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Italian Pages 138 Year 1998
PAOLO FABBRI
La svolta semiotica
Editori La.terza
Introduzione
Il genere di discorso che mi è stato chiesto di assumere in questa occasione è quello delle lzzioni. Il che comporta degli obblighi e delle costrizioni specifiche, ai quali devo e voglio attenermi. l'indicazione di genere, in fondo, mi dà anche delle sicurezze. Non sono qui, poniamo, per raccontare delle storie o per discutere certe teorie; sono qui per tenere delle lezioni, per insegnare qualcosa a qualcuno, per condividere con voi alcune mie idee su un certo argomento. Si tratta però di lezioni particolari, che presentano alcuni grandi vantaggi. Innanzitutto quello di non comportare alcun esame finale: non ci sarà nessun controllo sul fatto se abbiate effettivamente seguito e imparato qualcosa; dunque non avrò il potere di notarvi. Inoltre, si tratta di un discorso felicemente reversibile, dotato della possibilità di parlare con dei pari, con persone con, cui ci si può scambiare delle idee senza quella dissimmetria gerarchica che è tipica degli esami finali. Tuttavia lezioni restano: e si tratta di un preciso genere discorsivo. Così, ho dato alle mie tre lezioni titoli diversi per ciascuna giornata, che ho voluto mantenere anche nei capitoli di questo libro. Così il primo si chiamerà «La scatola degli anelli mancanti», il secondo «Lo scibile e i modelli», mentre quello finale sarà invece destinato a problemi dell'estesia e dell'intersoggettività, e si chiamerà «Corpo e interazione». Prima di cominciare, è necessario un breve discorso introduttivo. Credo infatti che valga la pena di porre un punto teorico basilare rispetto a quello che cercherò di dire successiva-
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mente; e penso, inoltre, di dovere una spiegazione, diciamo così, topologica. Volevo innanzitutto avanzare una considerazione di carattere molto pratico, facendo appello a un'evidenza. Proprio a Palermo, con degli amici, abbiamo discusso il problema dell'avanguardia. Una delle prime cose che abbiamo riscontrato è che l'avanguardia è un movimento vecchissimo in Europa. L'avanguardia, in fondo, ha un secolo. Ora, il caso vuole che nel 1997 siano passati cent'anni dalla pubblicazione di un libro di Michel Bréal che si chiama Essai de sémantique1 , il primo libro in cui si è affermata la necessità di uno studio linguistico della semantica. Non che non si fosse studiato semantica prima di quel momento; tuttavia, esattamente un secolo fa qualcuno ha detto per la prima volta in modo esplicito che bisogna studiare semantica, ossia che il problema del significato - prima ancora di poter essere trattato da discipline come la psicologia o la filosofia - è innanzitutto un problema legato allo studio delle lingue. Come avrebbe detto Emile Benveniste, un altro grande scrittore di problemi linguistici, questa è la nostra «testa di medusa» 2 • Il senso è la testa di medusa davanti a cui si trova chiunque abbia un qualche interesse, non soltanto per il linguaggio, ma in generale - ci torneremo - per qualsiasi procedura di significazione. Così, anche se da sempre gli uomini s'interessano ai problemi del significato, è solo da un secolo che si riflette in maniera specifica e coerente su questo tema. Ora, però-ed è il nodo teorico che voglio porre come introduzione a questa serie di lezioni - a me sembra che solo da pochi anni sia in corso una svolta nel modo di studiare i problemi della significazione. Questa svolta non è - come si sarebbe detto ancora pochi decenni fa una «rottura epistemologica». Diciamo semmai che, in qualche misura, è accaduto che lo studio della semantica ha preso un'altra piega rispetto al programma di ricerca proposto da Bréal e sostanzialmente perseguito nel corso di un secolo. Lasciatemi usare questa metafora: c'è una nuova piega nella semiotica, un altro modo di piegare il tessuto molto complesso costituito dal modo stratificato con cui noi significhiamo. Questa svolta semiotica, ovviamente, non è stata prodotta in un sol colpo: ci sono state molte trasformazioni graduali, VIII
molti ripensamenti e molti dibattiti che l'hanno provocata. Per una pura questione di esposizione dei fatti e dei problemi, sarò io che terrò tra parentesi queste trasformazioni progressive e cercherò - con una serie di tagli e di orientamenti di isolare un piano di consistenza vero e proprio, di mettere in rilievo quanto meno la traccia di questa piega dell'attuale ricerca sul significato. Più che una storia o una genealogia, indicherò dunque un diagramma, il più astratto possibile, nello studio della significazione: nonostante i connotati della disciplina semiotica siano parecchi, tenterò in qualche modo di darne una caratterizzazione generale. Andando alla ricerca di generalizzazioni, so bene di andare contro all'estetica e all'epistemologia contemporanee, caratterizzate dalla sottolineatura del frammento. Il che è comunque del tutto intenzionale. Michel Serres - un epistemologo di cui ho grande stima - sostiene che non c'è da avere nessuna paura della totalità. Serres dice molto giustamente che la sola cosa che bisogna temere è la solidità, ossia il fatto che le cose si solidifichino, e nota che i frammenti sono quelle cose che, essendosi già rotte, non si possono rompere ulteriormente. Sono perciò estremamente solide. Così, non possiamo non accorgerci in primo luogo del fatto che il frammento, in qualche modo, è prima di tutto il rimpianto di una totalità perduta: ogni frammento è nostalgico. Ma, in secondo luogo, occorre anche comprendere che il frammento è quanto di meno frammentario possa esistere. Il frammento è duro, non si rompe, è il risultato di una rottura che non avrà più luogo. Quindi, gli elogiatori del frammento, i «frammentisti», estetici o epistemologici, hanno il torto, a mio avviso, di dimenticare che se c'è qualcosa di fragile è la generalizzazione. Opposte al frammento, la totalità e la generalizzazione sono assolutamente fragili. Come sappiamo bene, appena provate a generalizzate su qualcosa, c'è certamente un intelligente e un po' maligno collega che punta il dito là dove la generalizzazione non tiene. Ebbene, la generalizzazione è una forma di responsabilità, nel senso che invita l'altro a rispondere. Ed è appunto quel che voglio fare. Generalizzando, dicendo che c'è una svolta semiotica, vorrei espormi alla risposta e all'osservazione, ma nello stesso tempo rivendicare la necessaria fraIX
gilità della generalizzazione. Rovesciando l'idea per cui il generalismo sarebbe duro e compatto mentre i frammenti fragili e indifesi, vorrei porre l'idea di una svolta semiotica sotto il segno di una fragile generalizzazione. In un'epoca in cui predomina la problematica delle reti concettuali e della molteplicità (con tutta l'implicita, necessaria lotta verso ogni forma di gerarchia a priori), tentare la generalità è secondo me, non solo un dovere intellettuale, ma in fondo anche un piacere dello spirito. Un piacere che non esclude però un obbligo di risposta. Secondo Nietzsche non è mai all'inizio che qualche cosa di nuovo può rivelare la sua essenza; ma quello che c'era fin da principio lo si può rivelare soltanto a una svolta della sua evoluzione. In altre parole, all'inizio non succede assolutamente niente di particolare. Però, quello che c'era in forma potenziale può manifestarsi soltanto al momento di una sua svolta, grazie a una rivoluzione che può definirlo. Ho preso dunque da Nietzsche il termine svolta perché è proprio in questo senso che penso la svolta semiotica. Chiarito, spero, questo punto, passiamo a quella che ho chiamato «spiegazione topologica». Qualcuno si sarà chiesto: perché queste lezioni proprio a Palermo e non, poniamo a Roma o a Rimini? Ho due risposte. La prima forse non è molto ragionevole: le scelte si fanno per buone ragioni, diceva qualcuno, oppure si fanno per buone passioni. Ci sono scelte che si fanno a ragion veduta e scelte che si fanno a passion veduta. Ecco, la mia scelta riguardo a questa città è a passion veduta: ho degli amici a Palermo, e in qualche misura è dagli amici che si aspettano generalmente le osservazioni più acute. Ma c'è un'altra risposta: questa è una città che spesso dimentica alcuni meriti. Non sono certo io che devo ricordarli, ma in questo momento mi piace farlo. Vorrei dunque ricordare che, come durante quell'incontro che ho citato prima, qualcuno ha ricordato che è stato a Palermo che si è riunito per la prima volta il Gruppo '63, allo stesso modo non bisogna dimenticare che questa è una delle poche città al mondo in cui c'è stata una riunione dell'Associazione internazionale di studi semiotici. Qualche anno fa, esattamente nel 1984, si sono riuniti a Palermo praticamente tutti i semiotici del mondo per discutere sul destino di questa disciplina. X
Del resto, qualcuno forse ricorderà che Jurij Lotman, il famoso semiologo russo, la prima volta che ha avuto la possibilità di uscire dall'allora Unione Sovietica ha messo piede proprio a Palermo. Il che ancora una volta testimonia che questa è una città in cui il discorso sulla semiotica non si presenta come un'esteriorità ma ha - anche se la parola potrà sembrare maestosa - una sua storia. C'è una continuità di azione e di riflessione semiotica a Palermo, che è testimoniata del resto dall'insegnamento di amici e di colleghi, alcuni dei quali oggi qui presenti. Ecco dunque perché queste lezioni sulla svolta semiotica si tengono a Palermo. Ci tengo molto a ricordarlo: non si tratta soltanto di una, diciamo così, scelta strategica della Fondazione Sigma-Tau, che vuole esser presente in tanti centri intellettuali italiani. È anche una mia scelta, a passion e a ragion veduta.
LA SVOLTA SEMIOTICA
CAPITOLO PRIMO
La scatola degli anelli mancanti
Una storia tendenziosa Permettetemi di cominciare con una storia tendenziosa o, per meglio dire, con un abbozzo storiografico che - a partire da quella che presumo sia una svolta- intende ricostruire l'affermazione e la diffusione della semiotica. Sul segno si è sempre riflettuto, in tutte le epoche e in tutte le culture: Aristotele in Grecia, PaQ.ini in India, qualcun altro ancora nel Seicento e così via. Ma questo non è un problema. Quel che mi interessa è invece ricostruire l'affermazione della semiotica come disciplina, ossia come piano di consistenza teorica che assume un certo numero di enunciati in un'epoca precisa. Ora, possiamo datare una tale affermazione della semiotica come disciplina autonoma agli inizi degli anni Sessanta, ossia, molto semplicemente, non più di una generazione fa. La semiotica che da quel periodo in poi è stata praticata può essere riassunta in due fondamentali caratteristiche, ognuna delle quali può essere a sua volta indicata attraverso il nome di uno studioso - fermo restando che tali nomi non esauriscono la ricerca semiotica dell'epoca e che la semiotica dell'epoca non esaurisce la loro personalità intellettuale. Semiologi,a e tradizione umanistica Riassumerò la prima caratteristica attraverso il nome di Roland Barthes. Questi praticava una semiologi,a (non ancora una vera e propria semiotica) come critica delle connotazioni ideologi,che presenti in un modo o nel3
l'altro in quell'iper-sistema di segni che è, a suo avviso, la lingua. La semiologia deriva secondo Barthes dall'idea che esistono diversi sistemi di segni all'interno di culture date. Questi segni non vanno studiati separatamente, ognuno preso di per sé, ma in quanto regimi di significazione, ossia in quanto elementi presenti entro sistemi semiotici organizzati e autosufficienti. Il problema sta ~l fatto che - per Barthes - questi sistemi di significazione sono tutti comprensibili e traducibili in quel supremo, estremo sistema di segni che è la lingua. La lingua naturale è intesa come un sistema di segni che, se da un lato è come tutti gli altri, ossia significa come un comportamento gestuale o una sinfonia musicale, da un altro lato possiede una caratteristica fondamentale: quella di aver specializzato una parte di se stessa sino al punto di poter parlare - attraverso elementi o regole particolari - dei sistemi di segni. A differenza di altri sistemi (visivo, gestuale, musicale, spaziale ecc.), la lingua gode della possibilità di nominare se stessa e gli altri segni della cultura. C'è insomma in Barthes un'irreversibilità tale per cui si può dire che, alla fine, la semiotica è una sorta di trans-linguistica, ossia una linguistica capace di parlare, oltre che della lingua, di tutti i sistemi di segni. Semplifico, ma grosso modo è così 1 . Da qui l'idea che, ritrovando segni diversi nascosti dentro o attraverso la lingua, la semiologia diventa una critica delle connotazioni ideologiche, uno svelamento dei segni dell'ideologia sociale. Ho l'impressione che la maggior parte di noi, oggi, abbia dimenticato chi era Barthes prima di essere un semiologo: negli anni Cinquanta è un critico teatrale, che ha avuto il merito della diffusione e della difesa dell'opera di Bertolt Brecht in Francia. Se si ricorda questo dato biografico (e teorico), si capisce benissimo che cosa significa praticare la semiologia come critica delle connotazioni ideologiche. Barthes è innanzitutto un brechtiano, e come tale pensa alla possibilità che la semiologia sia una disciplina capace - con la sua organizzazione concettuale - di distruggere, dissipare, decostruire (se volete usare un termine di oggi) quell'insieme di connotazioni culturali, sociali e ideologiche che la borghesia ha calato sulla lingua 2 . L'idea è quella di decostruire queste
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connotazioni ideologiche - che hanno un carattere sistematico - e di liberare un grado zero della lingua, una forma bianca della lingua, una forma che evidentemente è legata, in quel periodo, al progetto di una società libera, senza ideologia, senza classi3. Se non ricordiamo questo, se non rileviamo queste due connessioni, non capiremo né il successo della semiotica - immeritato forse, ma certamente fondamentale all'epoca - né i suoi limiti futuri. Oggi, per esempio, potremo essere d'accordo nel sostenere che la critica della dimensione ideologica della società ha perso un po' d'attualità: la parola ideologia non viene neanche più pronunciata (avevo tentato, una volta, di chiamarla ideològia, per darle il diritto di essere riesaminata sotto una nuova luce; ma quel tentativo non ebbe successo). La diffusione della semiologia barthesiana deriva proprio dall'essere stata una sintesi tra la dimensione critica brechtiana e l'idea della predominanza del linguaggio verbale su tutti gli altri sistemi semiologici. Allora, il problema teorico fondamentale era la trans-linguistica. Era del resto anche il periodo del cosiddetto linguistic turn, ossia di quel tentativo filosofico - portato avanti nei paesi anglosassoni - di porre il linguaggio al centro della problematica umana e sociale 4 . In un modo come nell'altro, questo gran privilegio accordato al linguaggio si basava su una dimensione teorica ragionevole. L'idea era quella che, per studiare l'uomo, occorreva analizzare quanto meno il suo linguaggio, ossia tutto ciò che accade quando esso comunica e si intende con i suoi simili. Era un modo sicuro per evitare di pensare l'uomo come una cosa o come un soggetto separato (al modo del positivismo), analizzando invece la dimensione umana e sociale attraverso la maniera con la quale gli uomini stessi si rappresentano e comunicano tra loro. Si comprende bene, a distanza di alcuni decenni, la ragione del successo di questa semiologia linguisticizzante e del linguistic turn. Essi, in fondo, rispondevano alla profonda aspirazione della nostra cultura umanistica verso le cosiddette arti liberali. La nostra vecchia cultura umanistica è un insieme di saperi fondato sulle arti liberali - grammatica, retorica, filosofia ecc. -, un insieme di saperi in cui il linguaggio verbale
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mantiene una posizione di assoluto privilegio, in quanto luogo unico di espressione dell'umanità e di manifestazione della civiltà. L'ermeneutica, oggi, non è altro che il prosieguo di questa tradizione umanistica che pone la verbalità al centro della socialità (e che io considero perfettamente polverosa, assolutamente sorpassata dalla condizione epistemologica contemporanea). Una semiologia intesa come trans-linguistica - ricollegandosi idealmente a questa tradizione umanistica - non poteva che avere successo. Ma sta qui, a mio avviso, anche la ragione della sua fine. Inserendosi in una scia culturale che, forse, non gli apparteneva di diritto, lo studio della significazione si è dissolto nel generale umanesimo che dominava la cultura degli anni Sessanta, finendo per scomparire con esso. La capacità di rottura epistemologica insita nella questione della costruzione del senso, filtrata dalla vecchia cultura umanistica - grammatica, retorica, filosofia ecc.-, ha raggiunto così il pieno successo solo nel momento in cui ha tradito il suo scopo precipuo e originario. Perché studiare la semiotica, quando questa non è altro che una trans-linguistica, owero una domanda di sapere già presente nella vecchia tradizione umanistica? Perché fondare una teoria del discorso quando questa è già insita, per esempio, nell'antica retorica? Basta riprendere gli studi umanistici sul linguaggio - come si è finito per fare - e la semiotica è nello stesso tempo fondata e rinnegata, diffusa e dissolta. Il caso più evidente di questa diffusione e dissoluzione della semiologia barthesiana nella tradizione umanistica è quello legato alla ripresa della retorica antica 5 . Il recupero della retorica provoca quello che considero un perfetto esempio di babele infelice. L'accumulazione delle figure retoriche - quale viene fatta, per esempio, nei grandi manuali di un Lausberg 6 o di un Perelman 7 - è molto chiaramente un tentativo di mettere insieme, in una prospettiva teorica in linea di principio unitaria, definizioni coniate e problemi discussi all'interno di teorie, filosofie, epistemologie profondamente diverse fra loro. Le figure retoriche proposte nel corso di due millenni rispondono a definizioni del linguaggio completamente diverse. Pensate al fatto, per esempio, che Fontanier - un grande
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teorico della retorica classica, forse l'ultimo - considerava all'interno della sua teoria le figure di passione: l'imprecazione, la deplorazione ecc. 8 . A un certo punto, però, le figure di passione scomparvero dalla dottrina retorica, per la semplice ragione che non si considerava più pertinente la problematica della passionalità. Quindi, un certo tipo di teoria del funzionamento linguistico e concettuale (la retorica) è variato in funzione del tipo di prese di posizione sul linguaggio: e ne sono venute fuori tipologie di figure retoriche molto differenti fra loro. Mettere insieme - come hanno fatto molte neo-retoriche semiologizzanti - le figure del discorso definite a partire da teorie del linguaggio molto diverse ha finito per implicare la produzione di enormi «centoni» di cose tra loro incongrue, incomparabili, incommensurabili. Così, il rientro della retorica ha contribuito a un particolare stile di confusione, perché ha fatto apparire come compossibile una congerie di elementi che prendevano le mosse teoriche da diversi tipi di classificazione e di orientamento del fenomeno del significato discorsivo.
Il paradig;ma semiotico Nello stesso momento in cui - come si è appena detto - la semiologia di stampo barthesiano si dissolveva nelle diverse arti liberali, un altro tipo di semiotica andava invece consolidandosi in un preciso paradigma di ricerca. Porrei questo paradigma semiotico sotto il nome di Umberto Eco. Lo specifico del paradigma di ricerca semiotica consolidatosi attraverso la figura di Eco è quello di porsi, in maniera radicale, contro l'eredità saussuriana, ossia contro tutto ciò che per Barthes e per altri rappresentava il momento di rottura che all'inizio del secolo (diciamo tra Bréal e Saussure) costituiva la formazione di una disciplina scientifica qual è la semiotica9 • Eco valorizza una diversa tradizione (del resto già implicata nel progetto semiotico): quella inaugurata da Charles Sanders Peirce 10 . La semiotica di Peirce parte dall'idea di non valorizzare in modo particolare il linguaggio. Per Peirce la teoria del segno era una semiotica, ossia uno studio di tutti i tipi di segni, non soltanto una semiologia, ossia uno studio dei segni a partire dal lin-
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guaggio verbale e umano. Ma si potrebbe forse convertire l'ipotesi, dicendo che Peirce non aveva affatto un'idea chiara di che cosa sia il linguaggio; Peirce era un filosofo con una formazione linguistica del tutto insoddisfacente; era però un grande epistemologo, forse uno dei più grandi epistemologi del nostro tempo. Così, il nucleo della_ positione radicale di Eco è quello di escludere una semiologia di tipo barthesiano e di risalire - al di là della rottura epistemologica saussuriana - all'idea che c'è una storia del segno, una storia della nozione di rinvio segnico che non ha bisogno di definirsi a partire dall'apertura del paradigma teorico della semiotica, ma che risale per filosofiche vie sino all'inizio della nostra cultura. Al primo dischiudersi del pensiero greco, ecco emergere tutta una riflessione sul sema, sul semeion, sul nous, ossia un pensiero sul segno che appare come costitutivo della filosofia stessa 11 • Ma come si assesta questo paradigma della semiotica (rispetto al quale in seguito viene fatta la svolta)? Lo semplifico ancora una volta con alcuni tratti, evidentemente caricaturali. Come si sa, uno dei modi di produrre delle caricature è quello di rinforzare un solo tratto del modello che si vuol caricaturizzare, lasciando in secondo piano gli altri. Si prende una caratteristica del viso, per esempio la fronte, e la si gonfia a dismisura; nello stesso tempo si riducono la bocca, le orecchie ecc.: nasce così la caricatura. Quindi la caricatura è l'ingrossamento di un qualche tratto fisiognomico. Ma si tratta di una operazione inevitabile: ogni modo di riprodurre un viso - notava Wittgenstein con finezza - è in qualche modo una caricatura. Se è così, quale inevitabile «caricatura» possiamo dare delle strategie costitutive del paradigma semiotico? La prima strategia messa in campo da Eco è quella di una classificazione a priori dei segni, linguistici e no. Come in Peirce c'è una gigantesca catalogazione di segni e una grandiosa tipologia delle possibili combinazioni dei segni fra loro, quindi una morfologia e una gerarchia dei segni molto complesse, allo stesso modo questo tipo di semiotica portata avanti da Eco si pone come una teoria di tipo tassonomico. Essa in primo luogo classifica i vari tipi di segni, e in secondo luogo studia i modi con cui si passa da un segno all'altro. Accanto alla componente
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classificatoria c'è quindi una componente sintattica, che si occupa di movimenti e di azioni. Ma come si costituisce la sintassi tra i segni? Nel caso di Eco, rappresentante del paradigma semiotico, questo tipo di movimento che si introduce all'interno della materia segnica_ è definito dalla stessa idea del segno: il segno è un rinvio, è .presente quando qualcosa sta al posto di qualcos'altro. Ma co-· · me si costituisce questo rinvio? L'idea di Eco - e in generale del paradigma - è che questo rinvio si può spiegare in maniera chiara e leggibile secondo il vecchio modello dell'inferenza logica. L'inferenza è il modo di mettere in moto la macchina dei segni. Si passa da un segno all'altro attraverso dei tipi di inferenze che sono - secondo il modello aristotelico l'induzione, la deduzione e l'abduzione. Per passare da un segno all'altro, noi non faremmo dunque altro che usare delle .strategie di tipo sillogistico e inferenziale. Il passaggio fra segni è in tal modo, non dico ridotto, ma certamente focalizzato in questa direzione. Una seconda strategia, più o meno esplicita, atta a costituire il paradigma semiotico è quella riguardante il quadro dentro cui awengono queste inferenze, questi movimenti da segno a segno. Tale quadro è di tipo eminentemente testuale. Così, dopo un momento di interesse più o meno grande per i segni architettonici, visivi, cinematografici, gestuali e così via, _molto rapidamente si è tornati al testo. E il testo a cui si pensa, guarda caso, è ancora una volta di tipo eminentemente scritto, forse talvolta parlato, in ogni caso soltanto linguistico. Così, surrettiziamente, dopo aver affermato l'importanza teorica della non linguisticità, il testo è diventato di nuovo il modello di tutti i funzionamenti semiotici, sia esso un testo letterario (ossia di cultura relativamente alta) o un testo dei mass media (ossia di cultura cosiddetta bassa). Si è tornati così a una riflessione di tipo linguistico. Corona l'insieme di queste strategie teoriche l'idea - ricordata prima - di una storia del segno, di una storiografia cioè che si preoccupi di ricostruire i modi con cui la filosofia, soprattutto la grande filosofia, ha pensato e ripensato la problematica del segno. Si tratta in tal modo, innanzitutto, di una scelta di tipo strategico e universitario: quella di cercare di ri-
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costruire a una disciplina giovane qual è la semiotica un possibile pedigree intellettuale. Ma questo è un problema di storia delle scienze, storia obiettiva, che probabilmente possiamo accantonare. In secondo luogo, però, la proposta di una storia della semiotica rende conto di una scelta intellettualmente pertinente, per certi versi fondament;tle. È l'idea che la storia del modo con cui è stato trattato il segno sia una maniera di mostrare come si è giunti oggi a una certa immagine del segno. È un problema classico di storia, che pone però dei problemi molto delicati e complessi, non foss'altro perché conduce talvolta a situazioni francamente imbarazzanti. Ne ricordo qui soltanto due. Potete scoprire, studiando il De civitate dei, che Agostino di Ippona utilizzava una semantica a istruzioni. Ora, che - come Monsieur Jourdan, che faceva la prosa senza saperlo - anche Agostino facesse senza saperlo una semantica a istruzioni deriva dal fatto che oggi noi abbiamo un'idea della semantica a istruzioni. Di conseguenza, abbiamo ricostruito dentro il pensiero agostiniano l'esistenza di una potenziale semantica a istruzioni 12 . Però, quando poi si va a vedere come Agostino analizza una frase (poniamo, di sette o otto parole) ci accorgiamo che il filosofo sostiene che essa è composta di sette o otto segni. Ed è imbarazzante: Agostino chiama segni, senza nessun problema e senza differenziarli, una congiunzione, un verbo, un nome, un articolo ecc., ma anche l'insieme della frase stessa. Questo pone un problema molto delicato, come vedete: è il problema della possibilità di una ricostruzione storica coerente di tutto un passato, quando ci si rende conto che in questo passato si è usato il termine segno per indicare cose molto diverse fra loro. E nessuno studioso delle scienze fisiche accetterebbe l'idea che, siccome Democrito e Bohr hanno chiamato atomo una certa cosa, in ogni caso sia possibile confrontare l'atomo di Democrito con quello di Bohr. Entrambi parlavano di atomo, ma non pensavano alla stessa cosa. Il problema della storia del segno è dunque un problema di coerenza e di ricostruzione di volta in volta molto delicata. Lasciatemi dare un secondo esempio, molto preciso e molto banale nello stesso tempo. Recentemente Eco ha scritto un
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libro importante e interessantissimo per la nostra cultura (che resta come tale interessante nonostante l'osservazione che vorrei fare ora), che parla della costituzione delle lingue perfette nella cultura europea13 . Nella ricostruzione delle lingue perfette, nella cultura occidentale, il libro è di un'assoluta, perfetta e impeccabile documentazione. Ma a un certo punto nasce un problema curioso. In due capitoli trovate unificati - come l'atomo di cui parlavo prima - Raimondo Lullo e l'esperanto. Domandatevi ora se, per un semiologo che analizzi i sistemi di segni e di linguaggio, si tratta effettivamente della stessa cosa. Nel caso di Raimondo Lullo, si tentava di riorganizzare la semantica, cioè l'organizzazione dei contenuti di una lingua data. Questa organizzazione trattava nozioni non ancora linguisticizzate, ossia concetti che potevano essere espressi in italiano, inglese, francese, arabo, ebraico e così via. Si trattava di rappresentazioni concettuali che potevano anche essere disegnate su carta. Il problema di Lullo era dunque quello di struttqrare una forma del contenuto, un'organizzazione concettuale indipendente della forma dell'espressione dentro cui essa fosse stata versata. Al contrario, l'esperanto non tenta affatto di organizzare il contenuto di una lingua; esso lavora semmai sulla riorganizzazione della sua forma espressiva, a prescindere dal sistema di concetti, dalla forma del contenuto che questa lingua poi veicola. L'esperanto tenta di produrre parole diverse che siano capaci di organizzare dei contenuti qualsiasi su cui non interviene . . Così, entrambi gli sforzi - quello di Lullo e quello dell'esperanto - sono progetti di lingue perfette. Solo che il primo tenta di costruire, non un linguaggio, ma una forma di contenuti concettuali che è trasmissibile in tutte le lingue che si vorranno, ivi comprese lingue non linguistiche (si possono realizzare pitture, film, balletti ecc. con la «metodica» escogitata da Raimondo Lullo ... ). Mentre dall'altra parte si tratta di una riorganizzazione di una diversa forma espressiva fondata sulla sostanza fonetica. Vedete che si tratta di due cose fondamentalmente divers~. Si potrebbero allora scrivere due storie delle lingue perfette: da una parte una storia delle lingue che vanno verso una riorganizzazione semantica delle loro strutture interne; dal-
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l'altra una storia delle lingue che puntano a una riorganizzazione delle loro forme espressive. In questo modo, la cosa comincia a diventare interessante, ed è proprio su questo che vorrei tentare di condurvi.
· «Pars destruens» Quali sono i risultati della restrizione storiografica che ho accennato sin qui? Credo che valga la pena di cominciare a esaminarli da vicino, punto per punto, per potersi orientare. L'immagi,ne del lessico Il primo risultato riguarda certamente la nozione di segno. Ho, infatti, il sospetto che questa nozione sia
più che altro un ostacolo di tipo epistemologico per la semiotica. La mia impressione è che, nella maggior parte dei casi, quando si pensa al segno - a meno di non affrontare in maniera rigorosa il problema della differenza fra i vari linguaggi - si ha in mente qualcosa sostanzialmente simile al sistema del lessico. Tutte le volte che si dice segno si pensa a una parola; e la semiotica, da questo punto di vista, ridiventa rapidamente una semiologia, nel senso più deteriore di una lessicologia. I segni di una cultura diventano in qualche modo le parole o gli equivalenti delle parole di una cultura. Ora, così come nessun linguista accetterebbe l'idea che il linguaggio è fatto di parole, credo che nessun semiologo dovrebbe accettare l'idea che i sistemi di significazione sono fatti di segni. La semiotica, come la linguistica, dovrebbe semmai interessarsi al modo in cui attraverso una certa forma sonora (o altrimenti significante) noi produciamo sistemi e processi di significazione, ossia siamo in grado di significare mediante un certo tipo di organizzazione (fonetica, iconica, gestuale, ecc.). Il che porta a modelli esplicativi che non hanno nulla a che vedere con sommatorie di parole. La lingua non è una somma di parole, e un sistema di significazione, a sua volta, non è un insieme di segni. Purtroppo, a me pare che, ogni volta che si sente parlare di semiotica, in maniera graduale ma costante si scivoli verso
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questa idea della sommatoria: i segni vengono considerati co·me facenti parte di un dizionario di elementi precostituiti, esattamente nella stessa maniera in cui - alcune persone ormai lo dicono in maniera esplicita - un immaginario sarebbe un dizionario di immagini, un insieme di segni iconici dati, utilizzabili alla bisogna. Si pensi agli studiosi, certamente non molto awertiti, che cercano di studiare i gesti (per esempio, Desmond Morris): questi studiosi tentano disperatamente di costruire una vera e propria lessicologia gestuale, in cui cioè ogni singolo gesto viene dotato, come in un'entrata lessico. grafica, di un proprio specifico significato. Così, gradualmente, insensibilmente la semiotica ridiventa una semiologia, ossia uno studio della significazione che, non solo pensa alla primarietà del linguaggio verbale rispetto agli altri sistemi semiotici, ma soprattutto immagina il linguaggio verbale mediante un modello teorico di tipo lessicale. Barthes non credeva a questa ipotesi: aveva ben presente che i segni sono soltanto punti di intersezione di complessi sistemi soggiacenti. È insomma necessario superare questo ostacolo epi. stemologico della nozione di segno, perché non rende conto della complessità della lingua. Ricordate la vecchia barzelletta dello scrittore: «Cosa stai facendo?», gli chiedono. «Sto scrivendo un libro», risponde. «A che punto sei?», gli chiedono ancora. «Molto avanti - replica -. Ho già tutte le parole, mi basta soltanto metterle insieme». Ecco lo spazio colossale che c'è tra il padroneggiare un lessico e lo scrivere un libro. La semiotica che continua a . ragionare per segni è ferma al primo momento.
Codici e decostruzionismo A questo ostacolo epistemologico della nozione di segno è strettamente legata l'immagine che si ha di ciò che mette in relazione i segni fra loro, owero dell'equivalente semiotico della grammatica linguistica. L' organizzazione della grammatica semiotica è stata trasposta grazie al modello informazionale sotto l'idea di un codice. Così, all'idea di un segno pensato come semplice entrata lessicale viene as. sociata quella di una grammaticalità immaginata come codificazione aprioristica. Se ci sono segni e comunicazione, è per-
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ché c'è un codice sottostante che ne regola i funzionamenti, le possibilità e i limiti. Questa immagine del codice come sistema di elementi minimi e di regole di funzionamento ha avuto un grande successo nella semiotica degli anni Sessanta, e ancor oggi viene da molte persone considerata pertinente per la descrizione dei vari linguaggi, verbali e no. Al punto che, nei «sowersivi» anni Settanta, la nozione di codice è stata intesa come una specie di imposizione dall'alto che a tutti i co_sti occ;orreva distruggere. L'idea della decostruzione nasce proprio da una presa sul serio, e da una conseguente radicalizzazione, della nozione semiotica di codice. Si è pensato che pèr decodificare fosse necessario decostruire, ossia rompere le catene di un'imposizione esterna e arbitraria e ritrovare di conseguenza lo spazio di una libera interpretazione. Decodificare non era pensato come un'operazione legata al comprendere: era pensato proprio come un'azione, politicamente necessaria, di rottura dei codici, come un distruggere la codificazione per poterla affrancare da non meglio identificati, subdoli nemici. Così, una visione semplicistica della significazione ha portato alla costituzione di una schiera di detrattori della semiotica. E la semiotica stessa - andando alla ricerca di sicuri punti di riferimento per costruire e indicare il significato (appunto, nel concetto di codice) - s'è trovata in una contraddizione molto forte con se stessa. L'affermazione iniziale di Eco, come sappiamo, era infatti quella dell'opera aperta14; cioè, in qualche modo, Eco proponeva l'idea - per Peirce fondamentale - secondo la quale, nella babele dei segni, ogni segno può rinviare a un altro segno pressoché all'infinito. E accaduto così che, di fronte all'impennata della nozione semiotica dicodice, negli anni Settanta (ma soprattutto negli anni Ottanta) siano stati i fautori del decostruzionismo a riprendere l'idea dell'opera aperta, citando anche Peirce, senza però riferirvisi assolutamente in modo corretto: e sono andati dicendo che su ogni testo si può fare esattamente questo lavoro, si può cioè mettere tutto in contatto con tutto. Esagero, certamente i decostruzionisti non sono così brutali; sono così, però, nella caricatura che ne ha costruito, a quel punto, Eco per difendersi e mettersi a una buona di-
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stanza da loro. Con una formula esemplare, Eco.dissea tjùH punto: «Bisogna introdurre delle sbarre di grafiÌf dentro la centrale nucleare»; se effettivamente tutti i segni s~90 rin\'ià. ti ad altri segni possibili, non c'è più nessuna possìbffilà'. tdi controllo. E se non c'è più nessuna possibilità di controllo, siamo dawero in una società babelica, anzi addirittura postbabelica. Da qui l'idea difensiva: che cosa si può introdurre di codificato nel linguaggio per evitare il rischio di questa gigantesca esplosione nucleare? Delle sbarre di grafite, ossia - fuor di metafora - dei criteri che individuino la necessaria separazione tra le spiegazioni aberranti e le corrette interpretazioni. Ci · vuole, ha iniziato a sostenere Eco, un'interpretazione del testo, la quale però è tanto più corretta quanto più accetta il presupposto che alcune cose non possono essere dette. Da qui la necessità di reintrodurre una tradizionale dimensione della razionalità all'interno del linguaggio, la quale controlla la fuga irresistibile dei segni che rinviano incessantemente ad altri segni1 5 • Come dire, ci sono persone serie e normali se e solo se ci sono anche dei matti e dei paranoici, i quali hanno come attività fondamentale quella di rinviare un segno a un al. tro segno 16 .
«Pars construens» Bene, io ho l'impressione che così non possiamo più uscirne. Credo quindi che sia assolutamente necessario ripensare l'insieme dei problemi legati al significato, al testo e al codice e . soprattutto al segno. E faccio subito una proposta: i segni non sono percepibili come tali, né attraverso un lessico (assegnazione aprioristica del significato, possibile anche in una lingua largamente ambigua) né attraverso un'enciclopedia (ricostruzione della significazione con criteri di tipo culturale). Il problema che invece la semiotica deve studiare è quello dei sistemi e dei processi di significazione. In questa prospettiva, non si tratta di liberarsi tout court della nozione di segno, ma di pensare che i segni SOJliLStrategie come altre, i lessemi so_,,,______
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no strategie semiotiche come tante altre, necessarie per utilizzare la lingua, per far funzionare il senso, per articolare la significazione. Si tratta insomma di opporre ai programmi di ricerca sin qui descritti un altro tipo di organizzazione concettuale che va sotto il nome di glossematica. Louis Hjelmslev, che della glossematica è uno dei fondatori, sosteneva un 'idea molto precisa: non fidiamoci dei segni; i segni sono soltanto eventi storicamente determinati e variabili in funzione della storia differente in cui si trovano a essere coinvolti 17 . Tentiamo semmai di dividere il significato della lingua (o meglio: il senso che in essa circola) in unità elementari, esattamente come siamo in grado di costruire il suono concreto di una lingua mediante la messa in relazione delle sue unità elementari (i tratti fonemici). Vedremo così come la diversa combinazione di queste unità elementari (o sememi) produce eventi di senso diversi, ossia differenti unità del significato, rese pertinenti dai contesti dati. Che cosa presuppone un'analisi del genere? Presuppone un movimento ragionevole e intelligente: quello di dividere le due facce del segno in un significante e un significa(o, in un piano dell'espressione e un piano del contenuto. L'idea è che c'è una faccia significante e una faccia significata della lingua, facce che, per essere analizzate, occorre preliminarmente separare. Se la relazione tra significante e significato è arbitraria (ma su questo dovremo tornare: credo, infatti, che una delle caratteristiche della svolta semiotica è quella di non accettare il principio saussuriano dell'arbitrarietà del segno) è possibile separare le due facce del segno (significante e significato), per poter dimostrare che sono in qualche modo correlate l'una all'altra, e in qualche misura isomorfe. Senza una preventiva separazione dei due piani del linguaggio, nessuna comparazione risulta possibile. E tale comparazione porta a un'inevitabile conclusione: espressione e contenuto sono fra loro in presupposizione reciproca (se c'è un significante, c'è un significato; se c'è un significato, c'è un significante) ma non sono per nulla coincidenti; ogni piano del linguaggio ha strutture proprie che risultano essere simili, ossia isomorfe, solo a un livello superficiale dell'analisi, non in quelli più profondi. Que-
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sta è la mossa teorica fondamentale della glossematica, che era in fondo la mossa saussuriana: una scissione all'interno del concetto di segno. Si vede bene la differenza con l'ipotesi di Peirce, in cui ogni segno come globalità rinvia a un altro segno come globalità. In Peirce i segni si distinguono da altri segni, ma non hanno affatto una faccia significante e una faccia significata. Non sono divisi in questo modo. Dunque, l'ipotesi di Peirce risulta precedente - teoricamente più che cronologicamente - all'ipotesi saussuriana. Cosa che non è stata avvertita subito, e che ha comportato una serie di equivoci. Un equivoco formidabile è per esempio quello che si trova nelle prime opere di Derrida. Penso al celeberrimo Della grammatologi,a18 , dove il significante veniva identificato con il percettivo, e il significato con il concettuale. In questo modo, per Derrida il problema semiotico era tanto semplice da essere già risolto: il significante è quello che colpisce l'orecchio, mentre il significato è quell'articolazione che viene prodotta al momento della ricezione. Al di fuori di ciò - secondo l'immagine derridiana della semiotica - ci sarebbe la realtà. Il referente è rinviato fuori, evacuato; la realtà sta fuori dei segni. C'è il reale, che è così com'è, articolato, disposto, insignificante, come volete. Pieno di rumore e di furore, come diceva quell'altro. Poi c'erano i segni, e i segni erano divisi in due parti: una significante, l'altra significata. Il primo toccava i sensi e il corpo; il secondo toccava i problemi complessi che sono nella mente. Vedete benissimo che una semiotica così pensata è una semiotica che reintroduce distinzioni concettuali molto antiche come quella tra corpo e anima, materia e spirito e simili. Ma soprattutto stabilisce una stranissima idea: quella secondo cui la semiotica non si interessa di cose reali, poiché è semplicemente un lavoro sui segni; non si interessa cioè di chi si scambia i segni ma della problematica delle relazioni tra il segno e la realtà, ossia del problema della verità nel riferimento tra i segni da una parte e il referente da un'altra parte. Chi si scambia i segni, chi compie l'operazione del riferimento viene escluso da questa idea della semiotica, salvo reintrodurlo, ma in un secondo momento, attraverso la questione laterale del-
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la pragmatica. Per riprendere un titolo famoso, da un lato ci stanno le parole, dall'altro le cose. Questa immagine della semiotica pone un problema particolarmente delicato, perché è ancora oggi viva e circolante. Oggi, se sentite una critica essenziale alla semiotica, sarà qualcosa come: «voi studiate i testi ma non vi interessate alla realtà; studiate i testi scientifici però non siete capaci di rendere conto di come si organizza un laboratorio; perché un laboratorio è fatto di parole - testi, chiacchiere, nomi ecc. - ma anche di macchine e di sostanze che passano da una parte all'altra» e così via.
Parole, cose, oggetti Resta comunque l'idea che la semiotica è una disciplina vagamente idealistica - come è stato detto spesso - la quale ha a che fare con alcuni funzionamenti della rappresentazione concettuale. Per esempio: come noi ci immaginiamo che sia il mondo, come il mondo viene in qualche misura ritagliato per renderlo intelligibile. Ma il mondo - si sostiene - ha una sua radicale, esterna indipendenza, e il grande problema è di dimostrare come siano fra di loro correlati il mondo ritagliato dalla lingua e quello a essa, dunque a noi, esterno. Per comprendere questa visione riduttiva della semiotica, occorre aver chiaro che per un certo periodo la semiotica stessa ha dichiarato di non avere a disposizione nessuna strategia di correlazione tra i segni e le cose. Essa, infatti, non prevedeva all'interno del suo modello teorico nessun soggetto che compisse un'operazione di riferimento; non c'era nessuno che dicesse a qualcun altro: «io chiamo questo così e così». Semmai, si ponevano esclusivamente questioni del tipo: come mai è possibile dire che Achille è un leone, se Achille è Achille mentre il leone è quella cosa fuori dal mondo che è così e così? E la cosa veniva risolta così: il problema non è che Achille venga identificato sia con la persona Achille sia con il leone, nel senso che quella persona è un leone; è semmai un problema di significato, un problema che riguarda la relazione
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tra un significante e un significato, tra due segni i quali vengono in qualche misura considerati correlabili. Ma oggi possiamo chiederci: e il leone reale? e Achille come persona? che ne facciamo di questi due? Se per la prima semiotica il problema non si poneva, per noi, oggi, si tratta invece di una questione di grande importanza. Cerco di spiegarmi con un esempio tratto da due filosofi, Michel Foucault e Gilles Deleuze, i quali già da tempo, e con enorme interesse, hanno cercato di mostrare l'importanza delle formazioni discorsive. Per Foucault e Deleuze, una prigione non è una «realtà» ma una vera e propria formazione discorsiva 19. Si potrebbe obiettare che bisogna distinguere fra la parola prigione (ossia il significante prigione che entra in relazione a certi tipi di significato variabili a seconda delle epoche) e le diverse prigioni reali, che non hanno nulla a che vedere con le formazioni discorsive. Una formazione discorsiva riguardante la prigione sarebbe insomma soltanto il modo in cui la gente si rappresenta la prigione reale. La risposta, molto interessante, data da Deleuze nel suo libro su Foucault è ben diversa. Dice: occorre mettere in relazione una forma dell'espressione, che è la prigione, e una forma del contenuto, che è la delinquenza, l'illegalità20 . Nell'analisi foucaultiana di Sorvegliare e punire, secondo Deleuze, l'illegalità è intesa come una forma del contenuto e la prigione una forma dell'espressione. Per comprendere la nozione variabile di illegalità, ossia l'immagine che una certa epoca si fa della delinquenza, bisogna andare a vedere come in quell'epoca vengono costruite le prigioni reali, non i discorsi esterni sulle prigioni concrete. E si vedrà che c'è un particolare montaggio architettonico, che fa sì che le stanze siano organizzate in un certo modo, che gli spazi vengano organizzati in un altro modo ecc.; anche se oggi, per esempio, la prigione può essere soltanto un braccialetto elettronico attaccato al braccio di un uomo, la prigione diventa tutto l'insieme dei rinvii, dei segnali della centralina elettronica che controlla quell'uomo; ed ecco ricreata una certa forma dell'espres,sione e una correlativa forma del contenuto. Da questa pròspettiva, il problema fondamentale - come ha ripetuto lo stesso Foucault - è che non esistono opposizio-
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ni tra le cose e le parole. Dopo aver scritto la Storia della follia e Le parole e le cose, Foucault affermò di essersi sbagliato nel pensare che c'è una storia del referente indipendente dal discorso. Così, per esempio, non è vero che la storia della follia è una storia di discorsi e di rappresentazioni concettuali, af di là dei quali ci sarebbe una storia del referente, ossia della follia reale, quella follia.che sa la verità su di noi esseri presunti ragionevoli. La sola realtà esistente, diceva a quel punto Foucault, non è né nelle parole né nelle cose, ma negli oggetti. Gli oggetti sono l'esito di quell'incontro tra parole e cose che fa sì che la materia del mondo diventi - grazie alla forma organizzativa concettuale dentro cui viene posta - una sostanza che s'incontra con una certa forma 21 . Cioè, la materia vista nella direzione della forma diventa la sostanza (le sostanze del mondo sono tali perché sono già in qualche misura preformate) e la forma è un'organizzazione di questa sostanza che ha con essa un certo numero di relazioni più o meno motivate, più o meno immotivate. Questa è un'ipotesi essenziale: pensare che esistano oggetti, non cose; che le cose, in quanto formate, in quanto dette, espresse, messe in scena, rappresentate, sono oggetti, insiemi organici di forme e di sostanze. Si tratta di un'ipotesi forte, che ci libera in maniera definitiva dell'idea secondo la quale è necessario scomporre gli oggetti in unità minime di significati, o i suoni in unità minime della fonazione, per poi ricostruirli e comprenderne la struttura interna. Tutta la nostra epoca è stata attraversata dall'idea costruttivista, radicalmente utopica, che sia possibile spezzettare la complessità del linguaggio, la complessità delle significazioni, la complessità del mondo in unità minime (un po' sul modello tomistico), e poi, attraverso combinazioni progressive di elementi di significato e combinazioni progressive di tratti di significanti, produrre o riprodurre il senso. È una idea che trovate in Carnap, ma, su un altro piano, anche nel Bauhaus, e persino nella linguistica di cui parlavo prima, quella hjelmsleviana. L'idea di base della svolta semiotica è il contrario: non è possibile, come si era pensato, scomporre il linguaggio in unità semiotiche minime, per poi ricomporle e attribuire il significato al testo di cui fanno parte. È necessario, al contrario, aver
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çhiaro che non riusciremo mai, a priori, a fare un'operazione di questo genere, e che invece possiamo investire degli universi di senso particolari dentro cui ricostruire specifiche organizzazioni di senso, di funzionamenti di significato, senza con questo vantare la pretesa di ricostruire, almeno per ora, generalizzazioni valide in ultima istanza. Solo per questa via è possibile studiare questa realtà curiosa che sono gli oggetti, oggetti che possono essere nello stesso tempo parole, gesti, movimenti, sistemi di luce, stati di materia ecc. - ossia, tutta la nostra comunicazione.
La pasta sfoglia e i due cervelli Se si accetta un'ipotesi di questo tipo, è possibile eliminare un'idea del linguaggio - che i logici e certi semiologi continuano a praticare - modellata sulla scrittura. Molto spesso, quando si pensa a una lingua, consapevolmente o inconsapevolmente si ha in mente una specie di trasposizione di un testo scritto. In realtà il linguaggio - come diceva spesso Barthes nell'ultima parte della sua vita - è dotato di intonazioni, è articolato insieme alla gestualità in maniera decìsiva, è accompagnato da tratti fisiognomici precisi. Il linguaggio, cioè, lungi dall'essere un qualcosa di lineare (contro cui in tanti si sono scagliati, per la sua razionalità presupposta), ha un suo spessore, che va considerato al momento dell'analisi. Così, il linguaggio è una specie di «pasta sfoglia» molto complessa di elementi, di segni di valore molto diverso. Il che ci porta a eliminare un'altra delle grandi opposizioni della semiotica più comune: quella tra analogico e digitale. Secondo la vulgata semiotica, l'analogico riguarderebbe le cose che somigliano ai loro referenti, mentre il digitale avrebbe a che fare con tutto ciò che è caratterizzato da una qualche discontinuità, non immediatamente riscontrabile nel piano del mondo cosiddetto reale. L'analogia sarebbe basata sul continuo e la digitalità sul discontinuo; di conseguenza, il linguaggio verbale viene collocato dal lato del discontinuo, mentre l'immagine e la musica dalla parte dell'analogico; il tutto motivato da
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una qualche teoria scientifica che divide in due il cervello, e mette a sinistra il digitale, cioè il linguaggio, e a destra l'analogico, ossia l'immagine e la gestualità. Più saggiamente, gli studiosi del cervello oggi dicono che il cervello è flessibile, che i percorsi al suo interno non sono assegnabili a priori, che in ogni caso esso è altamente plastico e che ogni localizzazione pnò essere mutuata e trasformata. Si pensi al linguaggio dei sordomuti - su cui ci soffermeremo meglio nella prossima lezione - che è un linguaggio altamente sintattico, dunque digitale, ma nello stesso tempo interamente visivo, quindi teoricamente analogico. Rispetto a un linguaggio del genere, varrebbe allora la pena di chiedere: i sordomuti con che parte del cervello parlano? Ma pensate anche al fatto che quando noi parliamo, parliamo senz'altro mediante sistemi discontinui, ma parliamo anche con delle intonazioni, che certamente discontinue non sono (almeno nel senso in cui lo sostiene chi distingue tra analogico e digitale); il linguaggio, dunque, simultaneamente parla con due sistemi di segni: un sistema digitale e un sistema analogico, che parlano però nello stesso tempo. Il linguaggio è insieme analogico e digitale; ossia, in altre parole, questa distinzione non ha alcuna ragion d'essere. Possiamo dire insomma di aver fatto qualche passo in avanti rispetto a chi, ancora, propone di utilizzare questo genere di categorie.
Quadri, atomi, parti del discorso Vorrei allora tentare, in maniera molto semplice, di mantenere questa idea di una dimensione stratificata del linguaggio, ossia di dire che, bene o male, esistono due livelli nel linguaggio: uno di organizzazione espressiva e l'altro di organizzazione del contenuto. Ma non si tratta di semplici problemi di forma che non hanno a che fare con gli oggetti; si tratta semmai di livelli che stabiliamo all'interno degli oggetti. Per non parlare sempre e soltanto di semiologi, volevo a questo proposito citare altri scienziati. Nel libro su La mente nuova dell'imperatore Penrose riporta l'opinione espressa da
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Einstein al matematico Hadamard in risposta a un'indagine, opinione che per noi è forse un po' esagerata ma comunque molto interessante, risultando da tutta una serie di studi sul problema del funzionamento della mente: «Le parole o il linguaggio, scritti o parlati, non sembrano svolgere alcun ruolo nel meccanismo del pensiero. Le entità psichiche che sembrano servire come elementi di pensiero sono certi segni e immagini più o meno chiari che possono essere riprodotti e combinati 'volontariamente' [ ... ] di tipo visivo e in parte muscolare»22. Lasciando da parte il problema - su cui dovremo tornare - della relazione fondamentale del linguaggio con il corpo (problema che è di nuovo fondamentale nell'analisi del linguaggio), se si accetta questo suggerimento di Penrose diventa possibile pensare che, indipendentemente dall'espressione immediatamente linguistica, si dà un'organizzazione del pensiero. Esiste, in altre parole, un'organizzazione dei contenuti linguistici, se si vuole dei concetti, indipendentemente dal fatto che essa venga interpretata attraverso una qualche sostanza dell'espressione. Il che significa che c'è la possibilità che forme di segni diverse dal linguaggio verbale siano capaci di organizzare forme del contenuto, cioè significati, che il linguaggio verbale non è necessariamente capace di trasmettere. Cosa che, in sé, non è poi tanto nuova, solo che non veniva contemplata nell'organizzazione teorica della prima semiologia, la quale, per definizione, presupponeva che solo tutto ciò che è dicibile è in qualche misura pensabile. Faccio un esempio molto semplice. Prendete un quadro, e provate a dire che cosa c'è in esso. Chiunque di voi è certamente in grado di nominare tutto quello che c'è dentro quel quadro. Dopo di che voi analizzate le cose che ci sono nel quadro. Che cosa state analizzando in realtà? State analizzando le parole con cui avete descritto gli elementi del quadro; in altri termini, gli elementi che emergono dal quadro sono semplicemente quelli che le vostre parole sono riuscite a descrivere. Ma esiste un significato del quadro che sia in qualche misura percepibile in una maniera diversa? Esiste cioè una organizzazione del senso del quadro che ricorra a unità espressive che non siano coincidenti con quello che le parole possono
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scoprire dentro il quadro? La risposta è, per definizione, sì; anzi, un'analoga organizzazione è allo stesso modo percepibile in un film, in un balletto, nei gesti degli animali o nella struttura di un paesaggio. La prima cosa da fare è però quella - come dice Penrose - di liberarsi di una semiotica la quale crede che tutto dipenda dalle parole, ossia da significati che in qualche misura possono~ssere detti e descritti linguisticamente. In questo modo, finiscono tutta una serie di illusioni della prima semiotica. Per esempio, una di queste erache si potevano trattare come segni sia alcune unità più piccole sia le unità più grandi composte dalle prime. Per esempio, se, come diceva Agostino, ci sono sette segni per formare una frase, allora la frase è scomponibile in sette segni. Ma anche la frase è un segno, senza dubbio. Da qui il problema: qual è la taglia dei segni? E l'unica risposta possibile è quella di ribadire che non c'è nessuna taglia decidibile a priori dei segni: i segni sono semmai decidibili in funzione del tipo di segmentazione che viene operata in un testo. Se avete un insieme di significati, come capita per esempio fra noi in questo momento, ossia uno scorrere di suoni o di segni scritti, di percezioni e di reazioni concettuali reciproche, voi potete, secondo quello che vi è necessario, operare delle scomposizioni progressive a livelli molto complicati. Se volete arrivare molto sottilmente, per esempio, alla grana della mia voce, potete anche farlo. Insomma, non c'è nessuna unità ultima del senso stabilita in anticipo, ma dipende dal piano di pertinenza d'analisi sul quale stabilite di operare, ossia da ciò che in un modo o nell'altro state cercando. Il problema dell'unità ultima non può essere posto costruendo astrattamente delle tipologie di serie di segni, ma va ricostruito volta per volta. Naturalmente non si può impedire l'idea che esistano alcuni segni che vengano considerati a certi scopi come ultimi. Il che però non vuol dire che esistono sempre dei segni ultimi, come sarebbero le parole, la cui combinazione produce delle frasi o dei testi. È vero semmai il contrario: esistono solo testi, testi di oggetti, non testi di parole e di riferimenti, testi d'aggetti complessi, pezzi di parole, di gesti, d'immagini, di
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suoni, di ritmi e così via, ossia iQ§_i~mi.segmentabili secondo le necessità o le urgenze che vengono poste in essere. Qualcosa di analogo succede nelle scienze. Si pensi al grande dibattito che ci fu all'inizio di questo secolo tra Millikan ed Ehrenhaft riguardo al problema dell'elettrone: l'elettrone - ci si" chiedeva - può essere scomposto ulteriormente? Ehrenhaft sosteneva che l'elettrone poteva essere scomposto, mentre Millikan diceva di no, che l'elettrone è l'unità minima della materia. Il dibattito, poi, è stato chiuso dall'idea che si poteva effettivamente considerare l'elettrone come un'unità non ulteriormente divisibile, ma oggi sussistono molte perplessità su questo fatto: perché non ridividerlo ancora, e fino a che punto ridividerlo? 23 Come si vede, è esattamente il nostro problema. Al quale la semiotica risponde dicendo che occorre trasformare il senso in significazione-, cosa che a qualcuno potrà sembrare una tautologia, ma non lo è affatto. L'idea è, infatti, che il significato che scorre fra noi viene, se ci riflettiamo un po', suddiviso in tipi di categorie, e questi tipi di categorie vengono interdefiniti fra loro. In altri termini, non ci sono categorie e parti di significato prima della comunicazione, le quali vengono variamente combinate poi, al momento della comunicazione stessa. Esistono invece delle sotto-distinzioni del flusso del senso che vengono operate nel momento stesso in cui si attua il processo comunicativo: la comunicazione è un ritaglio formale della materia (dell'espressione e del contenuto) che, come diceva Hjelmslev, produce una sostanza (dell'espressione e del contenuto). Faccio un altro esempio molto semplice, quello delle parti del discorso. Tutti noi sappiamo che da almeno un paio di migliaia d'anni in Occidente si dividono le parti del discorso in nomi, aggettivi, verbi, awerbi, preposizioni e così via. Ma, come certamente sapete, c'è voluto parecchio sforzo teorico per produrre queste categorie che a noi, oggi, appaiono come naturali, oltretutto con un risultato, del resto, non definitivo. Ad esempio, per gli aristotelici l'aggettivo non andava con il nome, bensì con il predicato, per la semplice ragione che un aggettivo caratterizza un soggetto, nel senso che lo predica, gli dà delle qualificazioni. «Uomo» è un soggetto, «corre» è un
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predicato, ma anche «alto» è un predicato che qualifica il soggetto «uomo»: quindi il verbo e l'aggettivo stanno dalla stessa parte, qualificano entrambi il soggetto. Noi però, oggi, non mettiamo l'aggettivo dalla parte del verbo; tendiamo a metterlo con il nome. E questo perché abbiamo scelto di adottare un altro criterio di pertinenza: abbiamo deciso che siccome nome e aggettivo hanno un a-ccordo sul plurale e sul singolare, così come sul maschile e sul femminile, si tratta di due parti del discorso in qualche modo affini. Per gli aristotelici il criterio era dipendente da una questione semantica, per noi da una questione grammaticale, dove è evidente che nessuno dei due criteri è più «esatto» dell'altro: dipende da quel che si dà come pertinente al momento dell'analisi. Il problema, davanti a certi significati è: come «tagliamo» tutto questo, come interdefiniamo queste nozioni? Quindi non ci sono aggettivi, non ci sono nomi, non ci sono verbi: tutti quelli che hanno studiato un po' di linguistica sanno benissimo come tutte queste categorie cambiano costantemente: esistono delle categorie, gradualmente interdefinite, gradualmente concordate, che sono usate per segmentare provvisoriamente alcuni fenomeni di senso e la cui interdefinizione consente di pensarle insieme con una certa efficacia interpretativa. La semiotica ha appunto lo scopo di lavorare sulle interdefinizioni, di ricostruire i criteri di pertinenza necessari per formare volta per volta il significato dei testi.
Azione e passione Ritornerò nel prossimo capitolo su alcuni punti teorici che, nella ricerca attuale, a partire da quello che abbiamo detto oggi, modificano radicalmente l'immagine che abbiamo della semiotica, e innanzitutto l'idea che i segni siano rappresentazioni. Sarà già chiaro per esempio che gli oggetti-testi di cui ho parlato - come insiemi variamente significanti e non semplici «cose» opposte alle «parole» - non sono affatto rappresentazioni concettuali o mentali, come oggi si tende spesso a pensare.
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Per scindere la nozione di segno da quella di rappresentazione è necessario compiere una serie di movimenti differenziati. Il primo è quello di ricorrere alla n_arratj_yiJrt L'idea è che la narratività è una maniera di mettere in movimento la significazione combinando in maniera specifica, non soltanto ,parole, e neanche frasi e proposizioni, ma speciali «attanti» :sintattico-semantici che noi chiamiamo qualche volta attori, •qualche altra personaggi e così via. La narratività ha una funizione configurante, rispetto a un racconto dato, rinviando d'acchito a un certo significato 24 . L'insieme dell'Odissea, per esempio, rinvia a un senso complessivo dato dalla sua articolazione narrativa. Il senso di questo poema, cioè, non dipende dall'insieme delle parole o delle frasi che lo compongono, ma da una complessiva articolazione semantica che è di tipo narrativo e che in modo del tutto autonomo configura un universo di significati. In altri termini, il problema dell'Odissea non è tanto quello di rinviare a un significato (culturale, psicologico o altro) esterno al poema; è semmai l'articolazione configurativa di azioni che esiste all'interno del poema a produrre una particolare articolazione significativa, che è nello stesso tempo culturale, psicologica ecc. ' / Così, la nozione di narratività fa della semiotica innanzii tutto una teoria dell'azione, la quale, in fondo, nel momento stesso in cui modifica radicalmente il paradigma semiotico di Barthes o di Eco, riprende una vecchia idea della storia della linguistica, risalente per esempio a Humboldt25 . È l'idea secondo cui il linguaggio non è fatto per rappresentare stati del mondo; esso serve semmai a trasformare quegli stati, modifi1 cando al tempo stesso chi lo produce e chi lo comprende. Ipotesi così fondamentale che se non ne teniamo conto rischiamo di continuare a pensare, in modo affatto sterile, il linguaggio come un problema di rinvii e di giochi di specchio. Il stçondo movimento teorico fondamentale è quello di affiancare alla nozione di narratività come logica delle azioni uno studio delle passioni, anch'esse fortemente e insistentemente presenti nell'attività configurante del racconto. Pensare insieme azione e passione può così darci qualche indicazione per liberarci di alcune false opposizioni idealistiche,
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come per esempio la grande opposizione tra passione e ragione, che spesso è subentrata anche nelle ricerche semiotiche (come fare a evitare interpretazioni folli, deliranti, paranoiche ecc.?). La relazione narrativa tra azione e passione può in qualche misura servirci per introdurre la dimensione dell'affettività, completamente assente nei.l'analisi semiotica precedente. Uno dei drammi dell'ultimo Barthes era quello di chiedersi come fosse possibile far entrare nel modello semiotico di stampo linguistico, o trans-linguistico, delle cose come gli affetti: la paura, la disperazione, la nostalgia ecc. Oggi, l'entra: ta pertinente della dimensione passionale all'interno dell'anali. si semiotica altera radicalmente l'intera teoria della significazione26. Infatti, per restare al puro livello linguistico, è possibile constatare che la dimensione passionale richiede profonde e inesplorate pertinenze grammaticali: è possibile dire «andare in collera», ma non si può dire, per esempio, «andare in avarizia». Pertinenze grammaticali, cui vanno aggiunte investimenti lessicali, intonazionali, interiezionali importantissimi e profondissimi, al punto che l'immagine stessa del linguagj gio ne risulta radicalmente cambiata. L'arrivo dell'affettività i altera completamente il vecchio modello semiotico che era I costruito su basi cognitive e referenzialiste. Ora, se i segni non sono rappresentazione, si pone un altro fondamentale problema, su cui vorrei tornare: quello dei tipi di segnLnon.. lingyistici. Penso per esempio al gesto, ed eminentemente alla problematica del discorso dei sordomuti, che mi sembra oggi un test fondamentale per poter ripensare la relazione alla gestualità e la sua integrazione alla problematica sintattica. Un altro punto è inevitabilmente tirato in causa per questa via: la riaffermazione del ruolo fondamentale del çprp_o_Si tratta di un problema che dovremo porci radicalmente, su cui anche gli studi sulla natura della mente, che erano partiti da un'analisi interamente costruita e astratta, stanno oggi tornando a ritrovare il ruolo essenziale della corporeità. La questione del corpo preannuncia tutta questa serie di conseguenze che ci riconducono a una problematica di tipo feno-
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menologico, riletta in una direzione che postula però un tipo di filosofia differente 27 .
Livelli semiotici e anelli mancanti Prima di chiudere questo capitolo, devo spiegarne il titolo. Che cosa è «la scatola degli anelli mancanti»? · Ci sono due tipi di titoli. Il primo è quello, per così dire, metonimico, il quale molto spesso ha ben poco a che fare con i contenuti del testo di cui è, appunto, titolo. A tale proposito c'è la famosa storia di George Bernard Shaw. A un amico che gli chiedeva consiglio sul titolo da dare a un suo libro, lui aveva posto alcune domande. «Ci sono pifferi?». «No», rispose l'altro. «Ci sono tamburi?». «No», di nuovo. «Allora, lo chiami così: Né pifferi, né tamburi», concluse Shaw. E questo è già un buon modo per titolare. · Un altro modo è invece di tipo meta-sememico, presente quando il titolo riassume una serie di problemi che sono posti nel loro testo di riferimento. Pensate a Orgoglio e pregiudizio: è un titolo che ci dice che nel romanzo si parlerà di orgoglio, si parlerà di pregiudizio, ma si parlerà soprattutto della «e», ossia di un modo particolare di mettere insieme l'orgoglio e il pregiudizio. Di questo secondo tipo è il mio titolo, La scatola degli anelli mancanti. Se la semiotica ha - come spero di chiarire nel prossimo capitolo - una vocazione scientifica, essa ha innanzitutto una vocazione empirica. Cosa che mi sembra assolutamente fondamentale. Essa però ha anche il dovere di entrare in contatto non con le grandi teorie filosofiche sul segno, ma soprattutto con tutte quelle pratiche di significazione complesse da cui si possono dis-implicare dei funzionamenti di senso. Quindi, il problema non è tanto quello di andare a caccia, all'interno della storia della filosofia, di tutte le idee sul segno che sono state formulate, o di sapere che cosa pensava del segno, poniamo, Spinoza. Certamente si tratta di ricerche importanti, ma la vocazione empirica della semiotica ci porta anche e soprattutto a indagare sul fatto se, eventualmente, nella pratica,
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poniamo, nella pittura dell'epoca di Spinoza, per caso ci fosse una qualche idea di segno del tutto implicita, che con gli strumenti a nostra disposizione possiamo dis-implicare dai quadri che quella pittura ha prodotto. Oppure, allo stesso modo, dobbiamo chiederci se questo tipo di pratica-teorica della pittura del Seicento ad Amsterdam può essere comparata con l'idea di segno che, anche"'lui in modo del tutto implicito, poteva avere la scienza dell'epoca. Così Boyle, per fare un riferimento conosciuto, è lo scienziato che più o meno in quel periodo - facendo andare in collera un filosofo come Hobbes reinventa la nozione di vuoto. Se si toglie tutta l'aria da una sfera di vetro - semplifico orribilmente 28 - tutto quello che resta lì dentro, dice Boyle, è il vuoto. La cosa per noi importante è che, per poter formulare questa idea, Boyle ha bisogno, in modo, ripeto, del tutto implicito, di modificare la nozione di riferimento. Se Hobbes si infuria tanto per il vuoto di Boyle è perché Boyle indica il vuoto, compie un atto di riferimento rispetto a un qualcosa che, da Talete sino ad allora, in quanto non esistente non poteva essere inserito all'interno di un'operazione segnica di rinvio. Boyle, insomma, come Spinoza e come i pittori dell'epoca, aveva una idea del segno, che lavocazione empirica della semiotica, lavorando sui suoi testi, può aiutare a comprendere. Se la semiotica è una disciplina non eminentemente filosofica, non è dunque perché studia i segni filosoficamente, o indaga su ciò che i filosofi dicono dei segni; essa è filosofica perché lavora sulle immagi,ni di pensiero che sono soggiacenti ai testi che essa sa e vuole analizzare. Testi che, ovviamente, possono essere anche filosofici. Così, se quello dell'empiria è il primo livello della semiotica, esso va messo in relazione con un secondo livello, quello metodologi,co. Per descrivere i funzionamenti di senso noi abbiamo, infatti, bisogno di metodi. Intendo per metodi una serie di concetti formati e interdefiniti, ma soprattutto responsabili della loro stessa interdefinizione. Se qualcuno parla di «soggetto» e di «predicato», deve al contempo essere in grado di rendere conto della relazione fra l'uno e l'altro. Allo stesso modo, se si parla di «soggetto» e «oggetto», bisogna esplicitare la loro relazione. Ancora, se si parla di «intersoggettività», io voglio sapere cosa vuol dire questo termine, ma voglio an30
che sapere cosa vuol dire il suo correlato possibile, ossia «inter-oggettività» (termine meno strano di quanto sembri, in un'epoca come la nostra, dove gli oggetti chiacchierano tra di loro e spesso parlano di noi). A questo livello metodologico, che è il secondo livello della semiotica, è connesso un altro livello, il livello teorico. Si tratta di un livello necessario, perché è qui che si deve essere in grado di definire e giustificare le categorie che si usano nei momenti empirico e metodologico. Così, se si parla di intersoggettività (o di inter-oggettività), sarà necessario che qualcuno spieghi che cosa si intende per «soggetto», qual è la relazione tra un «soggetto» e, poniamo, un «attore». La semiotica deve dunque darsi un linguaggio teorico che sia responsabile rispetto ai metodi che usa. Quarto e ultimo livello: quello epistemologi,co. Ogni buona teoria, per essere responsabile, deve esplicitare una sua presa di posizione filosofica. Se da un lato, dunque, la teoria semiotica serve a motivare i metodi d'analisi empirica, da un altro lato deve a sua volta basarsi su una qualche forma di epistemologia. La teoria sarà tanto più forte quanto più sarà in grado di esplicitare i propri meccanismi epistemologici di fondo. Ora, quali sono gli anelli mancanti? Sono gli anelli che dovrebbero legare tutti questi quattro livelli - che qui ho semplificato -, ma che molto spesso nella ricerca semiotica non riescono a essere presenti in modo chiaro ed efficace. Ci sono per esempio quelli che fanno delle descrizioni testuali (letterarie, pittoriche ecc.) e - con un curioso «effetto tunnel» - le mettono direttamente in relazione con un'ipotesi filosofica, senza passare dai livelli metodologico e teorico intermedi. Si tratta di un effetto tunnel proprio perché, non passando da tutti gli stadi che stanno in mezzo tra empiria e filosofia, si finisce per illustrare quasi sempre un'ipotesi filosofica già conosciuta, ossia, molto semplicemente, per non portare ad alcun incremento di conoscenza. Se volete giustificare una ipotesi filosofica, non vi preoccupate: troverete sempre un testo che, scorciato in maniera adeguata, vi fornisca qualche citazione che potrà farvi da esempio. Ma la relazione tra filosofia e testo resta così di pura tautologia. Oppure ci sono quelli che non si pongono il problema del-
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la connessione tra metodo descrittivo e teoria. Molto spesso i modi di descrivere i testi - seppure ricchissimi - non pensano di avere nessuna responsabilità rispetto all'interdefinizione dei concetti che stanno per usare; non si danno cioè alcuna teoria in grado di esplicitare il loro modo di operare, rischiando di sacrificare gran parte della loro ricchezza sull'altare della pura empiria _o de]J.'intuizione inesplicabile. Altro anello possibile mancante, quello che si interpone tra un metodo e una teoria: esistono molti metodi che rinviano tranquillamente a un principio filosofico, senza passare per una teoria che trasformi le categorie descrittive in concetti. Penso, per esempio, a molti specialisti di intelligenza artificiale, discussi anche in sede semiotica, i quali, essendosi scontrati con diversi problemi riguardanti la corporeità, fanno appello a Merleau-Ponty e a Husserl, nella speranza di costruire un ponte tra la pratica dell'intelligenza artificiale e le teorie fenomenologiche sulla percezione. Il problema è che tra l'appello filosofico al corpo e all'intercorporeità di tipo husserliano e la costruzione di una simulazione di una mente, occorre mettere qualcosa. Alcuni linguisti (Lakoff, per esempio) hanno giusto a questo proposito pensato che questo spazio intermedio possa essere occupato dalla metafora. Se, come è dimostrabile, le metafore contengono nel loro interno una descrizione simulatoria di fenomeni di corporeità, occorre far abitare i computer, non da parole o da lessici, ma da metafore, metafore che includano la dimensione del corpo. Ultimo anello mancante, quello tra teoria ed epistemologia: molti studiosi usano dei concetti ma non ne possiedono una sensata fondazione epistemologica. Si pensi, per esempio, alla questione della divisione tra percetto, affetto e concetto. Una distinzione indubbiamente fondamentale. Ma qual è l'interdefinizione degli elementi, come si definisce l'affettività rispetto alla percettività? Come si definisce il concetto rispetto al percetto e rispetto all'affetto? Come si vede, è indispensabile una filosofia che fondi questa distinzione di marca soltanto teorica. Ecco allora, per concludere, quali sono gli anelli mancanti: quello che congiunge epistemologia a teoria, quello che congiunge teoria a metodo, quello che congiunge metodo a
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descrizione empirica. Purtroppo, dentro la scatola nera della ricerca semiotica, l'assenza di questi anelli ci permette una tipologia dei diversi tipi di correnti semiotiche: quelle che precipitano la filosofia rispetto all'analisi di piccoli segni, quelle che mettono in contatto i testi direttamente con le teorie usandole come illustrazioni del già noto, quelle che usano metodi assolutamente ciechi e irresponsabili. Bene, è questo insieme di anelli che dovremo andare a cercare, non dimenticandoci che, nelle favole, se uno gira un anello, spesso succede qualche cosa: proveremo dunque a girare alcuni di questi anelli in nuove direzioni di ricerca.
CAPITOLO SECONDO
Lo scibile e i modelli
L'elasticità e la parola data JJn· Componente estesica. Un ultimo punto, quello della sensorialità. Lo studio della dimensione .passionale ci abitua a un'idea in apparenza curiosa: non c'è passione senza corpo. Basta leggere una descrizione qualunque, anche su un vocabolario, di che cosa è una certa passione, e trovate sempre qualcosa che riguarda la corporeità. Ma è una cosa abbastanza ovvia, pensate alle antiche poesie di Saffo: in qualche misura la trasformazione passionale comporta sempre una trasformazione dell'estesia, cioè della percezione dell'espressione corporale. La passione provoca, per esempio, cambiamenti di stati fisici del corpo: la vanità ha un certo colore, l'invidia ne ha un altro, la timidezza ha una certa forma; c'è una amarezza, ci sono delle passioni dolci, e così via. In altri termini, costantemente una delle componenti della dimensione affettiva ci dispone, grazie alla sua semplice descrizione, al contatto reciproco tra quelli che una volta si chiamavano anima e corpo o, in altre parole, ci mostra uno scambio delle configurazioni d'organizzazione del corpo, da una parte, e delle concatenazioni più astratte di significato come la modalità o il tempo, dall'altra. Così, che ci siano descrizioni in cui il linguaggio ha bisogno di utilizzare una serie di definizioni della corporeità mi sembra assolutamente essenziale. ~1 In altri termini, mentre il paradigma semiotico aveva stac_cato rigorosamente dal corpo la valutazione dei segni, consideran-
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dola in termini puramente cognitivi e concettuali, il ritorno della dimensione affettiva opera nella direzione altamente fenomenologica di una presa in considerazione del ruolo fon_! damentale dell'implicazione della fisicità nel segno.
La continuità Non è un caso se rispetto ad alcune passioni, la corporeità da una parte, e dall'altra parte, poniamo, la voce prendono delle intonazioni che non sono affatto distintive, ma sono, per esempio, di tipo analogico, ossia interamente continue. Il nes7 so strettissimo che si pone fra il corpo e le emozioni ci porta davantLaÙ;Ì.potesi teorica moÌto forte di segni non discontinui e non arbitrari. È un problema a mio avviso essenziale, perché il modello saussuriano ci aveva presentato il segno, in una maniera molto chiara, come segno arbitrario rispetto al suo oggetto: per Saussure la relazione fra significante e significato è del tutto : priva di motivazione. Ma lo stesso Saussure pensava anche che -,- il segno linguistico avesse caratteristiche di linearità: appena avete detto una cosa, essa non c'è più, poiché ce n'è un'altra che state per dire. Inoltre, i segni erano considerati distintivi l'uno rispetto all'altro. Per prova di commutazione la parola «pane», se variata dava «rane», «sane», «vane» ecc., dove le variazioni di un elemento pertinente producevano variazioni di significato discreto, ossia per definizione discontinuo. Al di là dei pochi casi di omonimia o di sinonimia, in fondo la lingua era considerata come qualcosa che possiede una semantica distintiva. Tanto è vero che per lungo tempo si è pensato alla lingua come logos naturale, ossia come ragione, come criterio distintivo su cui fondare il ragionamento. I latini, però, erano un po' più astuti, e avevano introdotto nella tipologia delle parti del discorso, accanto agli epiteti, ai nomi o ai verbi, le interiezioni. Cosa che i greci non avevano considerato e che noi abbiamo in qualche misura abbandonato. Uno studioso di lir1guistica non pensa immediatamente, anche se oggi talvolta si fa, di studiare le interiezioni come ah,
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I:,_, I
oh, uh, bah, eh, ih e simili; non pensa che questi elementi facciano parte in modo naturale del linguaggio. Per quale ragione? Perché le interiezioni hanno la fondamentale caratteristi.ca di non essere distintive: non legano, non caratterizzano null'altro. Le interiezioni non sono termini sincategorematici, cioè non collegano le categorie; ma non sono nemmeno categorematici, non definiscono dei sensi, non hanno un referente preciso; dunque non hanno posto per una semiotica che ragiona in termini di discontinuità e di distinzioni reciproche. Il problema .è che proprio nelle interiezioni (e, in generale, nel continuo linguistico) ha sede molto di ciò che riguar_da l'affettività all'interno del linguaggio. Non voglio dire che l'affettività stia soltanto lì. L'affettività nel linguaggio sta dappertutto, ma è nella continuità che essa si manifesta con maggiore chiarezza. Uno dei maggiori studiosi contemporanei di linguistica dell'intonazione, Dwight Bolinger, afferma con grande semplicità che non solo per sapere che cosa è la frase si ha bisogno dell'intonazione; ma non si ha nessun criterio di segmentazione del linguaggio, se non attraverso criteri intonativi, e in ultima analisi il criterio intonativo definitivo ha in qualche modo a che vedere con l'emozione 5 • Molto imbaraz'zante, per la linguistica strutturale tradizionale. -, Però, se accettate questa ipotesi, vedete come direttamente nella morfologia stessa dell'organizzazione della lingua rientra qualche cosa che i linguisti, abituati alla discretezza del segno, non potevano considerare pertinente alle loro analisi. Si tratta di immagini emotive, di passionalità, che i linguisti della intonazione chiamano, non a caso, gesti vocali. L'emozione, dunque, ha qualcosa del gestuale e dell'iconico, ossia in qualche misura del visibile e del continuo, del gradiente, e 'non del discontinuo. Così, questa problematica che ci introduce alla problematica del corpo, con tutta la sua continuità complessa, ci pone filosoficamente davanti alla tradizione fenomenologica. Penso al celebre saggio di M~rleau-Ponty sulla Fenomenologia della percezione, dove si parlava del corpo come espressione e come parola6 . Ecco dunque un anello filosofico che mancava alla teoria semiotica, e che pure, adesso, appare -· come del tutto necessario. 49
Il sentimento del dubbio D'altra parte, questo problema del nesso fra corpo e passionalità ci serve per riporre nell'analisi linguistica, e non solo linguistica, un problema comune che l'immagine discontinua e cognitiva del linguaggio ~eva abbandonato: l'idea. che un'intonazione è allo stesso tempo gesto e immagine. E dobbiamo domandarci come mai sia stata costruita un tipo di semiotica che non tiene conto di questo problema. Faccio un esempio che mostra come sia stata una lettura parziale dei testi a provocare, molto spesso, questo tipo di scelte. L'opera di Peirce è nota, probabilmente egli è uno dei grandi fondatori della semiotica contemporanea. Ora, come si diceva nel capitolo precedente, Peirce è stato ripreso e sviluppato eminentemente per la sua tipologia dei segni, molto complessa, e per le modalità di inferenza, di passaggio da un segno all'altro che aveva proposto. Si è dimenticato però che J:>eirce ha anche scritto una grande quantità di testi sul problema del. le emozioni. Uno di questi scritti è dedicato, per esempio, ai «sentimentilogici». Peirce era un protestante molto simpatico, che era convinto che in qualche misura esistono dei sentimenti di base: fede, speranza e carità7. Ma questo è un problema che non ci riguarda, in questo momento . . Quel che invece ci riguarda è che, se si legge con attenzione tutta l'opera di Peirce, ci si accorge che per questo studiosonessuno fa.mai.inferenze, passa cioè da un segno a un altro segno, se non ha preventivamente dei dubbi. Ora, il dubbio è senz'altro una passione epistemica, ha cioè a che fare con la conoscenza. E il dubbio non è soltanto un'incertezza conoscitiva; esso ha una radice modale, l'incertezza, e si caratterizza come un'oscillazione tra più soluzioni cognitive. -------.. Ma il dubbio, dice benissimo Peirce, va risolto, altrimenti la gente non riesce più ad andare avanti. Se si potesse convivere tranquillamente con i propri dubbi, non si farebbero più inferenze. L'idea. çli Peirce è che il dubbio ha caratteristiche tali per cui, per passare da un segno a un altro segno, c'è bisogno di qualche altra cosa. Le inferenze dubbiose si-compiono quando le operazioni che mettono in causa le conoscenze
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provocano uno stato insostenibi~ è necC:'.ss~riC> _c:illf!qU,e ovviare a questa situazione, calmando questo turbamento, ritrovando la calma necessaria per andare avanti nella vita. Come si vede, non siamo più dentro la logica simbolica: l'operazione inferenziale è una maniera per calmare il turbamento costitutivo dell'uomo. Di conseguenza, è immediatamente chiaro che cosa sia un sentimento logico. Un sentimento logico è un sentimento di cui la logica è soltanto uno strumento, uno strumento per trasformare uno stato di dubbio in.uno stato di certezza. È probabile, come è stato detto spesso, che la scienza moderna, nata nel Seicento, alla fine delle grandi guerre di religione, sia stata un modo per spostare la problematica del dubbio metafisico, del dubbio religioso, in dubbio d'ordine concettuale. La fondazione della scienza moderna ha spostato il luogo del dubbio, ha messo il dubbio altrove, un dubbio che non poteva più essere risolto in termini di guerre di religione. Semplifico, ovviamente, ma è per dire come sulla base di questa lettura di Peirce l't:pistern9.lggia, la conoscenza della vita degli scienziati, lo studio dell'attività di conoscenza diventi un luogo di valorizzazioni: un luogo di dubbi, di perplessità, di conflitti, di soddisfazioni in cui «eureka» non è solo un gesto cognitivo, ma un gesto di soddisfazione, un gesto di trionfo.
L'analisi passionale -11 È evidente che, se si accettano questi presupposti, bisogna cambiare la teoria e l'immagine della semiotica.·Introducendo la dimensione affettiva nel linguaggio - non come interdisciplinarità esterna ma incastrandola nei termini stessi con cui _'. 1~ semiotica può riferirne - l'analisi passionale può introdurre un modo di trattamento dei fenomeni dell'affettività in termini che possono essere in qualche misura riconoscibili, in termini che è possibile maneggiare e attraverso cui poter rispondere a delle domande. Le altre culture. hanno le nostre stesse emozioni? Come si possono tradurre le emozioni di un altro? Culture precedenti alle nostre hanno avuto le stesse
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emozioni? Ascoltavano la musica con le stesse emozioni? Provavano quello che proviamo noi? Oppure, dentro la nostra cultura, i bambini sentono quello che sentiamo? Hanno le stesse emozioni nostre? Le donne e gli uomini hanno le stesse emozioni? E altri problemi del genere su cui non sarebbe privo di interesse riflettere. C'è poi tutto un versante Operativo che attraverso questo trattamento della passionalità si apre. Per esempio, la problematica dell'azione persuasiva diventa essenziale dal momento in cui, se voi indicate delle componenti passionali non caratterizzanti una passione definita, ma suscettibili di entrare in maniera complessa dentro un discorso, potete agire per modificarle, per esempio sulla componente modale: a qualcuno che vuol sapere potrete non farlo sapere, a qualcuno che ha dei desideri, toglierglieli, oppure a uno che non li ha, farglieli venire. Ma potete anche operare, per esempio, sui ritmi. Uno dei problemi oggi, per esempio, con i giovani è quello del ballo; ci si chiede: come operare in modo che di sabato sera si esca riducendo gli incidenti di macchina causati dalla velocità eccessiva? E una delle ipotesi è quella di rallentare i tempi del ballo, ossia agire sulla temporalità. Un'altra possibilità, non secondaria, senz'altro interessante, potrebbe essere quella di agire sulla percezione, sull'estesia. La pubblicità sa benissimo che operando sulla dimensione estesica, per esempio sulle variazioni di caldo, freddo, appannato, acuto, dolce ecc., non ci si limita a operare sulla percezione: si opera anche sulla componente che, in qualche modo, trasforma le emozioni di qualcuno.
L'immagine e il gesto 1 Vorrei ora toccare un altro punto che mi sembra assolutamente centrale nelle attuali ricerche semiotiche: la questione dell'immagine. L\mm_~gi~e, infatti, dopq alçu_rieiiçerche iniziali, è stata del tutto trascurata dagli studi semiotici. I vari tentativi di còstiiuire una semiotica del cinema, della televisione,
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della pittura e così via si sono rapidamente dissolti, a causa delle difficoltà riscontrate nel proiettare un modello linguistico tradizionale sull'immagine, la quale evidentemente ha ca•.J ratteristiche molto diverse da quelle del linguaggio verbale. L'affermazione generica, secondo la quale un'immagine non è mai equivalente alla parola ma corrisponde quanto meno a un enunciato, non è un atto conoscitivo: è un atto di disperazi~:me, poiché nessuno sa quale taglia possa avere questo eventuale enunciato. -, Se si pensa, invece, che l'immagine non ha caratteristiche traducibili linguisticamente in maniera diretta, che l'immagine ha una sostanza espressiva specifica, una sua forma particolare di espressione la quale trasmette un certo tipo di organizzazione di contenuti, si potrà dire dunque che l'immagine ha caratteristiche semiotiche, è cioè più o meno dotata di sen.J so. L'immagine può ovviamente anche essere insignificante,· in_ contesti dati, ma questo fa parte del problema intrinseco: è indubitabile comunque che essa esprime dei sensi propri, che non sono riconducibili e riducibili ai significati linguisticamente individuabili. Questa idea di un linguaggio specifico dell'immagine è un problema essenziale che è stato posto parecchie volte; per essere risolto, esso deve però prescindere da paragoni azzardati con il modello linguistico. Ci vogliono azioni e operazioni teoriche che rendano la questione dell'immagine pensabile all'i~terno di un paradigma teorico coerente che consenta la sua comprensione. Voglio dare un esempio del tutto locale: la questione del linguaggio dei sordomuti, che non a caso si chiama sign language, cioè proprio linguaggio dei segni. Una delle caratteristiche singolari del linguaggio dei sordomuti è che esso ha alcune caratteristiche che sembrano molto, molto generalL L'impressione è che tutti i sordomuti del mondo potrebbero intendersi tra di loro perché parlano per immagini; e siccome chiunque è in grado di riconoscere tutte le immagini del mondo, tutti i sordomuti del mondo dovrebbero intendersi. Di fatto non è così: non solo non esiste una lingua universale di coloro che parlano «segnando», ossia a gesti, non solo non c'è una lingua universale dei sordomuti, rria addirittura ci sono
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dei dialetti, degli idiomi locali che sono relativamente poco comprensibili tra loro. Anche se le possibilità di traduzione, owiamente, esistono. Proprio per questo il linguaggio dei sordomuti pone questioni di grande interesse. Prima di tutto perché si tratta di un linguaggio puramente visivo. Se si guardano le immagini del sordomuto che gesticola, ci si accorge che alcuni di questi segni sono altamente motivati dal punto di vista visivo; altri però non lo sono del tutto. Se io vi dico che un pugno chiuso vuol dire «potere» in un certo tipo di lingua dei segni, nessuno di voi si stupirà; se però vi dico che vuol dire anche «testa», non sarete stupiti lo stesso. Il problema è che non sarete stupiti per due ragioni diverse: nel caso della testa si ha un'estremità rispetto al braccio, la quale ha caratteristiche di rotondità, di sfericità sommaria e di consistenza; nel primo caso, invece, la medesima consistenza può dare l'idea che esiste un qualcosa come un potere, un potere inteso come forza. Così, la medesima immagine diviene significativa in due modi diversi perché in un caso viene reso pertinente lo stringersi delle dita (il potere), mentre nell'altro uno schema fisico (la testa). I lessici dei vari linguaggi dei segni mostrano molto chiaramente, per esempio, che per i sordomuti italiani e per quelli danesi una figura come «albero» viene resa iconicamente in due modi totalmente diversi. Come nel caso di «testa», entrambi ricorrono a schemi, a diagrammi iconici, i quali però sono tra loro molto diversi. Il che non vale soltanto per i segni rappresentanti figure, per così dire, stabili del mondo, ma anche per esempio per i verbi come «prendere», che si costruiscono attraverso il ricorso a figurazioni fortemente astratte. In altri termini, il linguaggio dei sordomuti ha caratteristiche fortemente iconiche, diagrammatiche da una parte, ma d'altra parte ha caratteristiche assolutamente astratte. Se si ha presente questa grande varietà e complessità del linguaggio dei segni, non sorprenderà il fatto che i gesti dei sordomuti riescano a riprodurre pressoché tutti i possibili significati: essi sono pertanto interamente traducibili nelle lingue verbali. Così, attraverso i gesti dei sordomuti posso essere in grado di riprodurre i Prolegomeni a ogni futura metafisica di Kant: non l'esatto equivalente, è chiaro, ma qualcosa che si av-
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vicina a quel libro molto complesso. Si tratta quindi di un linguaggio che è ben lungi dal possedere un sistema ridotto di significati. Del resto, uno dei problemi fondamentali della battaglia politica dei sordomuti è quello di ribadire che la loro non è una lingua scimmiesca, come ha creduto per molto tempo un certo danv:inismo deteriore (tale per cui il gesto veniva prima della parola); si tratta anzi di una forma espressiva interamente parallela al linguaggio, e capace nelle sue configurazioni di esprimere tutta la sintassi. Il problema per noi è fondamentale, perché si tratta di sostenere che anche il gesto, e di conseguenza l'immagine, ha potuto specializzare una parte di se stesso nella grammatica-:, lità. Esso mostra abbastanza bene che probabilmente è proprio l'uso della grammaticalità che ha fatto evolvere il linguaggio da una direzione più iconica, più somigliante e più analogica verso una dimensione più astratta. È probabile che la sintatticizzazione, cioè l'espressione delle relazioni in via fonetica, sia in parte una delle ragioni per cui il linguaggio, che all'inizio era fortemente motivato, è stato in qualche misura reso sempre più astratto nel corso dei tempi. E non è un problema di poco conto: assumere teoricamente l'esistenza complessa del linguaggio dei sordomuti porta cioè a formulare, direttamente o indirettamente, una qualche ipotesi sulle origini del linguaggio. Già, come è nato il linguaggio? Come si è affermato? Sull'argomento ci sono due tesi fondamentali. Secondo la prima il linguaggio è in qualche misura co-evoluto col gesto; quindi il linguaggio naturale non è soltanto il linguaggio fonetico sviluppatosi con una funzione unica; semmai, all'interno di un insieme complesso di sistemi di segni, il linguaggio verbale è co-evoluto con essi ed è in qualche misura arrivato a soluzioni particolari, specifiche, ma per nulla uniche e sole. L'altra ipotesi sull'origine e lo sviluppo del linguaggio - derivante da una definizione del linguaggio assolutamente non iconica e in definitiva non semiotica - ritiene invece che il linguaggio verbale sia nato come facoltà in sé e per sé, separata da ogni altra capacità di comunicazione, e che si sia dunque sviluppato autonomamente, in sintonia con le capacità raziocinanti dell'uomo.
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Così, se per entrambe le ipotesi è certo che il linguaggio naturale umano non ha potuto evolversi a partire dalle grida animali originarie, la prima di esse pensa comunque che il linguaggio sia co-evoluto insieme a una simpatizzazione delle relazioni fra uomini, provocati sia da fenomeni fonetici sia da fenomeni gestuali. Potrà sembrare un problerrra di lana caprina, ed effettivamente sino ancora a pochi anni fa è valso il principio - affermato da un gruppo di linguisti alla fine dell'Ottocento a Parigi - secondo il quale era addirittura vietato porsi l'interrogativo circa le origini del linguaggio. Qualcun altro risolve la questione dicendo che, molto semplicemente, gli uomini sono nati col linguaggio, con una facoltà di linguaggio naturale del tutto scissa dalla gestualità. È evidente, dunque, che l'ipotesi della co-evoluzione della verbalità e del gesto implica una decisione semiotica radicale: quella di superare l'idea che i segni linguistici sono arbitrari, discontinui, digitali, a valenza sintattica ecc., mentre gli altri segni sono continui, analogici, iconici, e forse non meritano neanche il nome di segni. A me pare che introdurre la problematica del gesto attraverso una riflessione sulla gestualità dei sordomuti porti a cancellare questa rigida separazione tra discontinuità verbale e continuità iconica. I sordomuti, per riprendere i discorsi del capitolo precedente, sono in grado di parlare «a tutto cervello»; per loro, la famigerata differenza tra parte destra e parte sinistra del cervello non ha ragione di esistere; essi sono però capaci nello stesso tempo di utilizzare una sintassi altamente sofisticata, che coinvolge persino le regole conversazionali. Come sappiamo, negli enunciati grammaticali è presente l'intonazione, la quale, tra le altre cose, segnala l'inizio e la fine dei turni di parola durante una conversazione: si alza il tono quando si comincia, lo si abbassa quando si finisce di parlare, consentendo all'altro di iniziare a sua volta il discorso. Ma anche una persona che gesticola, che fa segni, è capace benissimo con certi gesti di dire che ha terminato la frase e che tocca al proprio interlocutore il turno di comunicazione. Se noi, parlando, usiamo l'intonazione, i sordomuti alzano le mani quando parlano e le abbassano quando terminano. 56
Ora, a ben vedere, quando diciamo che un tono è «alto» o è «basso», stiamo in realtà parlando soltanto di due diverse intensità della voce: non c'è, in senso stretto, nulla di alto o di . basso nell'intonazione verbale; si tratta di una metafora. Invece, nel discorso della gestualità dei sordomuti, l'abbassamento delle mani alla fine dell'enunciazione è davvero unà forma fisica di abbassamento, non una metafora; è, potremmo dire, una metafora incorporata, tale per cui, quando un sordomuto intende dichiarare che non ha finito di parlare, ma in quel momento non gesticola, semplicemente per esprimere il fatto che non passa il turno di parola tiene in alto le mani; non le abbassa solo perché non compone dei gesti: le tiene su perché . ha voglia di parlare ancora. Cosa che, ovviamente, noi, parlando verbalmente, non possiamo in nessun modo fare.
Un 'ermeneutica semiotica Si capisce così che una questione a prima vista circoscritta qual è quella del linguaggio dei segni finisce per modificare molte idee generali sulla semiotica. Essa sembra inoltre avere la fun. zione di riproporre la questione ermeneutica in maniera completamente diversa. Infatti, sino a quando restiamo all'interno della lingua naturale, l'ermeneutica non è altro, in qualche misura, che una esplicazione della lingua naturale con i mezzi della lingua naturale stessa: una specie di eterna parafrasi condotta con gli strumenti di ciò che si vuol parafrasare, in un continuo circolo vizioso dal quale non si riesce a uscire . ..P-ossiamQ..~Iò _pensare, adesso, a un'ermeneutica dei sistemi dL segni dive_rsi ciaff~Jiii@;:(\in.'erm.è~[(ic~ · aèlla-pff~ tura, del c:inema, della gestualità ecc., le quali permettoffo a questi sistemi di segni di parlare di se stessi, di auto-interpretarsi, rµa anche di.interpretare altri sistemi ·di. segni, attraverso sostanze dell'espressione che - come abbiamo detto - ritraducono in parte il significato espresso nel sistema d'origine. Del resto, non vedo perché stupirsi dell'esistenza, poniamo, di un quadro ermeneutico, ossia di un quadro che parla di un altro quadro, in qualche modo esplicitandolo e inter-
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pretandolo, o di una musica ermeneutica, di un cinema ermeneutico e via dicendo. Se è così, daremo dell'ermeneutica filosofica una definizione molto più ricca, che eviti la riduzione che essa sta in questi anni subendo a vantaggio di altre forme di filosofia. Del resto, l'enorme diffusione che ha avuto negli scorsi anni l' ermeneutica ha avuto l'esito dimettere tra parentesi uno dei principali esiti teorici della semiotica, che è quello di sottolineare fortemente la presenza di sistemi di segni non linguistici che hanno significazioni proprie, non linguistiche ma in qualche misura esplicitabili. Qualche tempo fa, esponevo questa idea durante un incontro di studi sulla traduzione a New York, e Vattimo, che era presente, mi ha obiettato: «Noi possiamo stare qui a discutere dì pittura, ma te lo immagini un gruppo di pittori che si riuniscono per parlare di noi a livello teorico?». E la mia risposta è stata: «Sì, posso immaginarli certamente». Vattimo sosteneva che non era possibile pensarlo, manteneva l'idea di un privilegio della significazione linguistica sugli altri tipi di segni, e non poteva accettare l'idea che ci fosse un meta-quadro, cioè un quadro che non solo esplicitasse delle ipotesi teoriche generali manifestabili da un punto di vista linguistico, ma che addirittura potesse parlare di significati propriamente pittorici, non manifestabili con le parole.
L'enunciazione e l'interpretante Vengo adesso a un altro punto che avevo annunciato e che mi sembra assolutamente essenziale: quello dell'enunciazione. Nella vecchia semiotica, una delle questioni fondamentali che si pòrieva ;_:_ come· abbiamo visto - era quella del rinvio tra segno e segno. Nella definizione peirciana (e poi echiana) çlella semiotica, un segno non è articolato in diversi livelli, ma sostanzialmente rinvia a un altro segno, incessantemente. La procedura di rinvio rimane comunque un problema: non è evidente infatti chi rinvia, chi compie l'operazione inferenziale del collegamento tra il primo segno e il secondo._Un segno
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non rinvia da solo a un altro segno: per farlo - si dice - è necessario un interpretante. La ricca ambiguità di quest'ipotesi è che ci sarebbe dunque un terzo polo tra il segno che rinvia e il segno a cui si rinvia. Per esempio, il fumo rinvia al fuoco; ma c'è un altro polo della semiosi - che viene, appunto, chiamato interpretante - il quale in qualche misura è colui che coglie il rinvio tra il fumo e il fuoco, che vede il fumo e ne inferisce cognitivamente la presenza del fuoco. Ma chi è questo interpretante? In maniera molto intelligente, Eco ha fatto notare che non si tratta affatto di una persona fisica, empiricamente data: non si tratta della persona che in un film del Far West vede il fumo e pensa agli indiani, magari preoccupandosi della loro presenza. hinter:~tant,e, al contrario,. è_an,c_h'e._~s,o un segno, un segno ulteriore che mette in relazione il fumo-e irfuoco:-"èTorse,-p-oriiamo; la sed.Tquel tale che"vedeilfumo edice· (o pensa): «scappiamo, ci sono gli indiani». Cioè, in qualche misura, l'osservazione profondissima è che la persona che compie l'operazione di rinvio fra due segni fa parte del sistema semiotico, per la semplice ragione che è a sua volta produttore di segni, è segno esso stesso; non è esterno alla semiosi, ma ne fa parte integrante. Non c'è, per Peirce, un soggetto che dall'esteFno guarda i segni e Ii lega fra loro; il soggetto è esso stesso parte della catena dei rinvii segnici. Tanto è vero che l'interpretante, cioè il segno che interpreta, può anch'esso diventare segno per un altro segno, e così via all'infinito. Cioè, ci può essere di nuovo qualcuno che interpreta la sua interpretazione, magari la corregge e la rinvia a un altro. Gli indiani, per esempio, non c'erano: si trattava di un altro cow-boy. Il problema è dunque quello di articolare questa presenza interpretante all'interno della catena dei segni, per evitare che resti una semplice tautologia. In altre parole, una volta intuito che la presenza di una istanza, per così dire, di collegamento fra segno e segno è fondamentale, e che essa stessa è di natura segnica, che forma darle? Io credo che la semiotica di stampo peirciano si sia fermata qui, non riuscendo a fornire risposte adeguate a questo interrogativo. Una soluzione interessante la troviamo invece nell'altro paradigma di ricerca, quello linguistico-saussuriano, al cui inter-
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no è stato sviluppato il cosiddetto problema dell'enunciazione. Il concetto di enunciazione è, a mio avviso, uno degli elementi fondamentali che ha permesso l'esplicitazione, l'articolazione di questa intuizione: che da un segno si rinvia a un segno, ma che l'operazione di rinviare da segno a segno è essa stessa un'operazione semiotica. Cerco di spiegarmi. Pensate;""per esempio, alle lezioni che hanno dato origine a questo libro, durante le quali io parlavo rivolgendomi a un pubblico con il «voi». In quel caso ci sono io, che sono un emittente empirico, ossia conoscibile dall'esterno, e ci siete voi, che siete riceventi empirici, ossia anche voi conoscibili dall'esterno. E siamo entrambi attivi e passivi: contrariamente all'apparenza, voi, anche se state zitti, non siete affatto elementi passivi della comunicazione: state ascoltando, o forse non state ascoltando; in un modo come nel!' altro svolgete comunque un'attività; sia che ascoltiate, dunque facciate un qualche sforzo per comprendere, sia che non ascoltiate, ossia che rifiutiate del tutto il mio discorso, in ogni caso state facendo qualcosa; siete attivi, praticamente come me che in questo momento parlo. D'altra parte, io vi do delle informazioni in senso attivo, ma probabilmente, mentre lo faccio, trasudo tutta una serie di informazioni su di me che voi estrapolate ma che io non controllo direttamente. Quindi io sono un emittente attivo ma anche un emittente passivo, e voi siete dei riceventi attivi e siete anche dei riceventi passivi. Sin qui niente di particolare. La cosa da rilevare è che, esattamente in questo discorso che ho appena fatto, è accaduto che sto parlando di io e di voi; ossia, in un certo senso vi ho già collocato dentro il discorso ( voi) e mi sono io stesso già collocato dentro il discorso (io), Il che significa che il sistema pronominale, per esempio, nella lingua, è un modo di iscrivere all'interno del discorso stesso due simulacri, io e voi, che stanno lì a rappresentare me e a rappresentare voi anche se - per un qualche strano, fortuito caso - non siamo in questo momento presenti in questa stanza né me né voi empirici. In altre parole; l'enunciazione è quella particolare istanza grazie a cui l'intersoggettività (emittente-ricevente, in questo caso) è iscritta all'interno del discorso stesso. Grazie al meccanismo dell'enunciazione posso dire, parlando di me stesso: «Eh, tu
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queste cose non le capirai mai»; in questo caso mi sono dato del tu. Ma posso anche, parlando di voi, anziché dire voi,: dire il gentile pubblico e parlando di me posso dire l'oratore (usando cioè in entrambi i casi la terza persona). L'idea fondamentale dell'enunciazione è che all'interno di testi semiotici di diverso tipo - nella musica, nella pittura, nella letteratura ecc. - ci sono simulacri di interazione che sono iscritti all'interno del testo stesso attraverso processi di enunciazione. Do un esempio che riprendo da uno studioso francese prematuramente scomparso, Louis Marin, il quale ha mostrato come dentro la pittura ci sia tutto un complesso sistema di iscrizione di diverse istanze enunciative 8 • Pensiamo alla pittura vascolare greca. In questo genere di pittura c'è una regola fondamentale: i vari personaggi rappresentati si guardano fra di loro. Ma c'è un personaggio, la Gorgone, che ha una particolarità: vi guarda direttamente. In altre parole, la medusa non guarda un altro personaggio dentro la storia dipinta; essa guarda chi la guarda, ossia voi che la state osservando. Non voi personalmente, ovviamente, ma tutti coloro che si mettono davanti al quadro, ossia davanti ai suoi occhi. In questo modo, la medusa dà del tu, non a ogni persona, ma tutti quelli che si metteranno in quella posizione di osservatori, che è la posizione del tu, e che a loro volta la guarderanno negli occhi. In altri termini, l'opposizione presente nella pittura vascolare greca tra faccialità, frontalità e profilo si è incaricata di esprimere a un altro livello la problematica della relazione io-tu e la problematica dell'opposizione io-tu/ egli. Sappiamo però, grazie ad alcuni studi recenti, che non è solo la Gorgone che vi guarda in faccia; nella pittura vascolare greca vi guardano in faccia quattro categorie di persone molto precise: gli ubriachi, i moribondi, i sileni e, sembra, anche i pederasti. Si scopre così che nella rappresentazione della pittura vascolare tutti coloro che sono in una posizione eccentrica rispetto a una normalità - ubriaco, guerriero morente ecc. - sono generalmente in posizione facciale. Il che non è una regola universale, ma vale per quel micro-
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universo semantico specifico di cui stiamo parlando. In altri ti-
pi di discorso e in altre culture non è per nulla così: l'opposizione tra faccialità, frontalità e profilo viene utilizzata in ma61
niera diversa. Questo vuol dire che, per esempio, l'opposizione della rappresentazione figurativa antropomorfa tra facciale e frontale può essere in determinate culture una forma.del1' esprfs.sjone atta a trasmettere una fon::na .del.contenuto specifico che è la relazione tra normale ed eccentrico, oppure tra personale e impersonale. La personalità e l'impersonalità (organizzazione del contenuto) possono essere manifestate a livello di forma espressiva, all'interno di alcuni tipi di organizzazione d'immagine in certe culture, attraverso l'opposizione tra faccia e profilo, allo stesso modo in cui nelle lingue verbali vengono usati i pronomi io-tu/ egli. Si pensi, ancora, alla pittura del Medioevo. Meyer Shapiro, un grande studioso di arte medioevale, ha notato alcune cose di grande interesse 9 • Studiando l'immagine di Mosè - specialmente nel momento in cui, assumendo forma di croce, prega perché la battaglia sia vinta-, Shapiro ha mostrato come inizialmente la figura di Mosè sia frontale; ma poi, progressivamente, con il passare del tempo Mosè si gira, mentre altri personaggi si girano verso di lui e gli sostengono le braccia di profilo. Così, Shapiro nota (senza probabilmente conoscere la pittura vascolare greca) che evidentemente il Mosè girato, che non guarda più voi, è coinvolto in un evento in terza persona, in una narrazione obiettiva, mentre il Mosè che vi guardava dritto negli occhi coinvolgeva tutti quelli che possono guardarlo, in una relazione che è di ordine diverso. Le implicazioni ideologiche, culturali, metafisiche che questa variazione rappresentativa comporta sono a questo punto ovvie, e possiamo per adesso non occuparcene. In ogni caso, anche qui il sistema di opposizione tra faccia e profilo diventa la forma del1' espressione per una concomitante forma del contenuto (per esempio: umanità/ divinità). Così, la pittura può con mezzi propri, molto specifici, esprimere dei modi di iscrizione della soggettività e dell'intersoggettività, esattamente come lo fa il sistema pronominale della lingua. E questo non è soltanto un problema di isomorfismo: è un problema di possibile traducibilità. Perché solo se avete una teoria unitaria dell'enunciazione, avrete la possibilità di un confronto tra, poniamo, l'organizzazione dell'enunciazio-
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ne all'interno di un testo letterario e l'organizzazione dell'enunciazione all'interno di un testo visivo. Ricordo, per fare un altro esempio, un celebre film di Tony Richardson del 1963, Tomjones, dove c'è una scena erotica tra una signora un po' anziana e un giovanotto. A un certo punto, poco prima di andare a letto insieme, la signora anziana viene a sapere, dalla conversazione con il giovanotto, che quel giovanotto è suo figlio. La signora, che fino a quel momento parlava di profilo, si gira verso il pubblico e fa «Hmf». E la cosa va avanti. Per la vostra morale, alla fine della storia si scoprirà che la signora non era effettivamente la mamma del giovanotto. Ma la cosa per noi interessante, morale o immorale che sia, è che la signora deve girarsi verso il pubblico per annunciare ufficialmente che lei non era poi così sensibile alla questione dell'incesto. Ossia, la strategia di rivolgersi direttamente, non alla persona fisica nello spazio del cinema, ma all'ascoltatore ideale, è decisiva per il significato del film. Ho l'impressione che quando Benveniste - che è uno dei principali studiosi di linguistica che hanno lavorato su tali questioni - diceva che il senso ha una faccia da medusa, pensasse proprio a questo; ossia a quest'idea secondo la quale nel linguaggio non ci sono soltanto rappresentazioni concettuali, e nemmeno soltanto rappresentazioni di azioni e di passioni: nel linguaggio c'è l'intervento di un'istanza di enunciazione molto variabile, iscritta nel testo, che porta a trasformare i racconti in discorsi (laddove per discorso intendiamo quel testo di qualunque sostanza espressiva - che, oltre a rappresentare qualcosa, rappresenta e iscrive al suo interno la forma della propria soggettività e intersoggettività). Se si accetta questa ipotesi, risulta del tutto evidente una affermazione come quella di Lotman secondo cui__1L'fl.testr;u;g11,_;; _tien1d.pr_opriprincìpi di comunicazione1°. Cosa che sembra strana, ma che alla luce della nozione-& enunciazione diventa del tutto ovvia. Così, non è vero - come si pensava sino a poco tempo fa - che c'è da un lato una sintassi e una semantica (interne al testo) e da un altro lato una pragmatica (esterna al testo stesso)_ Potremmo accettare questa distinzione se pensassimo a un discorso sprovvisto di criteri comunicativi, pura informazione che viene porta da un soggetto empirico a un altro sog63
getto emp1nco. Ma così non è, per la semplice ragione che l'insieme delle istanze che io iscrivo mentre sto parlando (io, voi, essi ecc.) è presente nel mio testo; il mio testo, appunto, ha al suo interno i propri principi di comunicazione. In altre parole, il testo non è una serie di rappresentazioni di stati del mondo; o meglio, è una rappresentazione di tanti stati del mondo, tra i quali vi è quello specifico stato del mondo che è il fatto che il testo è in comunicazione con qualcuno. Così, si potrebbe dire che la pragmatica è la dis-implicazione dal testo delle sue condizioni di comunicazione. Cosa che sembra astratta, ma non lo è affatto: vuol dire semplicemente che un testo porta iscritte, sotto forma di sistema enunciativo, le rappresèntazioni di come il testo stesso vuol essere considerato. Torniamo alla nostra medusa. Se un greco dell'antichità si pone davanti all'immagine della Gorgone, resta terrorizzato. Ulisse, quando scende all'inferno, spera che Ecate non gli mandi il volto terrificante della Gorgone. Se, invece, davanti a quella stessa immagine ci poniamo noi, oggi, qui e ora, magari la troviamo carina. Per spiegare questa differenza di reazioni abbiamo bisogno di una pragmatica reale, intesa come sociologia della ricezione. Quel che però è importante è che l'immagine è sempre la stessa, ossia che la forma di interpellazione che opera la medusa (non guardando Perseo che le sta tagliando la gola sulla sua destra, ma guardando voi che guardate lei che si fa tagliare la gola) non cambia tra l'epoca dei greci antichi e la nostra. Lo sguardo della medusa è presente nell'immagine, è l'immagine in quanto tale, immutabile, a partire dalla quale, poi, parecchie reazioni possono essere possibili. In questo caso, quindi, d9 bbiam o _p,arl~I~-9-Ì.JJUa_pragmatica-interna al--tes to; per così dire, di una pr3:grnasica §~mant:içam~nt.e iscritta. Questa differenza è di grande importanza, quanto meno per non rigettare ancora una volta la pragmatica come semplice disciplina sociologica che interpreta i significati diversi che i testi possono avere in contesti diversi. Essa.ha invece.il _ç9m_pg9_qi mostrare come un te§_t_g_{letterario, visivo ecc.) _crei . la PJ:Qpr:ia.contestualizzazionejpt~J"J;l_jl"--Ci tengo molto, perché oggi si parla tanto di una fantomatica opposizione tra semantica e pragmatica, che dal nostro punto di vista non ha alcuna 64
ragion d'essere. Io ritengo che questa opposizione sia inesatta, e che vada in qualche misura ridefinita attraverso la nozione di enunciazione.
Metafore e cognizione Se,guendQquestajpotesirci si.poJrç_pge dorn