Di chi la colpa? 8865424389, 9788865424384

Nel 1939, a due anni dalla morte, Giuseppe Rensi pubblica un ultimo libro. "Poemetti in prosa e in verso": vi

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Di chi la colpa?
 8865424389, 9788865424384

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Feuilles détachées 16

Collana diretta da Gerardo Fortunato

Giuseppe Rensi

Di Chi la colpa? a cura e con un saggio di Marco Fortunato

La scuola di Pitagora editrice

Collana promossa dalla Società di studi politici

Scuola di Alta Formazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

In copertina: Henri Rousseau il Doganiere, Antilope assalita da un leone (1905).

© Copyright 2015 La scuola di Pitagora editrice Via Monte di Dio, 54 80132 Napoli www.scuoladipitagora.it [email protected] ISBN ISBN

978-88-6542-438-4 (versione cartacea) 978-88-6542-454-4 (versione elettronica nel formato PDF)

Printed in Italy Stampato in Italia nel mese di dicembre 2015

Di Chi la colpa?

Guarda un gatto che si diverte a straziare con studiatamente lenta voluttà un topo, badando, per poter gustare sino all’estremo l’agonia dei suoi ultimi moti e spasimi, di non ucciderlo d’un sol colpo. Ecco venir qui alla luce una somma di dolore per nulla dissimile o minore di quella che si produceva negli uomini gettati ad bestias entro gli anfiteatri romani. Pure, precisamente come non può a meno di scattare un congegno toccato nella sua molla, il gatto non può a meno di agire così. Esso è fatto in questa guisa, la sua natura è tale. In ognuno dei suoi guizzi rapidi, semplici, eleganti, graziosi, giocosi si rivela l’assoluta innocenza della sua crudeltà. La colpa non è sua. – Di consimili innumerevoli crudeltà innocenti, che vengono su in ogni punto dell’universo, spontanee e naturali come un bel fiore, irreprimibili, necessarie, inconsapevoli di sé, di Chi dunque la colpa?

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Volo di rondini

Tu sogni adunque il Demiurgo? – Fanciullo! Come s’inquadra bene quel meraviglioso stridulo volo di rondini nella purezza del cielo primaverile! Tu lo guardi estasiato come una delle più belle espressioni della poesia della natura. E la gioiosità di esso induce anche nel tuo cuore la serena leggera gioia della primavera. Ma hai tu mai pensato che cosa vuol dire quel dolce grazioso volo che tu risaluti ogni anno con sì pura letizia e tenerezza? O credi che le rondini volino per rallegrare i tuoi occhi od adornare la natura? Quel volo è la caccia. Quel volo vuol dire lo spazio in cui un momento fa i viventi si aggiravano tranquilli, improvvisamente penetrato e percorso in lungo e in largo da un’invasione micidiale, tremenda d’irresistibilità, che scova implacabilmente in ogni menomo angolo per rapinare ed uccidere, che tutto travolge, distrugge, spegne. Quel volo vuol dire innumeri vite innocenti, vite di insetti, dilaniate e straziate dalle mandibole di giganteschi animali alati da preda. Quel volo, che si espande per la purezza del cielo e la fregia di un nuovo incanto, vuol dire il cielo fatto, senza che tu nemmeno lo avverta, campo di carneficina cruenta, vuol dire agonia, spasimi, morte e strage, vuol dire una nuova somma enorme di sofferenze che viene a prodursi nel mondo. Tu queste cose non le vedi, non le pensi, non le senti. Forse a udirle dire sorridi. Davvero, il Demiur-

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go? Fanciullo! Non sei ancora riuscito ad accorgerti che dimori in un universo così formato che la vita non può in nessun punto e in nessun modo reggersi se non con l’uccisione, la strage, lo strazio: il delitto; in un universo, nel quale ogni essere in cui per poco la vita con tali mezzi si sorregge, è alla fine destinato, tra spasimi e torture, a servire di alimento alla vita in un altro essere; in un universo, dove la vita per durare è condannata a distruggere e maciullare se stessa. Sei un bambino. La tua mente è ancora puerile. Nel fondo della realtà essa non è ancora riuscita a guardare. Quel fondo della realtà, nelle sue vere fattezze, essa è incapace di rappresentarselo. Di un Demiurgo puoi ancora parlare solo per questa tua superficialità puerile di sguardo.

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Così parlò Diagora

Lungo la riva soleggiata della sua piccola Melo, di fronte all’enorme striscia d’azzurro carico dell’Egeo, Diagora passeggiava col suo discepolo prediletto. E quel giorno così parlò: – O efebo! Io ti vidi poco fa recarti all’altare di Zeus, e, dopo avergli presentato la tua offerta, alzare le mani in atto di preghiera. Tu preghi dunque Zeus? Bambino! Bambino, o eticamente atono? Ti ricordi il vitello che l’altr’ieri durante la nostra passeggiata in montagna abbiamo visto legato piedi e collo e coricato sul fondo d’una carretta per essere trasportato in una nave e indi condotto ad Atene pel sacrificio? L’animale giaceva là, con gli occhi quasi spenti, immobile, oramai reso dalla sofferenza incapace di qualsiasi reazione. «Poveretto!», hai esclamato anche tu. Ma ora preghi Zeus… Preghi Zeus. Cioè non capisci quale ardente spasimante preghiera era la sofferenza di quel vitello. O credi forse che, se Zeus non esistesse soltanto nell’immaginazione di Fidia, ma troneggiasse davvero nell’Olimpo, e se ascoltasse le preghiere, avrebbe bisogno che queste gli venissero formulate in greco, in persiano, in egiziano, o in altra lingua barbara, o in una lingua umana qualsiasi, anzi che gli venissero formulate? La sofferenza di quel vitello era la preghiera. Ogni dolore, ogni sofferenza è, per sé sola, pel solo fatto di esistere, pel solo fatto di essere sentita, preghiera invo-

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catrice, invocazione che essa ci sia tolta, che cessi. Se tu vedi il tuo cagnolino con un piede chiuso tra i battenti della porta non senti che soltanto il suo dolore, il dolore che tu capisci che egli prova, solo i gemiti che il dolore gli strappa sono la preghiera? Tanto lo capisci che tu non aspetti che il cagnolino ti preghi ma corri a liberarlo, perché sai che col solo avvertire il suo dolore egli ne prega la cessazione. E puoi pensare che Zeus, se avesse su nell’Olimpo vera esistenza, o ascoltasse le preghiere, potrebbe agire diversamente? La sofferenza di quel vitello era dunque la sua spasimante preghiera, la preghiera che tutte le fibre d’un essere vivo elevavano per invocare la cessazione del dolore, preghiera ben più ardente ed essenziale di quelle che tu formuli. Ma credi tu che la preghiera del vitello sia stata esaudita o non piuttosto che il suo destino di dolore e di morte si sia implacabilmente adempiuto? Ora pensa, non dico ai milioni o miliardi di uomini che, dall’inizio della storia umana ad oggi, in procinto di essere torturati, abbacinati, arsi vivi, crocifissi, impiccati, chiusi per la vita in una segreta, pregarono, pregarono con tutta la forza del loro animo, e invano, ché il loro destino di dolore e di morte, come quello del vitello che abbiamo visto l’altro giorno, si adempì inesorabilmente; – ma pensa alla somma di dolore, addirittura trascendente la capacità dell’immaginazione, che si sprigiona negli animali, non solo per le sofferenze che noi infliggiamo loro (che sarebbero ancora poca cosa) ma per quelle che essi si infliggono a vicen-

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da, e non possono a meno di infliggersi, perché così costruiti dalla natura o da Zeus che devono infliggersele per nutrirsi e per vivere. Pensa non solo al numero infinito di gatti che perirono straziati dai colpi di sasso dei monelli, pei quali il loro dolore e la loro lenta morte servirono di divertimento: quel dolore e quella morte che erano appunto ad un tempo l’ardente preghiera che tutto l’essere vivente del gatto faceva per esserne liberato, e che nessuno ascoltò. Ma pensa al numero sterminato di topi che soffrirono una lenta, lunga e torturante morte fra le unghie d’un gatto; pensa al numero sterminato di mosche che rimasero prese nelle ragnatele e colà fasciate ancor vive da mille fili e ancor vive immobilizzate e tenute in serbo per poter servire a poco a poco di nutrimento al ragno; pensa quante infinite volte si ripeté il colpo istintivamente sapiente della vespa Ammofila, che trafigge col pungiglione la sua preda esattamente nel punto in cui è necessario trafiggerla, per paralizzarne i movimenti senza ucciderla, e così riesce a mettere in serbo per sé e per la sua prole un cibo vivo, non esposto alla putrefazione, da consumare tratto tratto per parecchi giorni o mesi. Pensa a tutto questo. Tu, se vi pensi, con la dovuta attenzione e intensità, senti sorgere un ululo di dolore, che dura da millenni, da tutta la natura senziente; ululo di dolore, cioè preghiera che il dolore abbia a cessare; che dura da millenni, ossia vano. E come potrebbe mai la preghiera, che questo stesso dolore è, la preghiera che esso cessi, essere ascoltata da Zeus, il

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quale (supposto esistente) è egli appunto che ha costruito un mondo in cui tale dolore reciproco è necessario alla vita (al nutrimento), e che togliendo il dolore toglierebbe quindi precisamente il mondo che egli ha creato? Guarda ancora il passero che viene un istante a posarsi su di un melo o un ciliegio del tuo giardino. Lo vedi volgere rapido e trepido il collo mobilissimo in tutte le direzioni, dare una fulminea beccata e tornare istantaneamente a risollevare la testa, e a rigirarla intorno. Tu lo ammiri, sorridi, te ne rallegri. Che movenze eleganti! Non ti rappresenti che cosa quelle movenze eleganti significhino. Esse sono il risultato e l’indice di secoli o millenni di terrore e di spasimo. È il terrore di miliardi di miliardi di passeri, afferrati e dilaniati lungo un tempo infinito nel momento in cui spinti dalla fame si dimenticavano un attimo di stare in guardia per dare una beccata, è questo terrore che si è depositato nell’organismo e ha fatto quel collo pronto e mobilissimo, quella beccata fulminea, quelle «movenze eleganti». Quelle «movenze eleganti» sono anch’esse terrore e dolore; sofferenza, e quindi preghiera che essa cessi; preghiera che dura da miliardi di anni e di secoli, e quindi non è mai stata ascoltata, e mai lo sarà. Solo la tua infantilità ti scusa, ho detto, altrimenti il tuo pregare Zeus sarebbe prova di sordità etica. Che cosa dici di coloro i quali stettero o stanno in attitudine di ammirazione o venerazione verso potenti senza

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scrupoli, principi iniqui, tiranni, un Archelao di Macedonia, un Policrate di Samo, un Dionigi di Siracusa, un Nearco di Elea, un Falaride di Akragas o i Pisistratidi ateniesi, perché si fermano alle esteriorità luccicanti e sono da queste così abbacinati da perder di vista le malvagità da coloro commesse e i dolori immensi di cui essi hanno gravata quella parte dell’umanità che era a portata della loro azione? Non dici forse che quelli che stanno in siffatta attitudine di ammirazione o venerazione verso costoro mancano di senso etico? Ma lo stesso indizio di mancanza di senso etico vi sarebbe, se tu non fossi un bambino, nel tuo adorare e pregare Zeus. Sei incapace di vedere, abbacinato da pure e semplici esteriorità o da una specie di compiacenza nella docilità e sommessione, che tu adori un ente il quale, se esistesse veramente lassù nella cima nevosa dell’Olimpo, avrebbe creato un mondo di crudeltà infinitamente maggiore di quello foggiato nella loro sfera d’azione dai Policrati, dai Dionigi, dagli Archelai, dai Nearchi, dai Falaridi, dai Pisistratidi. Un ente che sarebbe precisamente della stessa natura di costoro. Tanto è vero (si potrebbe miticamente esprimersi) che egli li favorisce: cioè se si presentano sulla scena del mondo in numero di gran lunga maggiore i Policrati, i Dionigi, gli Archelai, i Nearchi, i Falaridi, anziché i Milziadi, gli Aristidi, i Cimoni (e se in generale i primi sono più prosperi dei secondi) vuol dire che nel Principio dell’Essere (mitologicamente: Zeus) vi è più dei primi che dei secondi.

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Comprendi ora che cosa il tuo pregare Zeus significhi, o efebo? – Così, quel giorno, lungo la riva dell’isola soleggiata, in cospetto dell’azzurro Egeo, parlò Diagora di Melo.

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Oltre S. Francesco

Questo Egli non disse. O tu, che, in varie forme, dalla nascita in poi, mi fosti presso ogni giorno e mi starai vicino sino alla morte, compagno più fedele di ogni altro, l’unico che io possa sicuramente contar di ritrovare sempre al mio lato, il solo che mi dà la certezza di mai abbandonarmi e tradirmi, fratello Dolore! Laudato sii, mio Signore, per nostro frate Dolore, aspro sale della vita, senza di cui questa sarebbe forse meno sapida e significante; che le dà l’interesse interiore, pungente e angoscioso d’un dramma a forti tinte; la cui sola presenza in chi lo soffre ingiustamente è la sua vendetta contro chi lo cagiona e la costui condanna; che è, come disse il tuo profeta, il fornello, diverso da quello che serve per l’argento, dove tu vuoi affinarci.

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L’aviatore

Di terrificante evidenza è il pensiero di Pascal che se gli uomini avessero il senso di ciò che è in realtà la loro vita dovrebbero vedersi come dei prigionieri condannati a morte, di cui alcuni sono ogni giorno sgozzati sotto gli occhi degli altri, i quali, senza speranza, attendono la loro volta. Ma non abbiamo noi forse oggi un paragone ancora più calzante per esprimere la condizione umana? Tale condizione è quella in cui si trova un aviatore precipitante dall’aeroplano, durante il brevissimo tempo che lo separa dal principio della caduta al suo inevitabile e imminente sfracellarsi contro il suolo. La condizione umana capisce e vive nella sua verità chi sta permanentemente nel medesimo stato d’animo, in cui nei pochi tragici secondi della sua caduta mortale, l’aviatore precipitante si sente.

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Olio santo

È bene che il mondo naturale sia ciecamente crudele e quello sociale umano malvagio e turpe. È così che la morte cessa di spaventare, e l’uscita, non da questo o quell’ambiente del mondo, ma dal mondo, appare una necessità etica e una liberazione. Viatico pel momento del trapasso ti sia dunque il tener fermamente presente quello che hai già conosciuto con certezza: cioè quanto il mondo della natura, l’uomo (e in primo luogo tu stesso) e le costruzioni sociali umane – tutto sia in modo irrimediabile orrendamente fatto. Se tieni ferma la forza di verità di quell’«irrimediabile», se non ti lasci tentare dalla vana speranza che tu possa vivendo ancora vedere il rimedio, la dipartita non può risultarti che come una necessità spirituale e un beneficio morale. E allora capisci che cosa soltanto sia la «Salvazione» e il «Salvatore».

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Pace

Mettiti in una situazione in cui, quando tu muoia nessuno possa dire: «finalmente! ha lasciato libero per me il suo posto, il suo ufficio, il suo lavoro, il suo possesso». Vuoi rimanere fino sul letto di morte con la mano rattratta a stringere e a prendere? Allenta la stretta cupida con cui tieni le cose che hai e con cui ti sforzi di afferrare le cose che non hai. Lascia volenterosamente e di pieno cuore andar tutto. Questo è il prezzo della pace.

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Dio, il dolore, la morte, la vita giusta di Marco Fortunato

Fra i trentasei poemetti in prosa compresi in Poemetti in prosa e in verso, il libro del 1939 che è l’ultimo pubblicato da Rensi prima di morire nel 1941, questi sette che riproponiamo ci sono parsi quelli insieme più densi teoreticamente e più riusciti letterariamente. Disposti così, in un ordine diverso da quello della loro apparizione nel libro da cui li abbiamo estrapolati1, definiscono un percorso argomentativo abbastanza coerente e unitario nel suo sviluppo che tocca con secca lucidità e veridicità una serie di cruciali nodi tematici: il mondo come luogo del male, la colpa, Dio, il dolore, la morte, la vita giusta. A dare il la al percorso non può che essere Di Chi la colpa?, il poemetto in cui lo sguardo di Rensi si fissa subito sull’essenziale-sul decisivo, ovvero sul male e sulla morte. Anzi, se prendiamo alla lettera il potente frammento attriCfr. Giuseppe Rensi, Poemetti in prosa e in verso, Istituto Tipografico Editoriale, Milano 1939, pp. 47-52 (Così parlò Diagora), p. 102 (Di Chi la colpa?), p. 114 (Olio santo), p. 115 (Pace), pp. 116117 (Volo di rondini), p. 124 (L’aviatore), p. 125 (Oltre S. Francesco). 1

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buito a Eraclito in cui si dice che quanto vediamo in veglia è morte e quanto vediamo dormendo è sonno-sogno, la morte non è solo lo spettacolo essenziale che la vita diurna-“vera” ci riserva, ma addirittura il suo spettacolo tout court, tutto ciò che essa ci mostra-ci dà, ciò con cui la vita letteralmente coincide. La morte su cui si appunta lo sguardo di Rensi è quella di un vivente-di un animato-di un animale. Secondo la lezione assolutamente esatta e definitiva di Spinoza, mentre il mondo perdura eterno e inaffondabile, vengono meno-sprofondano nel nulla tutte le sue parti, tutti gli individui che lo compongono, dunque ovviamente anche le cose-gli oggetti inanimati: ma noi in generale ci sentiamo di dire “muore” solo dell’animato-del semovente-del “propriamente” vivente, tant’è vero che, per converso, è stato osservato che il Dio del cristianesimo è il solo a meritare la definizione di “Dio vivente” appunto perché, in Cristo-come Cristo, muore. Quella cui Rensi assiste e su cui medita, però, è la morte di un vivente-di un animato-di un animale non umano, bensì sub-umano. È la morte di uno di quei viventi cui, per distinguersene, gli uomini sogliono restringere la denominazione di animali: è la morte che un gatto infligge a un topo. In questa morte si intrecciano ambiguamente atrocità e bellezza-eleganza. L’atrocità non dipende tanto dal fatto che questa morte sia assassinio, perché Rensi sa, e in passato ha già scritto chiaramente, che ogni morire è un venire ucciso, anche quello, generalmente lodato dagli uomini come uno dei più fortunati, di chi muore di malattia nel suo letto “serenamente” circondato dai suoi cari: anche questo morire non è se non il colpo di grazia con cui un morbo, insediatosi come entità estranea-nemica in un essere che ha via via consumato, lo finisce con spietatezza. L’atrocità dell’“esecuzione” del topo risiede piuttosto nel contrasto fra la sua

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impotenza, che non lo condanna solo a venire sopraffatto ma anche a rimediare quasi la goffa figura del tonto come il povero toro nella corrida, e il divertimento del suo boia, il gatto, che, per prolungare-accrescere il proprio godimento, ne rallenta «studiatamente», sapientemente, magistralmente la fine; e la maestria con cui il gatto consegue questo risultato fa tutt’uno con l’eleganza, allo stesso tempo mollemente sorniona e inesorabilmente perentoria, delle sue movenze, dei suoi brevi scatti, delle sue leggere ma ferali zampate. In questa eleganza è riposta la bellezza che, in quest’assassinio, si mescola all’atrocità. Il Rensi che non manca di riconoscerla, sottolinearla e perfino ammirarla, anche se solo per pochi momenti, è certamente memore della sentenza di Nietzsche secondo cui il mondo è giustificabile (solo) esteticamente. Ma Rensi non è un temperamento estetico, bensì intensissimamente, drammaticamente morale: non si ferma, non può fermarsi all’ammirazione per quella bellezza, da cui infatti sembra riscuotersi quasi come dal cedimento a una cinica, vergognosa approvazione dell’esistente. Rensi va oltre l’“ipnosi” del puro, passivo, acritico, assenziente ammirare; in lui è l’indignazione, anzi diciamo pure la rabbia, il sentimento che prevale. E infatti in poche battute sente montare in sé la domanda che chiede chi sia incolpabile dell’orrendo che si sta compiendo sotto i suoi occhi, un orrendo che, giustamente, gli pare assimilabile ad altrettanto “ludici” eccidi di uomini quali erano quelli un tempo allestiti-imbanditi nel Colosseo; Rensi cerca un colpevole, il colpevole, trova giusto-desidera che qualcuno paghi, almeno venendo trascinato nell’ignominia di essere scoperto e additato come il responsabile di quell’orrendo. Nella sua ricerca di un colpevole, Rensi è profondamente anti-nietzscheano. L’ultima, davvero essenziale parola di

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Nietzsche, il pensatore che si autodefinì e per certi versi fu effettivamente dinamite, è, molto tedescamente, l’incondizionata obbedienza-sottomissione: per la precisione, l’obbedienza-sottomissione all’esistente, che è il Potente-l’Autorità delle autorità, vale a dire al mondo-al reale-alla Natura esattamente così com’è. Le tirate di Nietzsche contro il risentimento e, soprattutto, contro lo spirito di vendetta non sono che il tentativo di squalificare chi, coinvolto in un mondo profondamente impregnato dal male, ritiene come Leopardi indegno cantarne anche le lodi codardamente-servilmente oltre a subirlo (subirlo è inevitabile), e nobile denunciarloelevargli contro la protesta. Anche Spinoza, a dire il vero, è una figura della non-protesta, ma, conformemente alla sua natura che è quella della massima mente speculativa mai vissuta, si astiene anche dal lodare-incensare, e ancor meno si sforza di esaltarsi-eccitarsi per la vita e per il travolgente divenire nella maniera fra penosa e ripugnante esibita da Nietzsche: Spinoza sta (o almeno si avvicina più di chiunque altro a stare) in quella che è in definitiva la sola posizione scientificamente valida e ineccepibile, la posizione di chi vede, registra, cerca di comprendere e acutissimamente, lucidissimamente, asetticamente spiega. Di questa grandiosa freddezza da automa di Spinoza, di questa compostezza sovrumana, Rensi nella Filosofia dell’assurdo ha già scritto, con estremo rispetto ma anche con una punta di sgomento, che conseguirla coincide col miracolo di “abbassarsi” fino a raggiungere, proprio attraverso il dispiegamento del più complesso armamentario concettuale, la suprema semplicità della condizione subumana dell’animale, il quale, di fronte alle cose e ai fatti, non ne dice-non ha da dirne niente e, se mai potesse parlare, si limiterebbe a proferire l’assoluto noncommento/non-giudizio “sono, e sono quello che sono e come sono”.

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Nemmeno un atteggiamento alla Spinoza fa per Rensi, che – umanamente, molto umanamente – com-patisce (con) il topo, lascia trapelare la propria indignazione e cerca-vuole un colpevole del suo strazio. Sulle prime, individuare il colpevole pare di una facilità irrisoria. C’è un carnefice, un assassino – il gatto – evidentissimamente in azione. Ma c’è di più. Il gatto agisce «studiatamente» e, così facendo, riesce ad allungare l’agonia della sua vittima, dalla quale si deve quindi ritenere che tragga piacere, un piacere che, appunto, provvede a prolungare per poterselo godere-per poterselo «gustare sino all’estremo». Insomma, il gatto pare avere e seguire un progetto, sembra assaporare la situazione al punto da andare al di là del trarne semplicemente piacere, al punto da spingersi fino al “rigiro” del compiacimento, del provare piacere di stare provando piacere; ma quello che ha “in mente” un progetto, lo attua e se ne compiace non può che essere ben presente a se stesso, cosciente di ciò che ha deciso di fare e sta facendo. Anzi non sembra fuori luogo attribuirgli anche almeno un barlume di autocoscienza. Il gatto appare per certi versi molto umano. Spinoza – la mente superiore che, in quanto tale, vede e riconosce il dominio su tutto e su tutti della necessità – aveva compiuto la grandiosa operazione di ricondurre l’uomo all’animale osservando che, come nessuno di noi si sogna di censurare la tigre che sbrana la gazzella come cattiva e colpevole nel senso che avrebbe liberamente potuto decidere e fare diversamente ma ha invece optato per il male di quella barbara uccisione, allo stesso modo nessuno dovrebbe cadere nell’illogicità di considerare, nello stesso senso, cattivo e colpevole un uomo che ruba o anche un matricida come Nerone, bensì tutti dovrebbero convenire che entrambi non potrebbero comportarsi diversamente perché è nell’inalienabile natura del primo rubare e del secondo uccidere la madre. Ebbene, il Rensi di Di Chi la

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colpa? pare compiere l’operazione inversa, pare ricondurre l’animale all’uomo, in quanto ravvisa nel gatto quei segni di accensione (auto)coscienziale cui, nel valutare un uomo, solitamente ci appelliamo per motivare il nostro giudizio – che Spinoza sa essere erroneo – secondo cui è liberamente responsabile delle sue azioni e perciò, eventualmente, incolpabile e punibile per esse. Per un momento, si ha addirittura l’impressione che Rensi pensi astiosamente così: il gatto non solo sta facendo scientemente quello che sta facendo ma ne gode anche, e quindi è a maggior ragione giusto, anzi sacrosanto, che (la) paghi. Ma è, appunto, solo un momento. Rensi non tarda certo a cogliere che in realtà il gatto agisce come una macchina, che si è attivato e fa quel che fa nello stesso modo ineluttabile con cui scatta un congegno di cui sia stata sollecitata la molla. La piena, pronta ammissione che il gatto non può comportarsi diversamente da come si comporta nei confronti del topo dipende sicuramente anche dalla coscienza che Rensi ha del fatto che non solo quel certo gatto si deve essere già comportato numerose altre volte in quello stesso modo in circostanze analoghe con altri topi, ma anche innumerevoli altri gatti hanno riservato quel medesimo trattamento a innumerevoli altri topi in innumerevoli occasioni analoghe. Identità, livellamento, assenza di sorprese, ripetizione, monotonia sono sigilli decisivi, eloquentissimi della necessità: chi può pensare seriamente che un certo soggetto finirebbe per comportarsi sempre, per infinite volte, nello stesso identico modo, se ogni volta, per infinite volte, gli si proponessero davvero due o più possibili alternative e fosse davvero libero di optare per l’una o per l’altra di esse? Rensi ha già espresso nei suoi scritti e terrà ferma fino alla fine la convinzione che l’accadere del mondo-nel mondo ricada sotto l’egida del caso, perché ha sempre ritenuto di poter offende-

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re-umiliare nel modo più cocente la realtà, che è il bersaglio della sua protesta e della sua rivolta, dicendo di essa che accade a caso; e naturalmente questo “a caso” va inteso come uno sferzante equivalente di “a casaccio”, “senza alcun ordine”, “senza capo né coda”. Ma in non pochi punti della sua opera Rensi “slitta” verso la tesi necessitarista e, quasi senza avvedersene pienamente, si esprime più o meno apertamente come un “discepolo” della necessità: in proposito, non gli si potrebbe chiedere di esprimersi più nettamente di come si esprime quando, in questo poemetto in prosa, scrive del gatto che «è fatto in questa guisa, la sua natura è tale» o, appena oltre, definisce «necessarie» le innumerevoli crudeltà che, simili a quella perpetrata dal gatto, “zampillano” di continuo nel mondo, costituendo – si può dire – l’ossatura stessa dell’accadere e della storia, il loro osceno “basso continuo”. Ma chi non è libero e sta nella necessitazione, si colloca al di là del bene e del male; non ha alcuna legittimità logica, non ha senso, imputargli una qualunque colpa. E Rensi lo dice chiaramente: nella giocosa ma non per questo meno inesorabile “misa a muerte” di cui il gatto è l’autore, «si rivela l’assoluta innocenza della sua crudeltà». Forse il termine «innocenza» non è il più adeguato che si potesse usare, perché non c’è dubbio che il gatto oggettivamente-materialmente nuoce nella misura in cui fa del male al topo fino a sopprimerlo; ma Rensi vuole dire che il gatto è, per così dire, soggettivamente in-nocente, ovvero incolpevole, e infatti si affretta a scrivere l’inequivocabile «La colpa non è sua». “Assolto” il gatto, anzi riconosciuto che non ha nemmeno senso istruirne il “processo”, Rensi è però tutt’altro che pago. La ricerca di un-del colpevole dell’orrendo che sta osservando e delle altre innumerevoli crudeltà prosegue caparbiamente, tant’è vero che il poemetto si chiude sulla

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domanda-provocazione «di Chi dunque la colpa?». L’assegnazione al «Chi» dell’iniziale maiuscola ha un’importanza enorme. Noi capiamo che, con il gatto, Rensi ha scagionato anche ogni altro vivente, uomini compresi; noi intuiamo che è giunto a riconoscere così a fondo che Spinoza ha ragione da dare implicitamente il suo assenso all’idea dell’uomo propria del filosofo olandese, quell’idea che lui stesso, Rensi, condensa nella formula «automa spirituale» ricorrente nel suo splendido Spinoza. Quell’iniziale maiuscola rivela che il sentire di Rensi è affine a quello che in un’importantissima annotazione dello Zibaldone esterna Leopardi, cioè colui del quale è appunto Rensi il primo a dire finalmente che è il massimo pensatore italiano; in tale annotazione Leopardi respinge come assolutamente infondate le accuse di misantropia rivoltegli da più parti e precisa che, semmai, la sua protesta si appunta contro un obiettivo che sta decisamente più in alto dell’uomo. Nel caso di Leopardi, sarebbe del tutto legittimo discutere se quel più alto obiettivo cui allude sia Dio, un Dio personale, o piuttosto la Natura, quell’Entità impersonale con cui si è misurato e su cui ha ragionato e scritto per tutta la vita e che solo la licenza concessa alle opere di finzione gli aveva consentito di rappresentare come «una forma smisurata di donna ... di volto mezzo tra bello e terribile» nel Dialogo della Natura e di un Islandese. È invece fuor di dubbio che, scrivendo il suo «Chi», Rensi abbia in mente-di mira Dio, inteso come la Persona cui una lunghissima e influentissima tradizione filosofico-religiosa attribuisce la creazione del mondo. Scrivendo quel pronome con l’iniziale maiuscola, Rensi di fatto si protende iracondo e minaccioso contro il Dio supposto creatore del mondo: infatti, già si intuisce come, del tutto giustamente, pensi che, se quella suprema Persona creatrice esiste, è Lei e solo Lei a dovere essere riconosciu-

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ta – e maledetta – come la responsabile/la colpevole delle continue, innumerevoli apparizioni del dolore e del male che da sempre funestano e sconciano il mondo. Non ci vuole insomma molto a intuire che Rensi è ben lontano dallo spirito bassamente accomodante e servile che spinse Platone a premurarsi, nella Repubblica, di sottrarre il suo Dio a ogni possibile accusa o attacco definendolo anaitios, ovvero non responsabile, incolpevole. Né si fatica a indovinare che, qualora a Rensi fosse stato chiesto un parere sulla narrazione ebraico-cristiana del peccato originale, secondo la quale con esso l’uomo avrebbe compromesso-rovesciato la “qualità” ontologica del mondo trasformandolo, dalla meraviglia immune da ogni male inizialmente uscita dalle “mani” di Dio, nel quasi-inferno che tutti ben conosciamo, egli la avrebbe liquidata giudicandola per quello che effettivamente è: un’invenzione quasi grottesca, un espediente indegno di essere preso sul serio, in virtù del quale l’uomo, l’essere ambiguissimo il cui servilismo e masochismo sono almeno pari al suo egoismo e alla sua boriosa prepotenza, vorrebbe porre al riparo da qualsiasi contestazione il DioPadrone facendo di se stesso il colpevole condannato a recitare con avvilente contrizione un continuo mea culpa. Poiché la domanda «di Chi dunque la colpa?» trascina alla sbarra Dio, il poemetto che con tale domanda si conclude non può che rinviare ai due – Volo di rondini e Così parlò Diagora – nei quali è in questione appunto Dio, sia pure sotto il velame del riferimento al Demiurgo e a Zeus dettato a Rensi dalla sua scelta di strutturarli entrambi come lunghi, tesi monologhi ammaestranti che due saggi del periodo della grande filosofia ellenica (al secondo dei quali viene data l’identità di Diagora, il filosofo e poeta dell’isola di Melo entrato nella tradizione come l’ateo par excellence di quel periodo) offrono ai loro ascoltatori-discepoli; questi,

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peraltro, hanno l’aria di essere un solo e medesimo giovane, così come il saggio in-nominato di Volo di rondini coincide in qualche modo con Diagora in quanto si attesta sostanzialmente sulle stesse posizioni. Possiamo già anticipare che i due poemetti emettono un verdetto preciso, che ha il valore dello svelamento di un segreto di Pulcinella, in questo caso, ovviamente, di un segreto filosofico di Pulcinella; e la parola “valore” deve essere sottolineata e rivendicata, perché i segreti di Pulcinella, come ben si sa, sono quelli che pochissimi svelano e che anzi, a volte, assolutamente nessuno ha l’onestà e il coraggio di spiattellare chiaramente e integralmente. I due poemetti stabiliscono quanto segue: Dio, se esiste e ha voluto e creato questo mondo infestato dal dolore, dall’ingiustizia, dalla forza/violenza, insomma dal male, è e non può che essere una canaglia, anzi la Canaglia; ma non esiste, e, per dirla in modo paradossale e sarcastico, è davvero meglio per Lui che non esista, considerato tutto il male che si dovrebbe pensare e dire di Lui se invece esistesse. Più esattamente, Dio non esiste-non può esistere come la Persona non solo potente ma anche giusta e buona di cui parlano le religioni e in particolare la religione cristiana, perché mai e poi mai una Persona giusta e buona potrebbe aver voluto e continuare a permettere l’esistenza di un mondo dai tratti chiaramente infernali. Tutt’al più, se proprio non si vuole rinunciare all’idea di una Persona signora assoluta del mondo, può forse avere qualche senso ipotizzare che esista avendo i caratteri di un Mostro radicalmente amoraleimmorale di sola, sconfinata potenza – un Mostro di potenza non privo di innegabili doti, diciamo così, organizzative e architettoniche. Ma Rensi è il pensatore che, nella Filosofia dell’assurdo, spiega, un po’ scientificamente e un po’ miticamente, l’apparire degli uomini, ossia dei soli enti al mondo

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cui possa ritenersi davvero appropriato attribuire la qualifica di individui, con l’assolutamente im-preventivabile, inimmaginabile “scartare” e, quasi, impazzire della cellula cerebrale di un pitecoide; dunque Rensi è teoreticamente abbastanza lucido da essere consapevole che il fenomeno individuale è una quasi incredibile eccezione, una tardiva e abnorme efflorescenza-escrescenza del reale, e che quindi il mondo accade e va compreso nel segno dell’impersonale, essendo irrimediabilmente sbagliata la “genealogia” insegnata dalle religioni che presenta una-la Persona come l’iniziale e il normale, anzi addirittura come Quello che sarebbe stato la sola e intera realtà se non avesse creato un altro-daSé creando il mondo. Appare insomma inattendibile anche la figura di un principio e dominatore del mondo che, sia pure con i caratteri di un mostro di mera potenza totalmente insensibile alle esigenze morali umane di giustizia e bontà, sia comunque persona-individuo. Rensi, da assiduissimo e finissimo “frequentatore” quale era della letteratura non solo filosofica ma soprattutto poetica e tragica della Grecia antica, non poteva avere troppi dubbi circa il fatto che la sola entità che, alla luce di esperienza e ragione, sia sensato pensare come cuore e reggitrice del mondo è ciò che quella letteratura chiamava Ananke o Tyche, ovvero un blocco, un “masso” cieco e sordo che si può quasi indifferentemente ritenere di necessità o di casualità, perché qui il ricorso al termine “Necessità” e quello al termine “Caso” dicono-lamentano-maledicono sostanzialmente lo stesso, ovvero l’assenza di un Progetto intelligente capace di garantire alla realtà un Senso e un Ordine, se non addirittura morale, perlomeno logico-razionale. Già Leopardi aveva lasciato intendere che, se proprio si vogliono attribuire al mondo esistente un senso e un fine (due termini da scrivere entrambi con l’iniziale rigorosamente minu-

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scola), essi possono essere rinvenuti semmai solo nella quasi miracolosa capacità e nell’ostinazione con cui esso si conserva e continua, inaffondabile, attraverso l’annientamento di tutti gli enti che in esso appaiono e, uno dopo l’altro, vengono distrutti: il senso e il fine del mondo sono riposti nel suo semplice funzionare, quando con funzionamento del mondo si intenda il passo sicuro, infallibile con cui conferma se stesso e si mantiene sempre, da sempre e per sempre, assicurando la perpetuazione dello spettacolo attraverso la convocazione e la demolizione dei suoi infiniti attori. Se così stanno le cose, i due saggi monologanti di Volo di rondini e di Così parlò Diagora (che sono chiaramente alter ego di Rensi) che cosa possono pensare dei loro giovani discepoli, il primo dei quali crede nell’esistenza del Demiurgo, mentre l’altro viene visto nell’atto di pregare Zeus e di offrirGli un sacrificio? Del discepolo che crede senza esitazioni nell’esistenza del Demiurgo, il suo maestro pensa – e glielo dice apertamente, con un misto di affettuosa compassione e di sottile disprezzo – che è una mente bambinesca, non progredita, incapace di riflettere autenticamente, di intus legere/di guardare “dentro”, oltre la superficie e verso il «fondo della realtà». Anche in Volo di rondini, come e più ancora che in Di Chi la colpa?, la superficie, ciò che im-mediatamente si vede, ha indubbi tratti di bellezza: inquadrato nel sereno cielo primaverile, il dispiegarsi del volo dello stormo di rondini piace, distende, intenerisce, quasi commuove lo spettatore-tipo incarnato dal giovane discepolo, inducendolo alle consuete, retoriche lodi della bellezza del creato. Ma Rensi ha letto la pagina dello Zibaldone in cui Leopardi osserva e spiega come l’incanto di un bel giardino fiorito sia prodotto da un “concerto” di presenze floreali e animali che, se si va a scrutare e a soppesare nel dettaglio ciò in cui sono “affac-

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cendate”, si scoprono stare tutte nel dolore e nella tensione causata dall’incalzante, esasperante minaccia di una fine più o meno imminente. Il Rensi che conosce quella raggelante pagina di Leopardi può così affidare al saggio un non meno duro richiamo alla realtà rivolto all’ingenuo discepolo: la verità, il senso profondo dell’accattivante spettacolo che le rondini stanno offrendo è orribile, perché il loro volo è la loro battuta di caccia, che terrorizza moltissimi insetti e che costerà, anzi sta già costando loro la vita. E questo scenario di paura e di dilaniamento è, in questo mondo/nel mondo, l’assoluta normalità, è l’esempio di ciò che da sempre si ripete e per sempre si ripeterà in infinite situazioni aventi la stessa natura disgustosamente delinquenziale. Questo mondo/il mondo è nella sua essenza un mattatoio ininterrottamente in funzione nel quale i viventi si ammazzano e si divorano reciprocamente; non è forse un non-senso, e anche una volgare mancanza di rispetto per Lui, pensare che Qualcuno abbia voluto e creato una simile cloaca ingombra di sangue dove, come il saggio maestro greco alter ego di Rensi dice ripetendo letteralmente Schopenhauer, «la vita per durare è condannata a distruggere e maciullare se stessa»? L’altro giovane, quello che è esplicitamente definito discepolo di Diagora, in parte è “sovrapponibile” al primo e in parte fa-è anche peggio di lui; non solo, infatti, dà per indiscusso che Zeus ci sia allo stesso modo in cui il primo è certo dell’esistenza del Demiurgo, ma è stato anche colto in fallo da Diagora che lo ha visto all’altare di Zeus mentre alzava «le mani in atto di preghiera» e presentava al cosiddetto padre degli Dei un’offerta (con ogni probabilità un animale, che dobbiamo quindi ritenere abbia provveduto a uccidere, proprio lui che solo due giorni prima, durante una passeggiata in montagna in compagnia del maestro, era stato toccato dalla compassione e si era commosso quando aveva

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incrociato un vitello legato, scaraventato «sul fondo d’una carretta» e condotto alla nave che lo avrebbe trasportato «ad Atene pel sacrificio», cioè perché vi fosse ucciso, sempre e naturalmente a mo’ di omaggio a qualche Dio dell’Olimpo). Così, in quanto staziona nell’ingenua illogicità di credere nell’esistenza di Zeus, il discepolo di Diagora, così come il silente ascoltatore di Volo di rondini e implicitamente le miriadi di uomini e donne che hanno creduto e crederanno in (un) Dio, si prende del «bambino»; e, in quanto onora e prega Zeus, si prende dell’«eticamente atono». Infatti, rivolgersi omaggianti, ringrazianti e oranti a Zeus non è solo inutile e insensato in quanto è rivolgersi a un in-esistente, al nulla; rivela anche una nota di turpe insensibilità e lassismo morale in chi lo fa, perché facendolo dimostra di approvare, stimare, anzi addirittura venerare – o almeno di astenersi totalmente dal criticare – Uno che, se esistesse, dovrebbe semmai essere ritenuto la Canaglia e, come tale, disprezzato e maledetto. Che invocare e pregare Zeus-Dio sia una pratica completamente inutile e quindi insensata fino alla stupidità perché equivale a invocare e pregare il nulla, lo attesta il dato seguente: se, secondo l’interessante e originale concezione di Diagora/Rensi, ogni terrorizzato dolore di ogni vivente sottoposto a un’atroce tortura o avviato alla morte come il vitello scaraventato nella carretta è stato una preghiera con cui quello chiedeva a qualche Essere superiore di venire risparmiato, ebbene, nessuna di tali innumerevoli preghiere è stata mai esaudita e il destino di tutti quegli innumerevoli viventi si è sempre inesorabilmente compiuto. Poiché al sofferenteimplorante non è mai giunta alcuna risposta nella forma di un aiuto che salvasse, il cielo non può che essere vuoto. Che, qualora Zeus-Dio esistesse ed esistesse come il creatore e il conservatore del mondo, Lo si dovrebbe tenere

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nella più bassa considerazione e non certo adorare, lo attesta, molto semplicemente, ciò che è e il modo in cui va il mondo. Come il saggio che parla in Volo di rondini, anche Diagora/Rensi scruta il mondo naturale-animale, «la natura senziente», e prende atto che versa in una situazione di conflitto e di sofferenza tali che è come se da essa si levasse un mostruoso «ululo di dolore, che dura da millenni» e che è la sua preghiera di essere liberata dalla propria abiezione, una preghiera che dura da millenni proprio perché è rimasta sempre inascoltata; e tale rimarrà per sempre, perché il Dio suo destinatario, «supposto esistente», è proprio Colui che ha voluto e creato la natura strutturalmente affondata in un simile abisso di dolore, e quindi chiederGli di revocarlo significa chiederGli un impossibile rinnegamento di Se stesso. Ma, diversamente dal saggio di Volo di rondini, Diagora/Rensi dirige il suo sguardo anche sulla “famiglia umana”, e più precisamente sulle sue cosiddette alte sfere, ovvero sui governanti-sui leaders politici, e vede che, fra loro, i giusti e miti sono rarissime eccezioni, mentre è molto frequente che a guidare i popoli siano figure ripugnanti di tiranni assetati di potere e di sangue come un Falaride o un Dionigi di Siracusa; se il “materiale” umano prevalente nel mondo (nel doppio senso che è più diffuso e vi prospera occupando i posti “d’onore”) è eticamente spregevole, non si può dubitare che ugualmente spregevole sia non solo il nocciolo ontologico sostanziale-la verità del mondo, ma anche Chi lo avesse creato così e, coerentemente con la Sua infamia, continuasse a dirigerlo proteggendo e avvantaggiando i suoi più turpi abitatori. A dire il vero, Diagora/Rensi avrebbe potuto scegliere un riferimento meno “facile” e scontato di quello alla categoria dei potenti, i cosiddetti grandi della terra: nonostante gli sforzi (ingenui o in mala fede) di tutta una tradizione pluri-

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millenaria che, da Platone fino alla Arendt, si è ingegnata a “dimostrare” e a magnificare la nobiltà della politica, essa, in quanto è per definizione l’àmbito della decisione e del comando, va ritenuta una delle sfere più basse e volgari dell’attività umana, nella quale è quindi ovvio che entrino mirando a ruoli apicali e che li conseguano quasi solo dei miserabili, la cui priorità esistenziale è calcare il tallone sul numero più alto possibile di loro simili. Certo, Diagora è vissuto troppo presto perché Rensi potesse mettergli in bocca, come argomento avverso alla positiva e rassicurante concezione del mondo e di Dio fucinata dalle religioni e in particolare dalla religione cristiana, il richiamo alle scoperte scientifiche messe a segno a partire dal Seicento, che hanno confutato e quasi ridicolizzato i pilastri di quella concezione. Tuttavia, Rensi avrebbe senz’altro potuto far dire a Diagora ciò che ogni uomo ha potuto benissimo constatare da molto ma molto prima del Seicento, ossia che non si ravvisa traccia alcuna di una direzione buona e provvidenziale né nelle vicende individuali né in quelle collettive-storiche; e avrebbe potuto farglielo dire attraverso il riferimento non al livello dei “capi”, dove per le ragioni dette è logico che sguazzino quasi solo squali, bensì, più genericamente ma anche molto più incisivamente, all’esperienza, che tutti facciamo quotidianamente a tutti i livelli e in tutti i comparti dello “scacchiere” sociale (e che lui stesso in altri suoi scritti menziona con esemplari accenti di amarezza e di indignazione), di vedere quasi sempre favoriti e premiati dagli eventi i prepotenti, gli avidi di possesso, i falsi, gli sleali, i vili, i privi di serietà e di tensione esistenziale, i mediocri, i conformisti, e al contrario più o meno duramente penalizzati e bastonati i miti, i dis-interessati, gli autentici, gli onesti, i seri, gli originali. Dalla lettura dei due poemetti “su Dio” si esce gravati da due pensieri desolanti. Da un lato, non solo ringraziare,

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omaggiare e pregare, ma anche protestare e maledire appare privo di senso, perché inveire contro un in-esistente o anche contro qualcosa di impersonale ha i tratti piuttosto patetici di un atto mancato; se ha senso solo prendersela con un esistente, e con un esistente che sia un qualcuno-un individuo-una persona, allora all’uomo è interdetta anche la sia pur acre soddisfazione di sfogarsi su di un adeguato e giusto bersaglio per tutto il male che patisce e vede intorno a sé. D’altro lato, se il dolore è la preghiera con cui il dolore stesso implora di essere tolto, allora non si può dire che esso si distingua per nerbo, e tantomeno vi si può rintracciare qualcosa di “eroico”; esso anzi impone-conferma l’immagine dell’uomo come questuante, come mendicante che vive di continui bisogni, desideri e richieste e di continuo si arrabatta in ogni modo per ottenerne la soddisfazione, ridotto in quella condizione umiliante che destava orrore e vergogna – vergogna anche, e forse in primo luogo, di se stesso – in Carlo Michelstaedter, l’autore di La persuasione e la rettorica, uccisosi a ventitré anni nel 1910, che compone insieme a Leopardi e a Rensi stesso la triade dei pensatori italiani più acuti, potenti e veritieri. A proporre una concezione meno scialba del dolore provvede Oltre S. Francesco, il poemetto in cui Rensi “completa l’opera” del santo, che ha ringraziato il Signore un po’ per tutto ma “si è dimenticato” di farlo per «frate Dolore». Tessendo l’elogio di questo scomodo e inallontanabile compagno dell’uomo, Rensi lo presenta, senza dubbio pensando essenzialmente al dolore morale-psicologico-esistenziale, come l’«aspro sale della vita», come l’ingrediente stimolante, la “spezia” che stacca l’esperire e il sentire umano dal livello di un’incolore, monotona, smorta piattezza. In questo alto riconoscimento di Rensi al dolore, avvertiamo l’eco dell’importante motivo leopardiano della netta preferibilità del

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dolore, che è pur sempre un’esperienza vibrante capace di coinvolgere intensamente e fare sentire vivo chi lo patisce, rispetto alla noia, che è invece la penosissima condizione di atonia in cui versa chi è sì vivo e continua a stare al mondo, ma senza provare ed essere distratto da sensazione alcuna, né di piacere né di dolore. Ma il punto del poemetto in cui Rensi tratteggia una concezione davvero graffiante, quasi ruggente del dolore, è quello in cui afferma che, proprio “assaporandone” il fiele, «chi lo soffre ingiustamente» protesta contro chi gliel’ha inflitto, anzi di più, lo condanna e si prende su di lui la propria vendetta; è come se Rensi dicesse che, quanto più un uomo che soffre senza giusta causa può mostrarsi minato e stravolto dal dolore, tanto più duramente punisce il proprio aguzzino denunciando e svergognando la sua crudeltà. Ma in un mondo/nel mondo retto da un’inesorabile Necessità, tutti devono agire esattamente nel modo in cui agiscono e quindi a nessuno possono essere imputate colpe che meritino di essere pagate col dolore; se quindi tutti sono innocenti e tutti, quando soffrono, soffrono ingiustamente – anche (è giocoforza riconoscerlo) quelli che causano dolore agli altri, come d’altronde facciamo assolutamente tutti e di continuo, in misura maggiore o minore –, allora tutti i dolori di tutti hanno la grandezza di un’invettiva che accusa e inchioda. Che accusa e inchioda chi come l’abietto responsabile, però? Non il Dio creatore-nemmeno il Dio creatore che, contro la ragione e l’esperienza, si volesse supporre esistente, perché, in un mondo/nel mondo governato dalla Necessità, sarebbe sovrastato da Ananke proprio come gli Dei olimpici secondo i Greci antichi, e quindi avrebbe creato così male come ha creato, condannando le sue creature a continue e massicce dosi di dolore, secondo necessità, ovvero anche Lui senza colpa. In un mondo/nel mondo retto dalla Necessità,

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il ragionare per colpe, l’atteggiamento che vorrebbe assegnare colpe, al quale il Rensi dell’aggressiva domanda-provocazione «di Chi dunque la colpa?» sembra fare fatica a rinunciare, viene posto completamente fuori gioco. Dopo aver valorizzato il dolore, Rensi è in grado di dire qualche parola consolatoria perfino sulla morte. Per la verità, in L’aviatore Rensi, prendendo spunto da un pensiero in cui Pascal ricorre a una metafora tanto atroce quanto pienamente calzante per “fotografare” l’effettivo dramma della condizione dell’uomo – il solo animale che sa di essere destinato a morire, ossia a venire infine ucciso –, ne escogita un’altra, più attagliata al periodo storico in cui si trova calato, che conferma la canonica concezione della morte come spettro terribile: la vita dell’uomo non è in fondo più lunga del tempo intercorrente fra il momento in cui un aviatore sbalzato fuori dal suo aeroplano comincia a precipitare e quello in cui ineluttabilmente si sfracella al suolo, e a “interpretarla” correttamente sarebbe solo l’uomo che dal principio alla fine si sentisse immerso nello stesso stato d’animo dell’aviatore precipitante, ovvero oppresso dall’angoscia ossessionante di un condannato a morte non solo certa e comunque violenta ma anche assolutamente imminente. Anche “dietro” a quest’idea di Rensi non è difficile scorgere Leopardi, per l’esattezza il Leopardi che osserva come l’uomo vivrebbe logicamente-razionalmente solo se passasse la sua esistenza in una condizione che lo condurrebbe peraltro a sicura pazzia, ovvero ininterrottamente concentrato sul pensiero della morte, sul pensiero fisso che dovrà morire, che rifluirà nel nulla, che anzi essenzialmente è già, mentre vive, un nulla circondato da altro nulla. In Olio santo, però, il timbro della meditazione di Rensi sulla morte cambia: la morte vi figura come l’unica salvezza

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degna di questo nome. Chiunque sia lucido e onesto in primo luogo con se stesso – e Rensi lo è come pochi altri, non solo tra i filosofi – sa che, se con salvare si intende conservare-stabilizzare-rendere immortale, non c’è assolutamente niente da salvare-niente che possa essere salvato, né una fantomatica anima, né il preziosissimo e amatissimo patrimonio dei ricordi individuali, né la vita terrena o ultraterrena dei singoli o delle collettività, né ovviamente un qualunque bene materiale: tutti gli enti, l’uomo assolutamente compreso, sono chiamati (all’essere) per venire distrutti definitivamente e totalmente. Ma proprio da questa chiara consapevolezza muovono, sorprendendo come un gioco di prestigio che però non ha proprio nulla di ozioso ma è anzi serissimo, il ragionamento e la conclusione di Rensi: se la legge ineludibile è la distruzione, ebbene, proprio la distruzione-l’esser cancellati dal mondo-la morte è la salvezza per la quale è giusto essere grati. Lo è almeno per l’uomo eticamente sensibile e sincero, perché costui, vivendo, apprende e riconosce fino in fondo, con dolore e sdegno altrettanto grandi, come – secondo le mirabili definizioni scelte da Rensi – «il mondo naturale sia ciecamente crudele e quello sociale umano malvagio e turpe», «il mondo della natura, l’uomo [...] e le costruzioni sociali umane – tutto sia in modo irrimediabile orrendamente fatto»; la morte è per lui la «liberazione» definitiva e totale da quest’orrore, ossia non certo il passaggio a un inesistente mondo buono o perfetto dalle caratteristiche opposte a quelle del mondo che lascia, ma perlomeno uno sprofondare nel nulla che è un definitivo e totale svanire per lui dell’orrore della realtà. E tale orrore, come tiene a sottolineare Rensi che così raggiunge il vertice della sua chiaroveggenza e della sua veridicità nel momento stesso in cui chiude la porta a ogni speranza, è appunto «irrimediabile», ovvero anch’esso definitivo; il

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morente può quindi avviarsi sereno e pacificato al trapasso proprio se tiene presente tale definitività, proprio se si nega ogni puerile illusione circa la possibilità che, se vivesse alcuni anni di più, sarebbe spettatore e godrebbe di un miglioramento, magari radicale, delle cose. Rispunta qui il Rensi necessitarista, che sa come la realtà sia quello che è, ovvero l’alveo del male e della radicale non-soddisfazione per i suoi abitatori, non per qualche disgraziato accidente e temporaneamente, ma costitutivamente-strutturalmente-necessariamente e quindi da sempre e per sempre. Questo Rensi “supera” di gran lunga non solo i non pochi genitori che – siano o non siano veramente convinti di ciò che dicono e, soprattutto, pienamente consapevoli del suo senso – offrono come giustificazione dell’essersi riprodotti la speranza-auspicio che al figlio possa “andare meglio” che a loro e tocchi in sorte di fare esperienza di un “mondo migliore”, ma anche Schopenhauer, il quale, sia pure in forme speculativamente piuttosto oscure e contorte, non cessa di mettere in conto la speranza-possibilità di una qualche redenzione e salvazione del mondo e non ha affatto l’aria di deridere le madri quando scrive che, se le donne sono indotte dal pudore a considerare intollerabile che qualcuno le possa vedere nel compimento dell’atto sessuale, amano invece esibirne con una certa fierezza la conseguenza, cioè lo stato di gravidanza, forse perché cullano la speranza di portare in grembo il grande individuo che saprà finalmente debellare-estinguere-“annichilire” la Volontà, la cattiva essenza del mondo, e così appunto redimerlo. Ma, soprattutto, la fermezza con cui Rensi ammette che nel mondo la prevalenza del male vige da sempre e vigerà per sempre in quanto è strutturale, rappresenta il più sacrosanto dei suoi tratti anticristiani. I cristiani (e gli innumerevoli a vario titolo influenzati-condizionati dalla cultura cristiana)

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sono vissuti e vivranno giornalisticamente nell’attesa, puntualmente destinata a risultare vana e quindi patetica, di una novità, di un rivolgimento clamoroso che, (re)instaurando il bene su scala sia individuale sia collettiva, sappia avvicinarsi al grado di radicalità dei due colpi di scena che il cristianesimo si è inventato: la creazione del mondo da parte di Dio e la Sua discesa in terra nelle vesti di uomo. Tutt’al contrario Rensi, come il Nietzsche dell’eterno ritorno ma senza indulgere minimamente alla retorica decisionistica con cui il pensatore tedesco ne aveva condito l’annuncio, accoglie la lezione della cultura molto meno ingenua dei Greci, la quale sa e dice che – sventuratamente – nessun mutamento e miglioramento significativo dello stato-dell’ordine delle cose può sopravvenire. Si potrebbe dire che, se la morte è liberazione dal male, è bene affrettarne la venuta suicidandosi. Ma si direbbe male, perché uccidersi sarebbe aggiungere un altro atto di forza/violenza agli innumerevoli che già ammorbano e devastano il mondo. La morte va dunque aspettata, e l’ultimo poemetto qui proposto – Pace – indica chiaramente come sia opportuno aspettarla, ovvero vivere: secondo le parole scelte ancora una volta magistralmente da Rensi, badando a non «rimanere fino sul letto di morte con la mano rattratta a stringere e a prendere»; rinunciando all’attaccamento alle cose, alle cariche e al potere; astenendosi dalla prepotente e volgare rapacità predatoria di chi è costantemente in competizione per mettere le mani su qualcosa o qualcuno prima degli altri, per i quali quindi non è che un odioso fastidio; evitando di essere duri e di tenere duro; lasciando semplicemente, quietamente stare-essere cose e persone. In questo abbandono potrebbe forse consistere la vita giusta o, se non altro, la meno ingiusta delle vite possibili nel mondo governato dal male.

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Di Giuseppe Rensi abbiamo in catalogo: - La morale come pazzia - Il troppo - Il dramma politico di Platone