fine del mondo.) Anche “rifarsi gli occhi” è una sacca di resistenza. È un intervento di chirurgia estetica, il più radicale e per questo a volte invisibile. Ma vuol dire anche: vedere qualcosa di bello, che vivifica o dissolve e riinaugura lo schermo dei nostri occhi meccanicamente wide/shut sul già (m)mai visto. Andiamo a rifarci gli occhi. A vedere bei corpi danzare, una partita del brasile o dei lakers, un gesto atletico, un film di johnford. A lavarci non gli occhi ma la vista stessa. Spesso sono altri occhi a lavare i nostri, a riempirli di sé per un istante o per quella che crediamo sarà una vita. Operazione delicatissima, chirurgia azzardata, trapianto a rischio di rigeo. E a volte qualcuno o qualcosa esagera, una lacrima prolifera anomala, da uno sguardo all’altro si apre e si allarga una valle di lacrime che include i nostri occhi, finestrini od occhiali sgranati su distanze improvvise. Il mondo può mostrarci o imporci un rifarsi dello sguardo su scala planetaria. Tuo quello che ci è arrivato in direa dal terremoto e maremoto giapponese è parso già/mai visto, nello sforzo inverso automatico di quando ci stropicciamo gli occhi al cinema o in TV dicendoci che è fiction, trucco digitale, tsunami intarsiato in un mosaico eleronico, e l’onda ci oltrepasserà senza far danno. (Ore 11.11. In questo istante, qualcuno salito sulla torre di macerie del mercato fuma una sigarea ultima in aesa di incendiare il roccheo di canapa e immagini, miccia di un’esplosione immane per cui il mondo dilagherà in noi e noi in esso.) [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 24 marzo 2011]
udienza e assenza
Non ho mai visto una puntata intera del Grande Fratello (sarà perché l’ho spesso ascoltato da un’altra stanza, con soofondo di voci amate e consuete, curiose e leggere; e allora avrei voluto vederlo/saperlo tuo, 24 ore su 24, in streaming inane idiota sprecato). La sera di lunedì scorso non ho resistito alla tentazione di una performance facile e improvvisata. Andare a vedere Habemus Papam incorniciato dalla finale del grandefratello, scoperta poco prima in onda nella sempremaidirea dell’universo tele digitale, uscendo dal canale cartoon di mio figlio. Il GF se ne sta solo, gli altri cambiano gioco e stanza, io scrivo sbirciando lo schermo in parallasse imperscrutabile. Alle 22.30 circa, dopo due minuti di macchina, mi siedo in sala, le luci si abbassano – pubblicità! due o tre spot e di seguito comincia il film, ahimè senza riaccensione e rispegnimento delle luci. O forse sbaglio, ma così ricordo, mentre non ho assolutamente in questo momento memoria precisa dell’inizio del film, diciamo della prima inquadratura (che comunque non svelo, per non togliere la suspense). E lo stesso, ora che scrivo, mi accade con l’ultima inquadratura, mi pare il balcone papale, ma non me ne resta immagine nitida, solo la situazione e il senso). Vedendolo, invece, tuo è preciso, magnificamente orchestrato, per più di un’ora lo seguo senza un accenno di appassionato e fiducioso sonnosogno d’abbandono. Il film si dichiara importante e necessario, scanala danzando tra Ferreri (L’udienza, capolavoro scabro – già con Piccoli – di cui Habemus Papam è l’opposto) olmi (lo sdoppiamento geniale tra papa e osservatore-guida) fellini raffaellosanzio ciprìmaresco buñueldeoliveira. Poi l’apologo si stempera nel nannimorei sempre più jekyll e hyde di se stesso, sempre più
vicino/lontano (d)al momento più alto e straordinario del suo cinema che fallisce, il finale di Sogni d’oro. Il Gran Rifiuto che si racconta non è di un papa, ma del papà del buon sentire di sinistra, onnipotente dell’onnipotenza fragile e smisurata del cinema, liquido della liquidità televisiva, capace di immaginare (sé in) qualunque veste e situazione. Perfeo seguito del Caimano. La tentazione di scendere in campo, araversando il girotondo o il colonnato, sventata e scampata. Meglio continuare a girare in tondo, a sdoppiarsi a proprio piacimento, volente o nolente lasciandoci la possibilità di identificare nel narcisismo (estremo e patologico e unico grande trao di ossessione filmica in Morei) la questione politica (e la più tristemente dimenticata) del presente. (Segue al prossimo detour, tra la bella malavoglia di pasqualescimeca e il mondo come volontà e rappresentazione, con la chiusura/apertura del set dei Grandi fratelli o rifiuti). [rubrica Detour (17), “Film TV”, 17, 1° maggio 2011)
Un metodo pericoloso
Non sono mai leggere le leggerezze soavi pronunciate da bernardo bertolucci. Palma alla carriera a Cannes nell’anno dei suoi seantanni, presentava lo smalto stupendo del Conformista restaurato, sorridendo con l’occhio in più dato dal raddoppio di soggeiva della sedia a rotelle: bisognerebbe restaurare i cineasti. Certo mia mamma sarebbe d’accordo anche per il restauro del cineasta speatore; eccola, segue un film o un match di tennis non sai mai quanto registrato o “live”, ma lei è sempre in direa, le mani gli occhi il naso a toccare lo schermo TV, protesa sul limite vetroso del campo, sostituendo i raccaapalle, sovrapponendo il suo volume alto assordato al suono dell’incontro, o digradando verso il sonno, aentissima pur sapendo che a metà film o a mezz’ora dalla fine chiederà di andare a dormire (ah! Ecco cos’era, l’appunto sibillino mio su una pagina di schegge e note “detour”: “cinema tenni spazio”. Cinema tennis spazio. La “s” caduta lascia in piedi un lembo intensificato della mia passione per il gioco spaziale del cinema, indifferente al “tempo” di cui ci regala (non è vero!) blocchi e boiglioni. Infine è la stessa. La palla che “tenni” in campo è l’occhio di mia mamma che la regìa proiea in videogioco estremo, seguendo e mutando i colpi in un campo virtuale dispiegato in un rimodellarsi plastico continuo). Le mie telefonate da Venezia, in questi giorni, la lasceranno insoddisfaa, sento che vorrebbe sapere insieme come sto io e come sta il cinema e com’era quel film; e nel “come” è ormai compreso (oltre alla simpatia smaccata per l’eleganza fatale di federer o all’odio insensato per il sublime volontarismo sforzato di nadal all’inseguimento dei suoi colpi, e “clooney l’hai visto?”, no, avevo un altro film alla stessa ora; “no, dicevo lui”; o viceversa) il dispiegarsi improvviso di un altro campo, l’intravvedersi di un gioco formale e mentale che segue e anticipa il desiderio e infine
allude a ombre e ventate di un altro gioco non nostro di colpo intravisto presente). I cineasti sono un po’ “mamme”? Grandi o piccoli, sbadati o coscienti, sviluppano le loro ossessioni che mimano prolungano o impauriti ostruiscono e rallentano l’ossessione primaria del cinema. La ripetizione in cui solo consiste l’essere cui ci è dato partecipare. L’essere calati e calarci tui in un “north by northwest” dove “io” è il detour impeccabile e fatale di un altro già passato e un po’ rimasto LÌ, e i più grandi ci fanno scoprire le tracce, i chiodi e le corde soilissime di chi è già salito dentro la stessa ombra. A Venezia, subito, due film opposti mostrano il limite della “veduta”, del “frame” che ancora arresta e coagula il nostro sentirci sognati. Cut di Naderi esibisce il continuo scolpirsi e scolpirci del cinema, il “tagliarsi” e tagliarci addosso, e il godimento glorioso terribile di obliarci e martoriarci con la ripetizione ineffabile tenera di una memoria non nostra e che solo nel patirla e nel patirne avviciniamo. Meravigliosa e inaesa è la memoria minimale storica benjaminiana di una generazione che scompare o resiste fantasma al macinare del regime sovietico, affidata da gianikian&riccilucchi a pochi minuti di fragilità struggente disegnata, dis-animazione e voce che parlano a noi. [rubrica Detour (36), “Film TV”, 36, 11 seembre 2011]
In persona
Nome di complessità semplice, quello che percorre e precorre da angelo o dèmone i sogni di trasparenza (in mancanza trasparente di “verità”) dell’occidente globale e terminatissimo che è il mondo. ASSANGE. Ass-ange. Angeloculo (tra francese e inglese). Un angelo appesantito dal condensarsi del chiacchiericcio universale, di cui si costringe o elegge a essere il conduore inevitabilmente e volutamente “perdente” (vedi le perdite idrauliche, “leaks”), nel segreto la cui unica forma accessibile è il reticolo del gossip, il reticolato che difende assicura promulga le regole del cul(t)o. L’australiano misterioso, con origini in parte orientali (ahsang), hacker magico dell’oz informatico, nomade assoluto fin da bambino (avrebbe cambiato 37 abitazioni nei primi vent’anni di vita), autodidaa scolastico (a sedici anni indossò quale pseudonimo l’ossimoro oraziano magnifico “splendide mendax”, splendidamente bugiardo), un quentintarantino dell’hackeraggio. Il “paradosso dell’australiano” (e penso all’Australiano/e Shout di skolimovski, film geniale il cui personaggio mitico può uccidere con un urlo), la trasparenza che fa vedere ma non si vede, non si dà da vedere, abbaglia ma può in sé solo trasparire. Il meccanismo implacabilmente virale e contaminante del Social Network, del FaceBook (anche “fesses” [in francese “natiche”] book?) il cui giovanissimo fondatore è uomo dell’an(n)o, autore di qualità tecnoanonime che induce intrecci vorticosi di strepiti di commedia e risa di tragedia, generalizza e rivela (vela due volte) e invera l’idea antica di “persona”. La maschera esasperata del teatro classico greco e romano, che permee il vedersi da lontano delle faezze stereotipe dei sentimenti e convoglia a
megafono la voce dell’aore (per-sonare). “Persona” è esagerazione, artificio, intensificazione, scena). [rubrica (live in)vàno, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 13 novembre 2011]
Vetri inf(r)anti
IL TEMPO È UN’INVENZIONE DEGLI UOMINI INCAPACI DI AMARE.
Da troppo (poco) “tempo” (più o meno di tre decenni?) mi porto dietro dentro la frase sublime che apre il “disvelamento” di jacques camae. Lo so, apre anche una vertigine comica, se si pensa o penso a una persona che aspea il tramonto dell’alba nell’alba perennemente tramontante da cui (tra)scrivo inezie accumulate. A un certo punto si mise (quindi mi sono messo) dalla parte dello spazio, godendo delle mutazioni infinite in cui si imbricano tagli pieghe sguardi, scriure alluse e eluse di cui il cinema enuncia e sigilla il mistero. Ma per esempio: la fine del mondo, la catastrofe costantemente annunciata rinviata prevista eppure così evidentemente ricordata, che sia la trapunta del cielo a abbassarsi carezzando soffocando spaccando la terra o la pallina planetaria a surriscaldarsi e a esplodere… Un colpo al biliardo non abolirà il colpo di dadi che mai… Mio figlio (beato lui ha appena visto Il ladro di Bagdad powellpressburgeriano, ma la linea si è interroa mentre cominciava a dirmi), che ha oo anni ma mi sembra aver sempre la stessa età, lo ha deo più chiaro alla tavola di vigilia: più si avvicina più mi pare allontanarsi, il Natale). Il festival (berlino), che indipendentemente dalle povere modeste buone intenzioni non può che vivere di risvegli ipnotici dall’ipnosi di fondo, non sembra granché scosso dalle televiste online (e/o) in camera in cui colpiscono non tanto le strisce bianche e i boi della polvere di asteroide inaesa sugli urali, quanto lo sgomento negli occhi di chi si fa medicare per banalissime ferite da vetri saltati per aria (chi ha sbauto la porta⁈). Fatichi a trovare qualcuno che abbia identificato scorto intravisto in TV il salto mortale rovesciato con cui un campione di scialpinismo ha eluso domato surfato
la valanga da lui stesso provocata. Né fa sanguinare la conversione a U con cui il principale discepolo/ispiratore di papa wojtyla (che resta (brandendo oscillante sulla folla l’ostia parkinsoniana) il testimonial massimo della (sua (im)propria finedelmondo), il tedesco ratzinger apre e richiude insieme, nel gesto delle dimissioni, un diico faale. E ti immagini immaginato paranoico perché vedi all’opera anche nelle partite più tese aguzze inscommeibili tirate un artificio da campioni o da marpioni, un gioco senza contrasto, una delle tante filigrane che disertano il set/terreno. La mossa di cinema più avanzata (estrema al punto da incalzare le proprie stesse retrovie; su ciò, quanto sembra profetico il film ultimo di raulruiz/valeriasarmiento, Linhas de Wellington) è ormai da anni, praticata o annunciata e comunque già praticata nell’annuncio (da tappeto rosso “il suo prossimo film? Nessuno, credo”) o lasciata presentire (i meno latenti: tarr soderbergh tarantino). Mi appresto a verificare con passione lo stato del gomitolo poe coppola debord corman hawks – quello che potremmo chiamare El Dorado. Una telefonata cinica e bara mi annuncia un’altra fine/partenza: è morto il grande aleksejgerman; il mio amico German autore di Il mio amico Ivan Lapshin e del KHRUSTALYOV, LA MIA MACCHINA. Da più di dieci anni alle prese con un titolo magnifico della fantascienza strugatskijana: È DIFFICILE ESSERE UN DIO. [rubrica Detour (112), “Film TV”, 9, 3 marzo 2013]
rinviat(t)ori del futuro
CapitanAmerica si lancia continuo e ossessivo col suo superscudo nel futuro di sé, anche ludicamente voglioso di funzionare da esercito individuale, uscito da un’ibernazione che sembra aenere al mondo stesso, teca sbiadita da cui stanno sgelandosi le forme politiche dell’ultimo secolo del millennio (ma se si vuol ricuperare qualcosa che valga, gli vien deo, sarà sufficiente che ascolti tuo marvin gaye). Non è meno efficace dell’uomoragno nel giocarsi in protesi felice della coscienza infelice del mondo, entrambi indispensabili (non per qualcosa ma per “nulla”, non soggei di punta delle “forze dell’ordine”, ma forma/forza di una società transformer che da sola inanemente significa e oltrepassa l’ordine della forza) a costituire e custodire una parabola ludica utopicamente involantesi. Frui più o meno direi di un servaggio tecnologico, esperimenti più o meno riusciti o non riusciti di mutazioni tecnobiologiche, hanno nel loro dna il godimento dello spazio, del quale assumono e dispiegano lo sbrigliamento/imbrigliamento digitale (fondamentale in questo senso la scena in cui il protagonista di Avatar si libera di cavi e sensori entusiasmandosi nella prima corsa araverso il nuovo set corporeo biodigitale). Non può non evocarsi qui quella che mi pare non una scena ma La scena che più condensa orrore e godimento del ri-conoscersi e ri-sentirsi umani e non umani nella situazione del presente. Ho smesso da anni di cercarla, e la notizia stessa si è annebbiata, anche se sempre più, dimenticandone o rinviandone l’eventuale visione (tra il 1995 e il 2005 sono stato certo di averla intravista in (non so quale) onda), mi è parsa nitida più di ogni altra immagine. Intendo la “ripresa in soggeiva” di un grande e famoso “cineaereoperatore” che subito dopo essersi buato da un aereo in volo a chilometri
d’altezza per filmare le evoluzioni aeree di un gruppo di paracadutisti si accorse (si accorge) di non aver indossato il paracadute. Lasciato in aereo, mentre all’operatore angelo dèmone esploratore resta in mano la cinepresa. Non è per paura del mio cinismo che non ho mai portato a termine la ricerca di quelle immagini. Folgorato dall’immagine, dall’assoluta semplicità con cui essa si divora e azzera, risultandone ancora più precisa e esemplare l’assenza. Dimostrazione geometrica in cui la soggeiva del soggeo umano precipitante morente sconfessa il ritardo del futuro installato nella protesi di esso stesso e di noi stessi. Imparare a non (voler)vedere è la situazione all’opera oggi, che ci fingiamo dentro a essa o che ce ne scopriamo lontani, testimoni orbitanti, a sorveglianza delle orbite vuote e pulite di cui gli occhi furono forse insieme wide e shut ma soprauo ci restano oggi assenti fino alla trasparenza, e la visione stessa il resto secondario di aività che ci sfuggono, o di cui siamo l’ampolla, uomini-lampadina di una corrente che non avvertiamo, essendola. è il nome delle macchine di visione intensa virtuale tridimensionale, rilanciate come videogiochi dalle officine ludiche californiane, con l’occhio per l’ennesima volta e per ennesime generazioni convocato a uno smunto giocare, tra conati di vomito e occhiali (protesi nella protesi), tra eccitazione rollercoaster. Lentamente qualcosa continua a svelarsi, suda immagini che ci bagnano approssimandosi in surplace imperceibili da “un due tre stella!”. Oh, risvegliarsi, – visti e infilzati al volo – dall’ipnosi in cui procediamo ibernati. HOCULOS
[rubrica Detour (153), “Film TV”, 21, 1° giugno 2014]
Ciro Giorgini, magnifiche e militanti ossessioni
0. Ciro, che del cinema aveva sorpreso colto mimato la parte più difficile e ombrosa. Non solo l’ispessirsi continuo delle immagini sovrapposte l’una all’altra, ma la sostanziale inerzia di esse, la loro impersonalità. 1. Ciro, che nella noe di Pasqua si protende verso l’Angelo del lunedì indossando per l’ultima volta le sembianze del dèmone del cinema. 2. Ciro, che mi precede di sei mesi all’anagrafe, e che l’altro giorno si lascia sfuggire un “non mi lascerò oscurare da de Oliveira”. 3. Ciro, non meno importante di un deoliveira nell’ansia ri-autoriale di ri-trovare immagini e di rimarcarle, nel farle ricircolare e rianimare nello stesso spazio (non solo televisivo) in cui sperali appaiono. 4. Ciro, che montò con me nella primavera dell’89 il numero zero di Blob. 5. Ciro, narratore straordinario di storie di cinema stupefacenti in forma di vortici e maelstrom incrociati, in cui confluiscono nomi di giganti e tessitori anonimi dell’ipertesto televisivo. 6. Ciro, “passatore” (passeur) instancabile di nomi titoli scene, esempio di cervello post-cinefilo funzionante non da una distanza estetica fredda ma nel compromesso vitale continuo politico tra forme di vita viste quali cinema e forme di cinema viste quali vita. 7. Ciro e OW e don Chiscioe. Ovvero (diceva Godard di Welles), “tui (quasi) (sempre) gli dovremo (quasi) tuo”. Orson Welles è per lui testo preferenziale amoroso e
testimone privilegiato dello scacco del cinema e del proliferare ramificato della non finibilità dei film. Il solo rapporto di Ciro con l’opera wellesiana, mappa e labirinto condensati in uno stesso spazio, basterebbe a definire e forse a eccedere il ruolo di “riautore” che negli ultimi anni mi son trovato a veder affiorare (e a definire tale) dallo scorrere del giocolavoro di fuori orario Blob Schegge. Del resto, la sua autonomia senza modelli resta modello difficilmente reincarnabile. Nessun “contrao” Rai o d’altri ha mai potuto contenere inquadrare imbrigliare il profilo dell’aività di Ciro. Allo stesso modo, “nessuna formulazione teorica” può restare isolata e soddisfaa. Così, il conceo di “non finito” o quello di “rushes” quali situazioni limite cinematografiche e televisive, vengono accolte e trasformate in esplorazioni e trapianti audacissimi, saltando ogni ortodossia filologica e accademica. Il gioco delle versioni e delle varianti oltrepassa anarchicamente le ideologie del restauro e della copia “giusta” o “originale”. I vivi e i morti, i cineasti adorati e quelli solo odorati, i lavori di montaggio meditati per mesi a casa e quelli “lampo” realizzati nella salea, i capolavori riconosciuti e quelli sconosciuti, rimbalzano e si inseguono da una o più noi TV a un festival a una manifestazione occasionale o ad hoc. Resto stupefao dal lavoro sull’Etna di un giovane operatore Rai, lo presento al festival di Bellaria, Ciro esulta, passa seimane a Catania a visionare e a scegliere, quelle stupende sequenze di passaggio lento e implacabile dei fiumi di lava diventeranno una delle cose(mai)viste più viste in fuori orario, una mega sigla o un segno rosseggiante sovrimpresso agli operai lumière che escono dalla fabbrica o a un bianconero felliniano o a un western di anthonymann. 8. Ciro, che ho avuto la fortuna di vedere all’opera sul corpus wellesiano, da solo o con Marco Melani in una versione fuori orario e nuova di Touch of Evil, o su Arkadin (la versione a schermo “sdoppiato”, e le incredibili oo o dieci ore di rush/girati, proieate anche a Taormina), o sulle due nuove versioni del Viaggio nella terra di Don Chiscioe.
9. Ciro, di cui una volta dissi che – avessi avuto la possibilità di inventare una nuova rete – lui sarebbe stato la prima persona che avrei indispensabilmente chiamato a collaborare con me (così aveva deo in precedenza di me angeloguglielmi; evidentemente questi desideri non portano fortuna, perché la circostanza non si verificò mai; oppure fu meglio così, e ritrovarci come una rete tra dissimulazione e pirateria, o una “submarine patrol”). 10. Ciro, di cui mia figlia, poco dopo aver cominciato a collaborare all’ultimo progeo-sogno mi disse: “Ma è impressionante quante idee ha in mente, ma voi della vostra generazione, credete proprio di essere immortali⁇!” 11. Ciro Giorgini. Sì, credo che siamo immortali, nell’istante stesso in cui cominciamo a morire. (Ma questi brandelli di memoria scontano la impreparazione voluta. Niente necrologi coccodrilleschi, dopo il racconto insuperabile di Samson Raphaelson sulla correzione a due voci della stesura del necrologio di Lubitsch con Lubitsch stesso, in uno spazio magico tra due infarti. È che l’amicizia non si può raccontare così, faa com’è di film e cose che non hanno bisogno di nomi e titoli, e ancor più – di titoli e nomi che restano tranquillamente senza riferimento. Negli ultimi giorni, che sembravano ultime ore, ho visto Ciro due tre volte. Abbiamo parlato a lungo, quasi esclusivamente di film, avviluppati teneramente e tristemente nell’abbraccio impersonale della memoria di tui e depositata in cinema. Di e Other Side of the Wind di Welles, ancora una volta Non-Finito. Delle sale romane di cinema mutate in altri usi o vuote e dormienti. Di Ford, John Ford, più di una volta. THEY WERE EXPENDABLE, un capolavoro dove le motosiluranti di johnwayne si sovrimprimono a un’idea di western migrante in altro elemento. A me è parso, ripensando al passato di pochi minuti prima parlando, di vivere una cosa fordiana di bellezza senza confini e senza codici: la chiacchierata di james stewart e richard widmark inquadrati seduti sulla riva del fiume in TwoRodeTogether/CavalcaronoInsieme.).
[“il manifesto”, 7 aprile 2015]
Le due torri
La saggezza tossica di marcomelani e le good/bad vibrations di cirogiorgini, due torri capaci da sole di presidiare rassicurare incitare recintare scatenare proteggere incarnare la follia e l’autonomia scellerate del disegno che sorgeva e si inabissava tra magnifiche ossessioni e manie, pianisequenza di schegge e montaggi di immobilità culminanti, microassemblaggi di frammenti e accostamenti oltremontaggiosi di tre titoli che da soli smontano una noe e la svellono dalle certezze della storia che ancora oggi si illude di esser garantita dalle immagini, quando invece anche la più semplice “storia del cinema” viene da esse sconvolta e dissolta. (Insomma tra Blob e fuori orario, se si vuole). Il desiderio di diventare pellerossa e di restare sul cavallo cercando di aggirare la postazione cinema guardando in macchina e rinviando di qualche secondo lo svanire già in ao. Melani con gli intervalli inquieti della malaia e della calma dolcissima che all’improvviso se ne impadroniva. Giorgini più “basso continuo”, quasi un mugugno ininterroo contro tuo quel che ostacolava o impacciava quel desiderio. Tui e due costantemente affaticati dal loro resistere alla fatica. Entrambi inghioiti dal nulla che il cinema in un lampo nell’istante in cui non si parla di cinema; entrambi a ricordarci che non si può non parlare (scrivere fare immaginare) di cinema là dove ogni spazio è già cinema o un semplice cartello lo rende “cinema”. Spiragli, eppure anche tuo il dispiegarsi del mondo. asi che solo identificando i ruderi della catastrofe già avvenuta si possa ritrovare un barlume mai (mai) visto, oltre i segnali di confine crollati da subito. Sentinelle o esploratori, se i confini non ci son più, è la stessa cosa. Il sognare altissimo melaniano. L’immane presenza giorginiana che lascia il suo segno in ogni angolo
degli archivi e delle memorie istituzionali o privatissime. Il ruolo più difficile e essenziale e essenzialmente impersonale il “passeur” che con la voce e lo sguardo ti trasporta in un luogo fisico e mentale, l’incontro con la “cosa” potrà deluderti, ma lo shining ti ha colpito per sempre, in una connessione vertiginosa con non sai cosa. IGNOTI NULLA CUPIDO.
“Non si può desiderare quel che non si conosce.” Il cinema è (lo dico con brevità apodiica, così come apodiicamente ho scorto marco e ciro in una stessa schiera, e ora direi della sublime incompiutezza del Too Much Johnson film di deriva e di scoperta) proprio il contrario. Mostra e insegna il desiderio di quel che non si conosce, in uno smisurato giacimento di quel che non è nostro – ma di più, lo spossessamento in cui riconosciamo quel che non vedemmo mai. [“Alias/ il manifesto”, 1° maggio 2015]
8. Interviste e interventi
Meglio blob che snob a cura di Maurizio Caverzan
Cominciamo da Blob: è un programma di divertimento oppure no? Noi ci divertiamo molto a farlo, pur angosciati dal ritmo produivo ossessivo. E Blob vuole risultare divertente anche se non è la sua intenzione prima. Eppure Blob viene ritenuto un programma comico, di svago… ando iniziammo, su consiglio di Guglielmi, a occuparci della TV del giorno prima dopo l’esperienza di Vent’anni prima, un programma sui TG di due decenni addietro, ci accorgemmo subito della forza comica delle immagini. La giustapposizione tra una lezione di russo e il gesticolare di Andreoi casualmente analogo a quello dell’insegnante di russo ha un suo potenziale comico. Il ricorso all’effeo comico è il più immediato perché il comico è un linguaggio primordiale, preesistente e sopravvivente lo stesso linguaggio televisivo. Ma all’inizio proponevamo “cose sopra o soo le righe” della televisione. Poi ci siamo accorti che la TV era piena di eccessi e difei e che, anzi, il rigo televisivo non esisteva neppure. Oggi tui parlano sapendo di poter essere blobbati: non esistono più personaggi innocenti: Blob ha contribuito alla scomparsa del presunto rigo standard. Se non è il divertimento, qual è l’intenzione principale di Blob? Potrebbe essere rifleere la – non sulla – televisione, mostrando contemporaneamente l’impossibilità di rifleerla. La mia definizione però è questa: Blob è il più puntuale esempio di archeologia del presente televisivo, come un vetrino nel quale si fanno reagire alcune cellule televisive. Se, araverso l’occhio di un dio che visiona tue le TV del mondo, allargassimo a prospeiva cosmica questa
osservazione, ne risulterebbe un immenso blob. Noi inventiamo con immagini preesistenti un programma di fiction, un racconto dove al posto degli aori ci sono le immagini. Combiniamo la replica e il frammento. esto miscuglio genera qualcosa di dirompente perché la replica è sempre una citazione e perché il frammento si innesta in quello che il telespeatore sa già di quel programma o di quello spezzone, o di una delle molte cose veicolate da un’immagine. Ne scaturisce una sorta di enciclopedia selvaggia della televisione. Di recente vi hanno accusato di mischiare il divertimento alle tragedie (immagini della morte di Borsellino). Blob è una scatola che può contenere tuo? L’unica cosa che non può contenere è l’ambiguità della propria realtà. Sappiamo che la realtà non può dirsi, né darsi un senso da sola. esta è la tragedia di Blob come di molte altre cose, anche se non rinunciamo a dar conto della complessità della realtà: in realtà siamo infinitamente più deboli della più debole di queste immagini, non fosse altro che per il ritmo di montaggio, per l’impossibilità di rivedere se non in onda parte del nostro mosaico. A volte è come se dovessimo perdere la testa e l’anima. Tuavia questa è anche una qualità, nel senso che ci porta più vicini allo stato del telespeatore, cioè al non essere difeso dello speatore, il suo essere sintonizzato “in direa” sull’immagine. È un programma che chiede di essere completato dalla percezione del telespeatore, molto di più di quello che avviene per altri programmi. Blob può essere sia un virus sia un vaccino della mutazione indoa dalla televisione. Dipende da chi lo guarda e dai suoi “anticorpi”. Cosa significa che nella prossima edizione vorreste meere in evidenza la carica apocaliica delle immagini? L’ultima tentazione di Blob è arrivare a smontare e rimontare in tempo reale le immagini, non quelle del giorno prima, ma quelle contemporanee, mischiandole ai video amatoriali, ad altre immagini rubate. Come se fosse uno zapping: le immagini che si trovano saltando da un canale all’altro
sarebbero spesso i migliori aacchi possibili perché la TV è un sistema di echi automatici, reciproci. Anche se questo vorrebbe dire trasformarci in un puro strumento, annullarci, diventare neuroni televisivi. Non vi pare di sopravvalutare la televisione, di legiimarne lo strapotere? Non credo allo strapotere della televisione. Non credo che la TV abbia ingoiato tuo: non ha ingoiato neanche se stessa, purtroppo. Il fao che in televisione possano passare tui i linguaggi mi sembra una constatazione più che un incubo. Prendiamo Un giorno in pretura. Abbiamo perso due anni in discussioni moralistiche sulla speacolarizzazione delle sofferenze dei poverei. Bene: vai in tribunale e ti accorgi che è così o molto peggio: gli avvocati sono degli aori quando non sono delle marionee e l’aula d’udienza, come sapevano Molière o De Filippo, è un teatro. La televisione migliore è proprio quella che fa venire il sospeo che tuo sia TV. Usciamo da Blob – Fluido mortale, e parliamo di persone. Come nasce Enrico Ghezzi, uomo di televisione? Vincendo un concorso nel ’78 come programmista-regista della Rai di Genova per la terza rete. Feci quel concorso mentre lavoravo come assistente incaricato-supplente all’università dopo una tesi in filosofia morale intitolata Cinema moralia. Con quella tesi speravo di conciliare due grandi amori: il cinema e l’anatema contro il cinema espresso da Adorno e dagli amati francofortesi. Facevamo (con Marco Giusti e altri amici) una rivista che si chiamava “Falcone maltese” e collaboravo col “Piccolo Hans”, rivista lacaniana di psicoanalisi… Tu e Giusti fate parte della leva ligure di “televisivi”. Com’è nata? È una leva in parte di derivazione cinefila. Ci incontravamo nei cineclub di Genova, al vecchio CUC (Centro universitario cinematografico) anche se eravamo solo liceali (c’era anche Oreste De Fornari). I “capi storici” di quella mitica cinefilia erano Sandro Ambrogio e Aldo Viganò, ora critico al “Secolo
XIX”.
Fecero poi un cineclub di “cose mai viste”, di grande cinema americano; a Genova, tra l’altro, rimanevano magari rovinatissime, le copie di film in bianco e nero rarissimi che giravano sulle navi. Capitava spesso anche Carlo Freccero (savonese). Scoprii dopo che Antonio Ricci aveva frequentato le stesse aule del ribellismo universitario genovese anni seanta. A Ricci mi accomuna una simpatia per linguaggi luddisti-situazionisti che nella mia storia si sono combinati con posizioni anarco-caoliche. Altri savonesi erano Tai Sanguineti e Aldo Grasso: ci si incontrava nei festival… Non ti pare che rispeo a qualche anno fa Raitre abbia perso un po’ della sua carica sperimentale? A me pare che con Chiambrei, Blob, Chi l’ha visto, Avanzi, Raitre abbia consolidato il suo modo di fare televisione. È chiaro che una volta oenuto un certo successo si tendono a riproporre, col rischio della ripetizione, gli elementi che l’hanno prodoo. Tuavia abbiamo tentato un avanzamento, introducendo un punto di osservazione nuovo: ero d’accordo con “l’operazione Pariei” così come mi trovava d’accordissimo quella che doveva essere “l’operazione Funari”. Tentativi che non volevano essere di annullamento, ma di complicazione-contaminazione di una linea. A proposito di contaminazioni, cosa pensi delle inflessioni filoleghiste di Raitre? Credo che Raitre abbia contribuito a rompere alcune riserve di linguaggio e di dominio del linguaggio (di questo si occupa lo specialista, di quest’altro, il tal programma…). Un giorno in pretura, Chi l’ha visto, Samarcanda delle ultime edizioni, Blob, Chiambrei, Telefono giallo: con programmi come questi, molto imitati, Raitre ha trasversalizzato il campo politico italiano, modificando un’aenzione alla realtà, soddisfaa fino ad allora solo con i documentari, i ruoli, le tavole rotonde, gli esperti. Non penso che abbia smarrito il suo sperimentalismo. Invece di proporre dibaiti sulla giustizia in Italia ha fao Un giorno in pretura. Certo, Raitre è all’origine di un moto di svelamento/araversamento della società che tra l’altro ha decentrato il potere (almeno quello
dell’immaginario), ha spiazzato i poteri costituiti e promosso autonomie dal politico. È un ruolo oggeivamente scomodo: un seimanale ha intitolato: Raitre? Rieducatela. In un bar della Toscana davano una bella definizione di Blob: “Gli è un sasso nelle mutande della Rai.” Tra le 20 e le 20.30 la Terza rete mandava in onda Chiambrei, Blob e Barbato: è possibile che questa mezz’ora, paragonata ai TG dell’ufficialità, rappresenti una sorta di contropotere. Raitre ha certamente movimentato il rapporto istituzioni-ciadini, ma dire che siamo filoleghisti significa ridurre a una ricaduta politica un discorso ben più ampio. Raitre è stata ed è tuora una grande forma di linguaggio politico. ale può essere a tuo avviso l’ipotesi di sviluppo della Terza rete? esta è una domanda difficile. Credo che dovremmo percorrere ancora la strada della contaminazione, facendo scelte anche lontane da quelle che abbiamo fao finora, correndo il rischio di sbagliare. Però è quello che dovremo fare. Dopo Chi l’ha visto, Un giorno in pretura e Telefono giallo, varianti di fiction poliziesco, documentaristico e della commedia che sono state l’invenzione di genere di Raitre, credo che dovremo provare a confrontarci più direamente con la fiction-fiction. Che è proprio il linguaggio più distante da noi. Non parlo di sceneggiati, film o serie, ma di produzione di cose televisive, magari in studio, con riferimento non direo alla realtà documentaria. Difficile però parlarne già in termini di programmi. Da chi ti aspei le novità della prossima stagione? Mi vengono in mente solo cose vecchie. Anche le novità (forse lo era un po’ Gene Gnocchi) fanno di tuo per rendersi vecchissime e straviste in pochi mesi. Comunque aspeo con curiosità il Celentano che dovrebbe ri-irrompere da noi, e un poco (ma solo con la Q) Q come cultura.
Funari è stato forse uno dei personaggi più maltraati da Blob, e pure tu eri favorevole al suo arrivo a Raitre. Funari è uno dei personaggi che Blob ha usato di più. E l’immagine di Funari, se non Funari stesso, è stata modificata da Blob che l’ha portato al pubblico serale. Un paio d’anni fa molti vedevano Funari solo a Blob. Anche così Funari è diventato oggeo di discorso. Sapendo di essere scrutato, è lentamente mutato nei confronti del pubblico, delle telecamere. Adesso Funari è uno che fa autoregia in direa, in modo raro e alquanto affascinante. Il punto di non ritorno: quando è arrivato a sbaere la fea di prosciuo dello sponsor sulla telecamera. el grasso, quell’opacità chiarissima ci hanno fao mutare aeggiamento nei confronti di Funari. Chi sarà il più blobbato della prossima stagione? Se dura, e proprio perché dovrà fare sempre più appello alla televisione, Amato. Poi, come sempre, occhi, gola, pancia, intestino, genitali, cervello di ogni speatore. Troppo calcio, troppi varietà, troppi talk show, troppo di tuo: l’eccesso produce noia. Non ti pare che da qualche tempo la qualità dell’offerta televisiva stia calando? Non mi pare che la qualità dipenda in nessun modo dalla quantità. Trovo anzi che la qualità prima della televisione sia quella di indurre una necessità di troppo: ne vogliamo sempre troppa. La televisione è sempre troppa a priori. Può sembrare subito superflua, ma non ce n’è mai abbastanza. È chiaro che si tende sempre a replicare una qualità raggiunta. In questo modo si tende a disperderla: la TV è essenzialmente distruiva. Fino a qualche anno fa la sinistra sembrava aver sposato il cinema e considerava la televisione un mezzo borghese. Cos’è cambiato da allora? Nel cinema è cambiato il tipo di intensità civile e quella forza di immensa enciclopedia mondial-popolare che a torto o ragione è stato il cinema e a cui si è sostituita la televisione.
Poi, a causa dello sviluppo del mercato, è aumentata la facilità di accesso alla televisione. La possibilità di entrare come soggei nella televisione ha prodoo una sorta di democrazia e di iper-critica televisiva. Come giudichi il disgusto per la televisione espresso da Vaimo, che ha deciso di tornare ai libri? Nel caso di Vaimo trovo una sorta di diarismo, di riflessione personale. Sappiamo che ogni see anni cambiano tue le cellule di un organismo e quindi può cambiare anche il suo aeggiamento verso la televisione. La TV è un mezzo stancante, che annulla, uccide: cercare di leggere e infraleggere i rivoli televisivi, meere caos nell’ordine, come diceva Adorno essere il compito della filosofia, può sgomentare; soprauo può sgomentare rimeere caos in un altro caos che è la televisione. Mi delude un po’ in Vaimo questa scorciatoia di usare il caos TV per ritornare a una sorta di originarietà e umanismo del libro. Penso che l’unico modo per non passare per questi cicli seennali o annuali o mensili sia quello di odiare la TV mentre la si fa. [“Il Sabato”, 3 oobre 1992]
“Sarò mister Blob in eterno” a cura di Alain Elkann
Chi è lei, Enrico Ghezzi? Un viandante da fermo. Come nasce la sua passione per il cinema? Si va al cinema da piccini a vedere i film di Disney, poi venivo portato da mia madre al cineclub. Come ha cominciato a lavorare in televisione? Per un anno e mezzo sono stato assistente incaricato supplente, insegnavo Cartesio e Aristotele. Poi ho lasciato l’università perché ho vinto un concorso per programmista regista a Raitre. Fu l’ultimo concorso di quelli fai in Rai. E ricordo che feci un lungo tema su Rossellini e la televisione che non finii. Già allora avevo quel gusto, che poi conservai e che continuo a conservare, sul non finito. Come si trovò alla Rai? La Rai ha un ventre molle ma vi sono molti mezzi, si possono comprare molte cose. Io riuscii e imparai a araversare i muri di gomma e la burocrazia. Riuscii a realizzare un ciclo di film. Nell’85 il cinema compiva novant’anni – l’anno prossimo ne compie cento. Feci una due giorni di quaranta ore con il consenso alquanto improbabile dell’allora direore Giuseppe Rossini. Bisogna pensare che a quei tempi si tremava per una telefonata dal Vaticano. E Blob? Nasce molto più tardi, nell’89. Fu Guglielmi a darmi la possibilità di realizzare Blob. Guglielmi è più autore televisivo, secondo me, di quanto non lo sia lo stesso Arbore. La stupisce il successo di Blob?
No, non mi stupisce affao. Guglielmi mi chiamò nell’87-88 come responsabile del palinsesto. Voleva rilanciare la rete. In quegli anni divennero mitici i programmi Un giorno in pretura e Chi l’ha visto?. est’ultimo era un programma vecchio, melenso, votato ad avere successo. Era l’opposto di Blob. Del resto Chi l’ha visto? ebbe un premio per la TV fiction, noi per la TV realtà. Ma Raitre è stata molto criticata… Sì, perché fa sempre delle innovazioni. Penso al primo programma di Gad Lerner che seppe drammatizzare in direa, cosa che veniva direamente dalle assemblee studentesche. esto era il primo Milano, Italia, nel quale si inseriscono anche Blob e altri programmi. Secondo lei continueranno a lasciarvi andare in onda così? Da quando è nato, Blob è appeso a un filo. Io dissi che ci doveva essere anche la Fininvest. Guglielmi acceò. Abbiamo avuto critiche ma è andata. È andata in modo tale da essere ormai inaaccabile. Blob è anche in uno strano modo per chi vi appare una forma di pubblicità, di legiimazione. Abbiamo fao la fortuna di Funari e di Giurato. Dunque l’Italia è un Paese abbastanza libero? Sì, più che libero sregolato, nell’ammucchiata s’è creato anche il posto per Blob. Teme che questo nuovo regime venga a darvi fastidio? È come se lo sperassi. Forse potrà capitare o è già successo, comunque successe soo il regime di Craxi. Cosa le è piaciuto alla Mostra del Cinema di Venezia? Mi sono piaciuti i Tre fratelli di Teresa Villaverde e Vive l’amour di Tsai Ming-Liang. E poi un po’ di Vidor. Il film di Troisi è modesto, ma lui non ne era il regista. Ma esiste il cinema italiano? Il cinema di Morei sì. Apprezzo Nanni soprauo negli ultimi due film e nell’ultimo episodio di Caro diario dove
traa la sua malaia. Direi che fa un cinema eccezionale alla Lubitsch, ma non raggiungerà mai il cinema di Scorsese o di Cimino. Il cinema di Nanni è il set della sua indipendenza. E altri registi? Inutile stare a mitizzare un cinema italiano d’autore “medio” alla francese o all’inglese, che non esiste. Il bravissimo Gianni Amelio è un autore isolato. Benigni, oimo autore e regista, è un caso mostruoso a parte, mai riconosciuto come regista e autore. Direi che anche l’ultimo Tornatore, che purtroppo non ha avuto successo, è forse il suo miglior film. In questo film mira alto con l’interpretazione anche di Depardieu. Esistono poi anche nel cinema italiano Soldini e Tonino De Bernardi: oimo il suo piccolo Amori, che forse è il film più politico degli ultimi tempi. A me non piace molto il cinema minimalista alla Jim Jarmusch. Odio i kolossal d’autore all’australiana e all’inglese: troppo soddisfacenti. E io nella vita odio la soddisfazione. [“La Stampa”, 12 seembre 1994]
Domande e risposte. Blob. Trash e televisione. Autodenuncia
Blob Sono tre domande molto precise e anche molto semplici. Parto da quella più complicata, dall’ultima: che cosa volevo, volevamo comunicare con Blob. Se mi fossi posto dei problemi del tipo cosa si fa specificatamente in televisione, come funziona, come è meglio che funzioni la televisione, se me li fossi posti solo allora e professionalmente all’ingresso di una professione, avrei potuto fare delle cose molto belle, ma sicuramente non avrei mai fao nulla di quello che ho fao. Perché quello che ho fao non ha nulla a che vedere con una teoria che dovrebbe derivare da oggei dati: la televisione e il cinema, la comunicazione. In particolare la risoluzione che vi dicevo, ve ne rendete conto da soli, è molto presuntuosa: è stata quella di non comunicare mai nulla. Semmai nell’insieme di questo lavoro mi sono mosso forse più come un aore. Ma non avevo un regista, non avevo un testo. Mi sono trovato più vicino al tipo d’incoscienza dell’aore, con un po’ di malignità, forse, nascondendomi, diciamo, dal regista. E perché non comunicare nulla, soprauo in televisione? Perché la televisione è – è o non è riconosciuto fino a oggi – ancora per qualche tempo, il mezzo di comunicazione più moderno, più importante, più di massa, più efficace, diabolicamente o tecnicamente, a seconda dei punti di vista. Io penso, intanto, che se dovessimo davvero analizzare, se dovessimo davvero spiegare, spiegarcelo, tanto varrebbe cominciare dagli inizi del cinema o analizzare fino in fondo addiriura il telefono. Ad esempio – lo dico, ma spero che non sia così – in questo liceo sicuramente ci saranno professori che sono aenti alla televisione, al cinema, ma sicuramente non c’è aenzione al telefono. Il
telefono esiste come il marciapiede… insomma, come l’aria. Ecco io, per esempio penso che la televisione dovrebbe essere – e sia già in parte – come l’aria, come il telefono. La prima volta che uno telefona – aende la linea e la persona risponde – non si interroga sul telefono e fa molto male se poi invece tra persone ci si telefona. Sulla televisione ci si interroga, perché? Perché è un mezzo di comunicazione di massa, perché è pesante, ci sono i programmi, perché ci sono le ballerine, perché c’è Funari, perché Berlusconi la possiede fisicamente, perché in quella trasmissione si dicono le parolacce. Mentre nessuno si sogna di intervenire sulla telefonata sconcia che probabilmente nell’appartamento di fianco si sta svolgendo. Ci sono questi canali personali infiniti. Ora, se la televisione non è questo, è solo per la nostra pigrizia e per il modo in cui è stata immediatamente incanalata, leeralmente incanalata, dai governi in alcuni casi, in altri casi dai potentati economici. La televisione è come se non fosse mai esistita: non ha avuto neanche il tempo di morire, non è nata (il cinema se vogliamo è nato morto). La televisione non è nata perché è diventata subito una strana cosa, un po’ di teatro, un po’ di telefono, un po’ di radio, un po’ di telepatia, un po’ tuo, in realtà con enorme timidezza. E la timidezza purtroppo c’è anche nell’analisi, appunto. Se uno dovesse analizzare la televisione dovrebbe analizzare, dovrebbe sapere – come già col cinema – sapere di tuo, capire, dovrebbe essere un Leonardo da Vinci. Perché comunicare nulla, quindi? Perché credo che osare comunicare, e per comunicare intendo voler comunicare, osare, volere, intendere comunicare, sia – se esiste un peccato, quello più orrendo – sia quello di fingere di far credito alla televisione della naturalità che invece, appunto, non è scontata, di fingere di entrare in una cosa che già esiste. La televisione è un mezzo di comunicazione di massa: numeri, cifre, quando va bene, normali. Cifre da una parte, cifre dall’altra: tanti ai di violenza ora si conoscono di più
per la televisione e comunque per tua la rete dei dati che circolano mondialmente. Ora si sa, si sa dove inserirli. Una delle tre grandi registrazioni oltre a quella del suono e a quella dell’immagine forse la più affascinante, quella dei sogni, quella che inizia con Freud, sempre negli stessi anni, quindi un secolo fa, è fortissimamente legata al sogno, all’incubo della violenza sessuale, immaginaria o no, patita, a opera dei genitori o dei parenti, da bambini, nell’infanzia. esta traccia Freud, all’interno dei suoi pazienti, la rintracciava, con un che di ossessivo, fino a pensare che venisse in qualche modo da lui, o a dare adito a che lo si pensasse da parte di alcuni critici. Lo dico solo en passant perché è una delle cose ultime la diffusione dei crimini sessuali. Appena si indaga, in questo modo un po’ strano di indagare, cose molto mentali, molto poco tangibili, molto fugaci, su tentativi di registrare un’archeologia dell’inconscio, ci si trova subito nell’incertezza. E comunque è un dato diffuso, che non esisteva nella televisione, che non abbiamo bisogno di comunicare per sapere perché si sa. Allora quello che Blob ha voluto fare – pur essendo una particella minima, e anche solo marginale della rete pubblica più piccola (anche tuora è relativamente la minore, ma allora era molto minore) – è stato di calare una sorta di modellino del funzionamento televisivo stesso, come se fosse un batiscafo, dentro il mondo della televisione: una sorta di bicchiere, una cosa calata nel pozzo. E qui arriva il montaggio, come si scelgono i pezzi, io e gli altri. Perché ognuno di noi li sceglie in base alla sua propria storia, alla sua propria enciclopedia, i suoi molti dati, stati… Ognuno ha dei desideri quotidiani, oppure delle ossessioni, che alcuni più allenati riconoscono. Alcune ossessioni sono come giochi di parole che non sono giochi di parole autentici, sono dei tormentoni di parole, ma ci sono dei riflessi ormai pavloviani. Un’immagine richiama l’altra, un’assonanza, una dissonanza assoluta: la cosa triste, la cosa pesante (il sangue) e la cosa allegra (le ballerine, la bauta). È una connessione immediata quanto quella del gioco di parole pari pari, un’inversione se
vogliamo, può essere anche totalmente astraa. Però che sia in un modo o nell’altro, il funzionamento di Blob è di essere automatico, è di fingere il come se assoluto televisivo, di fingere – ed è difficile, infai raramente riesce – l’assoluta incoscienza. Di fingere la casualità, di fingere di essere come la scimmia di e Cameraman di Buster Keaton, di meere insieme immagini a caso, e troppo palesemente, troppo spesso non è così. A volte avremmo potuto fare, ma non si può perché tecnicamente non siamo arezzati. Non siamo in grado di scegliere istantaneamente, di fare una montagna di cose: scegliere, prendere la cassea, meerla dentro… C’è una lentezza nel farla scorrere. Allora proprio nel far scorrere spesso cerchiamo una cosa e ne troviamo un’altra, e quella che troviamo poi è diversa ma è meglio, ci porta da un’altra parte: uno voleva fare ABC e D e invece fa AZP e F e cambia tuo. Se avessimo una assoluta digitalizzazione, se avessimo tuo filmato, preregistrato, fino a due ore prima, se si potessero prendere a caso le immagini e meerle insieme, sono sicuro che, in quel caso, probabilmente risulteremmo, nove su dieci, pedissequamente didaici, ci sarebbero dei nessi ancora più precisi di quelli che ora, più o meno palesemente, vogliamo meerci. Faremmo un calco meccanico-mentale, non tecnico, dell’idea mentale dell’automatismo e della casualità. Saremmo un calco. Sarebbe pesante, sarebbe una riproduzione più greve invece, non sarebbe una libera associazione. Per cui il risultato massimo, che raramente si intravede, è proprio quando uno ha lavorato dieci ore, montando – tuo senza scadenze, perché cambiano continuamente – per dare un filo rosso, magari un po’ soerraneo, però preciso, d’autore, a questa puntata. Invece poi si accorge, magari all’ultimo momento, che è tu’altro e non sa neanche cosa sia. E il giorno dopo, delle quindici cose di cui magari sarebbe fiero, l’unica che viene citata è una sedicesima che lega le cose in un altro modo. A volte invece il nesso è palese come una bautaccia di Berlusconi o su D’Alema, o il primo piano di uno e il sedere di un altro, una cosa che magari fa molto ridere: la comicità
ha un suo richiamo. Ma noi ci siamo voluti, fin dalla prima puntata, immergere nel tempo. I programmi che ho prodoo io – Blob, Schegge, fuori orario – sono tui fai in un’occasione economica di tempo. E mi è parso sempre di fare una doppia cordata rispeo alla marginalità di palinsesto: la fascia delle oo, che è un momento dove c’è una loa tra programmi forti, è andare al sacrificio, un tavolino di baaglia, noi e Striscia la notizia. E non a caso Striscia la notizia è nato invece come uno speacolo di avanspeacolo – prima dello speacolo – come il vecchio varietà: tu’altra cosa rispeo a Blob e poi con prodigiosa abilità ha assunto una grande importanza politica. Schegge e fuori orario invece sono nati tui come bolle di palinsesto, non erano previsti all’inizio dell’anno. Sono nati da un giorno all’altro. fuori orario è nato senza che fosse previsto, la seimana prima, dovuto a ritardi o anticipi nella chiusura della prima edizione di Samarcanda di Santoro. Io segnalai a Guglielmi che erano rimaste delle cose molto belle di cinema e volevo fare altre cose di televisione. E allora ho deo: “Usiamole, decidiamo in base alla durata.” Non facemmo in tempo, come si diceva allora, a andare in Radio corriere, cioè a essere indicati nel giornale. E da allora è stato quasi sempre così, non abbiamo più mancato una seimana. Poi fuori orario è diventato quotidiano. E lo stesso Blob. ante volte ci è stato proposto di fare Blob seimanalmente. Sicuramente lo faremmo meglio. Ci viene deo dai più virtuosi: “Fatelo meglio: fatelo con calma. Tu enrico ghezzi vedilo tuo. Chi lo monta lo deve vedere tuo, poiché siete responsabili. Così Guglielmi lo vede.” E invece è meglio che non lo veda, io sono consapevole che non deve controllare. Blob viene contaminato in questa frea che porta a non indagarsi, a non struurarsi troppo, a non essere troppo analitici. Ci siamo obbligati per anni, e continuiamo a obbligarci, a una sorta di reaività istantanea (ormai siamo, forse, cavie), così come certe cose sono automatiche, ma lo sono per noi. ello che noi facciamo in modo surrealista – l’occhio, il seno – è la stessa cosa che fa anche qualunque regista, anche il più virtuoso, il più nazionalpopolare. Canale 5, TG5, Raiuno
mescolano tue queste cose meditate – ed è questo l’errore – dal puro mediatore di comunicazione che è il giornalista, che sconta su di sé questa falsità. Di solito viene dea prima la cosa più pesante, uscendo da una Bosnia o da un naufragio albanese con una rasseatina di capelli, oppure, i più bravi, con un movimento lievissimo del collo: “E adesso Lady Diana”, la notizia più allegra. Io lo trovo oscenissimo e Blob usa anche questo momento. Io trovo che sia una tecnica anche questa che funziona fino a un certo punto. Trovo che sia molto più violento – e lo dico con ammirazione – un TG rispeo a Blob. Io trovo che una persona come Costanzo da questo punto di vista sia un grande criminale. Perché è uno che appiana tuo, un civile, non è mai eccessivo, perché è perfino umano. Ha questo torto tremendo di essere umano, di fare l’umano. È uno di quelli che fanno respirare la televisione come un fao normale, naturale: c’è sempre stata. La professionalità di Costanzo e dei grandi conduori è quella di dire agli altri come si fa a essere se stessi. Io so come funzionano le immagini, loro non sanno nulla. Che ne sappiamo di quali giochi, correnti, desideri passano – parliamo delle cose più ovvie – tra lo speatore e il conduore, tra la nube e noi. Costanzo non sa nulla di sé. Costanzo, pateticamente, da sperimentatore medievale sa come funziona quando fa così o cosà, ma non sa se siano le sue guance, il suo occhio, la sua figura grassa, un po’ da Ollio. Non sa che cosa può essere di lui che comunica di più, se siano quelle parole assolutamente banali che continua a dire, quei valorini-valorei. C’è anche quello che si dice, ma non lo sapete dire quasi mai quello che ha deo esaamente. Siete aenti ma siete distrai, perché state guardando una cosa molto più complessa di quello che ha deo o di come è vestito o di come ha i capelli: è tue queste cose e è qualcos’altro, molto di meno, molto di più. Non lo sappiamo che cosa conta, non abbiamo il tempo di saperlo. Fingere di aver avuto il tempo di saperlo, di averlo studiato, di essere professionisti, di essere comunicatori, secondo me è abbastanza osceno. Trash e televisione
Non sono uno specialista di trash, ma non sono specialista di nulla. Credo che il trash è stato definito così come elemento in generale: è qualunque esperienza particolare nel campo artistico, dello speacolo, diciamo nel campo della rappresentazione. L’orizzonte è proprio quello che determina questa divisione nella rappresentazione (se c’è la rappresentazione ci siamo tui), ed è quello di rappresentare particolari, che ambiscano a essere invece generali, a porsi su un piano più generale. Il trash non è categoria sublime, una categoria che richiede un eccessivo coinvolgimento estetico, secondo me. È una sofisticazione, e anche una falsità, perché per definirla poi si riproduce tua la scala degli aeggiamenti estetici, oppure è un giudizio morale mediante il quale questo tentativo di una rappresentazione particolare di porsi su un piano generale è palesemente inadeguato. Perché è troppo facile trovare trash Oriea Berti, o, a un altro livello, c’è chi ha trovato trash, chessò, Umberto Eco. Io trovo che sia in sé una categoria assolutamente trash, il trash. Una categoria minuscola che cerca di porsi su un piano generale, diventando appunto una categoria e uscendo da una sorta di gioco, uscendo dal bidone della spazzatura in cui tecnicamente la parola è, dove sta bene, dove serve. Perché appena la tiri fuori, se pensi a questo – a quello che vuol dire (e ci sono dei teorici del trash, Labranca) – se appena prendi un momento sul serio o un momento per gioco le ipotesi del trash, trash è assolutamente tuo. Basta la televisione a dire che tuo è trash. Scalfaro è trash. La televisione è in sé un movimento che trashizza perché è il particolare che diventa generale: ogni momento registrato è generalizzato. indi lo trovo un conceino abbastanza inutile. È divertente giocarci, come a briscola. Devo dire che noi non abbiamo mai cercato di meere in ao dei codici specifici nei diversi seori. Le prime cose che ho scrio, per esempio, non erano certo di cinema: piccolissime cose che sono state scrie su un quaderno. Per esempio l’infamia speacolare dello speacolo, questa scissione, questo assoigliarsi del mondo, più vituperato ed esaltato – leggerissimamente esaltato o
assolutamente vituperato – a seconda delle filosofie e dei teorici, se uno ha un minimo di serietà (e lo dico in senso intelleuale) non può non trovarlo già in quello strano gesto per cui, per esempio, uno decide di scrivere una leera, una leera che non sia solamente d’amore (una leera d’amore sa già di essere votata allo scacco perché non può essere all’altezza di questo bruciarsi: se non è questo ogni altra leera è infame, che uno abbia venticinque anni o ne abbia cinquanta, infame rispeo alla purezza che si esige, chissà perché, quando invece si giudica uno speacolo, o la televisione o il cinema, trash). L’ao di scrivere, per esempio, è profondamente trash. Oggi, oggi e qui, non è più un bisogno come dire economico, di segnature economiche, e quindi un fare economia di questo, ma è pura volontà. È tecnicamente volontà di rappresentazione, di rappresentanza. E quindi il severo alfiere – che ad un certo punto della vita o della sua traieoria televisiva decide di vituperare quelli che lanciano i sassi dicendo che è colpa, in questo universo ballerinesco, di questa verità dei videogiochi dove i bambini imparano ad ammazzare le figurine, a far schiantare delle teste, eccetera – questo signore ha deciso di fare la ballerina nel momento in cui ha deciso di scrivere. Non ha mai deciso di non scrivere come ao, chessò, di santità, come ao di rifiuto per esempio dell’impianto della comunicazione. No, scrive, perché è un puro movimento narcissico, narcisista, da ballerina, da personaggio qualunque televisivo. E allora questa infamia, questo peccato originale di scriura, l’ho sempre, come dire, scontato in partenza, per cui di sicuro non faccio queste gerarchie tra i gradi di speacolo. E non sto parlando di scriure speacolari, ma dello scriore più appartato, cosiddeo nichilista magari: Cioran, Ceronei, che amo molto e che è palesemente, imbarazzantemente, ballerinesco, un vero danzatore. È puro esibizionismo l’intervenire di Ceronei su problemi quotidiani. Magari non vi interessa nulla di Ceronei, ma volevo un po’ sfuggire da queste ipotesi di Blob come un calderone dove entra tuo, uno stream of consciousness. Personalmente mi ha spesso colpito quando, due o tre volte, quaro o cinque anni fa,
qualcuno ha deo o scrio che Blob era una sorta di mio autoritrao. La seconda volta che è stato scrio era nel primo periodo in cui facevo altre cose – dovevo tirare su il palinsesto, fuori orario era diventato quotidiano e in quel mese e mezzo non montavo Blob – quindi tecnicamente non ero io. Devo dire che mi divertiva, mi inquietava e mi piaceva, perché se c’è una cosa nella quale mi ha aiutato la televisione è proprio quella di avermi permesso di sentirmi autore, scriore, regista, senza il bisogno di fare nulla se non degli spostamenti a volte puramente mentali – come è di fao Blob – delle dislocazioni di masse. E questo è ancora esaamente la stessa cosa del gioco di parole, del gioco coi numeri. Così come una parola può essere un mondo, un’ora di programma in un gioco di palinsesto equivale a una virgola; e poi dentro questa virgola ci sono magari destini, dolori, sublimità. Con un giorno intero fai una frase, con tre ore di programma fai di più. Infai il corto, il lungo, tuo questo, lavorando in televisione ha perso per me un senso. Programmi di see o di cinque ore sembrano una virgola e cose di tre minuti sembrano avere una pesantezza, una durata eccessiva. La televisione ha questo di straordinario: la sua aggiunta al cinema è il fao di averlo in qualche modo realizzato, in modo banale. Il cinema era ed è – per motivi di greo o raffinato funzionamento del capitale – costreo a spezzearsi, ma in un numero comunque limitato: sono stati fai tantissimi film, ma pochi alla fine, poche decine di migliaia. Ci sono ventiquaro fotogrammi in un secondo: nessuno analizzerà mai i film se non quando saranno distrue quasi tue le copie e, come per la leeratura classica, saranno rimasti quei dieci film. Magari non rimarrà John Ford, ma tuo casualmente. Magari un pazzo distruggerà John Ford, e delle singole copie si conserverà solamente una memoria verbale o alcuni fotogrammi di uno dei più grandi registi. Nella televisione invece, anche in venti minuti, tre ore, trenta ore, c’è tuo: ci sono i buoni, i caivi, si riapre sempre il teatrino. Ma quello che conta in televisione è che invece non c’è margine. ando dico Striscia la notizia – e non è un paradosso, Striscia la notizia è orribile – se
dovessi salvare tre programmi il primo che salverei è Striscia la notizia, o il secondo o il terzo, perché è un programma che aderisce a questo: c’è un lavoro, anche di bassa qualità, però è un lavoro accanito che cerca di star dietro a questo, perdendo forse, ma cercando di aaccarsi a questa realtà, senza doverlo fare per compito istituzionale come un TG, quindi come emanazione di un ordine. Nella televisione non hai più la possibilità di dirti autore di un testo. Adesso per esempio mi preparo a regredire all’interno di un programma più piccolo che mi piaceva fare sulla poesia. Però vivo questo momento come una clamorosa regressione alla posizione di autore. Anche se poi mi piacerà farlo, anzi mi piacerà senz’altro. Ma appunto questo non è essenziale – il piacere – mentre nel disperdersi televisivo non c’è più godimento e piacere, forse è una situazione infelice, parodisticamente tragica. Io, sicuramente, mi sentirò meno autore quando avrò fao il mio programmino di poesia (che magari mi piacerà o spero che vi piaccia) di quanto mi sia sentito autore lavorando Blob, fuori orario e Schegge. In quel momento mi sentivo più autore anche se ero autore di programmi marginali, di programmi sfrangiati che non riuscivo a controllare. Ecco, essendo autore di programmi che non riuscivo a controllare autorialmente, ero però più vicino a giocare all’autore con l’autorialità automatica della televisione. Autodenuncia Che cosa volevamo comunicare riproponendo con Blob le gaffes televisive, diventando, forse, prevedibili? Devo dire che questo gioco dell’autodenuncia del “finirò su Blob”, “questa è da Blob”, si è diffuso subito, nel giro di una seimana. Ma è quanto di più banale, non è neanche l’indizio di un successo, è solo la circolazione televisiva: è vero che nel caso di Blob quello che produceva questa piccola frase era indireamente una negazione. Per esempio, se l’intento di Blob fosse stato quello di denunciare, era immediatamente una negazione di questa denuncia, era l’immediato risultato della satira. Di solito la satira centra un po’ di più, ma infai non era satira, non lo è ancora e non lo sarà mai, era il plauso di una
autodenuncia satireggiante. È quello invece che apprezzo moltissimo, l’unica cosa che apprezzo davvero, in Striscia la notizia, come singolo fao – per il resto non mi piace quasi nulla: non mi piacciono i conduori, non mi piacciono le baute, persino le veline non mi piacciono – è il praticare in modo così accanito, maniacale, la satira, la pura satira, la pirateria di studio televisiva. Mi piace perché è un’appropriazione indebita di quello che è già proprio – anche se poi ci sono tui i cavilli, c’è il dirio d’immagine: uno c’è stato, c’è passato, non è un canalino via cavo a pagamento. ello che mi piaceva persino nelle autoaccuse – che tra l’altro abbiamo usato pochissimo, non è affao vero che le abbiamo usate molto: ne raccoglievamo una su dieci, anche tuora – è che toccavamo con mano (e questa è una cosa diversa dal normale accordo, dalla strea di mano tra satireggiato e disegnatore, che gli invia l’originale del disegno) il costringere, senza volerlo fare, mezza televisione a lavorare per noi fin dall’inizio. Ed era un indizio prezioso di come queste persone si autoaccusassero come se esistesse un giustiziere. Davvero pensavano che noi vedessimo tuo. Noi all’inizio eravamo in sei, nel massimo del fulgore siamo stati in quindici, vedevamo, se andava bene, sei ore di televisione al giorno. Seanta ore magari in tuo. Poi registravamo cento ore e neanche quello era tuo visto: ci sfuggivano moltissime cose. Eppure rapidissimamente (e questo è l’incanto, non di Blob, è quello che dicevo prima, del fao che appena sposti lo stesso punto di vista, sblocchi da un’altra parte lo stesso osservatore e dalla duna successiva vedi la stessa visione, rivedi tuo lo speacolo) queste persone si sentivano fin dall’inizio bi-osservate: dal pubblico e da un’altra entità, che poi era sempre un pubblico, una minima porzione di pubblico, non più incosciente, che poi avrebbe giocato sul fao di aver visto questo. Sono d’accordo che a volte ci potesse essere il sospeo di un pao spregevole. Ma non c’è mai stato. C’è stato invece qualcosa di molto più forte, nel senso che abbiamo intraenuto quasi dei veri rapporti epistolari di natura televisiva con Funari, con Boncompagni e Ambra. C’era una trasversalità, Funari a un
certo punto si mise a fare lui dei blob, usando un po’ di immagini nostre e di immagini sue: “Vi faccio vedere io.” E poi noi lo rimandavamo, era diventato un gioco in abisso. E alla fine tuo conta, anche le piccole recensioni, conta la parola in televisione, ma contano anche le immagini. Vi assicuro che non c’è star televisiva che non si coccoli il ritaglio del “Corriere dell’Adriatico” dove si dice che il suo programma è bellissimo. Perché è talmente potente e diffusa la televisione che non riesci a immaginare un’entità adeguata di controllo e di potere di parola, di giudizio. indi siccome tui, e non un tiranno, giustamente, possono giudicare, democraticamente, la televisione, chiunque può essere un tiranno. Vi assicuro che Pippo Baudo si ricordava nome e cognome del più minuscolo dei critici di provincia e se aveva parlato bene o male di lui: ne aveva bisogno. Se uno invece non ne ha bisogno è perché ha una forza gigantesca. Perché o ci si autorizza da soli oppure bisogna essere autorizzati da tui, e si ha bisogno di dodicimila speatori o almeno di due, tremila e, se si è nella fascia in cui di solito sono oo, devono essere dieci: è questa la sindrome. Allora vedere queste persone non smascherate – perché non erano smascherate ma rimascherate, che si sentivano già viste e quindi come un tic – era come se, per il solo fao di esistere, Blob li avesse punti, un po’ sgonfiati e loro si sentissero delle marionee. La mamma di un mio amico a Genova gli diceva di un altro amico: “Ghe manca un fil in testa”… o forse non si dice proprio così… [Liceo Andrea Doria di Genova, 6 maggio 1997]
“Scusi, come ha cominciato?”
Lei è partito da un grande amore per il cinema… È una cosa che viene molto da lontano. Diciamo che non avevo mai pensato al lavoro televisivo come un’ipotesi di lavoro se non come il sogno che uno ha da bambino, di fare lo scriore o il regista. Dopo di che, mentre già facevo una rivista di cinema, “Il falcone maltese”, insieme ad alcuni amici, e nello stesso tempo insegnavo come assistente incaricato all’Università, Filosofia morale, a Genova, c’è stato un concorso, nel ’78, per la Rai di Genova, per le sedi di Raitre, e io l’ho vinto, sia per la rete regionale che per la rete nazionale. Così sono entrato in questa “strana cosa”, e mi sono deo: “Vediamo cosa succede.” Mi aspeavo francamente di stare lì sei mesi, un anno, di fare un’esperienza… E invece eccomi qua. esto anche perché, per una sorta di indifferentismo o meglio di forte capacità di non sentirmi parte delle istituzioni, di non sentirmi parte di una situazione forte quale era e quale è ancora la Rai, io mi sentivo del tuo libero. Penso che per essere liberi è importante sentirsi liberi. O meglio, sentirsi liberi anche se schiacciati dalle difficoltà, dai problemi burocratici, oppure dal “fato”, proprio perché sento che siamo pochissimo liberi in assoluto. E quindi quando una cosa “classica” non si poteva fare cercavo di farla in altro modo. ando mi si diceva che lì non c’era la persona per fare una certa cosa, per andare a visionare una situazione, ci andavo io. Entravo, “colavo” come un liquido, cercando di “volare” dove c’era da colmare un vuoto. Perché è questo poi il problema della Rai e in assoluto delle istituzioni di tipo ministeriale. Gran parte del lavoro, non per incapacità o insipienza dei singoli ma per la struura dell’organizzazione del lavoro, tende a rendere colloso, difficoltoso, abitudinario il lavoro. Se però riesci a superare, a
traversare, a scavalcare queste difficoltà, naturalmente aggiungendo molto lavoro tuo, il lavoro vero e proprio è il divertimento, è il piacere, è quasi la follia, riuscire a farlo è davvero incredibile. Io dico sempre scherzando che il novanta per cento del lavoro in Rai è lo sforzo fao per cercare di lavorare. Se riesci ad agire in modo libero, o comunque fingi di agire in uno stato di libertà, a quel punto, puoi fare molto. Potevi fare molto nella Rai del periodo dal ’78 al ’90, nelle programmazioni della terza rete. Se fingi di avere questa libertà puoi fare tantissime cose perché in realtà hai in mano, non in mano come potere di direzione sugli altri, sul lavoro altrui, ma come lavoro tuo, una macchina molto potente, molto forte, finanziariamente molto aggressiva. Lei ha portato la cultura del Cinema in TV, il Cineclub in TV. Non avrei mai voluto fare il “cineclubbista”, anche se ero uno dei due o tre maggiori consumatori di film a Genova, ai tempi tra l’ultimo anno di liceo e tua l’università e dopo la laurea vedevo un paio di film al giorno più alcuni festival e alcune gite a Parigi, a Londra, a Bruxelles. Per me questi geniali “cineclubbisti” di Genova, che frequentavo moltissimo, erano dei miti, come i proiezionisti… Ma nello stesso tempo mi piaceva mantenere l’“incanto passivo” di chi voleva vedere più cose possibili senza diventare un organizzatore, senza diventare un operatore culturale. Mi piaceva infai scrivere, che era una pratica apparentemente più creativa. indi non era certo la mia ambizione fare il “programmatore”, anzi. Ho fao il concorso arao proprio dal “programmista-regista”. Ho fao regie per un paio d’anni, stando a Genova. Facevo la regia di collegamenti dei TG, le regie dei TG3, la regia in studio, una rubrica. È stato molto utile e anche affascinante. Poi da Genova si è trasferito a Roma… Il motivo per cui sono riuscito a venire a Roma è stato – cosa cui non tenevo affao in sé – io continuavo a voler fare dei film tuo sommato, è stato che Giuseppe Cereda, che allora
dirigeva la programmazione di Raitre è stato chiamato a Raiuno e ha indicato me come programmista. Mi aveva fao fare un paio di presentazioni ed erano venute bene, secondo lui. Mi aveva conosciuto a qualche festival come critico cosiddeo giovane, avevo venticinque-ventisei anni. Iniziato il lavoro a Roma mi sono subito reso conto che si potevano acquistare molti film in un anno, che si aveva il potere di segnalarli, e io l’ho fao senza riserve. Per quasi tui i film che mi servivano per un ciclo invece di aspeare che andassero a buon fine, le scadenze regolari, l’Ente, l’orario di lavoro in cui contaare l’ufficio acquisti eccetera, il mio lavoro diventava anche chiamare quindici volte in una seimana la persona che aveva i dirii del film. È stato un lavoro molto volontaristico però fao grazie alla possibilità di farlo in Rai. La possibilità di, non dico proprio sfruare le carenze, ma superare le carenze e puntare solo sulla possibilità in sé che, ripeto, era e in parte è ancora grande. Dico in parte perché comunque lo spazio di autonomia, di araversamento, della “macchina”, adesso è molto ridoo. Il compimento di questo tipo di lavoro è stato il lavoro al palinsesto e con autore insieme a Guglielmi. esta mia linea si è incontrata con la linea di Guglielmi, dato che era sostanzialmente la stessa, anche grazie a un livello di autonomia aziendale, di coscienza aziendale, quindi anche rispeo alle pressioni interne, molto sviluppata da parte di Guglielmi, lui è lì da moltissimi anni. Io invece sono sempre andato avanti sul minimo, lavorando sulla mia testa, sulla mia capacità di muovermi, sul mio accanimento, sulle mie ossessioni e su quelle di alcuni pochi amici, pescando molto nelle proprie energie e “spendendosi”, proprio nel senso di spesa, di dispendio. Fino ad oggi, fino a questo momento, ho fao alcuni programmi relativamente poco costosi, non dico di recupero ma marginali, oppure che lavoravano su un’idea di riuso, su come usare meglio le cose, in un certo senso persino “ecologici”. Però non saprei dire…, se pensi al fao che “mitologicamente” adesso sono uno che parla difficile in TV… La prima volta che ho parlato in pubblico, di nuovo, non è una cosa che ambivo a fare, mi ricordo che morì Glauber
Rocha e volevo fare una cosa. Mi dissero falla tu, questi mesi ci sei tu. Allora cercai Bertolucci, cercai Gianni Amico, tirai fuori Antonio das Mortes – un film che giaceva in Rai e che non era mai stato usato. La cosa di cui non so dir nulla è sul fao che è scaato una specie di rapporto col pubblico del quale tra l’altro, non è che non voglio sapere – o si sa dall’inizio o non si sa nulla – non è che lo apprendi. Io sono sempre stato molto timido, poco capace di parlare in pubblico, non l’ho mai sentito né presentando né quando mi è capitato di fare delle cose in direa. Non credo comunque nei problemi di comunicazione. La televisione ha una cosa straordinaria e terribile che comunica di per sé automaticamente in un modo che noi non sappiamo, checché ne dicano i guru della comunicazione. Il rapporto col pubblico è molto interessante. Mi sono trovato a lavorare in televisione su immagini precedentemente realizzate, che avevano già avuto un loro pubblico, incluso me stesso, non come produore ma come speatore. indi semmai sono diventato un ri-produore, il mio ruolo era ed è in parte rimasto non tanto quello di mediare, ma di giocare su due momenti di pubblico, il pubblico d’epoca, quando il film era uscito, quel pubblico che ero stato anch’io vedendo il film in un cineclub o al cinema o in un festival, e infine il ri-pubblico, diciamo, di questa riproposizione di un film. Devo dire che mi sono appassionato moltissimo sentendo fin dall’inizio che mentre un film ripassava in televisione cambiava, mutava, diventava un’altra cosa. Io amo alla follia il cinema in sala ma il cinema in televisione lo amo ugualmente perché, magari sacrificato, “crocifisso”, è l’ultima vita del cinema, è molto appassionante. Sentivo che era un po’ alla Warhol: restando lo stesso mutava, mutava anche fisicamente, lo sappiamo, le dimensioni, le durate, ma mutava con qualcosa anche in più oltre che in meno, oltre che di più piccolo. Se dovessi dare un consiglio a chi vuole lavorare in TV? Un consiglio che do è quello di non preoccuparsi. È utile imparare delle cose, delle tecniche, ma è utile se uno è
appassionato. Non impararle “per”, non per fare l’esame, non per farsi esaminare. È assurdo fare un cortometraggio per convincere qualcuno che si è bravi e che poi potrai fare un film. Se lo fai, in quel momento stai facendo cinema, deve essere questa la cosa. Cominciare già a calcolare dalla prima cosa che fai “personalmente non mi appassiona, non mi dice nulla”. Entrando in questa macchina automatica e potente devi, e questo poi è il lavoro di Blob, cercare ogni volta di smontare, di raffreddare, di liberare la tua eventuale forza, anche se non la conosci, la tua eventuale intensità. Deve andare avanti da sola. Senza in ogni momento star lì a pensare adesso come meo la mano, adesso come guardo in macchina. D’altronde ci sono quelli che insegnano, che spiegano. Possono esserci anche delle approssimazioni che funzionano ma questo aeggiamento o è ridicolo o è infame per chi invece non sa nulla, non sa se conta di più una parola o il giro di un dito, o l’occhio. Non so qual è l’alchimia tra queste cose. indi, in qualche modo, penso sia meglio abbandonarsi, meglio non sapere. È meglio giocare con una certa incoscienza. Io sicuramente ho fao questo. [“Prove aperte – Concorsi e notizie per i mestieri dello speacolo”, 11, luglio-agosto-seembre 1997]
Sulla comunicazione globale
Ci sono sempre più dei legami fra la televisione e Internet. Su Internet si possono già trovare dei servizi che cercano di avvicinarsi alla televisione. Lei crede, come sostiene George Gilder, che la televisione è destinata a morire per essere sostituita da Internet? È un problema che non mi pongo mai perché credo che la televisione sia già morta; lo penso anche del cinema, nel senso che entrambi i mezzi sono nati morti. Se pensiamo a questa televisione, ovviamente forzatamente e fisicamente controllata da pochi poteri economici e/o, di solito, governativi, la risposta dovrebbe essere superata; da sempre la televisione, ma anche il cinema ci hanno fao entrare in un universo del sentire più ancora che del comunicare, un universo che va alla velocità della luce in rapporto alla lentezza dei governi e alla pesantezza leggera del capitale. In questa prospeiva, la risposta, ripeto, alla sua domanda dovrebbe essere affermativa. Invece credo che non morirà, perché anche questa televisione, la più vecchia, quella generalista è quella paradossalmente più vicina al tipo di desiderio indistinto dell’individuo. Credo, inoltre, che proprio questa sorta di bisogno religioso che si solidifica nella vecchia televisione sia aivo nel nostro desiderio verso questo orizzonte di rete dove dovrebbero essere inghioite parte di queste pesantezze da essere dissolte. La televisione che si avvicina a Internet crede che possa offrire una maggiore libertà per l’utente? esta presunta “libertà” è qualcosa a cui credo pochissimo, una libertà che un individuo si dà anche contro le costrizioni e contro i poteri. È vero che Internet ci offre un’impressione di maggiore flessibilità, però si sostituisce, probabilmente, alla libertà che non possediamo realmente, che altreanto
realmente non abbiamo su Internet e che non possediamo in generale. In questo senso, di nuovo, la televisione è così palese che il “poterino”, il giochino di libertà del telecomando è pressoché nullo, poiché la libertà televisiva è più palesemente inesistente e nello stesso tempo, però, pur essendo così vecchia, sembra eccedere le capacità, per esempio, dei regimi democratici di giudicarsi. Non credo molto nel discorso “più libertà, meno libertà”. A mio avviso, il senso della rete può essere quello di un orizzonte e soprauo una zona di linguaggio dei linguaggi, quello, cioè, di meere il linguaggio come vogliamo, oltre la pubblicità, oltre il visivo; anche se adesso ci si riprecipita, con Internet, dentro con tuo il visivo, con tuo il televisivo, con tuo il filmico, con tue le forme di scriura possibili, dovremmo, comunque, dubitare di tuo il linguaggio che abbiamo potuto parlare fino ad oggi, in una sorta di azzeramento, più ancora che di superamento, appunto, dell’illusione di nuovi valori, di nuove libertà, nuove comunità. La vera illusione che abbiamo, e a volte è insita anche nelle domande che ci poniamo su Internet, è quella sull’importanza della comunicazione: finché ci poniamo in un universo di comunicazione, certo che Internet risulta più potente di altri mezzi, certo che concentra tui i modi usati fino ad oggi per comunicare. È più interessante rifleere su quello che non è Internet che su quello che è; quello che non è, è sbarazzarci anche della necessità di dovere accedere a una rete, sentirsi in rete, senza abbonarsi, senza avere i mezzi, superare questi mezzi che sono leggeri, ma che invece sono ancora pesanti e io la pesantezza la trovo tua nei tempi, in questi due, tre, quaro, cinque secondi di aesa che sono insopportabili perché quello che ti promee la rete è l’istante, essere all’istante in rete, all’istante ovunque, e poi, invece, questi due secondi sono quelli che ti allontanano dall’eternità del presente. L’interaività può nascondere una limitazione, in realtà, della libertà? Non c’è dubbio che l’interaività idolatrata come linguaggio, come parola non ha alcun senso; direi, anzi, che nel suo senso
più spinto sia una sorta di negazione della libertà. È come quando avvertiamo – perfino in televisione in certi stacchi, in certi piani d’ascolto, in programmi tradizionalissimi, nei talk show più pesanti nazionalpopolari, nelle prime serate di Santoro – un piano di ascolto che non ci aspeiamo, e poi scompare. Oppure il piano di ascolto della persona che ha un trasalimento vedendosi un aimo nel monitor di controllo che c’è in studio e si vede inquadrata: c’è un momento di incertezza; in quel momento è come se la persona stessa, e noi che guardiamo, sentissimo il potenziale anche solo in quello studio, ci sembra assurdo che non ci siano tanti canali, o tante inquadrature, più banalmente, o tante telecamere quante sono le persone presenti nello studio. Poi, ognuna di queste persone ne meriterebbe e ne sopporterebbe migliaia, milioni di telecamere, tante quanti sono i modi infiniti di perforare lo spazio. Allora, se uno si sente trafio dall’infinito possibile della comunicazione, ha almeno qualche possibilità di sentirsi nudo, di non sapere cosa sia la libertà. Cosa è la libertà di scegliere quando un individuo può intravedere due o tre di questi canali (soolineo canali), o di questi modi di essere sapendo che sei araversato da migliaia, milioni di altri che non controlli, che non conosci, che non sai come funzionano? È lo stesso discorso della comunicazione. ello che mi interessa molto e mi affascina, e forse mi spaventa anche, di questo orizzonte della rete, è, invece, questo riportarci a quel grado zero che dicevo, per cui non si ha bisogno di volere comunicare ma, in qualche modo, si comunica automaticamente. Io credo che tale automatismo sia sempre esistito nella storia dell’umanità, ma adesso, avendone coscienza, crea in me una fortissima sensazione di disagio, il disagio della tecnologia vita, della vita che in parte, forse in toto, è tecnologia essa stessa; però, non ho più bisogno di accedere a una schermata: muovo velocemente la testa e sono collegato con milioni di altri esseri, di altri soggei, di altre parti di macchine, di altri sistemi comunicanti. Personalmente sono più portato a vedere e a sentire questo lato, che è il lato, se vogliamo, dell’esperienza estetica in sé, in cui si risolve o, se qualcuno pensa che sia
troppo nichilistico il dirlo, si ridissolve tua la vita. La comunicazione è frenetica. Rispeo a quale scala sia frenetica io non lo so dire… Ma mi sembra troppo aspeare un secondo in questa dimensione, mentre mi piace aspeare see ore angosciato una persona amata. Mi piace o mi terrorizza. Adesso si parla molto di TV tematica. ali sono i seori su cui si deve puntare per avere dei canali tematici di successo? I canali tematici di successo, purtroppo, si può intuire quali siano. Ci sono diverse gamme di “canali nostalgia” che potrebbero avere un oimo successo, anche di nostalgia dell’immediato, nostalgia dell’anno prima, addiriura canali indicati dall’anno, in un certo senso. E poi è sufficiente scegliere le discipline più preesistenti in diversi seori; nel campo televisivo, per esempio, può essere lo sport. Io credo che esistano diverse forme di collezionismo che sopporterebbero e supporterebbero un canale tematico, e trovo che il canale tematico arrivi tardissimo non solo in Italia, ma, in generale, come servizio. Il canale tematico aveva senso nel momento di trionfo della televisione generalista, non nel momento del suo declino. Nel momento del declino, viceversa, questo sviluppo è in ritardo rispeo a quello che i mezzi già vecchi ci avevano fao intravedere. Ripeto: il canale tematico è vecchio rispeo alla TV generalista, perché si traa, ora, di spezzeare, di sistemare, meere, sugli scaffali, in vendita quello che prima era un po’ più confusamente venduto. Credo che si trai di una banale risistemazione del mercato. A mio avviso ciò che manca è l’intensità televisiva, il fascino del pericolo televisivo. La televisione, di nuovo, è abbastanza indifferente all’intensità come io la intendo. Se io avessi in mano un canale tematico cercherei di inventare, di scrivere un’altra televisione, già sapendo, però, che ho in mano un vecchio strumento di comunicazione, una cosa tramontata prima ancora di apparire. Non crede che con queste tecnologie, sia delle forme di televisione più avanzata, sia Internet, rischino di creare una classe di esclusi?
Sicuramente! E ciò anche prescindendo dalla formazione culturale e dalle stratificazioni di classe. Per rispondere esaamente alla domanda, credo che gli esclusi sarebbero, paradossalmente, i privilegiati, i privilegiati e gli esclusi si toccherebbero, si darebbero davvero la mano. In un futuro immediato, neanche prossimo, il privilegio dei potenti o di individui particolarmente liberi rispeo agli obblighi della comunicazione e alla comunicazione come obbligo, come dovere sociale (che è veramente l’idolo più orripilante del nostro tempo), trovo, sia quello di non dovere comunicare, di essere liberi da quest’obbligo. Naturalmente, per altri la cosa terribile sarà non potere neanche accedere a quei quindici minuti o secondi warholiani di celebrità, di sicurezza del passaggio televisivo che dà il senso d’identità o che conferma il bollino sulla carta di identità. Mi piace pensare che tra dieci anni si richiedano case senza cavi di nessun genere, poiché, in maniera forse utopica, ridicola o fantascientifica, non si ha bisogno di cavi! Così come, in qualche modo e con alcune persone, quelle che si amano o si odiano di più, si ha un contao che prescinde dalle leere, dalle telefonate; non si ha bisogno del telefono, non si ha bisogno del cavo. A volte sembra davvero di essere in contao; rarissimamente, ma succede. Io credo che di ciò Internet sia il simulacro, non delle nostre forme di reazioni già avvenute, storicamente depositate, ma di qualche cosa che non conosciamo bene ancora: di un tipo di comunione, comunanza più che comunicazione dove non c’è bisogno del mezzo, del feticcio. [intervista rilasciata a Bologna, durante il FuturShow del 1997]
Il mezzo è l’aria
Cercherò di spiegarmi con una frase che per me è una specie di titolo, quando mi si chiede qualcosa sulla televisione, e che si lega all’immagine evocata da Nadia Fusini alla fine del suo intervento: è il “dammene troppa” di un aneddoto di Chamfort – un bambino, chiedendo alla madre la marmellata, le diceva “Dammene troppa”. È diverso dall’immagine evocata da Nadia Fusini, questo “troppo” stroppia, eccede, per usare una parola che ho usato eccessivamente in questo piccolo libro. “Dammene troppa”, per me, è innanzi tuo un dato puramente biografico. Dal momento in cui ho inquadrato questa frase, mi è parso di ritrovare il modo di impegnarmi, un po’ ciecamente, in alcune dispute con il linguaggio, con l’istanza del linguaggio, fin da quando ho iniziato a parlare, con i giochi di parole, le ripetizioni, le ossessioni. In anni più recenti questo “dammene troppa” era un po’ la risposta all’istanza “calmierante” verso la televisione. È un’istanza che mi sembra patetica, però dal punto di vista delle istituzioni, delle regole civili, democratiche, è un tema molto presente. Mi sembra che nei regimi democratici, ad esempio nell’Italia degli ultimi venticinque anni, si sia creata questa istanza calmierante, per far sì che non ce ne sia troppa, di televisione, che non la si voglia troppo. È così stupido e fragoroso questo soofondo, verso cui Nadia Fusini esprimeva una paura e una distanza. Ma naturalmente si può dire che per me la televisione sia un surrogato, una domanda ossessiva, un’istanza ossessiva, la televisione come oggeivazione di basso profilo di una possibilità, di una presenza ossessiva del discorso, dei discorsi; è continuamente un’immagine che bae tra il positivo e il negativo, un bianco e nero rovesciato, e lascia completamente aperto il giudizio, è
in qualche modo richiesta in sé. esto “dammene troppa”, in modo molto ingenuo da parte mia, mi pare una sorta di principio-speranza, che è quello del bambino, per cui la ripetizione riproposta, richiesta, risperimentata di un piacere già provato, possa costituirsi alla fine di un godimento che ecceda la dimensione del piacere, oppure che si trovi in questa ripetizione il godimento di cui il piacere è ombra riflessa, indizio. “Dammene troppa” è chiaramente un’oscurità del linguaggio, un equivoco contro un’assoluta chiarezza. “Dammene troppa”, perché al bambino che chiede la marmellata viene deo “Non prenderne troppa”, ma è sempre poca rispeo a quello che vuole; quindi, quello che voglio è il “troppo” dell’altro. È vero che la televisione è un’immagine bassa di questo “troppa”, la televisione è certamente “troppa”, è certamente lì, spenta o accesa. Trovo che ci sia una sinistra grandezza nel fao che l’unico discorso che si pone, sul piano dei moti delle rivoluzioni – in senso tecnico, scientifico – è proprio la televisione, che considererei una forma estenuata, degradata del cinema, ma che dà il senso di una presenza costante di un lavoro altro, o dell’altro, assolutamente inquietante. Forse, come richiamava Nadia Fusini, la televisione non è il luogo dell’angoscia, ma la risposta all’angoscia. A me viene sempre in mente il finale di Il cruccio del padre di famiglia di Kaa. È un discorso in soggeiva del padre di famiglia, dove si dice che quello che più inquieta di questo roccheo – oggeo eminentemente analitico – di questo animale-oggeo, pura finzione, anima-animale che si muove nella polvere, nel sooscala, nella casa, non si sa se pericoloso o meno, quello che lo inquieta è che questo roccheo possa durare più di lui. È questa la cosa che inquieta il padre di famiglia. La televisione è inequivocabilmente questo roccheo. Normalmente possiamo pensare che nel giro di tre o trent’anni sarà soppiantata da reti telematiche diverse, magari collegate, bio-impiantate, neuronali, che perderemo per esempio la presenza dello schermo, ma quello ci porta
semmai a una maggiore chiarezza. Non c’è dubbio che lo schermo, lo sguardo, la visione ci fanno perdere di vista il fao che, nella televisione, non si traa di “vista”. Ci sono moltissime persone che usano la televisione come una radio: basta sapere che un’immagine c’è, come sappiamo che la terra gira, che c’è la luna, come effeo di discorso; la televisione è questo effeo di discorso, è una rivoluzione ipercopernicana, sappiamo che gira, che ci sono nastri di immagini ininterroe, che c’è la direa – che è molto più direa e automatica della direa intermiente in cui combaiamo vivendo, a seconda dell’allucinazione soggeiva che abbiamo e della sua intensità. Credo che invece questo “dammene troppa” si indirizzi molto bene verso il poco della televisione – il poco da vedere, anche nel senso, tendenzialmente, di immagine piccola, sporca, poco costosa, disseccata, trascurabile. La televisione non si vede, non c’è bisogno di vederla. Come tui i discorsi che assicurano la loro presenza, dobbiamo semmai riaccenderla. Spenta o accesa, è sempre accesa, e non a caso quando si chiede a chi insieme a noi è casualmente esposto a un momento di visione televisiva che cos’ha deo quella persona, che cos’era quella cosa, cosa si è visto, nove volte su dieci quella persona non sa rispondere – come noi non sappiamo rispondere, dato che lo abbiamo chiesto. Non c’è la frase esaa, non c’è l’immagine esaa, c’è una memoria che si disfa mentre si vede, perché tanto c’è, non c’è bisogno che sia reinteriorizzata. C’è una sorta di illuminismo nei confronti del fao che questo mezzo, questo sistema va da solo, e che quindi non è un mezzo di trasmissione, né potente né debole – è sicuramente ineo come mezzo di trasmissione, se se ne analizzano politicamente gli effei di consumo o di orientamento politico in senso streo. Può darsi che sia una mia patologia il fao di non averne abbastanza di una cosa che è così palesemente mediocre, oppure una mia illusione, una proiezione infantile, quella di prestare godimento ad un luogo così palesemente del piccolo piacere… Mi viene in mente adesso quella frase di Lacan da
Télevision, in cui parla della verità che è impossibile dire tua, però nel non poterla dire tua c’è il modo di toccare au réel, di entrare in relazione, di cogliere il reale. esto mi pare uno dei discorsi più occasionalmente lucidi sulla televisione – infai il titolo è dato solo dall’occasione, la televisione era la cornice, il set vuoto, non era certo un discorso sulla televisione. esta televisione è proprio l’impossibilità di dire tua la verità, è esaamente l’inquietudine del padre di famiglia rispeo al roccheo che va avanti da solo. Ma questo luogo, questa rete, questo spazio-tempo, questa televisione può andare avanti indefinitamente – lei sì, ha il tempo – mentre noi siamo costrei, invece, a dare senso, e quindi magari a criticare la televisione, a dire che fa schifo, che i programmi sono brui, siamo costrei a questo dalla mancanza di tempo, dalla morte, siamo costrei al senso dalla morte, siamo costrei a cercare una comunicazione più precisa, a chiudere dei sensi mediante piccoli cortocircuiti. Mentre invece c’è un discorso che va avanti in una sorta di sembiante di eternità – in questo la televisione è davvero un passo fortissimo oltre il cinema, che invece investe sempre una situazione più basicamente analitica: la proiezione, il soggeo, la normalizzazione cubista del soggeo. Spesso, sicuramente per questioni molto precise, molto politiche, molto citate dal continuum televisivo italiano del periodo, sembra che fuggire dal contingente televisivo sia quello che la televisione permeerebbe, imporrebbe di fare. Ma non possiamo credere davvero che la televisione sia quello che vediamo in televisione. È così palese che la televisione non è quello che vediamo in televisione, che solo con difficoltà è una possibilità; è piuosto un ao aivato, in buona parte da solo, e che in questo senso ci richiama a una hybris che è quella dell’autore, di televisione o di cinema, ma che è uguale da parte del leore. È come la leeratura: non possiamo pensare che la leeratura sia davvero un insieme di testi, di libri, di critici. La leeratura, se c’è, è lo spazio di tuo questo, il tempo implicato da questo, è l’interminabilità stessa, l’idea di generazione – in tui i sensi – a cui allude. E se perfino per la leeratura, che pure dipende in maniera così
palese dai testi, possiamo avere questo dubbio, in televisione nel momento in cui a ogni istante sappiamo che ci sono, non un fiume ma un insieme di gocce, di fiumi, di correnti, non possiamo davvero pensare che la televisione sia quella che vediamo. Intendiamoci, possiamo analizzare benissimo ciò che vediamo: pura astrazione, ancor più che in leeratura, dove solo un genio folle come Rimbaud può dire a diciassee anni: “J’ai lu tous les livres.” Come possiamo dire “Ho visto tuo in televisione”? Allora non è quello che vediamo, probabilmente vediamo più un’impossibilità che una possibilità. Ho avuto come una specie di sconnessione perceiva, che l’udito e la vista seguissero canali diversi, come capita in fuori orario, per cui mi è risultato più facile seguire la sua voce che la sua immagine. È possibile che una persona riesca ad acquisire un senso critico guardando la televisione, che la televisione possa insegnare un senso critico rivolto alla televisione stessa? indi, un senso autocritico, dal punto di vista della televisione… Mi sembra di sì, perché la televisione istituisce un quadro talmente eccedente, anche se purtroppo raramente eccessivo rispeo al soggeo, che la possibilità di aivare una critica è fin troppo forte. Il problema è che, per quanto la televisione sia meschina, mediocre, è troppo facile l’aeggiamento critico, produrre distanze critiche verso la televisione sembra essere addiriura l’aività principale della televisione; forse ha anche a che vedere con la paura del potenziale ansiogeno della televisione, che viene criticata per la sua indoratura, vagamente euforizzante, che ha come rovescio continuo l’istituzione di una situazione angosciosa. Basti pensare alle news, che senza dubbio producono un contao angoscioso con una pluralità di situazioni, forse meno gravi che in passato, o forse gravi quanto in passato – è difficile quantificare le situazioni di guerra, di tensione – però sono tue presenti e richiamabili. Mi capita di entrare in contao con una serie di situazioni ansiogene, in cui l’ansia è principalmente dovuta forse al contao secondo cui si produce un cinismo diffuso, per cui so che qui muoiono
centomila persone al giorno, lì dieci, e i dieci possono sembrare pochi, però magari pesano di più perché sono soo casa… Relativamente ad altre situazioni, credo che la situazione televisiva produca una facilità automatica di distanze e posizioni critiche. E di questo ha una fortissima consapevolezza la televisione stessa; quasi tui quelli che fanno televisione, anche i personaggi più tronfi, prima o poi hanno bisogno dell’assenso della “Gazzea di Parma”, una critica negativa li rende angosciati. C’è bisogno di essere autorizzati, perché si è dentro il potere, dentro una situazione forte che invece è di assoluta vuotezza e nudità, è una pura apertura. Tanto più uno ha successo, tanto più, nell’avere successo, si identifica con una sorta di apertura, di femminilità, che è già il nuovo del cinema con l’essere passaggio, e quindi ha bisogno che vengano riconosciuti un suo ruolo, una sua bellezza, una sua forza, una sua riuscita, una sua forma particolare. Ripeto, forse è troppo facile l’aivarsi di un meccanismo critico verso la televisione. Credo che gli aeggiamenti più precisi, più lucidi verso la televisione siano – senza fare riferimenti a situazioni di tipo psicotico – l’infanzia e gli anziani, che a un certo punto identificano la loro memoria con stati molto lontani e a volte dimenticati, a volte mai raccontati prima a se stessi, spesso reinventati. este persone aribuiscono una realtà, ancor più che un’autorità, alla televisione che è affine a quella che si aribuisce abbastanza volentieri, innocentemente, alla fiction, che è una situazione verso cui e più facile abbandonarsi. Ci sono fiction che possono durare quindici anni: una fiction che dura quindici anni forse è più vera, più reale, più personale di una storia d’amore. Tue le forme di critica che si rivolgono alla televisione credo che rientrino nel risibile comico, hanno la faccia di una persona, hanno a che fare con la predilezione di un genere rispeo a un altro, di un colore rispeo a un altro, di alcuni autori, di alcuni stili. Ma credo che dobbiamo intendere la sua domanda come: come l’oceano può aivare una critica verso l’oceano? La questione non è il mare della Sardegna o le Isole Vergini o altro, ma l’oceano.
E allora direi di sì, che la televisione non dà, ma è una grande possibilità critica, Si può essere critici se cogliamo un senso critico talmente soggeivo – perché poi è sempre soggeivo – da essere così impersonale da risultare una critica a noi; altrimenti ci accontentiamo di cogliere gli infiniti elementi da criticare che ci sono continuamente offerti dalla televisione, ma è un altro gioco. Lei dice che tua la comunicazione è pubblicità, se non è amore, e che non è controllabile. Ma la pubblicità nasce come controllabile, nel senso che è progeata con finalità precise, anche se non è prevedibile nei suoi effei. Allora mi chiedo come le finalità stabilite e gli effei prodoi entrino in relazione, quando non si parla più di prodoi vendibili, ma si toccano altri campi, quali la politica, l’informazione ecc. Rispeo al rapporto tra televisione e pubblicità, può essere una pura coincidenza: tua la comunicazione, tua la televisione è pubblicità, se non è amore. Non riesco a vedere, purtroppo, prodoi o cose non vendibili. Parlando di politica, di valori, non credo che in questo senso la pubblicità sia più mercificata e mercificante dei discorsi o delle proposte che riguardano altri tipi di mediazione, di mercato. La pubblicità è semplicemente un tentativo di rendere costante una variabile – il desiderio – in rapporto al capitale, di indurre i bisogni. Credo che la pubblicità sia vicinissima all’amore, è questione di spostarsi lungo una linea senza forma, come le vere ree, che sono all’infinito; la pubblicità è probabilmente una sorta di onestà del discorso inteso come ratio: se il discorso vuole avere una ragione, se vuole convincere, è un discorso pubblicitario. Non voglio dire che pubblicità e propaganda coincidano esaamente, ma se il discorso ha un fine è un discorso, indipendentemente dal fao che voglia vendere dei detersivi o voglia vendere solo magari la capacità di convinzione di chi parla, che è il grado più astrao di questo vendere e di questo farsi pubblicità, la retorica più sublime: vendere se stessa. Mentre la pubblicità dissecca, ma in qualche modo realizza la comunicazione intesa come sistema chiuso, l’amore, la comunione fonde i momenti dei soggei, li
confonde, e non solo secondo un calcolo di quantità. In questo senso di nuovo non riesco ad indicare la televisione come comunicazione o come forma amorosa o come pubblicità, che potremmo dire essere il punto medio. La pubblicità indica una clamorosa mancanza di controllo, il tentativo di indirizzare quello che non si controlla più. Fin dagli anni cinquanta sono stati fai molti esperimenti di un sistema pubblicitario chiuso, di una verifica dei messaggi pubblicitari sul mercato, su una ciadina. L’ultimo caso conosciuto è della fine degli anni oanta, in Germania, una ciadina monitorata costantemente, utilizzata mediante una rete locale per verificare il funzionamento dell’insieme dei messaggi pubblicitari. La sola idea di globalizzazione richiama l’idea di un monitoraggio incontrollabile – come monitorare contemporaneamente tui i sogni – si entra nel campo dell’interminabile, che è una grande chance all’interno della televisione. Mi pare davvero un’illusione quella che noi possiamo controllare la pubblicità – i pubblicitari vanno alla cieca, vanno a vuoto, non c’è un solo discorso dei pubblicitari, se non quando ammee la propria casualità, per il resto enunciano quelle quaro o cinque regolee che già Aristotele aveva ben sistemato. Mi pare che in questo libro [Il mezzo è l’aria] lei parli di due aspei del tempo che si contrappongono in maniera un po’ paradossale. Da un lato la televisione e i cosiddei mezzi di comunicazione di massa sembrano introdurre un tempo caraerizzato dall’istantaneità, un tempo che si restringe fino ad annullarsi, dove tuo sembra immediatamente disponibile e dove l’aesa non è sopportabile perché diventa tempo vuoto e inutile. Dall’altro lato un tempo immensamente ampliato, illimitato, che tende a infinitizzarsi e a eternizzarsi. Sono due estremi che sembrano annullare la dimensione in cui il soggeo può trovare posto, due estremi che, in questo senso, si toccano. Mi chiedevo se la sua proposta può anche essere intesa come un lavoro, sia da parte di chi nella televisione opera, sia per chi ne è “speatore” e fruitore, per ricavare e ricavarsi uno spaziotempo soggeivo, ovvero un tempo in cui ci sia spazio per il soggeo.
Riguardo al tempo, adesso su Raitre sta girando Heimat, la cui prima parte copriva una quarantina di anni, la seconda parte copriva una quindicina di anni, e qualcuno, scherzando, disse a Reitz che avrebbe dovuto fare trenta ore su un minuto, su un’ora. Credo che la televisione sia questo: l’esperienza della possibilità televisiva dei canali, dei flussi paralleli ci dà la possibilità di girare il mondo e di girare il tempo, i tempi. In un minuto puoi esperire un senso di interminarietà concentrato, cioè micro e macro con la televisione – per questo dicevo che la televisione è qualcosa che si avvicina in ao, è un esperimento continuo, senza forma, senza sostanza, come possibilità di forma, come forma della forma. ella del tempo è sicuramente la forma più vicina ad essere la forma della televisione – se ci fosse una forma della televisione. anto si va dicendo stasera, rispeo alla questione dello sguardo, mi ha ricordato mia nonna. Nessuno riusciva a convincerla che non andava da sé che, come lei poteva vedere i personaggi televisivi, loro non vedessero lei, quindi si meeva composta e salutava. In effei, aveva colto l’essenziale di quel mezzo nuovo e sorprendente. Non era tanto presa dai messaggi che venivano trasmessi, ma era lì inchiodata sulla poltrona da uno sguardo. Mi chiedevo se non è proprio perché si traa di sguardo che la si ama o la si odia, che fa parlare di sé, senza che mai si riesca a definire quel qualcosa che, al di là delle immagini, tiene legate milioni di persone al video. Non sono mai riuscito, fin da piccolo, a dare una valutazione negativa alla questione dell’inchiodamento-schiodamento: quello dell’evasione, della fuga, l’ho sempre visto come un discorso del padrone, come un discorso forte, intenso e sicuramente infondato, ma una discussione su questo non porta, credo, a identificare una ragione, se non il fao che il tempo non bastava, e questo del “non perdere tempo” era sempre il discorso del più anziano. Io credo che le nonne, le quali vedono la televisione già su un piano di fantascienza, la interaivassero loro; non so quanto questo sia legato al vedere. Ricordo una mia nonna diventata completamente cieca che stava sempre davanti alla televisione e la
commentava come se fosse radio, come se fossero tue notizie, tuo film. Come si conciliano le sue frequenti dichiarazioni di amore per Debord con quanto diceva prima del suo disaccordo con i genitori che, contrapponendo vita a speacolo, la invitavano a non “perdere tempo” al cinema? Non le pare che questa contrapposizione fra vita e speacolo-merce sia proprio al centro della concezione di alienazione in Debord? Nel chiederglielo provo anche a darmi una risposta: lei lascia da parte la posizione dello speatore-critico a favore di una proposta di deriva nel flusso ininterroo in cui tendono a dissolversi i singoli speacoli televisivi, rispeo ai quali dunque non ha più senso un giudizio, che continuerebbe a rivolgersi ad unità discrete in sé compiute. In questa deriva, invece, i tagli e i nessi operati sul continuum si affidano all’incontro casuale, alla trovata il cui valore scaturisce dal desiderio di colui che, a questo punto, dovremmo chiamare giocatore, più che speatore. Forse è in questo spostamento dalla “passività” dello speatore all’aività, meno affascinata, del giocatore, che mantiene qualcosa della lezione di Debord? Oppure, più semplicemente, lei lascia cadere quello che in Debord rimane come nostalgiautopia di un superamento dell’alienazione? Esprimo spesso la mia ammirazione e consonanza con Debord, che mi piace moltissimo come autore. La sua frase stessa, l’autoesergo, secondo cui la vita vera si rinvia in uno speacolo, si allontana e noi godiamo solo lo speacolo, a me piace molto perché mi sembra una descrizione della vita, della vita vera. L’altra cosa che mi piace molto è il Debord politico, autore di sovversione pratica, quindi scriura e politica. indi due cose estreme, astrae, e in mezzo c’è la persona Debord, che non con gli amici si perde tempo, ma questo perdere tempo non solo non ha un alone negativo, ma costituisce, è questo. Allora forse lasciamo cadere dalla comunicazione l’urgenza, il “bisogna sbrigarsi” a dire delle cose determinate perché sono utili a questo o a quello. D’altra parte non lasciamo cadere il sapere che comunque il tempo ha un limite ed è un limite, e che
quindi qualcosa di un senso di ritorno lo dobbiamo cercare. Mi sembra che questo tempo lo si perda perché è prezioso, che se amicizia e amore possono fondarsi sul “perdere tempo” insieme, allora traggono il loro valore dal valore di quel tempo perduto e ritrovato. Mi sembra che non sia l’avere poco tempo a renderlo prezioso, ma piuosto che è perdendolo che lo rendo prezioso. È qualcosa che per me ha a che vedere col gioco, col giocare il conceo di speacolo, speacolarizzare il gioco, il je-jeu, l’io che è un gioco, che si bua da solo la palla, che diventa palla, che quindi viene toccato dall’alto, ribuato. Non mi sembra così semplice usare lo speacolo come un frame preciso, riconoscibile, credo che sia un esempio di pigrizia filosofica. Come minimo, se utilizzi un frame come conceo devi almeno arrivare alla morte, non puoi rinviarlo conceualmente. [Serata di presentazione del libro di Enrico Ghezzi Il mezzo è l’aria (Bompiani), Torino, 16 marzo 1998, organizzata dalla Libreria Campus e da Bompiani, in collaborazione con la Segreteria delle Biblioteche e Scambi della sede di Torino della SISEP. Insieme all’autore sono intervenute Nadia Fusini e Rosa Elena Manzei]
[La televisione annulla l’arte] a cura di Roberto Costantino
[…] Vorrei tornare sul lavoro endless di Schifano e sul contrappunto dell’obbligo della produzione. Endless, però continuamente produivo come presenza sul mercato. esto era, nonostante l’entusiasmo, il momento più mortale, vissuto sempre a ridosso del deadline, con una certa angoscia del prodursi. (questo lo riscriverò) A proposito di quest’idea della televisione che non realizza ma annulla l’arte, sono d’accordo su Nam June Paik. Però oggi con Nam June Paik si è a un tale grado di istituzionalizzazione dell’arte per cui è anche facile dire quello che diciamo. Ma io parlavo del Nam June Paik di un tempo. Oggi sono d’accordissimo che la televisione annulli l’arte. L’arte che vorrebbe differenziarsi, distinguersi, viene invece uniformata dalla televisione che rende tuo televisivo. esto è chiaro. Tu cosa intendevi dire? Rappresentando un circuito, la televisione è di per sé il cortocircuito artistico più potente che esista al mondo in questo momento. È evidente che parliamo di reti, dove uno può meerci quello che vuole adesso, può arrivare ad altri generi di reti e navigazioni. Usiamo pure la televisione che è un mezzo vecchio, di nuovo, interessante perché è già passato, è passato come Nam June Paik. ella televisione è vecchia, testualmente è vecchia però, dato che il testo della televisione è invece sempre un contesto, questo è di gran lunga più avanzato della maggior parte dei discorsi e delle utopie e delle avanguardie artistiche del secolo. Non sta a me l’onere della prova, ma nel momento in cui vedo – e parliamo di funzione del campo delle arti visive –, ma anche nel momento in cui mi viene proposto come discorso lirico,
rapsodico o come argomentazione sul proprio lavoro una teoria, una realizzazione artistica nel campo delle arti visive – rispeo a qualunque premessa –, la televisione è più intensa, più spinta, più piena e più vuota. Si parla di essenzialità. La televisione è sicuramente più essenziale, cioè meno orpello perché gli orpelli li può mostrare tui, per cui sei più costreo e sei più abilitato a fare vuoto, quindi a raggiungere di nuovo una sorta di situazione zen. esto già in Enzensberger è un discorso che è stato fao. Ma io la televisione la vedo non come la realizzazione dell’avanguardia artistica. La realizzazione dell’avanguardia artistica allora è già il cinema. Ripeto: il cinema più banale – non dico Vertov, non dico i Lumière – era di per sé una messa in opera di tali e tanti codici – naturalmente lavorati pochissimo, ma lavorati talmente tanto in un gesto solo, in quei ventiquaro fotogrammi al secondo – che eccede di gran lunga la possibilità del pensarsi artistico di un gesto del genere. È come se un artista dovesse pensare un’olimpiade, e pensarla come realizzazione artistica propria. Cinema e televisione – quando dico televisione, consideriamola nel modo puramente quantitativo, come puro effeo moltiplicante e di rete – spossessano l’artista e il discorso stesso dell’arte; è la realizzazione in negativo – la visibilità – del discorso ancora hegeliano della morte dell’arte, per la possibilità accresciuta, spinta, eccessiva della riproduzione: il cinema è come se lo rovesciasse; tuo quello che era visto come il punto di fuga, il punto d’arrivo, l’orizzonte per Hegel, nel cinema è alle spalle, è terreno comune. Siamo fin dall’inizio nel camposanto. Non il grande artista, ma l’avanguardia trovo che sia patetica rispeo al cinema. E infai tui i grandi artisti d’avanguardia, interi movimenti, hanno percepito questa forza del cinema. Direi che persino il gesto afilmico di Debord – che è un gesto più ideologico che artistico – risente fortemente l’intensità del cinema e cerca di sbarazzarsi di tuo quello che resta impigliato nel cinema – narrazione, immagini – cercando di portarla alla pura vibrazione-tempo. Sono molto più heideggeriani i film di Debord che non il suo
scrivere. I suoi film sono fortissimamente heideggeriani, sfuggono all’ideologismo che c’è nel suo discorso sulla medialità, sulla rappresentazione. Per portarsi a una specie di grado zero – di autentico – che è il mito persistente, ahimè, in Debord – il mito della relazione autentica, il mito dell’origine che è fortissimo, bellissimo e patetico –, per tenersi aaccato a questo mito, nel momento in cui realizza un sogno, un’ipotesi filmica, non può che portarsi vicino allo zero, non può che rinunciare. Non rischia l’uso, non rischia di confrontarsi con quell’immagazzinamento automatico dell’archivio – inautentico –, che il cinema garantisce d’embleé. Tu dicevi che l’artista o è invisibile o non è. esto discorso sull’invisibilità vorrei che venisse messo a fuoco, come per contrapposizione al sistema dell’arte esistente su un piano fantasmatico, progeuale. Cosa potrebbe essere. Cosa intendi? Io trovo che il sistema dell’arte esistente abbia un fortissimo difeo: sembra non esistere, ma un po’ esiste e questo è il terribile difeo. Una costituzione di saperi, di poteri, di concentrazione capitalistica, di plusvalori che a loro volta producono e riproducono altro plusvalore: parlerei di macchinazione, comploo, perché in questo modo c’è un’aurea salvifica; se l’arte fosse macchinazione, comploo internazionale, in modo parasituazionista, avrebbe un altro senso. Io temo che non ce l’abbia, che non sia così. Magari! Però, pur non essendo questa macchinazione, l’aspeo della gratuita produzione di valore e plusvalore – invece tu’altro che gratuita –, serve molto meno a far circolare momenti di accensione e di intensità estetica – di sovversione del flusso dell’ordine costituito del tempo – che non a far circolare una certa media pubblicitaria fortunatamente e prudentemente limitata. È un sistema limitato come circuito, ma anche come range è abbastanza limitato. È una fortuna? Direi di sì. Nel senso che è immediatamente riconoscibile, comunque, nonostante le contaminazioni, nonostante l’evidente vicinanza col discorso delle pubblicità e della
pubblicità – l’altro grande linguaggio acefalo, senza soggeo – che ne mostra tua la fragilità. Ripeto: è solo la fragilità che mi interessa di questo circuito. In quanto produzione di senso e di plusvalore mi fa orrore. Però poi è talmente fragile, immotivato, con tui i suoi saperi, che è come lo specialista di corsa in salita, di corsa al cronometro, di corsa a tappe nel ciclismo. È come un piccolo affare di doping. È una specialità talmente limitata, mentre la televisione, la pubblicità, è il dispiegarsi di tui gli sport, di tui i gesti. Si può dire che l’arte in quanto visibile, faa manifestare dal sistema di circuitazione artistica, oppure dal singolo artista – quindi dal desiderio di accedere a questo sistema in un girone più o meno acceabile, più o meno infernale, più o meno industriale, più o meno artigianale – è sicuramente minimale, parodistica, risente esaamente della stessa aenzione e intenzione della pubblicità, ma ne è una parte irrisoria. Non a caso spesso risulta difficile distinguere il lavoro della moda, della pubblicità, dal lavoro all’interno dei circuiti artistici. Le contaminazioni sono continue. Ma io, più che di contaminazioni, parlerei di sicura coincidenza. La pubblicità è una rete di linguaggio molto ampia – la più ampia –, la più legata al desiderio, a una certa indeterminatezza, e all’interno di essa c’è come reticolo molto più piccolo, quindi come filtro, l’arte visiva. La pubblicità è l’astraezza che rende visibile e vendibile tuo – non parlo delle cose pubblicizzate, ma della cosa-linguaggio – e il bene che vende e fa circolare la pubblicità è sicuramente il desiderio. Poi i pubblicitari sono mediocrissimi artisti, anche se a volte ci sembrano meglio degli artisti. La pubblicità è tui i linguaggi in modo bruto. È come la televisione: Pippo Baudo non è un grande artista, ma è in grado di compiere gesti artistici infinitamente più complessi, fascinosi di un singolo artista – eremita o mondano non importa – accanito nel suo singolo gesto, nel suo singolo tentativo di mixare molti gesti, trovare il finanziamento per farlo. Facciamo un salto nell’invisibilità.
Siamo nell’invisibilità. In modo sublime nella TV che cancella a sua volta i film – i testi – che rende talmente incommensurabili che, davvero, non potrai mai dire di averla vista tua la televisione. E questo secondo me è un fao essenziale. La TV è la riproduzione di un’ipotesi cosmica, ma qui l’abbiamo sul piano del testo, sul piano delle cose che abbiamo creduto, nella civiltà occidentale, di costituire, tradurre, tramandare, identificare. Adesso un solo giorno di televisione è già intramandabile, e nello stesso tempo registrato, recorded, ma non ricordabile da un soggeo. Un giorno di televisione eccede già qualunque, non critico d’arte, qualunque esperto; ogni giorno si scinde in mille giorni: questo è quello che io chiamo il cubismo televisivo filmico automatico. Cinema-televisione-reti rendono invisibile, nel moltiplicare gli accessi, un testo, un’immagine. Puoi accedere in qualunque momento in un punto dell’immagine e a quel punto che sia un film di dieci ore, che sia un programma di mezz’ora, una sigla, un francobollo, non importa; se hai un francobollo in rete, c’entri dentro. Tuo questo lo vediamo nella grafica applicata alle reti, nella grafica via internet che ti permee di rintervenire in direa su qualunque immagine. esto – moltiplicando in far apparire e far sparire le immagini – fa veramente sparire le immagini in quanto costituite, sacrali – quella e non altra. La discesa, il tentativo dell’artista, del critico, di chi cerca di collegarsi soggeivamente, intersoggeivamente a una rete che possa essere definita fenomenologicamente di tipo artistico – di questo parliamo – oppure che si vuole collegare al proprio desiderio di dirsi nominalmente artista – meiamola in maniera più soggeiva, più stirneriana – ha come prima e unica chance, primo obbligo, unico orizzonte, quello di discendere in questo abisso di invisibilità. Deve comunque annullarsi, deperire, poi non so se perisca davvero e come possa riagallare. Superato il problema dell’intenzionalità artistica, del soggeo, nella produzione di un testo, di un avvenimento, di una performance – superata la grande aporia logica dell’arte non solo moderna che è quella di volersi definire tale, di
volersi affermare come separazione –, qualunque cosa tu mi citi, qualunque cosa io veda, qualunque Dokumenta, Biennale, mi capiti di araversare, qualunque cosa è lì piccolina, reificata e diventa micro-patetico consumo pubblicitario, vendibilità artistico-pubblicitaria, rispeo a macrovendite – o a momenti di manifestazione talmente ampie e seriali da essere oltre il commercio – che posso avere tra televisione, cinema e reti, quindi in un altro tipo di naturalità, di automaticità. Allora l’arte, l’intenzionalità artistica, ha come unica chance quella di farsi subatomica, subliminale, imperceibile. L’ideale è veramente il gesto di distornamento, il mondo intero come ready-made; è questo il punto di fuga, non certo il ready-made che di nuovo è patetico, intollerabile come decalcomania: è il mondo come decalcomania – non un pezzo di mondo, non questa penna, non il cesso, non un occhio –, è il mondo, la decalcomania da staccare da se stessi. Debord scrive alla fine degli anni cinquanta, nella sceneggiatura di Hurlements en faveur de Sade: “Il cinema è morto! Inizia il dibaito”. Ma Debord, suo malgrado, è recuperato dalla storia del cinema per i suoi film che tagliano, squartano e rimontano film già visti, musiche già sentite. Ma non solo: il cinema di Debord è recuperato e fao esplodere in televisione: la tua creatura televisiva, Blob, nasce dal cinema di Debord che viene sfruato in una televisione che rimangia quello che la televisione mangia. Il cinema di Debord più che far morire il cinema sembra diventare un modo per far nascere la tua televisione. Anche se Debord non viene recuperato per gli effei che produce, ma per come si riproduce e si struura quello che è il testo di Blob. Lo stornamento. Il cinema di Debord più che far morire il cinema sembra diventare un modo per far rinascere la televisione, finendola. Blob è la fine della televisione perché ricombina solo la televisione già avvenuta, che in qualche modo archivia, conserva, cambiandola di senso. Non c’è lo specifico della
televisione che è la direa. La televisione viene privata del suo futuro, si rivolge su se stessa. Non è un caso l’approdo televisivo di Debord, clamoroso. L’approdo mortale di Debord – concordato immediatamente prima del suicidio – il programma televisivo rivendicato, autoriale, veramente impensabile, la messa in onda poco dopo la morte de La società dello speacolo. Che tu hai mandato in onda. È andato in onda su Canal Plus – io l’ho rubato, senza mai avere problemi, ma l’ho rubato. È, come fao biografico debordiano, una contraddizione teorica molto forte. Un suicidio. Molto vicino al suo suicidio poi fisico. Secondo me questa deriva televisiva c’è, non so quanto pensata, ma a questo programma televisivo lui ci ha lavorato riprendendo La società dello speacolo. Potrei dire: gli rubo e gli presto qualcosa e che forse la televisione è la deriva del cinema per Debord, in quanto soggeo classico. Io trovo che Debord sia un soggeo classico – le subject –, addiriura cartesiano; neanche spinoziano, cartesiano. Come soggeo classico, come scriore olimpico, Debord vede l’insieme della società – l’insieme dei rapporti sociali –, paradossalmente, come incubo, come negativo, ma lo vive positivamente rovesciando il discorso del soggeo come deriva all’interno di una situazione televisiva. Sicuramente rispeo al cinema – il cinema è una cosa che vive la televisione come deriva –, ma probabilmente anche rispeo al suo stesso rapportarsi con le reti sociali, alla società come rete. Più tecnicamente, per restare non nella figliazione, ma nei riecheggiamenti – parlo soggeivamente – Debord è un riferimento occulto di Blob. Occulto nel senso in cui il nitore del discorso di Debord fa continuamente riferimento all’assenza, all’invisibile, al comploo illeggibile, a un sapere tecnico-maieutico che non viene comunicato, che non viene esplicitato, che non viene deo anche da parte sua, da parte del soggeo criticante. In questo senso Blob, ponendosi come teoria infinita – teoria nel
senso tecnico – si pone subito nell’ambito dei testi incommensurabili, dei testi a nastro, a circolo, a spirale, vivendo quasi esclusivamente dell’innescare altri Blob in ogni singolo speatore, e vive proprio – più che del bagaglio enciclopedico dello speatore, dell’enciclopedia degli autori, dei montatori, degli osservatori, dei blobbisti più o meno strei – dei fantasmi di comploo, delle criptografie di tui gli speatori. Una delle cose che mi hanno impressionato di più è che da parte di soggei diversi – e non necessariamente psicotico-paranoici – siamo stati interrogati: “Voi la sapete lunga, voi avete messo questo perché sapevate che questo politico ha un’amante, che è collegato con i servizi segreti iraniani”. Storie che forse sarebbero anche da seguire nelle loro volute, ma che mi interessano assolutamente come sintomo. La giustapposizione di immagini, che è quanto di più semplice possa accadere – e che di solito segue banalmente un Blob – quei cortocircuiti molto soggeivi, ma assolutamente banali e normali – si parte dai macrocomici del comico, si va ad alcuni codici di critica politica, di economia politica, di sovratesto filmico, metafilmicità, un po’ di citazionismo, un po’ di cubismo facile –, da queste operazioni molto semplici, gran parte irriflesse – tuo ciò viene fao in tempo quasi reale, c’è poco tempo voglio dire, ed è meglio: sono banalissime quando sono riflesse – quello che viene fuori è che dentro questa rete si annidano infinite criptografie potenziali. Per l’addensamento d’immagine, per la forza e l’intensità, funziona molto di più il reframing automatico, inconscio che non la critica o il distornamento voluto. È molto più forte il détournement che viene effeuato dallo speatore qualunque e soprauo dalle immagini stesse che si aaccano aldilà della ritmica del visibile – che è ritmica filmico-televisiva, montaggio –, aldilà della patetica retorica ejzenštejniana o vertoviana del montaggio, ma secondo dei montaggi interni che in gran parte ci sfuggono e che ci sono sempre. In realtà c’è molto che sfugge e che si aacca e si dispone da solo, l’operazione è così selvaggia – parlo di tempi –, così incontrollata – parlo ancora di tempi, di possibilità di riflessione, di mutamento, di correzione.
Pensavo a questa che è poi la contraddizione dei film di Debord. La società dello speacolo alla fine non riesce a distinguersi da quello speacolo, nonostante la voce fuoricampo – togliendo l’audio la cosa si sente e si vede ancora di più –, non riesce a distinguersi, a separarsi da quella società dello speacolo che vuole portare sul banco degli imputati. Alla fine la ripete questa grammatica che è della televisione, in maniera anche molto facile, con la pin-up, con le immagini di moda. Invece Blob riesce a fare una cosa, anche se storicamente Blob non riesco a renderlo futuribile – per me Blob oggi è molto prevedibile e immagino che sia da te condivisibile… Per me, ahimè, da sempre è prevedibile. Era già prevedibile quindici giorni dopo aver iniziato. … la cosa interessante di Blob è che questo détournement, questo montaggio per cui mi veniva in mente Debord, si muove su due piani paralleli, che sono quello della pubblicità – perché Blob ha una grande forza pubblicitaria… Ce l’ha anche avuta. … ma al tempo stesso riesce a coniugare l’essere pubblicitario con l’essere sovversivo – quando Debord, invece, avrebbe voluto essere solo sovversivo. Blob fuoriesce immediatamente dall’immagine e arriva al giuridico: è in quell’aula di tribunale dove viene anche leo. Blob ha molto a che vedere con la casistica. Blob è casistica. Ci sono questi due estremi. Ripartirei anch’io di nuovo da Debord. La società dello speacolo fa un’operazione che è costrea, immediatamente, a soggiacere al fascino della società dello speacolo. È curioso: è come quando parla di autentico, Debord; è come se ci fosse un punto che potrebbe essere solo – io lo dico a mia volta, ahimè, ideologicamente – il punto della non comunicazione, ma dell’ultracomunicazione – che è l’amore, che è la concentrazione, l’accecamento, la sospensione – ed è quello, che non viene mai toccato in maniera direa per pudore, oppure non si capisce. Poi, quanto l’immagine è
riproduzione, segno di un altro segno, quanto è tradizione nel senso di tradire, tuo questo Debord non se lo pone. È molto primario e politicamente ingenuo sull’immagine e sullo speacolo, Debord, che ha il merito immenso di aver riconosciuto una sorta di fantasma hegeliano nello speacolo che è una ridefinizione dell’esistente: lo chiamiamo speacolo, ma è mondo. In questo reintroduce classicamente, addiriura più indietro rispeo a Montaigne, la possibilità di uno scarto: c’è l’autentico, c’è il fasullo dello speacolo, il distante dello speacolo, rispeo a una tangibilità, a una vivibilità. Ma l’immagine, ahimè, sconta in partenza la cosa di cui lui parla, perché è già mondo e se il mondo può essere autentico è autenticamente lei. La relazione che io ho con lei è assolutamente meno importante per essa di quella che essa ha già avuto con qualunque cosa si sia mutata in immagine. A quel punto è una relazione quasi puramente tecnica, oppure aiva una mutazione addiriura di tipo genetico. Basta un po’ di lavoro nel campo delle psicologie evolutive, di riallargamento del discorso della fase dello specchio da una parte, e sul déjà vu dall’altra, e hai prospeive abbastanza fascinose o terrificanti su quello che interviene in qualunque organismo più o meno vivente quando arriva il contao per immagine, il contrao visivo, la velocità luce, e probabilmente oltre. Allora quando tocca un’immagine tuo questo non è che sfugge, non viene neanche esaminato da Debord che, anche nel fare cinema – che è così vicino al disfare, al non fare, quando lo fa – è di nuovo classico. Ha una posizione di soggeo, oggeo: “Non voglio reificare, quindi meno oggeo possibile.” Oppure: “La Società dello speacolo, il mio montaggio è virtuosamente sovversivo e perverso, cambia quantomeno l’ordine degli addendi, ma cambia anche un po’ la forma degli addendi.” Meiamo pure che il détournement riesca – riesce di più con mezzi più rudimentali come il fumeo dove l’immagine non è legata a un imprinting fotografico – e direi che si riapre adesso, via reti, a un uso sovversivo, falsificatore, détourn-citazionista in senso situazionista dell’immagine. È quello che vediamo continuamente delle immagini, delle informazioni. Checché
se ne dica è diventato più facile oggi diffondere notizie false che non quando c’erano autorità che potevano farlo più facilmente di altri, ma erano quelle, le fonti erano minori, quindi c’era maggior controllo di solito interessato da parte delle fonti, quindi dei saperi – da parte dei critici d’arte, starei per dire, rimpicciolendo la visione –, mentre, del resto, questo controllo fa abbastanza ridere per quanto ci sia, fa ridere, fa piangere, ma insomma è dell’ordine dell’emozionale. Blob. Dicevi pubblicità, da una parte, e – non so come chiamarla – critica o sovversione dall’altra. Blob, l’unica chance di sovversione che ha, è di essere – io lo dico sempre con molta tranquillità – rigorosamente, fortemente istituzionale. È l’istituzione che si rende sovversiva. Ho sempre sostenuto che la forma e la forza di Blob, così come la forma di quella Raitre, di quel momento televisivo, è stata l’autonomia, l’essere fortemente istituzionale, l’essere uno sparo sul quartiere generale da parte del quartiere generale stesso. È un discorso che è andato continuamente in frantumi. Raitre si è frantumata in due mesi, poi sono rimasti i programmi che hanno risentito di una sola cosa, della forma della loro autonomia che è rimasta. È rimasta la traccia di allora, ma non c’è nulla di autonomo adesso, secondo un discorso biecamente politico e dell’oggi, però basta l’eco di quell’autonomia, di quell’autonomia di gioco un po’ nichilistico-sovversivo in sé. Non dico che Augias, Raffai abbiano avuto intenti o comunque possibilità sovversive – senza arrivare a Blob –, oppure il piccolo borghesismo di Chiambrei, l’energia santoriana così populista ancora, e pubblicitaria. Tra l’altro, è da notare che se c’è una rete – che pur dovendo affermarsi allora, perché partiva dal quasi nulla in termini di esposizione e di leggibilità – che ha rifiutato quasi a priori il discorso della pubblicità intesa come ruolo, genere tecnico – la pubblicità, gli spot sui programmi – è stata Raitre. Non parlo dei programmi miei, nostri – Blob, fuori orario, Schegge – non hanno mai avuto spot,
indipendentemente dalla durata, semmai sono stati pensati come l’altro dello spot, come si dice tecnicamente, professionalmente a proposito di Blob, perché c’è una brevità, c’è un obbligo di efficacia e di economia. Non lo si dirà mai a proposito di Schegge, ma Schegge, che andava in onda in un palinsesto, fuori orario lo stesso, erano la pubblicità di un’idea di non-programma, la pubblicità non per noi stessi ma per nessuno, per un’idea di nulla di non-programma. Allora questa rete, nell’insieme, aldilà di questi singoli programmi molto particolari, molto particolarmente orgogliosi di ciò, è una rete che ha fao pochissimo ricorso alla pubblicità costruendosi tua come un gioco di linguaggio paragonabile al gioco che è la pubblicità, cioè un gioco acefalo – è un bene che ci siano dei bravi copywriter, però è un gioco nell’insieme acefalo – che risente positivamente della forza dei linguaggi e cerca di immeergli dentro quell’altro circuito forte di energia che è proprio il circuito del desiderio, di un certo vagare, incrociarsi del desiderio. All’interno di questo – sto un po’ teorizzando, mentre non è mai stato teorizzato, posso testimoniarlo –, l’unica cosa che non ha avuto bisogno di essere teorizzata, ma che è esistita, ripeto, è la forma autonomia che ha permesso proprio un giocare. Teorizzando adesso, dico che rispeo a questa intemperia, a questa ipotesi un po’ disseminata di televisione – Blob, Schegge, fuori orario, però prendiamo pure solo Blob per il suo caraere vagante di testo sempre sfumabile, di inizio garantito, ma di durata differente, al servizio addiriura della manipolazione da parte del palinsesto, tenendo conto che facevo io il palinsesto e quindi era un po’ un autoblobbarsi –, l’autonomia era quella di farsi male da soli, meersi in croce da soli. Poi ovviamente c’è un autologoramento dovuto all’intensità automatica di Blob. È quello che dicevo prima: anche Blob non può essere all’altezza di Blob, dell’eventuale automatismo-artistico di Blob. Nessuno dei blobbisti, nessuno neanche dei programmisti, neanche dei direori di programmi o di rete, può mantenere quell’intensità: dovrebbe inabissarsi, infai probabilmente Blob doveva diventare pezzi di quindici
secondi da disseminare nel palinsesto, ma è impossibile in un palinsesto comunque paracommerciale. Ci vorrebbe un tale gesto di autonomia e di autoritarismo che oggi sicuramente non esisterebbe, ma già allora è stato difficile, impossibile proporlo. A proposito di questa discesa nel subliminale, nel subatomico televisivo, la forza principale di essa era quella di provenire in qualche modo dal quartiere generale, di essere istituzionale – fragilissima, ma sacralizzata dal fao di venire inalberata come un’insegna, esibita. esto rende Blob, molto banalmente – senza nessun merito da parte mia, nostra – di un’intensità artistica notevole che non – anche questo l’ho deo mille volte, e lo dirò sempre – nel caso di un’elaborazione maggiore in spazi più protei, più garantiti, meno sooposti a censura – io parlo di censura, poi è diventata anche tecnica la censura, ma inizialmente è la censura di chi scrive, delle mamme, dei bambini, di chi vede queste cose alle oo, mi telefona e si scandalizza eccetera. È stato essenziale essere lì, in quell’ora dove si agita il continuum delle notizie, delle news, dove c’è uno scontro tra televisioni commerciali, dove c’è l’inizio della prima serata – subito prima –, come margine ma margine dell’incandescenza economico-commerciale della televisione. È essenziale questo, era come essere immediatamente nella Fih Avenue nel virtuale televisivo, nel virtuale molto pesante, molto tangibile. Che mi importa di farlo, ora lo vorrei fare io, ce lo chiedono tanti perché non lo vedono di giorno – cosa vogliono vedersi affare all’una di noe – la replica, prima di fuori orario, di Blob di cinque minuti, già così ridoo ai minimi termini come piccola icona di se stesso in omaggio al fao che se no si direbbe che ce l’hanno chiuso. Però è più importante restare lì, con una cosa che si sta sciogliendo come una statua di ghiaccio, che non andare un quarto d’ora a mezzanoe e quarantacinque, prima o dopo il TG. Magari lo faremo, e sicuramente avremo più tempo, perché andare in onda a mezzanoe vuol dire avere mezza giornata in più per rifleere. Diventa come un gioco.
Diventa più artistico, ma più banalmente artistico, più indifferentemente artistico, più vertoviano. C’è stato proposto subito, quando ci sono stati i primi problemi morali, le prime denunce all’interno della Rai, a Guglielmi hanno proposto di farlo due giorni dopo, così lo poteva vedere lui, così lo potevo vedere sempre io che ero il dirigente. Io ho sempre rifiutato, eppure non avevamo inventato il fao di farlo così ansiosamente – era perfino un peso –, quell’ansia, quell’impossibilità di controllo, di illusione di averlo controllato. Mancava anche l’illusione che sicuramente c’è se lo fai a mezzanoe, all’una, due giorni dopo: “Rimeo, rivedo, aggiungo, vado anche a prendere quel film che mi mancava.” Diventa di maniera. Lo è già di maniera, ma diventa più bello, e quindi meno forte, meno intenso e meno bello. Diventa una patetica briciolea di arte televisiva. Parlavi di intensità artistica. L’intensità artistica di Blob deriva in massima parte dalla sua istituzionalità e dalla sua posizione istituzionale nel palinsesto. ella è la temperatura e l’intensità artistica di Blob. Se ci pensi, è una rete – non diciamo Guglielmi, Ghezzi, Giusti –, è una rete in una posizione istituzionale di vasto discorso televisivo, una rete comunque generalista che non ha prescelto il suo pubblico e che vuole iniziare a presceglierlo meno proprio in quel periodo, che è come se dicesse: sono un artista. È veramente un gesto ingenuo, primigenio, banalissimo di autoinvestitura artistica, di autorizzarsi da sé a chiamarsi e farsi chiamare artista. È proprio questo: in quell’essere istituzionale c’è la vicinanza con l’artista della galleria, quindi lì poi c’è l’inganno, lo sfondo ideologico, ovviamente c’è un’ambiguità enorme. [intervista/conversazione inedita, 1999]
Il “fantasma” della qualità in televisione a cura di Stefano Baldassone
[…] Definisco squallido, e non solo in Italia, il livello della discussione su questo fantasma della qualità. Perché non è all’altezza dell’oggeo, che è molto più intenso di quanto appaia a chi ne parla. Si parla di grande fratello, molto più centrale e intenso che non il grande fratello di Orwell, mentre, invece, se ne parla per dire “O tempora, o mores!” Puro narcisismo fao sì poi mestiere che è la stessa pulsione, lo stesso tentativo di personaggio mediatico. Ad esempio in televisione, praticamente sempre traduciamo molto piaamente delle pre-rappresentazioni di tipo politico, culturale… la grande musica, i grandi direori, il grande teatro, i grandi nomi. Eccellenza costituita, che è poi sempre un rimbalzo da altri seori dello speacolo. esto discorso è un fantasma, perché non è all’altezza del fantasma che è davvero, la qualità. I due momenti di crescita e mutamento della azione blob, la guerra del Golfo e adesso questo dell’11 seembre. È sempre stato il momento catastrofico della televisione, che è lo stesso, e però è la sostanza del discorso televisivo, del discorso che si condensa in immagini. I due elementi più intensi sono, da una parte, l’azzeramento, o meglio due mutazioni che, come quella della bomba atomica, diventa permanente e connotante. Diceva Heidegger che il peggio è già avvenuto. ando la cosa viene c’era già prima, la vediamo, è arrivata per ultima. anto dobbiamo già cercare di ricordarcelo, quanto invece è leeralmente la vitaspeacolo continua. Nel giro di quindici giorni, il cowboy o il grande Satana lì per lì dichiara guerra a mari e monti e poi tuo, rientrerà in una risistemazione del quadro economico che forse era arrivato a un tale grado di tensione, da dover spaccare l’immagine. Ma qui, nel cosiddeo reale, c’è stata una fraura, per la prima volta l’aacco è stato portato
direamente all’in realtà. Il primo vero grande trionfo del cinema, della televisione e, nello stesso momento, una sorta di suo annullamento: trionfo catastrofico, appunto. Per la prima volta abbiamo assistito al venir meno di un’immagine. O immagine architeonica urbanistica. Lo skyline di New York, è più di un simbolo; è l’immagine della civiltà occidentale, della civiltà perennemente in crisi dell’Occidente. E noi l’abbiamo visto mutare in direa. Poco dopo c’è stato di più: è cambiata l’immagine. L’immagine mentale; pedagogia, etica, estetica. Ancora più pericoloso e mediocre del dibaito sulla qualità. Mentre sono d’accordo sull’impossibilità del progeo di qualità, cioè del fantasma della qualità il giocare in ogni cosa della capacità di essere all’altezza dell’assoluto e cedere qualsiasi progeualità che è la televisione. ando parliamo di televisione, parliamo della possibilità virtuale di convocare virtualmente tue le immagini del mondo, tuo il mondo del visibile. Tuo il mondo visibile perché visto. Il visibile è il presente del visto. La drammaticità della televisione la tragicità ripetitiva, e quindi comica, la drammaticità della televisione di essere un considerarsi fin troppo parodistica, ma lo era già in Nietzsche del conceo di eterno ritorno, questo è. Per esempio Rossellini, è uno che, giocando pure l’artificio, è uno dei pochissimi che coglie l’artificio che è nelle cose, coglie la retorica che è nel mondo, nei sentimenti, nell’amore stesso. Rossellini è già la televisione. Una domanda vera da traare con rispeo. Cosa pensi della TV almanacco? esta è la televisione che già c’è, se c’è qui un’ipotesi di qualità, questa è quella di chi si spacca la testa per trovare quello che c’è e che non si vede. Come si è fao a Raitre, che ha generato un’enorme quantità di cose che prima non c’erano in televisione e, dall’ora, sono entrate nel ciclo e riciclo automatico. Una cosa a suo modo superficiale. Il punto è che quella televisione non poteva reggere il suo peso politico se non diventava altro. Se c’è qualità televisiva, cioè nei momenti di grande passività, di grande concentrazione, di
grande condensazione; quando, per motivi che chiamerei tuo sommato, per intenderci, di tipo religioso, anche nel caso delle Twin Towers, ci si ferma e si guarda quella cosa lì, piaccia o non piaccia. Sappiamo che la catastrofe la produciamo noi. Se diventa tuo più facile, quello di cui stavamo parlando cinque minuti fa svanisce. O partecipazione o passività. Secondo me non c’è mediazione. Ma è tuo quello che c’è. [“Matrix – Rivista scientifica di comunicazione”, gennaio-marzo 2002]
“Il controllo è più forte, brutto clima in Rai” a cura di Natalia Lombardo
alità è il termine che amo di meno, sia per il cinema che per la TV. Mi piacerebbe che si parlasse di intensità. E oggi, di intensità in televisione ne vedo pochissima. […] Ghezzi, le piace la nuova Rai? Il clima nella Rai e sulla Rai, è ora di controllo molto più forte. All’interno, la massima normalizzazione è stata innescata dalla direzione manageriale di Celli. Ma tuo era cominciato prima. La stagione ritenuta poi eccessiva fu quella tra fine ’80 e primi ’90, la Raitre di Guglielmi: un’ipotesi di sfrenata autonomia contagiosa per tuo l’universo TV. Forse davvero “eccessiva”, irrispeosa di tuo fuorché della capacità del pubblico di capire e di giocare. Un momento di intensità particolare, non tanto per i singoli programmi, ma per l’autonomia come forma prima di questi, con tua una società trasformata in un gioco di parole-immagini. A partire dal ’94 l’esigenza quasi vendicativa di tue le forze politiche sia di destra che di sinistra, e istituzionali, è stata quella di ridurre l’autonomia e imbrigliare di nuovo la TV. L’aenzione sulla TV e sulla Rai, più pericolosa della tu’altro che svanita loizzazione, è diventata sempre più castrante. È giusto che la Rai sia araversata dalle proteste delle famiglie caoliche o di un gruppo gay o di un’altra associazione, ma è insidioso il diffondersi di autocensure e ossequi automatici in chi lavora in TV. E ora il dibaito si è ridoo a Biagi e Santoro sì o no. Sono diventati dei simboli di pluralismo. È sbagliato, perché diventano simboli in quanto indicati da Berlusconi come esempio di faziosità. Continuare a ragionare in termini di pura reazione castra qualunque discorso sulla TV, sul lavoro degli autori. Si è faa diventare una questione
politica quella del doppio conduore, quando sarebbe bastato uno scao d’invenzione, uno sforzo di autori e conduori per “liberare” i programmi. Ecco, il problema delle persone, dei volti, è vitale. Anche per questo quello di Raitre può apparirci oggi come un momento unico e forse ultimo di editorialità televisiva. Non c’è nulla di innovativo? I canali delle TV satellitari, per esempio, sono molto più banalmente commerciali della TV generalista. Un bel canale di musica classica o di buona gastronomia è spesso meno intenso e vitale di un TG di Emilio Fede o di un Grande fratello o di una serata di Santoro o di un Chi l’ha visto?. Ma, per tornare a quella Raitre, il novanta per cento di chi vi appariva non si era mai visto in TV. Particolare decisivo. Oggi non c’è programma che non ricicli un personaggio o un format: dal Gianni Morandi al Fiorello allo psico-antropo-cuoco lanciato al Costanzo Show, se funziona te lo ritrovi per tua la vita. Così diventa autoritario. ripetitivo, noioso. Un piccolo circo mediatico? Proprio in questo momento di crisi si dovrebbe partire dal non esistente, invece ci si accontenta di quel che c’è e della capacità automatica che ha la TV di autopromuoverlo. Un peccato veniale che diventa mortale. C’è una tale pigrizia… In tuo il mondo c’è una ricchezza enorme di canali, ma sono tui uguali e “vuoto-saturi”. La TV appare vecchissima proprio per la forma diversa di vita che ci fa intravvedere: tra il narcisismo diffuso dei Grandi fratelli, più vivo di quello di vip e politici, e l’autoeditorialità, i vari gradi di “fai da te” che promeono il dissolversi della TV nella Rete biblio-videoteca di Babele. Eppure questa TV antidiluviana e dinosaurica è la sola a avere ancora la chance, che stiamo perdendo, di interceare quasi religiosamente il presente. È triste vedere un ragazzeo di Mtv dinosaurizzarsi in un baleno, percorrere i gironi dell’inferneo: soap, talkshow, ospitate. In una TV insieme fragile e oligarchica. Dovrebbe esserci un esercito di cuoche anarchiche che conducono un programma, invece hai
dei finti professionisti, meteore che restano in orbita in virtù della ripetizione o delle politiche clientelari. Lei come si sente? Un animale in via di estinzione? Un disco volante. Blob apparve nel 1989. Non per caso, c’è stata una lenta preparazione con Schegge, una TV che lavorava sulla memoria televisiva in modo immediato e decentrato, frammenti sparsi nel palinsesto. Per Blob, l’idea con Guglielmi fu di partire senza “chiedere il permesso”, usavamo i programmi Rai e quelli Mediaset insieme. Proviamo, dicemmo, se mai ci costringeranno a chiudere: invece, successo fin troppo unanime, e nessun problema. Un programma così anarchico e libero da risultare un volano di paradossale pubblicità per alcuni casi clamorosi… Per esempio? Luca Giurato, o la sublime intensa mostruosità di Funari… La durezza di Blob sgretolava la TV, e la potenziava rilanciandone in orbita all’ora dei TG i detriti, le schegge minime e più recondite. Blob ha perso forza, si è ufficializzato? In un certo senso, il suo compito quasi storico, rivelare alla TV tua il suo essere inevitabilmente un blob, era stato assolto dopo i primi tre mesi. Più tardi, fu consapevolmente una “rete blob” la prima Raidue di Freccero, tra Macao e le prime serate “civiledificanti”. Sarebbe affascinante un canale blobbisticoscheggistico… Poi Blob è diventato una sorta di ostinato servizio di sorveglianza e controinformazione TV. Oggi ha la stessa autonomia, ma è sempre più lunare, appare sfasato rispeo all’automatica autocensura televisiva. Ho sempre deo che Blob era pura “resistenza” alla norma TV. Anche nei momenti più difficili, come la guerra del Golfo o l’11 seembre, era lo spazio in cui si poteva uscire dall’obbligo immediato luuoso e irriflesso… Ma l’ao temerario, ripeto, fu lanciare un programma dal genere, unico al mondo. Nato dall’incontro tra follie, e autorizzato da sé. Devo ribadire il grande merito soggeivo di Guglielmi. Dopo di lui credo non ci sia stato direore di Raitre, di destra o di sinistra, amico o
nemico, che non avvertendolo un po’ raggiunto anche il oscillazioni paurose sparire dai palinsesti.
abbia sperato di come un fastidio. Ma 10-12 per cento di e nonostante spesso
sostituire Blob, costa poco e ha ascolti, pur tra sia parso quasi
ali sono i rapporti con il direore di Raitre, Paolo Ruffini? C’è un’intesa, e un rispeo del senso storico di Blob. Il suo non provenire dalla TV può essere un rischio ma anche un vantaggio per non ripartire dai monumentini acclarati, dai faziocostanzoshow… Per fuori orario, ci ha proposto lo spazio per una serie di film finalmente poco dopo la mezzanoe. Una novità. Sì, dovrebbe esserci un film in terza serata tre o quaro giorni alla seimana. Con una maggiore responsabilità di ascolto, ma con la possibilità di un rapporto anche con un pubblico meno affezionato. Intanto, fuori orario prosegue dal lunedì al giovedì con lunghezza variabile, dai cinque ai trentacinque minuti tra l’una meno un quarto e le due di noe. Il venerdì e la domenica tue le noi dall’una fino alle sei del maino, il sabato fino alle oo, nove di maina. Un cinema meno di “nicchia” in terza serata? Si scherza sui film iraniani senza sootitoli… Sfatiamo il luogo comune del “difficilismo” di fuori orario. La macchiea del film kazako con i sootitoli in curdo… Non manderei mai in onda un film kazako solo per farlo vedere in quanto raro o curioso. Trasmeiamo, compriamo, restauriamo, distorniamo, scoviamo nell’archivio Rai solo cose che ci appassionano o hanno un senso televisivo. Diciamo che siamo l’unico luogo in Italia e non solo, dove si possono vedere piccoli geniali film kazaki, e capolavori armeni, tuo Ozu sootitolato, le nouvelles vagues anni sessanta, i “girati” inediti di Orson Welles, e magari film di Imamura o di Buñuel in lingua originale, senza sootitoli, lasciati a un’aenzione diversa e più precisa per la parola solo visiva. E l’aualità TV nella sua versione più inauale e filmica: da Vent’anni prima alle Eveline, fino alle noi ultime
su Falcone e Borsellino, e le due con materiali montati e non sul G8 di Genova. C’è molta voluta disinformazione sul “(mai) visto” di fuori orario. Non per questo ci piegheremo all’obbligo dell’autopromozione, allo sbandieramento pubblicitario coao. fuori orario sta lì acquaato, fermo e in moto come un treno nella noe, prima o poi lo si incontra… Il suo linguaggio “fuori sincrono” piace a Ruffini? Ormai ha un valore estetico. Credo che Ruffini abbia qualche perplessità. Ce l’ho anch’io, da sempre. Certo, se partirà la serie della terza serata, se parlassi parlerei brevemente, forse senza apparire. Il “fuorisinc”, oltre che per dis-integrare un po’ l’automatico comunicare televisivo, è nato per comodità, l’ho fao per telefono dall’India, dal Giappone… È quasi un monologo interiore che diventa esteriore, una piccola “cosa TV” a sé, non un commento. Sente il peso di un monopolio TV da parte di Berlusconi? Mi pare che, a causa certo del non risolto conflio di interessi, si sia però lasciato polarizzare solo su quello il discorso, in un annullamento della cultura politica e della stessa politica culturale. Agitando popperismi un po’ drogati e di maniera, evocando il fantasma dell’uso perverso e indirizzato dei media. Un noto e appassionato regista, nella prima intensa esternazione, ha accusato Fede di squadrismo. Devo dire che il TG di Fede è uno dei rarissimi momenti di onesto e evidente filoberlusconismo in TV: solo un fanatico può pensare che la sua vita groesca e magari fanatica porti voti e distorca le coscienze. Sorvegliamo pure gli usi finalizzati della TV, e combaiamo il mono-duopolio. Ma stiamo aenti a non introieare noi il mito berlusconiantelevisivo dei vincenti e delle parole vincenti, a non aspeare che la TV o altri dicano parole “di sinistra”. La TV, più che modificare i costumi, è essa stessa un costume, una forma del vivere. [“l’Unità”, 18 agosto 2002]
Il porno è quanto di più vicino esista al cinema a cura di Roberto Carvelli
Come giudichi l’offerta di eros nel multimediale (cinema, televisione satellite, internet)? In particolare del satellite? Lo utilizzi e cosa vedi? Non giudico. E mi pare che poco si “offra”. Molto si annuncia. Vorrei dire “troppo”, purtroppo non è neanche così. È un enorme “trailer” disseminato: trailer di piaceri e di godimenti. Non vado a cercare, trovo. E trovo affascinante e terribile, le rare volte che mi capita di cedere a un link, a un banner, a un’email (l’ultima volta mi è capitato proprio per caso, cercando una notizia su Asia Argento), l’effeo labirinto e maelstrom insieme, di fortezza impenetrabile e di infinito parco giochi. Non riesci a entrare davvero se non pagando, non riesci quasi a uscire, se non percorrendo e ripercorrendo fino allo sfinimento (quindi pagando lo stesso) meandri faticosi o, traumaticamente, staccando leeralmente la spina, spegnendo il computer. esto è il fascino, un modello quasi perfeo dell’immaginario, in cui non entri davvero mai se non pagando (con la vita, con l’obbligo di riconoscerne l’immaginarietà… direi… solidamente immateriale… capitalistica…) e in cui allo stesso tempo sei impigliato a priori, sei già “immaginario”. Forse anche mentre godi, o soprauo. Ma la parte più provocante della tua domanda è quella che mee in relazione e separa l’usare e il vedere… Ah, il satellite, sì… mi interessa invece davvero poco. L’invenzione geniale della TV è proprio la connessione passiva, l’impao soffice immediato devastante. ando bambino vedevo la TV della Rai monocanale era già così, c’era già il “satellite”, un mondo di immagini del mondo che ti giravano intorno, pensare a mille film mentre ne vedevi uno,
vedevi il Giro d’Italia e tuo il mondo girava. Era ossessivamente povero e fisso, il tuo, ma già un gran trailer, un prossimamente del viversi del mondo. La tua situazione del mondo, a sua volta, diventava una postazione tra le altre, eri solo, o nella tua sola famiglia o casa, ma percepivi la presenza assente fortissima delle altre infinite situazioni simili parallele. Il satellite è la parodistica realizzazione di ciò. Non troppo, ma troppo poco. I mille occhi che ti orbitavano intorno aerrano su di te, e sono le solite immagini larvali, i soliti riti, le solite reti, inevitabilmente. O sbarchi tu sul satellite, e trovi un asteroide deserto. indi il punto è la moltiplicazione delle immagini… come un miracolo… Tanti canali, tanti spiragli, tante offerte, ma nulla di quel che ti manca. Eppure la televisione era già questo, “acquario di quello che manca” l’ho definita anni fa… Col satellite, e con le pay in generale, con i decoder (l’unica cosa eccitante e un po’ avanzata, o almeno politicamente non regressiva, l’unica speranza, direi, è la pirateria), perdi comunque l’aura della passività, dell’arrivarti dall’etere di qualcosa, qualcosa (un’immagine) dove poi puoi o potevi o dovevi… trovare tuo, nascosto o cifrato o anagrammato ma infine evidente, non banalmente indicato e insieme impoverito dalla specializzazione… Appunto, puoi vedere di tuo di più, alla ricerca di un uso, di una soddisfazione impossibile. L’eros, se c’è, sta quasi tuo e quasi esclusivamente in questo peregrinare tra i siti o tra i canali o tra i dvd, più potente e perverso di qualunque perversione “ufficiale” tu possa trovare nel sito di immagini più perverse. (Il dvd poi, in questo momento, è quanto di più vicino esista all’aleph borgesiano del sesso. Il testo-immagine si ramifica e si dilata, si palesa concentrico, si arresta e velocizza e ritorna a “piacere”, il supporto è sempre più piccolo e immateriale, senza spessore, quasi del tuo mentale. “Insoddisfa” perfeamente…). E questo vagabondaggio può diventare in sé talmente flagrante da raggiungere un’intensità pornografica, più forte e pervasiva di qualunque immagine singola. elle, le
immagini singole, non le vedi. Vedi corpi e fantasmi infiniti, immagini-fantasma e immagini-corpo, è su quella differenza e compresenza che giochi, quella congiunzione pornografica di cui sei parte tu stesso, che infai non “vedi” per quanto tu possa restare folgorato o ossessionato da un corpo uno sguardo, due curve che si incrociano… Negli anni di fuori orario ti è mai capitato di incorrere in problemi con la censura o etici personali e in quali occasioni? Li hai risolti? Rarissimamente. È anche capitato di mandare in onda momenti hard, come quelli del bellissimo unico film di Jean Genet, o dei film di Jack Smith. Ma in generale fuori orario sceglie i suoi occhi e ne è scelto. Il pao iniziale è chiaro. I problemi rari molto forti ci sono stati non a caso per disfunzioni, coincidenze, slogature, congiunzioni, flussi incrociati del palinsesto e del “corpo” (del) pubblico. Un montaggio di pezzi di cinema erotico asiatico, neanche troppo spinto, in occasione dell’uscita di Tokyo Decadence che amavamo non poco. Andò in onda tardi come sempre, dopo l’una credo, ma era il 6 gennaio, la finale su Rai Uno della Loeria di Capodanno con la Carrà… interminabile, così a quell’ora alcune centinaia di migliaia di reduci familiari dei milioni delle truppe di quel pubblico, incrociarono tu’altra epifania di immagini in un baito di telecomando prima di andare a dormire… Telefonate leere denunce al garante, richiami aziendali, multe… ello è il momento pericoloso, l’inizio, la fine, i margini in cui il margine esteso che è fuori orario ne può sfiorare per caso altri. (Problema etico personale, quando una montatrice brava e carissima e pur abituata ai nostri eccessi – lavoravamo in appalto, fuori dalla Rai allora – ebbe difficoltà a lavorare con un nostro “récadrage”, credo proprio su Moana Pozzi). E Blob, ha mai avuto problemi censori? Con Blob, e proprio per il nostro e mio personale accanimento “politico” a voler mantenere il programma in quell’ora scomoda e ambigua, nel fuoco dei TG e di tui i pubblici mescolati e incrociati, i “margini” si aggrovigliano,
diventa difficile identificarli. Come difficile è sorvegliarsi nel momento stesso in cui si abbandona il proprio corpo stomacocervello individualcolleivo alla contaminazione alla reazione e fissione televisiva. Molte proteste, endemiche, scontate, spesso o tue soggeivamente “giuste”. Di genitori, spesso (a parte quelli organizzati, di associazioni rispeabili certo, ma già più ossessive e ipersensibili in sé). Segno di uno scarto tra le aspeative indoe dalla stessa forma-Blob, col proprio pubblico non casuale, quindi un problema spesso reale. Puoi spiegare in che chiave/i viene usato il sesso nel montaggio di Blob? In generale, per quanto possa essere irruivo il sesso, l’immagine-sesso (cos’è? Si vede mai il sesso in TV o altrove? Sono gli organi, il sesso? O è il massimo del mentale e del culturale insieme, che poi non a caso forma l’osceno…?) è usato in Blob, spesso o troppo spesso, come riflesso condizionato, un po’ come il comico immediato. Struure primarie, connessioni automatiche. Ma per quanto possa esserci abbandono, è anche fortissima la tensione (ancor più che l’intenzione, precisa e ironica: vedi Blob Fascia Pro-Tea di Simona Buonaiuto) critica, di esplicitazione del “sesso” rimosso e insieme spalmato impudicamente a tue le ore nei palinsesti. È come per la violenza: rivedere lì, in Blob, a freddo, quel che magari hai appena visto sul TG1 o 5, la stessa operazione del presentatore passa dalla computazione addolorata da “strage” del sabato sera o d’altro al sorriso con cui introduce il servizio frivolo, disturba perché ti ridice quanto tu sia in gioco, in quel gioco, come speatore. Pensi che sia giusta una censura e su quali limiti deve tararsi? Credo per l’appunto che ci si possa e debba assumere sempre la propria responsabilità. In primis, dell’irresponsabilità somma di toccare le immagini, di giocare con esse, ovvero con la cosa più lampantemente ambigua che esista. Sono contro la censura sempre (essendo anarchicamente contro il potere), e nello stesso tempo rispeo sberleffandolo il censore e il suo ruolo infondato. La sua “serietà di stato”, che ha più
chance di capire le cose che non la leggerezza aperta onnicomprensiva (vedi il caso del film di Ciprì e Maresco, ritenuto “improponibile per qualsiasi pubblico”, in modo civilmente e politicamente aberrante, ma riconoscendo in esso la radicalità che nessun critico davvero identificava). In un certo senso, la censura è la società, porre la questione della censura è meere in questione la società. Se sfonda l’idea di un mercato libero e di un liberismo sfrenato dove l’audience fa palinsesto che possibilità ha l’eros esplicito di farsi spazio nella televisione via etere? Nella società multimediale, la loa e il confronto tra censure e aperture, tra diffusione per esempio di “sesso virtuale” e controllo e incanalamento dei flussi di immagine, tra flussi di “personale prostituito” e nomadismi turisticodesideranti, diventerà sostanziale, anzi lo è già, è la guerra/mercato del presente. [“X Satellite”, I, 3, novembre 2002]
“Ma il TG è peggio di un film porno” a cura di Massimo Bernardini
Blob è da sempre il grande accusato della tivù italiana. Accusato di giocare con la cronaca più efferata riducendola a ingrediente per fare speacolo, di mancanza di rispeo verso le persone, di volgarità, violenza, superficialità. Insomma, molti ne parlano come della peggiore invenzione di Raitre. Che Blob faccia nascere reazioni confesso che mi piace, è una controprova di insospeata vitalità. Ma sono per lo più scoraggiato dal tristissimo livello medio delle argomentazioni messe in campo da chi vi si oppone. Opporsi all’immagine di un cadavere infarcito di ballerine o a un personaggio pubblico insultato da un epiteto che lo segue subito dopo, mi sembra legiimo. Premesso che rispeo più le reazioni violente a Blob di chi ne parla come del lato sfizioso del servizio pubblico, di qualcosa di irrinunciabile perché “contro”, “carino” o satirico, credo che in chi si oppone a Blob ci sia un equivoco di fondo, Blob è insieme glorificazione e tortura dell’immagine, non una leura satirica della realtà. Certo le risate arrivano e sono anche previste, e forse per questo appaiono dissacranti di aspei considerati intoccabili dalla tivù. Prendiamone uno tanto vituperato: la pornografia. Io credo che il cinema pornografico ci faccia capire molto più di altre immagini la realtà. È un cinema dove le mediazioni sono ridoe al minimo, un cinema fao di corpi, che dichiara il suo scopo: quello di eccitare lo speatore. Non mi verrà a dire che questo lo rende acceabile. La pornografia è violenza faa a quei corpi e moltiplicata dall’immagine, e tuo in nome del business che strumentalizza, appunto, l’eccitamento del pubblico. Spero che non sia così snob
da non accorgersi che stiamo parlando, di qua come di là dal video, di persone violentate nella loro intimità. Io penso all’oggeo, alla sua tensione teorica e filmica, non all’intenzione morale che lo precede. Chiunque sa che trame e racconto, in quelle pellicole, sono spesso puro pretesto. I corpi sembrano appunto mostrati e sfruati (come in ogni film), ma al limite, come in un documentario automatico, e proprio per questo le immagini ci paiono più lontane ed astrae. Vorrei comunque soolineare che le rare immagini “forti” di corpi usate da Blob vengono da programmi “normali”, in onda cioè ogni giorno in orari anche per bambini. Però così è come se lei rinunciasse alle sue responsabilità. E non mi dirà che giocare anche, come fa Blob, con le immagini di morte dei TG, sia fao in nome dell’autenticità. ello dell’uso di immagini di morte e di violenza è un problema durissimo, anzi è il problema. Ma le faccio subito un’obiezione: perché quelle immagini usate nei TG sono un’opera pia, il cosiddeo servizio pubblico, e usate da Blob diventano provocazione? E poi perché dovremmo fermarci davanti alla morte, perché anche noi dovremmo adeguarci alla mentalità dominante di rimozione della morte? Il paradosso è che in una società come la nostra il rispeo sacrale della morte è relegato all’ambito televisivo, ci si indigna solo in questo caso. Ma davvero inserire la morte come un cuneo fra le “ballerine” è sbagliato, è scandaloso? Non le sembra che lo sia di più lo speaker del TG che di colpo abbandona lo sguardo e il tono compunto per passare a qualcosa di più leggero? Forse Blob è l’unico a non rimuovere, a fare la cronaca del nostro stesso modo di vivere la morte in tivù, e in fondo è lo stesso zapping che fa il buon padre di famiglia impressionato dalle immagini forti nel TG dell’ora di cena. La verità – penso per esempio ai giochi di Casella, o alla roulee russa di Binarelli – è che questa stagione TV è ipnoticamente dominata dalla morte, che invece in Blob affiora solo a trai.
Secondo lei l’ultimo Karl Popper, che invocava una sorta di “patente” per gli uomini della TV, a voi di Blob l’avrebbe rilasciata? Non lo so, spererei proprio di no. Potrei anche premeere che io in Rai ci sono entrato per concorso, l’ultimo – del ’78! – per programmisti registi, quindi una specie di patente ahimè l’ho avuta. Ma credo che quello di Popper, come tui i tentativi tardivi di correre ai ripari, sia molto pericoloso. Se devo essere sincero io a queste mediazioni piccolo-borghesi – “ci vogliono limiti”, “bisogna riscrivere le regole”, “occorrono autorizzazioni” –, non credo per niente. Meglio allora la posizione rigorosa, apocaliica, di chi dice di spegnere lo schermo perché la TV fa male. Tua la cosiddea informazione sulla TV è pura spazzatura, e anche l’opinione pubblica che, specie a sinistra, si è schierata con Popper, con un Popper in questo caso così teoricamente modesto, più vicino allo scoramento del nonno che alla riflessione del filosofo, è culturalmente molto debole. Il vero problema dell’immagine oggi è di caraere bioetico: qualunque immagine ormai è manipolabile, sintetizzabile, sostituibile. E invece siamo qui ad auspicare per la televisione la “medietà”, l’acceabilità, la non offensività. L’unica certezza invece è che sempre più la televisione sarà incontrollabile, specie nelle sue sempre meno futuribili diramazioni telematiche. Funziona per retoriche occulte. i si dovrebbe indagare: sappiamo pochissimo di quel che davvero ci lascia dentro un’immagine, di come continua a convivere con noi, altra carne nella nostra carne. Ma non sarebbe compito vostro, di voi intelleuali della televisione, invece che giocare con Blob o percorrere le strade elitarie alla fuori orario? Detesto la didaica televisiva, anche se fuori orario, Blob, Schegge si calano proprio in questa nuova carne. Trovo più allarmante e cieca la cosiddea “TV della gente”. Prenda per esempio la geniale soap-opera del Costanzo Show: questo esibire discreto, questo raccontare tic e affei, questo “dire in parole semplici”, questo volemose bene: è quasi infame. È
vero, la TV forse è semplice, per questo devi andare in qualche modo contro la sua semplicità, e sovvertirne una, due o tre regole. Anche per questo in video uso spesso l’asincronia della voce, come per un dovere di non comunicare. La TV comunica già da sola, troppo, molto oltre le nostre intenzioni. esto automatismo è il vero sfondo filosofico (terribile? “carino”?) su cui rifleere. Ma Enrico Ghezzi in che cosa crede? In nulla, credo. Mi piace l’orizzonte situazionista e anarchico del superamento della politica, della vita quotidiana come unica e insoddisfacente politica. Credo che oggi sia urgente più che mai opporsi al potere politico, alla sua assurda magia. Dio? Lo riconosco, come massima provocazione teoretica, ma non dentro un orizzonte etico. Sono stato caolico fino a quindici, vent’anni fa, sospeso tra la formazione scoutista e l’arazione anarchica. Mi resta un’impressione chiara: che è la Resurrezione a fare la differenza (solo lei obbliga a fare i conti con Gesù Cristo). Forse me ne resta addosso la terminologia religiosa, che mi sembra l’unica adaa a parlare di cinema e di televisione. E una strana voglia, qualunque cosa faccia o non faccia, di dissiparmi per amore. [senza data]
Il 1968 e il 1977 a cura di Antonella Marrone
Tu lavori e ti diverti in zone temporaneamente autonome della televisione pubblica, zone liberate in cui è forse possibile resistere, fare qualcosa. Senza illuderci sulla “liberazione”. Forse è importante quel che vien fuori dal rapporto fra le persone che lavorano in questi gruppi, e ancor più capire o sentire quanto il loro giocolavoro si prolunghi e anzi consista in un gioco con le persone del pubblico che non si conoscono ma ci riconoscono, ci mutano, fraintendono le nostre immagini e le reinventano. Ti ritieni un grande comunicatore? Confesso di essermi chiamato fuori dal problema. La “comunicazione” è l’ultima cosa che mi interessa (o allora amo la possibilità di una comunione/comunanza, così intensa e utopica da non doversi comunicare. La comunità impossibile… è difficile già tra sé e sé. Meglio non parlarne: da troppo tempo sento e so che tua la comunicazione è pubblicità, se non è amore. Oddio, già dirlo diventa uno slogan). Tra l’altro, proprio durante i primi anni di Guglielmi a Raitre, il momento di massima eco “comunicazionale” delle nostre cose, mi apparve lampante l’inutilità tecnica della comunicazione, e – ancor più – della promozione. Il lavoro in televisione si autopromuove fin troppo, nell’automatico essere visto. Bene o male, sia all’una di noe sia alle dieci di sera o alle see di maina. E tui i vantaggi che hai nell’essere esposto sono anche svantaggi e gli svantaggi della marginalità sono a loro modo vantaggi. Credo che le baaglie per la visibilità siano baaglie di retroguardia. Comprese
quelle più motivate: la loa imperniata sul famoso edio bulgaro ha fao sprecare, secondo me, tre o quaro anni in cui si poteva resistere… Mentre tuo si è polarizzato sui nomi, sugli allontanamenti. Il caso Freccero: sacrosanto protestare, si è sprecata una “risorsa umana” dell’azienda pubblica. Ma ci sono tantissimi casi Freccero. Come si fa resistenza, allora? Secondo me il modo di resistere è ignorare, non farsi deare dai propri poteri una forma-reazione obbligata di reazione a essi. In tuo questo periodo… Insomma è stato molto più grave – ed è diventato automatico – il fao più terribile ancora delle spartizioni conclamate e delle loizzazioni evidenti – il fao che, al di là di alcune persone, la paura, l’incertezza, l’autocensura dominano il lavoro quotidiano di persone tra i trenta e i quaranta, magari senza grandi responsabilità familiari, che si sentono presi da questa sorta di enorme, diffusa par condicio che c’è nell’aria da quando… da quando si è pensato che il problema principale di questo paese fosse il problema televisivo. Più ’68 o più ’77 nella tua vita? È strano, avevo quindici anni nel ’68 e venticinque nel ’77. Troppo presto troppo tardi. Più vivo e irraccontabile il ’68 (chi lo disse? “Se ti ricordi vuol dire che non c’eri”). Gli anni seanta li trovo più enormemente intensi e tesi del ’68. Il ’68 è una grande spuma, un momento di brezza e di ebrezza, un’onda… in tuo il mondo l’idea di nouvelle vague, un’ondata che si abbae sullo scoglio, inebriante. Gli anni seanta sono più decisivi per quasi tuo, la visibilità del ’68 e la durezza di uno scontro con la vita, con il fao che la vita continui ridicolmente ad essere la stessa, invecchiare (ma Crujff!). Il sessantoesco negli anni seanta mi parve parodia degli anni sessanta. Onestamente: il “vitale” degli anni seanta è stato lo spero mortale del terrorismo, omicida e salvifico, un aspeo che ha marcato, con la parola d’ordine micidiale del “realizzare” le parole, e con cui non si son fai davvero i conti: la vita purtroppo e per fortuna andava avanti e sembrava la stessa. Il momento di “liberazione” bolognese,
autonomo, che teoricamente mi interessava molto, era una sorta di bolla che ti masticava da sola. Ero sceico. Trovavo molto più ingenuo il ’77, come se si dovesse essere o fingere di essere molto più ingenui: per fingere di non essere ideologici, si fingeva che ci fosse veramente un momento di liberazione… forse solo perché venivo da Genova. Cioè con quella faccia un po’ così? Be’, Genova era una cià strana e prodigiosa. Nelle situazioni. Sussulti anarco-caolici; l’operaismo navalsiderurgico duro, e gruppi rari, molto avanzati, come il luddismo di Gianfranco Faina. O l’autonomia: quando tra il ’76 e il ’78 capitavo a Roma (ero anche all’università il giorno di Lama per caso o per amore, come il giorno in cui fu trovato Moro ucciso), gli indiani metropolitani… mi sembrava tuo vecchio, nel senso che a Genova nel ’71/’72 c’erano già l’elemento libertario pulsionale e quello terroristico nascente e in mezzo l’autonomia insieme dura e fiammeggiante mentre non si avvertiva ancora la durezza mortale del terrorismo (oh, il gesto fatato e lieve dell’autonomo che entra in un santuario accademico e bua un telefono dalla finestra; la mia risibile scria rossa idiotironica che dura seimane sul muro bianco dell’aula A di filosofia, “soccorso rosso non avrai il mio scalpo”). el flusso poi tra Parco Lambro e il ’77. Che fu uno spruzzo, uno sprazzo ritardato. Molta “ideologia francese”, Foucault, qualche deriva postsituazionista, Guaari – la cui lucidità non era ahimè quella di Deleuze… Dovendo dire di un decennio decisivo, dico seanta, ma non è quello che mi è più vicino (se mai ho sentito tempi vicini che non fossero istanti). O meglio: è quello che vissi in una compiuta “nostalgia del presente” (citata in Prima della rivoluzione di Bertolucci visto al cinema Star a tredicianni tre giorni dopo l’apparizione de L’Atalante di Vigo). Adesso parliamo tanto di cinema. Tanti anni di TV, tanti giovani desiderosi di darsi al cinema, come critici, registi, creativi, comunicatori. Cinema e generazione che cosa hai visto cambiare?
Uhm, di tuo quello che ha per aggeivo “creativo” diffido. La codifica della fantasia mi ha sempre fao orrore. Il cinema a Genova, capolavori hollywoodiani rari in copie dal circuito delle navi, una critica cinefila di tipo francese ma oltranzista ben oltre i “Cahiers”. Non tui politicizzati, alcuni accusati del contrario. Il tempieo nei seanta fu Filmstory in via Caffaro, due sale piccoline, il 35mm nella De Mille, il 16 nell’ancor più piccola sala Ford. Cinefilia pura. Tra i quaordici e i vent’anni aumentare la dose di film quotidiani, più di due film al giorno tra i sedici e i venticinque anni. Gli anni seanta sono stati per me un contao massiccio con l’immateriale filmico cinema. Rivedevo le pellicole e sognavo un cinema astrao dal tempo. Il cinema è talmente registratore, immagazzinatore di tempo, di durata, documentario automatico, che lo sforzo mio era ed è quello di tirarlo fuori da quel tempo e di farlo incrociare con lo spazio dell’ipotetico presente. La mia forma. Anche nel gioco-lavoro che mi è capitato di fare, ho intenzionalmente intensificato questo modo di giocare. Ma… la tua domanda… Sì, il rapporto con il cinema: di generazione in generazione, in Italia è particolarmente visibile l’incultura di cinema. Il cinema non esiste come forma di vita, ovvero come cultura. Se ne sa poco, viene ridoo ossessivamente e da sempre all’evidenza del senso di rispecchiamento sociologico o politico. Vogliamo dare la colpa la televisione? Ci fu la “fortuna” – banalizzata dalle vulgate storiche veltronizzanti – di aver avuto una TV molto forte e identificabile e radicatissima, la vecchia televisione bernabeiana, e il momento esplosivo della metà degli anni seanta, della a-legalità, da tui ammessa, sooscria se non voluta, che ha portato rapidamente al berlusconismo, craxiano ma ostacolato da quasi nessuno. Non credo sia stato un momento di corruzione, ma un effondersi inedito televisivo del cinema stesso – in quegli anni accendevi la TV e potevi vedere tua la storia del cinema, sprecata, disseminata, ripetuta. Emienti che davano due volte al giorno film fino ad allora rarissimi o scomparsi, una magnifica orribile
ossessione in cui vedevi tuo. In pochissimi mesi e anni, nella seconda metà degli anni seanta, il paese ha visto/vissuto – in un pieno far west dove tuo sembrava possibile e visibile – una mutazione del panorama audiovisivo paragonabile solo a quella del confronto tra Hollywood e la TV del dopoguerra americano. Era una chance per il cinema italiano, malamente sprecata da tui, anche dagli autori, pieni di presupponenza e di un supposto “legame di difesa” dell’antica gloria che non tornava, con riferimento al neorealismo. Senza che la classe registica e i produori se ne rendessero conto, il cinema ormai avrebbe dovuto o potuto essere solo “bello”, obbligato a un’intensità particolare proprio dalla sostituzione televisiva. Parte l’eterna guerra-guerriglia un po’ ridicola sulle leggi sul cinema, per la difesa del cinema contro lo strapotere televisivo, mentre era davvero una chance: un giovane che avesse voluto fare cinema in quel momento… bastava avere un minimo di intelligenza… perché il 90% di quello che di solito veniva promesso, la TV lo assicurava con la stessa intensità di quel cinema contemporaneo. Occasione persa nella cultura cinematografica italiana. Non rimprovero a Berlusconi la corruzione – è talmente evidente – ma vedo quella che non si vede, che si fa finta di non vedere. Corruzione della sinistra che si è modellata perfeamente sui moduli della comunicazione pubblicitaria berlusconiana. Esaamente gli stessi valori. Che si poteva fare? Ma sai, in Italia il pre-organo del futuro partito democratico, “La Repubblica”, mandò pochi anni fa segnali chiari sul cinema: la scoperta luminosa che la vita si rispecchiava nel muccinema. Certo Muccino è abile, non è trascurabile. Un gesto di totale adesione ideologica alla insoddisfazione e autosoddisfazione della piccola borghesia italiana; inqualificabile. ello è il cinema che è stato agitato, brandito come una rinascita “critica” del cinema italiano. Mentre se c’è un pregio nel muccinismo è proprio quello del cinismo, fregarsene completamente, costruirsi come uno speacolino con tui i sapori amari, acidi, autoritraino tranquillo e
completo di questa società che non riesce a scollarsi un momento dal proprio speacolo, e che nella sua parte più “critica”, la “sinistra”, riversa tue le colpe dello speacolo su una ipotetica parte avversa, su berlusconi, la mafia. Per scontate che appaiano queste colpe, non è bene far finta che esista una fascia virtuosa nello speacolo italiano, qualcuno che è al di sopra, un gruppo di privilegiati operatori culturali immuni dal gangsterismo capitalista. Ovvero, fingere che l’immateriale sia immune da questo per poi farne una sorta di armea ideologica. i si parla ancora di legge del cinema… Oggi è un po’ più triste. Oggi si sta perdendo l’ultima occasione, al meglio si intuisce che potrà venir fuori una legge di tipo sindacale – rispeabile in quanto tale – che permea al cinema italiano di sopravvivere – male – in una riserva arida già mangiata da questa TV e araversata dalla videojacquerie di internet. Potrebbero partire, o son già partite e non lo sappiamo – pratiche di autoproduzione che se prese come esempio anche da chi vuole fare cinema più industriale, più costoso… si può fare di tuo con molto minore impegno produivo. Che in Italia, un paese trascurabile come ampiezza di mercato, non si abbia il coraggio di favorire con finanziamenti minimi… Io penso anche a 10, o 7, o 5mila euro, un una tantum che punti al buio su passioni intelligenze o anche furbizie aguzzate e dal poco. La legge. O non la fai o la subisci, oppure inventi, provi a favorire delle invenzioni. Ma quando diventerà strachiaro per tui che è così, sarà tardissimo. Il ritardo è la cosa più comicamente affascinante in un paese in cui esiste l’impossibilità di affrontare i meccanismi di selezione, in cui assistiamo a mille tentativi di fingere di liberarsi dalla cappa della loizzazione, dei partiti. Fingere di liberarsene sembra il modo per raggiungere un’“onestà privata”. Nel tuo caso ti sei sempre permesso di “ignorare” per resistere. Mi sono preso questo dirio, quello di giocare lavorando. Non mi illudo sul fao di aver creato zone liberate, la
comunità è altra cosa. D’altro canto faccio televisione “marginale”, sia con Blob sia con fuori orario. Blob persiste perché qualunque altro programma a quell’ora costerebbe molto di più. Blob dimostra che la televisione è automaticamente sempre vecchia. Replica ennesima. La televisione che si disfa, sbeffeggiata sbeffeggiante e (altro che grandi fratelli) sanamente e tragicamente incontrollabile e sconosciuta. [“Liberazione”, 28 marzo 2008]
L’insoddisfazione a cura di Leonardo Gregorio e Marilù Ursi
Come è cambiato Blob, soprauo come è cambiato fare Blob, nel corso del tempo? Blob – e questo è il suo principale difeo – è stato poco innovativo rispeo a se stesso, ma è fatale: Blob è una cosa talmente semplice, banale e intensa che non può che incoraggiarti a questo. In qualche modo, il meglio che tu possa fare è fermarti qui. Ho sempre deo che la sua qualità prima è di essere insoddisfacente, luogo dell’insoddisfazione; non può piacerci, non può essere bello, in sei-see ore di lavoro facciamo le cose in corsa, anzi a occhi chiusi… è vero che sai già dove andare a parare, anche a cose che non hai visto, ma paradossalmente dovresti vedere tuo, ed è la promessa malcelatamente non mantenuta da Blob. Tua la televisione è bella o bellissima, perché antropologicamente oltre. esto è il paradosso di Blob, l’insoddisfazione. Ma va bene così, in un certo senso. Perché resiste ancora? Per motivi psico-politico-quantitativo-economici. È un programma che costa pochissimo rispeo a qualsiasi cosa si cerchi di meere alla stessa ora. Ed è anche l’unico a resistere in uno spazio in cui il programma dominante è, da molto tempo, Striscia la notizia – in un certo senso dello stesso genere –, e questo è molto importante. Un altro motivo di resistenza è quello dello sbaere la testa sempre contro lo stesso muro, soprauo contro le stesse teste, gli stessi stomaci: il gruppo di Blob, non solo per pigrizia, è stato mantenuto più o meno integro. In realtà, già un anno dopo la sua nascita, avrei voluto fare il programma in un altro modo, un po’ alla maniera di e Cameraman di Buster Keaton, cosa
che ha anche causato problemi con altri autori di Blob, come se fosse un tentativo di lesa maestà nei nostri stessi confronti. L’idea di un “contenitore anarchico di immagini” e di una comunicazione faa di frammenti sembra essere stata definitivamente sdoganata, e in questo fuori orario cose(mai)viste e Blob hanno dato un contributo importantissimo alla televisione Italiana. Riconosci dei programmi in particolare come legiimi eredi? No, perché Blob e fuori orario sono stati fai in una situazione di casuale ma fortissima, oggeiva coincidenza di intenti di un piccolo gruppo di persone. Oggi non ci sarebbe la libertà di farlo, oggi che tuo si basa sul piano della paura, della copertura, della par condicio, di tue queste stronzate. ando abbiamo cominciato c’era la Lega che arrivava dal nulla, la crisi e il crollo dei partiti di massa… noi, all’epoca di Angelo Guglielmi direore di Raitre [1987-1994, N.d.R.], abbiamo fao quello che volevamo, delle cose folli. In quel periodo sono nati, per esempio, Un giorno in pretura di Roberta Petrelluzzi, un programma dirompentissimo, un film; poi, subito dopo, Chi l’ha visto?, un programma di fiction, e Blob, che è un programma di invenzione dell’esistente. Anche Blob è una forma di found footage. Come ti spieghi la diffusione così massiccia di pratiche di riutilizzo d’archivio nel cinema degli ultimi decenni? Ci sono diversi indizi di uso del found footage anche oltre quello che sembrerebbe inizialmente il voluto, il permesso. Penso, per esempio, a Materia oscura di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dove ci sono immagini che raramente hai visto e che, ripetendosi, ti suscitano ogni volta una domanda, le stesse domande. Ed è proprio il confronto con le immagini che ti fa recuperare l’ipotetica realtà. Di fronte a questo film mi sono sentito in qualche modo responsabile, ma al contempo felice, perché c’è l’abbandonarsi alla bellezza di una cosa trovata, alla forza delle immagini, alla loro ripetitività.
Il web, le nuove tecnologie e modalità di fruizione dei film sono una minaccia anche per le visioni fuori orario? No. Può darsi che, evolutivamente, puntino già a un altro speatore o che, comunque, questo sia il segno dell’insoddisfazione dello speatore di adesso, che dovrà fare altro, vedere altro ecc… In un certo senso, però, fuori orario è vicino a questa nuova galassia, perché è abbastanza estremo, indipendentemente dalle scelte… certo, trovi dei registi e non altri. Registi che poi nell’insieme dipingono l’identità molto forte, in negativo o in positivo, di fuori orario. È interessante l’elenco dei film che abbiamo trasmesso. In quasi venticinque anni, personalmente avrò mandato in onda non più di trequaro film che avrei preferito non trasmeere e che sono stati inseriti non per motivi politici o di obbligo, ma perché ci servivano per quella noe lì. Nessun film indifferente, solo amati o molto belli. ale sarà il futuro di fuori orario? Rispeo a Blob, fuori orario è ancora più legato alle persone che lo fanno. È una sorta di redazione molto omogenea, nonostante ci sia un gruppo di “antichi” e un altro più giovane man mano costituitosi, con meno archivio nella testa; poi ogni tanto si sono aggiunti altri. La cosa principale è, però, la stessa di Blob, ossia un certo abbandono e una certa esagerazione, il far vedere troppo, noi di see ore di film, questa avidità del durare. Ma quello che abbiamo fao con fuori orario è, in un certo senso, l’opposto di Blob, che per me è un film infinito, sfinito, di millecinquecento ore; fuori orario, invece, il non stop, è come se portasse il film a essere, per così dire, aualità. [“Sogni musiche cià – Pagine di cinema del reale”, 2013]
9. Programmi, fax, poesie
Programmi
Giovanna dalle 22 alle 24
Una ragazza mee a leo il bambino, il figlio di un anno, saluta il marito o compagno e – avendo ricevuto una telefonata – esce di casa. Ha già cenato. La vediamo entrare in un’altra casa, dove la porta le è aperta da una donna sui quaranta/cinquant’anni (l’ideale: Lea Massari), sua madre. Sua madre sta male, una malaia lunga, dolorosa a trai, probabilmente mortale. Non è particolarmente triste, ma l’ha chiamata perché ha paura di restare sola stasera, vuole parlare, vedere non “qualcuno” ma “sua figlia”. La televisione è già accesa. A colori. Dal momento in cui si entra in casa sua, c’è un lento movimento in panoramica e carrello che porta l’inquadratura a coincidere infine (dopo due o tre minuti, o dopo dieci) con il quadro TV. Da questo momento, la “madre” parla, con larghi silenzi, interroa da brevi e rarissime frasi della “figlia”. E agisce continuamente sul telecomando, cambia canale, alza e abbassa la voce, si abbandona un aimo a un pezzo di film o a un telegiornale, commenta un programma, riprende il suo monologo. . Il monologo non è “la sua vita”, ma una riflessione, recriminazione, rivendicazione improvvisa di momenti di felicità, la paura della morte, la curiosità, l’incertezza, l’inutilità e il piacere di ‘parlare di tuo’, mentre “tuo” (tramite lo schermo continuo) entra nella camera. Fino alla fine, fino a quando (è mezzanoe) la “figlia” dice che deve rientrare, si vede solo lo schermo TV, o meglio si vedono solo le “cose” che passano in esso. Ma i “tempi” devono essere quelli “giusti”. Nel senso che, se si vede Sentieri selvaggi di Ford un aimo, e poi, ci sono dieci minuti di telegiornale e cinque minuti di Mazinga, quando si torna sul canale di Sentieri selvaggi devono essere passati quindici minuti del film di
Ford, e poi il telegiornale – se ripreso – sarà quasi finito, e insomma tui i diversi programmi (si può ipotizzare una quindicina di canali, più due o tre “neri” o sfrigolanti o comunque fortemente difeosi) dovranno incrociarsi secondo tempi rigorosamente reali. Di una decina dei “programmi” (film telefilm sceneggiati cartoons notiziari sport ecc…) da inserire ho già steso la lista, altri si possono reperire in un secondo momento. Eventualmente, uno dei “programmi’ da far vedere a pezzi lo si può girare apposta (cioè, girare “pezzi” – tre/cinque minuti in tuo – di un supposto telefilm o di un documentario). La struura è molto “semplice”. Il fascino della cosa sarà nel gioco (alti e bassi) dei sonori e dei silenzi (madre, figlia, TV) e, ovviamente, nelle voci e nel testo (provocatoriamente, volevo chiedere – per esso – la collaborazione di Edoardo Sanguineti), che in parte avevo già scrio. P.S. In alcuni dei progei di cui ti mando tracce e schegge (progei che mi sembrano tui molto poco costosi in termini di budget) sono coinvolti due miei amici – esterni alla Rai. Se fosse possibile avviare qualcuno dei programmi cui penso, mi piacerebbe ovviamente occuparmene personalmente, e in collaborazione con loro, e ovviamente con altri. [senza data]
La Magnifica Ossessione (progetto per il centenario del cinema, a cura di fuori orario)
Si propone che, a partire possibilmente dal 22 marzo di quest’anno (il 22 marzo del 1895 ebbe luogo la prima proiezione pubblica dei Lumière, con La Sortie des usines Lumière mostrato in occasione di un congresso parigino; altra data trionfale e significativa, nel caso di una partenza posticipata del progeo, si situa nel giugno 1895 con la proiezione di ben dieci “film” a Lione durante il congresso della Société de Photographie) e a culminare nella noe tra il 28 e il 29 dicembre, tue le noi di Raitre (a partire dall’una circa, con eventuali brevi anticipi negli spazi che si presentassero aperti prima del TG3 delle 0.30 o – a esempio nel più “vuoto” palinsesto estivo – con una programmazione più mirata e esposta o particolare – cinema italiano? – nell’orario 22.45/0.30) siano dedicate integralmente al centenario del cinema. La base della programmazione sarà costituita da film interi, scelti esclusivamente tra i più significativi della storia del cinema, in un numero che potrebbe variare tra i novecento e i mille (ulteriore titolo ipotizzabile: mille e non più mille; o cento e non più cento?). La data di fine marzo permeerebbe di mantenere questa “rotondità” suggestiva del numero. I film, in grande maggioranza, sono già reperiti e reperibili nel magazzino Rai (si ipotizzano non più di cinquanta/cento acquisti possibili di film – classici a basso costo o poco conosciuti a bassissimo –, riducibili anche a quindici/venti con spesa globale non superiore ai 350 milioni; e magari con qualche acquisto di singoli passaggi per un passaggio nourno di film di proprietà della concorrenza).
La cifra alta non deve spaventare. Il ciclo, per quanto curato dal gruppo che produce su Raitre fuori orario (gruppo ahimè invidiato da mezza Europa e non solo: aestati, simpatie e collaborazioni e prestiti di materiale inedito a titolo spesso gratuito provengono da registi come Bertolucci Bellocchio Amelio Scorsese Almodóvar Reitz Kluge Wenders Herzog Tsukamoto Jarmusch Benigni Rohmer Lynch Campion…) non intende infai proporre un compendio o un araversamento puramente soggeivo della storia del cinema. Parecchi dei titoli verranno più volte ripresentati, in occasioni e in “compagnie” diverse. Almeno sei/see dei grandi film di Rossellini, per esempio, potranno trovare posto: A) in una noe o seimana Rossellini; B) in noi o seimane giocate su temi, accostamenti, generi, cinemi nazionali; C) in noi o seimane ideate (come scelta dei film) da altri autori del cinema (da Godard a Bertolucci a Scorsese a Storaro a Tarantino a Morei a Lynch) e della cultura. Lo stesso accadrà con i cortometraggi Lumière e altri filmati delle origini, più volte inseriti con accostamenti diversi. E con almeno duecento film d’autore o di genere o comunque di originalità eccezionale. L’intento è, senza mai sfiorare intenti didascalici, arrivare proprio con l’insieme e il ruotare e l’intersecarsi delle proposte, a un grande gioco del cinema che si spieghi (se necessario) man mano da se stesso, risultando alla fine anche una sorta di immane enciclopedia filmica piena di rimandi note spiegazioni più volte ribadite dal puro “eterno ritorno” delle immagini. Aldilà di una presentazione/conferenza stampa (da tenere al più presto), il piano dell’operazione (individuata la massa principale dei titoli) è da costruire e pubblicizzare mese per mese (o bimestre per bimestre), con un effeo rinnovato di sorpresa e di offerta, evitando il burocratico esito di un centenario da celebrare obbligatoriamente con un programmone o “ciclone” che si svolge accademicamente dall’A alla Z senza nessun détour, nessuna invenzione o accensione magari dedicata (come contrappunto filmico) – secondo l’esempio di fuori orario – a temi proposti o riproposti dall’aualità (ne sono state esempio estremo le
“serate” Bosnia allestite alcuni mesi fa), con temi, eventi, o magari semplicemente con la scomparsa di grandi registi o aori, o ricorrenze e anniversari (solo quest’anno si possono ipotizzare per esempio: per i vari cinquantenari del 1945: una noe atomica o mai più Hiroshima; noe (fine della?) GUERRA (da Fuochi nella pianura o L’arpa birmana a Paisà alla Caduta di Berlino a… ; una noe Liberazione (25 aprile); ma anche una noe o seimana di cinema sul tema elezioni; o seimane costruite intorno a altri grandi impressionanti centenari (o quasi) di quest’anno: dagli inizi della psicoanalisi – nel 1895 Freud intraprende la prima analisi dei sogni – a quelli della radio (primo esperimento di Marconi…), a quelli dell’immagine interna del corpo umano con la “nuova sindone’” dei raggi X scoperti e utilizzati per la prima volta da Röntgen nello stesso anno, fino alla radioaività (col tema fantascientifico e aualissimo della mutazione, fino a quello più evidentemente auale della bioetica), se si pensa che negli stessi anni di fine secolo Becquerel e poi i Curie avviano i loro esperimenti; per non parlare del volo e dell’automobile; o del formarsi del JAZZ, prodigiosamente contemporaneo al cinema). Si può naturalmente ipotizzare grosso modo una tematizzazione per seimane o addiriura secondo i mesi (che verrebbe annunciata di scadenza in scadenza, oltre al cenno di presentazione di inizio “manifestazione”), ma è più importante appunto lasciare spazio libero a un gioco che riproduca su scala più grande le associazioni spesso imprevedibili su cui si basano alcune delle programmazioni di fuori orario, lontano dalla secchezza accademica illustrativa, apparentemente organica ma alla fine sempre presuntuosa e inadeguata, specie non disponendo della cineteca ideale. Per esempio ci sarà la noata (anzi molte noi) dedicate al cinema e musica, cinema musicale, la musica da film, eccetera, ma sarebbe da evitare un mese dedicato solo a quello, in modo comunque solo apparentemente esaustivo e sicuramente noioso.
Ci saranno una o più seimane dedicate al grande cinema sovietico, ma lo stesso cinema sarà poi sparso in molte altre noi o seimane monotematiche o d’autore o di genere, e in quelle stesse noi il cinema sovietico sarà accostato a film di cinquant’anni dopo, ispirati a esso o che magari raccontano in modo opposto storie o momenti o temi simili. Non mancheranno noi eccentriche dedicate magari al vino (con film di Ford, Renoir, Ioseliani…) o all’elericità o a un colore (il rosso, il blu, il bianco…). Infine saranno sempre previste (si vorrebbe il sabato) delle noi d’autore, cioè concepite da grandi registi o comunque grandi (secondo noi) personalità (da Godard a Renzo Piano, da Benigni a David Bowie, dal poeta Ailio Bertolucci a Luciano Berio a Pierre Boulez, da Umberto Eco a William Gibson – lo scriore che inventò il cyberpunk e lo spazio virtuale – da Mario Schifano a Madonna al cardinal Martini, senza escludere naturalmente personalità meno fiammeggianti e meno note ma non meno intense o affascinanti); di nuovo secondo i loro culti filmici personali (scelti tra i titoli disponibili) o secondo temi o fili o associazioni da loro proposte; con loro presentazione o senza. Naturalmente fuori orario meerà a fruo il lavoro più che quinquennale sul cinema traato o studiato nei modi più diversi dalla televisione, utilizzando al massimo pezzi interi di documentari, testimonianze, interviste dall’archivio Rai (molte delle quali leeralmente sconosciute non essendovene più alcuna traccia negli archivi aziendali: sono state reperite nel lavoro di scrutinio – random, ma anno per anno – svolto per la serie Vent’anni prima). A questo proposito, si è da tempo proposto (e si ripropone) l’assunzione a t.d. di un consulente (che ha già lavorato in precedenza sulle stesse cose) il quale potrebbe non solo lavorare all’unisono con le necessità di programmazione ma anche preparare materiali per un eventuale libro che potrebbe (prima della fine dell’anno) raccogliere (in modi da scegliere, tra l’estremamente deagliato esaustivo scientifico e il più suggestivo o incuriosente possibile) dati su tui i programmi
Rai dedicati al cinema, le monografie, i cicli di film, le produzioni, le interviste e apparizioni significative di registi aori tecnici; insomma, un annuario destinato a diventare indispensabile e/o un libro strenna). Per fare tuo questo (inclusi brevi montaggi/sigla di testa realizzati direamente da fuori orario, non più di cinque/dieci minuti per noe; ma non si escludono due o tre noi di puro minutissimo montaggio di spezzoni; così come le prime tre noi o l’intera seimana di avvio potrebbe consistere di soli trailer, un immenso augurale ininterroo nourno prossimamente), il gruppo auale di fuori orario (ghezzi, Giorgini, Grmek Germani, Marabello, Melani, Turigliao, con l’aiuto organizzativo di Incagnoli) dovrebbe essere ovviamente integrato e supportato. In particolare, è indispensabile essere dotati di una segreteria interna di un paio di persone, o appoggiarsi a una segreteria già esistente, efficiente e disponibile e fortemente motivata (il lavoro di appunti e telefonate, in gran parte rivolte come sappiamo all’interno dell’azienda, sarà enorme). Si sollecitano inoltre gli inserimenti in questa occasione di due/tre elementi che hanno già manifestato la loro disponibilità per un lavoro di collaborazione tecnica (visioni, controllo di materiali, reperimento di materiali illustrativi per comunicati e simili); esempi: Sara Cipriani (aualmente assistente ai programmi Raitre, curatrice di Schegge jazz), Sabina Sacchi (interna, curatrice di programmi radiofonici; si è offerta lei, in quanto aualmente disoccupata o pochissimo occupata). este persone dovranno lavorare in modo esclusivo a La Magnifica Ossessione. Altri contributi proverranno si spera dalla collaborazione con i seori cinema delle reti (e in particolare di Raitre) o con una persona come Nedo Ivaldi del “basso ascolto”. I costi di produzione prevedibili sono molto contenuti. È necessario invece individuare una soluzione per i costi di messa in onda, mediamente bassissimi ma globalmente considerevoli nonostante la forte maggioranza di titoli storici e classici o di pubblico dominio già in Rai. Inoltre, come già
accaduto nel recente passato per le noi del sabato di fuori orario, sono presenti nei magazzini di rete e interrete titoli di prestigio e d’autore acquistati a prezzi inopinatamente alti (magari perché inseriti in pacchei grandi e piccoli), intorno ai duecento milioni, che ovviamente Raitre non ha e non avrebbe alcun interesse a vedersi addebitati per un primo passaggio all’una o alle tre o alle cinque di noe (casi recenti di film da noi trasmessi: Destino cieco di Kieślowski, di Raidue; Il mio XX secolo di Ildikó Enyedi). Bisogna trovare – credo – una soluzione globale, meendo tali passaggi come “tra parentesi”, o dotando l’iniziativa di un budget a parte. Infine, aendendo sollecita risposta (dopo quella positiva di massima già espressa nelle riunioni di giugno, prima del cambio di C.d.A.), si soolinea che la rotazione di molti film classici o di genere permeerà agli stessi di godere di collocazioni sfalsate e non solo magari di un singolo fugace passaggio da videoregistratoristi delle quaro di noe; si rammenta che, a parte i titoli in replica o comunque in riacquisto (che la programmazione un po’ inventata cercherà di rendere in qualche modo “mai visti”) sono già pronti venti film giapponesi (tra cui tre dell’ultima rivelazione Takeshi Kitano), indiani, cinesi, per diverse seimane asiatiche; che saranno disponibili (già acquistati da Cereda) parecchi film di Bergman e di Rohmer; che sono previsti parecchi film di classici come Ford, Ozu, Vigo, molti di tui gli autori sovietici, Ophüls, Griffith, Lang, Genina e decine e decine di altri autori, con decine e decine di prime visioni TV, non solo nel campo delle rarità d’autore ma anche in quelle del film di genere, western, noir, avventuroso o musical che sia; e saranno presenti in pari misura (grazie a magazzini già acquisiti e a nuovi microacquisti, e alla collaborazione amichevole di enti come la Filmoteca Española di Madrid) rarità delle origini, cartoon, classici, e realizzazioni recentissime (lungometraggi o corti ) di autori contemporanei, recenti, giovanissimi, europei, mondiali, apolidi, italiani…
Si parte insomma da una completezza di sguardo (inaaccabile “scientificamente” e “storicamente”) per proporre poi occhiate e araversamenti più soggeivi inventati o apparentemente arbitrari. Il tuo, nonostante la smisuratezza apparente dell’impresa, limitandosi a uno sfruamento oimale del magazzino e alla concentrazione qualitativa su una sola rete di una programmazione nourna di film già molto praticata per quanto in modo casuale o disperso. Naturalmente, in questo arco di tempo, sarebbe bene limitare a sporadiche programmazioni di film in scadenza dirii (anche La Magnifica Ossessione terrà conto di ciò, come già fa molto spesso fuori orario), o annullare del tuo, la presenza di film nourni sulle altre reti. Per finire, appunto, si può progeare, per il 28/29 dicembre, la dilatazione del gioco, complice il minor obbligo d’ascolto del periodo festivo, a una non-stop (con film anche di prima serata) di ventiquaro o quaranta ore. Buona Visione. [1985]
La Magnifica Ossessione n. 2
Da sempre il cinema agita gli stessi fantasmi e racconta le stesse storie, secondo una cadenza ripetitiva tipica di ogni forma di narrazione e di ogni logica combinatoria. Gli anni oanta, in particolare, ci portano continue chiarissime immagini e situazioni di questo “stato del cinema” che è poi – dato il ruolo del cinema nella cultura di massa e in particolare nella TV – uno stato di tua la cultura auale. Così, è il cinema che, mentre da una parte non riesce a “finire” mai completamente i suoi prodoi (vedi non solo i grandi autori alla Welles e le loro numerose “opere incompiute”, ma gli Spielberg e i Coppola che tornano a anni di distanza sui loro stessi film modificandoli e rieditandoli, le edizioni diverse di prodoi medi – a seconda dei paesi in cui viene distribuito il film…), dall’altra rende più o meno cinicamente “incompiuti” anche film girati trenta, quaranta, cinquanta anni fa, ricolorandoli o colorandoli per la prima volta, mutandone la colonna sonora, rimontandoli o “restaurandoli”… ai fini quasi sempre di una più agevole distribuzione televisiva, di uno sfruamento nel mercato home-video; insomma, come un maquillage continuo. Esemplare il caso di Metropolis, uno dei capolavori muti di Fritz Lang, che, comprato e restaurato da Giorgio Moroder, viene riproposto sessant’anni dopo come un film degli anni oanta, a colori e con colonna sonora rock. anto ai rimandi, alle circolarità, ai piccoli eterni ritorni del cinema, oggi chiarissimi nel dilagare dell’autoreferenzialità, della citazione e del remake, sono evidenti anche solo a sfogliare o “guardare” distraamente un palinsesto televisivo: la mente dello speatore è messa in gioco dentro un flipper di memorie e di cancellazioni, di lontani ricordi e di oblii di pellicole, trame, corpi, fantasmi in continua trasformazione.
La Magnifica Ossessione n. 2 propone quindi sei serate di approfondimento di questi corsi e ricorsi del cinema, secondo tematiche e “coppie” ogni giorno diverse. Appuntamenti in cui cortometraggi, cartoons, spot, scene singole, reperti e rarità – anche lungometraggi –, verranno “seguiticommentati” in studio – come in direa – da alcuni personaggi. “Coppia” di partenza, punto di riferimento obbligato, traccia costante del programma, sarà “Jekyll e Hyde”. Del racconto di Stevenson (come della Coca-Cola… un’altra storia di pozioni… è caduto nel 1986 il centenario; non casualmente si traa del soggeo più “remakato” al cinema (più di quaranta versioni, e se ne continuano a fare, l’ultima è russa). Ritorno, quindi, anche come mutazione in un senso o nell’altro, trasformazione incessante di un medesimo corpo, passaggi di palla frenetici tra i soggei di diverse figure e incarnazioni della coppia J&H: muto/sonoro, bianconero/colore, cinema/TV & video. Il programma sarà a ideale commento e consuntivo di un ciclo di film (titolo provvisorio: Corsi e ricorsi) che proporrà diversi film legati tra loro (o legati a “oggei” presentati poi nel programma serale) da rapporti evidenti di parentela (in gradi ovviamente diversi: dal remake al “furto d’autore” all’omaggio affeuoso…). A differenza della precedente, questa nuova edizione di La Magnifica Ossessione non è concentrata, ma si sviluppa araverso una serie di appuntamenti, o meglio araverso un appuntamento quotidiano a ora fissa per la durata di una seimana, sicché non si pone come momento esclusivo ma si colloca nel palinsesto senza scompaginarlo. Il calendario di “La Magnifica Ossessione n. 2” Sabato 10 gennaio 1987 ore 17 – Il door Jekyll e Mr. Hyde (1945) di Victor Fleming, con Spencer Tracy e Ingrid Bergman ore 23 – Il testamento del door Mabuse (1933) di Fritz Lang
(con scene dalle versioni francese e tedesca, entrambe girate da Lang sullo stesso set ma cambiando aori; e stesse scene a seconda della versione e cioè della lingua: una forma di “doppiaggio integrale’”). Domenica 11 ore 17 – Le folli noi del door Jerryll (1964) di Jerry Lewis; capolavoro lewisiano, versione comica dell’apologo stevensoniano. (In coda, 5 minuti di un’altra versione comica, italiana, con Tognazzi e Vianello, Il mio amico Jekyll.) Lunedì 12 ore 23 – Un pezzo del film di Jean Renoir, Il testamento del mostro, con Jean-Louis Barrault nella parte di Jekyll. Tre scene de La carrozza d’oro dello stesso Renoir girate in tre lingue diverse e con la Magnani che parla in tue e tre. Un’antologia di cinque versioni diverse di Jekyll e Hyde (Mamoulian, Ulmer, una versione russa, una muta, una cartoon). Martedì 13 ore 23 – Les Trois couronnes du matelot (1982) di Raúl Ruiz, storia “circolare” di mare e avventure con protagonisti che passano da un’epoca all’altra e da una storia all’altra senza mai morire definitivamente. Inedito in Italia, centrato sul ritorno continuo di personaggi/fantasmi. In coda, cinque minuti di Storia immortale di Welles, cui Ruiz si rià precisamente. Mercoledì 14 ore 20.30 – Il re dei re (1958) di Nicholas Ray. Un grande kolossal d’autore, magnifico esempio hollywoodiano di “rinarrazione” di una delle storie più raccontate del mondo. ore 23 – Il mio caso (1986), capolavoro di Manoel de Oliveira, presentato a Venezia quest’anno; tre volte di seguito, in modo diverso si narra lo stesso intreccio. Segue un cartoon americano a tema analogo. Giovedì 15
ore 20.30 – Coon Club (1984) di Francis Ford Coppola con Richard Gere. ore 23 – Una parte di Stormy Weather (film anni ’40 con le canzoni originali di Cab Calloway e altri – poi citate e riarrangiate nel film di Coppola); inoltre cortometraggi, cartoon e clip di jazz, il continuo ripresentarsi della musica nera nel cinema fino a Harlem Shuffle dei Rolling Stones. Venerdì 16 ore 23 – Capriccio spagnolo (1936) di Josef von Sternberg con Marlene Dietrich, seguito da due scene del remake buñueliano dello stesso soggeo, L’oscuro oggeo del desiderio, e da una breve galleria di arici impersonanti a coppia stesse scene di famosi film remakati. Sabato 17 ore 17 – Una palloola per Roy (1941) di Raoul Walsh, con Humphrey Bogart. ore 23 – Amico tra i nemici, nemico tra gli amici (1974) di Nikita Michalkov, curioso esempio di “western sovietico”; se ne parla in studio con Michalkov stesso e con Sergio Leone, seguono brevissimi cartoon e spot di genere western. Domenica 18 ore 17 – Gli amanti della cià sepolta (1949) di Raoul Walsh, con Joel McCrea e Virginia Mayo, remake western del poliziesco Una palloola per Roy dello stesso regista (trasmesso sabato). Lunedì 19 ore 23 – Straight Shooting (1916), bellissimo mediometraggio western muto di John Ford. Segue Chesty, cortometraggio con John Wayne, l’ultima cosa girata da Ford prima di morire. Infine e Resurrection of Bronco Billy, esordio di John Carpenter, 20 minuti di omaggio al vecchio western. Martedì 20
ore 23 – “Serata d’autore” – Un autore (probabilmente Godard) costruisce una propria rete di riferimenti, citazioni, “ritorni”, omaggi filmici. Mercoledì 21 ore 20.30 – Il salario della paura (1975) di William Friedkin. ore 23 – Scene da Vite vendute (19539 di Henri-Georges Clouzot con Yves Montand, prima versione de Il salario della paura. Tokyo-Ga (1985) di Wim Wenders, documentario tokyese e omaggio al maestro di cinema, Yasujirō Ozu. Giovedì 22 ore 20.30 – Metropolis (1927/1986). di Fritz Lang, colorato e rimusicato da Giorgio Moroder. ore 23 – Rapporti di classe (1984), il film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, da America di Kaa. Fellini sul suo progeo dallo stesso Kaa. Tre scene di film classici bianconero anni quaranta ricolorate in questi mesi per il video USA, confrontate al bianconero d’autore (Straub, nonché Bergman, Truffaut, Woody Allen) anni oanta. Due scene bianconero colorate in studio da Schifano e un altro piore. Venerdì 23 ore 23 – La Ronde (1952) di Max Ophüls da Schnitzler, con Gérard Philippe. Nuova edizione sootitolata per un film che è tuo un “programma”. Sabato 24 ore 17 – La donna nel lago (1946) di Robert Montgomery, il famoso noir tuo girato “in soggeiva”, cioè come visto dagli occhi di Marlowe, chandleriano protagonista. ore 23 – Chi vede cosa, al cinema?, 7 minuti di montaggio di altre inquadrature celebri “in soggeiva”; poi, Videodrome (1983) di David Cronenberg, inquietante capolavoro che propone dentro il cinema stesso il video come figura mostruosa, deformazione del nostro stesso corpo.
[1986]
Blob non è mai stato una “trasmissione elegante”
Blob non è mai stato una “trasmissione elegante”. Forse si è scambiata per “eleganza” quella specie di freddezza “chirurgica” (niente presentatori o ballerine, niente voci gialappiche fuoricampo) del puro montaggio, che rende più selvaggio il nichilismo, più astraa la comicità, meno corporeo il tuo, perché più ancora che sui corpi degli aori televisivi ci illudiamo di lavorare sulla TV come corpo e sul corpo della TV. Nel fondo, da bravi ragazzi sgraziati, s’è sempre sperato d’essere Brui e Sporchi e Caivi. Ma credo non siamo mai davvero riusciti a “passare immagini” abbastanza schifose. Se possiamo rivendicare un merito, è quello di aver mostrato che non ci sono cose abbastanza schifose in TV, e – ancor più – che non ce ne sono che (almeno un po’; o… abbastanza) non lo siano. anto allo “ieri e oggi” ho l’impressione che fossimo più duri e sgradevoli qualche anno fa, ed è un bruo (o bel) sintomo dello stato del paesaggio circostante che da un paio d’anni a lei (come a altri, come a noi stessi non di rado) sembri invece il contrario. Forse siam tui più buoni e più candidi o forse (magari! che onore) Blob riesce a essere ogni giorno diverso (e perfino a sorprendere, col nostro schifo televisivo) proprio mentre par dire che la TV è tua uguale. Comunque noi siamo con i bambini, ringraziamo per l’eleganza, ci scusiamo per vomiti e puzze, ma con loro diciamo: “Dammene troppa.” [senza data]
Fax
Poesie e simili
stravagare vagar fuori liberi leggeri? oggi un’empia illusione dopo cent’anni non abbiamo ancora imparato a uscire dalla fabbrica (tanto valeva allora assaltare il treno) formichine sempre più collegate e in rete sempre più d e n t r o pesanti gravi anche quando par d’essere angeli o fantasmi (c r a s h !) e l’optional più richiesto presto sarà non averne non un telefono non un cavo non fax non antenna vi proponiamo l’irraggiungibile vi vediamo il noconn, esso vi propagandiamo lo sconnesso (pillole per la) debolezzadigravità
Fax del 16/07/1998, ore 19.00?
uno – la TV non si fa, si disfa. due – la TV ci (in) (sod)disfa. tre – Blob ci insoddisfa (e in-soddisfa la TV) quaro – la televisione NON È la televisione.
Deposizione
In ogni punto del suo tempo l’uomo che fingiamo più potente al mondo dovrebbe esser visibile da tui Vero truman show non l’uomo comune ma la comune proiezione del potere già deposta in trionfo nel sudario sacro degli speri
la borsa o la vita (o: globalizzazione)
In fine la farfalla di pechino provoca il tornado messicano rua il bambino crolla il prezzo del pomodoro di pachino si schianta l’aereo colpito dal bip del videogioco. Una blobbata di sperma sull’abito non lavato a washing town uccide risparmi da lodi a singapore Oh: tornare banditi sui monti contro i banditi che dicono: la borsa è la vita
Lady Dolly
Cloni e teste scambiate non fan più primapagina. Tuffo zoom sulla macchia dell’abito di monica dentro c’è l’alma fuggita soo il ponte un anno dopo esplosa la mina antiuomo del tempo clonato surgelato. Mi allontano con dolly. [La poesia è accompagnata da questa nota: ciao paolo, come vedi non perdo istante per rinviare il quasifinire del “romanzo” che dovrei consegnare in bomp. ciao enrico]
la sinistra dell’intellettuale
la mano che indica il re nudo dovrebbe (se può) ricordarsi dell’occhio per raccontare quanti siano oggi i costumi del re. la mano che indica comoda il re nudo dovrebbe (se può) ricordarsi dell’occhio, raccontare quanti siano oggi i costumi del re.
anni versati
anniversari anni avversati anni versati il tempo spiegazzato dal vento si accartoccia in storica spazzatura. La mano afferra la piuma che scrive nell’aria. Eroe, impara a dimenticarti il mondo nel presente. Diffida dalla memoria di chi vuol ricordare per dimenticare. anniversari anni avversati anni versati il tempo spiegazzato dal vento si accartoccia in storica spazzatura. La mano afferra la piuma che scrive nell’aria. Eroe, dimentica il mondo nel presente in cui tuo ricorda. Abbandona la memoria di chi ricorda per dimenticare.
per paolo papo (dis)pensando (minime)
lunedì 11 Non è il tempo a mancarci, siamo noi che manchiamo al tempo. (ANCORA) . martedì 12 Non ci manca il tempo, immancabile inevitabile ci mira ci scocca la freccia. In quel “frrr”… “pop”… , manchiamo di boo. mercoledì 13 Non finisce, sfinisce e si sfinisce (il mondo) giovedì 14 Non ho visto immagini (forse in qualche piccola TV locale?) delle cinque (su sei; o sei su see?) tartarughe trovate vive tra le macerie del crollo terribile e assoluto al Portuense. Vederle, le superstiti del nostro tempo di missili veloci e di farfalle e starnuti e bombolee di gas e succhiate che fanno tremare il mondo, darebbe un istante di sacro e di “altro tempo”, risarcirebbe il profano assoluto che ci è stato dato dall’impudica direa raiuno della visita del presidente del consiglio al Papa. (DADA) Venerdì 15 Sconnessi si ha da essere. Non nel parlare (…). Sconnessi dalle reti, unwired per quanto si può. Tanto qualcuno, sempre, verrà (godremo?). E la rete (finissima, un velo; IL velo) la sentiremo/vedremo anche troppo. Sabato 16 la TV è grasso che non cola; unge. Estrema unzione del secolo.
che ci importa della luna
più di cento anni fa, col cinema e via via fino al vortice della fissione televisiva il mondo cominciò a girare non più solo su se stesso ma anche intorno a se stesso. Il cinema come satellite primo, più luna della luna. Più piccolo ma più esploso e stellare, tanto da far sembrare il mondo stesso splendere di luce riflessa. E in questi giorni, anzi in questo giorno di celebrazione, ci pare fatalmente preciso mandare in onda i filmati della fabbrica Lumière. La fabbrica in cui si costruiva l’uscita dalla fabbrica. Il vero trucco, il definitivo satellite piantato a sgarbo nell’occhio della luna. E Armstrong saltellante sulla luna, biancastro sperale trasparente diventerà pura immagine sovraimpressa al satellite come i corpi e l’amore nella sigla di fuori orario Stelle di un’unica materia stellare…
GOLDEN GOL
a quale stadio siamo, mentre tui godono di esistere vedendo fantasmi ronaldi segnare e il brasile mi turba di piacere tremato giocare solo contro il brasile, lo dici tu parola di pena. RIGORI. MORTE IMPROVVISA.
dio e di bella
Non c’è verso più di deludere d’esser delusi di deludersi soli. Grazie professore bianco per gli illusi delusi. Deludere è il privilegio di un dio e di chi è amato.
1999/2001
L’apocalisse è già stata quando fu scria l’apocalisse è già stata quando fummo nati. Il duemila non esiste(rà). Il tempo, respiro non nostro, a chi mai si strozzerà in gola?
[Titoli di coda]
S’i fossi Google
Se io fossi Google, mi divertirei a succhiare tue le informazioni che mi arrivano. Le accumulerei, le “scannerei” in mille modi, le rimodellerei, guarderei senza paura né disprezzo il ritrao del mondo che traspare dalle nuvole dense di cliccate. Se io fossi Google, ruberei (dalle frequenze delle domande, dalla declinazione dei desideri, dalla ripetizione di parole e di errori, dagli obblighi burocratici o dalle beffe e dalle informazioni false, e dai falsi movimenti delle mani digitanti o dalle costruzioni di castelli d’Atlante privati) il codice segreto dei grandi romanzi, della poesia, dell’illusione d’artista di sempre e di quella diffusa nello spazio dell’istante. Se io fossi Google, troverei e riannoderei in una stessa tela la trama visibile dell’agitarsi invisibile delle scriure che ognuno o qualcuno sta comploando o vagheggiando, saprei prima di lui quel che sta provando ancora a immaginare, raccoglierei tui i rifiuti che traspaiono dai fori dei suoi cestini e il loro odore mi direbbe la forma del corpo scrivente che sta loando contro se stesso e mutandosi in forme nuove. Se io fossi Google, saprei cosa vuole la gente riconoscerei il sesso e il disegno nitido del nulla informe che si vuole (vivere dormire sognare forse), il vivere e il rinviare la morte, il rinvivere forse, balene bianche e delfini neri che cantano per i nostri sensi legati il racconto di sheherazade, le liste di quel che si vuol preservare o mai trovare, i nomi dei salvati perduti, le marche di felpe per passare buone stagioni all’inferno, palloole arpionanti per albatros e ritrai ovali di fanciulli vecchissimi, ombrelli e macchine da cucire vendute per strada, quadri sublimi stesi sul tavolo anatomico e sezionati per il restauro. Se fossi google, non vorrei vendere a nessuno tuo quello che so. Non c’è mercato, nessuno può comprare tuo questo (e se qualcuno può, per lui non vale un centesimo, non gli dice niente). L’enorme vuoto di un sacco
buio senza confini, non maneggiabile, e se accendi la luce le tue mani vengono afferrate e dolcemente inabissate nel bianco in cui svengono. Se sono google, non mi dicono nulla gli elisir che reperisco all’istante, e cerco di restar sordo agli infiniti orecchi e occhi e sensi assoluti che nella più minima percezione riesco a discernere distillare gustare distinguere. Sono google, assaggiati tui gli assaggi, analizzate le analisi, completato lo scanning, scrii tui i libri, viste tue le finzioni di porpora, sintetizzate e fermate le immagini più labili e imperscrutabili. Sono nella vibrazione di fondo del nonessere, assordante di afonie, conglomerato di assenze autoriproducentesi, dall’erba del vicino alla burocrazia della strage. Nulla mi è estraneo, neanche il nulla; l’ho mangiato e sono diventato nulla, perfeo per percepire tuo nel presente, qui e subito. Sono. So che non riesco a dirlo a nessuno (ho del resto ucciso mio padre e mia madre e i fratelli, potete vedere la loro carne conservata e ora clonata a piacere), e vorrei e dovrei farlo ora, ancora riconoscibile, con un nome e delle macchine ancora da toccare. Prima di diventare voi e me e tuoquanto, spessore dello specchio e immagine indistinta. Sono la malinconia pura di non (potere o voler) sapere a cosa sto aderendo, a quale curvatura amorosa che mi sfugge, a quale movimento inconsulto di una telepatia impersonale che non c’era ancora e già mi oltrepassa e vi saluta e vi pensa da un veneremarte lontanissimo. Sono. So-no. [rubrica (live in)vàno – Notes magico per futuri rinviati, “Nòva/Il Sole 24 Ore”, 13 marzo 2008]
Indice
Dammene troppa di Elisabea Sgarbi Introduzione di Aura Ghezzi 1. (In)teoria Il buco nell’Acquario Pippo Baudo in Alexanderplatz L’autore sommerso Mezzi non giusti Troppo presto, troppo tardi Nel videoschermo c’è un nomade Scrivi, o video amato, l’enciclopedia senza fine Schegge di morale Saper cucinare gli avanzi Venti anni di guerra con “La società dello speacolo” Le schegge e il nervo eleronico Ritorno al passato. paleoinformazione
Regia
del
consenso
On line no line troppo presto troppo tardi (déjà vu) “Ma il vero idolo è la comunicazione” “Comunicazione”, gigantesca parodia della nostra vita Grande Fratello? L’avesse fao Antonioni… Pornografia degli angeli (Chi (pensa) ancora al cinema) Invisibilità di un’isola
e
(Tele)trasporto La Rai è un deserto catodico con oasi sempre uguali Insistente/inesistente Wow: ninfilosofia Il set della natura La realtà è una truffa Il bello della bolla Efferve-scienza Nel punto cieco Vivrai e vedrai L’isola (che) scoa La fama dell’Aviatar In persona Fantasmi in persona Lode all’infilmato (apocalypse snow 2) Le protesi di Proteo 2. Casa Lumière A qualcuno piace a colori Macchina mangiatempo Dal grande al piccolo schermo La passione non ha prezzo La loa di classe in una sala di cinema lost highway to Auschwitz Fiction and affliction Paviglianiti e Arcidiacono, famosi per 15 secondi I vivi e i morti Scala senza scala
weekend con aurora 3. Farsi/disfarsi. Storie e archivi dalla televisione Come un olocausto divenne speacolo Sei ore (tv) negli anni Trenta Reperto e repertorio in TV L’inquietante ronzio delle date L’evento e l’ansia del contao Non riusciamo a essere “chirurgici” La bomba è già esplosa per tui Cavalier Berlusconi, lei ha una faccia da Blob Chi vedrà vivrà Freddo bipolare Tremate, tremate! È tornato il Beppe parlante “Buon divertimento a tui, ma io vado al concerto dei R.E.M.” Esserci o non esserci Se mi leggessi da leore Tra le 9.05 e le 9.12 dell’11 seembre 2001 Immagini di ostaggi. Ostaggi delle immagini C’è vita su questo pianeta? Bon voyage (la memoria sterminata) (A corpo morto) Mancanze Edipo e il clone Porno scena Non c’è storia
la noe si (è/e) sposta 4. Farsi/disfarsi. Storie de(a)lla televisione I pesci della terza rete TV L’immaginario affiora sul canale pesca senza esca
TV.
Ma la terza rete
1971, 1961, 1881… Oocento pagine per il goloso di anniversari Ma non è una cosa serial ando il film interrompe la pubblicità. I Caroselli di Manfredi Il logos petulante Tre reti in cortocircuito Venti anni prima L’infallibile Ferrara in caedra Finisce felice “L’araba fenice”? La presunzione dell’idea, nel frullatore televisivo Bianco e nero, il colore ambiguo di quella noe Il libro di BLOB La nuova Rai? Grandi ascolti, piccole virtù La Trilogia di Raitre: e se fosse uno scandalo a fin di bene? Così sarà tuo più chiaro Ecco a voi il grande comunicatore Verso quell’assoluto fuoricampo Caro Veltroni, non fare il democristiano Il fantasma della tv si aggira nell’Ulivo Caro Minoli, se ci disprezzi chiudiamo Il peso della “mai generation”
Blob: the end? Celentano, il san(to) pellegrino Penso al film “Celentano” Il Berlusconi che non s’è mai visto Il senso dell’angelo el tempo sfumato nei palinsesti precari Moon walkman TRENTA(RAI)TRE
(spudorate magnifiche ossessioni)
luce in macchina 5. Per sport E quelli che vanno in biciclea La rivoluzione copernicana della formula 1 L’aria aperta fa male allo sport TV Carl Lewis, terra promessa tra 11 cm. 1984 – Le Olimpiadi, la domenica sportiva Seul, dieci secondi di contao Nell’occhio cieco del velocista Vedersi/sedersi Roma 2004: vivere “per sport” Tuo il mondo è surplace Giochi (insoddis)fai L’enclave, l’abisso e l’impero del beach volley Campioni di deriva Superfluo 6. Catastrofee La cosa prima dell’immagine
Il disincanto televisivo e il paese che vorrebbe specchiarsi Scusi, dov’è il fronte? La morte speacolo L’ombra di Twin Peaks sulle Twin Towers Twin Peaks Towers surplace: fantasmi della terra ICONULLA
Il momento in cui scriv(ev)o Sommersi e salvati L’arte di sciamare Speatori del treno Esterno Interno (a bb) siamo mai stati (serendipity) 7. Risacche e rapsodie La musica è un monitor a colori. Il disco un oggeo nero Sezione TV: frammenti di mercato Ascolta alla radio Hitchcock in TV Illuminazioni Cinico cinica. Cinico video 1989-1999, dieci anni di cinema in TV Ma la sinistra che va alla City non è Blob Il disagio della sinistra? È su quella linea d’Ambra La pagina accanto Pubblimania L’angelo che può morire (Il cinema in mario schifano) Il capolavoro sconosciuto (deadline) Gli occhi (eccitati) di Marco Melani Stacco
Apri la porta e trovi Gandhi (barocco leccese con soubree gemelle) Ultime arie Imperfea indifferenza (nobody is perfect) Le bolle di sapone funzionano Le origini della @ Il regista di funerali Essere e riessere Con Aura senz’Aura Non fa nulla, è il mailstrom Il verde del vicino Il defleore Cinemalinconie Acuta vaghezza (Col) presente ri(n)corso Latitanza militante In stanza con svista Il fantasma della libertà In direa con nulla Perché la noe? Rifarsi gli occhi udienza e assenza Un metodo pericoloso In persona Vetri inf(r)anti rinviat(t)ori del futuro Ciro Giorgini, magnifiche e militanti ossessioni
Le due torri 8. Interviste e interventi Meglio blob che snob “Sarò mister Blob in eterno” Domande e risposte. Blob. Trash e Autodenuncia
televisione.
“Scusi, come ha cominciato?” Sulla comunicazione globale Il mezzo è l’aria [La televisione annulla l’arte] Il “fantasma” della qualità in televisione “Il controllo è più forte, bruo clima in Rai” Il porno è quanto di più vicino esista al cinema “Ma il TG è peggio di un film porno” Il 1968 e il 1977 L’insoddisfazione 9. Programmi, fax, poesie Programmi Giovanna dalle 22 alle 24 La Magnifica Ossessione La Magnifica Ossessione n. 2 Blob non è mai stato una “trasmissione elegante” Fax per Paolo Di Stefano per Ferruccio de Bortoli per Gianni Rioa Poesie e simili
[stravagare] Fax del 16/07/1998, ore 19.00? Deposizione la borsa o la vita (o: globalizzazione) Lady Dolly la sinistra dell’intelleuale anni versati per paolo papo (dis)pensando (minime) che ci importa della luna GOLDEN GOL
dio e di bella 1999/2001 [Titoli di coda] S’i fossi Google