La tempesta imperfetta. Viaggio nella mente di chi crede alle fake news: NOI. [1/1, 1 ed.] 9791221203950


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La tempesta imperfetta. Viaggio nella mente di chi crede alle fake news: NOI. [1/1, 1 ed.]
 9791221203950

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BARBASCURA X

LUCA PERRI

La tempesta IMPERFETTA Viaggio nella mente di chi crede alle fake news: NOI

DeAgostini

© 2022 De Agostini Libri S.r.l. Redazione: Via Inverigo, 2 − 20151 Milano Testi: Barbascura X, Luca Perri Illustrazioni: Sio Coordinamento redazionale e correzione bozze: Alessandro Prandoni Impaginazione: Fabio Mittini, Alessia Arrighetti Questo volume prende spunto da Infodemic, un documentario nato da un’idea di Matteo Foresti. Prima edizione ebook: ottobre 2022 ISBN 979-12-212-0395-0 www.deaplanetalibri.it Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Indice Gli autori Introduzione (L. Perri) Capitolo 1 (L. Perri). Siamo fatti così: MALE Capitolo 2 (L. Perri). Quando il saggio indica la Luna... qualcuno gli urla che non ci siamo stati Capitolo 3 (P. Tosi). OGM. Di cosa diavolo stiamo parlando Capitolo 4 (P. Tosi). I vaccini Capitolo 5 (L. Perri). Con le mani con i piedi e con il clima ciao ciao Capitolo 6 (P. Tosi). Sangue nero Conclusioni (P. Tosi, L. Perri) Bibliografia essenziale Le versioni di Sio

Gli autori Barbascura X (Pierluigi Tosi, Taranto, 2 maggio 1987) è uno dei divulgatori scientifici più seguiti del web, divenuto celebre grazie al suo format “Scienza Brutta”. Ha un dottorato in chimica ed è autore di libri, programmi TV, spettacoli teatrali e podcast di successo, nonché vincitore del prestigioso Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica Giancarlo Dosi 2020. Per De Agostini ha pubblicato La versione del Tardigrado improbabile (2021).

Luca Perri (San Giovanni Bianco, 4 luglio 1986) è astrofisico dell’Istituto nazionale di Astrofisica. Divulgatore su diversi media nazionali (tra cui Rai, «Repubblica», «Corriere della Sera», Focus, Radio Deejay e Radio 24), conduce trasmissioni di Rai Cultura come Superquark+. Autore e formatore di De Agostini Scuola, con De Agostini ha pubblicato Errori galattici (2018), Partenze a razzo! (2019), Pinguini all’Equatore (2020) e Apollo credici (2021).

Sio (Simone Albrigi, Verona, 8 ottobre 1988) è uno dei fumettisti più popolari in Italia con il suo canale Youtube da oltre 2 milioni di follower, Scottecs, e l’omonima rivista. Ha vinto due Gran Guinigi ed è campione di vendite anche in libreria.

INTRODUZIONE (L. Perri) L’era in cui si scoprirono le bufale La potenza è nulla, senza il controllo. R.L.N. de Lima, 1998 Nel 2013 il World Economic Forum inserisce ufficialmente la diffusione di disinformazione attraverso i media – le cosiddette fake news – nella sua lista dei maggiori rischi globali per il futuro. Quando lo fa, però, la minaccia appare ancora poco chiara. Indistinte nuvole oscure che si addensano all’orizzonte. A comprendere come queste possano realmente concretizzarsi in una tempesta sono in pochi. Di certo non il grande pubblico, ma neppure la maggioranza degli esperti di comunicazione. Tre anni dopo, l’Oxford English Dictionary, principale dizionario storico della lingua più parlata al mondo, elegge il neologismo post-verità (post-truth, in inglese) a “parola internazionale dell’anno”. Secondo i componenti della commissione oxfordiana, il termine denoterebbe “le circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica rispetto agli appelli alle emozioni e alle convinzioni personali”. In pratica, l’espressione descrive l’atteggiamento per cui le persone considerano ininfluente la differenza fra ciò che è vero e ciò che non lo è, e diffondono le notizie a seconda dei propri interessi o delle proprie convinzioni. E, soprattutto, senza darsi minimamente la pena di verificarle. Secondo gli esperti di Oxford, dunque, la verità sarebbe una variabile indipendente nei nostri processi decisionali. A convincerli di avere a che fare con “una di quelle parole che potrebbero definire il nostro tempo” arrivano proprio nel 2016 due serie di avvenimenti: la sistematica creazione di disinformazione pro-Brexit e le campagne social (denigratorie e fondate su notizie false) atte a screditare la candidata Hillary Clinton nella sua corsa alla Casa Bianca, vinta poi da Donald Trump. I primi grossi fulmini cominciano a squassare il terreno: c’è un pericolo che incombe sulle decisioni dei singoli come in quelle della comunità. All’improvviso, il mondo sembra accorgersi che l’essere umano non sa distinguere razionalmente una notizia vera da una falsa più di quanto un fisico, in ambito mineralogico, non sappia discernere un tocco di ortoclasio da uno di apatite. Le notizie sulle false notizie diventano di alta notiziabilità (lo scioglilingua newsworthiness, in inglese), ovvero ciò che in sociologia della comunicazione può definirsi come l’attitudine di un evento a essere trasformato in notizia. Cosa vuol dire? Che tutti cominciano a parlare di fake news e bufale. In ogni ambito, dalla politica all’economia, dalla scienza alla storia. E anche quando non c’entrano nulla con l’argomento trattato. Il tema bufale smette quindi di essere analizzato solo da una nicchia di professionisti e diventa mediaticamente onnipresente. “Oggi previste un po’ di piogge nelle regioni orientali. Mi raccomando, portatevi un ombrello per proteggervi dalle fake news!”. “Il Manchester United vince soffrendo, ma alla fine è riuscito a difendersi dalle fake news!”. “Il vincitore del pressure test è colui che non ha usato la mozzarella, perché le bufale vanno sempre evitate!”. Mentre la comunità scientifica cerca di avviare indagini sull’effettivo impatto della disinformazione sulle decisioni individuali, i mezzi di informazione non hanno dubbi: la disinformazione è il pericolo numero uno della democrazia. Tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita quanto impatti la copertura mediatica sulla percezione dell’importanza di un argomento. Maggiore è lo spazio dedicato dai media alle opinabili scarpe della Lidl dai colori spaccacornee (anche per i daltonici), maggiore è l’importanza del tema ai nostri occhi, tanto da portarci ad acquistarne decine di paia per rivenderle su eBay a migliaia di euro. E dire che non erano neanche una serie limitata. Allo stesso modo, se i media continuano a ripetere dalla mattina alla sera alla popolazione che le fake news stanno minando la nostra società, le persone vivranno nel terrore delle bufale. E, in effetti, così accade. Ma l’era in cui viviamo, l’era di Internet e dei social, è realmente l’era delle fake news? Il Constitutum Constantini è un documento in latino che riporta la data del 30 marzo 315 e la firma dell’imperatore Costantino. Al suo interno l’imperatore rende esplicito il desiderio di lasciare palazzi, città, regioni, tutti i possedimenti dell’Impero romano d’Occidente al papa. Costantino si trasferirà invece sul luogo dell’antica Bisanzio, nell’Impero d’Oriente. Il documento della donazione di Costantino influenzerà per secoli la politica e il potere del papato, tanto da contribuire alla fondazione dello Stato Pontificio. Peccato che sia falso. Il più famoso falso medievale dell’Occidente e probabilmente la frode meglio riuscita della storia. Così come erano falsi i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, fantomatici documenti segreti attribuiti a una cospirazione ebraica e massonica il cui obiettivo era impadronirsi del mondo. In realtà furono creati dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, con l’intento di diffondere odio verso gli ebrei. Una cosa che riuscì fin troppo bene, visto che i protocolli furono ripresi e stampati anche in Germania, entrando con un ruolo di rilievo nella propaganda antisemita del Terzo Reich. Guardiamo poi la storia di Cristoforo Colombo, le cui prestigiose origini sono contese da diversi stati quali Spagna (sia dalla Castiglia che dalla Catalogna), Portogallo e Polonia. Ma noi lo sappiamo che era italiano. Anzi, genovese! Forse. Perché anche in Italia si bisticcia non poco. Forse era di Savona, o di Cogoleto, o di Terrarossa Colombo, Cuccaro Monferrato, o forse ancora Bettola. Infine, per fare un esempio un po’ più recente, pensate allo scandalo Watergate, che nel 1972 partì dalla scoperta di intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del Comitato nazionale democratico da parte di uomini legati al Partito repubblicano. Con ovvi tentativi di insabbiamento. Le indagini portarono alla richiesta di impeachment e infine alle dimissioni di Richard Nixon. Qualcuno potrebbe però opporsi a questo elenco: questa è sì disinformazione e ha certamente portato a conseguenze tangibili sulla società, o quantomeno ha contribuito a legittimare decisioni prese da organi di potere, seguiti poi dai cittadini; ma i complotti, purtroppo, ci sono sempre stati. Oggi però, si potrebbe dire, siamo messi peggio: le notizie vengono create con una facilità disarmante anche da emeriti sconosciuti senza alcun potere mediatico o decisionale e finiscono col diventare virali. Una volta questo non accadeva! Risponderò con un esempio. Tutti ben sappiamo che la Grande Muraglia cinese è l’unica opera umana visibile dallo spazio a occhio nudo. È pure scritto nei libri di testo. Peccato che... no. Assolutamente no.

Non intendo che non sia l’unica opera umana visibile dallo spazio, intendo che non si vede proprio. Ma neanche a impegnarsi. Secondo le ultime misurazioni ufficiali la muraglia è lunga 885.8 chilometri. Mille volte l’altezza del monte Everest e quasi sette volte la lunghezza dell’Italia dalle Alpi a Lampedusa. Poffarbacco! Deve averlo pensato anche colui che ha dato origine – senza troppo volerlo – alla leggenda metropolitana in questione: l’antiquario inglese William Stukeley. “Fa una notevole figura sul globo terrestre e potrebbe essere individuata dalla Luna”, scrisse. Il problema è che il muretto in questione, alla base, è largo sei metri e mezzo. Meno della larghezza di una porta da calcio. Nel punto più largo misura nove metri e dieci centimetri. Meno di un autobus. Se si vedesse dall’orbita terrestre – non sto nemmeno a scomodare la Luna perché non voglio infierire – allora lo sarebbe anche casa tua, dato che probabilmente è più larga di sei metri e mezzo (a meno che tu non viva in un loculo a Tokyo). Vedere a occhio nudo dall’orbita bassa (dove c’è la Stazione Spaziale Internazionale, per intenderci) quel muretto marroncino su sfondo marroncino equivarrebbe a individuare un capello da un decimo di millimetro di spessore da 6.2 metri di distanza. Perché faccio questo esempio? Perché la frase incriminata, che ancora influenza i nostri libri di testo delle elementari, è stata scritta nel 1754. Quasi due secoli e mezzo prima di Internet (e a duecentosette anni dalla prima missione spaziale che potesse verificare la cosa). Le bufale probabilmente esistono da quando è nato il linguaggio. Forse anche da prima. Gli esempi potrebbero letteralmente essere migliaia. Oggi abbiamo solo una comunicazione più veloce. Il 23 agosto 2011 un terremoto di magnitudo 5.8 colpì lo stato della Virginia. Le onde sismiche impiegarono trenta secondi per risalire la costa orientale degli Stati Uniti e raggiungere la città di New York. Mezzo minuto per percorrere oltre seicento chilometri. Un sogno, per il sistema dei trasporti americano, figuriamoci per Trenitalia. Ma un’eternità, per un social come Twitter. Quando le onde sismiche giunsero a New York, una fetta della popolazione era già stata avvisata. Da una cascata di cinquemilacinquecento tweet al secondo. Un mondo tanto connesso è l’ideale per diffondere news rapidamente, la cosa è valida anche per quelle fake, che vengono lette e condivise in maniera acritica. Ma dire quindi che viviamo nell’epoca delle fake news è un po’ come dire che siamo nell’epoca dei viaggi pericolosi solo perché le nostre auto possono viaggiare più veloci dei carri trainati da muli. Ah, bei tempi sicuri quelli del Far West... Semmai, dal punto di vista dell’informazione, l’era in cui viviamo è un’altra. L’era dell’infodemia A febbraio 2020 le bufale scientifiche sulla nuova pandemia proliferano, sommandosi a un mare di informazioni più o meno verificate o attendibili provenienti dalle fonti più disparate (testate giornalistiche ampiamente incluse), riportate o fruite in modo sintetico e frettoloso. Nei comunicati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità comincia a essere utilizzato sempre più di frequente un termine nato sul “Washington Post” nel maggio 2003 per indicare gli effetti globali dell’epidemia di SARS nei media: infodemia. Un neologismo che descrive l’inarrestabile epidemia di informazioni pronta a travolgere tutti noi. Quando le nubi riversano cascate d’acqua e l’onda di piena della pandemia informativa giunge, finiamo con l’annaspare giorno dopo giorno in un mare di notizie arrivando infine al cosiddetto information overload (cioè il sovraccarico di informazioni). Ne conseguono un abbassamento dell’attenzione, meccanismi di evitamento delle informazioni e difficoltà nel prendere decisioni logiche per incapacità di filtrare le informazioni stesse. In un simile momento di difficoltà, la nostra mente cerca una direzione da seguire fra le correnti, sfruttando flussi cognitivi apparentemente vantaggiosi. Che però, spesso, ci conducono in una sequenza di gorghi e rapide da cui non è affatto facile uscire indenni. Se oggi cadiamo più spesso preda delle fake news non è perché ce ne sono di più, sono create meglio o su internet funzionano all’ennesima potenza. Ci caschiamo perché la nostra mente non regge il carico di informazioni a cui siamo sottoposti e nel rumore non segue istruzioni, ma intuizioni. L’emergenza bufale è una bufala? È in momenti come questi, dunque, che appare fondamentale il compito del debunker, colui che individua e smantella le bufale. Giusto? Forse. Sembra sia difficile cancellare informazioni dalla nostra mente semplicemente affermandone la falsità, anche se la correzione avviene pochi attimi dopo la prima ricezione delle informazioni stesse. Una volta che avete letto una notizia e l’avete presa per vera, quindi, tenderete a rimanerne convinti. Questo fenomeno, studiato e descritto per la prima volta nel 1994 da Hollyn Johnson e Colleen Seifert dell’Università del Michigan, viene chiamato effetto di influenza continua. Per Brendan Nyhan e Jason Reifler, politologi dell’Università di Exeter, il debunking potrebbe addirittura avere un effetto boomerang chiamato ritorno di fiamma (backfire effect). Ammetterai che è difficile smontare una bufala senza menzionarla; ma quando le persone recuperano la notizia nei meandri della memoria attraverso processi mnemonici semplici, questa sembrerà loro più familiare della nuova e complessa (e magari noiosa) spiegazione. Nel 2017 lo studio di un team internazionale guidato da Walter Quattrociocchi, all’epoca coordinatore del CSSLab alla Scuola IMT Alti Studi di Lucca, ha analizzato i post e le interazioni di cinquantaquattro milioni di utenti Facebook statunitensi in cinque anni, approfondendone il “consumo” delle informazioni. Lo studio ha evidenziato che le persone si raggruppano in comunità tribali virtuali, che selezionano, fruiscono e condividono solo contenuti relativi a una specifica opinione, ignorando gli altri. In pratica, recinti virtuali ma chiusi, dai quali gli utenti faticano a uscire. In fondo è così bello vivere assieme a quelli che la pensano come me! Mondi che rappresentano un incubo per i debunker, perché allungano la circolazione e quindi la vita delle bufale. E, se si prova a entrare per fare pulizia di fake news, i padroni di casa di solito non la prendono affatto bene a causa del fenomeno della dissonanza cognitiva, per il quale tendiamo a rifiutare nuove informazioni se queste contrastano con quello in cui crediamo fermamente. Secondo lo studio di Quattrociocchi, quindi, i post di debunking non attirerebbero gli utenti a cui sono indirizzati (coloro che credono alle bufale), ma raggiungono chi è già in sintonia con uno spirito scettico e più scientifico. Quei pochi “complottisti” che vi si imbattessero per caso reagirebbero rafforzando le proprie convinzioni per effetto backfire. Allo stesso modo, l’esposizione alle fake news modificherebbe solo in minima parte le idee delle persone e dire che le bufale abbiano modificato gli esiti di consultazioni popolari come la Brexit o l’elezione di Trump sarebbe una

forzatura. Così come sostenere che abbiano influito sulla campagna vaccinale per il Covid. È tutto perduto? Queste ricerche sono estremamente interessanti e indubbiamente hanno esplorato nuove strade per l’analisi del mondo della comunicazione. Cerchiamo però di contestualizzarle, prima di decidere che tutto è perduto, smettere di scrivere questo libro e attendere la fine del mondo sulla spiaggia di un’isola greca sorseggiando cedrata. Come dichiara lo stesso Quattrociocchi, “l’effetto che hanno le informazioni online sulle intenzioni e il comportamento degli utenti offline è ancora una questione scientifica aperta”. Il primo innegabile effetto della disinformazione non è tanto il cambiamento di opinione, ma il caos informativo. Secondo lo studio, questo e le altre dinamiche della comunicazione sembrerebbero rendere contemporaneamente inefficienti sia le fake news che il debunking. Il che, per principio di simmetria, mi torna anche. Ma se gli effetti si limitassero a quelli descritti, io non dovrei riuscire a creare alcuna narrazione dominante di alcun tipo fuori dalle tribù sociali. Non ci riuscirei né con la disinformazione né con la corretta informazione. Ma credo sia un dato inconfutabile il fatto che, fuori dai gruppi di persone con cui ci piace confrontarci, esistano informazioni e narrazioni dominanti condivise, che si creano e cambiano nel tempo. Si chiama cultura. O anche scienza. E siccome non siamo di fronte a tante tribù che vivono con scienze differenti e distanti, evidentemente ci sono altre dinamiche in gioco che non sono state considerate nello studio. La ricerca analizza inoltre il grado di polarizzazione delle persone, ovvero quanto divisioni e posizioni tendono a inasprirsi. Purtroppo, però, il termine polarizzazione ancora oggi è mal definito: indica sia la distanza da un ipotetico centro (come nello scenario politico), sia l’intensità di una convinzione. Mi spiego peggio: mi polarizzo non solo posizionandomi all’estrema destra o all’estrema sinistra, ma potrei farlo moltissimo anche nella mia posizione centrale. Tipo Mastella. E se matematicamente si può misurare il cambio di polarizzazione a seguito dell’esposizione alle informazioni (nell’ipotetica direzione destra-sinistra), non si può fare in direzione “verticale”. E un conto è che io voti Trump perché Biden proprio non lo posso vedere, un conto è che una campagna di disinformazione abbia radicalizzato la mia posizione e io, pieno di rabbia, decida di assaltare il Campidoglio. E a proposito di estremismi, dal punto di vista storico si è notato un fenomeno interessante. Quando all’interno di un movimento a favore dei cambiamenti politici esistono un ramo più conservatore o moderato e uno estremista, quest’ultimo viene solitamente tacciato di essere delegittimante. Ma la sua presenza facilita un interessamento mediatico verso le richieste del movimento nel complesso (e coi media arriva anche la politica). Della serie “Fammi capire cosa vogliono ’sti qua che fanno casino, e magari cerchiamo di trattare con chi sembra meno esagitato”. Questo fenomeno, in termini di polarizzazione e di circolazione della notizia, non è misurabile perché apparentemente non sposta nulla. Eppure ha effetti tangibili sulle decisioni di uno stato! Non a caso questo meccanismo è sfruttato dalla propaganda di alcune categorie, ma anche da quella di stato. Il fatto è che, purtroppo, quando si analizza il rapporto fra informazione e formazione dell’opinione, alcuni meccanismi e fenomeni sono difficilmente quantificabili senza forzature: entrano in gioco moltissime variabili come il background culturale del singolo individuo e della società in cui vive (per cui servono anche comparazioni cross-culturali).

Dovremmo quindi capire quanto il campione dello studio di Quattrociocchi, per quanto molto ampio, sia rappresentativo. Comprende infatti solo persone statunitensi (che non necessariamente ragionano come gli europei, gli asiatici o gli africani). Statunitensi, dicevamo, e per giunta su Facebook, non propriamente un salotto di buone maniere in cui scambiare pacatamente ed educatamente le proprie opinioni. Riprendendo le parole del debunker Paolo Attivissimo, “usare Facebook per vedere chi si converte dal complottismo è come andare allo stadio durante un derby per vedere chi cambia squadra del cuore”. Gli stessi studi andrebbero quindi eseguiti non solo anche su altri social, ma su altri media, per poi fare comparazioni fra piattaforme e mezzi. Lo dico con la sofferenza nel cuore, da fisico: purtroppo non sempre si possono usare solo i numeri puri. Ecco perché da decenni per studiare questi argomenti collaborano fra loro le scienze della comunicazione, la sociologia della comunicazione, la psicologia sociale e pure l’antropologia. E proprio queste branche, negli ultimi anni, hanno mostrato con diversi studi effetti rilevabili delle campagne di disinformazione. Le fake news avrebbero modificato l’intenzione di ridurre la propria impronta ambientale o impegnarsi in azioni politiche, la fiducia nel governo, l’attenzione al distanziamento sociale e alle vaccinazioni. In questo caso specifico, uno studio del 2021 ha stimato una diminuzione dell’intenzione a vaccinarsi per il Covid nel 6,2% della popolazione del Regno Unito precedentemente disposta a farsi somministrare il vaccino. Negli Stati Uniti, invece, tale diminuzione è stata del 6,4%. E il 6% non sono proprio bruscolini. Anche perché bisognerebbe approfondire il rapporto fra la dimensione psicologica dei singoli e quella della comunicazione di massa. Il fatto che sulla grande popolazione (o su gruppi interni alla popolazione) si registrino raramente inversioni di rotta non è in contrasto con un altro dato: con una corretta divulgazione si può fare psicologicamente breccia nelle singole persone. Inoltre, l’entità dell’effetto ritorno di fiamma viene oggi messa in discussione da uno studio di Thomas Wood (Ohio State University) ed Ethan Porter (George Washington University). Wood e Porter hanno coinvolto oltre diecimila persone presentando correzioni ad affermazioni di esponenti politici e hanno concluso che “le prove di un effetto boomerang sono molto più deboli di quanto suggerito da ricerche precedenti. In maniera significativa, i cittadini cercano informazioni basate sui fatti, anche quando queste informazioni contrastano con le loro posizioni ideologiche”. La situazione, quando si parla di informazione e disinformazione, è complessa e quasi mai ci consente di giungere facilmente a una conclusione univoca. Per massimizzare il contrasto alla disinformazione, comunque, ricercatori quali lo scienziato cognitivo Stephan Lewandowsky dell’Università di Bristol o lo psicologo sociale Sander van der Linden di Cambridge stanno tentando di individuare possibili temi e argomenti polarizzanti per l’opinione pubblica, ovvero gli argomenti su cui nascono più fake news. Una volta identificati questi temi, lo scopo è intervenire strategicamente sui fattori sfruttati dai produttori di fake news (per esempio la manipolazione emotiva del pubblico, o le tecniche e le strategie argomentative usate in ambito climatico) per spegnere e disinnescare sul nascere la polarizzazione. A questa branca della lotta alla disinformazione si è dato il nome prebunking. In pratica si vaccinano le persone alle fake news prima che ne vengano colpite. Per tutte queste ragioni, magari da illusi, magari da ottimisti senza motivo di esserlo, abbiamo continuato a scrivere il libro che ora stringete fra le mani. Non ce la sentiamo di prendere un volo per la Grecia così, senza provare a fare nulla. Smantellare bufale e complotti (o, almeno, provarci) è quantomeno un buon modo per studiare i complessi meccanismi che ci portano a credere a essi. Alla peggio, speriamo di fare un po’ di prebunking!

Capitolo 1 (L. Perri). Siamo fatti così: MALE “Molti benpensanti si esprimono come se fosse compito dello scettico smentire i dogmi e non del credente dimostrarli. Se io sostenessi che tra la Terra e Marte vi fosse una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al Sole su un’orbita ellittica, nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi purché io avessi la cura di aggiungere che la teiera è troppo piccola per essere rivelata persino dal più potente dei nostri telescopi. Ma se, visto che la mia asserzione non può essere smentita, io sostenessi che dubitarne sia un’intollerabile presunzione da parte della ragione umana, si penserebbe giustamente che stia dicendo fesserie”. Quello che hai appena letto è la metafora della teiera celeste, ideata (e qui anche spiegata) dal filosofo britannico Bertrand Russell per opporsi all’idea – purtroppo molto diffusa e anche incoraggiata nei dibattiti social o in quelli mediatici – che spetti allo scettico l’onere della prova in merito ad affermazioni non falsificabili, e non a chi le propone. Se ti dico che il profumo dei bignè è consigliabile per la tua salute, non dovresti essere tu a dimostrare l’assurdità della mia boiata, piuttosto si chiederebbe a me di portare prove a sostegno della mia ipotesi (che comunque secondo me è evidentemente corretta). A maggior ragione se ciò che dichiaro si oppone a una conoscenza già convalidata da numerose evidenze scientifiche. La strategia di chi si lancia in affermazioni molto “forti” (dai, non farmi scrivere “a cas...”, ecco, vergognati!) è quella di sostenere che, se la scienza fosse davvero giusta ed equa, ogni affermazione avrebbe diritto di essere espressa e discussa. Toccherebbe a chi non ci crede, se mai, dimostrarla falsa. E lasciamelo dire: se non sei d’accordo con questo assunto, fai sicuramente parte del grande complotto e demonizzando la mia intuizione vuoi insabbiare la verità, oppure sei una persona soggiogata alla narrazione comune diffusa dalle élite antibignè! Forse ti sembrerà che io stia esagerando, eppure – facci caso – questo è proprio ciò che accade nei moltissimi “dibattiti” mediatici in cui intervengono i cosiddetti complottisti. Ma potremmo anche dire che coi creazionisti le cose non vanno troppo diversamente. O con gli astrologi. Ma non starei qui a elencare tutte le categorie. Sintetizzerei con una frase di Stephan Lewandowsky: “Gli scienziati testano le ipotesi, i teorici della cospirazione le confermano”. Ora, c’è da chiarire un punto: l’argomento di Russell non implica che non avere prove dell’esistenza di qualcosa sia una prova che questa non esista. Così come, da un punto di vista logico, la metafora della teiera ci dice che non si può decidere che una teoria sia vera solo perché non riesco a confutarla. Ma la domanda a questo punto è: devo davvero provare a confutarla?

La metafora della teiera di Russell ha come messaggio principale proprio il fatto che non vi è alcun onere di smentire affermazioni inverificabili, sia che si sostenga una tesi o la sua negazione. Perciò qui di seguito non andremo a confutare tutte le teorie del complotto che girano. Perché dubito abbia senso. E anche perché mi dicono che produrre molto più di 600 millilitri di bile fa male all’organismo. Che piattume. Già nel IV secolo a.C. era abbastanza chiaro a tutti che la Terra fosse un globo. Un millennio e mezzo dopo, però, in Inghilterra qualcuno se lo scorda. Samuel Birley Rowbotham, classe 1816, è un segretario di una comune socialista radicale poco più che ventenne. Si appassiona allo studio della forma della Terra e compie vari esperimenti a partire dal 1838. Sorvolerei sugli esperimenti specifici, che dici? Nel 1849, con lo pseudonimo di Parallax, pubblica un fascicolo di sedici pagine intitolato Astronomia zetetica: una descrizione di diversi esperimenti che dimostrano che la superficie del mare è un piano perfetto e che la Terra non è un globo. Sorvolerei anche sulla capacità di scelta di un titolo incisivo, che dici? Comunque, nel 1865 l’opuscolo era divenuto un volume di oltre duecento pagine. Nel frattempo lui, anche se non c’è alcuna prova di una laurea in Medicina, pratica la professione medica in diverse città con il nome di Dr. Birley, Ph.D. Il suo campo di maggiore interesse è il prolungamento della vita umana a migliaia di anni o, se si riesce, l’immortalità. Non so, ma mi sembra comunque una persona affidabile! E lo pensa anche tanta altra gente. E lui, già che c’è, diviene conferenziere e diffonde il suo verbo piatto. Le sue idee, che nascondono tracce di una visione biblica radicale, vengono proposte come strumento per le menti libere contro i dogmi della scienza tradizionale. Fonda la Zetetic Society, che diverrà la Universal Zetetic Society dopo la sua morte, quando le idee di Parallax verranno portate avanti da alcuni seguaci. L’obiettivo della UZS è “divulgare la conoscenza relativa alla Cosmogonia Naturale a conferma delle Sacre Scritture, basandosi sull’indagine pratica”. La “divulgazione” raggiunge anche gli Stati Uniti, ma è sempre in Inghilterra che, nel 1956, il pittore di insegne Samuel Shenton, impegnato a progettare un aereo capace di volare da fermo mentre la Terra ruota su se stessa (vai tra’, rileggi pure la frase tutte le volte che ti serve), scopre le idee di Parallax. Finisce col fondare la Flat Earth Research Society, naturale evoluzione della Zetetic Society ma con una connotazione religiosa meno accentuata. Quando Johnson muore, nel 2001, il terrapiattismo sembra essere un po’ passato di moda. Eppure la Flat Earth Society c’è ancora, gestita dai discendenti, e continua a esporre gli esperimenti condotti.

Certo, ancora non ho letto una spiegazione vagamente sensata (mah!) del perché le navi scompaiano all’orizzonte o di come funzionino i fusi orari in una Terra a forma di disco, ma onestamente non credo di poterne trovare una. Vorrei, però, analizzare due punti. Partiamo dalla percezione che i terrasferisti hanno di solito dei terrapiattisti, e cioè che siano quattro gatti, ignoranti e certamente squilibrati. Su questo avrei da ridire. Mi è capitato spesso di avere dei terrapiattisti tra il pubblico delle mie conferenze. Sono giunti per sfida, per provocare, discutere civilmente o anche solo per curiosità. E fra loro c’erano diversi ingegneri. A parte tutte le battute che un fisico può fare sugli ingegneri, il punto è che non stiamo parlando di persone con un basso grado di scolarizzazione. Una scolarizzazione certamente molto sbagliata, quella in ingegneria, ma comunque di lunga durata. Chiaro, per quanto numerosi, i casi da me verificati non fanno statistica. Ma se andiamo a vederne una vera, per esempio il 55° Rapporto sulla situazione sociale del Paese del CENSIS, i terrapiattisti risultano essere il 5,8% della popolazione italiana. Non quattro, ma tre gatti e mezzo. Moltiplicati per un milione. Ti sembrano tanti? Anche a me. Un abbraccio consolatorio. D’altra parte, se ci pensiamo, sempre più personaggi esposti mediaticamente si dichiarano terrapiattisti. Oltreoceano hanno fatto scalpore le dichiarazioni della star NBA Kyrie Irving (che poi ha cercato di ritrattare) e del rapper B.o.B, che ha pure fatto partire un crowdfunding per verificare la cosa inviando un satellite nello spazio. Deve essergli sfuggito che ce ne sono già svariate migliaia, di satelliti. C’è una seconda questione che mi turba assai: quello della Terra piatta, assieme forse a quello della Terra cava, della Terra concava e dei giganti in Sardegna, è uno dei pochi complotti senza movente. Pensaci. Il complotto dei rettiliani (gli alieni lucertola mutaforma capaci di mimetizzarsi fra la popolazione umana) ha un movente: i lucertoloni assumerebbero cariche di prestigio in giro per il mondo o possiederebbero molti leader mondiali con tecniche di controllo psichico tali da dominare la Terra e manipolare la società... Ehi, non ho detto che sarebbe stato razionale, ho detto che ci sarebbe stato un movente! Il complotto dei cosmonauti perduti, che i sovietici avrebbero inviato a morire nello spazio per poi insabbiare tutto, ha un movente: nascondere i fallimenti della corsa allo spazio di fronte agli statunitensi. Il complotto sull’omicidio Kennedy di moventi ne ha addirittura duecento. E lo stesso vale per tutto ciò che riguarda gli alieni. Ma la finta forma della Terra? A chi mai gioverà dirmi che la Terra è piena? Perché nascondermi che ci abitano i giganti? Chi ci guadagna se credo che il nostro pianeta sia sferico? La Mattel che vende i mappamondi sferici a un prezzo maggiore rispetto a una cartina piatta?! Mappamondi che peraltro dentro sono cavi! Coincidenze??? No, perché delle due l’una: una Terra cava non può essere anche piatta. In ogni caso, la Mattel ci deve guadagnare palate di soldi, da quei mappamondi, se per continuare a farlo è disposta a corrompere tutti gli astrofisici del mondo, a taroccare una per una le fotografie della Terra vista dallo spazio e ad assumere attori nel ruolo di astronauti in attività. A guadagnare da questi complotti – se ci pensiamo – è solo chi ci crede. I terrapiattisti, i terracavisti o i sardegnogigantisti si sentono parte di una minoranza illuminata e più intelligente della media. Possono guardare con aria di superiorità tutti gli altri, il gregge ottuso raggirato dalla casta che governa il mondo e vuole nasconderci la verità. Delle loro teorie potremo anche sorridere, ma sono la manifestazione stravagante di un disagio sempre più diffuso nei confronti della scienza e delle istituzioni. Questo è un motivo valido e importante per capire come nascano e si alimentino simili fenomeni. Perché potremmo scoprire di essere tutti complottisti. Di uomini e di dèi. Il semiologo Umberto Eco sosteneva che “la psicologia del complotto nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle”. Per spiegare come mai moltissime persone siano sempre disponibili a credere a trame occulte tessute da chissà quali lobby di potere, il filosofo Karl Popper ha proposto la teoria sociale della cospirazione. “È simile a quella rilevabile in Omero. Questi concepiva il potere degli dèi in modo che tutto ciò che accadeva nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate dall’Olimpo. La teoria sociale della cospirazione è in effetti una versione di questo teismo, della credenza, cioè, in divinità i cui capricci o voleri reggono ogni cosa”. Solo che oggi, al posto degli dèi ci sono uomini malvagi o gruppi potenti. Una pandemia che appare all’improvviso e che fatica a essere gestita perché caratterizzata da dinamiche complesse ci spaventa moltissimo. A questo punto è paradossalmente più rassicurante pensare che il virus sia stato creato in laboratorio da un governo senza scrupoli. Che magari è difficile da affrontare – soprattutto per un comune cittadino – ma può essere sconfitto se ci si unisce tutti assieme. Mentre il caso e l’imprevedibilità non possono essere arginati. Quando identifichiamo un cattivo, però, smettiamo di ragionare in maniera logica. Quindi, a ben vedere, l’effetto delle teorie complottistiche è esattamente l’opposto di quello promesso. Le persone più attratte da queste idee forse cercano un maggiore controllo sulla situazione, ma l’ansia generata dalla narrazione del complotto provoca principalmente un senso di impotenza, disillusione e sfiducia nelle autorità: una strada spianata per complotti ancora più estremi e scollegati dalla realtà. È ciò che è successo nel caso di QAnon, il gruppo politico dell’estrema destra principalmente statunitense (ma presente anche in Italia) i cui membri sostengono che un fantomatico Deep State (ovvero l’unione di non ben identificati poteri occulti) avrebbe agito contro l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e i suoi sostenitori. Il Deep State, che vedrebbe fra i suoi membri Hillary Clinton, Barack Obama e George Soros, gestirebbe un giro di pedofilia a livello globale, praticando rituali ebraici e cabale occulte, o pratiche come bere il sangue di bambini. Sostengono, fra le altre cose, che Trump sia un geniale salvatore del mondo libero e che John Fitzgerald Kennedy Jr. sia ancora vivo, pronto a tornare in aiuto di Donald. Ma mi fermo qui, l’analisi del complotto richiederebbe un trattato enciclopedico, e in più le sue origini non sono del tutto chiare. I seguaci della teoria sono stati però coinvolti in vari episodi in un’escalation di violenza, dall’incursione armata in una pizzeria per liberare dei bambini da uno scantinato inesistente fino all’assalto del Campidoglio. Per queste ragioni l’FBI ha valutato QAnon come una minaccia di terrorismo interno. A cui Trump da sempre continua a strizzare l’occhio, salutandoli ai comizi e definendoli “persone che amano il nostro paese”. La pazienza è la virtù di chi vuol essere forte. La psicologa Karen M. Douglas dell’Università del Kent a Canterbury individua tre motivazioni che spingono a

credere alle teorie cospirazionistiche: conoscitive, ovvero il desiderio di capire l’ambiente in cui viviamo e trovare spiegazioni; esistenziali, per sentirsi al sicuro e avere il controllo dell’ambiente; sociali, per conservare un’immagine positiva di sé o del proprio gruppo sociale. Per contrastare le teorie del complotto, quindi, non serve mettere in discussione l’identità di una persona. Non attaccate le teorie individuali, ma le motivazioni che generano tali credenze. È necessario lavorare per aumentare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, nella scienza e in chi governa. Ma anche affrontare il loro profondo senso di ansia provocato dal confronto con un mondo complesso e spaventoso. Bisogna che ci educhiamo ad affrontare la paura dell’ignoto. Un timore per cui non esistono soluzioni semplici, bacchette magiche, cure istantanee e scorciatoie. Anche perché la nostra mente, quando cerca scorciatoie, è tutto fuorché infallibile. MA rimaniamo umili. Noi esseri umani siamo fantastici. Magari non siamo la specie animale più forte, la più resistente, o la più longeva. Ma poffarbacco se siamo intelligenti! Livelli che lascerebbero sbalordita qualunque civiltà aliena! Nei millenni, il nostro enorme cervello ci ha portato a scoperte, invenzioni, civiltà, società, tecnologie, filosofia, scienza e conoscenza. Ci ha consentito di analizzare l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande nell’universo che ci circonda. Siamo l’evoluzione del cosmo che osserva e analizza se stessa. ... Ammazza quanto ci piace sentirci intelligenti e razionali. Eppure negli anni settanta del secolo scorso lo psicologo israeliano Daniel Kahneman ha dimostrato che spesso le persone non prendono le decisioni utilizzando il raziocinio, bensì preconcetti e scorciatoie mentali spesso del tutto irrazionali. Una scoperta non da poco per una specie che si vanta delle proprie capacità cognitive. Siccome il Nobel per la psicologia non c’è, ma gli studi di Kahneman sono stati applicati all’economia, nel 2002 gli è stato assegnato il premio per questa disciplina. Si sono salvati in corner, diciamo. Pensieri lenti e pensieri veloci. Ma davvero le ricerche di Kahneman sono tanto importanti? E, se sì, perché? Perché il nostro Daniel ha mostrato che l’essere umano può recepire e analizzare le informazioni attraverso due strade, chiamate Sistema 1 e Sistema 2. Il Sistema 2 è quello del ragionamento: lento, faticoso, governato da regole... in una parola, noioso. Meglio ignorarlo. Meno male che c’è il Sistema 1, basato sull’intuizione: veloce, automatico, che non comporta sforzi mentali e associa le notizie alle percezioni sensoriali e alle emozioni. Meraviglioso, il Sistema 1! È per questo che lo usiamo di continuo. Cascando con entusiasmo in centinaia di bufale. Chi ne sa (quindi non gli autori di questo libro) parla di euristiche: procedimenti mentali intuitivi e sbrigativi che permettono di formarsi un’idea generica su un argomento senza effettuare troppi sforzi e giungendo rapidamente a delle conclusioni. Il nostro sistema cognitivo ha infatti risorse limitate e per questo, invece che risolvere i problemi tramite algoritmi e metodi lunghi e strutturati, ricorre alle euristiche per semplificare il processo decisionale. Il punto è che spesso queste scorciatoie non sono affatto suffragate dall’evidenza. Perché, dato che l’esperienza personale nella scienza non sempre basta, a ’sto punto ignoriamola del tutto, no? Alcune (molte) euristiche sono quindi procedimenti mentali irrazionali che distorcono le nostre valutazioni, contribuendo a influenzare pesantemente le ideologie, le opinioni e i comportamenti. Gli errori di ragionamento e di valutazione causati da queste euristiche inefficaci prendono il nome di bias cognitivi. L’etimologia del termine è incerta, ma pare derivi dal provenzale antico biais, col significato di “obliquo” o “inclinato”. Indica, quindi, una nostra inclinazione cognitiva. Un nostro pregiudizio astratto, non generato sulla base di dati reali, ma acquisito a priori senza critica o giudizio. I motivi alla base di tali errori cognitivi possono essere differenti. Il primo, come abbiamo visto nell’introduzione, è il sovraccarico di informazioni. A volte invece è la mancanza di dati, e in quel caso il cervello, stimolato a interpolare le poche informazioni a sua disposizione, reagisce ricostruendo ciò che manca. E spesso sbaglia. Un’altra causa risiede nel bisogno di agire o prendere decisioni in fretta. E infine, c’è un banale tema di spazio di archiviazione, che va risparmiato o ottimizzato. La scelta fra quali dati ricordare e quali cancellare è una necessità, ma una necessità pericolosa, perché la nostra mente tende a distorcere i ricordi e a modificare gli avvenimenti passati. Ogni causa genera differenti tipologie di inclinazioni cognitive, a seconda che dobbiamo esprimere un giudizio, prendere decisioni, ricordare, desiderare qualcosa o trovare delle motivazioni. Infine, ci sono bias che ci colpiscono come singoli individui, altri invece che entrano in funzione quando facciamo parte di un gruppo. E a questo punto ti starai domandando, forse, quali siano questi errori di ragionamento. Bella domanda. Meriterebbe una bella risposta. Fosse facile. Le trappole cognitive che mettiamo in atto autonomamente, infatti, sono letteralmente centinaia e ogni individuo potrebbe essere soggetto ad alcune piuttosto che ad altre. Bada bene, inoltre, che – dato il funzionamento della cognizione umana – euristiche e bias non sono mica eliminabili: si sono evoluti con noi in centinaia di migliaia di anni, non è che possiamo ignorarli da un momento all’altro perché ci piace sentirci colti. Se impariamo a conoscerli, però, possiamo almeno tenerne conto a posteriori e correggere la nostra percezione, in modo da diminuirne gli effetti distorsivi. Non è una cosa semplice da fare ed è forse una magra consolazione, ma è sempre meglio che alzare bandiera bianca e decidere di farsi trasportare dall’irrazionalità più completa. I bias principali. Ecco una lista del tutto arbitraria (non poteva essere altrimenti, visto che si parla di soggettività) dei bias che possono colpirci più di frequente. Solo se ci fate caso, però. Altrimenti sarete convinti di esserne immuni. Effetto dell’illusione di verità. Se un’informazione ci è familiare, perché ci è stata comunicata diverse volte e l’abbiamo dunque memorizzata in modo più o meno consapevole, tenderemo a credere che sia vera, a prescindere da quanto sia sensata. Se mi hanno raccontato più volte che la Grande Muraglia cinese è visibile dallo spazio, sarà vero. Punto e basta. Non ragionerò mai sul fatto che nel punto di massimo spessore è larga meno di 10 metri e che per vedere un oggetto largo 10

metri dallo spazio dovrei avere la vista di Superman, oltre al fatto che a quel punto vedrei miliardi di altre cose. Come diceva Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Certo, questo Goebbels non l’ha mai detto davvero, così come Einstein non ha mai affermato che se le api morissero porterebbero l’umanità all’estinzione in quattro anni (non ha mai detto almeno tre quarti delle frasi che gli vengono attribuite), ma a noi sembrano citazioni realistiche proprio perché le sentiamo ripetere in continuazione da più fonti. Effetto carrozzone. La probabilità che ci si convinca di qualcosa aumenta in relazione diretta al numero di persone che già credono in quella cosa. Il nostro cervello stima che se milioni di individui agiscono in un modo è molto probabile che abbiano ragione, e spesso lo fa confondendo i piani, considerando valida l’idea della maggioranza anche in ambiti in cui i dati razionali e oggettivi mostrano il contrario. In aggiunta, per l’effetto dell’illusione di verità, più sentirò dire qualcosa e più mi sembrerà ragionevole. Il bias dell’effetto carrozzone (chiamato anche effetto bandwagon o, in maniera dispregiativa, istinto del gregge) è in realtà molto potente e, unito alla nostra voglia di conformarci agli altri, a volte può indurci a fare o dire qualcosa anche se questo va contro ciò in cui crediamo. Bias di conferma. Ci piace essere d’accordo con le persone che sono in accordo con noi, mentre evitiamo chi ci fa sentire a disagio. È del tutto normale: è un qualcosa che ci porta molto meno stress. Solo che questo desiderio di comfort nella vita ci porta a cercare, selezionare e interpretare informazioni che confermano le nostre convinzioni e che, pertanto, riteniamo più credibili. Viceversa, tenderemo a ignorare o sminuire le informazioni che contraddicono le nostre ipotesi. In pratica tendiamo a guardare o a compiere solo le azioni che confermano ciò che già pensiamo. Questo processo di selezione viene chiamato cherry picking, raccolta delle ciliegie: così come cogliendo le ciliegie da un albero scegliamo solo le migliori, scartando quelle beccate dagli uccelli o rovinate dalle intemperie, così recepiremo solo le notizie che ci soddisfano, ignorando quelle che non ci piacciono. Il bias di conferma è fra quelli che più agiscono sul nostro modo di pensare e il cherry picking è più o meno alla base di qualunque complotto possibile possiate immaginare. È anche uno dei bias a cui siamo maggiormente soggetti quando interagiamo coi media: leggiamo i quotidiani che sappiamo riporteranno le notizie con un taglio a noi gradito, guardiamo i telegiornali o i talk show politici che analizzeranno la realtà con uno sguardo simile al nostro, compriamo libri di chi ha le nostre idee. E poi c’è il discorso che riguarda internet, i social, gli algoritmi e i sistemi di personalizzazione dei risultati delle ricerche. Quando un utente effettua delle ricerche online, i siti e le piattaforme utilizzano le ricerche precedenti per offrirgli risultati più appetibili, utili o più in linea con il suo pensiero e quindi più piacevoli da leggere. Questo fenomeno è stato chiamato bolla di filtraggio e sui social indica la modalità di somministrazione dei contenuti nel vostro feed, ovvero nella pagina principale; gli algoritmi selezioneranno contenuti simili a quelli con cui avete interagito in passato. E se avete guardato un video in cui qualcuno sostiene che i bignè siano un toccasana per ogni male, il social vi mostrerà tonnellate di contenuti sui bignè e gli utenti a sostegno dei loro effetti benefici. Il risultato? Vi convincerete che il mondo concordi sulle proprietà curative di quei meravigliosi scrigni di delizie. Il social, insomma, costruirà attorno a voi un ambiente confortevole in cui avrete accesso solo a informazioni in linea con il vostro pensiero, scartando tutte le notizie che potrebbero mettere in discussione il vostro punto di vista, ma che vi aiuterebbero ad avere una visione d’insieme più completa e vi consentirebbero un’analisi più critica di una certa situazione. Tali ambienti sono detti echo chambers, camere dell’eco, e sono presenti in ogni social, anche se in alcuni sono più resistenti e meno penetrabili che in altri (coff coff... tipo su Facebook). Sono le tribù di cui abbiamo già parlato. La soluzione per evitare di chiudersi sempre più nella propria bolla? Se la trovate comunicatela anche a noi, grazie. Conservatorismo. Collegato al bias di conferma, è la tendenza a mantenere le proprie convinzioni a oltranza, oppure a cambiarle molto lentamente, anche di fronte all’evidenza del torto. Se hai presente il meme di Cassano che dice “Chapeau... Chapeau... Chapeau... NO!”, hai perfettamente in mente di cosa stiamo parlando. Effetto struzzo. Scegliamo di ignorare informazioni pericolose, negative o che contrastano con le nostre convinzioni, agendo come lo struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia. Nota per salvaguardare la salute mentale degli amici etologi: anche questa convinzione che gli struzzi seppelliscano la testa sotto la sabbia è un pregiudizio errato. Percezione selettiva. Permettiamo continuamente alle nostre aspettative e ai nostri pregiudizi di influenzare il modo in cui percepiamo la realtà che ci circonda, notando la pagliuzza nell’occhio degli altri e ignorando la foresta di travi che puntella le nostre retine. I tifosi di una squadra ricorderanno solo i falli o i colpi di fortuna della squadra rivale. Gli elettori saranno pronti a scovare le false promesse del leader del partito avversario, piuttosto che quelle del candidato da loro sostenuto. Bias di proiezione. Siamo portati a credere che la maggior parte delle persone la pensi come noi. Si unisce spesso al bias del falso consenso, per cui riteniamo che le persone non solo la pensino come noi, ma anche che siano pienamente d’accordo con le nostre idee. Un effetto che, come abbiamo visto parlando delle bolle di filtraggio sui social, non può che peggiorare. E poi non capiamo come mai durante un’elezione i nostri politici preferiti non strappino una schiacciante vittoria o perché il nostro programma preferito non faccia numeri da capogiro, se tutti ne parlano nel nostro feed. Purtroppo, però, il bias del falso consenso colpisce spesso individui o gruppi estremisti, i quali finiscono col sovrastimare la reale adesione ai loro ideali da parte della comunità e quindi a portare avanti le proprie azioni. Bias del presente. Prendiamo decisioni per ottenere una gratificazione immediata, ignorando le possibilità di guadagno troppo a lungo termine. Nel 1998 due ricercatori della Leeds University Business School, Daniel Read e Barbara van Leeuwen, hanno chiesto a un gruppo di persone di decidere cosa avrebbero mangiato la settimana successiva. La risposta, per il 74% dei partecipanti, fu “frutta”. Ma, dovendo decidere cosa mangiare subito, il 70% scelse

il cioccolato. La dieta, insomma, si comincia di lunedì. Oggi mi posso sfondare di dolci, anche se poi queste calorie le dovrò bruciare con uno sforzo maggiore. Se poi siete tristi, peggio: uno studio condotto da un team di ricercatori della Harvard Kennedy School e della Columbia University ha mostrato che la tristezza ci rende anche più impazienti, lasciando carta bianca a questo bias. Anche se la ricerca in questione non si riferiva alla nutrizione, ma agli investimenti economici. Perché sì, il bias del presente ci frega anche quando si parla di denaro. Pensate a quanto siamo ben disposti ad approfittare di sconti nel presente, magari durante un Black Friday o in occasione dei saldi, e quanto invece rimandiamo volentieri al futuro la preoccupazione per le spese inderogabili. Non a caso, a volte il bias del presente viene chiamato bias dello sconto iperbolico. E chi si occupa di marketing questo lo sa bene: se ci hai fatto caso, sempre più spesso i nuovi prodotti vengono lanciati sul mercato con uno sconto o un regalo dedicato a chi completerà l’acquisto nei primi tot giorni. E l’ansia di farci scappare questo affare fa sì che ci buttiamo nell’acquisto, nonostante quel prodotto probabilmente avrebbe lo stesso prezzo di mercato anche due mesi dopo, o anche se quel regalo (un abbonamento a un servizio) durerà solo tre mesi e non lo sfrutteremo quasi mai. Ma questo bias ci frega in ogni campo, non solo nella dieta o nell’acquisto di un cellulare. Perché non importa se un investimento di qualunque tipo renderà moltissimo in futuro, per ora taglio risorse e risparmio qualcosa, perché “meglio un uovo oggi che una gallina domani”. L’essere umano, insomma, sembra davvero programmato per prendere decisioni seguendo il “carpe diem”, con ricadute anche pesanti sulla società. Un esempio pratico? Un approccio razionale ci porterebbe ad affrontare il rischio sismico o il dissesto idrogeologico investendo sin da ora qualcosa in più in prevenzione, evitando di spendere cifre maggiori in futuro per rimediare ai danni. Eppure... Bias di ancoraggio. È detto anche trappola della relatività. Invece di valutare una cosa per il suo valore assoluto, ci ancoriamo a un valore arbitrario che usiamo come termine di paragone. Motivo per cui, in una contrattazione, chi fa la prima offerta stabilisce nella mente di tutti un punto di riferimento che vincola ogni valutazione. Oppure, tornando agli sconti durante i saldi, se scrivo il prezzo di listino (ad esempio 49,90 euro) e poi metto il prezzo scontato (39,90 euro), l’oggetto sembrerà più appetibile. Anche se il prezzo di mercato normale è sempre attorno ai 40 euro. Razionalizzazione post acquisto. Conosciuta anche come sindrome di Stoccolma dell’acquirente, si verifica quando osserviamo a posteriori un affare concluso di impulso e ne notiamo i difetti, realizzando che, forse, così affare non è stato. Quindi, piuttosto che ammettere di aver compiuto una scelta sbagliata, decidiamo di... vedere il bicchiere mezzo pieno. “Certo, forse la cabrio non era l’auto migliore da comprare, vivendo nella Lapponia finlandese, ma guardiamo il lato positivo: non mi ammalerò con gli sbalzi di temperatura entrando e uscendo dall’abitacolo!”. Vuoi sapere una cosa divertente? Questa sindrome di Stoccolma non si ha solo con gli acquisti, ma in generale con tutte le decisioni che prendiamo, se poi non si rivelano eccellenti. Anche quando le azioni non sono state impulsive. Bias dello status quo. Tendiamo a valutare le cose in modo distorto perché opponiamo resistenza al cambiamento. Il cambiamento ci spaventa – anche solo in termini di sforzo da affrontare – e inconsciamente tentiamo di mantenere le cose così come stanno. Perché non passare a un altro gestore di telefonia con prezzi vantaggiosi per l’abbonamento del nostro smartphone? Troppo sbattimento, meglio pagare il doppio finché non sarò costretto per altre ragioni a cambiare. Fallacia di Gabler. Diamo rilevanza a ciò che è accaduto in passato perché la nostra esperienza per noi è molto importante, e così i nostri giudizi attuali saranno continuamente influenzati da fatti avvenuti in precedenza. Sul lavoro, se in passato hai ricevuto una buona valutazione dai tuoi capi, tenderai a riceverne di nuove nel presente, a prescindere dalle tue reali prestazioni attuali (che magari sono drasticamente peggiorate, nel frattempo). Insomma, la prima opinione è l’unica che conta. Fallacia del giocatore. È la tendenza ad attribuire a eventi passati la capacità di influire su quelli futuri. Al Superenalotto, per esempio, farà nascere l’idea che se un numero è già uscito, non uscirà di nuovo tanto presto. Viceversa, un numero che non esce da mesi e mesi probabilmente uscirà a brevissimo. In realtà, statisticamente, ogni numero ha sempre la stessa probabilità di uscire di tutti gli altri. In generale, però, quando un evento generato dal caso devia dalla media attesa (calcolata correttamente o percepita come corretta), l’evento opposto viene giudicato più probabile. Vale purtroppo anche con le sciagure: “Sono caduti due aerei nell’ultimo mese, statisticamente oggi col mio volo sono in una botte di ferro!”. O con i casi della vita: “Ha piovuto tutte le ultime pasquette in cui ho organizzato una grigliata. Non potrò avere mica così tanta sfortuna da organizzare un’altra grigliata sotto la pioggia?!”. Sì, puoi averla. Soprattutto se abiti in Brianza. Illusione dello schema. Detta anche apofenia, è il fenomeno per cui al nostro cervello piace moltissimo individuare pattern, leggi o schemi significativi in dati casuali. Viene chiamata pareidolia quando coinvolge vista o udito. In poche parole, è il motivo per cui vediamo una nuvola e ci convinciamo abbia la forma di un gattino. O per cui, quando attraversiamo la strada e sentiamo un clacson e il suono di una frenata, se ci teniamo alla salute nel dubbio ci scansiamo. Se sentiamo un rumore inquietante in una casa buia, a meno che non siamo protagonisti di un film horror, evitiamo di dividerci dai nostri amici. Insomma, la capacità di trovare schemi a partire da pochi dati ci ha sicuramente dato dei vantaggi evolutivi, ma ogni tanto può fregarci. Per esempio quando individuiamo grandi disegni e complotti che creano un nesso inesistente fra eventi sconnessi fra loro. Correlazioni illusorie. Si ha quando due eventi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro ci appaiono interdipendenti solo perché si presentano in concomitanza. È ciò che ci fa credere che i tori odino il rosso perché attaccano il drappo del matador, o che – se compriamo un gratta e vinci fortunato in un bar – ci fa tornare sempre nello stesso posto per acquistarne altri. È in generale il bias alla base di tutti i comportamenti ritualistici e scaramantici. Nella scienza questo bias dà luogo al fenomeno delle correlazioni spurie: analizzando due set di dati questi sembrano creare un nesso di causalità fra

fenomeni appartenenti a domini diversi della realtà, portando a conclusioni scientificamente discutibili ma senza dubbio interessanti. Come quelle per cui l’apparizione di Nicolas Cage in un film farebbe aumentare il tasso di annegamenti in piscina, il consumo di margarina farebbe divorziare valanghe di persone nello stato del Maine, la presenza dei pirati contrasterebbe il surriscaldamento dei mari o la messa in onda di Grey’s Anatomy farebbe impennare il tasso di tentati suicidi in ventotto nazioni. Bias della disponibilità. Sopravvalutiamo molto di frequente l’importanza delle informazioni e degli aneddoti a nostra disposizione, dando loro valenza storica o scientifica. “Non importa se tutti gli studi scientifici mi dicono che questo farmaco ha rarissimi effetti collaterali e molti benefici, a mio cugino ha fatto male quindi è inaffidabile”. “La comunità scientifica è concorde nel sostenere che non esista una soglia minima di consumo di alcolici e di sigarette sotto la quale il rischio è zero, mia nonna beveva un litro di vino e fumava due pacchetti di sigarette al giorno ed è campata cento anni”. Questo bias ha un ruolo importante anche nella ludopatia: porta le persone a distorcere di molto la stima delle probabilità di vittoria quando i media riportano le vincite altrui. Fornisce quindi la convinzione che le vincite siano un fenomeno regolare e frequente, e che quindi per vincere basterà continuare a giocare. Effetto primacy. In una breve lista di fatti, eventi o cose, tendiamo a ricordare meglio i primi punti elencati, che ai nostri occhi assumono un valore e un’importanza sproporzionati rispetto ai punti successivi. Se invece abbiamo a che fare con una lista molto lunga, entra in azione l’effetto recency: ricordiamo le ultime cose citate, dimenticando le precedenti. La prossima volta che al ristorante il cameriere ti elenca in sequenza i settantotto dolci disponibili, fai attenzione a quale finirai per scegliere. Entrambi gli effetti sono stati studiati negli anni quaranta del Novecento dallo psicologo polacco Solomon Asch. Difficile più che altro è capire quando il nostro cervello inizia a considerare lunga una lista. Una cosa è certa: se vuoi che nessuno ricordi alcune cose, piazzale nel mezzo della lista. Bias di somiglianza. Apprezziamo nelle altre persone aspetti simili a quelli che riconosciamo in noi stessi. Perché se ce li abbiamo anche noi saranno quelli giusti, o perché comunque la cosa ci fa sentire meno soli. Questo ci porta a concedere fiducia più facilmente ad alcune persone piuttosto che ad altre, perché quelle simili a me saranno migliori. Bias di contrasto. Al contrario del bias di somiglianza, in alcune situazioni apprezziamo i tratti di personalità diametralmente opposti ai nostri. In questo caso però potremmo finire col sovrastimare negli altri la presenza di questi tratti. Per esempio, se siamo timorosi e tendenzialmente guardinghi, potremmo giudicare le altre persone molto più sicure, coraggiose e ardite di quanto siano in realtà. Bias del senno di poi. È ciò che ci convince di essere riusciti a prevedere un evento. Ma solo perché a tragedia avvenuta il risultato ora ci appare inevitabile, non vuol necessariamente dire che lo fosse. Eppure, ogni volta che accade qualcosa, siamo sempre pronti a sottolineare la nostra capacità analitica con un “Ve l’avevo detto!”. Anche quando non abbiamo mai aperto bocca in vita nostra su quello specifico argomento, tipo l’aumento del prezzo della lana di vigogna peruviana. O quando avremmo agito esattamente come ha agito chi stiamo criticando ora, come l’allenatore della nostra squadra preferita dopo una sconfitta. O quando stiamo salendo sul carro dei vincitori dopo essere stati a lungo scettici o critici. Bias del pavone. Siamo indotti a condividere e a mettere maggiormente in risalto i nostri successi, piuttosto che i nostri fallimenti. Se hai mai compilato un CV... Ma anche l’uso che la maggior parte delle persone fa dei social riconduce a questo bias: si tende a mostrare per lo più un’immagine positiva di sé, tanto da far sembrare ideale e invidiabile la propria vita. #staavederechevitagagliardacheho. Overconfidence bias. Abbiamo spesso molta fiducia nelle nostre capacità, di qualunque tipo siano. È un tratto della personalità che ha risvolti anche positivi, ma se tale fiducia non è giustificata da dati reali può portarci a compiere azioni o a prendere decisioni che poi si riveleranno una pessima idea. Come, per esempio, quando nel gioco d’azzardo (o nella borsa, o sul lavoro...) ci convinciamo di essere molto bravi a fare previsioni, a capire i meccanismi in atto e a sviluppare strategie efficaci e poi... falliamo. L’overconfidence bias è anche il motivo per cui, a volte, il cosiddetto “pensiero positivo” genera più danni che benefici, perché sovrastimare le proprie forze può farci sottovalutare alcuni ostacoli o l’impegno richiesto per raggiungere un obiettivo. Questo bias è poi sovrapponibile in buona parte all’effetto Dunning-Kruger, la distorsione cognitiva per cui individui poco competenti in un campo tendono a ritenersi, senza alcuna ragione, esperti in materia. A descrivere il fenomeno sono stati nel 1999 i socio-psicologi David Dunning e Justin Kruger, insigniti l’anno successivo del premio IgNobel per la psicologia. I due hanno mostrato quanto le persone siano incapaci (anche solo per amor proprio) di riconoscere le proprie mancanze di capacità o il proprio livello di competenza. Charles Darwin, in L’origine dell’uomo, scriveva: “L’ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza”. A prescindere dalle nostre competenze siamo quindi, a seconda del giorno e dell’occasione, tutti capaci allenatori, illustri evoluzionisti, sagaci opinionisti politici, sociologi dalle ampie vedute, fini strateghi, infallibili virologi o navigati climatologi. Tutti, eh: non solo gli altri, che ci piace definire analfabeti funzionali; tutti siamo vittime dell’effetto Dunning-Kruger, in un qualche ambito. Come sosteneva Dunning, infatti: “Se mi chiedete quale sia la singola caratteristica che rende una persona soggetta a questo autoinganno, io direi che è respirare”. Underconfidence bias. È l’esatto opposto dell’overconfidence: si sottostimano le proprie capacità, vedendo ogni ostacolo come insormontabile e ritenendosi incapaci di qualunque cosa. Self-serving bias. Siamo portati a pensare (e a raccontare) che i risultati positivi ottenuti siano solo merito nostro, del nostro impegno, delle nostre capacità e del nostro valore. I risultati meno buoni, invece, non sono colpa nostra, ma degli altri che ci hanno messo i bastoni fra le ruote, o di fattori esterni. In una verifica “Ho preso 8”, in un’altra “Il professore mi ha dato 4”. “Abbiamo vinto una gara”, “L’arbitro ci ha fatto perdere”. Bias di gruppo. Collegato al self-serving bias, ci induce a sopravvalutare le capacità e il valore del nostro gruppo di appartenenza, sia la nostra famiglia o la nostra

squadra o la compagnia di amici. I successi del nostro gruppo sono chiaramente un risultato delle nostre qualità, mentre i successi di un gruppo estraneo sono legati a fattori esterni alle loro qualità. Tendenzialmente fortuna. Distorsione di sopravvivenza. Giudichiamo le situazioni concentrandoci solo sugli esempi di cui ci arriva notizia, ignorando tutti quelli che sono rimasti nell’ombra. Finiamo quindi col pensare che diventare uno YouTuber o un influencer ricco e famoso sia facile, perché semplicemente non abbiamo idea di quale sia il numero di aspiranti influencer o YouTuber che non ce l’hanno fatta. Errore di attribuzione. È la tendenza ad attribuire il comportamento di una persona alle caratteristiche della sua personalità e non alle circostanze. Se una macchina cambia corsia tagliandoci la strada penseremo che il guidatore sia un irresponsabile, ma magari semplicemente non ci ha visto perché eravamo nel suo punto cieco. Se qualcuno ci urta per strada penseremo sia un pericoloso cretino a prescindere dal fatto che magari era distratto o stava correndo a casa per un’emergenza. Effetto alone. Si tende a valutare positivamente o negativamente qualcuno o qualcosa sulla base di pochissimi indizi, estendendone il valore al resto. Un divulgatore scientifico di una disciplina verrà interpellato su qualunque tematica scientifica – anche su fenomeni di branche diversissime da quelle della sua formazione – perché si pensa che la sua esperienza e le sue capacità si estendano anche ad altri ambiti (dei quali magari non ha alcuna competenza effettiva). Diffidate, quindi, dei divulgatori! Ma anche un lavoratore vestito di tutto punto verrà considerato più professionale e affidabile di uno trasandato, anche se poi quello elegante si potrà rivelare un truffatore. Perché, ci piaccia o no, l’abito fa il monaco. L’effetto alone è il bias su cui si fonda l’utilizzo dei testimonial nelle pubblicità. E non tanto quelle in cui uno scienziato vi parla di un libro di scienza, o un medico di campagne sanitarie, ma le pubblicità in cui ad esempio un calciatore ti consiglia un’università telematica, o una ballerina ti mostra il profumo da acquistare, un cantante ti spiega quale merenda tu debba provare o un attore ti rende noto quale sia il miglior caffè. Guarda caso, poi, tutte persone belle esteticamente. Perché chi è bello sicuramente è anche affidabile. Non come chi è brutto, che viene guardato con più sospetto. Bias della negatività. Comporta un’eccessiva attenzione agli elementi negativi, a cui diamo più peso e che consideriamo quindi più importanti. È il motivo per cui ci convinciamo di aver trovato tutti i semafori rossi quando guidiamo e andiamo di fretta. Solo che la probabilità che tutti gli automobilisti, contemporaneamente, verifichino la Legge di Murphy beccando solo semafori rossi... è scarsina. Forse dovremmo ammettere con noi stessi e con gli altri che siamo arrivati in ritardo perché siamo partiti in ritardo. Bias dell’ottimismo. Ammettiamolo, l’essere umano è più ottimista che realista. Ci piace pensare di saper fare previsioni sulla base di valutazioni obiettive, ma spesso sottostimiamo la possibilità che ci accadano eventi funesti, percependo in un qualche modo un futuro roseo. Diversi studi hanno dimostrato che le persone sottostimano la possibilità di divorziare, di perdere il lavoro, di ammalarsi di cancro e altre cose spiacevoli. Al contrario, sovrastimano la propria aspettativa di vita di oltre due decenni. E se viviamo in una situazione difficile, per esempio durante una crisi economica? Immagineremo un futuro duro per la collettività, ma meno per noi stessi. Oppure: abito accanto a un pericoloso vulcano che si sa dovrà risvegliarsi? “Vabbe’, mica lo farà proprio mentre io e i miei cari siamo in vita!?”. Bias di omissione. Abbiamo la tendenza sistematica a preferire scelte che comportino l’omissione anziché l’azione, anche quando questo significa esporsi a rischi oggettivamente più elevati. I ricercatori Jonathan Baron e Ilana Ritov hanno svolto diversi studi sull’argomento. Nel 1990 hanno simulato il contesto di un’epidemia letale per i bambini in cui i partecipanti avevano il ruolo di genitori. A loro spettava scegliere se sottoporre i propri figli a una vaccinazione (e dunque compiere un’azione) o meno, consapevoli che, in questo secondo caso, il rischio di morte sarebbe stato maggiore. Molti soggetti optarono per la soluzione apparentemente meno razionale e si opposero alla vaccinazione. La spiegazione data dagli autori in una ricerca successiva fu che la paura di commettere una scelta errata è maggiore del senso di rimpianto per aver assunto una posizione passiva, anche quando la non azione causa la morte di un figlio. Studi ulteriori (anche degli stessi due ricercatori) hanno poi mostrato come forse a prevalere non sia la differenza fra azione e non azione, ma fra azione diretta e azione indiretta. Ad ogni modo, ciò su cui le ricerche concordano è che più il nostro ruolo in una decisione è attivo, più rimpiangeremo l’eventuale conclusione negativa della faccenda. Rischio zero. Collegato almeno in parte al bias di omissione: amiamo avere certezze, anche se queste sono controproducenti. Preferiamo quindi non correre alcun rischio e non ottenere alcun risultato, piuttosto che correre rischi anche moderati che potrebbero condurci a vantaggi o guadagni futuri. Bias d’azione. Come spesso accade, trovata una regola si trovano anche tutte le eccezioni. Nonostante il bias di omissione, infatti, in alcune situazioni decidiamo di agire anche quando l’azione è meno vantaggiosa dell’omissione. Il cambio di strategia non è imputabile tanto al tema del problema, quanto alle condizioni di contorno. Uno studio condotto nel 2005 da Angela Fagerlin, Brian J. ZikmundFisher e Peter A. Ubel dell’Università del Michigan ha mostrato come, nel caso di una diagnosi di cancro, i pazienti preferissero sottoporsi a trattamenti (quindi compiere un’azione) piuttosto che a semplici controlli (un’inazione). E questo anche se i trattamenti risultavano più dannosi o meno efficaci dell’inazione. Ma mentre non stupisce che in una situazione disperata si sia disposti a qualunque cosa, potrebbe sorprenderci il fatto che non sempre servono situazioni di vita o di morte per tentare il tutto per tutto. È il caso dei portieri nel calcio. Statisticamente, la mossa migliore per aumentare le chance di parare un rigore risulta essere quella di non tuffarsi e rimanere al centro della porta (inazione). Eppure praticamente tutti i portieri – irrazionalmente – si tuffano (compiendo un’azione). Perché? Questo comportamento è spiegato con quella che Kahneman chiama teoria della norma: la norma per un giocatore è agire (nel caso di un portiere, saltare) e una scelta passiva provocherebbe in lui uno stato emotivo in caso di goal peggiore di quello che seguirebbe un goal realizzato durante una scelta attiva del portiere. In pratica, in caso di tuffo, il portiere avrebbe sempre e comunque l’attenuante di aver provato a parare il tiro dell’avversario. Principio di autorità. Una delle insidie maggiori è la pulsione che abbiamo a credere a chi ci sembra autorevole.

Se venisse Alberto Angela a dirmi che tutti gli studi di antropologia hanno identificato nelle ricette dolciarie la spinta principale all’evoluzione della cultura umana, ci crederei. Intanto perché la frase non farebbe che stimolare il mio bias di conferma, secondo poi perché me l’avrebbe detta Alberto. Ma magari Alberto in quel momento è strafatto di crema pasticcera e non è lucido. Insomma, non devo necessariamente fidarmi. Se un Nobel ultraottuagenario fa affermazioni a caso, senza mezza prova, non è che devo crederci perché questo ha vinto un Nobel. Così come non devo credere a un articolo di giornale che mi dice che gli uomini bravi a cucinare sono i più bravi a letto e nel titolo scrive “Lo dice la Scienza”. Anzi, per essere chiari: non fidarti automaticamente nemmeno di quello che ti sto dicendo io! Uno per tutti e tutti per uno. I bias cognitivi agiscono, come detto, su ognuno di noi. E questo indipendentemente dal nostro grado di scolarizzazione o di cultura. Sono parte fondante del nostro modo di ragionare e neppure quarant’anni di formazione personale potranno impedire alle nostre euristiche di intervenire. Eppure noi non ci accorgiamo di essere preda di errori di ragionamento. Al

massimo li individuiamo nelle persone che ci circondano, ma quasi mai in noi. Il non riconoscere i propri bias cognitivi, però, è a sua volta un bias: si chiama bias del punto cieco. Facciamocene una ragione il prima possibile, dunque. E, una volta compresa la frequenza e la diffusione di queste fallacie cognitive, dovremmo aver chiaro il loro potere di influenza non solo sulla vita e le decisioni dei singoli individui, ma su quelle dell’intera società. Anche perché alcune di esse, come l’effetto carrozzone, si instaurano proprio nel rapporto fra il singolo e la comunità in cui vive. Durante l’ultimo mezzo secolo abbiamo assistito a bufale e complotti che hanno letteralmente invaso le nostre vite, tanto da avere effetti anche a decenni di distanza. Esaminare alcune di queste teorie cospirative potrebbe aiutarci a scovare quali bias incidono maggiormente nel fenomeno del complottismo, così da trovare degli schemi (possibilmente facendoci guidare dalla razionalità e non troppo dall’apofenia) e permetterci di sviluppare una sorta di autodifesa. Cerchiamo dunque di procedere con ordine, dagli anni settanta, con un complotto che via via ha influenzato il proprio decennio e quelli a seguire.

Capitolo 2 (L. Perri). Quando il saggio indica la Luna... qualcuno gli urla che non ci siamo stati Se c’è un complotto che ha caratterizzato gli anni settanta del secolo scorso e tutt’oggi viene ciclicamente riproposto, questo è l’Imbroglio della Luna: il Moon Hoax. Il complotto. Una teoria propagandata attivamente, negli USA, anche da personalità di spicco quali giocatori NBA. In Italia la bufala è invece sposata da cantanti, diversi politici e, secondo un recente e affidabile sondaggio (il 55° Rapporto sulla situazione sociale del Paese del CENSIS di cui abbiamo già parlato), dal 10% della popolazione italiana. Sei milioni di persone nel nostro paese – non proprio pochine – crederebbero dunque che l’allunaggio statunitense sia stato un falso montato ad arte. Ma da dove ha origine questo complotto? Partiamo col dire che l’allunaggio è avvenuto il 20 luglio 1969. Si intende avvenuto davvero, ma se avete qualche dubbio diciamo che è stato mostrato al mondo. Fino a metà degli anni settanta, nessuno ha mai messo in dubbio né il primo né i successivi cinque allunaggi delle missioni Apollo. Fino all’arrivo dello statunitense William “Bill” Charles Kaysing, con il suo libro We Never Went to the Moon. Non siamo mai andati sulla Luna. La tesi del libro è semplice: la tecnologia degli anni sessanta non sarebbe stata sufficientemente avanzata da permettere un allunaggio con equipaggio. Il complottista. E chi sarebbe questo Kaysing, capace di smascherare la NASA e il governo più influente della Terra? Una spia della CIA pentita? Non proprio, ma siamo lì. Un investigatore? Quasi. Un giornalista d’assalto? Circa. Un ingegnere aerospaziale? Fuochino. Kaysing ha una laurea breve in Letteratura inglese. Senti anche tu la delusione corroderti l’anima, vero? Ma non fare così: Bill ha lavorato presso la Rocketdyne, ditta che ha progettato e costruito i motori dei razzi che avrebbero dovuto portare le navicelle Apollo sulla Luna! È un esperto! Certo, non possiamo definire il suo un ruolo progettuale, diciamo. Perché? Be’, perché Kaysing... contribuiva alla stesura dei manuali tecnici. Ahia. Questa brucia. AH, AH, BRUCIA! E si parla di motori di razzi! Scusa, non era voluta. Però oramai teniamola, dai. Va be’, ma se scriveva del funzionamento dei razzi allora... “Sebbene la mia conoscenza di razzi e scrittura tecnica fosse pari a zero”, scriverà il buon Bill. Benissimo. Ad ogni modo, il problema è anche un altro: il contratto di Kaysing termina nel 1963 e inspiegabilmente non viene rinnovato. 1963: sei anni prima della missione Apollo 11. Non serve essere esperti in storia della tecnologia per rendersi conto, anche solo da consumatori, della rapidità con cui oggi il progresso avanza di anno in anno nei vari campi (informatica, elettronica, hardware). Ma negli anni della corsa allo spazio, gli anni cinquanta e sessanta, il progresso tecnologico raggiungibile in dodici mesi richiedeva investimenti di miliardi di dollari governativi ed era paragonabile a quello che si registra oggi in dieci anni. Come poteva Kaysing, dai manuali tecnici dei motori a razzo del 1963 che per sua stessa ammissione non comprendeva, fare considerazioni sui razzi del 1969? Non avrebbe potuto, sarebbe il caso di dire. Eppure lui, come il calabrone che non sa di essere troppo pesante per volare e si libra in aria ugualmente, le considerazioni le ha fatte comunque. Senza lasciare spazio a dubbi, nel senso che le ha spacciate per verità inconfutabili. Come ha fatto? Semplice: non si è basato su questioni tecniche. Ha infatti scritto il libro – parole sue – lasciandosi ispirare da “una premonizione, un’intuizione, un’informazione da un poco compreso e misterioso canale di comunicazione... un messaggio metafisico”. Allora ok. Di fronte al messaggio metafisico non posso che alzare le mani. Su Kaysing, però. Il volo del calabrone. Già che ci siamo, chiariamo anche ’sta storia, che viene addirittura riportata in alcuni testi tecnici di aeronautica, secondo cui il calabrone non potrebbe volare a causa della forma e del peso del proprio corpo relativamente alla superficie alare: è una scemenza. Intanto il calabrone, nella frase originaria inglese, è un bombo. Pare che la storiella sia nata all’Università di Göttingen negli anni trenta del secolo scorso, quando a un professore svizzero-tedesco fu chiesto da un collega biologo che proprietà aerodinamiche avessero le ali dei bombi per consentire loro di volare. Lo scienziato fece alcuni rapidi calcoli e le conclusioni furono sorprendenti: i bombi non avrebbero mai potuto sostenersi nell’aria! La storia si diffuse immediatamente e non si arrestò nemmeno quando lo stesso docente – guardando le ali di uno di questi insetti al microscopio – si accorse di aver fatto una serie di approssimazioni senza senso nei conti relativi alla superficie alare, non avendo avuto la minima idea di come fossero fatte le ali del bombo. Il complottato. Secondo il messaggio metafisico di Kaysing, comunque, la NASA avrebbe commissionato il filmato di un finto allunaggio nientemeno che al regista Stanley Kubrick. Uno che nel 1968 con 2001: Odissea nello spazio aveva dimostrato di essere bravino con le scene ambientate nel cosmo.

Secondo i complottisti, in realtà, Kubrick non avrebbe avuto tanta possibilità di scelta... suo fratello Raul aveva delle connessioni col Partito comunista. Una frequentazione non ottimale, negli States, durante gli anni della Guerra Fredda. La NASA avrebbe dunque scoperto la cosa e minacciato Kubrick di spifferare tutto ai federali e agli agenti segreti statunitensi qualora il regista non avesse accettato di inscenare la truffa. Ci sta. Tutto sommato è una cosa plausibile. Certo, il fatto che Kubrick non avesse alcun fratello ma solo una sorella minore, Barbara Mary, potrebbe forse far storcere il naso ai più pignoli. Dico davvero, potremmo anche chiudere qui questo capitolo. Cioè, tutto il complotto si basa sul fatto che della NASA e del governo degli Stati Uniti non ci si può fidare, ma poi si prendono come oro colato le parole di uno con una laurea breve in Letteratura che ha ammesso di lavorare a manuali tecnici di cui non capiva un’acca, vecchi di anni rispetto ai fatti, di aver scritto sotto impulsi mistici e che ha fondato il complotto su una persona che non esiste. Ha davvero senso discutere del resto? A quanto pare sì, se svariati milioni di persone nel mondo portano avanti una teoria che si diversifica e si evolve ogni anno, o anche solo tutte le volte che ne viene provata l’irrazionalità, trovando sempre nuove narrazioni/accuse puntualmente smontate. Il movente. Tanto per iniziare, i teorici del complotto non si sono ancora ben accordati con precisione su quale sia il movente della messinscena. Secondo molti lo scopo era battere i sovietici nella corsa allo spazio, dimostrando la superiorità militare statunitense. Soprattutto visto che, risultati e primati alla mano, fino ad allora i sovietici erano nettamente in vantaggio e per apparire vincitori serviva una grande rimonta. Secondo altri l’obiettivo era invece distrarre l’opinione pubblica statunitense dalla guerra in Vietnam. Anche quella, in fondo, non stava proprio andando secondo le aspettative. Infine, un’altra possibile motivazione sarebbe stata il timore della NASA di perdere il budget assegnatole. Come avrebbero giustificato la spesa del propellente liquido per i barbecue, altrimenti?! Quello su cui invece quasi tutti i negazionisti dell’allunaggio concordano è che nessun uomo abbia mai toccato il suolo lunare. Sonde? Possibile. Robottini? Forse, ma mica è detto. L’uomo, però, no di certo. Alcuni sostengono che lo sbarco sia davvero avvenuto solo con gli ultimi Apollo. Altri credono allo sbarco del 1969, ma dicono che la NASA avrebbe diffuso false fotografie per nascondere tecnologie o terrificanti scoperte. Tipo quali? Indovina un po’. Ti do un indizio: la risposta comincia per A e finisce per LIENI. Le prove (?). Analizzando il Moon Hoax, però, non sono tanto le teorie proposte a essere interessanti, quanto le modalità da manuale con cui vengono veicolate. Di base, i teorici del Moon Hoax non portano alcuna prova a sostegno delle proprie ipotesi, bensì chiedono a chi “crede alla versione ufficiale” di convincerli che davvero l’uomo sia stato sulla Luna. Nei casi in cui il negazionista di turno si avvalga di prove (di solito si tratta di presunte incongruenze in fotografie e filmati delle missioni), lo fa sempre con toni di certezza. Mai che sorga una domanda di dubbio lecito: “Ha senso questa cosa?”. È piuttosto “questa cosa non può esistere/accadere”. E anche quando (cioè puntualmente) l’affermazione negazionista viene smontata da un esperto, chi l’ha postulata non rivede le argomentazioni fallaci né dubita della fonte che le ha fornite. La strategia è semmai cambiare l’attacco, sviando l’attenzione dalla prova appena smontata e proponendo nuove accuse su infiniti particolari. Sempre senza fornire evidenze a sostegno del nuovo spunto di discussione e, anzi, chiedendo all’interlocutore di provarne la falsità. Questo rende praticamente impossibile non solo portare a conclusione la discussione, ma anche solo tracciare tutte le “prove” sottoposte nel corso degli anni e via via dimostratesi inconsistenti. Facciamo quindi una breve e non esaustiva carrellata. Accusa: Se gli astronauti dell’Apollo avessero davvero viaggiato verso la Luna, sarebbero stati cotti dalla fascia di radiazioni letali che circonda la Terra. Risposta: Le fasce di Van Allen, in cui il campo magnetico terrestre concentra la radiazione solare, sarebbero pericolose solo se le persone ci si fermassero per lunghi periodi, tipo giorni. Gli astronauti le attraversano belli veloci proprio per evitare problemi, ricevendo una dose di radiazioni paragonabile a quella di una radiografia medica. Accusa: Quando il modulo LEM riparte dalla superficie lunare non si vede alcuna fiamma dai motori. È chiaramente un modello che viene tirato su con un filo. Risposta: Il LEM non brucia ossigeno liquido e cherosene come il razzo Saturn V che lo ha portato nello spazio, ma viene azionato da una miscela di tetrossido di azoto, idrazina e dimetilidrazina asimmetrica: roba che produce gas di scarico trasparenti. Accusa: Nelle fotografie delle missioni non si vedono stelle, perché siamo in uno studio di posa.

Risposta: La Luna è uno specchio che riflette la luce solare, i tempi di esposizione dello scatto vanno da 1/250 a 1/150 di secondo al massimo. Se li aumenti bruci la fotografia. E con quei tempi di esposizione ti sfido a vedere le stelle. Accusa: Le ombre sono innaturali e non parallele, indice di faretti da studio puntati in direzioni differenti. Risposta: Se hai un terreno sparaflashante e con un contrasto terribile, questo ti impedirà di cogliere tutte le buche, conche e montagnette presenti. Inoltre, a fare i pignoli, c’erano effettivamente più sorgenti luminose: il Sole, la luce riflessa dalla Terra, quella riflessa dal modulo lunare, dalle tute spaziali e anche dalla superficie della Luna stessa. Accusa: Le scarpe degli astronauti erano a suola liscia, ma le orme fotografate sul finto suolo lunare mostrano una suola a strisce. Risposta: Per scendere sulla superficie lunare, gli astronauti hanno calzato apposite ghette sopra gli stivali. Queste erano sviluppate per il suolo e la temperatura superficiale del nostro satellite, dovevano isolare da eventuali patogeni extraterrestri e ridurre la quantità di polvere lunare sugli stivali una volta risaliti a bordo. Quelle che vediamo nella fotografia dell’impronta sono i segni lasciati dalle ghette. Accusa: Le montagne sullo sfondo non sono sfocate ma molto nitide. Sono finte. Risposta: Sulla Luna praticamente non c’è atmosfera, cosa poffarbacco dovrebbe sfocare le montagne lontane? Accusa: La polvere lunare nei filmati si comporta in modo strano, chiaramente è un effetto speciale. Risposta: A parte che mi si deve spiegare con quale tecnologia del 1969 avrebbero dovuto riprodurre del particolato in caduta, la regolite lunare (questo il termine corretto) non solo ha una composizione chimica ben diversa dalla sabbia e quindi reagisce in maniera differente, ma soprattutto cade e si muove in un ambiente privo di atmosfera e con un’attrazione gravitazionale sei volte inferiore a quella terrestre. Per forza si comporta in modo strano! Accusa: Se Armstrong è stato il primo a scendere dalla scaletta del modulo lunare, chi ha fatto le riprese? E la celebre fotografia chi l’avrebbe scattata? Risposta: Il filmato del “piccolo passo” di Neil Armstrong è stato girato da una telecamera automatica montata su un braccio esterno al LEM. Telecamera che peraltro produceva filmati di una qualità nettamente inferiore a quella delle videocamere “a mano” in dotazione agli astronauti. La fotografia di Armstrong che scende dalla scaletta l’ha scattata... Armstrong. Perché quello che sta scendendo non è lui, ma il compagno di missione Buzz Aldrin. Accusa: Una Ronald, una signora australiana, ha identificato una bottiglia di CocaCola nei filmati dell’Apollo 11. È un blooper, un errore sul set! Risposta: Nessuno al mondo ha mai ritrovato l’immagine della presunta bottiglia. Anche se molti rilanciano quest’accusa, nessuno ha mai visto l’oggetto incriminato. Così come nessuno ha mai visto questa Una Roland. Accusa: Una roccia lunare fotografata durante la missione dell’Apollo 11 è contrassegnata dalla lettera C. È chiaramente un oggetto di scena! Risposta: La C non appare in nessuno dei negativi o delle stampe originali della NASA. Se osservata attentamente, si nota che è un capello che ha contaminato una riproduzione successiva. Accusa: La “prova delle prove” è la bandiera che sventola in assenza di atmosfera. Come è possibile? Risposta: La bandiera non sventola mai. Intanto è stesa su una stecca di alluminio, come una tenda da doccia. Stecca che per errore fu leggermente piegata dall’equipaggio dell’Apollo 11. Inoltre è semirigida e pure spiegazzata, perché si è appena fatta un viaggio di tre giorni nello spazio imballata ermeticamente in un tubo d’acciaio attaccato alla scala del LEM. E poi, tu come pianti un ombrellone nella sabbia, al mare? Facendolo roteare in senso orario e antiorario, alternando i movimenti. Bene, la stessa cosa la devi fare per piantare un’asta nella regolite. Solo che sulla Luna, senza atmosfera, il movimento prosegue a lungo anche dopo che hai posizionato il vessillo. Infine, il teflon che rivestiva le tute degli astronauti poteva caricarsi elettrostaticamente per un tempo variabile da frazioni di secondo a qualche secondo. In tali momenti queste cariche potevano interagire con il nylon delle bandiere, provocandone il movimento. Potremmo continuare per ore, ma la verità è che ci sarebbero sempre nuove affermazioni non verificate da smontare. Faccio però notare che le risposte a molte accuse (come sia stato girato il filmato sulla scaletta, il funzionamento della bandiera, o che tipo di ghette indossassero gli astronauti, eccetera) si possono trovare semplicemente visionando il filmato completo dell’allunaggio, invece che limitarsi ai trenta secondi di sintesi su YouTube. Ma bisognerebbe avere la voglia di farlo. Altri dati, come i tempi di esposizione delle fotografie, la miscela del LEM o i valori di radiazioni delle fasce di Van Allen, si trovano digitando su Google la domanda. I dati non si trovano solo se non si prova nemmeno a cercarli. Infine trovo molto interessante che si sostenga che la NASA abbia chiesto a Kubrick di fare un film di fantascienza perché bravo con gli effetti speciali (anche robe impossibili per l’epoca, come il particolato in caduta) e poi lo si sfotta per essersi dimenticato cose come le fiamme, le suole delle scarpe o le stelle nel cielo. Il principio di falsificabilità. Nel dicembre del 1926 Albert Einstein scrisse una lettera al collega Max Born. Nella missiva si legge: “Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato”. Tale idea fu successivamente ripresa dal filosofo Karl Popper, che la rielaborò in quello che viene chiamato principio di falsificabilità: posso fornire migliaia di prove che ciò che dico sia vero, ma non potrei mai darti la certezza che io abbia ragione; se però qualcuno porta una prova del fatto che io mi sbagli, allora potremo essere certi che la mia teoria sia da scartare o quantomeno da ripensare. Se le ipotesi da modificare o le spiegazioni ad hoc diventano troppe, probabilmente la mia teoria va cestinata. In generale, questo è un buon principio su cui basarsi non solo per la formulazione di teorie scientifiche, ma anche per fare debunking. E, mi sia concesso farlo notare, qui sopra abbiamo appena falsificato oltre una decina di prove. Insomma, forse la teoria del Moon Hoax non è troppo solida. Le prove (!). Quando si discute di allunaggi con chi non è convinto siano avvenuti, comunque, non sempre basta fare affidamento sul principio di falsificabilità. Perché, a un certo punto, ci sarà sempre chi – non riuscendo a fornire prove del complotto – chiederà di fornire prove dell’avvenuto sbarco. Potrei dirti che dalle tecnologie sviluppate o perfezionate per il programma Apollo negli anni sessanta sono derivati almeno trentamila (!) diversi oggetti di uso più o meno comune: dai cellulari alla microelettronica, dalle gomme da masticare ai

pacemaker. E se si doveva solo fingere di andarci, perché darsi pena a sviluppare tutta ’sta tecnologia? Preferisco però parlare di prove dirette, diciamo. Il problema è che queste sono ancora più delle accuse, e dovremo quindi fare una brevissima carrellata. Partirei dai sassi che ci siamo portati giù. Un sacco di sassi. Scusa, volevo solo far svenire qualche geologo scrivendo molte volte la parola sassi. Ad ogni modo, sul nostro satellite naturale sono stati raccolti 382 chilogrammi di rocce e polveri, durante le missioni Apollo. Queste rocce lunari sono chimicamente differenti rispetto a quelle terrestri, perché sono più ricche di alcuni isotopi e contengono un minerale non esistente sulla Terra: l’armalcolite (dai cognomi dei tre astronauti dell’Apollo 11: Armstrong, Aldrin e Collins). Le rocce lunari sono anche più vecchie di quelle di casa nostra di almeno 200 milioni di anni. E sostenere che la NASA sia riuscita chissà come a taroccare e a cambiare chimica e fisica di quattro quintali di rocce è forse dargli un po’ troppo credito. Qualcuno potrebbe far notare che dal 1970 al 1976 i sovietici spedirono tre sonde spaziali (Luna 16, Luna 20 e Luna 24) che inviarono sulla Terra capsule con campioni di suolo lunare e che gli statunitensi potrebbero dunque aver raccolto il materiale con semplici sonde. Be’, sarebbe stata comunque un’impresa notevole, visto che i sovietici in tutto raccolsero poco più di tre etti di materiale, oltre mille volte meno degli americani. Durante le missioni Apollo sono stati anche lasciati sulla superficie dei retroriflettori (sostanzialmente specchi), chiamati Laser Ranging Retroreflector (LRRR). Quegli specchi servivano a riflettere raggi laser inviati da Terra, per misurare costantemente la distanza della Luna. Gli LRRR vengono utilizzati tutt’oggi e il laser si riflette solo se indirizzato verso i siti degli allunaggi, non se sparato verso altre zone. Quindi nei punti degli allunaggi qualcuno ha lasciato qualcosa. Certo, va detto che anche alcune missioni sovietiche come Lunochod 1 e Lunochod 2 hanno portato retroriflettori a bordo di rover telecomandati. Però questo vuol dire che almeno qualcosa lassù lo abbiamo mandato. Gli astronauti delle missioni Apollo hanno inoltre lasciato sulla superficie lunare anche sismografi molto sensibili, attivi fino al 1977. Gli strumenti dovevano essere sistemati accuratamente a mano sul suolo, con l’aiuto di livelle. Un robot non avrebbe mai potuto eseguire il tutto con la necessaria precisione. Si era anche provato a farlo con tre sonde statunitensi – le Ranger 3, 4 e 5 – che cercarono di sganciare sulla Luna dei sismometri molto più semplici, infilati in capsule. Tutte e tre le missioni fallirono. Gli astronauti dell’Apollo 12 hanno riportato sulla Terra parti della sonda Surveyor 3, allunata nell’aprile del 1967. Se non loro, chi l’ha riportata indietro? Visto che vengono spesso usate come prove del complotto, parliamo poi di fotografie. Durante la missione Apollo 16 sono state scattate immagini delle costellazioni del Capricorno e dell’Acquario così come appaiono nell’ultravioletto. Quando fra il 1972 e il 1974 il satellite europeo Thor-Delta 1A sondò il cielo dall’orbita terrestre alla ricerca di stelle luminose nell’ultravioletto, ottenne fotografie praticamente identiche. Un set cinematografico fin troppo preciso... I profili delle montagne fotografati da Apollo 15 sono perfettamente uguali a quelli ricostruiti in 3D a partire dalle misurazioni prese dalla sonda giapponese SELENE nel 2008. Cavolo, che scenografi veggenti quelli di Kubrick! Proprio nelle immagini della sonda SELENE, oltre che in quelle dell’indiana Chandrayaan-1 registrate nel 2009, è possibile individuare tracce degli allunaggi. Nel luglio 2009 la sonda statunitense Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) ha fotografato i vari moduli lunari LEM utilizzati dagli astronauti per allunare. Sono stati anche immortalati i luoghi degli esperimenti scientifici svolti dagli statunitensi e addirittura le orme degli astronauti e le tracce dei rover lunari, i fuoristrada che gli americani hanno spedito sulla Luna. Orme e tracce che sono ancora lì. Immagini ancora più dettagliate sono state rilasciate nel 2022 dalla sonda indiana Chandrayaan-2. David Scott, comandante di Apollo 15, ha lasciato cadere sulla superficie lunare un martello e una piuma dalla stessa altezza, per verificare che questi atterrassero assieme in assenza di atmosfera. L’esperimento è riuscito e c’è un video a dimostrarlo. E a meno di non utilizzare effetti speciali all’epoca non disponibili, il trucchetto non è ricreabile sulla Terra. Negli anni settanta diversi osservatori astronomici indipendenti (statunitensi, inglesi, australiani, francesi, tedeschi, spagnoli, svedesi e chi più ne ha più ne metta) hanno tracciato e fotografato innumerevoli volte le missioni Apollo, al decollo e al rientro. Gli osservatori hanno inoltre ricevuto le trasmissioni radio. All’epoca non c’erano reti di satelliti artificiali che potessero far rimbalzare un segnale e farlo arrivare dalla direzione desiderata. Se un segnale arrivava dalla direzione della Luna, è perché da lì era stato spedito. Certo, tutti gli osservatori nel mondo potevano fingere di avere ricevuto quelle trasmissioni dallo spazio, quando invece queste erano state registrate sulla Terra. Però così ’sto complotto inizia a richiedere la collaborazione di un po’ troppa gente. E già il programma Apollo ha coinvolto quasi mezzo milione di persone. Benjamin Franklin amava dire: “Tre persone possono tenere un segreto, se due di loro sono morte”. Man mano che più individui vengono a conoscenza di un segreto, la probabilità che qualcuno parli nel tempo aumenta sempre più. David Robert Grimes dell’Università di Oxford anni fa ha creato un’equazione per calcolare il tempo in cui un segreto può rimanere tale. Nel caso del programma Apollo, il segreto sul falso sbarco sarebbe potuto durare al massimo tre anni e otto mesi. Se dopo oltre cinque decenni nessuno ha confessato, forse allora è perché non c’è proprio nulla da confessare. La prova delle prove. C’è però un ultimo punto che merita di essere analizzato, per provare a fugare ogni possibile dubbio sull’allunaggio. Prima, però, devo farti una domanda: se ti dicessi di aver visto il diavolo, poco fa, ti fideresti di più di me se mi fossi sempre dichiarato religioso o ateo? Potresti pensare che la risposta sia “religioso”, ma pensaci bene... la risposta corretta è “ateo”. Se io fossi religioso, infatti, la mia visione mistica sarebbe una conferma dell’esistenza di Lucifero molto debole, perché la mia testimonianza avvalorerebbe le tesi che in fondo ho sempre professato: se per me esiste Dio, per me deve esistere anche l’Angelo Caduto. Se io fossi ateo, invece, l’incontro da me narrato sarebbe contrario alle mie idee e alle mie credenze. Insomma, raccontandotelo, ci starei rimettendo. Perché mai dovrei farlo, se non fosse vero? Prima di dirti una cosa del genere, avrei vagliato tutte le altre opzioni, dagli effetti collaterali di un farmaco all’assunzione involontaria di funghi allucinogeni. E ti direi di aver visto Satana a malincuore, dopo aver escluso tutte le altre ipotesi.

Questo esperimento ipotetico è stato ideato da Paolo Attivissimo, che oltre a essere uno degli smantellatori di bufale per eccellenza è anche esperto di allunaggi. Il principio di Belzebù – questo è il suo nome – in pratica ti dice che devi fidarti di chi, dicendoti una cosa, si sta tirando la zappa sui piedi. Ora, torniamo alla missione Apollo 11. Immagino che tutti possiamo concordare sul fatto che i sovietici da Mosca monitorassero per tutto il tempo le missioni statunitensi, vero? Ecco, se tu fossi in una corsa a due, perdessi e avessi il dubbio che l’altro atleta abbia imbrogliato, te lo terresti per te? Credo di no: lo urleresti ai quattro venti, gridando allo scandalo. Allo stesso modo i sovietici, grandi sconfitti della corsa all’allunaggio, non avrebbero esitato a denunciare gli americani al minimo sentore di truffa. Invece non solo non hanno mai detto nulla, ma dopo l’allunaggio dell’Apollo 11 il capo di stato sovietico Nikolai Podgorny inviò al presidente degli Stati Uniti Nixon un messaggio di congratulazioni. Certo, a essere onesti il messaggio non era proprio colmo di entusiasmo, ma fu mandato. Ora ricordati del principio di Belzebù: che motivo avrebbero i sovietici di dirti che l’Apollo è arrivato sulla Luna, se non ne fossero convinti? E se i dubbi non ce li hanno loro che spiavano gli statunitensi e probabilmente avranno avuto anche delle talpe qua e là, perché dovremmo averli noi? USA e getta. Le teorie sul falso allunaggio sono tornate in auge a fine estate 2022, a seguito dei rinvii della partenza della missione Artemis 1, che coincideva con il primo lancio dello Space Launch System (SLS), il sistema di lancio orbitale non riutilizzabile della NASA. Al verificarsi dei primi problemi che hanno provocato lo slittamento della partenza, infatti, sui social sono pullulati sotto i post dedicati alla missione messaggi quali “Non riusciamo ad andare sulla Luna nel 2022, volete dirmi che ci siamo stati 50 anni fa?”. I rinvii fanno da sempre parte dell’esplorazione spaziale. Come ha ricordato su Twitter Luca Parmitano in occasione del secondo rinvio, undici missioni Shuttle slittarono a causa di problematiche tecniche. E due di queste slittarono due volte. I razzi non nascono già perfetti funzionando al primo colpo. Anzi. Quelli odierni poi sono vettori molto più tecnologicamente complicati e complessi rispetto a quelli degli anni sessanta. Ed è normale che un razzo al primo lancio presenti qualche intoppo. Quando poi si sta per lanciare il razzo più potente mai costruito, che peraltro è anche costosetto, magari ci si pensa dieci volte prima di rischiare il botto. Soprattutto perché su quel razzo ci dovranno salire un po’ di persone. E, magari ce lo si dimentica, nella prima missione Apollo tre persone persero la vita per problematiche banali. E a seguito di quel tragico incidente – e delle successive indagini – la NASA dovette correggere oltre millequattrocento problemi costruttivi prima di testare per la prima volta il razzo Saturn V. Immagino comunque che tutte queste persone indignate per le carenze tecnologiche moderne siano contemporaneamente sconvolte per l’assenza di tutte quelle macchine volanti presenti nel nuovo millennio immaginato nella prima metà del Novecento. Purtroppo le cose, nella vita e soprattutto quando si cerca di aprire nuovi orizzonti dell’esplorazione e della conoscenza, non vanno sempre come preventivato. Luna piena. “Bob, sono Gene, e sono sulla superficie. E, mentre nella direzione di casa faccio l’ultimo passo dell’uomo sulla superficie per qualche tempo a venire – ma crediamo non troppo lontano nel futuro – vorrei solo dire che penso che la storia testimonierà... che la sfida dell’America di oggi ha forgiato il destino dell’uomo di domani. E, mentre lasciamo la Luna dalla Taurus-Littrow, ce ne andiamo come siamo arrivati e, se Dio vuole, come torneremo, in pace e con la speranza per l’umanità. Buona fortuna all’equipaggio dell’Apollo 17”. Sulla costa est degli Stati Uniti erano passate da poco le 3 del mattino quando Eugene Cernan, comandante della missione Apollo 17, pronunciò queste parole al momento di risalire la scaletta del modulo lunare. Era il 14 dicembre 1972. Da allora nessun essere umano ha più posato piede sulle grigie distese del nostro satellite. Perché? Se tante sono le domande che – spesso in buona fede, spesso meno – vengono poste sugli allunaggi, questa è una delle più gettonate. Come mai, se mezzo secolo fa siamo giunti a quell’impresa come risultato di moltissimi sforzi, poi abbiamo smesso di farlo? La risposta breve? Per gli stessi motivi per cui negli anni settanta con il Concorde – il cui primo volo fu proprio nel 1969 – si andava da Parigi a New York in tre ore e mezzo e oggi ce ne vogliono sette e mezzo: soldi, sicurezza e volontà politica. Se invece vuoi una versione più lunga... Luna calante. Quando il presidente John Fitzgerald Kennedy annunciò l’intenzione di intraprendere un programma per andare sulla Luna – ponendo la deadline del 1969 e gettando la stessa NASA nel panico – venne stimato costo di 7 miliardi di dollari. Cifra totale, comprendente i costi di ricerca e sviluppo, la costruzione di quindici razzi Saturn V, sedici moduli di comando e servizio, dodici moduli lunari, lo sviluppo dei programmi di supporto e pure i costi amministrativi. Che teneri... Sembrano le cifre sulle manovre proposte da ogni partito politico nella campagna elettorale dell’estate 2022: sparate a caso. Anche perché all’epoca non si potevano prevedere un sacco di spese, considerato che buona parte della tecnologia andava ideata, progettata e sviluppata da zero. Un processo che di solito si rivela sempre più costoso di quanto preventivato, non solo in Italia. James Webb, amministratore della NASA dal 1961 al 1968 (a cui, come avrai intuito, è stato dedicato il telescopio spaziale), cambiò la cifra prevista in 20 miliardi. All’epoca la stima di Webb fece scandalo, ma a posteriori risultò di gran lunga la più accurata. L’intero programma, secondo dati ufficiali del Congresso americano, costò l’esorbitante cifra di 25,4 miliardi di dollari. Negli anni sessanta. Tenendo conto dell’inflazione, equivalgono a oltre 250 miliardi di bigliettoni verdi al giorno d’oggi. Nonostante fosse solo un terzo di quanto gli Stati Uniti spendevano per la difesa, è comunque una somma spropositata: se ti ricordi le manovre “lacrime e sangue” del governo Monti, coinvolgevano cifre dieci volte inferiori. In origine erano state pianificate altre tre missioni: Apollo 18, 19 e 20. Ma una volta raggiunto l’obiettivo politico del fare “Gnè gnè!” ai sovietici, e visti i costi lievitati, arrivò un taglio di budget alla NASA. Con conseguente decisione di non produrre una seconda serie di razzi Saturn V. Le missioni vennero dunque cancellate e i loro fondi rimasti furono ridistribuiti. Il programma Skylab, per la prima e unica stazione spaziale completamente statunitense, ereditò le tecnologie e le componentistiche rimaste dal programma Apollo, come il modulo di comando e servizio, gli stadi avanzati dei razzi Saturn (lo stesso laboratorio spaziale era composto principalmente dal secondo stadio di un razzo vettore del tipo Saturn IB) e pure un osservatorio solare – l’Apollo Telescope Mount – originariamente progettato per le missioni Apollo. Dal 1966 al 1974 il programma Skylab costò in totale 2,2 miliardi di dollari dell’epoca. Certo meno dell’Apollo, ma comunque una quindicina di miliardi di dollari attuali. E quando

una giornata di una persona in orbita ti costa 20 milioni di dollari, al budget un’occhiata la dai. Grandi speranze. Ci fu poi lo sviluppo del programma Space Shuttle (ufficialmente Space Transportation System, STS), già in fase di progettazione durante lo svolgimento delle missioni Apollo. Un progetto che rimase operativo per trent’anni, dal primo lancio dello Shuttle Columbia il 12 aprile 1981 all’ultimo atterraggio dell’Atlantis il 21 luglio 2011. Gli Shuttle nascevano per operare ad alta quota al minor costo e maggior livello di sicurezza possibile, con un notevole miglioramento rispetto alla precedente generazione di roba spaziale usa e getta. In pratica dovevano essere veicoli economici, riutilizzabili, di facile manutenzione e veloce preparazione al lancio. Sempre più teneri, questi americani... All’inizio dell’avventura dello Space Shuttle, la NASA stimò i costi in 7,45 miliardi di dollari in sviluppo e spese straordinarie e 9,3 milioni di dollari per volo. Ma soprattutto, la previsione era di cinquanta lanci l’anno, ognuno preparabile in due settimane! I lanci, in trent’anni, furono invece centotrentacinque. Fare una ripartizione esatta dei costi – ricorrenti e non – è praticamente impossibile, ma secondo la NASA, il costo medio per ogni lancio nel 2011 era di poco meno di mezzo miliardo di dollari. Non esattamente quanto preventivato. Ma come si giunse a tale cifra? Uno dei problemi fu senza dubbio l’inflazione estremamente elevata durante gli anni settanta, che comportò un aumento dei costi del 200% nel decennio (tra il 1990 e il 2000, per avere un paragone, l’aumento fu di “solo” il 34%). Ma anche tenuto conto dell’inflazione, un lancio dello Shuttle nel 2011 sarebbe dovuto costare al massimo 54 milioni di dollari, e non nove-dieci volte tanto. Il problema principale fu la manutenzione degli Orbiter – le navette vere e proprie – che si rivelò enormemente più costosa del previsto. In teoria, dopo ogni rientro, un Orbiter sarebbe stato controllato, riagganciato a serbatoio esterno e razzi e pronto a un nuovo lancio nel giro di una quindicina di giorni. Dopo la prima tragedia dello Shuttle Challenger nel 1986, però, gli standard di manutenzione divennero giustamente molto più severi, con continui aggiornamenti nel processo di controllo e una mole incredibile di documentazione. Improvvisamente ci si rese conto che lo Space Shuttle aveva un equipaggio nutrito e nessun sistema di fuga: anche banali incidenti o il sottostimare piccoli problemi avrebbero portato alla morte di sette persone. Che, peraltro, erano per lo più civili e non militari come all’inizio dell’esplorazione spaziale. Alan Shepard, il primo astronauta statunitense, partì con un razzo che aveva un incoraggiante tasso di fallimenti al lancio del 58%. L’equipaggio dell’Apollo 11 aveva una probabilità su due di lasciarci le penne. Ma, purtroppo, si era in un periodo di Guerra Fredda: tali perdite sarebbero state viste come quelle di eroi di guerra dall’opinione pubblica. Con lo Shuttle, però, questo non sarebbe successo: sarebbero state tragedie non necessarie. L’obiettivo principale del programma Shuttle divenne riportare gli equipaggi sani e salvi, non essere rapidi nel lancio. Che, potremmo anche concordare, non è una prospettiva malvagia. La cosa però non aiutò certo a mantenere i costi bassi. Ogni componente non perfetto fu di volta in volta controllato e sostituito, contribuendo non solo a far aumentare spropositatamente i costi, ma anche le ore di lavoro necessarie per ogni volo. E, anche senza voli, la necessità di aggiornare continuamente le procedure e mantenere attivo il programma fu comunque costosissima, al punto che i costi effettivi di lancio cominciarono a essere solo una parte del budget, e non quella più rappresentativa. Giusto per fare un esempio: dal 2004 al 2006, con la flotta semibloccata dopo la tragedia al rientro dello Shuttle Columbia del 2003 e solo tre lanci effettuati, la NASA ha speso qualcosa come 13 miliardi di dollari per il programma fra integrazioni varie, operazioni di volo ma anche di terra, manutenzione delle navette, dei motori e dei serbatoi. Alla fine, invece dei 7,45 miliardi di dollari preventivati per i costi dell’intero programma (43 miliardi del 2011, tenendo conto dell’inflazione al momento della chiusura del programma), di dollari se ne spesero quasi 200 miliardi. Dividendo il costo totale per il numero di voli effettuati, si arriva alla cifra di 1,5 miliardi di dollari a lancio. La prossima volta che pensi a quanto gli italiani siano i più bravi al mondo a far lievitare le spese di un grande progetto, pensa agli Shuttle e rivaluta un minimo la situazione: siamo almeno primi a pari merito con gli statunitensi. Non una stazione grande, ma una grande stazione. Se dal punto di vista economico, e per certi aspetti anche tecnico, lo Shuttle può essere considerato un fallimento, non dobbiamo dimenticare che rimane il primo sistema di lancio riutilizzabile operativo al mondo – ben prima di quel Musk che ora sembra il salvatore dell’umanità. Un sistema che ha portato a strepitosi successi, che vanno dall’aver messo in orbita satelliti e telescopi spaziali quali Hubble all’aver permesso la costruzione e il mantenimento di laboratori come la Stazione Spaziale Internazionale. Senza gli Shuttle e la loro capacità di carico (e quel volume disponibile in stiva) non saremmo riusciti a partire con la costruzione della stazione orbitante nel 1998. La ISS è il più grande satellite artificiale mai costruito (dagli esseri umani, per quanto riguarda gli alieni non ci è dato sapere) ed è un simbolo di cosa l’umanità possa fare quando decide di collaborare, costruendo un laboratorio di scienza e di pace. Grazie a una stazione costantemente occupata da esseri umani dal 2 novembre 2000, da oltre due decenni l’umanità non abita più tutta assieme sulla superficie terrestre. Ma per sviluppare tecnologie, mantenere in vita decine di equipaggi, compiere esperimenti di fisica, biologia, chimica, ingegneria, botanica e medicina in un ambiente di microgravità, oltre a osservazioni meteorologiche... servono soldi. Molti soldi. Una stima precisa dei costi è complicata, perché è difficile stabilire quali vadano attribuiti specificamente al programma, o come debba essere calcolato il contributo russo. La Stazione Spaziale Internazionale è comunque l’oggetto singolo più costoso mai costruito: nel 2010, il costo totale era probabilmente di 150 miliardi di dollari. Di questi, quasi 59 miliardi di dollari (90 miliardi attuali) li ha messi la NASA. Tutto questo discorso sui costi, degno delle amiche e degli amici genovesi, dovrebbe rispondere alla domanda “Perché non siamo più tornati sulla Luna?”: grandi spese esigono grandi motivazioni, soprattutto politiche. E, in carenza di fondi, la decisione della NASA di proseguire le missioni lunari avrebbe significato zero finanziamenti non solo per gli altri programmi appena descritti, ma anche per tutte le missioni che hanno segnato – con enormi successi – i decenni a venire: dalle sonde Pioneer (primo sorvolo di Giove e Saturno) alle Mariner (primo sorvolo di Venere e Mercurio), dalle Voyager (primo sorvolo di Urano e Nettuno) alle Viking (primo atterraggio e trasmissione dalla superficie di Marte), dal telescopio spaziale Hubble agli altri osservatori in orbita terrestre. Bisognava scegliere e avere

pazienza. E onestamente, a posteriori, non possiamo troppo biasimare la decisione di attendere prima di tornare sulla Luna. Costi o investimenti? Consideriamo poi che ogni missione spaziale divide come poche cose l’opinione pubblica, assieme al calcio e alla cottura della pasta a fuoco spento per risparmiare gas. Da un lato quelli entusiasti a pallettoni, quelli a cui non frega assolutamente nulla nel mezzo e, dall’altro lato, i critici. Che, di solito, accompagnano le proprie esternazioni con frasi tipo “Non abbiamo come pagare le bollette, ma i soldi per questo li troviamo?”, “Non abbiamo l’acqua sulla Terra e andiamo a cercarla su Marte!” o il sempreverde “Perché quei soldi non li hanno dati ai bambini in Africa?!”. Tutte frasi che fanno provare un forte dolore al braccio sinistro agli autori di questo volume (a uno in particolare) e che non analizzeremo ulteriormente perché i medesimi autori hanno un fegato solo e vorrebbero – per quanto possibile – preservarlo. Si farà però presente che, per esempio, il budget di una missione spaziale di qualche anno (si spera) su Marte come Perseverance, è di circa 2,7 miliardi di dollari. Tanti soldi, certo, ma otto volte meno di quelli spesi per organizzare i diciassette giorni di olimpiade invernale di Sochi 2014 (costata quasi 22 miliardi di dollari), o meno di un quinto di quelli stanziati per l’olimpiade estiva di Londra 2012 (15 miliardi di dollari). Eppure, tutta questa sollevazione popolare mondiale contro le olimpiadi non balza alla mente fra i ricordi di chi vi parla in questo momento. Che peraltro non vuole nemmeno lontanamente parlare del fatto che nei primi anni della guerra in Afghanistan gli Stati Uniti abbiano speso quasi 100 miliardi di dollari ogni dodici mes... Ops, errore in buona fede. Andrebbe poi notato che quelli delle missioni spaziali sono investimenti, e non spese. Se non mi credi, pensa a chi investe in questo momento in aerospazio: Elon Musk, Jeff Bezos, Richard Branson... Cosa hanno in comune? Sono tutti miliardari (miliardi di dollari, non di lire). E lo fanno non perché abbiano voglia di buttare soldi. Certo, ci sono i sogni personali. Ovvio, ci sono l’ego e la sfida a chi ha il razzo più lungo. Ma c’è anche che quello nel settore aerospaziale è al momento considerato l’investimento più redditizio al mondo, se vogliamo rimanere nell’ambito della legalità. Se vuoi trafficare in stupefacenti magari guadagni di più, ma potrebbero arrestarti. Costruendo razzi le probabilità che ciò avvenga sono inferiori. A seconda delle differenti stime delle varie agenzie – governative o private – i ricavi andrebbero da sette a diciassette volte l’investimento iniziale. Per il programma Apollo – che comunque ebbe difficoltà notevoli e vide anche spese dovute all’urgenza – gli Stati Uniti generarono 3 dollari per ogni dollaro investito dalle sole ricadute. Quali? Sono oltre trentamila i diversi oggetti prodotti utilizzando tecnologie inventate o perfezionate dagli statunitensi tra il 1962 e il 1970 per la corsa alla Luna. Si va dalla microelettronica e la componentistica che oramai costituisce quasi tutto ciò che ci circonda (smartphone e computer compresi) ai pacemaker, basati sulla miniaturizzazione dei sensori biometrici per monitorare gli astronauti. La quasi totalità degli appalti dell’epoca, poi, venne vinta da imprese statunitensi, quindi il denaro speso dal governo rimase all’interno del sistema economico a stelle e strisce. Insomma, si fece “girare l’economia”. Non c’è dunque da stupirsi se qualcuno ha definito lo sbarco sulla Luna “il miglior investimento in ricerca da quando Leonardo da Vinci si è comprato un quaderno per i suoi schizzi”. Il consenso immaginato. C’è però da dire che spesso, ai critici, gli entusiasti rispondono con affermazioni tipo “Fosse stato per voi, sulla Luna non ci saremmo mai stati!”, facendo però passare il concetto che all’epoca il consenso alle missioni Apollo (o, in generale, alla corsa allo spazio) fosse quasi unanime, o comunque decisamente maggioritario. Una cosa non del tutto vera. Anzi, potremmo dire falsa. La distorsione temporale dovuta al mezzo secolo abbondante di distanza, unita alle emozioni che qualcuno ha vissuto in diretta (ma che gli altri hanno potuto vivere a posteriori), ci fanno spesso inquadrare quei momenti come quasi mitologici, facendoci perdere la visione di insieme del periodo. È vero che all’epoca

seicento milioni di persone, cioè un quinto della popolazione mondiale di allora, guardarono degli sgranati Neil Armstrong e Buzz Aldrin saltellare in diretta TV. Negli Stati Uniti, quel giorno, il 94% della popolazione era davanti a un televisore. La realtà, però, è che le due amministrazioni che si succedettero dopo l’omicidio di Kennedy (il presidente che aveva promesso di giungere sulla Luna entro la fine del decennio) si ritrovarono a dover proseguire il programma lunare con buona parte della popolazione convinta che l’obiettivo non valesse lo sforzo. E, come abbiamo detto, non ci pensarono troppo prima di sospendere i viaggi verso il nostro satellite. D’altra parte, la base degli elettori non se ne lamentò particolarmente. La percentuale di persone favorevoli alle missioni Apollo, nei sondaggi del 1964 che interessavano i potenziali elettori statunitensi, era del 26%. A fine dicembre 1968 la missione Apollo 8 fu la prima con a bordo esseri umani a lasciare l’orbita terrestre, a raggiungere la Luna e a orbitarci attorno. I tre astronauti a bordo divennero i primi esseri umani a entrare nel campo gravitazionale di un corpo celeste diverso dalla Terra, a vedere con i propri occhi il lato nascosto della Luna e a osservare il nostro pianeta nella sua interezza, vedendolo sorgere dall’orizzonte lunare. Quella fotografia la conosciamo tutti, perché è una delle più famose della Storia e ha ispirato la coscienza ambientale di intere generazioni. Nella vigilia di Natale l’equipaggio trasmise in diretta televisiva le immagini della superficie lunare ripresa da un centinaio di chilometri di distanza, mentre leggeva i primi dieci versetti della Genesi. Polemiche sulla scelta religiosa a parte, all’epoca la trasmissione risultò il programma televisivo più osservato di sempre. Dal punto di vista comunicativo e – diciamocelo pure – di marketing è dunque impossibile non catalogare la missione Apollo 8 come un successo su tutti i fronti. Eppure, all’indomani della missione, solo il 39% degli statunitensi si disse favorevole a mandare un uomo sulla Luna. Solo molto dopo che ciò avvenne, ispirando milioni di persone, le percentuali di americani favorevoli alle spese e agli sforzi del programma Apollo salirono: il 47% nel 1979, a dieci anni dall’allunaggio di Apollo 11, e il 77% nel 1989, a due decenni dall’evento. Fette di salame... sugli occhi. Il rischio di prendere cantonate nei ragionamenti, dunque, non è proprio solo di uno “schieramento”. Sia che siamo entusiasti dell’esplorazione che detrattori o addirittura negazionisti dell’allunaggio, le insidie dei bias, delle percezioni, del cherry picking attendono tutti noi dietro l’angolo. Il rischio di creare schieramenti di ultras è sempre alto, e un ultras proscienza non è più logico e razionale di un ultras antiscienza. A fornirci un esempio di ciò, l’esperimento sociale del fisico francese Étienne Klein, direttore di ricerca al Commissariato francese per l’Energia Atomica e le Energie Alternative (CEA). Klein il 31 luglio 2022 ha twittato dal suo account – che contava oltre centomila follower – la fotografia di una fetta di chorizo iberico piccante, millantando però che si trattasse di una meravigliosa immagine della stella Proxima Centauri ripresa dal telescopio spaziale James Webb. Prendi ora una dose di voglia di stupirsi, mescolala con la notiziabilità del James Webb nell’estate 2022, aggiungici due manciate di principio di autorità e una spolverata di superficialità: et voilà, un’immagine virale a tal punto da rendere l’immagine del salame il primo risultato Google digitando la chiave di ricerca “Proxima Centauri”. In molti retweet e repost sui diversi social, poi, frasi tipo “Per tutti coloro che hanno detto che il James Webb è inutile!”. Della serie “Voi analfabeti funzionali non capite nulla, non come me che non distinguo una fetta di salame da una stella!”. Insomma, la prossima volta che ti capiterà di considerare il tuo interlocutore ignorante o analfabeta funzionale, assicurati di non essere tu la persona analfabeta cognitiva della discussione. Dal canto suo, Klein ha chiosato la faccenda con un “Quando è l’ora dell’aperitivo, i bias cognitivi si danno alla pazza gioia”, invitando a fare attenzione e a coltivare lo spirito critico. Per poi però aver dovuto chiedere scusa alle moltissime persone che, indignate e soprattutto ferite nell’orgoglio, hanno inveito contro di lui per averle ingannate.

Capitolo 3 (P. Tosi). OGM. Di cosa diavolo stiamo parlando Ok, partiamo dall’acronimo: OGM, ovvero organismo geneticamente modificato. Per lo meno questa è la definizione più diffusa, ma immagino che da qualche parte significhi altro. Tipo “oggi gattini malvagi”. Boh. Con OGM si indicano tutti quegli organismi in cui il materiale genetico è stato alterato/modificato/smarmellato/scozzicato mediante tecniche di ingegneria genetica. Tuttavia, per comprendere cosa sia l’ingegneria genetica occorre fare un rapidissimo passo indietro. Ripassino di Genetica 1, esamone da sei crediti all’Università di Bologna, o se preferite una lettura informale sul blog “tuttomiocugino.org” per l’Università della Vita. Pronti, partenza, via. Il DNA è un filamento a doppia elica, e bisogna immaginarselo proprio come la scala a pioli di nonno Romualdo abbandonata nel capanno degli attrezzi. Ma questa scala è lunghissima, tipo centinaia di chilometri. Nonno Romuà, sei uno sborone. Il fatto è che ci sono scritte tutte le informazioni per costruire preciso-preciso un essere vivente. Queste informazioni sono compilate in un linguaggio complesso, in cui ogni piolo corrisponde a una lettera del codice... Vabbè, mi limito a darvi la versione semplificata della storia, per maggiori approfondimenti guardatevi Siamo fatti così. Vi è mai capitato di guardare vostro nipotino negli occhi e chiedergli: “Bel pampìno, ma come fai a essere così carino e pacioccoso considerato che tuo padre è un gibbone sotto cortisone e tua madre un crotalo del deserto?”. In genere a questo punto il bambino risponde: “Vedi zio, la scala a pioli contenente il codice genetico di mio padre insieme alla scala a pioli di mia madre hanno creato una nuova scala a pioli unica, che mischia pezzi di lui e di lei”. Il mio nipotino mi fa paura. Pertanto, incredibilmente, le parti “migliori” di ognuno hanno creato un nuovo codice, unico e irripetibile. Ho scritto “migliori” tra virgolette perché più che la parte migliore a essere trasmessa è quella dominante, ma questa è materia per l’esame di Genetica 2 e se volete il relativo capitolo mi dovete mandare dieci euro. Tra l’altro “migliore” è un parolone, dato che io sono uscito basso con le gambe storte e col culo piatto mentre i miei hanno le gambe di una gazzella e le chiappe scolpite del Doriforo di Policleto.

Ma torniamo a noi. Lo scambio naturale di pezzi di scale a pioli, ovvero di materiale genetico, avviene in qualsiasi essere vivente che origina un nuovo essere vivente, sia esso un microrganismo, una pianta o un animale. E se vi chiedessi: cosa succederebbe se inventassi delle tecniche in grado di modificare a mio piacimento i pioli di una scala esistente? O anche pezzi interi di scala? O di prendere dei pioli da un organismo per metterli nella scala di un altro? La risposta è che avrei inventato una tecnica di ingegneria genetica e sarei in grado di creare un organismo geneticamente modificato, ovvero un OGM. Sì, anche Spiderman tecnicamente è un OGM – ma no, non è così che funziona la biologia. E poi non capisco perché tutti vogliano i poteri di un ragno quando potrebbero avere quelli di un ippopotamo, che è molto più cazzuto. Ma perché mettere mano a un codice genetico preesistente? Tempo addietro (ma anche oggi) si assisteva a scomposte reazioni dell’opinione pubblica riguardo alle tecniche di alterazione del materiale genetico. I crocifissi prendevano fuoco e i forconi si alzavano all’urlo unanime di “non si gioca a fare Dio”. Tuttavia, gli scienziati sono creature blasfeme e insensibili, votate allo scetticismo, e da sempre sognano di giocherellare con i pioli della scala della vita. E questo per due ragioni: la prima è comprendere come funzionano le cose. È come smontare una macchina pezzo dopo pezzo per poi rimontarla, così da capire il meccanismo di porte, motore e tergicristalli. La seconda ragione è migliorare un codice già esistente. “Seee, e tu vorresti migliorare qualcosa di già così perfetto? Ma chi ti credi di essere?”, urla giustamente Gioacchino Frisella. Ovviamente con “migliorare” intendiamo “adattare a esigenze specifiche per cui gli esseri viventi non sono naturalmente attrezzati”. Lo scopo, come sempre, è migliorare la nostra esistenza. Immaginate di poter cancellare dal pianeta le malattie genetiche. Bello, vero? Oppure di poter coltivare in inverno a Torino papaye e manghi resistenti al freddo. Oppure di ottenere un batterio capace di distruggere la plastica nei mari. O ancora un microrganismo in grado di sintetizzare da sé un farmaco, in modo rapido, economico e senza utilizzo di solventi o catalizzatori chimici dannosi per l’ambiente. Sono tutte prospettive allettanti, immaginifiche e meravigliose (soprattutto le papaye a Torino) che gli scienziati hanno sempre sognato di raggiungere. Creare un organismo geneticamente modificato significa alterare un codice preesistente a vantaggio di qualcuno o qualcosa. Come tutto ciò che è partorito dall’essere umano, anche questo genere di esperimenti può portare a vantaggi rivoluzionari quanto a

casini indicibili. L’importante però è parlarne con cognizione di causa e magari senza dire idiozie. Ovvero, l’importante è non farsi trasportare dall’infodemia. Chi ha paura del cibo? Avete mangiato mai del DNA? Probabilmente pensate di no. Siete degli SCIUOCCHI! Ogni volta che addentate del cibo costituito da cellule state ingerendo anche DNA (e RNA). Parliamo soprattutto di cibo fresco. Un’insalatona? Sì. Una bistecca al sangue? Sì. Una fetta di torta ai mirtilli? Sì, per la barba di Merlino! La pizza sushi e ananas fatta dall’indiano sotto casa? Nonostante sembri una cosa morta e amorale – sì, pure quella. Per non parlare di tutti i microrganismi che ingeriamo semplicemente respirando o leccando il lavandino. Il DNA, come le proteine e i carboidrati complessi, viene continuamente scomposto in pezzi sempre più piccoli dal momento in cui è introdotto in bocca fino a quando arriva all’apparato digerente. I responsabili di questa disaggregazione senza sosta sono semplici enzimi. Alcuni di essi sono appositamente progettati per rompere il DNA in minuscole parti, tipo mattoncini Lego, che possano successivamente essere assorbite nel sangue e quindi trasportate e utilizzate da altre cellule per costruire nuove strutture molecolari nel nostro corpo, incluso lo stesso DNA. Nella storia dell’essere umano non è mai stato osservato che un frammento di DNA ingerito, invece di essere distrutto dalla digestione, si sia integrato alle nostre cellule dandoci nuove capacità o mutando il nostro genoma. Mai. Nemmeno una volta. E io che speravo che mangiando quella banana così virile... Mangiamo ogni giorno miliardi di geni diversi provenienti da un fottìo di specie diverse, quindi la domanda che a questo punto dovremmo farci è: ma che me ne frega a me? Cosa mi importa del materiale genetico che ingerisco se tanto viene sbrindellato dal mio organismo? E perché qualcuno se ne preoccupa, tanto da vantare sull’etichetta “senza OGM”? Il problema qui è la chemofobia, ovvero la paura di ciò che percepiamo come chimico e quindi innaturale. È questo che significa per molti OGM: “non naturale”. Quindi “senza OGM” viene percepito come “naturalissimo”, “buonissimo”, “fa la pelle lucidissima che manco il culetto di un bambino”. It’s marketing, baby. Il concetto di “cibo naturale” è essenzialmente parte dell’infodemia in cui viviamo. Noi divoriamo abitualmente cibi modificati geneticamente ma che non sono considerati giuridicamente “OGM”. Beccatevi tre esempi croccantelli: 1. Le carote non erano arancioni in origine, ma gialle o viola, e sono arrivate in Europa nel Medioevo. Un giorno, a causa di una mutazione genetica avvenuta in un ortaggio per caso che “ha acceso” *plìn!* il gene del beta-carotene e “spento” *zap! * quello del pigmento viola, è comparsa una carota arancione che, da quel momento, ha spopolato in Europa. Un cibo mutato geneticamente per caso, è naturale? 2. Le cipolle Sunions sono state introdotte nel mercato americano nel 2017. Secondo il marchio che le ha sviluppate, ci sono voluti più di trent’anni di incroci di varietà di cipolla per trovare una varietà che non facesse venire le lacrime agli occhi. Un ortaggio ottenuto in trent’anni di incroci forzati dall’essere umano è naturale? 3. Il tritordeum è un cereale ottenuto dalla fusione genetica del grano duro e dell’orzo selvatico. Si trova anche nei negozi biologici ma non è un OGM perché invece di spostare un singolo gene si è deciso di spostare tutto il genoma. La fusione del codice genetico di due specie diverse è naturale? “Geeee, Barbascura, ma quelle sono modifiche genetiche NATURALI”. Lo avete pensato, vero? Porco il polonio... Allora cosa mi dite di questi: L’uva senza semi è stata ottenuta trattando chimicamente il genoma dell’uva e rendendo sterile la pianta. Un cibo mutato geneticamente con un prodotto chimico è naturale? Il pompelmo rosa è stato ottenuto irradiando con radiazioni nucleari i semi di pompelmo giallo in modo da modificare i geni in maniera casuale e ottenere una pianta diversa, imitando ciò che fa la natura in migliaia di anni con l’evoluzione, ma in tempi più brevi. Un frutto ottenuto mutando geneticamente i suoi semi con il cobalto o il cesio radioattivo è naturale? Circa il 10% della produzione italiana di frumento duro è ricavata da una varietà chiamata Creso, una cultivar di frumento duro (Triticum durum). Questa è stata ottenuta negli anni settanta da una variazione genetica indotta dall’uomo irradiando i semi della specie con raggi gamma. Il risultato è stato una pianta più bassa di quella originaria, ciò che ha portato notevoli vantaggi per la raccolta. Un grano ottenuto mutando geneticamente i suoi semi con elementi radioattivi è naturale? Certo che lo è! Noi mangiamo un saccaccio di roba che in etichetta viene definita “naturale” ma che è la versione alimentare di un X-Man. E per una mera questione di marketing tali prodotti sono venduti come “non OGM” nonostante siano modificati geneticamente. Ma perché? Perché quello di OGM è un concetto puramente giuridico, non scientifico. È una minuzia tecnica su cui in tanti marciano. Dal punto di vista giuridico un organismo è “OGM” solo se sono state utilizzate determinate tecniche di ingegneria genetica. Eppure, non dovremmo avere paura di come vengono fatte le modifiche, bensì delle proprietà benefiche o tossiche di ciò che mangiamo. E nonostante sia vietato coltivare OGM sul nostro territorio (la politica insegue il consenso), noi possiamo importare tutto l’OGM che vogliamo dall’estero. Che grande landa di ipocrisia, la nostra. Secondo l’Assalzoo, l’Associazione Nazionale tra i Produttori di Alimenti Zootecnici, che riunisce i produttori di mangimi in Italia, quasi il 90% dei mangimi per allevamenti in Italia è generato con OGM. Insomma, probabilmente mangiate animali che se ne nutrono tutti i giorni. Parliamo di mais, soia, colza. Ne importiamo milioni di tonnellate ogni anno per nutrire gli animaletti che poi facciamo alla brace. Non è un’assurdità giuridica disquisire sugli OGM quando comunque ti finiscono in tavola in ogni modo possibile e immaginabile senza che a nessuno sia mai cresciuto un terzo braccio? Capisco che da cittadini prendere coscienza di queste informazioni non sia facile. Respirate. Prendetevi una bistecca. E questo senza considerare i prodotti confezionati. Sentite anche voi puzza di infodemia? Con quel leggero retrogusto di ipocrisia non fa mai male.

Campioni del mondo! Se avete bisogno di un paese che sia una fucina di storie contro gli OGM non bisogna andare lontano. Noi in Italia ci mettiamo proprio di impegno. Uno studio del 2017 ha valutato oltre settecento articoli scientifici in tutto il mondo sugli OGM, identificandone solo trentacinque che esprimevano qualche preoccupazione sul tema. Da dove vengono quasi la metà di questi studi anti-OGM? Ma dall’Italia, ovviamente (e apparsi su riviste scientifiche poco prestigiose). Pòòò popòpopopòòò pòòò! Campioni del mondo! I laboratori che hanno prodotto questi studi sono quello di Federico Infascelli (docente del dipartimento di Veterinaria dell’Università Federico II di Napoli) e di Manuela Malatesta (professoressa associata dell’Università degli Studi di Verona). Al primo sono state ritirate diverse pubblicazioni dopo che la senatrice Elena Cattaneo ha scoperto che per avallare le proprie tesi aveva proposto risultati sperimentali di fatto inesistenti. Risultati inventati poi confermati dalla Federico II stessa. La seconda fu coautrice di uno studio sulla tossicità del mais OGM poi ritrattato dalla rivista che l’aveva pubblicato. Non solo quindi gli studi che parlano di pericolosità OGM sono meno del 5% del campione considerato, ma la maggior parte viene dall’Italia e sono anche scritti a cazzo di cane. E se in ambito scientifico questo è ciò che accade, cosa mai potrebbe succedere in televisione o nei supermercati? Nella trasmissione Report di Rai3 del 24 settembre 1998 un certo Giuseppe Altieri afferma: “Si è prodotta, per esempio, una fragola che è stata resa resistente al gelo inserendo dei geni di pesci che vivevano in zone fredde. Questa fragola ha cominciato a produrre un prodotto secondario che era il glicoletilenico, il comune liquido antigelo dei radiatori. Quindi sono diventate immangiabili”. La fragola-pesce al retrogusto di antigelo, siore e siori. Quasi dieci anni più tardi, durante la trasmissione Uno Mattina Estate del 30 luglio 2007, un certo Mario Capanna, presidente della Fondazione Diritti Genetici, citò come caso classico la stessa fragola “cui viene immesso il gene di un pesce artico” per renderla resistente al freddo, affermando anche che da tale sperimentazione “viene fuori una fragola che poco ha da spartire con il sapore di quella naturale”. Pare che Luca Giurato rispose di aver assaggiato tale fragola ammettendo che avesse un sapore strano. Una nota pubblicità della Coop degli anni 2000 mostrava l’immagine di una fragola tagliata in due con all’interno una lisca di pesce... No, non sto scherzando. È tutto vero! La pubblicità aggiungeva la frase d’effetto “Vogliamo vederci chiaro”. Che grandi quelli della Coop. D’altronde la storia della fragola-pesce era ormai troppo diffusa per non cavalcarla e fu l’occasione per sottolineare la loro irreprensibile morale e l’attenzione per il benessere del consumatore. Ci volevano vedere chiaro. Perché loro non avrebbero messo sui loro banconi certe atrocità amorali come le fragole-pesce! Loro non si sarebbero prestati a queste aberrazioni genetiche. Loro non si sarebbero resi complici della vendita di un alimento tanto infame. E poi, diciamocelo, che schifo è una fragola che sa di pesce ma pure di antigelo? A ’sto punto beviti un secchio di ammoniaca e fai prima... Peccato che la fragola-pesce non sia mai esistita! Nessuno l’ha mai studiata, né l’ha mai creata, e sicuramente l’ha mai assaggiata. Luca Giurà, ma che t’hanno dato da mangiare? Cambia ristorante, che questi so’ pazzi! Ma la fishberry è ormai leggenda urbana, assieme all’alligatore nelle fogne e alla cervicale. E va benissimo così. Quando dire baggianate è un'arte. Non bisogna dimenticare che l’infodemia non è un fenomeno circoscritto alla nostra penisola e che il divario di convinzioni tra scienziati e pubblico sugli OGM è incredibilmente ampio ovunque. Secondo un sondaggio del Pew Research Center nel gennaio 2015, in quell’anno l’88% degli scienziati americani riteneva gli OGM “generalmente sicuri”; una percentuale maggiore di quella degli scienziati che all’epoca consideravano il riscaldamento globale una conseguenza dell’attività umana (87%) – fatto ormai assolutamente certo. E i cittadini? Solo un americano su tre considerava gli OGM sicuri. E pensare che negli Stati Uniti ne mangiano a palate! Se da una parte le cause di questo scetticismo sono chiare grazie agli esempi italiani che vi ho elencato, cosa troviamo oltreoceano? Lì magari non ci sarà Uno Mattina, ma chi partecipa al caos dell’infodemia sugli OGM? Personaggi famosi, associazioni, aziende... e chi più ne ha più ne metta! C’è ad esempio Gwyneth Paltrow, attrice e imprenditrice (che tra le altre cose ha commercializzato una candela al “profumo di vagina” – che poi è il profumo che più si avvicina alla fragola-pesce a mio parere). Alla visionaria Paltrow fu dato spazio a Capitol Hill (Washington, D.C.) per dire pubblicamente quanto secondo lei fosse importante etichettare i brand come “non OGM”, giacché la scienza “è stata inconcludente a riguardo”. C’è da dire che ha iniziato il suo discorso mettendo le mani avanti con un “I’m not here as an expert. I’m here as a mother, an American mother” [Non sono qui come esperta. Sono qui come madre, una madre americana, N.d.R.]. Be’, già che c’erano potevano chiederle cosa ne pensasse della teoria delle stringhe. Poi ci sono i gruppi di attivisti, tipo l’Environmental Working Group, considerato un vero fabbricante di fobie sul cibo, capace di creare liste a caso e notizie sensazionalistiche sui pesticidi, gli OGM o il cibo naturale. Tra le loro pubblicazioni più famose c’è l’annuale “Dirty dozens”, la lista dei dodici alimenti con più pesticidi prodotti negli Stati Uniti ogni anno. Peccato che quando classificano gli alimenti non menzionano che i livelli rilevati sono da mille a trentamila volte inferiori ai limiti di sicurezza dell’EPA (Environmental Protection Agency) e così minimi da non avere alcun effetto biologico. Il fatto che l’associazione guadagni circa 15 milioni di dollari annui in donazioni e il suo presidente circa trecentomila mi fa venire il leggerissimo sospetto che non facciano disinformazione per salvare il pianeta. E come non citare il Non-GMO Project, letteralmente “Progetto non-OGM”, organizzazione non profit che secondo quanto racconta al pubblico ha la missione di educare il consumatore e permettergli scelte consapevoli? Sicuri? Non è che grazie al loro piccolo logo con la farfalla apposto su più di sessantamila prodotti negli USA l’obiettivo sia quello di creare un business basato sulla paura della gente? Il fatto che i fondatori del Non-GMO Project siano un gruppo di negozi alimentari di cibi biologici mi ha messo un leggerissimissimo dubbio. Il dubbio mi si è acceso un po’ di più quando ho visto che appongono il simbolo a farfalla con la dicitura non-OGM anche sul sale da cucina. Sul sale. Da cucina. Ma por** di quella pé*§è*AG chitemmuor******* ma non è possibile merd**agkap. Perdonate, m’è partito il Dodò.

Il sale... non OGM... Scusate, ma come si modifica geneticamente qualcosa che non contiene materiale genetico? È sale, porco cane. Dire le baggianate è un’arte, soprattutto per chi, grazie all’infodemia, ha qualcosa da guadagnarci. La minaccia della biodiversità. La grande diversità nelle sequenze geniche del nostro pianeta è alla base dell’ampia varietà di piante e animali che conosciamo. La diversità genetica è fondamentale per l’adattamento a nuovi ambienti, poiché una maggiore variazione nei geni fa sì che più individui di una popolazione abbiano tratti favorevoli alla sopravvivenza in condizioni difficili. Prendete la patata irlandese dell’Ottocento. A metà dell’Ottocento, in Irlanda le patate costituivano una base portante dell’alimentazione. I tuberi prodotti non venivano coltivati a partire dai semi, bensì da sezioni di patate preesistenti piantate nel terreno. Pertanto, tutte le patate sul territorio avevano lo stesso codice genetico: erano cloni di una patata. La patata madre. Vorrei farci una battuta ma temo non serva. Quando un agente patogeno invasivo bastardello infame, il Phytophthora infestans, arrivò in Irlanda nel 1845 fu una catastrofe che causò la perdita di un terzo della produzione annuale del paese. Se si fossero tenute varietà di colture di patate con una maggiore diversità genetica, sarebbe stato più probabile averne una con geni in grado di resistere all’agente patogeno. Ebbene, una paura comune sugli OGM nell’ambito della biodiversità è proprio la riduzione di una varietà di specie esistenti, riduzione dovuta al fatto che se una specie porta degli enormi vantaggi rispetto alle altre, sarà la sola (o quasi) a essere coltivata o allevata. Ma ora vi faccio una domanda: quanti tipi diversi di patate mangiate? Ve lo dico io, meno di dieci. Ma come? Ma se esistono più di quattromila tipi di patate sul pianeta, perché ne mangiamo così poche tipologie? Semplicemente perché l’essere umano, dal primo giorno che ha scoperto l’agricoltura, cerca di selezionare le specie che gli sono più convenienti per colore, sapore, odore, dimensione, facilità di coltivazione, eccetera. Coltivare specie OGM rientrerebbe esattamente in quella metodica selettiva che l’essere umano cerca da sempre di perseguire a suo vantaggio. Una nuova cipolla che non fa piangere non sostituirà l’uso delle cipolle esistenti, così come una patata color verde non sostituirà le altre patate sul mercato. Sono i consumatori e i produttori che orienteranno la produzione e gli OGM non potrebbero far altro che aumentare la scala delle opportunità per un pianeta la cui popolazione cresce ogni anno dell’1%. Tuttavia, c’è un secondo timore, ben più giustificato, riguardo gli OGM e la riduzione della biodiversità. Quello che una specie OGM, più “forte nel riprodursi” rispetto alle altre presenti in natura, prenda il sopravvento. È questo il timore che si aveva sul salmone AquAdvantage, un salmone atlantico geneticamente modificato da AquaBounty Technologies. AquaBounty ha introdotto due sequenze di DNA in questi salmoni. La prima codifica un ormone della crescita dalla specie Chinook e la seconda attiva l’ormone della crescita tutto l’anno e non solo nella stagione calda. La combinazione di queste due sequenze di DNA consente a questi pesci di svilupparsi a un ritmo notevolmente aumentato. Cosa succederebbe se gli AquAdvantage scappassero dagli allevamenti e finissero in natura per accoppiarsi come una bestia infoiata? Potrebbe essere oggettivamente un bel problema. Pertanto, per impedire la propagazione del salmone OGM in natura, AquaBounty utilizza metodi di contenimento sia fisici che biologici. I salmoni di AquaBounty sono tutti femmine, cresciuti in vasche a terra, e sono sterili a causa dell’aumento del numero di cromosomi. A oggi, il salmone AquAdvantage è uno dei soli tre animali OGM approvati per il consumo umano dalla FDA (Food and Drug Administration). Ci vogliono anni di controlli e studi, ma – come dicevo – piante e animali OGM comportano vantaggi rivoluzionari e rischi da calcolare. Ma perché rinunciare alle opportunità? Perdere occasioni a causa dell'infodemia. L’infodemia non fa altro che demonizzare gli OGM agli occhi del grande pubblico, invece di presentarli come un’opportunità per gli esseri umani. Perché rinunciare alle mele Gala sviluppate dal professor Sansavini di Bologna, capaci di resistere al fungo Venturia inaequalis e che avrebbero limitato enormemente l’uso di pesticidi (tra l’altro non uccidendo milioni di insetti e conservandone la loro biodiversità)? Perché rinunciare al golden rice (prodotto e distribuito unicamente in Bangladesh a causa dello scetticismo verso i possibili benefici dell’ingegneria genetica), quando si tratta semplicemente di una varietà capace di immagazzinare più vitamina A rispetto al riso comune? Perché costringere gli astronauti nello spazio a rinunciare a una lattuga che contrasta l’osteoporosi? Perché rinunciare alle papaye coltivate a Torino a dicembre? Se ci fosse un perché, sarebbe giusto parlarne, calibrarne i rischi, presentarne i vantaggi e infine giuridicamente fare una scelta. Ma l’infodemia è capace di annientare un’opportunità in maniera estremamente efficace. Come lo sono gli OGM per il nostro pianeta. Che schifo la chimica. “La parola nanostrutturato non mi piace per niente. Non voglio nulla che modifichi la mia pelle per renderla idrorepellente. Spero che quella robaccia vada via dalla mano una volta lavata con il sapone. Questo video mi sa di transumano e lo trovo repellente. L’ho commentato solo per farvelo notare, proprio perché queste cose iniziano a essere contro la natura e l’essere umano in senso profondo. Rifletteteci sopra invece di dormire!!”. Questo è uno dei commenti che ho ricevuto in risposta a un mio breve video sull’aerogel (lo trovate su YouTube) e lo userò per parlarvi di chemofobia, che come abbiamo detto è la paura atavica di ciò che è “chimico”, sinonimo per molti di “poco naturale”. Ma porco cane... siamo circondati dalla chimica! Stai respirando sostanze chimiche, le tue chiappe sono sedute su sostanze chimiche, i tuoi vestiti sono fatti di sostanze chimiche e, indovina indovinello, il tuo corpo è fatto di sostanze chimiche! Nel video in questione mi spalmavo sulle mani della polvere di aerogel, il solido meno denso conosciuto, che, grazie al suo essere un materiale nanostrutturato costituito quasi interamente di gas, è stato in grado di rendere la mia pelle idrorepellente. Mettevo le mani sotto il rubinetto e l’acqua schizzava in tutte le direzioni senza bagnarle. Sono persino riuscito a fare una coppetta con la mano e a raccogliere l’acqua come fossi una tazza vivente. Ero il supereroe col potere della superidrofobicità. Un supereroe inutile e con un potere assolutamente momentaneo, tanto che è bastato sfregarmi con forza sotto l’acqua aiutandomi con del sapone per far tornare le mie mani banalmente normali. In molti però hanno sentito la parola “nano” e hanno visualizzato scenari postapocalittici “contro natura”. Per fortuna qualcuno ha notato il risvolto ironico della cosa.

Abbiamo un problema con il concetto di “naturale”, indotto ovviamente da anni di bufale e una buona dose di marketing. Basti pensare che negli Stati Uniti è comune trovare etichette alimentari che riportano la scritta chemical free, ovvero “privo di sostanze chimiche”... Scusa, in che senso? Che mi stai vendendo, il vuoto cosmico? No, perché manco il vuoto cosmico è privo di “sostanze chimiche”, signora mia. Però il consumatore lo legge, ne apprezza il concetto metafisico e lo compra. Percepisce quel prodotto come “più naturale”, o “più sano”. E così daje di “100% naturale” pure per le zollette di zucchero. C’è gente che compra l’acqua in bottiglie di plastica perché “più naturale” nonostante viva in comuni italiani dove l’acqua del rubinetto è buonissima e potabile, finendo così per ingerire tanta di quella microplastica che quando caga escono carte di credito. Qua l’unica cosa contro natura è il cellofan sul cuscino della sedia di mia zia che so’ passati vent’anni ma sta ancora là, porco cane. Immaginate di leggere la lista degli ingredienti chimici della frutta. Quanti smetterebbero di mangiarla?

Il glutammato della discordia. Quante ne sono state dette sul glutammato, specialmente tra gli anni settanta e novanta. Pessima reputazione per questa molecola che, secondo i consumatori, è mostruosa, nociva e amorale. Il glutammato monosodico fu associato addirittura a una presunta malattia, la sindrome del ristorante cinese. Tu andavi al ristorante cinese, ti abboffavi come un cestino della monnezza e, tornando a casa, ti venivano palpitazioni, intorpidimento degli arti e debolezza. A quel punto la diagnosi era palese: il glutammato aveva colpito. Il glutammato. Non il fatto che ti fossi ingollato tre gelati fritti, dodici involtini primavera, sessantadue ravioli alla piastra, tre chili di spaghetti di soia, le posate, il tovagliolo e il posacenere, oliando il tutto con un litrozzo di birra di riso calda. No. Era il glutammato il colpevole. Una molecola abbondantemente utilizzata nella cucina cinese. Il primissimo giornale a parlare del glutammato e dei suoi rischi fu il “New England Journal of Medicine” (NEJM), rivista di rilievo nell’ambito medico. E se ne parla il NEJM dev’essere vero, no? È pur sempre una rivista scientifica... E se vi dicessi che l’articolo, inviato sotto forma di lettera di allerta, è nato per uno scherzo? Era una burla! Era il 1968 e Howard Steel, chirurgo ortopedico di 26 anni, scommise 10 dollari con il suo amico Bill Hanson. Quest’ultimo era convinto che i chirurghi ortopedici fossero troppo stupidi per pubblicare sul NEJM. “Scommettiamo”, rispose Steel. Così, dopo una cena in un ristorante cinese fu colto da ispirazione e trascrisse tutti i sintomi da abbuffata, includendoli in una lettera al NEJM in cui chiedeva alla comunità scientifica di indagare sul glutammato, elemento presente in moltissimi alimenti (dai pomodori ai formaggi). Si firmò Robert Ho Man Kwok, che può essere letto come Robert Human Cock, ovvero Roberto Pene Umano. Questo sì che sarebbe un supereroe incredibile. Robert Ho Man Kwok era, secondo la lettera, un fantomatico ricercatore della National Biomedical Research Foundation. Qualcuno controllò la sua identità? Certo che no! Metti in un calderone un po’ di pregiudizio verso il cibo cinese, una serie di mitomani assetati di fama, qualche scienziato onesto ma bisognoso di pubblicare qualcosa à la page, test clinici non troppo rigorosi e una spolverata di “bufala su scala mondiale” e il piatto è pronto. Bello fumante come piace a noi. Il primo a cadere nel tranello fu Robert Byck della Yale Medical School, che registrò i sintomi del glutammato quando ingerito o sparato in vena. Nel 1969 i suoi risultati furono pubblicati nientepopodimeno che su una fra le riviste più prestigiose del pianeta, “Science”, la quale non contenta diede in seguito spazio anche ad altri studi sul tema. Scoppiò un vero e proprio caso politico. Il rappresentante di un’associazione di consumatori chiese al Congresso statunitense di bandire il glutammato dalle tavole dei bambini e intanto il dibattito infuriava nei talk show televisivi. Nel 1999 nel libro In Bad Taste George Schwartz incolpava il glutammato di ogni crimine: malattie cardiache, epilessia, asma e depressione.

Come spesso accade per le bufale, anche in questo caso si verificò l’effetto palla di neve: all’inizio era un pugno di neve lanciato per scherzo da un tizio che si chiamava Pene, ma a furia di rotolare aveva assunto le dimensioni di una valanga. Dovemmo aspettare gli anni duemila per vedere finalmente sbugiardata questa storia da Matthew Freeman dell’“Ohio Health”, il quale dimostrò che non c’era nessuna correlazione tra glutammato e sintomi sanitari vari. O meglio, per avere degli effetti collaterali avremmo dovuto mangiare enormi quantità di glutammato a stomaco vuoto o iniettarcelo endovena ad alte concentrazioni: non la situazione abituale, diciamo. Ma le bufale sono dure a morire. Ancora oggi si stima che più del 40% della popolazione se può lo evita. Pensate che colpo quando nel 2018, dopo cinquant’anni da quella lettera, Howard Steel scrisse un’e-mail alla professoressa Jennifer LeMesurier – autrice di un saggio del 2017 in cui affermava che questa sindrome fosse solo un pretesto razzista – allegando un vocale che iniziava con “Ho una sorpresa per te: sono il dottor Ho Man Kwok”. C'è uno (pseudo)scienziato in sala? – Salve professore. Sono Johann Steiner, il padre di Rudolf. – Ah... – Mi sa dire qualcosa su mio figlio? – Be’, certamente. Non saprei però da dove iniziare... Suo figlio racconta molte storie. – Eh sì, è un genietto, un vero talento! Ha una grande fantasia! – Certo, ma il problema è quando la fantasia viene confusa con la realtà. – Cosa vuole dire? – Vede, suo figlio è convinto di avere capacità chiaroveggenti. È assolutamente certo di poter osservare il mondo dello spirito. – Tutto qui? Anche io credo nei fantasmi, comunque. Fino a prova contraria... – È anche convinto di comprendere la causa delle malattie delle persone. Ha diagnosticato un cancro al pancreas a Timmy O’Tool quando aveva solo un po’ di raffreddore. – Sono giovani... – Crede che le persone di colore siano impossibili da civilizzare. – Una posizione condivisa da molti. – È convinto che la razza ariana sia originata dal continente perduto di Atlantide. – Potrebbe anche essere! – E che i pianeti orbitanti attorno al Sole abbiano influenzato la generazione di altre etnie. – In che senso? – Tipo, dice che Marte abbia permesso la creazione della razza slava e Giove di quella europea. Inoltre, è convinto che una condotta amorale durante la vita porti a una reincarnazione in una razza inferiore. – Questo mi sembra strano, in effetti... – Ha anche creato un sistema per cui l’uomo è formato da sette principi costitutivi, tra cui il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale e altri ancora. – Credevo fossero otto! – È convinto che Gesù Cristo non sia uno solo, ma che ne siano nati due a distanza di qualche mese. – Sicuro non si riferisca ai Daft Punk? – Ha inoltre convinto il giardiniere del nostro istituto a catturare un giovane topo, spellarlo per recuperarne la pelle, bruciarla quando Venere è nello Scorpione, raccoglierne le ceneri e spargerle nel campo per renderlo più fertile. – E ha funzionato?

– Ho altri fascicoli su tutte le minchiate che ha sparato da quando è nel nostro istituto. – Ma è un ragazzo... sta facendo i suoi errori. – Signor Steiner, Rudolf ha 30 anni. – ... Se vi state chiedendo se ciò che avete letto finora è il frutto di un caffè corretto di troppo, la risposta è no. O meglio, la conversazione sì, l’ho inventata io, ma mi sono basato interamente sulle perle regalateci da Rudolf Steiner nel corso della sua “carriera”. Ciò dovrebbe darvi un’idea della caratura del personaggio. Il vecchio Rudolf morì nel 1925 a 64 anni, ma l’anno precedente decise di tenere una decina di conferenze sull’agricoltura dal titolo Impulsi scientifico-spirituali per il progresso dell’agricoltura. Aveva titoli per parlare di agricoltura? No, ma sticazzi. Da quel corso ebbe origine la famigerata agricoltura biodinamica, tecnica agricola basata su pratiche esoteriche. Seguendo cicli lunari e planetari, secondo Rudolf era possibile migliorare i raccolti e la qualità del cibo, più in equilibrio con l’ecosistema terrestre. Il trucco per avvicinare i più scettici all’agricoltura biodinamica fu quello di mischiare pratiche scientificamente valide, come la rotazione delle colture, a pratiche prive di senso, tra cui programmare gli interventi sul campo del raccolto in base alle fasi lunari o bruciare pelle di topi e spargerne le ceneri per favorire la vitalità dei campi. Oppure, il mio preferito: utilizzare il preparato 500, detto anche cornoletame. Si tratta di un composto ottenuto da letame di vacca infilato all’interno di un corno sempre di vacca che abbia partorito almeno una volta. Il corno va successivamente sotterrato e lasciato fermentare durante l’inverno, per poi essere recuperato nei giorni di Pasqua. Questo perché, e cito: “La vacca ha le corna al fine di inviare dentro di sé le forze formative eterico-astrali, che, premendo verso l’interno, hanno lo scopo di penetrare direttamente nell’organo digestivo. Proprio attraverso la radiazione che proviene da corna e zoccoli si sviluppa molto lavoro all’interno dell’organo digestivo stesso. [...] Così nelle corna abbiamo qualcosa di ben adattato, per sua natura, a irradiare le proprietà vitali e astrali nella vita interiore. Nel corno avete qualcosa che irradia vita – anzi irradia anche astralità”. E poi c’era la marmotta che confezionava la cioccolata... Una stronzata incredibile quindi, ed è forse per questo che è riuscita ad arrivare nel Parlamento italiano. Yeeee. Il 20 maggio 2021 il Parlamento italiano aveva approvato quasi all’unanimità un disegno di legge che equiparava l’agricoltura biodinamica a quella biologica. Centonovantacinque a favore, uno contrario e un astenuto. Il voto contrario era della povera senatrice Elena Cattaneo, biologa e farmacologa, che me la immagino lì in aula a guardarsi intorno sconvolta cercando di trattenere le lacrime. Diversi scienziati firmarono in seguito una lettera aperta al Parlamento, cercando di far ragionare gli autori di questa tragicommedia. Nella lettera si leggeva: “L’agricoltura biodinamica usa parti di animali (quali teschi, pelli di topo, corna di vacca o vesciche urinarie di corvo) nelle quali infilare cortecce, fiori e letame, da sotterrare ed eventualmente dissotterrare dopo qualche tempo: a fondamento questa evoca forze cosmiche come motrici di qualunque azione terrena [...]. Può il paese di Galileo Galilei sostenere economicamente pratiche magiche peraltro facenti capo a un marchio registrato all’estero?” (il marchio appartiene a una multinazionale tedesca). Fortunatamente nel 2022 questo DDL è stato “rivisto”, anche se nell’attuale DDL rimangono ancora alcuni punti da correggere per cancellare ogni riferimento a pratiche magiche e stregonesche. Ci sarebbe da piangere, ma rido.

Capitolo 4 (P. Tosi). I vaccini Nel Settecento l’Inghilterra e il Nord America furono colpiti da una terribile piaga nota come vaiolo, che stava provocando svariati contrattempi al quieto vivere del genere umano. Contrattempi come la morte, per dire. Di quelli che si ammalavano uno su sei schiattava male, il che non è bello. Immaginatevi una roulette russa, ma peggio, con quarantamila morti all’anno nella sola Inghilterra. Era una guerra, solo che l’avversario era molto piccolo e non aveva i baffetti. A quel punto qualcuno decise che era necessario ricorrere a una bella inoculazione di massa. La prima volta non fu facile comunicare l’iniziativa alla popolazione: “Aspe’, in che senso inoculazione? Guardi che io sono una persona di vecchio stampo. E poi chi lo spiega a mia moglie che mi sono fatto inoculare. E poi c’avrei bisogno almeno di instaurare un legame con l’altra persona, sa com’è. Una cena fuori, qualche messaggino romantico. Potrei capire se fosse un’inoculazione intima, fatta in modo personale, magari con un pizzico di dolcezza, ma un’inoculazione di massa non mi pare il caso. Lo so già che qua finisce a trenino, e che sicuro io mi trovo in testa”. I dubbi vennero chiariti, lasciando però spazio a quella che ormai era diventata una certa curiosità inesplorata. Non esistevano ancora i vaccini come li intendiamo noi, ma si praticava la cosiddetta “variolizzazione”, ovvero, per immunizzarti il medico ti sparava nel naso o sottopelle del pus prelevato da croste di vaiolo di pazienti infetti... Pustole, pus e altri magici amici, in un’esplosione di scioglievolezza. Adesso scommetto che non ti fanno più tanto schifo i vaccini moderni, vero zio? Ma come gli sarà venuta in mente un’idea tanto astrusa? Questa pratica schifosa aveva origini antiche ed esotiche per i popoli occidentali. Già sviluppata nei paesi asiatici come l’India e la Cina attorno all’anno 1000, si era basata su indicazioni ancora più antiche, riportate in Le leggi di Manu (un dharmaśāstra, ovvero uno dei trattati indù). Insomma, una pratica che poteva apparire basata sulla scaramanzia, più che sulla scienza. Il problema è che funzionava. Più o meno. D’altronde già popoli antichissimi, come i greci, avevano osservato che effettivamente le persone che si ammalavano di vaiolo si riammalavano più difficilmente, specialmente in forma grave. Evidentemente questa cosa era piaciuta così tanto che l’avevano addirittura inserita in un testo sacro. Quindi sì, la cura era del materiale infetto proveniente dalle pustole di una persona affetta da vaiolo (che però aveva una malattia in forma lieve, o in corso di guarigione). Te lo sparavano sottopelle, oppure nel naso, e a quel punto in genere ottenevano l’immunità alle forme gravi della malattia.

Le dirò, comare mia. Secondo alcuni storici inglesi la pratica venne portata per la prima volta in Europa attorno agli inizi del Settecento da Lady Mary Wortley Montagu, una famosa scrittrice sposata con un ambasciatore britannico in terra turca. Conobbe la pratica proprio mentre era a Istanbul, durante i suoi colloqui con alcune donne turche. Scoprì che le madri del posto avevano la buona usanza di inoculare il vaiolo a se stesse e ai propri figli e che, dopo un decorso della malattia in forma lieve, voilà, loro e i pargoli risultavano immunizzati. Lady Montagu aiutò a divulgare e diffondere questa pratica in Inghilterra con un gesto eclatante: la sperimentò subito sui propri figli. Come scrisse in una lettera: “Sono così patriottica da prendermi la briga di lanciare in Inghilterra la moda di questa utile trovata”. Ed effettivamente da quel momento la pratica iniziò a diffondersi, anche se con qualche remora. Ad alcuni ’sta pratica proprio non piaceva. E ci credo, tanti sono gli utilizzi del pus altrui che posso immaginare, ma nessuno di questi implica che me lo sparino sottopelle. All’epoca non ci sarà stato internet, ma qualche eroe della verità cercò comunque di opporsi alla cosa. Chi? Tra i più eminenti spiccò il reverendo Edmund Massey, un sant’uomo che viene ancora ricordato con lode per il suo sermone dal titolo La pratica pericolosa e peccaminosa dell’inoculazione. Reverè, mi viene il dubbio che anche lei abbia frainteso. Inoculazione. Ci sta la “o”, per piacere non facciamo confusione! Il reverendo, come un Batman d’altri tempi, di nero vestito e con gonnella svolazzante, si ergeva dal pulpito urlando le sue dure parole che picchiavano il crimine e, talvolta, pure gonadi innocenti. E che aveva scritto in ’sto sermone? Che le malattie sono inviate da Dio per punire i peccatori e che quindi cercare di prevenire il vaiolo con l’inoculazione era “un’operazione diabolica”... No, aspe’, scusa? Cioè, hai capito? Analizziamola insieme ’sta perla. Il Signore Iddio con il camice, tipo piccolo biologo pazzo, si è messo a inventare malattie brutte con lo scopo di ammazzarti male. Ma questo va bene, perché Dio ti ama. E quindi se tu, povero stronzo, provi a immunizzarti, non solo sei, per l’appunto, stronzo nel rovinare cotanta opera d’amore e di zelo, ma sei pure amico dello dimonio... “... un atto di ribellione per strappare dalle mani di Dio il suo stesso lavoro”. La malattia era un’ottima occasione per pentirsi dei propri peccati. Ma così si rovina tutto il giochino!

Sì. Se non ti fai ammazzare da Dio sei brutto e cattivo, e facevano bene a scuola a darti le buffe sullo zuccotto. Ricapitolando: Dio vuole ammazzarti = buono, Satana crea le cure = cattivo. Facile, chiaro, efficace. Pensa te, qua mi si ribalta tutta la situazione! Ma vedi se mo’ devo ringraziare Satana per l’otturazione ai denti. Grazie, Satana, per l’antitetanica, i cerotti, gli anestetici, le protesi, i trapianti, le trasfusioni e soprattutto grazie per i guanti da forno! E quindi sì, grazione, Satana, per i vaccini moderni, che io le croste virulente degli altri non le voglio nemmeno vedere, figurati farmele sparare nel naso. Anche se son sicuro che sulla pizza qualcuno apprezzerebbe. Specialmente in Nord America. Pizza Croccantella, presto nei vostri incubi. Capiamoci, la variolizzazione era assolutamente una pratica poco invitante. Già le condizioni igieniche dell’epoca non erano il massimo, se poi parliamo di farsi sparare del pus nel corpo... be’, lasciatemi morire, piuttosto! Senza considerare i rischi associati alla pratica, che non erano nulli: l’1-3% delle volte si finiva per ammalarsi di vaiolo in forma grave e morire. Le variabili in gioco erano tante e facevano tutte rima con pus. Ciononostante, fu immediatamente chiaro a tutti l’effetto protettivo di questa primitiva vaccinazione antivaiolosa, soprattutto quando fu fatto il confronto della mortalità da vaiolo fra chi si era sottoposto alla pratica e chi l’aveva rifiutata. All’epoca rifiutare questa profilassi aveva una ragione di fondo principalmente umanistico-religiosa, ma non solo. Come sempre la questione è ben più complicata di quanto appaia. Alcuni detrattori della pratica erano anche medici. La variolizzazione era qualcosa di estremamente estraneo alla cultura medica di quel tempo. Proveniente dal lontano Oriente, una regione del globo distante geograficamente e culturalmente, e per di più una pratica non studiata a sufficienza. Ok, i risultati empirici parlavano chiaro – la gente nella maggior parte dei casi si immunizzava – ma a qualcuno non bastava. Fa ridere, perché questi medici (giustamente preoccupati) consideravano ignoranti sia quelli che non si facevano vaccinare per motivi religiosi, sia quelli che si facevano vaccinare perché creduloni. Mai ’na gioia. Qualcuno pensi ai bambini! Ma la nascita della vaccinazione vera e propria come la conosciamo oggi risale alla fine del Settecento grazie alle osservazioni del medico di campagna britannico Edward Jenner. In quegli anni era risaputo che alcuni contadini risultavano immuni al vaiolo umano (smallpox) e il motivo poteva essere attribuito al fatto che durante la mungitura delle vacche si infettavano con la variante bovina (cowpox), molto meno nociva di quella umana. Insomma, si infettavano della variante più debole e poi risultavano protetti da quella brutta brutta brutta. E quindi il buon dottor Jenner deve aver pensato: “mmm, chissà che succede se piglio un po’ di schifo-madò che esce da una pustola di vaiolo bovino e lo inietto in una persona sana”. Non fa una piega. Alla fine lo chiamiamo tutt’oggi “vaccino” proprio per questa trovata interspecie. Però, porca vaccazza, Edward, basta con ’sto pus, per piacere. Stavo per cenare e ora mi ritrovo a rimirare un mix di colazione e pranzo sul tappeto. Nel 1796 Jenner prelevò del materiale organico dalla pustola di una donna infetta dalla variante bovina e lo iniettò a James Phipps, un bambino di 8 anni (9 secondo altre fonti), scelto come cavia. L’esperimento serviva a dimostrare che la vaccinazione si poteva effettuare non solo con vaiolo bovino prelevato da vacche, ma anche con vaiolo bovino prelevato da un altro essere umano. Insomma, un passaggio umano-umano. Comunque, sì, un bambino di 8 anni. Questa sì che è etica professionale. Ma prima di giudicare il buon Jenner tenete presente che in realtà i suoi piani erano diversi. Inizialmente voleva sfruttare “l’occasione” offerta dal fatto che la moglie Catherine fosse incinta per provare a inoculare il vaccino direttamente su suo figlio neonato... Io ora capisco tutto, dottor Jenner, però per quanto uno confidi nelle proprie scoperte lei non ci sta bene con la testa. Il progetto eticamente sbilenco di usare il suo stesso figlio in fasce come cavia fallì miseramente perché MALAUGURATAMENTE non si verificarono casi di vaiolo bovino in quei mesi. Mannaggia. Immagino la disperazione. Ma tranquilli, era così tanta la voglia di ficcare roba virulenta nel corpo del pargolo che il dottore decise comunque di sottoporlo alla vaccinazione “classica”, usando la tecnica più in voga... pus di pazienti affetti da forme leggere di vaiolo umano. Jenner, da parte di tuo figlio: kitemmùrt. Il figlio sopravvisse al padre, ma Jenner si disse molto deluso dai risultati della vaccinazione. Jenner, da parte di tuo figlio: kitestramùrt. Ovviamente si scherza, il vero obiettivo di Edward era semplicemente garantire al suo adorato primogenito l’immunità verso una malattia che in quegli anni faceva stragi. Tale era la paura che il vaiolo incuteva nei medici. Ad ogni modo, quando finalmente gli capitò l’occasione di rimettere le mani sul gustoso pus di vacca, suo figlio era già stato immunizzato, quindi dovette accontentarsi di ricorrere a un’altra cavia, il giovane James di 8 anni. Ricapitolando, Edward prese materiale organico dalla pustola di una donna affetta da vaiolo bovino e la inoculò al fanciullo, dimostrando che il trasferimento umanoumano era possibile. Quando, a distanza di pochi mesi, provò a inoculargli la variante umana (quella brutta brutta), James non si ammalò. Tutti erano felici. Fu festa e giubilo scomposto. Anche James era felice, perché vuliss a’ Maronn magari la smettevano di inoculargli roba. Il vaiolo non si sviluppò mai più nel suo organismo, lasciando spazio alla proliferazione di sano rancore. Per la cronaca, il dottor Jenner non aveva idea di come funzionasse l’immunità, sapeva solo che funzionava, ma questo permise di stabilire le basi dell’immunologia moderna. Seguirono anni di raccolta di dati, necessari per diffondere i risultati al resto della popolazione medica. Eppure 'sto vaccino proprio non piace. Furono svariati gli esperimenti di successo condotti da Jenner, fin quando non decise (anche su spinta di altri suoi amici medici) di sottoporre il report alla Royal Society britannica. Aimè, le sue osservazioni risultarono così nuove ed efficaci che insospettirono la Society, la quale rifiutò il manoscritto.

Ma vi è una differenza essenziale tra un cialtrone e uno scienziato: l’essere in grado di dimostrare le proprie osservazioni con esperimenti riproducibili. Alla fine del Settecento Jenner pubblicò An Inquiry Into Causes and Effects of the Variolæ Vaccinæ, dove non solo per la prima volta nella storia venne applicato il termine “virus” (dal latino virus, “veleno”) in ambito medico, ma si riportavano gli esiti positivi della vaccinazione su ventitré casi clinici: tutti i soggetti si erano ammalati lievemente dopo il trattamento ed erano guariti in pochi giorni, portandosi dietro un’immunità alle forme gravi della malattia. Soddisfatta dai risultati dimostrati e dal fatto che la tecnica risultò riproducibile, la comunità scientifica abbracciò la pratica e in breve la tecnica si diffuse in tutto il paese, tanto che in solo un decennio si passò da oltre diciottomila casi di vaiolo a meno di duecento. Capiamoci, le polemiche non si placarono. E ci mancherebbe. Ci fu un fronte d’opposizione durissimo da parte di religiosi, scienziati scettici e persino filosofi (come Immanuel Kant, che era assolutamente contrario). A questo si aggiungono i medici che usavano la vaccinazione pur senza averci capito niente, provocando la malattia invece che prevenirla. Grandi “Ops!” furono pronunciati. Per esempio qualcuno non aveva capito che doveva usare materiale organico prelevato il settimo giorno dalla comparsa delle pustole, momento in cui il virus era meno inviperito. Alcuni lo prelevavano troppo presto, il virus menava a morte il paziente e di conseguenza la sua famiglia menava a morte il medico criminale. Tuttavia, la scoperta fu talmente incredibile (se applicata da un medico e non da uno zampognaro) che persino Napoleone nei primi anni dell’Ottocento rese la pratica obbligatoria per il suo esercito, e da metà del 1840 l’obbligatorietà fu estesa a tutta la popolazione francese. Però qualcuno continuò a non farsela andare bene. – Cavolo, vogliono infettarci con una malattia delle mucche! – Ma io sono sano! Questi sono pazzi. – Mi ha detto mioccuggìno che ti esce una testa di mucca al centro del petto dopo l’iniezione! – Guarda, la testa di mucca nel petto me l’accollo. Basta che nessuno provi a mungermi. Ridiamo e scherziamo, ma questo era davvero il tenore dei discorsi cavalcati dagli scettici, tanto che si annoverano addirittura illustrazioni sulle prime pagine dei giornali dell’epoca con le rappresentazioni di esseri umani con membra animali che sbucano dal corpo. E non prendiamoci in giro, lo sappiamo tutti che se questa pratica si fosse diffusa oggi, nel XXI secolo, avremmo sentito le stesse bestialità. Nemmeno a dire che con i secoli la fantasia sia migliorata. L’umanità non è mai cambiata, al massimo ha cambiato mezzi e deodoranti. E poi ora ci sta zio Gianni con Facebook a divulgare la verità sui vaccini. Nonostante tutto, nel 1980 finalmente il genere umano poté festeggiare la propria vittoria sul vaiolo e considerarlo eradicato. Ma perché ho fatto questo excursus? Perché i moderni movimenti no-vax, ben più tumultuosi, armati della lama mal compresa dell’internet, si basano in fondo sulle stesse dinamiche kafkiane. Diciamocelo, il problema serio è sempre stato la pratica stessa della vaccinazione. Io per primo confesso di non esserne del tutto indifferente e da piccolo ho scalciato come un mulo per evitare che le mie chiappe venissero deflorate. Se penso a un ago che mi penetra nel muscolo rilasciando nel mio corpo una sostanza che prima non c’era, mi fa sentire violato. Percepisco che è avvenuto qualcosa di sbagliato. Insomma, sono stato inoculato. Alla fine, nessuno s’è mai lamentato delle supposte. La supposta è vista in modo così innocente, così naturale... Forse è questa la soluzione? Più supposte, meno vaccini? Senza considerare tutti quelli che hanno fatto proprio il motto “il mio corpo è un tempio”. Poi però si offendono se gli fai notare che sì, è effettivamente un tempio: pieno di pane e vino e da cui fuoriesce uno strano aroma che non è incenso. Per fortuna gli aghi moderni sono così sottili e innocui che quasi quasi la prossima volta mi faccio fare vaccinazioni extra giusto per il gusto di sentirmi invulnerabile. Ma io c’ero quando negli anni novanta a fare la vaccinazione scolastica arrivava un’infermiera che, come dopolavoro, faceva la sollevatrice di tufi durante gli incontri di sumo tra camionisti. Impugnava l’ago manco fosse Excalibur e per penetrarti il braccio prendeva la rincorsa. Mortacci sua. Il caso Wakefield. Il moderno movimento no-vax affonda le sue radici in una storia recente e ben distante da quella del vaiolo, ma comunque degna di nota dal punto di vista sociale. È nata in seno alla wave generata da ciò che potremmo definire la madre di tutte le bufale: “i vaccini causano l’autismo”. Non so se l’avete mai sentita questa. Provate pure a negare, tanto non vi credo. Questa simpatica diceria ha avuto origine col medico inglese Andrew Wakefield, che nel 1998 presentò le “prove” dell’esistenza, per l’appunto, di un legame tra vaccino trivalente e autismo. Sì, fu lui il primo nella storia a parlarne, e fu lui a dare il via libera a questo magico viaggio che ci accompagna tutt’oggi. Che mattacchione. Che ci vuole comunque impegno per riuscire a creare una smarmellata così virale (doppio senso non voluto ma ben accetto). E dire che inizialmente la comunità scientifica gli diede pure retta, anche perché il signor Wakefield aveva pubblicato nientepopodimeno che uno studio scientifico a riguardo. Oh, roba seria! In uno studio scientifico in genere si raccolgono dati e osservazioni empiriche, e soprattutto si sottopongono tutti questi dati al resto della comunità di esperti. Per di più l’articolo era stato pubblicato sulla prestigiosa rivista “Lancet”. Quindi, perché mai non fidarsi? Non c’era alcuna ragione per non credergli. Peccato che in seguito si scoprì che aveva manipolato i dati per tornaconti personali e che aveva un piccolissimo conflitto di interessi sulla questione: aveva preso accordi privati con degli avvocati specializzati nelle cause di risarcimento per presunti danni da vaccino. Insomma, l’obiettivo era pubblicare articoli che aiutassero gli avvocati a vincere le cause, per poi smezzarsi i soldi. Non fa una piega. Non solo, si scoprì anche che deteneva un brevetto per un proprio vaccino! Porca miseria. Tutto ciò è fantastico! Questa storia fa il giro e si trasforma in epicità. Immaginate quando s’è scoperta tutta ’sta roba, che figura di merda magistrale dev’essere stata?!

Lo studio di Wakefield è stato smentito ripetutamente negli anni da tutto un lungo avvicendarsi di successive ricerche, proseguite anche dopo che “Lancet” ritirò l’articolo originale a causa dei falsi e che Wakefield fu espulso dall’ordine dei medici britannici. Questo però non era abbastanza per espellerlo dal cuore dei suoi nuovi fan, coloro che ormai s’erano lanciati nella causa battendosi a spada tratta per lui. Wakefield si ritrovò trasformato in una celebrità da un esercito di persone per lo più impreparate sull’argomento e prive di mezzi per capire se quanto egli affermava fosse degno di considerazione o meno. Come se fosse la prima volta nella storia. Il grande rammarico, tuttavia, lo riserbo a tutti coloro che, genuinamente preoccupati per la salute del proprio figlio da vaccinare e assaliti dall’onda dell’infodemia generatasi, decisero che nel dubbio fosse comunque meglio non intervenire. Ma sulla dinamica mentale dietro questo modo di ragionare torneremo tra poco. A causa del signor Wakefield il numero di adesioni al vaccino trivalente in Gran Bretagna calò vertiginosamente, mentre “casualmente” schizzarono alle stelle i casi di morbillo, situazioni sanitarie gravi e addirittura morti. L’Inghilterra ha dovuto fare di nuovo i conti con la rinnovata piaga di questo morbo, scatenatasi come epidemia del tutto evitabile. Alcune stime parlano di circa un milione di giovani esseri umani di età compresa tra i 10 e i 16 anni totalmente sprovvisti di vaccinazione. Quella attuale è stata la generazione su cui l’assenteismo vaccinale ha pesato maggiormente, e ciò è tristemente riconducibile a quello studio, dimostrato del tutto falso, che associava il vaccino all’autismo. Nonostante la scoperta dei dati contraffatti per tornaconti personali, la caterva di studi che non sono mai riusciti a trovare alcuna correlazione tra vaccino e autismo e, soprattutto, nonostante Wakefield confessò di aver manipolato “alcuni di quei dati”, qualcuno crede ancora alla sua infondata teoria. E non solo in Inghilterra. Dicendo “alcuni”, Wakefield, forte di una inaspettata celebrità e idolatria, poté continuare imperterrito e contro ogni evidenza scientifica a difendere le proprie conclusioni. Inutile dirlo, nel 2016 il Parlamento italiano lo ha anche convocato per tenere un discorso alle Camere. Perché nessuno più dei politici italiani è puntualmente bravo nel parteggiare per le cause sbagliate. E allora, che cavolo vi devo dire! Fate un po’ come vi pare. Continuiamo a credere all’esistenza di Babbo Natale e Giuliano Ferrara! Dal pus al pollo. Tutt’oggi qualcuno chiede ancora di aprire un “dibattito sui vaccini”. Ecco, a proposito del dibattito in merito permettetemi di sottolineare una cosa: non esiste alcun dibattito. I vaccini non causano l’autismo. Nonostante gli sforzi di Wakefield, nel 2000 gli scienziati statunitensi annunciarono di aver eradicato il morbillo dagli USA. Si stima che le vaccinazioni abbiano permesso di ridurre le morti del 78% negli ultimi dieci anni, che direi essere un risultato non male per qualcosa nato come “ti inietto del pus di pustole infette”. Ovviamente oggi la tecnica utilizzata è un po’ meno splatter e per la produzione dei vaccini contro il morbillo si ricorre alla cell culture adaptation. In pratica si prende il virus del morbillo e lo si costringe a riprodursi (quindi selezionarsi e modificarsi geneticamente) all’interno di cellule non umane. Cellule embrionali di pollo disposte su piastra Petri, per essere precisi. Dovendo colpire un target diverso da quello per cui è specializzato, il virus si seleziona e si adatta alle cellule di pollo, così facendo perde però la propria efficacia sull’essere umano. E se in un essere umano il virus del morbillo originario si riprodurrebbe centinaia di volte nel corso dell’infezione, con questo stratagemma riesce a riprodursi solo una ventina di volte. Nel farlo si lamenta pure, bestemmiando e insultando gli scienziati in dialetto virusese. La pratica elimina lo sviluppo di sintomi nell’ospite umano, senza precludergli la simulazione di una risposta immunitaria e, quindi, la produzione di anticorpi che poi risultano efficaci anche in caso di infezione con virus non mutato. Se ci pensate il principio non è troppo diverso da quello dell’inoculazione del vaiolo bovino, meno letale del vaiolo umano. L’unica differenza è che in questo caso il vaccino si fa in serie, in laboratorio, e si produce in quantità enormi per avere scorte sempre pronte in base alla necessità. Ovviamente il sistema perfetto non esiste, come in tutte le cose, e nel 3-5% della popolazione l’immunizzazione non attecchisce. Tuttavia, ciò impedisce al virus di diffondersi, spezzandogli le gambe sul nascere. Avete presente quando si parla di immunità di gregge? Se la maggioranza della popolazione è immune a un determinato patogeno, si riduce anche la probabilità di contagio di coloro che non risultano immunizzati direttamente. In genere, per raggiungere tale obiettivo sono necessarie percentuali di immunizzazione maggiori del’85-90%, dato che varia da patogeno a patogeno. Grazie al vaccino l’incidenza del morbillo negli Stati Uniti è passata da oltre cinquecentomila casi all’anno negli anni cinquanta a trentasette casi nel 2004. L’ultima volta che ho controllato, cinquecentomila era una cifra leggermente più alta di trentasette, quindi è un bene. Ma visto che dagli anni duemila la vaccinazione ha iniziato un declino a causa della bufala sull’autismo (grazie Wakefield), è stato calcolato che in centinaia di scuole americane la soglia di vaccinazione è scesa al di sotto del 92%. Nel dicembre 2014, una persona infetta si è recata a Disneyland in California e ha contagiato circa cento persone, le quali hanno poi portato il virus a casa in svariati Stati degli USA. Non è molto, vero? Be’, sono il doppio dei casi che fino ad allora si verificavano nel paese nell’arco di un intero anno. Più della metà fra i contagiati non era vaccinata. Ops. Le cose non sono mai cambiate e l’infodemia sui vaccini è arrivata fino a tempi recentissimi. Quando a inizio 2020 il SARS-CoV-2 è giunto in Europa, la popolazione mondiale ha iniziato a sperare fortemente nell’arrivo di un vaccino per tamponare gli effetti della pandemia. Il vaccino ancora non c’era, ma qualcuno già se ne lamentava. C’era già sul web chi affermava che il vaccino conteneva feti e mercurio (ma non esisteva ancora un vaccino!). Poi, l’immancabile: “Secondo me questi già ce l’hanno il vaccino, signora mia. Solo che non ce lo portano a noi popolino. Questi se lo tengono per sé, ’sti zuzzùsi”. Sfruttando vent’anni di ricerca sui vaccini a mRNA, una nuova generazione che permette uno sviluppo molto più rapido e mirato (fortunatamente niente più pus), i risultati sono arrivati nel giro di qualche mese. Gli stessi di prima hanno allora urlato: “Ci hanno messo troppo poco per svilupparlo, qualcosa nonceladicono”.

Non dimenticherò mai il tweet di una signora che mi scrisse: “E te pareva che il vaccino non lo trovava un’industria farmaceutica. Che schifo”. Scusa, signò, e chi glielo doveva trovare il vaccino? Il panettiere? Tra una rosetta e l’altra? “Toh, ecco dov’era il vaccino! Pensa te, è pure bello biscottato”. In America nel 2021 c’è chi ha affermato di essere diventato magnetico dopo il vaccino antiCovid, con tanto di video di calamite e pentolame vario appiccicato al braccio, mentre in Italia i no-vax hanno iniziato a chiedere distanziamento sociale e mascherina per proteggersi dai vaccinati in quanto infetti da una presunta contromalattia causata dal vaccino... LORO devono proteggersi? Secondo quanto sostenevano i movimenti complottisti di quel periodo, l’attuale popolazione mondiale dovrebbe essere più che dimezzata. I superstiti tutti catapultati sul set della nuova stagione di The Walking Dead. Unici sopravvissuti, le blatte e Kenshiro... Che poi io me lo sono sempre chiesto cosa facesse Kenshiro prima della crisi nucleare. Il benzinaio? Boh. E invece qua siamo ancora vivi, anzi, è morta meno gente di quanta ne schiattava prima del vaccino! Ma che microchip ci avevano messo in ’sti sieri genici sperimentali? La versione crackata di Windows 95? DANNATO BILL GATES. No-vax al microscopio. Proviamo ad analizzare scientificamente il fenomeno del no-vax e a comprenderlo. E visto che i dati non serviranno a convincere nessuno, cerchiamo almeno di capire come mai queste relativamente poche persone hanno un’avversione verso i vaccini tanto acuta da non immunizzare i propri figli. Prendiamo il caso del vaccino trivalente e di chi tutt’oggi sceglie di non ricorrervi per paura che causi l’autismo. Paura generata dando credito a presunti aneddoti di terzi, e cioè genitori pronti a giurare che la causa di una diagnosi sia proprio da ricercare nel suddetto vaccino. Essendo un argomento serio, spengo temporaneamente l’interruttore del sarcasmo e procedo. Le diagnosi di autismo sono decisamente aumentate in numero rispetto al passato, ma questo per una semplicissima ragione: ora sappiamo diagnosticarlo, e soprattutto è cambiato il modo in cui la diagnosi viene registrata. Quando parliamo di autismo ci riferiamo a tutta una gamma di disordini comportamentali con diversi effetti, per cui sarebbe più corretto parlare di “disordine dello spettro autistico”. Il suo sviluppo sembra legato a fattori genetici, anche se sembra che vi possano contribuire fattori ambientali. Questo è il punto saliente: non conosciamo le cause dell’autismo. Sappiamo solo che è sempre esistito. E cosa fa il nostro cervello quando succede qualcosa e non è in grado di identificarne la causa? Semplice, prova a trovare una correlazione. Qualsiasi correlazione. Non importa quanto senso abbia, la colpa deve essere di qualcosa o qualcuno. Ed è qui che intervengono i famosi bias cognitivi. Non ho un figlio, ma se lo avessi e gli venisse diagnosticato un disturbo dello spettro autistico, sarebbe molto difficile per me non cadere vittima di quella voce primordiale che mi urlerebbe “perché proprio a lui, di chi è la colpa?”. E metto le mani avanti: conosco diverse persone con una simile diagnosi e stanno meglio di me; ovviamente, nel mio esempio mi riferisco alle sfumature più problematiche dello spettro. In questa situazione cerchiamo una possibile causa e quando ne troviamo una plausibile (per noi), vi ci aggrappiamo, nonostante abbia un senso solo in relazione ai nostri bias. E qui giunge il problema, umano e condivisibile. Quando un genitore sospetta un disturbo dello spettro autistico nel proprio figlio, in genere è perché ha individuato dei comportamenti fuori dall’ordinario. Per fare un esempio, magari già aveva notato una scarsa attitudine sociale, una difficoltà a reggere il contatto visivo o un ritardo nello sviluppo del linguaggio (nessuna parola prima dei 16 mesi o frasi non più lunghe di due parole nei due anni – secondo le attuali linee guida). Poi a un certo punto nota la perdita di una capacità già acquisita. Qui, il genitore entra in una spirale di correlazioni tipiche del bias della negatività. Per farvi un esempio, voglio riportare la conversazione avuta con un mio conoscente content creator proprio adesso, mentre scrivo queste pagine. “Ho caricato la nuova foto sul profilo e me l’hanno commentata solo tre persone? Capisci? Tre!?! Me la commentavano tre persone quattro anni fa, quando non mi seguiva nessuno! Che è successo? Dici che l’ho pubblicata all’orario sbagliato? O forse c’è un bug sul social e non l’ha condivisa? O forse mi hanno messo in una lista nera e ora tutti i miei post andranno male? Forse dovrei cancellarla e ricaricarla, che dici”. Sì, queste paranoie esistono. C’è gente che si meriterebbe ancora del pus. In faccia. Non importa quanto la cosa sia casuale, il cervello deve assolutamente capire cosa c’è che non va. Cosa è stato fatto male, o di diverso. CI DEVE ESSERE UNA RAGIONE. Iniziamo così a prestare un’attenzione morbosa a ogni particolare, elaborando teorie sulle cause che hanno condotto all’infausto esito. Fa ridere, ma avete notato che non ci poniamo alcuna domanda quando le cose vanno bene? Ognuno risponde in modo diverso. La negatività è una cosa personale, in fondo. C’è chi è più il tipo da “è colpa mia, ho sbagliato qualcosa” e chi invece opta per “qualcuno è il colpevole, e io lo scoprirò”. L’importante è che ci sia una colpa. O preferibilmente, che sia di qualcun altro. E qui torniamo al genitore. Ha notato qualcosa di strano nel figlio. Riceve una diagnosi di autismo. Di chi è stata la colpa? Perché ce ne deve essere una. In particolar modo negli Stati Uniti l’unico evento davvero fuori dall’ordinario e degno di nota che possa capitare a un bambino di quell’età, oltre a essersi infilato un sottaceto nel naso, è proprio la vaccinazione. Quindi il colpevole è trovato. La cosa appare molto logica, anche se non lo è. La casualità non è contemplata. E occhio, ci sono fior fiore di cause in tribunale vinte proprio grazie alla tesi del vaccino che causa l’autismo. Assurdo? No, perché alla fine un processo è un evento giuridico, non scientifico, specialmente in USA dove le sentenze sono stabilite da una giuria popolare. Decine di studi hanno dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che non esiste una correlazione tra alcun vaccino e l’autismo, ma se avete dubbi e andate su internet non faticherete a trovare qualcuno che alimenta le vostre paure, con tanto di aneddotica connessa.

Sei un genitore frustrato da una diagnosi e cerchi una spiegazione in preda alla rabbia senza sapere su chi rivolgerla? Non troverai alcun conforto dalla comunità scientifica, ma lo troverai online. E qui ritorna il bias di conferma. A questo punto potrebbe essere inutile per noi provare a dimostrare che la tua tesi è sbagliata. Una volta che hai ottenuto la conferma e magari sei stato risucchiato in una community che condivide le tue stesse idee, qualsiasi tentativo di dissuaderti potrebbe non fare altro che aumentare la tua convinzione. Dubbi legittimi (ma infondati) si trasformano in illazioni di una comunità rumorosa costituita da persone che fanno ricerche per conto proprio e in modo confusionario, in cui non c’è distinzione fra il parere e il fatto concreto, fra l’aneddoto e il caso statistico. E se si è semplicemente confusi? Spaventati da tutte queste voci? Chissà, magari la verità sta nel mezzo. E qui arriva spavaldo il bias dell’omissione, che altera la valutazione dei rischi e ci fa credere che il non fare nulla (non vaccinare i figli) e pagarne le eventuali conseguenze sia meglio che fare qualcosa e scoprire di avere torto. Meglio che le cose vadano come vadano, che la natura faccia il suo corso. E poi bisogna vaccinare una persona che sta bene? Mettere delle sostanze nel corpo di una persona che non ne ha immediatamente bisogno? Pff. Siamo davvero pessimi nella percezione del rischio. Se esiste (ed esisterà sempre) anche un minimo, lontano, lontanissimo pericolo di effetti collaterali, la percezione del rischio si sballa completamente. Il rischio di ammalarsi di una malattia potenzialmente mortale, contro il rischio minimissimo di essere diagnosticati di autismo nell’immediato. A quanto pare non c’è partita. Questo modo di percepire il rischio/beneficio cambia totalmente quando il vantaggio ottenuto è immediato. Insomma, l’“immunità” è una cosa che non si vede, non si mangia. Chissà, se non faccio niente magari manco me lo prendo. Gli incidenti autostradali secondo l’OMS sono la seconda causa di morte al mondo, con 1,2 milioni di morti e cinquanta milioni di disabili o feriti gravi. Avete mai sentito il movimento no-car? No. Perché l’auto mi serve subito! “Il morbillo io manco lo conosco. Dice che è eradicato. Io non l’ho mai visto”. È un ragionamento umano. Insomma, per quanto sia facile puntare il dito sui no-vax, quello di cui stiamo parlando è meramente un problema umano. Il mondo è così complicato che abbiamo bisogno di semplificarlo per provare a spiegarlo e capirlo. D’altronde nelle nazioni industrializzate si è progressivamente dimenticato cosa significhi morire di tetano neonatale a causa delle condizioni igieniche, quali siano le lesioni causate dal bacillo della difterite alla laringe, le conseguenze di poliomielite, pertosse, morbillo e parotite epidemica. Grazie all’efficacia delle vaccinazioni di massa ci si è dimenticati della malattia, il che ha fatto affievolire la percezione dell’importanza della vaccinazione. Insomma, i vaccini sono i colpevoli della diminuzione della copertura vaccinale! SCACCO MATTO. Ma temo che questo pippone non convincerà nessuno. Non mi resta che restarmene seduto qui, aspettando che qualcuno mi scriva su instagram che sono stato pagato dal Gabibbo per fare campagna “provaccinazione”. Di nuovo. Peccato che nessuno parli mai della mia campagna pro-cannibalismo. Quella sì che è una lotta a cui tengo. Ce l’ho messa pure nel curriculum. Il vaccino oltre la siepe. Agli inizi del 2020 il coronavirus noto come SARS-CoV2 è riuscito a farsi voler male più delle pubblicità dei grattacalli per piede a tradimento. Diversi paesi nel mondo, Italia compresa, hanno dovuto ricorrere al famigerato lockdown per arginare la circolazione del virus. I governi hanno chiesto alle persone di smettere di lavorare, rimanere in casa tutto il giorno grattandosi la panza e giocare alla PlayStation. Un paradiso, se non fosse che qualcuno s’è ricordato che a non fare una mazza tutto il giorno c’è il rischio di impazzire. Molti si sono gettati su nuove passioni: la botanica, la preparazione del pane, lo sbucciamento compulsivo di mandarini o il darsi fuoco ai piedi. Il mercato del porno è schizzato, e senza troppi doppi sensi, per poi ricrollare a causa dell’incipiente depressione. E mentre – in mutande e t-shirt macchiate di cioccolato fondente e costellate di briciole di pan carrè – ci intrattenevamo facendoci gli affaracci del vicino che prendeva il sole sul balcone di fronte, lì fuori, silenziosa e caparbia c’era la scienza che macinava test e cercava vaccini. Cioè, la scienza... diciamo gli scienziati. Che fossero al servizio di enormi compagnie farmaceutiche (le cosiddette Big Pharma), o di piccole compagnie emergenti (le Biotech), o anche di rispettabilissime entità accademiche con quattro spicci in croce che non bastavano nemmeno a comprare la macchinetta del caffè per l’ufficio, gli scienziati facevano le ore piccole in una corsa all’oro che avrebbe generato miliardi di euro in pochi anni ma anche salvato milioni di vite umane. Le domande sono legittime: com’è stato possibile trovare un vaccino in così poco tempo? Il primo a ottenere l’autorizzazione è stato quello della Pfizer e la sua realizzazione ha richiesto circa un anno. Ci dobbiamo fidare? Ma la Pfizer non era quella del Viagra? Non è che si so’ confusi? Siamo davvero certi che questi vaccini e tutti gli altri siano sicuri? Cosa ci sta dentro? Gli armadi smontati Ikea? E pure il montatore? Col durello? Partiamo da un presupposto: se ancora oggi, dopo decine di mesi, non ci avete ancora capito una ciola, è normale. L’infodemia ci ha sepolti coi suoi talk show in prima serata, le notizie frammentarie nei telegiornali, i post sensazionalistici sui social, le dichiarazioni troppo complesse per essere semplificate e i vari guru della verità verissima dell’informazione “indipendente”. Il periodo della pandemia ha generato un’onda anomala di infodemia, in cui non si è capito letteralmente più nulla. Persino gli eminenti scienziati costantemente intervistati per le TV erano in grado di dire l’uno il contrario dell’altro. La gente ha giustamente sbarellato, ma l’umanità ha ricordato dei concetti importantissimi quanto banali. Quali? Be’, tipo: Non basta avere un camice per potersi esprimere in qualsiasi contesto. Il principio di autorità nella scienza non esiste, quindi il “lei non sa chi sono io” potete gettarlo nell’organico. Non importa chi parla, sia esso un premio Nobel o Giorgione dei Portici: se non presenta delle prove tangibili e riproducibili a supporto di quel che afferma siamo davanti a fuffa.

La scienza non si fa in un dibattito televisivo, e non bisogna a tutti i costi cercare la “voce contraria” anche quando non c’è, o si rischia il salotto con il supervirologo Marione vs Giuseppino La Frisella filosofo del 5G. E soprattutto, che la risposta alla maggior parte delle domande quando sono poste troppo presto è: “ancora non lo sappiamo”. Qualcuno sembra averlo dimenticato, o semplicemente ignorarlo. È brutto trasmettere l’incertezza? I tempi della scienza non sono quelli televisivi, mannaggia alla pupazza. Una volta lessi una scritta su un muro di Bologna che mi fa ripensare a quel periodo. La frase diceva: “Rutto perché non so esprimermi a parole”. Direi che negli ultimi due anni di rutti sui vaccini ne abbiamo sentiti parecchi, quindi potrebbe essere utile un piccolo passo indietro e un click sul tasto “refresh”. Iniziamo quindi col rispondere alla prima domanda: come stracacchio ci sono riusciti in meno di un anno a trovare un vaccino? Perché, in effetti, se vediamo quanto tempo è servito in passato all’umanità per sviluppare vari vaccini, pensare di aver trovato più di una soluzione in un solo anno è sconvolgente. Per quello dell’ebola ci sono voluti quarant’anni, per l’epatite B una quindicina, per il morbillo circa un decennio.

Be’, per semplificare potremmo dire che alla base dei risultati nella lotta al virus ci sono due ragioni chiave: il progresso scientifico e il focus sulla malattia. Il progresso, signori e signore! L’avanzata verso il futuro! È questa la prima ragione. Oggi utilizziamo apparecchiature che trent’anni fa non esistevano, siamo in grado di separare molecole e caratterizzarle con modalità assolutamente precise e abbiamo sviluppato nuove tecniche vaccinali. Insomma: dal 1700 a oggi abbiamo scoperto tanto. E una delle cose più fighe che abbiamo sviluppato negli ultimi trent’anni sono i vaccini a mRNA. Immaginate il virus come un piccolo ragnetto bastardo e temibile. Ecco, e se prendessi la zampetta del ragnetto, isolata dal resto del suo corpo, vi farebbe ancora paura? Ad alcuni forse farebbe schifo, ma paura direi di no. È solo un pezzetto di quello che originariamente era un corpo integro, pelosetto e funzionante. Potrei fare lo stesso paragone con il grilletto di una pistola: un grilletto senza pistola che male può fare? E se il virus fosse Jar Jar Binks, il suo alluce separato dal resto del corpo sarebbe davvero temibile? Forse disgustoso, osceno, atroce, ma non credo che un alluce possa ancora ferire i sentimenti di qualcuno. Insomma, avete capito: la porzione di un corpo non è pericolosa come l’intero corpo. Alcuni vaccini funzionano proprio grazie a questa intuizione: si inserisce nell’organismo solo una piccola parte del patogeno, ad esempio nel caso della SARS-CoV-2 la proteina in gergo definita spike, facendo in modo che il nostro corpo la riconosca e la combatta in quanto sconosciuta e quindi potenzialmente dannosa. Quando incontrerà il virus per intero, il nostro sistema immunitario, dotato di un esercito ormai pronto a riconoscere e combattere la proteina spike, capirà subito con chi ha a che fare e gli farà un culo a tarallo. Molti vaccini funzionano così, anche i vaccini a mRNA. L’mRNA non è altro che un codice genetico di partenza che in seguito viene tradotto in proteina dalle cellule. In questo caso per l’appunto l’mRNA usato è quello che serve a produrre la proteina spike della SARS-CoV-2. L’intuizione geniale è stata proprio questa, il capire che invece di usare direttamente una proteina si poteva usare l’mRNA (molto più semplice da produrre) e lasciare che poi il nostro corpo producesse la proteina. Sarebbe come se il nostro sistema immunitario ricevesse un pacco sorpresa nelle cellule con dentro un pupazzetto Lego da montare. La nostra cellula all’inizio è tutta contenta perché pensa di aver ricevuto l’alluce di Darth Vader da mettere in salotto, ma... sorpresa! Costruito il pupazzetto, la cellula molla un “porcaccia la miseria, e questo cos’è?” e... chiama la polizia del sistema immunitario! “Ragà, qua m’hanno dato Jar Jar Binks che skifo marò io spacco tutto help.” Il sistema immunitario cataloga l’oggetto come altamente pericoloso e dopo una serie di processi lo fa detonare. Non si sa mai. Be’, le cellule immunitarie hanno memoria! A seconda della malattia la memoria può essere più o meno duratura, ma potete stare certi che la prossima volta che una proteina spike penetrerà nel vostro corpo ci sarà l’Air Force One, le teste di cuoio e gli 007 sulla porta d’ingresso dei linfonodi. Sarebbe però un errore pensare che questa ingegnosa tecnologia sia stata scoperta grazie al Covid-19. La sua prima idea risale al 1987 e appartiene a un giovane

laureato di nome Robert Malone nel campus di La Jolla in California. Ecco perché conosciamo così bene i vaccini a mRNA, sappiamo quanto siano efficaci, come si preparino e che possibili rischi abbiano. So’ decenni che li studiamo! Per questo faceva molto ridere il termine “siero genico sperimentale” coniato nel 2021 dai detrattori per sottolinearne il mistero che celavano (per loro) questi “nuovi” vaccini. I vaccini a mRNA (per primi quelli di Pfizer-BioNTech e Moderna) non sono stati gli unici a venire applicati durante l’emergenza sanitaria. Altri due vaccini antiCovid, quello sviluppato da AstraZeneca in collaborazione con Oxford University e quello di Johnson & Johnson, erano composti anch’essi da una porzione genetica del virus originale. Lì, invece che una porzione di mRNA all’interno di una sfera lipidica, è stato utilizzato il codice genetico della proteina spike dentro una capsula di un altro virus innocuo. È stato così ottenuto un vaccino morbido e cremoso dentro, ma croccante fuori. La similitudine del pacco sorpresa diciamo che rimane valida. Ma abbiamo anche la tecnologia del virus inattivato, che consiste nel sottoporre il virus a una serie di violenze e percosse tipo rissa da bar prima di essere inoculato. Questo e altro per renderlo innocuo e meno sgarzillo di prima. Questo è il vaccino Sinovac o quello Sinopharm, ad esempio, basati su una tecnologia molto più vicina a quella utilizzata cinquant’anni fa. Insomma, l’umanità era pronta. E così erano gli scienziati, con le loro pipette, le loro centrifughe, le loro lavagnette, le penne Bic nel camice e la depressione cavalcante. Il progresso scientifico ha permesso all’umanità di rispondere unita alla crisi. Qualcuno però potrebbe chiedersi come mai abbiamo il vaccino per Covid ma non per il virus dell’HIV, o perché abbiamo quello per il morbillo e non quello per la malaria. La risposta è semplice: sono malattie diverse, con caratteristiche diverse e comportamenti differenti. Sarebbe come chiedere perché posso portare a spasso un cane con un guinzaglio ma con quello stesso guinzaglio non posso portare a passeggio un coccodrillo. Non consiglierei di fare pucci-pucci sotto al gargarozzo del coccodrillo, che quello è nervoso e vendicativo e vi userebbe come panino. Insomma, non so se l’avete capito ma poteva andarci pure peggio. Ho parlato anche di un secondo motivo per cui il successo è stato così rapido: il focus sulla malattia. Il numero di studi clinici lanciati per sviluppare un vaccino contro il Covid è impressionante: tra il 2020 e il 2021 se ne contano circa mille. Mille laboratori sparsi per il mondo, con i migliori talenti in circolazione, si sono dedicati esclusivamente al Covid. Per fare qualche paragone, nel 2022 si possono contare circa quaranta studi clinici che cercano di sviluppare un vaccino contro la malaria o circa ottanta studi sul vaccino contro l’HIV. C’è stato un all-in di massa e la legge dei grandi numeri parla chiaro: più provi più chance hai di riuscire. Ma come sappiamo che questi vaccini, oltre a essere efficaci, siano sicuri?

Nuovi clinical trials lanciati sul Covid-19 per anno tra il 2019 e il 2021 Fonte FDA (clinicaltrials.gov) Per rispondere alla domanda bisogna avere una comprensione di come funzionano i clinical trials, ovvero i test clinici che sono obbligatori prima che un farmaco sia messo in commercio. Quasi tutti hanno sentito parlare di studi clinici di fase 1, 2 o 3, che sono i periodi durante i quali si testa un farmaco sulle persone. Ecco, prima di arrivare alle persone ci sono in realtà anche una valanga di studi preclinici effettuati con l’utilizzo di modelli cellulari, animali e bioinformatici, che spesso possono richiedere anni, se non decenni. Gli studi preclinici permettono a una compagnia farmaceutica di selezionare il farmaco che potenzialmente potrebbe avere più successo. Sono fasi estremamente costose, che tuttavia hanno il vantaggio di definire poche molecole promettenti sulle migliaia di candidate iniziali.

Fonte technologynetworks.com

Ed ecco un primo step su cui le case farmaceutiche per il Covid hanno accelerato alla grande: non solo moltissimi hanno interrotto altri studi preclinici già in corso per dedicarsi a testare molecole contro il Covid, ma hanno aperto nuovi laboratori con fondi pubblici o privati per parallelizzare i test. Inoltre hanno deciso di portare avanti nella fase clinica non solo le pochissime molecole altamente promettenti, ma anche molte molecole mediamente promettenti. Insomma, invece di perdere tempo nel selezionare solo le più probabilissime, hanno fatto partire il test anche con quelle “probabiline”. Alla fine, in barba alla probabilità, è sempre possibile che risultassero più efficaci le ultime, per ragioni che magari ancora non si conoscono ma che si sarebbero ricercate in seguito. Dal punto di vista economico è stata una scelta azzardata, considerando che il tasso di successo è relativamente basso e quindi il rischio di bruciare l’investimento di tempo e denaro diventa concreto (per questo in genere si prende tempo nel capire quale sia la via più probabile). Ma ricordiamoci che è stata una vera corsa: il gioco valeva la candela. Si giunge quindi alla fase 1: la fase clinica in cui dei volontari accettano di far testare sui loro corpi le varie molecole preidentificate. L’obiettivo della fase 1 non è quello di valutare che il farmaco funzioni, piuttosto quello di assicurarsi che sia sicuro e tollerato dal corpo umano (per questo si chiama fase della safety and tolerability), quali siano i primi effetti collaterali e quale sia la sua dose ideale. Ovviamente ci sono stati tutti i test preclinici che sono serviti anche a questo, ma per esserne certi al 100% bisogna necessariamente passare per un organismo umano. Per ridurre al massimo i rischi di ammazzare innocenti o anche solo di provocare dei rush cutanei sul pube per i prossimi quarant’anni, gli scienziati forniscono microdosi dei farmaci testati in ambienti estremamente controllati. Quella in cui decine di volontari sani si sottopongono ai test resta comunque una fase delicata. E se vi state chiedendo perché mai qualcuno dovrebbe sottoporsi a uno studio clinico di fase 1 esponendo il proprio organismo a qualcosa che è stato testato solo su cellule o animali, la risposta è: per soldi. Diciamo circa quattromila dollari annui a volontario, con dei picchi tra dieci e ventimila dollari annui a seconda del clinical trial. Volontari ne abbiamo? Scrivetemi in privato che Big Pharma mi paga le commissioni. Scherzo eh, che come minimo qualcuno ci crede. Una volta appurato che il farmaco non ha effetti collaterali seri si passa alla fase 2, spesso chiamata proof of concept, il cui obiettivo è dimostrare che il farmaco funzioni. Si possono ancora avere riserve sulle dosi esatte da testare e le vie di somministrazione (pillola orale, iniezione intravenosa, iniezione intramuscolare, polverina magica da sniffare, supposta, eccetera) e questa fase permette di trovare risposte a molte domande. I test si effettuano in genere su decine o centinaia di volontari o pazienti malati ed è qui che la magia della statistica dà il suo meglio. I test di solito sono: Randomizzati, ovvero i partecipanti allo studio sono assegnati in modo casuale al gruppo che riceve il farmaco testato o al gruppo di controllo, ovvero quello che riceve un placebo (una sostanza priva di principi attivi specifici, tipo acqua e zucchero o una caramella Zigulì). La randomizzazione consente ai ricercatori di determinare eventuali effetti del trattamento riscontrabili anche nel gruppo senza trattamento (controllo), tenendo tutte le altre variabili costanti. In singolo cieco (single-blind procedure), ovvero il paziente non sa se sta prendendo il farmaco o il placebo mentre il medico che glielo somministra ne è al corrente. In doppio cieco (double-blind procedure), ovvero né il paziente né il clinico sanno se la pillolina o l’iniezione somministrata contengano un farmaco o un placebo. Infine, si passa agli studi di fase 3, chiamati anche studi di conferma, detti pivotal ovvero “cardine”, per valutare la sicurezza e l’efficacia del farmaco testato su una larghissima scala di pazienti (centinaia o migliaia). Ad esempio, la Pfizer ha testato il vaccino su circa quarantamila persone prima di distribuirlo sul mercato. L’accelerazione nel lavoro delle case farmaceutiche si è verificata anche durante le fasi cliniche, con il rapido reclutamento di volontari parallelamente nelle varie fasi 1, 2 e 3. Proprio così, i test spesso si sono svolti in simultanea: i parametri di sicurezza, tollerabilità, efficacia venivano valutati in contemporanea invece che uno alla volta. Tutta questa rapidità è stata infine possibile anche grazie alla natura intrinseca del virus, testato soprattutto su una popolazione giovane con bassissima letalità e con farmaci che non hanno dato seri effetti collaterali. Insomma: avevamo le tecnologie, i soldi e la possibilità di testare e parallelizzare gli esperimenti. Come dice l’articolo di “Nature” redatto a dicembre 2020, per ripetere un successo così rapido sarà necessario un simile finanziamento massiccio per lo sviluppo che probabilmente arriverà solo in presenza di un analogo senso di urgenza sociale e politica. Dipenderà anche dalla natura dell’agente patogeno. Con SARSCoV-2 siamo stato fortunati, è un virus che muta in modo relativamente lento e che appartiene a una famiglia ben studiata. Infine oh, come tutto nella vita, ci vuole anche culo. Mai scordarlo. I predatori di cialtroni. Non molto tempo fa, in una famiglia di accademici benestanti dell’Upper East Side di New York City, un ragazzo con un gran desiderio di fare colpo sui genitori esordì così durante una merenda pomeridiana a base di tè Earl Grey e Kinder Paradiso: – Mamma guarda! Ho pubblicato un articolo come primo autore su una rivista scientifica! Adesso sono un vero scienziato! – Caro Giammariangel, sono ammirata! E dove hai pubblicato tale manoscritto? Su “Nature”? – Veramente no... – Su “Cell”? – No... – E allora sul “Rattolino”? – L’ho pubblicato sull’“American Journal of Biomedical Science & Research”. Apperò!, disse ammirato il padre professore di Letteratura inglese alla Columbia University. Sei un coglione!, disse un po’ meno ammirata la madre, professoressa di Biologia molecolare alla stessa università, che poco dopo gli lanciò una sediata in testa sfasciandogliela in due, sputò sulla sua carcassa e lo cancellò dal testamento con disonore. A pensarci bene molti di noi avrebbero avuto la stessa reazione del padre di Giammariangel. E sapete perché? Perché eccetto gli addetti ai lavori, in pochi sanno che l’“American Journal of Biomedical Science & Research”, “The Open Information Science Journal” oppure l’“International Journal of Advanced

Computer Technology” sono false riviste scientifiche. Anzi, per essere precisi, sono riviste predatorie (all’inglese, predatory journals o predatory publishing). Un predatory journal ha l’unico scopo di fare soldi. Il gioco è semplice: fondate una rivista con un nome pomposo e altisonante, fateci un sito figo e dall’aspetto professionale, preparate un finto bando che inviti a pubblicare sulla vostra rivista una qualsiasi ricerca (ma letteralmente QUALSIASI), spammatelo a garganella alle caselle elettroniche degli scienziati di tutto il mondo e una volta ricevuto un articolo (poco importa se è a firma di un ingenuo ricercatore o di un varato ciarlatano) lo pubblicate senza neanche ricontrollarlo. Ovviamente dietro compenso economico. Il ricercatore potrà vantare spumeggianti pubblicazioni su riviste dal nome pomposo che però hanno meno prestigio delle stampe sul Cucciolone e la rivista si becca una lauta somma in denaro (si va da un minimo di 150 ad anche qualche migliaio di euro). E non avete idea di quante ne esistano. Quando lavoravo nella ricerca la mia posta era invasa da questa gioiosa monnezza. Il sistema delle riviste predatorie costituisce un vero problema, perché non è sempre facile distinguerle da quelle serie e accreditate. Il compenso economico non è un criterio di distinzione, perché è prassi comune anche per le riviste attendibili richiedere una somma in denaro per accedere alla pubblicazione. Il sito internet nemmeno, dato che i siti delle riviste predatorie possono apparire (e a volte essere) molto professionali e ben fatti. Tuttavia si tratta di fuffa! Scam! Bullshit! Non ci si può fidare di ciò che pubblicano, proprio perché non hanno nessun interesse a ricontrollare i dati! E quindi era inevitabile che qualcuno decidesse di esporle pubblicamente utilizzando l’antica arte tramandata dalle più eccellenti menti del pianeta: la burla. È per esempio il caso degli scienziati informatici David Mazières ed Eddie Kohler, che nel 2005 decisero di scrivere un folle articolo e inviarlo al giornale che da mesi gli maciullava i beneamati di spam via e-mail. Così sull’“International Journal of Advanced Computer Technology” apparve l’articolo dal titolo Get me off Your Fucking Mailing List, ovvero Toglietemi dalla vostra fottuta mailing list, uno scritto lungo diverse pagine e costituito solo ed esclusivamente da queste parole. Ci misero in mezzo anche due grafici per risultare ancora più professionali.

Dopo un bonifico bancario l’“International Journal of Advanced Computer Technology” pubblicò l’articolo senza neanche rileggere. E dire che il messaggio era chiaro. Era letteralmente ripetuto OVUNQUE! Il paper, non ricontrollato dalla rivista, fu disponibile online, pronto per essere letto, studiato e compreso da nuovi scienziati. Una figuremmè clamorosa. Alcuni scienziati hanno fatto della ricerca e dello sbeffeggiamento pubblico di predatory journals una vera e propria missione. Bradley Allf nel 2020 ha pubblicato un articolo sulla rivista “US-China Education Review” dove elogiava gli studenti delle scuole superiori che producevano droghe nel deserto del New Mexico situato, secondo l’articolo, nelle isole Galapagos. Allf faceva un riferimento esplicito alla trama di Breaking Bad e in più asseriva che la craniotomia fosse un mezzo legittimo per valutare l’apprendimento degli studenti. Inoltre ci tenne a sottolineare che tutte le immagini del suo articolo erano state realizzate in Microsoft Paint. Ah, ovviamente il tutto fu pubblicato a firma del professor Walter White e Jesse Pinkman. Nel 2017, Peter Boghossian e James Lindsay riuscirono a far pubblicare su una rivista di scienze sociali un articolo in cui sostenevano che il pene non fosse un organo riproduttivo ma solo un costrutto sociale. Inoltre, i peni sono responsabili del cambiamento climatico. L’editore di “Cogent Social Sciences” ringrazia. Che dire, invece, dell’articolo del 2020 Cyllage City COVID-19 Outbreak Linked to Zubat Consumption che riportava di un focolaio di Covid-19 ad Altoripoli (Francia) dovuto al consumo della carne di pipistrelli Zubat? L’articolo è pubblicato a firma di Utsugi Elm, Nasu Joy, Gregory House e Mattan Schlomi sull’“American Journal of Biomedical Science & Research”, sì, proprio quello di Giammariangel. In quell’articolo si parlava di quattrocentocinquanta persone contagiate, di cui sette decedute. I primi casi si erano verificati a seguito dell’ingestione di Zubat preparati “all’ortolana”. A metà del paper si legge che il virus potrebbe essere arrivato dall’esterno, col passaggio di visitatori attraverso la grotta est abitata dagli Zubat e che collega le “Routes 7 e 8” della “Kalos County Highway Network”. Poi si aggiunge che per gli epidemiologi le cause sono da ricondurre “al fatto che un giornale che pubblica un simile articolo non fa peer review e deve quindi essere predatorio”. Questo è il punto in cui dovreste alzarvi in piedi e iniziare ad applaudire. Gli Zubat sono Pokémon. Già, la pandemia da Covid-19 sarebbe stata causata da un Pokémon. Chi se lo sarebbe mai aspettato. E dire che gli autori si erano addirittura preoccupati di fornire un nome scientifico al famoso pipistrello da collezionismo (Vespertilio caeruleus sineoculus)... Ma chi sono davvero gli autori? Utsugi Elm, professor Elm, che nel franchise è un professore Pokémon di Borgo Foglianova. Nasu Joy, l’infermiera Pokémon. Gregory House, anche noto semplicemente come Dr. House.

Mattan Schlomi, pseudonimo di Matan Shelomi, dottore di Entomologia nonché vero autore della burla. Certo, non era difficile accorgersi della palese perculata. Tra le istituzioni di provenienza di questi eminenti nomi si citavano il dipartimento di Virologia veterinaria del centro Pokémon, o addirittura il dipartimento di Malattie infettive dell’ospedale di Gotham City. Persino le conclusioni dell’articolo non lasciavano adito a dubbi: “Il focolaio di Altoripoli è stato contenuto con successo, anche se i residenti affermano che si sono esaurite le scorte di Spray Repellente®...”. Per chi non lo sapesse, il repellente è un oggetto del gioco che serve proprio a evitare attacchi dai Pokémon selvatici. Fantastico. Ovviamente le fonti utilizzate sono altrettanto clamorose: Filogenesi e storia evolutiva dei Pokémon pubblicata su “Annali della ricerca improbabile”; oppure La risata è una medicina inefficace contro il COVID pubblicato sul “Taiwan Journal of Anesthesiology”; Fobia dei pipistrelli e sue applicazioni nella lotta al crimine pubblicato da tale Bruce Wayne; Similitudini tra politici e orsi di fantasia a firma di Winnie the Pooh; oppure Effetti dell’esposizione alle acque reflue sulle abilità nelle arti marziali nelle tartarughe pubblicato da Leonardo da Vinci. Insomma, non serviva mica la peer review per accorgersi della fiorente fantasia del testo. Bastava leggere un rigo a caso. Nemmeno quello? Ma c’è qualcosa di ancor più tragicomico in questa storia. Poco dopo la pubblicazione, la ricerca sugli Zubat era già stata citata da un altro articolo, che per di più tra le sue fonti aveva inserito una di quelle fonti inventate! Il colpevole era l’“International Journal of Engineering Research & Technology”... una rivista predatoria di ingegneria! Ci sarebbe da ridere, se non avessi il volto rigato di lacrime. Sotto lo pseudonimo di Mattan Schlomi, Matan Shelomi ha pubblicato svariati articoli di fantasia, uno più demenziale dell’altro e tutti a tema Pokémon, sputtanando così numerosissime riviste predatorie. Purtroppo non basterà questo a fermarle. Ora lo capite il dolore che provo quando vedo dare credito a certi pericolosi cialtroni sul web perché impugnano riviste come l’“American Journal of Biomedical Science & Research” per vendere integratori alimentari allo scroto di muflone? Compatitemi. L'idrossiclorochina al monopattino. Le riviste predatorie sono fra le maggiori cause di infodemia e i danni che producono a livello sociale sono inquantificabili. Basti pensare all’idrossiclorochina, farmaco antimalarico che durante la pandemia da Covid è stato elevato allo status di “efficace” contro la malattia. Non una prova scientifica a supporto della tesi, ma un vero bombardamento mediatico, culminato con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che afferma di assumerla da oltre una settimana in via preventiva. In Francia il movimento Laisson les médecins prescrire (Lasciamo che i medici prescrivano) si batteva violentemente per renderne possibili le prescrizioni. Per dimostrare l’efficacia del farmaco si sbandierava un articolo dell’“Asian Journal of Medicine and Health”. Per verificarne l’attendibilità, i due neolaureati Mathieu Rebeaud e Florian Cova scrissero un sentitissimo articolo dal titolo Il SARS-CoV-2 è inaspettatamente più letale dei monopattini a spinta: l’idrossiclorochina potrebbe essere l’unica soluzione? La rivista lo pubblicò senza batter ciglio, nonostante nelle conclusioni si affermasse che, stando ai risultati, “il trattamento con idrossiclorochina era associato a minori probabilità di incidenti con monopattini”. La rivista in questione lo pubblicò nonostante alcune note surreali (ancor più surreali del titolo stesso). Si diceva, ad esempio, che “gli studi 1 e 2 sono stati condotti sulla sedia dell’ufficio degli autori (Ikea) in Francia, il 20 luglio 2020”. O ancora: “Lo studio 2 è stato escluso dall’analisi e da questo documento poiché non ha prodotto risultati (ovvero i risultati che volevamo)”. Uno degli istituti fittizi di appartenenza degli autori era il Belgian Institute of Technology and Education (ovvero BITE, “cazzo” in francese). Inoltre uno dei nove autori dello studio era Nemo Macron, il cane dell’allora presidente francese. Dopo la pubblicazione dell’articolo di fantasia gli autori hanno rivelato pubblicamente su Twitter la riuscita dello scherzo. L’articolo è stato rimosso. Adesso capite perché più di duecento articoli sul Covid sono stati ritirati a marzo 2022? La scienza è una giungla. Come funziona allora questa fantomatica peer review, ovvero “revisione tra pari”? Una volta inviato un articolo scientifico, l’editore ha due possibilità: scartarlo da subito (perché non interessante, non pertinente alla rivista, o perché scritto con i piedi e fa schifo), oppure accettarlo. In questo caso, si passa alla revisione. In genere, per ogni articolo ci sono due o più revisori, scelti tra i migliori esperti disponibili sullo specifico argomento trattato. Il tutto avviene nell’anonimato per evitare conflitti di interessi: il revisore non conosce l’identità dell’autore o degli altri revisori, e viceversa. Metodi e contenuti dello studio sono messi sotto la lente d’ingrandimento. È per questo che un articolo a volte necessita di anni per vedere la luce. Potrebbero essere necessari molti passaggi per chiarire gli eventuali dubbi. Può succedere che i revisori chiedano di ripetere esperimenti o di aggiungerne altri. Altre volte, semplicemente, si rendono conto che l’articolo ha gravi lacune e lo rigettano. È per questo che quando mi parlano di metodo Stamina contro le malattie neurodegenerative o di agricoltura biodinamica/metodo Di Bella per curare i tumori io faccio cascare a suon di bestemmie tutti gli Zubat del calendario Pokémon e mi ubriaco piangendo in posizione fetale. È chiaro che gli autori di queste fantomatiche scoperte non hanno nessuna voglia di pubblicare articoli su giornali peer reviewed. La cialtroneria verrebbe sgamata! Molto meglio vendere il metodo a chi non ha gli strumenti per capirlo. So’ soldi. Ma allora vi chiederete: come si può distinguere una rivista scientifica vera da una predatoria? Be’, il metodo più semplice è quello di rifarsi all’impact factor, cioè la frequenza con cui l’articolo medio di una rivista è stato citato in un determinato anno. Parliamo di una vera e propria unità di misura per valutare la reputazione di una rivista. Il “New England Journal of Medicine”, il “Journal of Political Economy” o il “Reviews of Modern Physics” non accetterebbero mai un articolo senza valutarne in dettaglio la metodologia e i contenuti, contestandone anche i risultati, se considerati deboli. Il principio di autorità nella scienza non esiste, per questo è indispensabile che gli scienziati mettano in dubbio anche le riviste più prestigiose. È successo a Yoshiki Sasai, che pubblicò su “Nature” incredibili scoperte sulle cellule staminali con esperimenti anche molto convincenti. Peccato che nessuno nel mondo riuscisse a riprodurre gli stessi risultati, il che fece venire a galla lo scandalo e la rivista fu costretta a ritirare gli studi. Ma questa è solo un’altra delle bellezze della scienza moderna. Con centinaia di migliaia di ricercatori in tutto il mondo, qualcuno finirà inevitabilmente per scoprire se hai detto una cavolata.

Quindi sì, l’impact factor è sicuramente utile, ma la possibilità che un predatory journal si attribuisca impact factor inventati è un altro rischio. Allora che altro possiamo fare per non lasciarci inghiottire dall’infodemia? Be’, su Google abbondano i siti in cui le liste di predatory journals vengono costantemente aggiornate.

Un’occhiata a questi elenchi prima di divulgare un articolo può essere una buona soluzione. Altrimenti ci si può sempre documentare sul team di autori. Autori affiliati a prestigiose università e che hanno pubblicato su ottime riviste non hanno nessun interesse (né bisogno) a pubblicare con predatory journals, anzi, ne sono orripilati.

Capitolo 5 (L. Perri). Con le mani con i piedi e con il clima ciao ciao “Una litania di promesse climatiche non mantenute. Impegni vuoti che ci consegneranno un mondo invivibile. Stiamo viaggiando ad alta velocità verso un disastro climatico. Non è una fiction o un’esagerazione, è quello che la scienza ci dice e che risulterà dalle attuali politiche energetiche. Arriveremo a raddoppiare il grado e mezzo di riscaldamento globale. Certi governi e uomini d’affari dicono una cosa e ne fanno un’altra. Detto in maniera semplice: stanno mentendo. Non stanno solo mentendo, stanno anche alimentando la fiamma. Stanno soffocando il nostro pianeta con i loro interessi e investendo sui combustibili fossili, quando le rinnovabili sono soluzioni più convenienti, generano posti di lavoro e sicurezza energetica. Gli attivisti climatici sono a volte presentati come pericolosi radicali, ma i veri pericolosi radicali sono coloro che stanno aumentando le emissioni. Investire in nuove infrastrutture per i combustibili fossili è moralmente ed economicamente una follia. Ma non deve andare per forza così. Dobbiamo triplicare la velocità della transizione verso le energie rinnovabili”. A dire queste parole non è un qualunque eco-nazista arrabbiato dopo aver incontrato Jovanotti su una spiaggia, ma il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. Verrebbe da pensare che, se una persona che ricopre una tale – delicata – carica si spinge ad affermazioni così forti, forse un motivo ci sarà. Il dibattito – mediatico, non scientifico – sul cambiamento climatico continua oramai da molti anni senza esclusione di colpi, in un continuo scambio di accuse fra le parti: allarmismo contro insabbiamento, troppo estremismo contro troppo immobilismo, fiducia in dati non affidabili contro diffusione di dati falsi e fake news. Potremmo scrivere un intero libro solo su questo, ma siccome lo abbiamo già fatto e lo hanno fatto in moltissimi, cerchiamo di essere più rapidi possibile nell’esporre i fatti. Perché, come detto, il dibattito è una questione mediatica, ma sarebbe bene partire da quelli che sono i dati scientifici. E non di uno o due studi fatti da chissà chi, ma da decine di migliaia di studi. IPC-Che...? Nel 1988 due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM) e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), fondarono il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC), un forum che ha come obiettivo lo studio del riscaldamento globale. La definizione “forum scientifico” è da intendersi come “riunione pubblica per discutere un argomento”, non come programma televisivo in cui pessimi attori si scannano davanti a un giudice in pensione. E quelli dell’IPCC si vedono dal vivo, non su un portale internet. O meglio, magari sì, ma non solo. Insomma, dai, ci siamo capiti. L’IPCC è organizzato in tre gruppi di lavoro: il gruppo I si occupa delle basi scientifiche dei cambiamenti climatici; il gruppo II degli impatti dei cambiamenti climatici sui sistemi naturali e umani, delle opzioni di adattamento e della loro vulnerabilità; il gruppo III analizza il tema della mitigazione dei cambiamenti climatici, in pratica delle strategie di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Va sottolineato che i gruppi non svolgono direttamente attività di ricerca, monitoraggio o raccolta dati: l’IPCC fonda le sue valutazioni sui rapporti delle maggiori istituzioni mondiali e sulla letteratura scientifica pubblicata in seguito alla revisione tra pari. Questo processo nasce non solo per individuare studi fallaci (o volutamente falsificati), ma anche per imporre agli autori degli articoli un superiore livello di qualità. Le pubblicazioni e i progetti di ricerca non soggetti a una revisione tra pari non vengono generalmente considerati validi dalla comunità scientifica. La stessa accortezza non ce l’hanno i media, che invece diffondono gli articoli indipendentemente dalla peer review, purché si possano tradurre in titoli sensazionalistici che creano discussione (coff coff... gestione mediatica della pandemia... coff coff...). Tornando all’IPCC, questo forum, a partire dagli studi affidabili presenti, produce periodicamente dei report. Diciamo uno ogni cinque-sette anni. Perché la scienza, al contrario dei media, non può correre e rischiare di dire cose a caso. Per carità, succede eh, ma quantomeno si cerca di evitarlo. Inutile specificarlo, ma in realtà no, tutti i rapporti tecnici dell’IPCC vengono a loro volta sottoposti a procedure di revisione tra pari. Quindi questi report non sono pareri di un chimico o un fisico a caso (non ci si sta riferendo solo agli autori di questo libro, ma ci arriviamo). Sono lavori imponenti portati avanti di volta in volta da centinaia di persone, che con estrema affidabilità restituiscono una panoramica completa su ciò che la comunità scientifica mondiale conosce a proposito dei cambiamenti climatici. Senza indugi. Il Sesto rapporto IPCC (AR6) è stato definito dal segretario generale dell’ONU, quell’António Guterres di cui abbiamo già parlato, “un atlante della sofferenza umana”. Bene, ma non benissimo. Lo studio del gruppo I è stato pubblicato nel 2021, quelli degli altri due l’anno seguente. Al primo capitolo, dedicato alle basi fisiche e scientifiche del cambiamento climatico, hanno lavorato duecentotrentaquattro autori e autrici di sessantacinque paesi, che hanno analizzato e valutato quattordicimila pubblicazioni scientifiche, scrivendo settantottomila commenti in tre diverse fasi di revisione. Insomma, un lavoretto a modo. Nel report è possibile leggere due frasi cruciali: “È inequivocabile che l’influenza umana abbia aumentato le temperature dell’atmosfera, degli oceani e della terra”; “Estesi e rapidi cambiamenti sono già avvenuti”. Nella prima frase notiamo il termine “inequivocabile”. Un termine in realtà non del tutto scientifico: nella scienza la certezza al 100% di un qualcosa non esiste per definizione. Persino il fatto che in questo momento esista la forza di gravità a tenerci coi piedi per terra deve poter essere messo in dubbio (ti ricordi il principio di falsificabilità di Popper?). Al massimo, nella scienza, si usa il concetto di virtually certain, cioè praticamente certo. Ma allora perché ricorrere al termine “inequivocabile”? La risposta è: per lanciare un messaggio anche politico e mediatico, oltre che scientifico, così da spazzare via le incertezze decisionali e porre un punto alla narrazione mediatica della comunità

scientifica divisa sulla questione climatica. Vero, è una forzatura: in un mondo ideale fatto da montagne di bignè e fiumi di crema chantilly si potrebbe parlare sempre e solo di dubbio come parte fondante della scienza non come scusa per sparare qualunque asserzione a caso, chiedendo di essere smentiti invece che portando prove delle proprie affermazioni. Ma le montagne possono essere fatte di rifiuti e i fiumi di liquami, e vedrai che alla prima frase “siamo sicuri al 99% che funzioni così”, ci sarà chi dirà: “Ecco, non ne hanno mica una certezza, è solo una loro interpretazione!”. La seconda frase contiene una parola importantissima: “già”. Uno dei grossi problemi quando si parla della crisi climatica è il fatto che spesso l’opinione pubblica la intende come una questione lontana sia nello spazio che nel tempo (anche perché questa percezione viene volutamente stimolata). Vedere un orso polare su un iceberg che si sta fondendo è spiacevole, potremmo dire commovente... ma tutto sommato un qualcosa che non ci riguarda nella vita quotidiana. Scesa la prima lacrima, dunque, ce ne preoccupiamo molto poco, o comunque meno rispetto ad altro. A inizio 2022 un rapporto ONU ha rivelato che quattro miliardi di persone (più di metà della popolazione mondiale) vivono oggi in condizioni di grave scarsità d’acqua, non disponendo di approvvigionamento idrico sufficiente a soddisfare i bisogni primari per almeno un mese all’anno. Fra questi, due miliardi bevono acqua da falde contaminate. I pochi venuti a conoscenza del dato – abbastanza ignorato dai media – si sono indignati, intristiti, hanno aggrottato la fronte, e poi hanno continuato a vivere la propria vita, convinti che per loro l’acqua sia un bene inesauribile a cui poter attingere aprendo semplicemente un rubinetto. Poche settimane dopo, però, dopo oltre tre mesi senza piogge e con temperature più alte di oltre due gradi sopra le medie stagionali, il Po era in secca peggio di come è solitamente ad agosto. In alcuni punti lo si poteva addirittura attraversare a piedi, fra imbarcazioni, mezzi e bombe della Seconda guerra mondiale che riaffioravano dopo oltre settant’anni. Sul fiume Oglio, fra le province di Mantova e Cremona, hanno fatto capolino per la prima volta dopo qualche millennio i resti di palafitte risalenti all’Età del Bronzo. In quel momento, incredibilmente, la nostra prospettiva è cambiata un pochino. Allarmi in televisione, politici che invitavano a non consumare acqua e promettevano rinnovamento delle reti idriche, agricoltori che chiedevano lo stato di emergenza, scienziati che invitavano a fare meno docce, ordinanze contro fontane pubbliche e piscine private, divieti di lavare le auto e irrigare giardini, vescovi a pregare per la pioggia... Improvvisamente l’Italia si è resa conto di essere sì il paese europeo più ricco d’acqua, ma anche quello che la gestisce peggio, sprecando quasi la metà di quella che eroga. Da un giorno all’altro, ci siamo resi conto che una risorsa che davamo per scontata sta diventando sempre più scarsa e sempre più contesa, e forse dovremmo prendercene maggiormente cura. È bello avere queste consapevolezze, ti rendono una persona diversa. Per venti minuti. Passati i primi allarmi (e dopo qualche acquazzone), infatti, quasi tutti se ne sono dimenticati. Fino ai prossimi mesi di siccità, in cui certamente ci faremo trovare pronti... a lamentarci nuovamente di un’urgenza del tutto imprevedibile. Il problema è che appena l’emergenza rientra, il nostro bias del presente ci inchioda a goderci la normalità ritrovata, e tanti saluti a ciò che potrebbero essere i vantaggi futuri nell’agire. Se poi sentiamo parlare di azione entro il 2030, il 2050 o addirittura entro la fine del secolo... Con le mani, con i piedi, col cervello ciao ciao! Già non so se arrivo all’anno prossimo, devo stare qui a preoccuparmi del 2050? O della fine del secolo che nemmeno vedrò?! Comunicare quindi che i cambiamenti climatici non sono un problema futuro, ma stanno già avvenendo e stanno già cambiando casa nostra, è un’urgenza assoluta, per far capire alle persone – e ai politici – che non possiamo più rimandare le nostre decisioni. Insomma, chi dorme non può pigliare pesci, se nel frattempo il fiume cessa di esistere. I dati, oggi. “Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie”, diceva l’astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan. Una frase che andrebbe incisa in ogni edificio, dato che come abbiamo visto il nostro andazzo è invece sparare cose a caso sfidando il mondo a smentirci. Abbiamo davvero le prove per dire certe cose sul clima? Secondo le quattordicimila pubblicazioni analizzate solo dal gruppo I, sì. Prendiamo i dati delle temperature dal 1850 in poi. Perché dal 1850? Principalmente per due ragioni. Per partire un po’ prima della seconda rivoluzione industriale – che viene fatta convenzionalmente iniziare dal 1870 con l’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio – così da poter studiare gli effetti dell’industrializzazione umana. Il secondo motivo è che, banalmente, prima del 1850 scarseggiavano dati scientifici affidabili. Se si fa una media delle temperature globali nel cinquantennio 1850-1900, e poi si analizzano i dati delle temperature dal 1850 al 2020, è possibile capire quanto, rispetto alla media di base, le temperature globali siano variate in centosettant’anni. E cosa si scopre? Che le temperature osservate iniziano a essere costantemente sopra la media (e con un aumento via via più marcato) più o meno dagli anni trenta del Novecento. Parliamo di dati osservati e molto poco contestabili, non di modelli previsionali che qualcuno potrebbe insinuare non siano corretti. A questo punto però bisogna capire se l’incremento della temperatura sia legato alla presenza umana oppure a fattori naturali, come per esempio l’attività vulcanica o quella solare. Sono quindi stati sviluppati due modelli previsionali, a partire dai dati dell’Ottocento: in uno si contavano solo i cosiddetti driver naturali, ovvero i fenomeni naturali che potrebbero influenzare il clima; nell’altro modello, invece, si teneva conto sia dei driver naturali che di quelli antropici, cioè delle emissioni legate agli esseri umani. Le temperature previste dai due modelli nel periodo che va dal 1850 al 2020 sono state poi sovrapposte con i dati effettivamente registrati. Il risultato è decisamente chiaro: il modello che tiene conto solo dei driver naturali non spiega in alcun modo i dati osservati, mentre quello in cui si aggiungono i driver antropici ne ricalca perfettamente l’andamento, in un incremento che si avvicina al grado e mezzo di aumento della temperatura media globale. Grado e mezzo che, da anni, è la soglia identificata dalla comunità scientifica come limite oltre il quale gli

effetti del clima diventeranno nefasti per le popolazioni e per interi ecosistemi. Grado e mezzo che non solo supereremo, ma che potremmo anche doppiare o triplicare se continuiamo a fare molto poco. Giusto per dare un’idea... Secondo le Nazioni Unite 828 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2021; è quasi il 9,5% della popolazione mondiale: 46 milioni di persone in più rispetto al 2020 e 150 milioni in più del 2019. Si stima che con un aumento della temperatura di due gradi, a queste persone se ne sommeranno altre 189 milioni. A quattro gradi l’effetto sarebbe dieci volte peggiore, con un ulteriore 1,8 miliardi di esseri umani che non avranno cibo. I dati, ieri. Nel report IPCC che ha analizzato questo e molti altri studi si legge che la portata dei recenti cambiamenti nel sistema climatico è “senza precedenti da molti secoli e in molte migliaia di anni”. Per evitare che però qualcuno possa immediatamente controbattere con la sempreverde frase “Il clima è sempre cambiato, signora mia!”, si possono analizzare anche le variazioni della temperatura media globale durante un arco di duemila anni ricostruite dalla paleoclimatologia. Si può vedere che la temperatura ha sì subito delle piccole fluttuazioni, ma in questo momento sta tracciando un picco in un periodo di tempo ristrettissimo per quelli che sono i normali andamenti naturali. Picco che peraltro ha raggiunto un’altezza che – con buona pace di alcuni sedicenti scienziati dei salotti televisivi – non ha precedenti in decine di migliaia di anni: l’innalzamento di temperatura maggiore negli ultimi centomila anni – che si è verificato seimilacinquecento anni fa – è infatti stimato in massimo 1 °C. Quindi tutte quelle frasi tipo “La Groenlandia si chiama ‘terra verde’ perché quando l’hanno scoperta i vichinghi era verde” sono fake news. So che la cosa potrà turbarti, ma sì: il nome “terra verde” fu una campagna di marketing di Erik il Rosso in cerca di abitanti per gli insediamenti che voleva costruire nelle terre appena scoperte. Chi non muore si riscalda. Il capitolo del report IPCC stilato dal gruppo II è dedicato agli impatti, all’adattamento e alla vulnerabilità di fronte al cambiamento climatico. Per redigerlo, duecentosettanta autori e autrici di sessantasette paesi hanno valutato trentaquattromila pubblicazioni scientifiche, scrivendo sessantaduemila commenti in tre fasi di revisione. Il risultato mostra quanto la rapida accelerazione e l’aumento della portata degli impatti climatici stiano avendo conseguenze sempre peggiori sul fronte ambientale e socioeconomico. Cosa che purtroppo sarebbe già sotto gli occhi di tutti noi, se non li chiudessimo. Nella primavera del 2022 India e Pakistan si sono piegati sotto un’ondata di caldo insostenibile. In alcune zone dell’India sono stati raggiunti i 47 °C già alla fine di aprile, il più caldo dall’inizio delle registrazioni, centoventidue anni fa. Preceduto dal marzo più rovente di sempre. Contemporaneamente gli abitanti della regione pakistana del Belucistan hanno sofferto per settimane un caldo che sfiorava quotidianamente i 50 °C. Temperature che di solito non si registrano prima di giugno, in quei luoghi che comunque sanno essere caldini ma che lo sono sempre di più. Nel 2021 la città pakistana di Turbat ha fatto registrare la temperatura più alta del mondo per maggio, ovvero 54 °C. Quella di Jacobabad era già stata definita “invivibile” da Amnesty International nel 2021, con temperature di 52 °C. Il tutto accompagnato da ondate di decessi legati al caldo. Si stima che già oggi almeno il 10% delle morti nel mondo possa essere attribuito a temperature estreme (sia troppo calde, sia troppo fredde); parliamo di cinque milioni di vittime. E poiché si è calcolato che il 37% delle morti da caldo negli ultimi trent’anni è imputabile al cambiamento climatico, ciò significa che dagli anni novanta a oggi il riscaldamento globale ha già provocato milioni di decessi. In un articolo intitolato The Mortality Cost of Carbon, Raymond Daniel Bressler della School of International and Public Affairs, Columbia University, ha stimato il numero di decessi aggiuntivi che la crisi climatica potrebbe comportare entro la fine del secolo, se non cominciamo davvero a darci una mossa con la mitigazione dell’emergenza: circa ottantatré milioni. Cifra che potrebbe essere ridotta a nove, se davvero ci impegnassimo a fare qualcosa con la decarbonizzazione entro il 2050. Ma io so di aver già perso la tua attenzione, per aver scritto “fine del secolo” e “2050”. Non ci saranno più le mezze stagioni. Cerco di recuperarla introducendo un argomento piacevole: una popolazione sferzata sempre più da condizioni climatiche avverse, a un certo punto potrebbe capire che continuare a vivere lì non sia la scelta più felice. Una fetta di persone potrebbe quindi abbandonare la propria casa per cercare territori meno ostili. È il fenomeno della migrazione climatica. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite, almeno un miliardo e mezzo di persone dovranno spostarsi entro il 2050. E c’è chi ne prevede tre miliardi nel 2070. A ogni grado in più di temperatura, circa un miliardo di esseri umani si troveranno ad affrontare estreme difficoltà per vivere in luoghi abitati da millenni. E se dovessimo fallire con le contromisure per arrestare le emissioni di gas serra, raggiungendo entro fine secolo un aumento di quattro gradi, il pianeta diverrà completamente irriconoscibile agli occhi degli esseri umani. Per l’emisfero boreale, i territori sotto il 45mo parallelo andranno incontro a condizioni estremamente problematiche. Il 45mo parallelo Nord è quello che passa da Torino, quindi stiamo dicendo che da sotto il Po, con le mani, con i piedi e con la fortuna ciao ciao. Grecia, Spagna, buona parte degli Stati Uniti e tutto ciò che sta a Sud, ciao ciao. Però, ehi, se hai intenzione di reincarnarti in un microrganismo, sei comunque a posto. Ma anche in questo caso, starai forse pensando: “Spiacevole, ma prima ci devo arrivare al 2050. Nel caso ci penserò”. Qualcuno però ha già dovuto iniziare a pensarci e a correre ai ripari. Nel 2019 il governo indonesiano ha annunciato la decisione di spostare per intero la capitale Giacarta. Perché? Perché sta affondando. E non lentamente, di uno-due centimetri l’anno, ma di venticinque! Quindi, migrazione di massa in una nuova metropoli che si chiamerà Nusantara, su un terreno più alto nel Borneo. Un’operazione che richiederà non solo molti anni, ma anche molti soldi. Tipo 28 miliardi di euro. Sempre che riescano a convincere la popolazione, visto che il 95% delle persone si è dichiarata contraria all’esodo forzato in un sondaggio dell’agosto 2019. Nel frattempo Kiribati, lo stato formato da trentatré atolli nel Pacifico, ha comprato delle terre nelle Fiji per affrontare l’innalzamento del livello del mare. L’ex presidente Anote Tong ha parlato di “un’emigrazione dignitosa”, ma non per questo meno dolorosa. Si può fare. Infine, l’ultimo capitolo del rapporto IPCC è stato redatto dal gruppo III, composto da duecentosettantotto autori e autrici di sessantacinque paesi. È dedicato alla mitigazione del cambiamento climatico e ha vagliato diciottomila pubblicazioni, producendo cinquantanovemila commenti nelle consuete tre fasi di revisione. Il testo in realtà non sostiene alcuna specifica azione di mitigazione, ma

mostra il potenziale delle diverse azioni già avviate o possibili nel breve futuro, valutando i pro e i contro, le barriere e i potenziali benefici di ogni strategia in termini di riduzione dei gas climalteranti. Il messaggio principale di questa sezione del report è che senza azioni di mitigazione urgenti, efficaci e anche eque, la crisi climatica minaccerà sempre più la salute e i mezzi di sussistenza umani, ma anche gli ecosistemi e la biodiversità in tutto il mondo. Un altro messaggio, rivolto soprattutto alle nazioni e ai decisori politici, è che c’è una possibile sinergia fra azione per il clima e obiettivi di sviluppo sostenibile. Ci sono anche i capitali e la liquidità sufficienti per colmare il divario fra gli investimenti globali necessari e quelli finora previsti. Quindi la sfida è affrontabile. Avremmo tutte le carte in regola: la consapevolezza, le conoscenze, i fondi e i mezzi. E, visto che non voglio darti solo brutte notizie, sappi che per esempio in Italia qualcosa la stiamo facendo. Certo, potremmo migliorare in molte cose, ma ci stiamo impegnando per davvero. L’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), oltre ad avere un nome pratico da ricordare e da annunciare, fa anche delle ricerche interessanti. In uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Atmosphere” ha valutato l’efficacia delle politiche e delle misure riguardanti la qualità dell’aria introdotte dall’attuale Programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico del ministero della Transizione ecologica. E ha scoperto che l’Italia sembra essere avviata a centrare gli obiettivi del 2030 di riduzione delle emissioni dei principali inquinanti atmosferici. Se tutto va come deve andare, potremmo ridurre il biossido di zolfo dell’80%, con un obiettivo a livello di Unione europea del 71%. Meno 70% di ossidi di azoto (target UE: 65%). Polveri sottili PM 2.5 ridotte del 42% (target UE: 40%). Composti organici volatili non metanici: -50%, con target UE pari al 46%. E per finire, -17% di ammoniaca, con obiettivo europeo del 16%. Secondo l’analisi dell’ENEA, svolta dal team dell’Agenzia, oltre alla produzione energetica si sono impegnati il settore marittimo, quello del trasporto su strada, il settore civile e quello agricolo. Sul fronte della salute pubblica, tutto potrebbe portare a una drastica riduzione della mortalità causata da patologie aggravate o sviluppate per effetto dell’inquinamento dell’aria. In particolare, il calo delle concentrazioni di biossido di azoto potrebbe portare a una riduzione della mortalità rispetto al 2010 del 93%, salvando la vita a 10.976 persone. La riduzione dell’ozono consentirebbe di evitare il 36% delle 2692 morti del 2010, ovvero 967 casi in meno. Per non parlare del PM 2.5, la cui riduzione porterebbe al 41% di decessi in meno: 24.201 in meno rispetto ai 58.867 stimati del 2010. In questo caso le riduzioni più significative si avrebbero in Pianura Padana e nelle aree urbane di Firenze, Roma e Napoli. Tutte queste misure e questi effetti si tradurrebbero, sul fronte economico, in un risparmio complessivo di circa 33 miliardi di euro per il nostro paese, pari al 2% circa del PIL del 2010. A risparmiare di più sarebbe la Lombardia, con 13,6 miliardi di euro. A seguire il Lazio con 4,4 miliardi, il Veneto con 3,2 miliardi e l’Emilia-Romagna con 2,9 miliardi di euro. Insomma, ci si guadagnerebbe sia in salute nostra e dell’ambiente, che in quella del nostro portafoglio. Certo, se non riattiviamo tutte le centrali a carbone e non bruciamo tutti i combustibili fossili possibili per affrontare la crisi energetica, visto che buona parte della potenziale riduzione di ’sta roba zozza è legata alla produzione di energia. Ma cerchiamo di guardare al futuro con ottimismo: la nostra classe politica da sempre ci ha abituato bene, a decisioni sagge. Ma non ce la stiamo facendo. Ma non vorrei mai che ti sollazzassi con lo stesso entusiasmo e ottimismo verso la vita che mi pervade quando entro in una pasticceria. Perché a livello globale, a quanto pare, non stiamo proprio affrontando la sfida nella maniera migliore. Anzi, andiamo proprio nella direzione sbagliata. Secondo il rapporto United in Science 2022, coordinato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, le concentrazioni di gas serra in atmosfera starebbero continuando ad aumentare. Se eri per caso fra le persone che, con i primi lockdown della pandemia, si sono dette “Dai, almeno ridurremo le emissioni”, sappi che nella prima parte del 2022 abbiamo immesso anidride carbonica in atmosfera a ritmi superiori a quelli preCovid. A contribuire maggiormente alle emissioni – la cosa non dovrebbe stupirti – sono le città. Che però sono anche i luoghi più vulnerabili e soggetti agli impatti climatici. Nel frattempo, i sette anni più caldi mai registrati sono compresi fra il 2015 e il 2021 e c’è il 93% di probabilità che almeno un anno fra il 2022 e il 2026 risulti il più caldo di sempre. Anche perché, nella prima metà del 2022, le ondate di calore (e anche le inondazioni) sono peggiorate. Di questo passo, i punti di non ritorno del sistema climatico non solo non si possono escludere, ma iniziano anche ad avvicinarsi di corsa. “Senza un’azione molto più ambiziosa, gli impatti fisici e socioeconomici del cambiamento climatico saranno sempre più devastanti”. È questa la sconsolata (e sconsolante) conclusione del rapporto. Di quanto dovremmo incrementare i nostri sforzi, se vogliamo davvero rimanere sotto al grado e mezzo di aumento delle temperature globali? Di sette volte. Daje. Cosa non funziona? Come dicevamo, i dati non mancano. Volendo, abbiamo tutti gli strumenti per comprendere appieno la situazione in cui ci siamo cacciati. Per nominarne uno mai citato in questo capitolo, il report IPCC. Un materiale scientifico fondamentale, che però non è altrettanto efficace come strumento di comunicazione del cambiamento climatico. Perché ammettiamolo, quante volte ci capita in settimana di andarci a leggere qualche centinaio di pagine di report scientifici ultratecnici? Ecco, appunto. La comunicazione coinvolge un folto ventaglio di aspetti: dall’educazione all’informazione, dall’avvertimento alla persuasione, e solo dopo un’importante call to action si può aspirare alla risoluzione del problema. La comunicazione del cambiamento climatico è modellata da esperienze personali e collettive, pregiudizi, modelli culturali, valori e dalla molteplice e soggettiva visione del mondo. Comunicare è già di per sé un lavoro spesso ingrato, ma quando bisogna annunciare un problema la cosa non solo si fa complicata, è anche complessa: si ha a che fare con variabili dinamiche di individui, organizzazioni e istituzioni con conoscenze, politiche e culture talvolta molto divergenti. E tutto ciò prende spesso strade del tutto imprevedibili. È però attraverso questi processi che la società sviluppa consapevolezza e comprensione di un argomento (o interpretazioni, preoccupazioni e conseguenti decisioni). Gli scienziati, gli studiosi dei cambiamenti climatici e i divulgatori investono le proprie energie per comprendere ognuno di questi processi, per identificare strategie di comunicazione il più efficaci possibile per affrontare al meglio una sfida critica come quella del clima. Tutto fumo e Terra arrosto. Il problema, però, è che non sono gli unici a studiare queste dinamiche. Lo sforzo comunicativo della scienza, infatti, si scontra quotidianamente con una serie di individui ed entità intenzionati invece a inquinare il dialogo, creare confusione, diffondere dubbi nella popolazione chiamata a

prendere decisioni, e portare all’immobilismo, se non alla negazione del problema stesso. Gli storici della scienza Naomi Oreskes ed Erik M. Conway chiamano questi attori della disinformazione i mercanti del dubbio. Con l’evolversi del dibattito pubblico sulla crisi climatica, nel corso degli anni sono aumentate anche la raffinatezza e la gamma di strategie e argomentazioni utilizzate dai mercanti del dubbio per minimizzare o sminuire la necessità di agire. Ecco perché i discorsi che ne derivano vengono chiamati di ritardo climatico (climate delay), poiché spesso portano a un punto morto o alla sensazione che ci siano ostacoli insormontabili all’azione. Fase I. La prima fase di questo contromovimento scientifico è stata la totale negazione della realtà. Si è partiti con il mettere in dubbio l’esistenza del surriscaldamento globale, sminuendo i dati secondo cui le temperature sarebbero in aumento, i ghiacci si starebbero fondendo e i ghiacciai scomparendo. Poi si è passati a fare giochini subdoli. “Fuori si gela, dove diavolo è il ‘riscaldamento globale’??” (26 maggio 2013). Sono famosi i tweet di Donald Trump, ormai ex presidente degli Stati Uniti (ma potrebbe pure tornare a esserlo!), che ha sempre negato il global warming, cercando peraltro in ogni modo di contrastare a livello politico azioni di mitigazione del fenomeno. “Nel bellissimo Midwest, le temperature gelide stanno raggiungendo i meno 60 gradi, il maggior freddo mai registrato. Nei prossimi giorni, dovrebbe fare ancora più freddo. Le persone non possono resistere fuori nemmeno per qualche minuto. Che diavolo sta succedendo al Global Warming? Per favore torna presto, abbiamo bisogno di te!” (28 gennaio 2019). Potremmo continuare per ore, ma correggere la grammatica dei tweet di Trump per non farti sanguinare il naso è faticoso, quindi per il momento mi fermerei qui. Dal lato nostro, invece, abbiamo politici italiani (non voglio fare nomi, mi limiterò a salutare Matteo Salvini) che, in felpa, su Facebook sfoderano approfondite conoscenze scientifiche con affermazioni quali: “Ci hanno parlato di riscaldamento globale, ma non ricordo un maggio così freddo nella mia vita. Speriamo che arrivi, ’sto caldo!” (29 maggio 2019). E, in contemporanea, abbiamo anche testate giornalistiche (intese come quotidiani, non come le aggressioni che meriterebbero) sempre pronte a sottolineare qualche giorno freddo e, di conseguenza, offendere gli ambientalisti. È il caso di “Libero”, che qualche giorno prima dello show in felpa titolava Il brivido della realtà. Riscaldamento del pianeta? Ma se fa freddo, chiosando con un “Il termometro smentisce i gretini nostrani” (6 maggio 2019). Gli stessi giornalisti – gente che, ti ricordo, dovrebbero avere un codice deontologico – leggono solo una riga di tutte le rilevazioni degli ultimi decenni, magari quella dell’Italia del 1990, per poi scrivere Così le statistiche smentiscono i seguaci di Greta. Trent’anni fa faceva più caldo (13 febbraio 2020). Dove sta l’errore in tutto ciò? Nel fatto che ci sia ancora confusione – mi sia concesso dubitare della buona fede, dopo anni di richiami – fra meteo e clima, e si stiano paragonando effetti locali a effetti globali. Giusto per essere chiari... La meteorologia – disciplina scientifica che si occupa del meteo – studia l’atmosfera terrestre raccogliendo i dati di pressione, temperatura, umidità, vento, eccetera per calcolare la possibile evoluzione dell’atmosfera nel futuro. Un futuro molto vicino, però, di pochi giorni. Con questi dati si possono fare, per esempio, le previsioni del tempo, che ci dicono con un certo margine di incertezza quale situazione meteo ci potrebbe essere nei prossimi giorni. Al contrario, la climatologia – disciplina che si occupa del clima – analizza sempre l’atmosfera, ma con metodi e obiettivi completamente diversi: servono intervalli di tempo più lunghi, almeno di trent’anni, o ancora meglio secoli, millenni, o anche molto di più, se possibile. Tramite questi studi la climatologia cerca di definire il clima caratteristico di ciascun territorio, regione, località nel mondo, analizzando il passato, confrontando i dati con il presente e prevedendo quale sarà il suo possibile sviluppo nel futuro. Per fare un esempio, studiare il meteo serve a capire se domani in Brianza pioverà (la risposta, in genere, è sì) o ci sarà il sole (estremamente improbabile, nella nostra linea temporale in cui Iron Man ha sconfitto Thanos). Studiare il clima, invece, aiuta a capire se gli inverni di oggi sono più freddi di quelli dell’inizio del secolo o sono più caldi. Parlare di clima rifacendosi a una veloce ondata di freddo che ci colpisce per alcuni giorni, quindi, è come dire che un ragazzo non ha una dieta equilibrata solo perché oggi si è ingozzato di bignè. Bisogna vedere quante volte lo fa durante un mese o un anno e quanti vassoi mangia e cos’altro assume. Se alterna bignè ai soli maritozzi con la panna, allora forse deve rivedere la sua dieta. Se invece normalmente mangia cibi salutari e una volta, per il suo compleanno, si è dato ai bignè, la cosa è molto diversa. Insomma, una singola situazione meteorologica non determina affatto una tendenza climatica. E, soprattutto, una singola situazione o un insieme di situazioni locali non bastano a determinare una situazione globale. Il meteo – ma persino il clima – dove abito potrebbe pure essere divenuto molto più freddo, ma questo non implica che a livello globale le temperature non stiano salendo e che semplicemente nella mia zona ci sia un andamento contrario. Fase II. Quando la mole di dati a conferma del riscaldamento globale è diventata imponente, con migliaia o decine di migliaia di studi a smorzare ogni tentativo di negazionismo, la strategia dei mercanti è cambiata: il global warming esiste, ma non è provocato dai gas serra emessi dall’uomo. Fa parte di questo filone il grande mantra “Il clima è sempre cambiato”, tanto caro per esempio al giornalista Nicola Porro, che lo ripete spesso. Mantra che, abbiamo già visto, è del tutto infondato. “Dire che siamo noi i responsabili dei cambiamenti climatici è scientificamente infondato”, ha dichiarato il fisico Franco Prodi all’“Huffington Post” il 6 ottobre 2019. Prodi, che adora un sacco essere interpellato dai giornali, il 10 agosto 2010 aveva già rilasciato un’altra intervista a “Quotidiano Nazionale”, intitolata Clima, c’è chi non crede all’apocalisse, in cui veniva spiegato quanto sia “difficile stimare l’impatto dell’uomo” e come non ci sia “nessuna correlazione tra eventi estremi e aumento delle temperature”. È solo sfortuna, quindi. Oppure un caso imputabile ad altre ragioni. Una di queste sarebbe, secondo molti negazionisti, l’attività solare. Lo ha dichiarato per esempio l’Università Federico II di Napoli, lodando un’invited review di “23 scienziati esperti in fisica solare, astronomia e nei cambiamenti climatici” (di cui alcuni della Federico II, ovviamente) che contraddice tutte le conclusioni dell’IPCC. Solo che l’invited review in questione non è stata sottoposta

nemmeno lontanamente a revisione fra pari, e quindi per quanto ne sappiamo gli autori potrebbero aver selezionato solo gli studi per loro più convenienti. Una volta ho letto una definizione interessante delle invited review. Voglio condividerla con te: “Il mio campo, dal mio punto di vista, scritto da me usando solo i miei dati e le mie idee e citando solo le mie pubblicazioni”. Affidabile, no? Tanto per assecondare la Federico II, che peraltro annovera fra le sua fila degli ottimi ricercatori, andiamo a vedere se l’attività solare è aumentata. Giusto per capire se ’st’ipotesi ha senso. Secondo la comunità astrofisica, dal 2007 in avanti il Sole ha dormicchiato bellamente. Da inizio Novecento, soltanto tra il 1911 e il 1914 la nostra stella era stata così eccezionalmente pigra. Eppure, come si diceva, noi continuiamo a registrare anni caldissimi. Nella primavera del 2020, poi, il Sole è entrato in un minimo di attività. E, quasi a ricordarci di quante prove mancano per verificare il legame col surriscaldamento terrestre, è arrivato un nuovo record: nel giugno 2020 a Verchojansk, in Siberia, nel Circolo Polare Artico, si sono raggiunti i 38 °C. E questo dopo che a maggio le temperature registrate erano state le più alte mai rilevate globalmente e in Siberia si era rimasti 10 °C sopra la media. Nell’agosto dello stesso anno, nella Death Valley in California è stata rilevata una temperatura di 54,4 °C, la più alta mai raggiunta dall’aria all’altezza del suolo terrestre in quasi un secolo. Dando a Cesare quel che è dei galli, però, va detto che l’attività solare nel 2022 ha preso ad aumentare, anche più di quanto non ci si aspettasse. Ma non nel senso che ora il Sole sta pompandosi flexando i muscoli, è solo che eravamo convinti che sarebbe rimasto in modalità “Homer Simpson che rutta sul divano” ancora per un po’, invece si è alzato a prendere un’altra birra. La sua attività, comunque, è inferiore a quella dei primi anni duemila. O dei primi anni novanta. O dei primi anni ottanta. Ti dirò di più: se va bene sarà pari a quella fra il 2010 e il 2015, che come si diceva non è che proprio abbia fatto gridare al miracolo. Nonostante questi dati, però, a portare avanti un “J’accuse!” al povero Sole c’è pure da anni il fisico Antonino Zichichi, il quale ama ripetere che il cambiamento climatico non è legato alle attività umane. O che al massimo dipende dalle attività umane per il 5%. Di solito accompagna queste esternazioni invitando Greta Thunberg a studiare quanto ha studiato lui. Ma non si fa mancare affermazioni quali “L’inquinamento va punito come reato, ma è da ciarlatani dire che modifica il clima” (“Il Giornale”, 5 luglio 2017). Fase III. Il terzo step della strategia comunicativa negazionista è quello che punta a mostrare come i cambiamenti climatici non siano poi così male. “In fondo sono solo pochi gradi di differenza, e in Brianza fa sempre freddo! E mo ti lamenti pure se ci sono due-tre gradi in più?!”. Si sostiene poi che la cosa non impatti sulla salute, che le specie si possono adattare tranquillamente. Gli oceani, poi, stanno bene come mai prima d’ora! Zichichi (e non solo) ogni tanto, quando i giornali smettono di parlare di lui per cinque minuti, si lancia in meravigliose apologie dell’anidride carbonica sostenendo che senza di essa la Terra sarebbe congelata. E poi è il cibo delle piante! L’anidride carbonica sarebbe dunque un gas benevolo, da preservare nell’atmosfera e non da demonizzare! Per carità, è vero che senza i gas serra, tra cui la CO2, farebbe un gran freddo. Dobbiamo ringraziare proprio l’effetto serra naturale se invece di una temperatura media di -18 °C ne abbiamo una quindicina. È vero inoltre che l’anidride carbonica è indispensabile per la vita e la fotosintesi delle piante. Potremmo anche definirla davvero un gas vitale per la nostra sopravvivenza. Ma da che Homo sapiens si è evoluto – trecentomila anni fa – la concentrazione di CO2 è sempre stata inferiore alle trecento parti per milione. Oggi abbiamo superato le quattrocentodiciassette parti per milione. L’essere umano, quindi, non ha mai respirato così tanta anidride carbonica da che è apparso sul pianeta. L’ultima volta che si sono avute queste quantità fu più di tre milioni di anni fa: la temperatura allora era 2-3 °C più alta rispetto a prima della rivoluzione industriale e il livello del mare era 15-25 metri più alto di quello odierno. La risposta migliore che ho mai avuto a questi dati è: “Sono parti per milione! Pochissime molecole! Che male vuoi che facciano?!”. Anche 117 milionesimi del mio peso corporeo di ricina sono poche molecole di veleno, ma sono quasi seicento volte la dose letale per un essere umano (che è pari a una parte su cinque milioni del proprio peso corporeo). Fase IV. Quarto passo: mostrare quanto le possibili soluzioni alla crisi climatica non possano funzionare. Si parte dicendo quanto le politiche di mitigazione e di adattamento siano costose. Tutti quei soldi, in un periodo di crisi economica, possono essere spesi in maniera migliore! Poco importa se gli studi della Banca Centrale Europea mostrano che il costo del non far nulla sul clima possa essere il 14% del PIL mondiale, mentre per investire nella transizione ecologica ne basterebbe il 2%. A questo punto i mercanti del dubbio fanno presente che queste politiche limitano la libertà dei cittadini, mettendo a rischio addirittura la nostra società! E poi in fondo sono anche azioni inefficienti, se non dannose, perché ad esempio possono influenzare i mercati. Ma poi, una nazione virtuosa in mezzo a tante altre non virtuose non cambierebbe nulla! La strategia benaltrista riassumibile con la domanda “E gli altri?” è l’esempio perfetto di quanto il climate delay attacchi sempre meno la scienza del cambiamento climatico, ma abbia ripercussioni sui tentativi di agire per contrastarlo. La conclusione è che, a ’sto punto, è meglio gozzovigliare e godercela il più possibile in attesa del disastro. Poi, solo quando costretti e se ci si riesce, adattarci. Una posizione che, paradossalmente, coincide con quella dei cosiddetti doomisti climatici, coloro che al grido di “Tutto è perduto!” si sono arresi a un declino ormai irreversibile, in cui nulla rimane da fare per cercare di salvare la situazione. Ma se non sei una persona troppo pessimista, o addirittura sei ottimista, i mercanti del dubbio hanno merce anche per te! Perché possiamo sempre attendere semplicemente una soluzione tecnologica. È la strategia dell’ottimismo tecnologico, che punta alla speranza che in futuro una nuova tecnologia, ancora da inventare, possa risolvere tutti i problemi, senza che noi ci si debba impegnare a fare alcunché! Al massimo dovremo applaudire l’Elon Musk di turno che verrà a salvarci. Quindi, nel frattempo, la soluzione è continuare a usare i combustibili fossili. Le modalità di utilizzo infatti stanno diventando sempre più efficienti e i costi di utilizzo sono bassi (fa ridere, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina), quindi i combustibili fossili saranno il nostro ponte verso future fonti rinnovabili realmente efficienti! Vanno notati a questo punto due aspetti.

Il primo è che le strategie comunicative di queste quattro fasi non vengono accantonate al sopraggiungere dello step successivo. Sono impiegate tutte, in un sapiente gioco alchemico dosato in modo diverso a seconda dei media con cui si comunica e in base al pubblico di riferimento. L’altro aspetto interessante è che le argomentazioni negazioniste non sono tutte composte necessariamente da fake news o da proposte irrealizzabili. Alcune sono affermazioni che andrebbero soppesate e valutate di volta in volta, con pro e contro, in una ricerca della possibile strada alla transizione ecologica. Eppure, sradicate dal proprio contesto originario e trasformate in slogan e verità assolute, servono solo a perfezionare una narrazione che, non potendo essere sempre smentita al 100%, finisce con l’apparire legittimata. Fase V: la soluzione finale. Per finire, quando le quattro strategie precedenti non sortiscono gli effetti desiderati, rimane l’ultima arma. Il grande classico dell’arte della dialettica: se non riesci a battere il tuo avversario con le tue argomentazioni o a smontare le sue tesi, attacca direttamente lui. All’interno di questa strategia sono individuabili tre filoni principali. Il primo è dipingere la scienza come inaffidabile: all’interno della comunità scientifica non sempre c’è consenso, i dati non sono precisi o sono modificabili, i modelli non sempre funzionano. A tal proposito sono famose le campagne denigratorie di Zichichi (lo so, sempre lui, ma non è mica colpa mia se ogni tre sue affermazioni, quattro sono discutibili!) verso la meteorologia e la climatologia. “Quando si parla di riscaldamento globale e si attribuisce alle attività umane la responsabilità di questo riscaldamento è necessario sapere quali sono le prove sperimentali a sostegno del modello matematico costruito ad hoc”, scrisse su “Il Giornale” il 13 luglio 2017, in un articolo intitolato Quelle bugie sul clima basate su formule errate. La meteorologia e la climatologia sarebbero solo discipline recenti, immature e inaffidabili. Gli fa eco negli anni Franco Prodi. Che, in un’intervista dell’1 novembre 2021 rilasciata a “Il Foglio”, dice di non fidarsi dei report IPCC: “Non possiamo basare tutte le nostre scelte su studi in cui gli effetti delle nubi, dell’aerosol fuori nube, dei gas poliatomici e così via vengono parametrizzati in modo grossolano”. Il secondo filone cerca di dipingere come inaffidabili i movimenti che cercano di mobilitare la società rispetto alla crisi climatica, o le persone che ne fanno parte e li rappresentano. “Greta continua a strillare perché il pianeta si scalda. Lei però vive in Svezia dove fa un freddo cane e dovrebbe essere contenta di godere di un po’ di tepore. Stupidina” (Vittorio Feltri su Twitter, 20 marzo 2019). Bergoglio in Vaticano: “Vieni avanti Gretina” La Rompiballe va dal Papa (“Libero”, 18 aprile 2019). “Di sicuro non diamo retta a una adolescente racchia e saccente come Greta, la quale poverina non è una scienziata e porta pure sfiga” (“Libero”, 6 maggio 2019). Anche il tempo si è rotto di Greta (“Il Tempo”, 6 maggio 2019). Devo continuare con gli esempi? Peraltro, in questi frangenti a essere denigrati sono spesso anche gli scienziati e i ricercatori, accusati di essere allarmisti e iettatori. Nell’estate del 2022 il meteorologo britannico John Hammond era ospite di un programma della rete televisiva conservatrice GB News per parlare dell’intensa ondata di calore che stava interessando il Regno Unito. Hammond stava spiegando che il grande caldo avrebbe causato molti disagi e la morte di “centinaia, se non migliaia” di persone, cosa già avvenuta in Portogallo e Spagna. A questa affermazione Beverley Turner, una delle conduttrici della trasmissione – negazionista climatica e contraria ai vaccini per il Covid – è intervenuta bruscamente: “John, dovremmo essere felici per il meteo e tutto il resto, non so che cosa sia successo a voi meteorologi per diventare tutti così fatalisti e messaggeri di sventure”. Cassandre iettatrici, queste persone che studiano il meteo! “Dai, non fare il musone tristone: dovresti essere felice di aver trovato un anello, considerando il prezzo attuale dell’oro! Hai capito, Frodo?”. Il chimico Franco Battaglia ha scritto quello che sono certo sia un interessantissimo libro chiamato Clima, basta catastrofismi. Riflessioni scientifiche su passato e futuro. Lo ha presentato anche alla Sapienza a Roma, quindi per forza deve essere una roba ad alto contenuto di scientificità. Nella presentazione in università, Battaglia spiega che “la comunità scientifica è divisa tra chi attribuisce tale aumento a cause prevalentemente naturali e chi invece ritiene che l’aumento sia causato principalmente dalle attività antropiche. I primi, in netta maggioranza, sono denominati scettici, i secondi catastrofisti”. È proprio un libro che dovrei comprare. Fammelo aggiungere alla mia lista dei desideri compilata con la mia macchina da scrivere invisibile. Infine, il terzo filone è quello che vuole dipingere il cambiamento climatico come un grande complotto della scienza o di chissà quale oscuro potere. A tal proposito ci sono post deliranti di Trump (davvero non ci sono troppi altri modi per definirli), tipo quello del 6 novembre 2012 per cui “Il concetto di riscaldamento globale è stato creato da e per i cinesi per rendere la produzione degli Stati Uniti non competitiva”. Abbiamo però anche esempi italici. “Cambiamenti climatici? Non credeteci. Ho visto le foto del bellunese, alberi caduti tutti uguali, pareva l’Ikea. La verità è che le catastrofi sono il nostro PIL, costruiamo e ricostruiamo”. A pronunciare queste parole, da un palco a Jesolo, a pochi giorni da una terribile frana in provincia di Belluno del novembre 2018, Beppe Grillo. Secondo il comico, quindi, sarebbe tutto un complotto per far girare l’economia. E io che prendo in giro i brianzoli, che vogliono solo fatturare! Secondo testate giornalistiche quali “Il Giornale”, invece, lo scopo del complotto sarebbe un altro: il 24 gennaio 2018 titola Ci mancava il “migrante climatico”. “Accoglieremo pure chi scappa dal caldo. Così la Ue darà rifugio a un miliardo di disperati”. Immagino per fare sostituzione etnica... Per fortuna, come riportato nell’articolo, a ergersi contro tale disegno malvagio c’è Matteo Salvini, che mentre finisce di domandarsi dove sia il riscaldamento globale si lancia anche in una fine analisi sociologica: “Cos’è il migrante climatico? Dove va? Se uno in inverno ha freddo e in estate ha caldo migra? Siamo seri. Ne abbiamo già tanti. Il migrante climatico è anche uno di Milano a cui non piace la nebbia?”. D’altra parte è normale che sia confuso: come spiega il quotidiano, “il cambiamento climatico non si sa bene cosa sia”. A difendere gli italiani contro Dieci anni di bufale sul riscaldamento globale è, a novembre 2019, il chimico Franco Battaglia sul blog di Nicola Porro. In un gas, all’aumentare della temperatura, le particelle tendono ad allontanarsi. Col riscaldamento globale, all’aumentare della temperatura, i negazionisti tendono invece ad avvicinarsi. Curioso. Franco Battaglia, comunque, è un comunicatore prolifico. Fra un articolo a difesa dei tweet di Trump (Ma quale gaffe. Sul clima ha ragione Trump del 30 dicembre

2017, “Il Giornale”) ed editoriali capaci di aprire gli occhi, o meglio di spalancarli per l’incredulità (Il global warming? Colossale falso storico, 11 agosto 2021, “La Verità”... eviterò battute sul nome del quotidiano). Infine, come non citare l’articolo perla scritto su “Il Giornale” l’8 gennaio 2009: Io fisico controcorrente vi spiego il bluff del riscaldamento globale, in cui si legge che “Franco Battaglia è uno dei quattro italiani tra i 650 scienziati firmatari dell’appello contro la bugia del cambiamento climatico indotto dall’uomo”. Eh sì, perché in Italia i nomi citati dai negazionisti sono sempre quattro gatti. Letteralmente, stavolta. Potremmo chiamarli I fantastici 4. Avrai forse notato che all’interno di queste strategie comunicative vengono sfruttate qua e là le figure di alcuni scienziati o enti scientifici per legittimare quelle posizioni per cui non si possono addurre reali dati a sostegno. I nomi in realtà sono sempre gli stessi e non si capisce come il parere di quattro-cinque (ma anche fossero venti) persone possa scardinare decine di migliaia di studi scritti da altrettanti – se non di più – autori in giro per il mondo. Però poi si leggono titoli come Zichichi e 20 scienziati contro le bufale del clima, scritto e sceneggiato da Antonino Zichichi (“Il Giornale”, 5 luglio 2017). Che è un po’ come se io scrivessi un articolo intitolato Perri, Barbascura X e altri 7 amici loro contro l’esistenza della gravitazione universale. Certo fa male ai due autori di questo volume constatare come la maggior parte delle figure scientifiche coinvolte in questi discorsi sia composta da fisici o chimici. Prendiamoci la colpa per la categoria. È però interessante constatare come raramente, o per nulla, i curriculum di tali figure includano studi sui cambiamenti climatici. Ciononostante fra i media che riportano le loro opinioni nessuno ne sembra turbato. Anzi, spesso tale requisito li rende estranei al grande complotto, quindi ancora più affidabili. Giusto per sbrigare rapidamente la faccenda, andiamo a vedere chi sono nello specifico queste persone. • Franco Battaglia: checché ne dicano i quotidiani a cui concede interviste, non è un climatologo. È un chimico con una cattedra di Chimica ambientale (che ricade sotto il settore scientifico-disciplinare CHIM/12 – Chimica dell’ambiente e dei beni culturali). • Franco Prodi: fisico, specializzato in microfisica delle nubi. Posto che non pubblica da moltissimi anni, non ha mai pubblicato nello specifico alcuna ricerca sul cambiamento climatico. • Antonino Zichichi: fisico delle particelle, non ha mai pubblicato ricerche sul cambiamento climatico. Ciononostante, per sfruttare in ogni modo il principio di autorità, sui social periodicamente girano dei post composti ad arte (tutti stranamente identici) che contrappongono il suo curriculum a quello di Greta. In questi si legge che “Antonino Zichichi, professore emerito di Fisica superiore nell’Università di Bologna, è autore di oltre 1.100 lavori scientifici, tra cui sette scoperte, cinque invenzioni, tre idee originali che hanno aperto nuove strade nella Fisica subnucleare delle alte energie, e cinque misure di alta precisione di quantità fisiche fondamentali”. Che faccio, lascio? Posto che, quando si fa parte di grosse collaborazioni scientifiche, è facile essere annoverati fra gli autori (assieme ad altre decine o centinaia di persone) di centinaia di pubblicazioni. Ma, comunque, nessuna di queste coinvolge lo stesso campo di studio dei climatologi. “Dal 1971 ha scritto più di 2.475 articoli in molti quotidiani e periodici italiani”, come se la grafomania fosse una prova a favore della validità delle proprie ipotesi scientifiche. “Dal 1974 ha tenuto più di 1.402 conferenze in chiese, cattedrali, centri culturali in Italia e all’estero”. AH, BE’, ALLORA HA RAGIONE PER FORZA. SPOSTATI, GRETA! • Carlo Rubbia: fisico delle particelle, premio Nobel per la fisica nel 1984. Ovviamente nemmeno lui ha mai pubblicato ricerche sul cambiamento climatico. È diventato però virale il video di un suo intervento al Senato il 26 novembre 2014, in cui spiega ai senatori che il clima è sempre cambiato. “Ai tempi dei romani Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei romani”. Ah, pure storico?! (semicit.). Qualcuno dovrebbe fargli presente che Annibale partì con trentasette elefanti e che trentasei probabilmente morirono per il freddo durante la traversata dell’arco alpino, assieme a buona parte dell’esercito. Sopravvisse solo un elefante, Surus: era l’animale di Annibale, il più forte e ovviamente quello più curato. Morì poco dopo, al suo arrivo in Toscana. LACRIME DI COCCODRILLO. Ok, ho mentito. C’è un’ulteriore strategia che viene applicata dai mercanti del dubbio: l’individualismo. Consiste nel far passare il messaggio che non sono i climate delayers i primi responsabili del climate delay, ma i singoli cittadini e consumatori. In pratica si scaricano sulle persone comuni le responsabilità della tragedia. È una strategia nata molto tempo fa, sempre legata al discorso ambientale. Oggi è difficile immaginare un mondo senza imballaggi monouso, ma prima degli anni cinquanta molti imballaggi venivano riutilizzati. Pensa solo alle bottiglie di vetro del latte, che venivano riconsegnate vuote, sterilizzate e riutilizzate. Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, molte aziende decisero di utilizzare imballaggi monouso per ridurre i costi. Le stesse aziende, però, non volevano certo assumersi la responsabilità dell’aumento di produzione di rifiuti. Da qui, l’idea di trasferire al pubblico le colpe. L’industria dell’imballaggio statunitense creò quindi una campagna pubblicitaria chiamata Keep America Beautiful, mantieni bella l’America. Era composta da annunci di servizio pubblico e il suo unico obiettivo era promuovere l’idea che i rifiuti sono colpa dei consumatori che li gettano a terra, non delle aziende che li hanno prodotti. Era un modo per far vergognare le persone dei propri comportamenti, facendoli invece sentire tranquilli nel comprare confezioni monouso, a patto che poi queste venissero gettate correttamente nella spazzatura. Due furono i principali spot della campagna: Susan Spotless (Susan senza macchia) e Crying Indian (l’indiano che piange). Susan Spotless era una giovane ragazza bianca vestita di bianco (il candore della pelle e dei vestiti rappresentavano la bontà e la purezza) che agitava il dito con disapprovazione verso gli adulti che inquinavano. Il motto era “Ogni piccolo rifiuto fa male”. C’era poi lo spot più famoso in assoluto, quello dell’indiano che piange. Ovviamente con “indiano” si intende “nativo americano”, attraverso l’uso di un termine che è un retaggio di un’epoca di razzismo, violenza e genocidio delle popolazioni indigene. Ma tanto la campagna era progettata dai bianchi, che sono puri in quanto bianchi. Che gliene fregava della delicatezza verso i nativi americani?

Ad ogni modo, la pubblicità ritrae un uomo in abiti tradizionali indigeni (in realtà un attore bianco italo-americano truccato) che pagaia su una canoa in un ruscello. Mentre segue la corrente, incontra sempre più spazzatura galleggiante. Quando l’imbarcazione giunge sulla riva e il protagonista scende dalla canoa, una persona in un’auto di passaggio getta un sacco di spazzatura fuori dal finestrino. La borsa atterra ai piedi del nativo, che alza lo sguardo verso la telecamera. Una sola lacrima scende a rigarne il volto, mentre una calda voce narrante dice: “Le persone hanno dato il via all’inquinamento, le persone possono fermarlo”. Va be’, ma che impatto potrà mai aver avuto questa roba?! L’immagine finale è stata definita la “lacrima più famosa della storia americana”. Dannate campagne di greenwashing! O greenwash, come dice Jovanotti. Questa comunicazione, però, era appunto un qualcosa di più del semplice ambientalismo di facciata. Serviva a instillare nella mente delle persone un dubbio: è colpa mia? La strategia del tabacco. I mercanti del dubbio, purtroppo, sanno fare bene il proprio lavoro. Anche perché le loro strategie sono state affinate negli anni. Le sigarette fanno male. Ne siamo tutti convinti. In realtà no, conosco diversi fumatori che si ostinano a dire che in fondo non fanno poi così male, ma diciamo che oggi c’è una diffusa consapevolezza del fatto che bene non facciano. Questa è però una consapevolezza che non si è maturata rapidamente, ma anzi si è conquistata con decenni di acceso dibattito mediatico. Da un lato del ring, la scienza supportata dai dati; dall’altro, le case produttrici di sigarette. “Il dubbio è il nostro prodotto, perché è il mezzo migliore per competere con il ‘corpus di fatti’ presente nella mente del grande pubblico. È anche il modo per stabilire una controversia”. È un promemoria interno del 1969 della Brown & Williamson, all’epoca una sussidiaria della British American Tobacco, una delle tre principali aziende mondiali produttrici di sigarette. Il promemoria faceva riferimento alla guerra di disinformazione che le industrie del tabacco intrapresero già dagli anni quaranta del secolo scorso per confondere l’opinione pubblica circa i pericoli del fumo e impedire l’adozione di misure restrittive del consumo di tabacco. I primi studi sui danni causati dal tabacco risalgono all’inizio degli anni cinquanta. L’incidenza del cancro al polmone stava vedendo un aumento notevole rispetto soltanto a vent’anni prima. Nel 1954, sul “Journal of the American Medical Association” arrivò lo studio più importante. Era curato da E. Cuyler Hammond e Daniel Horn, due esponenti dell’American Cancer Society. La ricerca si basava su quasi centoottantottomila uomini tra i 50 e i 69 anni e mostrò che i fumatori presentavano un rischio di morte superiore a quello dei non fumatori del 52%. In quel periodo storico la sigaretta era però letteralmente sulla bocca di tutti. Oltre il 40% della popolazione adulta fumava abitualmente: attori di Hollywood, ma anche medici su annunci e manifesti pubblicitari in cui addirittura si proclamava che il fumo facesse bene alla salute. Fra questi il dottor Clarence Cook Little, che dall’American Cancer Society passò all’improvviso e in maniera del tutto inaspettata alla direzione del Tobacco Industry Research Committee. Con la sua nuova veste, invitò alla cautela nel prendere sul serio gli studi che evidenziavano in modo costante i danni alla salute causati dal fumo. Nel 1954 partì la prima

campagna di massa: quattrocentoquarantotto organi di stampa, tra cui il “New York Times”, pubblicarono un’inserzione a pagamento in cui si ribadiva che non c’era accordo scientifico unanime sul legame tra il fumo e il cancro al polmone. Si erogarono anche finanziamenti a università e ospedali, istituendo progetti di ricerca e creando fondazioni che potessero produrre studi di parere contrario. Hammond e l’American Cancer Society nel 1959 iniziarono però un lungo studio, raccogliendo i dati di oltre un milione di uomini e donne in venticinque stati e trovando ulteriori prove conclusive sugli effetti dannosi del fumo. Questo portò al rapporto Smoking and Health, a cura del chirurgo generale degli Stati Uniti Luther Terry, nel quale venne messo nero su bianco che il fumo provoca il cancro al polmone. Ulteriori studi scientifici dimostreranno la dipendenza creata dalla nicotina, il legame del fumo con i tumori di stomaco, pancreas, reni, laringe e vescica, oltre a nuove evidenze circa i danni all’apparato cardio-circolatorio. Prima di avere delle politiche restrittive sul fumo, però, ci vollero decenni. Una sentenza del 2006, divenuta storica, ha stabilito che le industrie del tabacco hanno dato il via a “una lunga e illegale cospirazione per ingannare il pubblico americano circa gli effetti sulla salute del fumo e del fumo passivo, circa la dipendenza provocata dalla nicotina, circa i benefici delle sigarette ‘light’ a basso contenuto di catrame e circa la progettazione delle sigarette in modo da favorire la dipendenza da nicotina”. Nel frattempo, però, l’industria del tabacco aveva lucrato sulla morte di milioni di persone. Le dannate due campane. Un aiuto alla campagna di disinformazione sul tabacco fu la decisione del 1949, da parte della Federal Communications Commission, di introdurre la cosiddetta fairness doctrine, ovvero l’obbligo per le emittenti televisive di presentare tutte le posizioni relativamente a un dibattito di interesse pubblico. Una misura che nasceva per i dibattiti politici, ma che consentì a chi negava i danni del fumo di apparire lo stesso tempo di chi invece portava studi e dati scientifici. Questa idea dell’equilibrio tra posizioni diverse, del dover sentire “le due campane”, è tuttora presente nei nostri media. Poco importa se falsa completamente la percezione dei cittadini sul consenso scientifico su determinati argomenti. Nel caso dei cambiamenti climatici, la situazione è davvero paradossale. Un Battaglia qualunque può sostenere che la comunità scientifica sia spaccata sulla questione, nonostante diversi studi abbiano stimato che una percentuale che va dal 90% a oltre il 99% degli scienziati concordi sulle cause antropiche della crisi climatica. Difficile trovare casi di consenso maggiore, francamente. Una trasmissione televisiva ideale, quindi, non dovrebbe invitare un Battaglia a confrontarsi con una giovane rappresentante del movimento Fridays for Future, ma un Battaglia con novantanove scienziati (ma anche solo nove) a dirgli che le sue posizioni non hanno alcun senso e che sbraitare con arroganza non lo farà passare dalla parte della ragione. Ma ovviamente una trasmissione televisiva una cosa del genere non la farà mai. Perché il dibattito, anche quando artificioso, fa ascolti, attira click, scatena polemiche e interazioni da parte del pubblico. Ai media, insomma, piace. E questo lo sapeva anche chi il dibattito artificioso sulla crisi climatica lo ha ideato per la prima volta.

Capitolo 6 (P. Tosi). Sangue nero L’americana Exxon (anche conosciuta come Esso) è stata una delle più grandi aziende petrolifere mondiali. Uso il passato perché nel 1999 si è fusa con la Mobil, generando il Pokémon leggendario ExxonMobil. Tecnicamente sono due cose diverse perché si chiamano in modo diverso, giusto? Un po’ come arancino e arancina. Exxon è nata negli anni settanta e ve ne sto parlando solo perché nessuno quanto lei è in grado di raccontarci come l’infodemia possa essere sfruttata a proprio vantaggio per nascondere informazioni che rischiano di compromettere gli affari. Perché sì, se di complottoni e di “noncelodicono” siam pieni fino alle orecchie, non dimentichiamoci che chi manipola davvero l’informazione per tornaconti personali esiste davvero, e non serve la carta stagnola in testa per parlarne. La storia che sto per raccontare è talmente croccantella e fatata che le sue conseguenze le stiamo pagando tuttora. Che ridere se ci estinguiamo a causa di questo, ve’? Siamo negli anni settanta, dicevamo – sesso, droga e aziende che investono nell’innovazione. Tutti erano così tanto in fissa con l’innovazione che fiumi di soldi venivano lanciati a badilate in ricerca e sviluppo. Anche la Exxon era in fissa. Per lei lavoravano diversi scienziati, che sotto una forte spinta aziendale condussero ricerche dai risultati rivoluzionari. Riuscirono a calcolare, per esempio, che a lungo andare le emissioni dei combustibili fossili sarebbero state addirittura in grado di influenzare il clima dell’intero pianeta, poiché tutta quella CO2 avrebbe inevitabilmente accresciuto l’effetto serra globale. Azz. Roba grossa. Che la CO2 e altri gas avessero un ruolo fondamentale nel trattenere l’energia termica solare era ormai cosa risaputa, ma dire che le attività umane avrebbero incrementato la loro concentrazione in atmosfera tanto da causare l’alterazione permanente delle condizioni climatiche mondiali... be’, questo era tutto un altro paio di maniche! Breve storia di una molecola innocente. La molecola di CO2 venne scoperta solo agli inizi del Seicento dal chimico fiammingo Jan Baptiste van Helmont, il quale aveva osservato che bruciando del materiale in un recipiente chiuso si otteneva una massa di ceneri molto inferiore rispetto a quella della sostanza iniziale. Ao, dov’era finita quella massa? Così coniò il termine “gaz” (poi divenuto gas) per indicare la condizione caotica della materia in quella fase pazzerella. E fu lui il primo a isolare la CO2, ma non sapendo cosa fosse si limitò a chiamarla con un generico “gaz silvestre”. Il chimico scozzese Joseph Black nel Settecento notò invece che questo gas silvestre veniva prodotto anche durante i processi di respirazione animale, persino durante la vinificazione, e decise di chiamare questa strana sostanza “aria fissa”. Sì, ognuno vuol dare il proprio nome alle cose, è sempre la stessa storia. Il bizzarro chimico e filosofo inglese Joseph Priestley, invece, per dare un senso a questa scoperta, mise il gas silvestre nell’acqua e inventò l’acqua gassata. Perché una cosa ha senso solo se puoi ingerirla. In seguito, agli inizi dell’Ottocento, Jean Senebier dimostrò che le piante consumano aria fissa e la trasformano in ossigeno, mentre Nicolas-Théodore de Saussure dimostrò che le piante crescono proprio consumando aria fissa, acqua e luce. Insomma, ci abbiamo messo secoli a capirci qualcosa di questa CO2 che oggi diamo per scontata. Ma fu solo nel 1827 che qualcuno iniziò a intuire quali fossero

le sue correlazioni con la temperatura della Terra. Il primo fu il matematico Joseph Fourier, che si fece i suoi bei calcoletti e giunse alla conclusione che ci dovesse essere per forza un gas a trattenere il calore, dato che la Terra di per sé si limiterebbe a riflettere le radiazioni solari nello spazio accecando gli alieni. Poi come minimo quelli si sarebbero schiantati contro la Luna e sai che casini con il CID? Il nostro pianeta avrebbe avuto una temperatura bassissima senza quella copertona termica e sarebbe somigliato a un ghiacciolo, e questo non avrebbe avuto senso. Quindi sì, la CO2 doveva essere implicata in questo processo. Ecco che l’umanità scoprì l’effetto serra! E arriviamo a John Tyndall, che nel 1800 effettuò un esperimento iconico: riempì un tubo di gas, accese un lume che riproduceva l’effetto del Sole, lo avvicinò all’estremità del tubo e scoprì che il gas diventava azzurro. Questo dimostrò anche che l’azzurro-cielo è semplicemente dovuto a fenomeni di dispersione della luce solare. Dovrò correggere tutti i miei disegni delle scuole elementari. Eppure, in mezzo a tante salsicce, sembrerebbe che il merito della piena comprensione dell’effetto serra sia di una donna. Nel 1856 la scienziata e pittrice americana Eunice Newton Foote riempì un tubo di vetro con dell’aria e un altro tubo con della sola CO2, li espose entrambi al sole e notò che il secondo diventava più caldo. A volte non serve chissà cosa per fare della buona scienza, basta solo un po’ di logica e immaginazione... ma all’epoca era importante anche la pisciarella, dato che il merito della sua scoperta se lo prese un professore della Smithsonian Institution. Ah, patriarcato, ci incontriamo ancora! E voliamo così al chimico svedese Svante Arrhenius, che alla fine dell’Ottocento preparò un modello matematico che metteva in luce l’indispensabile effetto della CO2 sul clima. Secondo i suoi calcoli, dimezzando la concentrazione di CO2 nell’aria la temperatura media globale sarebbe scesa di 5 °C e viceversa. Preoccupante, considerando che stando alle stime prodotte da un suo collega, Arvid Högbom, le attività umane già all’epoca stavano aggiungendo nell’atmosfera quantità di CO2 paragonabili a quelle dei processi naturali. Tuttavia questo dato non sembrava altissimo in termini assoluti e Arrhenius non se ne crucciò troppo. Anche perché in Svezia faceva freddo, che cacchio. Un po’ di caldo non avrebbe mica nociuto, no? Magari un giorno sarebbe riuscito a prendere pure lui un po’ di sole sul balconcino. Questo excursus storico ha il solo scopo di ricordarci che tutte le nostre conoscenze in qualsivoglia settore non sono altro che un accumulo progressivo ed esponenziale di esperienza maturata da gente che s’è fatta un mazzo tanto prima ancora che noi ci ponessimo il problema. È questa la ricerca, alla fine: la costruzione di un’enorme, immensa, infinita torre di Babele fatta di fogli di carta. Ognuno mette il suo foglietto di conoscenza, i più fortunati ne mettono molteplici, pochi megalomani ne mettono interi volumi. Altri rimuovono dalla torre i foglietti con contenuti errati che la destabilizzano, ritagliano delle parti e correggono i bordi, li bilanciano, li aggiustano, li spostano. E intanto la torre di conoscenza cresce. Il tutto verso un obiettivo lontano e invisibile che solo la generazione successiva scoprirà senza mai toccare. Una generazione che crederà di essere all’inizio del viaggio, quando in realtà sta partendo dal traguardo di altri. E così via, senza mai fermare il processo, in barba alla caducità di una singola vita

umana, verso una conoscenza divina che apparterrà a un qualcuno nel futuro che mai conosceremo. Qualcuno che, comunque, non si accontenterà. Che poeta che sono. È per questo che non è assurdo scoprire che fu proprio un’azienda petrolifera alla fine degli anni settanta a prendere atto per la prima volta del reale, tangibile e immediato problema dell’incremento della CO2 atmosferica. Un problema già ipotizzato e denunciato da tanti, ma di cui nessuno aveva mai dimostrato la gravità nell’immediato. Sembra che fosse il 1977 quando il primo ricercatore della Exxon informò i piani alti dell’azienda circa gli effetti delle attività umane, che con quelle enormi emissioni andavano a intaccare il delicato equilibrio climatico del pianeta. Di sputazze e affari. Non è mai bello scoprire che l’umanità sta sputando in aria con l’ingenua inconsapevolezza di chi ignora che prima o poi ’na cascata di cicciole salivari sarebbe piombata in testa a tutto docciare. Era un problema serio e la Exxon lo sapeva. Ma sai quale altro problema era altrettanto serio? Che la Exxon con quelle sputazze ci campava. In quel periodo il prezzo del petrolio era in profondo calo. Quindi, allarmati dai risultati degli studi scientifici, i piani alti dell’azienda decisero di tenerli segreti e ignorare bellamente il problema. Bisognava cavalcare l’onda finché possibile e spremere ogni singola goccia di nero sangue da questo business. E attenzione, perché la Exxon non ignorò mica i risultati. Anzi, inizialmente fece proprie le preoccupazioni degli scienziati, tanto che – pare – valutò di iniziare a sviluppare nuovi metodi di produzione energetica da fonti rinnovabili da affiancare a quelle fossili per portarsi avanti con un possibile futuro mercato (ovviamente, però, senza condividere le informazioni con la popolazione). Purtroppo verso la metà degli anni ottanta si verificò un ulteriore crollo del prezzo del petrolio, le compagnie del settore persero un fracco di soldi e si videro costrette ad “accantonare” la questione. Mannaggia. Però che vuoi fa’, qua bisogna campa’. Resta il fatto che più di quarant’anni fa alla Exxon erano perfettamente consapevoli del problema, essendo stati informati dal loro stesso team scientifico. “Che matti che so’ gli scienziati, dei grandissimi”, disse il signor Exxon guardandosi intorno con la fronte imperlata di sudore. Poi aggiunse: “Ottimo lavoro, ragazzi. Continuate a investigare sulla faccenda”. Tante grasse pacche sulle spalle e un “mo’ annatevene affanculo” appena sussurrato. “Ma moriremo tutti!”. “Non oggi, amico mio. Non oggi”. Gli scienziati c’hanno ’sta piccola ossessione del voler capire le cose. Si fissano proprio. Così continuarono a indagare sulla questione (con i soldi della Exxon stessa, il che è ironico). Nel 1982 tornarono dal signor Exxon e dissero: – Signore, qua proviamo e riproviamo ma il risultato non cambia. Secondo i nostri dati le cose sono anche peggio di quanto pensassimo. – Cioè?, chiese il signor Exxon. – Se continuiamo a usare combustibili fossili con questo ritmo finiremo per influenzare il clima del pianeta in modo permanente, portando a effetti drammatici come la fusione dei ghiacci, l’innalzamento del livello del mare, siccità, carestie e un nuovo album di Jovanotti... gli esseri umani subiranno sofferenze senza paragoni. I sorbetti diverranno introvabili, ci sarà ovunque gente con le ascelle pezzate e potrebbero estinguersi i koala. – Oh no, i koala no! – Il risultato potrebbe essere catastrofico. La soluzione è iniziare a ridurre al più presto l’utilizzo di combustibili fossili. E ovviamente fermare Jovanotti. Ci tengo a ripeterlo: erano gli anni ottanta. Pensate quanto tempo ha avuto a disposizione l’umanità per evitare il tracollo. Ma la nostra è una specie dedita alla procrastinazione violenta, e se non ci riduciamo all’ultimo non siamo felici. Senza quel brividello pelvico di rischio estinzione non c’è gusto. Lo sappiamo bene tutti noi che abbiamo provato il divin durello della procrastinazione universitaria. Del ridurci a studiare l’esame la notte prima, con la consapevolezza che il tempo non fosse umanamente abbastanza, ma con la presunzione di un’ingiustificata speranza. Che masochisti siamo. In un’e-mail inviata l’8 ottobre 2014 da Lenny Bernstein, ex dipendente con vent’anni di carriera nella Exxon e dieci nella Mobil (di cui ha autorizzato la diffusione, tanto che ora è reperibile anche online), si legge: “Nel 1980 la Exxon doveva capire il potenziale delle preoccupazioni riguardo i cambiamenti climatici in modo da guidare una regolamentazione dei potenziali progetti. Erano molto più avanti rispetto al resto dell’industria su questa consapevolezza”. Insomma, era interesse della compagnia comprendere le future implicazioni in fatto di cambiamenti climatici, proprio per capire meglio come e dove investire i propri soldi. A quanto pare alla Exxon reputarono che il miglior investimento fosse “omettere” la questione. Bello. Quello che Bernstein aggiunge dopo nella sua e-mail è una sorta di manifesto dell’etica aziendale del nostro tempo: “Altre compagnie, come la Mobil, divennero consapevoli del problema nel 1988, quando la faccenda divenne ormai una questione politica. Le aziende fondate sulle risorse naturali – petrolio, carbone e minerali – devono fare investimenti che hanno un tempo di vita di 50-100 anni. Qualsiasi sia la loro posizione pubblica, internamente devono fare una valutazione molto attenta delle potenziali normative [che andranno a influenzare i progetti, N.d.A.], incluse le basi scientifiche per quelle stesse normative”. Lo capisco. Parliamo di industrie. Fanno soldi e investimenti inimmaginabili per un comune cittadino, investimenti che durano quasi un secolo. La ricerca serviva (e serve tuttora) appunto per accertare la solidità nel tempo di un investimento finanziario, o semplicemente per massimizzarne la resa. Insomma, era una ricerca non finalizzata a un sano interesse scientifico o umanitario, ma solo a prevedere un’eventuale logica di mercato. Quindi sì, pare che le loro valutazioni interne conclusero che i combustibili fossili avrebbero potuto mandare in vacca le condizioni climatiche globali, ma tutto sommato ci si guadagnava ancora. Allora sticazzi. Infatti, sempre negli anni ottanta venne fatto circolare un memo all’interno dell’azienda nel quale veniva chiesto di enfatizzare l’incertezza dei dati relativi al cambiamento climatico, l’incertezza dei modelli matematici utilizzati e soprattutto diffidare dal trarre conclusioni affrettate. Ed eccolo. Questo è stato il momento in cui venne piantato il seme che avrebbe portato a crescere la malerba del negazionismo dei cambiamenti climatici. Lo stesso memo proseguiva con una lista di tutti i danni causati dall’eventuale cambiamento climatico. Una lista inquietantemente accurata, considerando che elenca proprio i problemi che riscontriamo oggigiorno e che prevediamo per i

prossimi anni. Tuttavia il testo si concludeva con un ottimistico: “Questi effetti non dovrebbero avvenire se non un secolo dopo il raggiungimento di un incremento della temperatura media globale di 3 °C”. Compare, è il 2022 e siamo arrivati a quasi +1,5 °C. Che dobbiamo fare? Aspettiamo che sia troppo tardi? Anche perché gli studi moderni dicono che in effetti il punto di non ritorno potrebbe essere prima dei +2 °C. Quando arriveremo a +3 °C potremmo già aver preso fuoco da un pezzo. Non potevate fare qualcosa prima? Quando c’era tempo? Ah no? Ah no, giusto. La “valutazione interna” ha detto che non conveniva. Li mortacci vostri. Il problema e la frustrazione arrivano quando ti rendi conto che effettivamente i vertici della Exxon avevano creduto ai propri scienziati, tanto da ipotizzare delle trivellazioni nell’Artico, dato che si era previsto che la fusione dei ghiacci avrebbe rivelato nuove, magiche fonti utili di risorse. Inoltre stavano valutando di costruire le loro piattaforme di estrazione petrolifera “qualche metro più in alto” rispetto al solito, pronti per gli effetti dell’innalzamento degli oceani... E allora lo vedi che sei stronzo? Non poterono nascondere per molto tempo questa consapevolezza: alla fine degli anni ottanta era ormai palese a tutti che fosse in corso un fenomeno di surriscaldamento globale e numerose riviste, compreso il “Time”, dedicarono al tema copertine apocalittiche. Ma cosa era successo? Perché di colpo il pericolo era divenuto di dominio pubblico? Come abbiamo visto, si era in realtà consapevoli da decenni che le continue emissioni di CO2 avrebbero potuto avere un effetto sul clima, tanto che persino tra gli anni sessanta e settanta in moltissimi iniziarono a parlare di inquinamento da CO2, pur senza capirne appieno il vero pericolo climalterante. L’informazione detenuta dalla Exxon era più che altro una virtuale certezza che il processo fosse già in corso e che fosse dovuto alle attività antropiche, con tanto di stima su effetti, danni e tempistiche. Mica poco. Il più grande crimine della compagnia, però, è quello di aver fatto tutto quanto in proprio potere per negare e creare scetticismo attorno alle stesse conclusioni che a poco a poco venivano a galla anche fuori dai loro laboratori. Perché nel frattempo anche altri si stavano muovendo per capirci di più in merito. Il rapporto Charney. Nel 1979 in America il National Research Council incaricò il meteorologo Jule Charney di presiedere un comitato con lo scopo di produrre un rapporto sui rischi associati alle emissioni antropiche. E così venne compilato il documento di ventidue pagine che passò alla storia come Rapporto Charney. E che diceva questo rapporto? Stimava che le attività umane avrebbero causato un raddoppiamento dei livelli della CO2 atmosferica con un conseguente aumento della temperatura media globale di +3 °C (±1,5). Roba tosta, ma che ovviamente non basta a smuovere un beneamato cippo. Il consulente scientifico della Casa Bianca aveva intanto chiesto un’altra valutazione, questa volta di natura prettamente economica. Sebbene questo secondo rapporto concordasse con le conclusioni del team Charney, la valutazione finale fu che dal punto di vista economico non valeva ancora la pena preoccuparsi. Era il famigerato Rapporto STICAZZI. Ci sarebbero voluti diversi anni prima che quei rischi potessero rivelarsi concreti, quindi conveniva semplicemente ignorare la cosa. Era il 1983. Ovviamente il Rapporto STICAZZI venne fatto trapelare e dato in pasto alla stampa, pubblicato in ogni dove, mentre gli studi di Charney restarono per molto tempo circoscritti alla sola comunità di esperti e nerdoni di quartiere. E come mai c’era stata una fuga di notizie proprio e solo sul Rapporto STICAZZI? Guarda un po’ se uno non deve andare a pensare male... Come disse un poeta contemporaneo: “A volte il caso non è mai casuale. Purtroppo. Meno male”. La popolazione americana dell’epoca divenne però da lì a breve particolarmente consapevole del problema climatico, tanto che in quegli anni solo un 20% continuava a mettere in dubbio l’esistenza di un effetto antropico sul clima. Il mondo era in rivolta, tanto che anche il presidente George Bush decise di esporsi pubblicamente sulla questione, prendendo le distanze da chiunque avesse affermato che il problema del cambiamento climatico fosse “troppo complesso per poter essere risolto individualmente o da una nazione”. “Può essere risolto, e quindi dobbiamo risolverlo”. Bella presa di posizione, specie per un repubblicano, tenendo presente che oggi è lo schieramento che maggiormente si oppone agli investimenti a favore della salvaguardia ambientale. Ma ovviamente tutto questo gorgoglio di prese di posizione iniziò a far venire la strizza alle compagnie petrolifere, che si preoccuparono un pochettino per i loro investimenti. – Signore, le nostre azioni rischiano di perdere quota! – Giammai! Bruciate altri neonati! – Ma signore, in che modo questo aiuterà le azioni? – Non lo so, ma è sempre bello bruciare neonati. O almeno è così che immagino potesse parlare un dirigente della Exxon. La risposta della Exxon. Se persino il presidente degli Stati Uniti se ne esce con simili propositi, per te che il petrolio lo spacci la faccenda potrebbe iniziare a farsi molto pericolosa. Immaginate come sarebbe oggi la società moderna se la gente dell’epoca avesse iniziato a boicottare il fossile per motivi ambientali e il governo ne avesse regolamentato l’utilizzo investendo in tecnologie più innovative, spingendo il mercato globale sull’utilizzo di prodotti a basso contributo di emissioni. Mi avrebbero tolto un’ansia grossa e avrei potuto continuare a convivere con le mie restanti novantanove. Il fatto è che a quelli della Exxon non gliela si fa, e quando si resero conto che la situazione nel lungo termine avrebbe potuto degenerare, decisero di intervenire. Una la parola d’ordine: negare. Negare e dubitare. Negare sempre e comunque. Iniziarono a commissionare editoriali o comprare spazi pubblicitari sui giornali in cui scrivevano paragrafetti (che al lettore sarebbero dovuti apparire dei veri e propri articoli). In realtà erano, per l’appunto, spazi pubblicitari. È quello che succede tutt’oggi con i banneroni su Facebook. Lo vedete che una buona manipolazione si basa sempre sulle solite regole d’oro? Gli scienziati che mantenevano una posizione di scetticismo sulla questione ambientale furono assoldati e i loro enti finanziati, incoraggiati a promuovere dati fasulli per negare gli allarmismi in cambio anche di un’adeguata cassa di risonanza mediatica che amplificasse la portata delle loro dichiarazioni. Molti si fecero convincere in buona fede, altri stettero al gioco perché i soldi non fanno schifo.

Il problema è che la maggior parte degli scienziati non avrebbe mai accettato di entrare in un simile letamaio, e comunque è assolutamente impossibile mettere a libro paga l’intera comunità scientifica. Ma alla Exxon la cosa non importava fintanto che avesse avuto dalla sua qualcuno con il camice stirato (che all’opinione pubblica piace assai) disposto a ripetere boiate sull’argomento. Alla compagnia bastava quello. Alla fine questa è la stessa dinamica che fa la fortuna di moltissimi cialtroni contemporanei. L’azienda decise anche il vocabolario migliore da utilizzare nella comunicazione, nell’ottica di ricorrere alle parole come farebbe uno stregone nel corso di un incantesimo. E così accanto al concetto di “cambiamento climatico” apparvero termini come “dibattito” e “incertezza”. Un esempio? Il dibattito sui cambiamenti climatici è stato lungo e complesso e porta dietro un certo livello di incertezza. Mannaggia a Exxon. Dibattito? Quale dibattito?!? Non che i vertici della Exxon si vergognassero di condividere apertamente le proprie posizioni. In una presentazione del 1997 il CEO Lee Raymond affermò che, stando agli scienziati della compagnia, la Terra non si stava per nulla riscaldando. Anzi, si stava raffreddando! Ah, vabbè, ma allora vale tutto! A ’sto punto diciamo pure che il Sole è triangolare, che chi tiene il cellofan sui cuscini delle sedie non è un serial killer e che gli spigoli dei comodini non sono nemici dell’umanità. Tanto ormai l’unico limite è la fantasia. Per le strade americane era possibile incrociare cartelloni pubblicitari che, dal punto di vista del marketing, avrebbero del geniale, se non fosse che quelle campagne volevano uccidermi. “Quanto sei disposto a pagare per risolvere un problema che potrebbe non esistere?”, diceva uno dei payoff migliori. Oppure: “Chi ti ha detto che la Terra si sta scaldando... Chicken Little?”. Quest’ultima devono averla rubata allo spettacolo di stand up di suora Assunta del convento di Montragnone Filontino. Suora Assunta non fa molto ridere. O ancora: “Il problema più preoccupante con la catastrofe del riscaldamento globale è che potrebbe non essere vera”. Potrebbe non essere vera? Ma io ti prendo a schiaffi coi piedi! Ti piglio sotto con il monopattino, poi ti dico che il monopattino non esiste. Ti lamenti rantolando a terra? Chi sei, Chicken Little? Era una brava persona questo Raymond. Prese così tanto a cuore la faccenda da trasformarla in un caso politico che convinse George Bush Junior a rimuovere dalla sua agenda politica il piano di riduzione delle emissioni. Maledetto Raymond che per guadagnare di più brucia il pianeta. Maledetto Bush che si fa comprare. Maledetto me che se dovessi miracolosamente arrivare alla vecchiaia dovrò accontentarmi di sorseggiare un Martini caldo mentre il mondo va a fuoco. La campagna della Exxon fu un successo politico tanto clamoroso quanto demoralizzante, dato che vent’anni dopo, nel 2017, il 90% degli americani era convinto che esistesse davvero un dibattito scientifico sulla questione dei cambiamenti climatici. Nessuno sapeva dell’esistenza di un consenso schiacciante da parte degli esperti. Un consenso che oggi, valutando gli articoli pubblicati nel 2021, si assesterebbe a oltre il 99%. Eppure, ancora nel 2017 più della metà degli intervistati negli Stati Uniti era convinta che questa storia dei cambiamenti climatici fosse un’esagerazione da catastrofisti. E intanto tutte le aziende petrolifere continuarono a guadagnare una caterva di soldi dallo sfruttamento incontrollato del pianeta, Exxon compresa. Il germe del dubbio. Torniamo alla e-mail del 2014 di Lenny Bernstein: “Exxon non ha MAI negato il potenziale dell’impatto umano sul sistema climatico. Ha messo in dubbio – legittimamente, a mio parere – la validità scientifica dietro quei dati”. Rido. A parte che “Exxon non ha mai negato” è una di quelle battutone da standing ovation, con intere platee che si lasciano andare in uno scomposto scrosciare di mani. Ma poi è illuminante constatare quanto per una persona come Bernstein, tanto coinvolta nella realtà aziendale della Exxon, fosse difficile prendere semplicemente posizione e dire le cose come stanno, nel bene o nel male. Mettendo nero su bianco la frase “Ha messo in dubbio – legittimamente, a mio parere – la validità scientifica dietro quei dati”, Lenny continuava ad affermare, nel 2014, che c’era un fondamento nel mettere in dubbio quei dati. Cioè, passi il fatto che tieni nascoste le tue conclusioni catastrofiche sul processo di deterioramento climatico perché controproducenti per le logiche di mercato, ma investire in un attivissimo piano di negazionismo senza scrupoli causando un ritardo enorme nella regolamentazione e negli interventi sistemici è da... cattivelli! Non posso bestemmiare, quindi facciamocelo andare bene. D’altro canto è umano, ognuno difende il proprio orticello. Chissà quanti di voi che stanno leggendo queste pagine, ora paladini indignati, avrebbero avuto comunque difficoltà a scegliere una posizione etica rischiando di perdere tutto. Ed è questo il punto. Siamo di fronte, ancora una volta, a un problema umano. L’umanità potrebbe estinguersi a causa della sua stessa natura. Proseguendo con l’e-mail: “Avendo speso vent’anni al servizio della Exxon e dieci con la Mobil, so che questo comportamento etico [nel decidere di intervenire o meno, N.d.A.] arriva da valutazioni di mercato secondo il quale nel lungo termine è più conveniente essere etici che non etici. La sicurezza sul lavoro ne è un chiaro esempio. ExxonMobil conosce troppo bene il costo di pratiche poco sicure. [...] Il valore di buone pratiche ambientali è più subdolo, ma un’industria che fa un buon lavoro nel controllare le emissioni è una buona industria, che probabilmente sta massimizzando il profitto. Tutte le maggiori compagnie diranno che stanno provando a minimizzare le loro emissioni di CO2 interne. Per lo più lo fanno incrementando l’efficienza energetica e riducendo i costi. Lo stesso risulta vero per il riciclo interno, una pratica che la maggior parte delle aziende seguono. È semplicemente buona ingegneria”. E questo è il passaggio più condivisibile, in quanto pragmatico, di quella e-mail. Non c’è bene, non c’è male. C’è solo mercato. Purtroppo. Mi ricorda molto le dinamiche evolutive. Ciò che una specie diventa dipende da quali sono i tratti selezionati, che si mantengono in quanto vincenti. Non c’è etica nella selezione, solo necessità di adattamento. Questo vale anche per l’essere umano e di conseguenza per il mercato, che è un’amplificazione stessa della natura umana. Incarna tutto il successo collaborativo e il fallimento morale della nostra specie. Ma qualcosa di ben più succoso avvenne nel 1989, con la nascita della Global Climate Coalition (GCC per gli amici). Parliamo di un gruppo di lobbisti e imprese internazionali che si opponevano apertamente a ogni operazione politica atta a regolamentare e ridurre le emissioni, contestando i dati scientifici, la metodologia usata e i singoli scienziati che presentavano studi a riguardo.

Ne hanno combinate di grosse, quelli della GCC, come addirittura cercare di sabotare il protocollo di Kyoto. Non ci riuscirono, ma riuscirono a “convincere” gli Stati Uniti a non prenderne parte. Evvai. Inoltre misero in piedi una spietata macchina propagandistica per la diffusione di polemiche (fabbricate ad arte) e fake news, allo scopo di generare un senso di incertezza nella popolazione e smuovere il consenso pubblico. Piantare il germe del dubbio era un imperativo. Purtroppo per loro questo era l’unico mezzo a disposizione per difendere i propri interessi, non potendo negare totalmente – per quanto si sforzassero – le basi scientifiche su cui si fonda la consapevolezza del fenomeno dei cambiamenti climatici e degli effetti delle emissioni. Ancora una volta, nulla di nuovo. L’umanità si è trovata spesso a contrastare gli attacchi d’infodemia dei colossi industriali impegnati a gettare nel caos l’opinione pubblica per ritardare azioni politiche. Basti pensare a tutti i ricercatori che misero sotto accusa l’industria del tabacco. Combatterono per anni per dimostrare l’ovvio, mentre la grande industria delle bacchette fumanti era riuscita addirittura a convincere moltissimi (soprattutto negli Stati Uniti) che fumare non facesse male, anzi che in alcuni casi facesse bene alla salute. E poi fumavano gli attori dei grandi film hollywoodiani, e tutti volevano essere fighi come loro, no? Certo, erano stati pagati per fumare in scena, ma questi sono dettagli. Insinuare il dubbio scientifico è una strategia vecchia e ben varata. Il mercante del dubbio sa che l’analisi dei dati scientifici è qualcosa di complicato, anzi astruso per il grande pubblico, e quindi – per neutralizzare la sua influenza politica – è sufficiente alimentare controversie e dubbi a riguardo. È una cosa molto facile da fare, e oggi lo è più che mai, considerando il numero fuori scala di cialtroni che abitano le caverne del web. Un nemico invisibile. Nonostante i propositi da Lega del Male, la GCC si sciolse malamente nel 2001 a causa delle critiche pubbliche e del crollo di adesioni. La sconfitta di un villain in genere segna la fine del film, con titoli di coda e musica epica, ma non in questo caso. La GCC era riuscita a fare i suoi bei danni, tanto che ancora oggi tra la popolazione si annida, soprattutto negli Stati Uniti, lo strascico di quella campagna. Di quel “dibattito”. A tal proposito, propongo un altro piccolo passaggio di quella famosa e-mail del 2014 di Lenny Bernstein, quantomeno perché sulla GCC esprime un parere interessante: “Le battaglie politiche hanno bisogno di personificare il nemico. [...] Il cattivo qui era la Global Climate Coalition (GCC), un’organizzazione commerciale di produttori e grandi utilizzatori di energia. Sono stato nella GCC per un po’, provando senza successo a far riconoscere ai suoi membri la realtà scientifica. [...] Le pressioni dei gruppi ambientalisti hanno avuto successo nel togliere dai giochi la GCC, ma così facendo hanno perso la propria nemesi. Ne avevano bisogno di un’altra che non corresse il rischio di morire o fallire”. Inutile dire che l’obiettivo di Lenny Bernstein con queste parole non è quello di fare un’imparziale critica sociale, ma di sottolineare che se la presero con Exxon solo perché gli ambientalisti (scassaciole) dovevano per forza prendersela con qualcuno, e finirono per incolpare la povera azienda petrolifera. Ciò non toglie che, ignorata questa sua piccola e non troppo velata allusione, mi sento di sottoscrivere queste parole. Il più grande ostacolo alla lotta contro gli effetti del cambiamento climatico è proprio il fatto che il villain qui non è tangibile. Non lo puoi guardare negli occhi, percepirne la bastardaggine, temere per un suo colpo di testa. C’è ma non si vede. Eh, ma così ci viene difficile odiarlo! Serve una fisionomia da villain, magari con una origin story terrificante. Altrimenti non c’è gusto. Se esistesse il signor Cambiamento Climatico, con i baffi a manubrio, che una volta ha preso a calci un gattino e sputato a una vecchietta in fila alle poste, sarebbe tutto molto più semplice. Ah, di che grandi sacrifici ci faremmo promotori pur di menare questo bastardo. Ma il signor Cambiamento Climatico non c’è, e l’impressione è che si combatta contro se stessi. Che poi è vero. Per loro fortuna (e nostra sfortuna), i lobbisti della GCC e della Exxon non erano soli in questa battaglia. Al loro fianco, infatti, figurava anche un consorzio di società minerarie, la Western Fuels Association, ugualmente preoccupata dai movimenti di questi hippie teste di ciole che volevano smettere di inquinare. Tra i loro obiettivi più dolorosi (per il mio cuore) c’era il finanziamento dei ricercatori negazionisti, che in buona o cattiva fede sbandieravano la presunta inconsistenza dei dati. Erano pochi, ma andava benissimo così. Insomma, il dibattito non c’era e allora – secondo un copione già visto – lo crearono. Stanziarono fondi per film, cortometraggi, articoli scientifici e giornalistici, pubblicità, inchieste e per poco non assoldarono un esercito di strilloni da mandare nudi per strada. Arrivarono addirittura a fondare un’intera rivista con la missione di annichilire le posizioni e gli studi sui pericoli ambientali delle emissioni antropiche. Nacquero anche numerose associazioni che ne seguivano i passi, e così arrivarono per tutti anche i finanziamenti pubblici. Non vi sorprenderà scoprire che riuscirono appieno nel loro obiettivo. Stando ai sondaggi, negli USA, in una manciata di anni fecero crollare il numero di persone che credeva nella correlazione emissioni/cambiamenti climatici, portandolo da un già misero 35% a un miserabile 22%. Si impegnarono così tanto nel sabotaggio degli accordi che la GCC riuscì persino a ottenere la diserzione degli Stati Uniti dal protocollo di Kyoto. Aderirono però centonovantuno paesi, che fecero a questa strana terra che si è autoproclamata “terra delle libertà” un vistoso gustoso plateale gesto dell’ombrello. Quello fu un traguardo incredibile che tutti credevano impossibile. Pensateci! I rappresentanti di centonovantuno paesi del mondo, ognuno con interessi e problemi a sé, che si siedono a un tavolo e trovano una quadra. Se immagino centonovantuno persone a una riunione di condominio, non so dire quanti minuti ci vorrebbero prima che qualcuno tiri fuori una mazza chiodata e faccia partire la rissa medioevale. Due minuti? Meno? Eppure eccoli lì, attorno a quel tavolo. Il genere umano riuscì in un’impresa senza precedenti per tirare un freno al tracollo climatico che l’umanità stava causando. Il protocollo di Kyoto non fu che un timido inizio, assolutamente non sufficiente a contrastare i cambiamenti climatici, ma ha permesso di dare il via al processo in corso. Un grande, grasso vaffa a tutti quelli che avrebbero preferito dar fuoco alla propria casa piuttosto che perdere azioni. Siamo dannatamente in ritardo e la colpa è assolutamente dell’infodemia che ha creato il caos, procrastinando ogni azione concreta lì dove serviva una risposta immediata e coesa. Siamo in ritardo, ma non è troppo tardi. Ora però è tempo di rimboccarsi le maniche.

CONCLUSIONI La teoria della montagna di merda (P. Tosi) Dovete sapere che ogni tanto mi arrivano messaggi da parte di gente originale che mi chiede di parlare di “roba” che ha trovato su internet. Si va da documentari prolissi di quattro ore e mezzo con interviste lentissime a gente che non esiste o grafici disegnati a mano in cui si dimostra che dietro il fenomeno della polvere sulle mensole si celano i poteri diversamente forti della Folletto che di notte manda coleotteri generati in laboratorio a seminare polvere di feti umani, così da aumentare la produzione di sporcizia e soggiogare il mercato mondiale di vaporetti... ... a gente che fa le scoregge coi piedi. In tutta onestà, preferirei ingerire un istrice e poi prendere un lassativo. Tra il 2020 e il 2022 la quantità di idiozie pubblicate sul web ha raggiunto una portata tale che, volendosi documentare su tutte le sfumature dell’immaginazione umana, ci si sarebbe dovuti licenziare dal lavoro e smettere di dormire, dedicandocisi a tempo pieno. Il risultato poi sarebbe stato simile a una lobotomia con una forchetta arrugginita, ma più lunga, lenta e dolorosa. Per di più autoinflitta. E quindi ho sviluppato un rigetto verso queste dinamiche, mentre mando i miei sbigottiti complimenti a chi ha deciso di dedicarsi all’infausta professione sottopagata di debunker (ovvero verificatore di notizie e sfatatore di bufale). A tutti noi altri deboli di cuore non resta che la convinzione che basti un sorriso imbarazzato con lo sguardo fisso nel vuoto a salvarci da conversazioni penose con chi afferma di “essersi documentato su internet”. Per questo ho deciso di raccontarvi una teoria, inizialmente pubblicata su un blog a firma di Uriel Fanelli e oggi rimbalzatissima nel mio gruppo di amici più intimi: la teoria della montagna di merda. E cosa dice questa teoria? È molto semplice. Chi scrive o condivide idee a caso su elucubrazioni personali senza preoccuparsi minimamente di cercar prove o dati a supporto dei propri deliri (o cercando solo quelle fonti che confermino i propri bias) fa un lavoro semplice, pratico ed economico. Non servono particolari competenze, a volte non serve nemmeno sapersi esprimere. La gente che cavalca certe notizie fecali vive una vita leggera, praticando quest’arte come passatempo, in cui l’unico limite conosciuto è la fantasia. Come in un gioco, tracciando linee immaginifiche, si uniscono dati di storia, chimica, astrofisica, sociologia e cucina per dimostrare l’impossibile. Poco importa il contesto, o che alcune cose siano in contrasto tra loro, perché il click sul tasto “condividi” arriva più veloce del segnale elettrico della rete neurale. Una volta condiviso, il contenuto vivrà di vita propria, autoalimentandosi e ingigantendosi, e saranno gli utenti stessi che ci cliccano sopra ad aggiungere nuovi particolari e aneddoti. C’è gente che ha scoperto di riuscire a camparci, con ’sta roba, ed è lì che si tocca il fondo più profondo della tana del biancomplottismo, dove la produzione di fake news diventa lavoro a tempo pieno. Per di più, quando chi si occupa di questo vil mestiere ha anche sufficiente carisma per avvicinare proseliti, si fa forte anche il fattore “genio incompreso eroe contro il sistema” ed è difficile rinunciare a una tale e inesauribile riserva di autostima. Diversa è la storia per chi dovrebbe verificare l’entità di idiozie sparate dal nostro incompreso guru. Al debunker è richiesto un tempo immensamente maggiore per risalire all’origine di ogni singola informazione, anche perché spesso ci si imbatte in teorie astruse che coinvolgono ogni aspetto dello scibile umano. Per di più l’autore di questi deliri non accetta mica di essere smentito. Se proprio lo si vuole smentire non è accettabile che a farlo sia una persona qualsiasi, quale egli stesso è: pretende che parli l’esperto. A sentir lui, quindi, bisognerebbe incaricare costosissime commissioni parlamentari che facciano luce sul perché il 3% della popolazione, dopo esser caduta inciampando nei lacci delle scarpe, è finita in posizione fetale, posizione che sembra proprio una S, iniziale di Soros, magnate malvagio che ha manipolato le menti del pianeta e pertanto merita di essere arrestato per tentato omicidio per inciampamento. Facciamo un esempio pratico. Se tu fossi un debunker e volessi raccontare perché il beverone di acqua e bicarbonato non è una cura al cancro, cosa dovresti fare? Coinvolgere un oncologo professionista. Sarebbe bastato avere competenze superbasilari di chimica, ma vabbè. Oncologo sia. A questo punto però il supporter del bicarbonato tirerà in ballo il proprio “esperto” – perché sia mai che fra i quasi otto miliardi di individui sul pianeta il complottista non trovi ad avvalorare le sue tesi una persona con un titolo di studio che spara cazzate manco fosse ’na mitragliatrice. Questo “esperto” tirerà in ballo casi studio del 1643 che è riuscito a scovare e che avallano la sua teoria della cura al bicarbonato. Per replicare, il debunker dovrà trovare un esperto che risalga ai casi citati in letteratura, ne verifichi i contesti e ricorra a dati recenti per mostrare nuovamente l’assurdità della cosa. A quel punto il supporter del bicarbonato giocherà la carta del presunto contenuto di feti umani nelle soluzioni chemioterapiche, nonché di quella volta in cui una persona è esplosa. Allora il debunker interpellerà un altro esperto... e magari anche un bravo artificiere. Ma il supporter del bicarbonato dice che lui assume tanta vitamina C e che grazie alle fluttuazioni quanto-bio-astrali è invulnerabile ai tumori, infatti non si è mai ammalato. E tu contatti l’esperto biologo che spiega che per quanto salutare, una spremuta d’arancia previene il cancro quanto una sedia di peli prevenga un terremoto e il fatto che lui non abbia mai contratto la malattia ricorda la storia del tizio che andava in giro con la scatola antipescecani in centro a Milano. Ed effettivamente di squali non se n’erano mai visti. Arrivati a questo stadio, in genere il cospirazionista tira in mezzo qualche “grande piano segreto” e, perché no, gli alieni, Marisa Laurito e Bill Gates, che ci stanno sempre bene. Allora tu contatti l’esperto di armi da fuoco e gli chiedi di abbatterti ponendo fine alle tue sofferenze. “Informatevi”, urla il maestro cospirazionista. “Informarsi non serve a un cazzo se ci si documenta in una montagna di merda”, dovresti urlare tu, ma per fortuna se il punto precedente è andato a buon fine sei già morto e sepolto e ora assapori la felicità dell’oblio. E mentre voi chiacchieravate sull’inconcludente vicenda del bicarbonato, quattordicimiladuecentouno nuove teorie fantasiosamente antiscientifiche erano state sfornate dallo stesso maestro del bicarbonato salvavita e lanciate nel web.

Insomma, la teoria della montagna di merda afferma che produrre materia fecale è facile, spalare e scoprire cosa farsene, invece, è difficile. Non solo, la merda prodotta è indubbiamente troppa rispetto a quanta tu ne possa spalare. A una certa non ti resta che arrenderti. Arrenderti e affogare nella merda, annaspando. Non potete biasimarmi se a un certo punto deciderò di unirmi a loro. Vi dirò di più, il bicarbonato cura l’alopecia, l’alluce valgo, la collera e l’elefantiasi, anche se a quanto pare non cura il giramento detonante di gonadi del sottoscritto. Ho scordato la parola “quantistico”. Vabbè, mi rifarò. Mal comune, zero gaudio (L. Perri) Volendo trovare un aspetto parzialmente positivo, seppur minimo, nel caos dell’infodemia è che il mare magnum dell’informazione – sui social in particolare, ma sui media in generale – è un ambiente rumorosissimo non solo per noi. È difficilmente governabile anche per chi cerca di fare disinformazione. Ci si prova coi bot o addirittura con gli influencer, ma catturare l’attenzione di tante tribù delle echo chambers e rendere il proprio contenuto virale è sempre più complicato. Certo, come società civile dovremmo fare un po’ di ordine, qualora volessimo risolvere l’emergenza fake news. Ma l’emergenza c’è davvero? Di sicuro è avvertita e in alcuni contesti, per esempio una campagna elettorale, viene esacerbata. Sarebbe bello capire però quanto sia un problema reale e quanto, invece, sia percepito come tale per il gran parlare che se ne fa. Ma mentre la scienza indaga, c’è chi spera in interventi “dall’alto” o magari sogna di restringere il diritto di voto solo “a chi lo merita davvero”. In teoria, una democrazia dovrebbe garantire la circolazione di ogni opinione, persino di quelle false. Perché, in fondo, alla fine la verità verrà a galla. O, almeno, questo pensava il filosofo ed economista John Stuart Mill, secondo cui così come nel libero mercato prevalgono le merci migliori (ah, sì?), nel mercato delle idee prevarranno le teorie migliori, dopo che si saranno scontrate con quelle scadenti. Una teoria, quindi, diventa vera conoscenza solo dopo aver fatto a botte in una discussione. Un’utopia che funziona solamente se la società è disponibile a privilegiare la ragione sui pregiudizi. Cosa che, abbiamo visto, non è semplicissima da attuare. Cosa fare, dunque? La censura cosmica (L. Perri) C’è chi ha invocato pesanti interventi censori da parte di piattaforme web come Google, Facebook o YouTube, chiamate a filtrare “alla fonte” i contenuti online ritenuti rischiosi, rimuovendo i post di incitazione all’odio e alla violenza, con nudità o disinformazione dannosa. Ok, ma secondo quali criteri? Domanda eccellente! Che non ha una risposta. Peraltro, dovremmo affidarci alle piattaforme confidando che censurino anche chi, fra i loro stessi creator, sviluppa molte interazioni grazie alle fake news... Considerato che le piattaforme non sono gestite da ONLUS, ma da aziende chiamate a fare fatturato, i risultati delle politiche di moderazione dei contenuti non hanno sempre avuto l’esito sperato. Fra i rischi maggiori, però, c’è la possibilità che un’azione troppo rigida assecondi fisiologicamente le richieste della maggioranza dominante sulla piattaforma, con conseguente migrazione delle minoranze su altri lidi. E a quel punto non parleremmo più di echo chambers, ma di echo platforms differenziate in base ai livelli di controllo. Gli utenti che prima potevano essere monitorati e quantificati si muoverebbero su ambienti meno presidiati e controllati, e quindi sarebbero fuori dai radar. È stata proposta anche la nomina di autorità indipendenti per la sorveglianza dell’informazione, online e non, col compito di filtrarne i contenuti. Cosa che, immagino, rappresenterebbe la fine del giornalismo. C’è anche chi ha parlato di istituire apposite leggi per stabilire l’accettabilità delle comunicazioni. Qualcosa di molto simile avviene nei regimi autoritari, in cui il governo attua vere e proprie azioni di censura. Una pezza peggiore del buco, insomma. Anche perché qualsiasi sforzo di disciplinare la libertà di parola è destinato a creare un cosiddetto chilling effect, cioè porterebbe a scoraggiare le persone dal manifestare il proprio pensiero, a causa della minaccia di sanzioni civili o legali. Vogliamo davvero che a decidere cosa sia fake news o meno siano giudici e istituzioni, con un Ministero della Verità in stile 1984 di Orwell? L’obiettivo (L. Perri) Trovare una forma di controllo qualitativo delle informazioni, quindi, non solo non è facile, ma potrebbe anche non essere auspicabile. La soluzione alternativa è dunque cercare di comprendere al meglio le dinamiche e i meccanismi della comunicazione per trasferire efficacemente informazioni di qualità. John Cook e Stephan Lewandowsky, autori del Manuale della demistificazione, scrivono che “per riuscire a trasmettere conoscenze, i comunicatori hanno bisogno di comprendere come le persone elaborano le informazioni, come modificano le conoscenze esistenti e come le diverse visioni del mondo influenzano la loro abilità di pensare razionalmente”. L’obiettivo è intavolare un dialogo costruttivo. Non inondando l’interlocutore di dati o tecnicismi complicati, ma cercando di discutere il più possibile in maniera chiara. Senza banalizzare troppo, però, mostrando soluzioni semplici a problematiche complesse, così come farebbe un mercante del dubbio. Evitando non solo i toni sensazionalistici tipici delle fake news, ma anche i commenti sprezzanti. Di fronte alla disinformazione, alla rabbia dei leoni da tastiera, ai pregiudizi e alla frustrazione è normale avere l’istinto di interrompere il dialogo e aggredire, blastando le persone. La derisione e la violenza verbale, però, non convincono nessuno, anzi. L’unico effetto è quello di allontanare le persone creando schieramenti di ultras: da un lato chi ci darà ragione per non subire attacchi ad personam, dall’altro chi si sentirà offeso e ci darà sempre torto. E come abbiamo già visto, quando ci sono di mezzo due tifoserie, nessuna delle due è logica. La soluzione rimane il dialogo trasparente, anche a costo di fare passi indietro e, perché no, ammettere i propri errori. Mostrando, per esempio, che la scienza non può fornire certezze e che è normale trovarsi di fronte a studi contrastanti. Presentare il metodo scientifico ai non addetti ai lavori è complicato. Da un lato la scienza chiede ai cittadini di affidarsi alla comunità dei ricercatori e allo studio

continuo volto all’avanzamento delle conoscenze; dall’altro però chiede alla società di accettare un metodo fondato sul dubbio e sull’errore. Mostrarsi affidabile e contemporaneamente confessare la fallibilità è contraddittorio rispetto al nostro modo di pensare. Eppure è fondamentale farlo, se si vuole davvero chiedere fiducia alla cittadinanza e si vuole costruire uno scambio proficuo. Sia chiaro, ci sarà sempre chi non vorrà mai ascoltare un’argomentazione logica a prescindere dalle prove fornite a suo sostegno. Lo abbiamo visto approfonditamente, ma lasciami ribadire il concetto: gli studi sembrano indicare che sia estremamente difficile far cambiare idea a persone con un’opinione molto radicata. Confutare un’informazione errata richiede infatti processi cognitivi complessi. Una volta incamerata un’informazione inesatta rimuoverne l’influenza è impresa ardua. Si hanno invece maggiori possibilità di correggere le informazioni errate tra chi non ha opinioni forti su una questione, o di formare un’opinione nella mente di chi non ne possiede ancora una. Che materia scottante. “Questo suggerisce che le azioni debbano essere dirette alla maggioranza indecisa, piuttosto che alla minoranza inamovibile”, concludono Cook e Lewandowsky. Tú sí que vales (L. Perri) Giunti a questo punto, forse ti stai chiedendo se davvero valga la pena impegnarsi tanto per ricercare o fare corretta informazione. La risposta è sì. Certo, noi siamo di parte, ma ammetterai che misurare l’efficacia del fact-checking basandosi sul tasso di persistenza delle bufale può essere fuorviante. La medicina ha fallito perché il cancro c’è ancora? I pompieri non servono perché il fuoco continua a esistere? Il lavoro di verifica delle fonti e delle informazioni e quello di smentita delle fake news non potranno mai eradicare tutte le bufale o renderci esseri logici e razionali. Ma potranno aiutare a correggere idee e impressioni sbagliate (fosse anche solo per il 6% della popolazione totale) sulle sfide che la società deve affrontare e per cui bisogna prendere decisioni consapevoli. E ricordiamoci che l’irrazionalità è parte integrante del nostro modo di essere, la cosa vale per tutti noi. Non lanciamoci

quindi in una lotta contro l’illogicità, impegniamoci piuttosto per essere sempre umili e curiosi. Umili riguardo alla vastità delle nostre competenze, curiosi verso le nuove informazioni discordanti. Confrontiamoci con persone che ci contraddicono, considerandole una risorsa per mettere alla prova le nostre euristiche e i nostri pregiudizi. Capiremo al meglio il mondo che ci circonda e solo così potremo provare a migliorarlo. Rimaniamo lucidi, quindi, ascoltando gli altri e sforzandoci di capirli. Evitando gli scontri e le barricate e costruendo ponti di dialogo. All’inizio avremo un singolo cavo teso, su cui barcolleremo per stare in equilibrio, bilanciando emozioni e spirito critico. Ma procedendo gli uni verso gli altri intrecceremo due, tre, infiniti cavi e avremo un appoggio più saldo peraffrontare al meglio le ondate dell’infodemia. E quando verremo travolti – perché prima o poi succederà – cerchiamo qualcosa a cui aggrapparci: una zattera di razionalità su cui arrampicarci obbligandoci ad analizzare le informazioni in nostro possesso. La nostra unica chance di rimanere a galla è smettere di subire passivamente le notizie e cominciare a identificarci come parte integrante dell’ecosistema dell’informazione. Ogni volta che accettiamo meccanicamente un’informazione, ricondividendo un post, un’immagine o un video senza prima aver verificato la notizia e le fonti, contribuiamo ad aumentare il rumore, generando maggiore confusione. Contribuiamo a intorbidire le ondate dell’infodemia. Una marea che oramai è talmente melmosa che ognuno di noi deve assumersi la responsabilità di controllare in maniera indipendente le notizie con cui entra in contatto. E quando le nostre capacità critiche calano, quando ci troviamo ad affrontare qualcosa che scatena le nostre emozioni – siano queste entusiasmo, rabbia o paura – quello è il momento in cui dobbiamo fare più attenzione. Maggiori sono le emozioni suscitate in noi da una notizia, maggiore deve essere l’attenzione nella verifica del dato prima di condividerla. Il giornalista Craig Silverman lo chiama scetticismo emotivo. In tempi di alluvione, in mezzo al fango e ai detriti, la prima cosa che manca è l’acqua potabile. Cerca di essere tu, quell’acqua potabile.

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Le versioni di Sio - Capitolo 1

Le versioni di Sio - Capitolo 2

Le versioni di Sio - Capitolo 3

Le versioni di Sio - Capitolo 4

Le versioni di Sio - Capitolo 5

Le versioni di Sio - Capitolo 6

“In tempi di alluvione, in mezzo al fango e ai detriti, la prima cosa che manca è l’acqua potabile. Cerca di essere tu, quell’acqua potabile.”