La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione 8860818478, 9788860818478

I giovani sono fotogenici. Tutti ne parlano. Nessuno li conosce. Tuttavia, anche là dove è ammessa e da tutti riconosciu

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La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione
 8860818478, 9788860818478

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S CAFFALE APERTO SOCIOLOGIA

Franco Ferrarotti

LA STRAGE DEGLI INNOCENTI Note sul genocidio di una generazione

ARMANDO EDITORE

FERRAROTTI, Franco La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione ; Roma : Armando, © 2011 128 p. ; 20 cm. (Scaffale aperto - Sociologia) ISBN: 978-88-6081-847-8 l. Questione giovanile 2. Precariato lavorativo 3. Evoluzione sociale

CDD 301

© 20 Il Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http:/ /www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 21-13-058 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qual­ siasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti dell5% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall'ac­ cordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI ill8 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un nu­ mero di pagine non superiore all5% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

SOMMARIO

Prefazione

7

1.

La questione giovanile

11

2.

Una generazione condannata: da vittime a carnefici di se stessi

17

La mistificazione psicologistica, alleata inconsapevole e preziosa del potere discrezionale

23

4.

Ifattori strutturali dell'emarginazione giovanile

27

5.

L'estraniamento dei giovani dal mondo politico in cui la ''classe politica" si autoriproduce e invecchia

33

6.

La democrazia truccata

37

7.

La politica ufficiale perde il contatto con la società e il mondo giovanile

43

La vittoria della cultura del monitor e della ''realtà virtuale"

47

9.

Il potere come "deus absconditus"

53

10.

Il precariato giovanile

59

11.

Una giornata in un cali center

63

12.

Arti, mestieri, lavoro alienato, precarietà

69

3.

8.

13.

La peculiarità del processo di industrializzazione in Italia

75

14.

La crisi del mestiere e della sua professionalità

81

15.

La tecnica, perfezione priva di scopo, prende il comando sulla via del disastro 85

APPENDICI

95

I.

Intervista di Franco Ferrarotti a Francesco Cardarelli

97

II.

Il '68: le ragioni delfallimento

105

III.

L'individuo europeo- socializzazione e identità come processo dinamico e inventività evolutiva

109

PREFAZIONE

Dal lontano 1 955, da quando nel vecchio Magistero di Piazza Esedra a Roma cominciavo a insegnare una strana materia, la sociologia, di cui s'eran perse le tracce, il pro­ blema dei giovani è stato uno dei temi centrali della mia ricerca. Nulla di più naturale: cosa sono una società, il suo sviluppo, la sua perpetuazione senza i giovani? E tuttavia, i giovani continuano a "fare problema". Il mio indimenticabile amico, Jean Duvignaud, della Rabe­ lais Université di Tours, scriveva, negli anni '80, La planète des jeunes solo per dimostrare che si trattava di un pianeta sconosciuto. La società è cambiata. Sono mutati gli ordina­ menti scolastici e i rapporti di produzione. Ma il problema giovanile è rimasto aperto. Oggi si calcola che, in I tali a, un giovane su tre sia senza lavoro; non solo: c'è un dato più preoccupante. Un nume­ ro crescente di giovani rinuncia a cercare un lavoro, non continua a studiare, vive, o sopravvive, alla giornata. Sono chiamate in causa non soltanto le società tecnicamen­ te progredite, ma anche quelle, come si dice, "emergenti". Nella prospettiva del passato prossimo, dalla scossa del '68, sconfitta certamente anche dallo scarso acume analitico dei contestatori con riguardo alle forze in gioco, al Movimento 7

della Pantera e, oggi, alle manifestazioni degli studenti con­ tro i tentativi dell'ufficialità di indebolire l'università pub­ blica a favore delle scuole private e confessionali, i giovani sono in prima fila, ma appaiono perdenti. Una volta di più, le istituzioni si avvitano su se stesse in una miope reazione difensiva. E chiaro che i giovani di oggi non vogliono più "cambiare il mondo", non pretendono "tutto e subito", si contentano di un posto a tempo indeterminato che li faccia uscire dal limbo del precariato che succhia le loro energie, distrugge le loro speranze. Per guadagnare un briciolo di ascolto e di vi­ sibilità sono saliti sui tetti, forse non immemori del monito praedicate super tecta. Per contaminazione mimetica, anche se la matrice della protesta giovanile è diversa da paese a pae­ se, l'insorgenza studentesca e giovanile sembra contagiare anche paesi emergenti, come la Tunisia. Non è più soltanto una questione corporativa. I giovani pongono il problema dell'attuazione pratica di una demo­ crazia di base, non più "per pochi", non più "truccata", non fossilizzata in una struttura sociale immobile, non mortifi­ cata dal dogmatismo del pensiero unico e dal conformismo di massa, consolidato dalla manipolazione psicologica. Con le manifestazioni odierne, i giovani europei, dall'I ta­ lia all'Inghilterra e alla Francia, reclamano un risveglio coe­ rente del pensiero critico per una riforma effettiva dell'uni­ versità, contro i politici distratti e i professori demotivati. La protesta vuol farsi progetto. La dimensione pedagogico­ formativa, in una società tesa unilateralmente alla massimiz­ zazione del profitto privato, è stata sottaciuta, dalla destra come dalla sinistra, da tutte le agenzie di socializzazione '

8

primaria, dalle famiglie, dalle associazioni volontarie, dalle chiese, dai sindacati. Si è permesso alla TV di sostituirsi alle fondamentali istituzioni educative. Un mezzo di comuni­ cazione, per definizione tanto incisivo quanto eticamente irresponsabile, si pone oggi come fonte di informazione, ma anche, inevitabilmente, di formazione, spesso deformante. Mi viene alla mente un "frammento" di Nietzsche dell'o t­ tobre-dicembre 1 8 76, che cito a memoria: "Non si trovano più educatori; con questo termine si pagano individui che a loro volta non sono educati. Ci sono insegnanti, ma non educatori; stallieri, ma non cavalieri".

Roma, 19 gennaio 2011 FRANCO FERRAROTTI

9

l. LA QUESTIONE GIOVANILE

I giovani sono fotogenici. Tutti ne parlano. Nessuno li conosce. Ci si limita a proiettare su di loro i propri principi di preferenza. In generale, si ammette che esiste, nelle socie­ tà tecnicamente progredite, una questione giovanile. Non se ne può parlare nei paesi economicamente arretrati e per vari aspetti sottosviluppati. In questi casi, che interessano anco­ ra i quattro quinti dell'umanità, l'alta mortalità infantile e il lavoro minorile risolvono il problema prima che emerga. Tuttavia, anche là dove è ammessa e da tutti riconosciuta l'esistenza di una "questione giovanile", i giovani non sono ascoltati. Si preferisce il mito, come ha chiarito molto bene Gianni Borgna1. Ma poi Borgna formula la domanda fon­ damentale: «Com'è, allora, che dei giovani non parla più nessuno, che nessuno è più disposto a occuparsi di loro, qua­ si non esistessero più? Credo che rispondere a queste do­ mande sia senz'altro utile ma tutt'altro che semplice, anche perché è necessario chiarire preliminarmente alcune cose. E prima di tutto che, in sé e per sé, la giovinezza non è molto più che un'età della vita, transeunte ed effimera come le altre; 1

Cfr. Gianni Borgna , Il mito della giovinezz a, Roma-B ari , Laterza ,

1 997. 11

anzi, a guardare bene, più delle altre, se è vero che un paio 2 di secoli fa ancora praticamente non esisteva» . Ma non è solo una questione storica. Il semplice fatto è che, oggi, ascol­ tare i giovani richiede una libertà di spirito che è di pochi. Ascoltare i giovani si pensa che sia inutile, che comunque i giovani abbiano poco da dire, che sarebbe tutto sommato una perdita di tempo. A parte Gianni Borgna, le eccezioni sono rare. Brilla fra tutte un demografo eccellente, in grado di collegare dati e concetti in maniera sobria e persuasiva3. A suo giudizio, «i giovani non sono una casta, una classe, un ceto; non sono più uniti tra loro di quanto lo siano gli adul­ ti o gli anziani. Soffrono di analoghe disuguaglianze eco­ nomiche, si dividono secondo simili linee politiche, vivono contesti culturali distinti. Non formando un gruppo coeso, la loro riscossa non è rivendicativa e non è "contro" qualcuno o qualcosa. Essa va piuttosto intesa come una riconquista di quelle prerogative perdute di cui abbiamo parlato, di quello spazio di azione politico, sociale ed economico dal quale sono stati esclusi, o che hanno abbandonato, con danno per sé e per lo sviluppo del paese. E uno spazio che i giovani devono riconquistare. Un a riscossa difficile, ma necessaria. Ma come iniziarla ed eventualmente portarla a termine? Tre vie possono essere esperite. La prima è di carattere piuttosto ideale, di natura politica, culturale o religiosa: essa spetta, essenzialmente, a leader capaci di motivare le scelte indi­ viduali, rafforzando l'autostima, spingendo all'autonomia, valorizzando il rischio. Meglio sarebbe, senza dubbio, se '

2

lvi , p. 4; corsivo nel testo. 3 Cfr. Massimo Livi Bacci Avanti, giovani, alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in Italia, Bologna , Il Mulino, 2008. ,

12

questa leadership fosse generata direttamente dai giovani, in una sorta di autonomo rinnovamento. La seconda è di tipo normativa, e opera modificando le regole in senso più favorevole ai giovani, per esempio abbassando l'e tà al voto, attivo o passivo, imponendo "quote", aumentando le risor­ se a disposizione per determinate finalità (borse di studio, contributi per l'affitto, detassazione del lavoro giovanile). La terza è di processo: modificando i meccanismi che raf­ forzano l'autonomia giovanile». I giovani onorari, gli specialisti della materia, quelli che si potrebbero definire "giovanologi", non sembrano avve­ dersi che il giovanilismo è una categoria per definizione transitoria. Il fenomeno è stato debitamente registrato e acutamente commentato4• «Nella storia - osserva il noto politologo -, da sempre e dappertutto, il giovanilismo è raro. Le irrequietezze giova­ nili cominciano con lo Sturm und Drang (tempesta e assal­ to) dei primi romantici e, in Italia, con il futurismo e il fa­ scismo. Ma furono fuochi fatui. Le rivoluzioni sono spesso promosse dai giovani; giovani che però si attaccano al po­ tere sino alla morte. Qyando l'Urss si dissolse esibiva la più straordinario gerontocrazia (governo dei vecchi) al mondo. Dicevo che il giovanilismo non dura. E così per forza, perché i giovani diventano vecchi. Ma è anche bene che sia così. I giovani apportano un elemento - l'e nergia - che gli anziani non hanno più, mentre gli anziani apportano l'ele­ mento che i giovani ancora non hanno, e cioè esperienza '

4

Cfr. Giovanni Sartori , Giovanilismo e rottamazione, in "Corriere della sera", 1 1 dicembre 20 10. 13

e conoscenze. Insomma, gioventù è energia senza sapere, anzianità è sapere senza energia». I giovanologi parlano e scrivono ovviamente di giovani. In realtà parlano di se stessi. Spesso si commemorano. Sono autoreferenziali. Il loro momento - questo lo sanno - è pas­ sato, ma non si rassegnano. Abbiamo più sopra notato che, con una certa dose di crudele bonomia, sottoscrivono un famoso detto crociano: il problema vero dei giovani è che invecchiano e che allora diventano pericolosi. Siamo al p a­ radosso consolidato in luogo comune: quando tutti sono o si sentono giovani, la gioventù scompare, i giovani non ci sono più, diventano introvabili. Come osserva Alessandro Ago­ stinelli, «quando parlo di giovani non intendo i bambini o i ragazzi ai quali una parte di letteratura e spettacolo ottocen­ teschi e di cultura pedagogica avevano dedicato storie e at­ tenzioni. Anzi, nell'uso propriamente novecentesco del ter­ mine giovanile si può individuare il percorso di definizione di una più ampia condizione socioindividuale. Infatti, oggi, anche "l'uso sociale della letteratura giovanile" non serve più a far maturare e passare all'e tà adulta, ma aiuta a restare in una condizione limbica, sospesa dentro un corpo sociale sempre più giovane in tutte le sue componenti. Dunque, quando parlo di giovani, parlo dell'universo giovanile nove­ centesco, cioè della più importante novità del nostro tempo: la gioventù. Negli anni Cinquanta e nel corso dei decenni successivi la questione giovanile ha contraddistinto molti periodi della società occidentale, e quasi sempre dal lato progressista e democratico, cioè dal lato meno conservatore e più movimentista. Il cinema, più di ogni altra disciplina artistica e di ogni altro mezzo di comunicazione di massa, 14

ha dedicato attenzione a questa forza crescente che è stata la gioventù, anche tramite la rappresentazione immediata della forza fisica e dell'azione sullo schermo, operata attra­ verso una serie di nuovi divi, giovani e prorompenti. Pensia­ mo soltanto al lavoro sul corpo di Marlon Brando, messo in scena da Elia Kazan in A Streetcar Named Desire ( Un tram che si chiama desiderio, Usa, 1 95 1 ), sia in teatro sia al cinema, e in On the Waterfront (Fronte del porto, Usa, 1954). Ma an­ che le tematiche narrate nei film trattavano argomenti che fino ad allora non avevano avuto riscontro in alcun modo: pensiamo ad esempio alla descrizione di questa nuova con­ dizione operata nel film Rebel Without a Cause ( Gioventù bruciata, Nicholas Ray, Usa, 1 955), che aveva come prota­ gonista James Dean. Non è passato molto tempo da allora (anche se il tempo attuale è superficialmente più denso di quello passato e dà quindi l'impressione di essere trascorso di più), eppure mi pare che il processo di trasformazione di questa novità socioculturale chiamata "gioventù" abbia subito notevoli ingerenze economiche e abbia provocato, a sua volta, modificazioni sostanziali in quella che è stata nominata "postmodernità", e che nel penultimo capitolo chiamo "paramodernità". La gioventù ha talmente invaso la sfera della conoscenza e delle categorie dell'e sistenza uma­ na, ed è diventata talmente un problema sociale, mediatico, culturale, filosofico, politico, medico, che si dovrebbe abu­ sarne meno come fenomeno di costume, non sottovalutar­ la e iniziare a trovare una parola più precisa per descrivere questo "processo di condizione" della modernità avanzata. La gioventù non è vittima della grande trasformazione del capitalismo flessibile, ne è l'artefice, dal momento in cui, at15

traverso la "controcultura", i mercati artigianali e l'autopro­ duzione degli anni Settanta, si cominciano a delineare nuo­ ve professioni (grafici e designer, disc-jockey e video-maker, editori alternativi e stilisti, commercianti di prodotti etnici e operatori di centri benessere, ecc. ) condotte in autono­ mia e indipendenza dalla produzione classica dello schema fordista della fabbrica. Qyesta pratica di lavoro flessibile, inizialmente marginale, nel corso dei decenni successivi ha permeato di sé l'intero processo industriale»5. L'ottimismo di Agostinelli è consolante, ma infondato. La sua idea positiva di lavoro flessibile presuppone un'e co­ nomia dinamica, capace di offrire tempestivamente posti di lavoro alternativi, ben pagati, appaganti. Ciò che sta acca­ dendo è contrario e simmetrico a questa rosea visione. Soprattutto nelle società gerontocratiche, come s'avvia ad essere l'Italia, afflitta, simultaneamente, da famiglie di figli unici e da una crescente aspettativa di vita, i "giovano­ logi" non si rendono conto che non c'è stata solo Auschwitz, che ci sono genocidi vecchi e nuovi. Sotto i loro occhi, nello stesso tempo curiosi e distratti, si sta verificando un fatto storicamente inedito e inaudito. Tutti sanno che nell'anti­ chità classica, a Sparta, i neonati che avessero la disgrazia di presentare una qualche malformazione congenita venivano scaraventati senza troppi complimenti dal monte Taigeto.

5

Cfr. Alessandro Agostinelli , La società delgiovanimento, Roma , Castel­ vecchi, 2004, pp. 43 -45 . 16

2 . UNA GENERAZIONE CONDANNATA: DA VITTIME A CARNEFICI DI SE STES SI

C'è stato un progresso. Un'intera generazione, anche se in perfetta forma fisica, nel mondo tecnicamente progredito ma umanamente imbarbarito, sembra condannata all'e stin­ zione. Ma questo è ovviamente un argomento tabù. Non se ne parla. Come quando l'affamato chiede pane e gli si dice: «No. Ti farebbe male, debole come sei. Per ora, ti passiamo un brodino». Intanto, un'intera generazione viene azzera­ ta. Ridotta al silenzio. Dapprima emarginata socialmente e politicamente; quindi, semplicemente decapitata. E la nuova strage degli innocenti. Analisti e commentatori, pur provveduti, avendo a disposizione apparati statistici impeccabili, stentano a prenderne atto. E la smentita più cruda e radicale delle "magnifiche sorti e progressive". Il progresso tecnico non garantisce nulla circa il progresso civile. I giovani, insegnava la saggezza convenzionale, sono il futuro d'una società. Se uno guarda ai dati planetari della si­ tuazione sociale, ma specialmente alle società tecnicamente progredite, la scena è, o dovrebbe essere, allarmante. Disoc­ cupazione involontaria, inoccupazione, semi-occupazione, sotto-occupazione: le cifre che riguardano i giovani, fra i ....

....

17

1 8 e i 25 anni, sia in percentuale che in cifra globale, vanno moltiplicate per tre. Se la disoccupazione media, per esem­ pio, è del dieci per cento, quella dei giovani sfiora il trenta. E tuttavia, la cosa è talmente incongrua, va contro il pensiero dominante in maniera così inquietante, che viene piuttosto sbrigativamente trascurata, lasciata cadere come irrilevante, temporanea, destinata a scomparire, ad essere "assorbita". Ci sono culture, nazioni, forse, nell'epoca del­ la globalizzazione planetaria, interi continenti, che sono pronti a tutto pur di non fare i conti con le situazioni di fatto. I problemi etici si risolvono in atteggiamenti estetici. Qyelli poli ti ci in pero razioni letterarie e sfoghi retorici. La parola prende il posto della cosa. La questione dei mezzi di sussistenza, che angustia le grandi maggioranze, si esp ri­ me in metafore poetiche. La morale diventa il morale. E in corso una massiccia psicologizzazione della realtà. La stessa società e le sue responsabilità si riducono a effetti ininten­ zionali di comportamenti individuali. La società - aperta, chiusa, dell'opportunità o del rischio - è in fondo concepita come una sorta di curiosafictio mentis, una realtà virtuale, un parto dell'immaginazione, al più una metafora linguistica. C'è chi la vede come il risultato della comunicazione, specialmente assistita sub specie electronica, riservata natu­ ralmente a coloro che godono della necessaria "competenza verbale" richiesta, tanto da ridurla ad una sorta di "parla­ mento planetario", in cui tutti possono comunicare tutto in tutte le direzioni e in tempo reale, salvo a non avere più nulla da comunicare - una cosa significativa, un dato ine­ dito, un valore. Ma la società viene anche concepita come il frutto succoso, per quanto complesso e inafferrabile, dei dé18

bats, dei dibattiti d'una generica opinione pubblica, oppure del chiacchiericcio d'una tavola rotonda televisiva, obliqua­ mente brillante e fluida, quasi una vasta vasca da bagno, un'immensa piscina o un liquido sudario onniavvolgente, un lubrificato congegno in cui ognuno può, nuotando e "navigando" s'intende, trovare il suo posto e dirsene soddi­ sfatto. Naturalmente, la famosa questione sociale, la "so zia/e Frage", che ha gettato la sua ombra cupa su tutto l'Otto­ cento e il Novecento, in questo caso è sperabile che sarà sconfitta e risolta con apposi ti corsi di nuoto. Ad ogni buon conto, la psicologizzazione del fatto sociale può dirsi compiu ta. E m ile Durkheim considerava il fatto sociale duro e coercitivo, ingrediente necessario della compagine sociale. Oggi è stato dissolto in uno stato d'animo. La storia è una sequenza di umori. Il conflitto di classe è diventato un con­ flitto tra le generazioni. Ci si scandalizza perché i vecchi, i genitori, la generazione dei babyboomers oggi al potere in tutti i settori sociali devono mantenere i giovani, passargli il cibo e i soldi per l'affitto, tenerli in casa fino a venticin­ que, trent'anni. Sarebbero i "bamboccioni", ignavi o apatici. Si tende a scaricare sugli stessi giovani la responsabilità di una situazione certamente nuova, imprevista. Si dimentica di soggiungere che i giovani di oggi, per una percentuale altissima, sono bloccati, emarginati, economicamente con­ dannati a lavori precari, con contratti da rinnovare ogni tre mesi, politicamente esclusi dalla gerontocrazia imperante, costretti ad uno stato di soggezione permanente, che in ta­ luni casi non è esagerato definire neo-schiavile, nel senso che sono a disposizione, ad nutum del padrone. ,

19

Con la psicologizzazione dei fatti sociali, si opera un rovesciamento: le vittime diventano responsabili della loro condizione. Si dice: non hanno desideri; non coltivano aspirazioni; sono piatti, inappetenti. Non vivono. Si lasciano vivere. E un'operazione psicologizzante piuttosto raffinata, presentata in termini ascientifici, all'apparenza inop­ pugnabili. Ammonta invece a una fortunata manip olazione di massa. Non è solo la sindrome di Stoccolma. E qualche cosa di peggio. La vittima si innamora del suo carnefice, ne adotta teorie e comportamenti. Non solo lo giustifica. Ne condivide le idee. Ne sposa gli scopi. Ne accetta l'individua­ lismo darwiniano. Gli regala i suoi voti. Costretta a restare precaria a vita, la vittima si congratula, si ritiene sicura di potercela fare da sola. Qyesto quadro, non proprio confortante, mentre vale nei suoi contorni generali per tutti i paesi del mondo tecni­ camente progrediti, è soprattutto valido e si attaglia quasi perfettamente a paesi statici e a società bloccate come l'Ita­ lia odierna. Anni fa, l'analista sociale francese, autore di un celebre testo su Le phénomène burocratique, Michel Crozier, scriveva della Francia come di una "société bloquée". Oggi, una ricerca sociale ampiamente pubblicizzata, quella del CEN SIS per il 2010, conclude che l'I tali a è bloccata. Se­ condo quanto ne riferiscono i giornali 1, l'I tali a ha resistito alle crisi, ha resistito ai mesi più drammatici, anche se "con evidente fatica" e adesso che "non ha più paura" è appiattita, ferma. E una società "senza vigore e senza spessore", per cui se pure l'economia ripartisse domani, "non sarebbe in ...

...

1

20

Si veda il "Corriere della S era", 4 dicembre 20 10.

...

grado di rilanciarsi". E un paese "senza regole né sogni, che non ha più desideri", un Paese "con troppe leggi dove però la legge conta sempre meno", un Paese soggettivista "con un potere verticistico che deresponsabilizza il cittadino", e "Berlusconi è l'icona del soggettivismo". Ma tutti, anche i nemici dichiarati, gli fanno il verso, ne sono l'interfaccia, e quindi, quali che siano i risultati delle prossime competi­ zioni elettorali, ha già vinto. Ha costretto i suoi avversari a collocarsi sul suo stesso piano. Da dibattito di idee e di programmi, ha ridotto il dibattito politico a rissa continua e inconcludente e a miserabile pettegolezzo.

21

3 . LA MI STIFICAZIONE PSICOLOGI STICA, ALLEATA INCON SAPEVOLE E PREZIO SA DEL POTERE DI SCREZIONALE

I ricercatori del CENSIS ritengono che gli italiani sono un popolo depresso e addormentato che stenta innanzitut­ to a desiderare di risvegliarsi. Qyalche anno fa la società italiana era vista dagli stessi analisti come una "poltiglia". Adesso, invece, " la soggettività, che era la nostra forza, è sfociata nell'insensatezza, nella sregolatezza". Ma non era già stato un sociologo classico, Emile Durkheim, a parlare di "anomia"? Che bisogno c'è di scomodare Freud sulla scorta di quell'e soterico discepolo tutto fermo all'Ottocento che è J acques Lacan? I giovani sono in crisi: disoccupati, ma soprattutto disinteressati. Si calcola infatti che siano due milioni e 242 mila i giovani tra i 15 e i 34 anni che non stu­ diano, non lavorano e non sono in cerca di un lavoro. Sono soprattutto donne, che vivono nel Mezzogiorno e hanno un basso livello di istruzione. Inoltre, se guardiamo al Pil, in Italia dal 2000 ad oggi, questo cresce poco, appena 1'1,4 per cento, mentre cresce l'o ccupazione dell'8 per cento. Negli altri Paesi europei il rapporto è inverso: significa che creia­ mo occupazione senza valore. ,

23

Più della metà degli italiani (il 55,5 per cento) pensa però che i giovani non trovano lavoro perché non voglio­ no accettare occupazioni faticose e di scarso prestigio: una valutazione che potrebbe apparire ingenerosa e stereotipa­ ta, se non fosse che ad esserne più convinti sono proprio i giovani, tra i quali la percentuale sale al 5 7,8 per cento. La conclusione è chiara. I ricercatori non hanno dubbi: se i giovani sono emarginati, è solo colpa loro. Il rischio di perdere la nostra specializzazione imprendi­ toriale, l'o fferta eccessiva di beni di consumo superflui, che, avvertiamo, non ci occorrono veramente e che quindi invece che accelerare i nostri consumi li frenano, un reddito "appe­ santito" dalle "tasse occulte", quella sorta di spese obbligate che ammontano quasi a 2300 euro all'anno per famiglia e che non sono la contropartita dell'acquisto di veri servizi "utili a migliorare la qualità della nostra vita", ma che fanno dell'Italia un Paese sempre più bloccato. Il 40 per cento del­ le famiglie non ha risparmi, gli altri si rifugiano nel mattone o mantengono la liquidità: l'uso del risparmio familiare, in Italia, risulta "stagnante". Il quadro, senza dubbio zeppo di ombre, offre tuttavia alcune luci. Tra queste, la ricerca del CENSIS nota la cre­ scente consapevolezza che non ci si può più affidare alla figura del "leader che tutto risolve": così la pensano soprat­ tutto i giovani (75 per cento), le donne (7 6, 9 per cento), le persone con titolo di studio elevato (quasi il 74 per cento dei diplomati e oltre il 73 per cento dei laureati). Nello stesso giornale, accanto al resoconto del rapporto CEN SIS di Mariolina Jossa, più sopra citato, un autorevole commentatore, Dario Di Vico, concentra la sua attenzione 24

sui giovani, ma specialmente sul vocabolario del rapporto. Fin dai primi rapporti CENSIS avevo lamentato, vent'anni fa, l'uso indebito, per quanto accattivante, della metafora ("l'economia sommersa"; lo "sviluppo a cespuglio" e così via), oggi Dario Di Vico insiste meritoriamente sulle ca­ tegorie concettuali e sui termini di natura essenzialmente psicologica e psicoanali tic a; in questo senso conferma la "psicologizzazione mistificatoria" di molte analisi correnti: anche il lessico - scrive Di Vico - segue questo sforzo e le espressioni più significative diventano "sostanza umana", "pulsioni", "inconscio individuale" fino a "caduta del desi­ derio". Va da sé che desiderio in un contesto sociologico vale per ambizione, volontà, capacità di reagire, motivazio­ ne. Con inconsapevole umorismo, gli autori del Rapporto scrivono che tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita che però sarebbe, inspiegabilmente, sempre più povera, quasi come nel vecchio film "poveri, ma belli". Non siamo dunque malati di solo e alto debito pubblico. Ci sono nella realtà italiana sensazioni - ma sono veramente solo "sensazioni" - di fragilità sia personali sia di massa che fanno pensare a una disgregazione della compagine com­ plessiva. Anche perché questa società appiattita vivrebbe di comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi o arrangiatori. Siamo scivolati verso il basso e alla motivazione abbiamo finito per sostituire la cattiveria, il ghigno. In altri paesi sta avvenendo il contrario e così un giorno sì e l'altro pure ci scopriamo a invidiare più o meno platealmente i coreani, i cinesi e i tedeschi, popoli e società che mostrano un altissimo tasso di ambizione e di 25

desiderio. N o n hanno paura di misurarsi con le montagne e provare a scalar le, mentre noi perdiamo in casa pure contro l'immondizia. Si vedano i cumuli di spazzatura per le strade di N apoli che hanno fatto in televisione il giro del mondo. Siamo di fronte a un fenomeno di disinvestimento in­ dividuale dal lavoro. Abbiamo più sopra notato che siamo arrivati alla quota di 2,2 milioni tra i 15 e i 34 anni che non sono impegnati in un'attività di studio, non lavorano, non cercano occupazione e soprattutto non sembrano nemmeno interessati a trovarla: un mix perverso di inerzia e sfiducia, secondo i ricercatori del CENSI S. Ma da dove deriva questo mix? Non piove certo dalle nuvole. Dov'è la matrice causa­ le? O dobbiamo contentarci di richiamare, ancora una volta, una concezione pietrificata della "natura umana", se non il cupo pessimismo agostiniano del "peccato originale"?

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4 . I FATTORI STRUTTURALI DELL'EMARGINAZIONE GIOVANILE

Circa le zone d'o mbra che pesano sull'Italia di oggi, si può anche essere d'accordo. Ma non è legittimo fermarsi alla scorza del problema, ridurlo a sentimenti psicologici, a innate storture morali. Una ricerca seria deve sondare la matrice causale oggettiva, metterne in luce i fattori struttu­ rali dei fenomeni sociali di cui si occupa. I giovani sono politicamente emarginati e socialmente esclusi. Dal punto di vista economico, sono mantenuti in una posizione di relativa dipendenza dalle famiglie d'origi­ ne; in molti casi appaiono obbligati dagli alti affitti, special­ mente nelle aree urbane, a convivere con i vecchi genitori. Ciò dà luogo a fraintendimenti anche gravi e a dissapori domestici che possono arrivare a delitti di sangue, stante la rapidità dei cambiamenti socioculturali con le diversità dei linguaggi e la forte differenziazione dello stile di vita che questi comportano. Riguardano la latitanza dello Stato, la sindrome dinastica, la privatizzazione del pubblico. I fattori oggettivi di emarginazione dei giovani, all'origi­ ne della loro frustrazione, ostilità e apatia, sono molteplici, toccano numerosi livelli, ma partono in primo luogo da si­ tuazioni strutturali. 27

In una società caratterizzata da a-legalità diffusa e quindi da una riduzione dell'eguaglianza, i giovani soffrono discri­ minazioni non legate a qualità personali. Si tratta infatti di società in cui contano le conoscenze - i legami personali, le complicità para -mafiose, la posizione della famiglia - assai più della conoscenza specifica e della preparazione culturale e professionale dimostrata. Di qui, la cosiddetta "parento­ poli", forse più dannosa della famosa "tangentopoli", perché non si limita al passaggio di bustarelle e di mazzette, ma perché non è percepita dall'opinione media come reato. E la "sindrome dinastica" in tutti i campi dell'attività sociale. La stessa attività politica "democratica" tende a rattrappirsi e a specializzarsi, per così dire, nel "parlarsi addosso" dei politici e nel linguaggio esoterico del "politichese". Lo sviluppo eco­ nomico del paese è condizionato dal "capitalismo familiare" ristretto in cui conta la lealtà più dell'efficienza operativa. Inoltre, il precariato dei contratti a termine, conseguen­ za inevitabile dall'avere adottato, come principio-guida, il progresso tecnico, senza rendersi conto che la tecnica è una perfezione priva di scopo. Essa rende le categorie profes­ sionali obsolete e può giungere, con la robotificazione pro­ duttiva, alla "crescita senza posti di lavoro", soprattutto a scapito della giovane generazione, condannata ad un'inter­ minabile attesa nell'anticamera della "società adulta". Il potere è nelle mani di una gerontocrazia che si auto­ riproduce e mira, più che a dirigere, a durare. Prevale una concezione del potere come appannaggio personale, auto­ referenziale. Non è ancora emersa né è quanto meno pra­ ticata una concezione del potere come funzione razionale collettiva. ....

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Non esiste la concezione del potere come servizio alla comunità, come capacità di scegliere nel quadro dell'inte­ resse generale, come funzione aperta ai più capaci partendo da una base d'e guaglianza. Ma intanto alcune interessanti contraddizioni vanno considerate in limine. I dividendi e le prospettive della prima semestrale del 20 1 0, sia per l'indu­ stria manifatturiera che per i servizi, sono positivi. I rentier, e in generale quelli che campano senza lavorare tagliando diligentemente le loro cedole un trimestre dopo l'altro, pos­ sono star tranquilli. Un po' meno quelli che vivono di lavoro e che il lavoro non lo trovano. E lajobless growth, la crescita economica con la disoccupazione involontaria di massa. N ello stesso tempo, dei circa cinque miliardi e mezzo di conviventi su questo pianeta, solo un quinto se la pas­ sa discretamente. Ci sono, anzi, dei margini, delle relative sovrabbondanze di risorse. Che farne? La classe dirigente in senso ampio, ossia governante e influenzante, organizza divertimenti, notti bianche, comportamenti espressivi non strumentali - una scoperta, non proprio originale, dei pa­ nem et circenses. Emozioni, animadversioni, distrazioni al di sopra di tutto e nonostante tutto. L 'Homo sentiens 1 prevale nettamente sull'Homo sapiens socratico. Al calcolo razionale subentra la manipolazione psicologica. Il sentire domina e sistematicamente prevale sul ragionare. TV, Internet, cellulari - i mezzi della comu­ nicazione elettronica - lavorano, più o meno consapevol­ mente, in questo senso. Teatralizzano. L'immagine sintetica ....

1 Si veda il mio libro dal titolo omonimo , Homo sentiens. Giovani e mu­ sica. La rinascita della comunità dello spirito della nuova musica, Napoli , Li­ guori, 1 995 1 . 29

colpisce e seduce. Crea dipendenza. Negli Stati Uniti risco­ prono, con sgomento, che i "bamboccioni" non sono una caratteristica esclusiva della vecchia Europa. Olrello che un tempo si chiamava, con un senso di lontananza tanto da farne una realtà irrilevante, "Estremo Oriente" sta diven­ tando " Occidente estremo"2. Alla periferia dell'impero al tramonto, come sempre, le cose sono anche più chiare. In un paese come l'Italia odierna, riesce difficile distinguere fra intellettuali, politici e "letterati della politica". Hanno caratteristiche fondamentali in comune: ri­ solvono i problemi etici in atteggiamenti estetici, le questioni pratiche delle grandi maggioranze in perorazioni retoriche. Come altrove ho cercato di chiarire3 è una classe dirigente che mira a durare, non a dirigere. Una casta? Non proprio; non nel senso della grande tradizione religiosa indiana. Piut­ tosto, un caso di parassitismo costoso, che pesa, come sempre, sul "popolo che prega, paga e lavora". Fino a quando? Tutto questo non è solo un ritardo. Ha una funzione po­ litica precisa. Il perdurante carattere "umanistico" in senso deteriore delle culture periferiche copre un orientamento sostanzialmente parolaio, genericamente retorico e di fat­ to conservatore, se non reazionario. N el generico grigiore è sempre più difficile l'attribuzione di chiare responsabilità e sfuma la percezione netta degli interessi. E così spianata la strada al riformismo spicciolo "gattopardesco", che cambia tutto per non cambiare niente e che in ogni caso spezza il progetto della trasformazione razionale della società in ..

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Cfr. Federico Rampini, Occidente estremo, Milano, Mondadori, 2010. Vita e morte di una classe dirigente, Roma , Edup , 2004.

un'opera di pronto soccorso dettata e guidata dai buoni sen­ timenti, tanto inefficace quanto corruttrice. La caduta nell'irrazionale diviene allora inevitabile. Esi­ to ben noto o addirittura messo in conto fin dall'inizio: una specie di ritorno all'ovile; un prezzo da pagare come corri­ spettivo della "sincerità", "spontaneità", "autenticità" - tutti valori visti e presentati come antitetici a quelli del calcolo razionale e dell'analisi scientifica. Ormai quaranta anni fa Nicola Matteucci aveva eloquentemente denunciato questo pericolo4• Nello stesso torno di tempo, in Una sociologia al­ ternativa5 ne avevo parlato come del "nuovo spaccio della bestia trionfante". Peccato che Matteucci proceda e voglia andare avanti con la testa voltata all'indietro. La cura sug­ gerita - di più massicce dosi di storicismo per rimediare alle insufficienze dello storicismo di maniera e di destra e di sinistra - è un singolare trattamento omeopatico. Al limite, può ancora riuscire una fuga letteraria dalla sobria conside­ razione dei problemi del presente. Si rischia così di conti­ nuare a cercare, con l'innocenza e l'accanimento del signor Birotteau di B alzac, mezzogiorno alle quattordici. Contro ogni ottimistica previsione dei poteri ufficiali e dei loro maggiordomi, il mondo periferico non si restringe, non indietreggia. Anzi: il mondo periferico avanza. In una ricerca degli anni '80, di cui davo notizia nel libro Oltre il razzismo6, prevedevo il crescere impetuoso dei flussi immi4

Cfr. Nicola Matteucci , La cultura politica italianafra l'insorgenza po­ pulistica e l'età delle riforme, «Il Mulino», 207, gennaio-febbraio 1 9 70, pp. 5-23. 5 Edito da De Donato (Bari, 1 972). 6 Pubblicato con Armando (Roma , 1 9 8 8). 31

gratori verso le sponde dei Paesi tecnicamente progrediti. N o n mancarono gli inconsapevoli, anche tra gli studiosi delle migrazioni, che scambiarono la previsione per una metafora. Stando ai dati resi disponibili dagli uffici delle Nazioni Unite, sembra che attualmente circa 924 milioni di persone vivano negli slum e nei tuguri. E un dato impressionante - un quinto della popolazione mondiale - e non può lasciare indifferenti neppure coloro che credono nel progresso come fatalità cronologica e che non si rendono conto che il benessere, prodotto del capita­ lismo maturo, non si diffonde a macchia d'olio, bensì a pelle di leopardo, accentuando in misura inquietante il divario fra i ricchi e poveri, la frattura fra i cittadini in grado di partecipare alla vita della comunità e quelli strutturalmente esclusi e di fatto condannati all'irrilevanza, quindi degradati da cittadini a sudditi, da uomini a "piedi d'uomo", secondo la definizione platonica degli schiavi, o da persone a "mac­ chine animate", se si preferisce quella aristotelica . E per questa via che lo Stato moderno pluriclasse rischia la delegittimazione. In base alla teoria hobbesiana, in quan­ to garante del bene comune, gli si riconosce il monopolio della violenza legittima. Ma, dei patti su cui riposa questo riconoscimento, solo il ''pactum subjectionis" appare rispetta­ to. Il ''pactum unionis", che implica l'eguaglianza, oltre che la difesa contro il timore della morte violenta, resta disatteso. I sudditi non diventano cittadini. Il potere non si dispiega in una fruizione razionale collettiva. Resta e si comporta come appannaggio personale, decisione o anche più spesso, rifiuto di decidere, prerogativa che ritiene al di sopra della legge, privilegio insindacabile, legibus solutus. ...

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5 . L'ESTRANIAMENTO DEI GIOVANI DAL MONDO POLITICO IN CUI LA "CLA S SE POLITICN' SI AUTO RIPRODUCE E INV ECCHIA

Tornando a considerare in maniera specifica la condizio­ ne dei giovani, e il loro relativo isolamento sociale, si pensi al carattere spesso enigmatico, esoterico, quasi incestuoso, della comunicazione politica. I politici si parlano addosso, si autoriproducono e si autopreservano. In ogni caso, esclu­ dono i cittadini comuni. Sono sempre le stesse facce. Non è per caso che solo in Italia si parli di una "classe politica". Ha sviluppato un suo linguaggio, il "politichese". La gente comune non lo capisce, non può capirlo. Deve contentarsi delle battute e dei lazzi dei comici. Come un tempo i giulla­ ri alle corti principesche, i comici funzionano da portavoce politici in trasmissioni televisive di vario orientamento, da Ballarò ad Anno zero a Striscia la notizia. La partecipazione dei giovani, a parole da tutti invocata, non sarà né semplice né facile. E chiamata in causa la comunicazione politica. Ma la comunicazione politica costituisce un processo com­ plicato, retto da codici logici e linguistici variabili nel tempo e, a seconda delle circostanze, dominato da ferree regole di efficacia. ...

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Anche il più oscuro dei "politichesi" risponde a strategie comunicative collaudate. Fra queste, può ben essere presen­ te la "bruma dei falsi pensieri", di cui parlava Benedetto Croce, che del resto proprio da questa bruma avrebbe lui, da convinto elitarista, ampiamente guadagnato. L'assunzione di un modulo poco decifrabile può essere funzionale a na­ scondere o edulcorare verità scomode; può servire a creare una distanza gerarchica fra fonte e destinatario della co­ municazione; può determinare una consapevole selezione dei riceventi: i geroglifici a protezione dei grandi sacerdoti inamovibili. E vero, però, che in un sistema culturale affogato nella comunicazione e bombardato da input della più diversa na­ tura e provenienza, la comunicazione poli tic a diretta - nella quale furono maestri i regimi totalitari di massa, i primi a sperimentare con grandi capacità di evocazione simbolica i diversi linguaggi tecnologici della comunicazione - tende a perdere efficacia e centralità a vantaggio dell'influenza indi­ retta. Per influenza indiretta intendo quell'attività comuni­ cativa che si affida a strategie indotte, in cui domina il codi­ ce della colloquialità, della quotidianità artefatta, della finta democraticità. E così che anche in Italia abbiamo potuto sollazzarci con Segretari di partito convinti di fare audience esibendosi in deprimenti prestazioni vocali, o con Mini­ stri in completo da jogging impegnati a convincerci della loro validità come maratoneti (cosa peraltro non necessa­ riamente connessa con la loro capacità di amministratori della cosa pubblica). In contesti più evoluti in tema di strategia dell'immagine politica, come gli Usa, operano del resto da decenni agenzie ...

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specializzate nella costruzione di questi sistemi di comuni­ cazione indiretta. Vale la pena di riflettere, a tale proposito, sulle possibili connessioni di questo fenomeno con quello del declino dei partiti in quanto tali (cioè delle loro funzio­ ni di rappresentanza sociale sostanziale) e, persino, con lo sviluppo di reti di comunicazione politica inedite, ma ormai dotate di un temibile potere di pressione sull'intero sistema. Penso alle reti televisive dei predicatori evangelici fonda­ mentalisti - formidabili nell'associare le tecnologie della comunicazione più avanzate con i messaggi culturali più ar­ caici - e anche a quelle vere e proprie reti di influenza "clan­ destina" che organizzano campagne di opinione sottratte a qualsiasi confronto con le possibili controparti attraverso, ad esempio, l'invio di milioni di telegrammi a membri del Congresso o governatori. Per tornare all'Italia e alla sua classe politica, la mia im­ pressione è che l'attuale momento si configuri come una fase di transizione da vecchie a nuove strategie. Ciò spiega anche in gran parte il ritardo e la parziale inefficacia (ma attenzio­ ne a non sottovalutare le "funzioni latenti" del politichese!) del messaggio politico italiano. Sicuramente inefficace è, ad esempio, quel linguaggio che sovrappone moduli ed espres­ sioni di una comunicazione interna (quindi circoscritta a un gruppo funzionale) alla comunicazione esterna, generando qualcosa di peggio della disinformazione: quelle ondate di noia che rappresentano un tossico silenzioso della demo­ crazia. Anche in questo caso, però, mi guarderei dalle gene­ ralizzazioni. Alcuni nostri leader politici risultano tutt'altro che inefficaci; qualcuno è addirittura brillante (quanti con­ sensi ha trainato lo stile pannelliano, come rottura di un 35

sistema codificato di segni, a un non-partito come il radica­ le?); qualche altro adotta consapevoli strategie d'immagine (la carica di "volitiva antipatia" che contraddistinse il perso­ naggio Craxi, per fare un esempio retrospettivo). Fra i casi di uso autolesionistico dei media segnalerei, invece, quello dei sindacati. E forse non per caso la comunicazione sindacale risulta drammaticamente refrattaria al filtro radiotelevisivo . E essa, infatti, quella che riproduce più abitualmente sistemi di gergo interni a un universo socialmente abbastanza omogeneo e, in fondo, tematicamente circoscritto (si pensi all'intraducibilità lessicale di un contratto di lavoro o di una piattaforma rivendicativa). ...

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6 . LA DEMOCRAZIA TRUCCATA

Alla luce di queste considerazioni, mi sembra di poter dire che tutta l'e nfasi posta sui processi di spettacolariz­ zazione - e, in parte, di personalizzazione - della politi­ ca rinvia a un deficit di democrazia. Spettacolarizzazione e personalizzazione sono, insomma, una risposta semplificata alla crisi di rappresentanza che la "comunicazione politica distorta" - per parafrasare Jiirgen Habermas - riflette e am­ plifica insieme. Sullo sfondo, evidentemente, opera una ricettività sociale legata al diffondersi di nuovi modelli di consumo culturale, egemonizzati dal medium televisivo e quindi da un diverso equilibrio fra parola e immagine (ciò di cui la TV non parla non esiste) . E dunque comprensibile come la parola del politichese contemporaneo tenda a essere meno ridondan­ te, ma non per questo più esplicita, di quella caratteristica delle vecchie élite liberali o populiste. L'effetto retorico si trasferisce ormai all'uso dell'immagine, si esalta nel look, si adatta a volte all'understatement, ricorre in casi estremi alla cosmesi facciale e alla chirurgia plastica. E certamente più facile produrre spettacolo che non seria comunicazione politica. Qyi interessa poco distinguere fra categoria della propaganda e categoria della comunica..

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zione, essendo l'una e l'altra ormai egualmente sottoposte alla dittatura del marketing pubblicitario. Q,!lestione aperta, di sapore prettamente politologico, è semmai quella di definire la relazione fra trasformazioni operanti nel sistema della comunicazione poli tic a e trasfor­ mazioni operanti nel sistema dei partiti in quanto tale. In particolare, mi riferisco alla crisi del partito di massa, che con l efficacia delle sue reti "effettive" o "sostitutive" - rap­ presentate da milioni di militanti e da imponenti canali di relazioni personali e comunitarie - ha costituito per decen­ ni un autentico sistema/controsistema di comunicazione sociale. Oggi - come aveva a suo tempo compreso lucidamente lo stesso Partito Comunista I tali ano, principale vittima di tale mutamento - la secolarizzazione e la crisi delle vecchie subculture d'identità costringono anche il partito di massa {o quel che ne rimane) a misurarsi con il duplice problema di rendere identificabile e distinguibile il proprio messag­ gio, non più affidato alla forza persuasiva del contatto di­ retto e alla comunicazione foce to foce che questo consente. Messaggio che deve essere perciò identificabile nei suoi contenuti, ma anche distinguibile rispetto a quello delle al­ tre forze politiche, e abbastanza forte e nitido da "bucare lo schermo". Contemporaneamente, declina la funzione pedagogica esercitata dal vecchio partito di massa sulla sua area sub­ culturale. Sempre più spesso, chi costruisce l'informazione e l'immagine del partito si colloca all'e sterno dell'organiz­ zazione politica propriamente intesa. Spettacolarizzazione e personalizzazione divengono un autentico prodotto di 38

marketing, che incide soprattutto dove le tradizionali reti di consenso sociale del partito di organizzazione risultano erose. Qyesto contribuisce a rafforzare gli impulsi in dire­ zione del cosiddetto "partito pigliatutto", interclassista, tra­ sversale e perciò obbligato a un dialogo con l'insieme della società e delle sue culture. Di qui, inevitabilmente, il preva­ lere di un lessico dell'apparenza e la ricerca - peraltro rara­ mente coronata da successo - di un registro comunicativo fondato su segnali impliciti, allusivi, multiuso. Un modello destinato, per inciso, a produrre leadership inedite in una realtà come quella italiana e in contesti subculturali di tipo prevalentemente mediterraneo . E in questo snodo sociale - prima ancora che poli ti co che la trasformazione del partito di massa (forse è troppo presto per parlare di una sua vera e propria dissoluzione) si connette al mutato consumo culturale, al prevalere dei codici del marketing (sino alle teorizzazioni del consumer's voting), al primato dell'immagine. Si alimenta così la tenta­ zione a individuare scorciatoie nella conquista del consenso, basate su suggestioni prevalentemente non verbali, come la politica spettacolo, o su strategie di marcata personalizza­ zione della leadership. Qyesta svolta, però, non si traduce in una reale democratizzazione e in una crescita di com­ prensibilità del messaggio politico. L'alluvione informativa e la spettacolarizzazione dell'evento non possono superare le diffuse asimmetrie nella percezione e nella "decodifica" dei segnali emessi. Si sta forse producendo, al contrario, un nuovo elitismo della comunicazione. All'interno di un pub­ blico indifferenziato, in presenza di intere generazioni so­ cializzate dai media, si producono nuove e fortemente ge...

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rarchizzate classi di competenza linguistica. B analizzazione della politica per molti e perfezionamento scientifico della comunicazione interna per gli addetti ai lavori sono fra gli effetti del partito pigliatutto. La divisione passa fra chi è interessato o motivato a ca­ pire, prima ancora che fra chi capisce ( e quanto? ) e chi non capisce. La comunicazione politica, inserendosi di forza nell'universo simbolico e tecnologico della tv planetaria, si fa al tempo stesso estremamente personalizzata e totalmen­ te impersonale. Studi condotti in Francia sugli effetti sociali del minitel segnalano questo dato con clamorosa eviden­ za. N ella stagione del "declino del pubblico" si producono nuove centralità e diverse gerarchie: fra chi ha o non ha accesso alla possibilità di emettere informazione telematica derivata ( reti minitel e simili, formalmente non verbali e apparentemente neutre sul piano politico ) ; fra chi possiede e chi non possiede gli strumenti della decodifica ( l'apparec­ chio, per cominciare, ma anche le chiavi culturali di acces­ so ) . A ben vedere, l'incipiente società mediatic a - svilup­ pando l'industria dell'opinione e più sofisticate tecnologie dell'apparenza - contribuisce non poco a rendere occulte e incomunicabili quelle che un tempo avremmo chiamato a cuor leggero "società civile" e "società poli tic a". Chi si accanisce contro le oscurità gergali e la povertà semantica della comunicazione poli tic a ufficiale ripropone così la vecchia polemica manzoniana contro illatinorum che enfatizzava le distanze sociali e delimitava l'ambito della comunicazione fra le classi. La neolingua della comunica­ zione politica è funzionale a un processo di emarginazione formalmente "non classista", ma interamente politico. Vo40

gli o dire che l'accesso al sistema mediatico e l'uso delle tec­ nologie dell'opinione tenderanno a concentrarsi nelle mani di un nuovo gruppo politico o forse addirittura di un'inedita "coalizione personale", ossia di un solo uomo, annullando le opposizioni, le minoranze morali, il dissenso non declina­ bile in rappresentazione scenografica. Il significativo problema, dunque, è ancora quello della parola e del suo uso. Ma, soprattutto, è quello classico e ineludibile del sistema della rappresentanza. Fra politiche­ se di retroguardia e nuovi circuiti telematici, fra tecnologie dell'opinione e personalizzazione del potere emerge il biso­ gno di una sintassi democratica. Forse, di un recupero della logica della lettura - analitica e cartesiana - contro l'a nni­ avvolgente logica dell'audiovisivo, le sue immagini sinteti­ che, la seduzione dei suoi incantamenti emotivi.

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7. LA POLITICA UFFICIALE PERDE IL CONTATTO CON LA SOCIETÀ E IL MONDO GIOVANILE

Non dovrebbe meravigliare, in una situazione siffatta, che i politici somiglino sempre più a truppe d'o ccupazione in un paese straniero, che non conoscono, e che vi sia ormai più politica fuori dai palazzi ufficiali della politica che non dentro. Poco più di vent'anni fa, sostenevo con convinzio­ ne che l'attuale momento si configurava come una fase di transizione tra vecchie e nuove strategie e che ciò spiega il ritardo e l'inefficacia del messaggio politico italiano. Non solo, intravedevo all'epoca l'emergere di quelle che mi appa­ rivano come timide novità. Oggi mi rendo conto che prevedevo una pioggerellina di marzo mentre si stava preparando un tornado. Tutto vero, e persino ragionevole, ma sostanzialmente inadeguato. La stessa previsione che concludeva il mio intervento, a venti anni di distanza, mi appare scialba: « Voglio dire che l'acces­ so al sistema mediatico e l'uso delle tecnologie dell'opinione tenderanno a concentrarsi nelle mani di una nuova classe politica, annullando le opposizioni, le minoranze morali, il dissenso non declinabile in rappresentazione scenografica». A considerare la situazione odierna, la previsione può dirsi 43

grosso modo confermata, ma risulta insufficiente. Non co­ glie la tensione drammatica di oggi. Le nuove tecnologie della comunicazione elettronicamente assistita, specialmen­ te via Internet, si stanno rivelando dotate di un potenziale sovversivo, di una radicalità difficilmente immaginabile. Le ricerche su questo tema tradiscono la loro natura troppo spesso vietamente accademica, si interrogano scolastica­ mente sugli effetti delle nuove tecnologie comunicative come se queste avessero corso sotto una campana di vetro, su un tavolo di laboratorio, e la società circostante si fosse, per il momento, opportunamente congelata. In altre parole, occorre avere la piena consapevolezza del proprio tempo. Gli schemi mentali sono in ritardo sull'evo­ luzione oggettiva. Non si tratta solo di aggiornare, control­ lare, superare le interstiziali tensioni di una fase di transi­ zione. Siamo sempre, e tutti, in transizione: ma da dove? E per dove? Il cambiamento è più radicale del previsto. La comunicazione si è inceppata. Le sequenze logiche sono saltate. La comunicazione non si è solo inceppata. E cambiato il contesto, l'ambiente, la temperatura media della comuni­ cazione. Anche la politica ha cambiato pelle. Ma i politici, tipicamente autoreferenziali, non se ne sono accorti. C'è più politica fuori della politica che nella politica ufficiale. Ma per capire questo bisogna uscire dalle "case" della politica forma­ le e accreditata, mettersi sulla stessa lunghezza d'o nda del sentire medio dei cittadini comuni, specialmente dei giovani, che di ogni società costituiscono la punta avanzata. Il loro silenzio, la loro assenza, sono un fenomeno inquietante. Qyalche esempio: alla presentazione di un libro, Ri­ cordi tristi e civili, di Cesare G arbali (avvenuta nell'aprile ....

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2001 ) con l'impegnata partecipazione di Rossana Rossan­ da, una delle fondatrici de "Il Manifesto", e Ezio Mauro, direttore de " la Repubblica", la sala si riempie rapidamente di vecchietti. Età media, calcolata a occhio ma non troppo lontana dalla realtà, sui settant'anni. Più che una discus­ sione politica, ha tutta l'aria di una veglia funebre, il pianto sommesso di inconsolabili orfani. Parlo con uno studente universitario. Gli mostro fotografie e documenti del movi­ mento operaio e della sua lunga, difficile storia. Gli faccio leggere antichi inni anarchici e i versi, non proprio eleganti ma veri, dell'Internazionale. Mi colpisce il silenzio del mio interlocutore. Non è un silenzio polemico. E la tranquilla reazione dell'indifferenza. Sono cose che non lo interessa­ no. Massimo Rendina, presidente dell'ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani d'Italia) viene a parlare in Facoltà: dei partigiani, della Resistenza, della caduta del fascismo e della ripresa democratica, dei condizionamenti e dei "se­ greti di Stato" della vita italiana. La sala è semideserta. Non conto più che una dozzina di giovani. Le spiegazioni in chiave organizzativa non spiegano tut­ to. Qyesta diffusa inappetenza politica, soprattutto fra i gio­ vani, chiama in causa fattori solo in parte conosciuti, la cui dialettica processuale ancora ci sfugge. Gli individui "vuoti" della società de-massificata, la generazione che abbiamo davanti è quella cresciuta con i mezzi di comunicazione di massa, con la televisione, con il computer, con Internet, con i telefoni cellulari. Forse abbiamo riposto una fiducia ec­ cessiva nell'interazione critica dei mass media, nella fecon­ dazione reciproca e nel controllo tempestivo ed efficace fra la carta stampata e l'immagine, fra la cultura del libro e le ...

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cultura del monitor. Abbiamo creduto, o sperato, di poter trasformare un passaggio epocale in un comodo, grazioso pic-nic consumato sui prati verdeggianti. La mediazione era puramente intellettuale e la sintesi la farà, quando e se la farà, solo la storia, che noi non vedremo. Nel frattempo, l'unico dovere è quello di guardare in faccia la realtà senza sotterfugi.

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8 . LA VITTORIA DELLA CULTURA DEL MONITOR E DELLA "REALTÀ V IRTUALE"

La logica della scrittura e della lettura e la logica dell'au­ dio-visivo non appaiono per il momento conciliabili. La scrittura e la lettura esigono silenzio, sforzo individuale, raccoglimento interiore, solitudine, il mettere una parola dopo l'altra, una riga dopo l'altra, un capoverso dopo l'altro, legati dal vincolo logico, scandito dalla consecutio temporum. Scrivere e leggere come "parlare con la carta". Il tutto tenuto ferreamente a posto dalla memoria, da quel lungo, nostalgi­ co sguardo retrospettivo che è allo stesso tempo la coscien­ za del passato e la sedimentazione critica di cui si nutre la cultura. La logica dell'audiovisivo invece esalta l'e mozione a scapito del ragionamento. Non è analitica, non si svolge nel tempo. E immediata: si fonda sull'impatto fulmineo dell'immagine sintetica che colpisce e quasi ipnotizza lo spettatore, travolge il destinatario dei messaggi elettronici di Internet e della e-mail. Informa, ma nello stesso tempo frastorna; informa, ma anche deforma; informa con una straordina­ ria abbondanza di stimoli e di dati non-mediati, ma non concede i margini di tempo necessari al filtro selettivo della ragione e della memoria; ossia informa, ma non forma. ...

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La questione, tuttavia, non si esaurisce nella possibili­ tà di conciliare le due logiche, di trovare il punto di inter­ sezione che ne consenta il mutuo arricchimento. Il senso della svolta di oggi, una svolta epocale di cui Internet, con la sua facilità comunicativa, trasversale e la sua natura inter­ classistica e tendenzialmente a-storica, è forse il segno ca­ ratteristico e dominante, travalica le logiche della scrittura e dell'audiovisivo. Stiamo passando dallo sviluppo storico concepito come processo diacronico, alla compresenza sin­ cronica, e quindi all'uscita dalla tradizione storicistica nelle sue differenti versioni, da quella classica hegeliana alla mar­ xiana e alle più recenti neo-idealistiche. Per molti aspetti potrà sembrare un progresso. Lasciar cadere il peso del passato storico, prossimo e remoto, potrà essere anche ritenuto ed esperito come una liberazione. Però: late! anguis in herba. Che la comunicazione politica si riduca ad un'operazione di cosmesi per cui le questioni etiche si pon­ gano sullo stesso piano delle apparenze estetiche, la morale si scambi con il morale, la coerenza con la prepotente testardag­ gine non dovrebbe granché meravigliare. Si dice che i bam­ bini e gli adolescenti di oggi, perdutamente innamorati dello schermo e abilissimi nel cliccare Internet, siano più intelli­ genti, più informati di quelli di ieri. Può essere vero. Ma di quale intelligenza, di quali informazioni si tratta? Se non già oggi, quasi certamente domani, saremo probabilmente messi di fronte ad un popolo di informatissimi idioti, se è vera la definizione dell'idiota come di colui "qui sait tout et ne com­ prend rien" e che, come tale, incarna il tipo dell'idio! savant. I termini autentici della questione, tuttavia, non riguar­ dano solo il momento pedagogico-formativo, come potreb48

be sembrare da queste osservazioni. La svolta epocale va intesa in tutta la sua portata. Internet sta cambiando non solo la comunicazione politica, ma la fonte stessa dell'obbli­ gazione che lega e tiene insieme la società, consentendo ad essa di funzionare come un insieme di parti distinte ed an­ che in contrasto, ma tendenzialmente congruenti. Internet non ha soltanto contratto aoristicamente i tempi dell'espe­ rire individuale e collettivo con la sua tipica, sbalorditiva indifferenza ai contenuti, dalla Bibbia alla pedofilia. Con la comunicazione elettronicamente assistita, lo spazio non è più un ostacolo; è una risorsa, è l'ambiente del sistema comunicativo. Internet sta sostituendosi al costume della società tradizionale, all'autorità dell'e terno ieri. E il nuovo, imprevisto, inedito fattore integrativo. Ma integra veramente? O contribuisce alla frammentazione? E lecito qualche dubbio. Cos'è che tiene insieme una società? Un tempo, la Rivelazione; più tardi, agli albori dell'epoca moderna, la coscienza elita­ ria di se stessa, da Kant a Croce, dall'imperativo morale ca­ tegorico alla "religione della libertà". Oggi: la notizia. D ue mesi di sciopero al "New York Times" mettono in ginocchio una metropoli come New York, ridotta da un insieme signi­ ficativo a un coacervo privo di senso. Ma la notizia scritta e stampata, con tutto il suo "supporto cartaceo", come si dice, è già obsoleta. Internet è diretto dal singolo; il suo ac­ cesso è strettamente individuale. Stanno cadendo le regole estrinseche; non esiste più un ordine sociale dato, precosti­ tuito e coercitivo. Il singolo è chiamato e pretende di farsi le sue regole, in termini di spontaneità come autenticità, e di viver le, per sé e per gli altri, cioè comunicarle. Ma come sarà ..

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possibile comunicare, significativamente, fra uomo e uomo, gruppo e gruppo, cultura e cultura? A quali condizioni è possibile e positiva la comunicazione inter-individuale e inter-culturale? Il secolo XXI si è aperto e dovrà convivere con queste domande. Il '68 è lontano. Oggi, secondo stime attendibili, circa due milioni e mezzo di giovani italiani sono senza lavo­ ro. Non solo: sono anche senza speranza, senza desiderio, indifferenti, apatiche vite allo sbaraglio o, semplicemente, consegnate al caso, prive di progetto, frustrate e impoten­ ti. Su una situazione di fatto, invece di analizzarne fred­ damente la matrice causale, si versano torrenti di lacrime psicologistiche. Il '68 è certamente lontano. Se ne parla con nostalgia. Allora si pretendeva di avere tutto e subito. Oggi ci si con­ tenterebbe di un posto sicuro e di un reddito regolare e ra­ gionevole. Le parole d'o rdine del '68 hanno un suono stra­ no, sembrano amaramente ironiche: "Siate realisti, chiedete l'impossibile"; "l'immaginazione al potere" 1 . Nessun dubbio che il '68 fosse una protesta generosa, ma non ha saputo trasformarsi in progetto. L'impulso era genui­ no, ma è mancato l'acume analitico che analizza le forze in gioco e garantisce la razionalità delle trasformazioni sociali, ne studia il modo di attuazione pratica. A quarant'anni di distanza è forse possibile andare oltre il '68 come segno di contraddizione a volta a volta esaltato e vilipeso. 1

2008. 50

Si veda in proposito il mio Il '68 quarant'anni dopo, Roma, EDUP,

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1 . E forse venuto il tempo per un'analisi fredda, sin e ira ac studio, del '68 . E un intento difficile: il vissuto in prima persona rende arduo prendere la "distanza critica". E tuttavia, ciò che è difficile resta necessario. Sarebbe utile inquadrare il '68 in unframework più ampio, come uno dei molti mo­ vimenti d 'a vanguardia che finiscono, peraltro, e piuttosto noiosamente, come movimenti di retroguardia. In altre pa­ role, il '68 come movimento contro-culturale, ma, inevita­ bilmente, in termini ancora culturali. 2. Come estensione, il '68 è stato un movimento di con­ testazione e di protesta internazionale, ma non planetario. Ha riguardato nazioni tecnicamente progredite e economicamente provvedute (le rivoluzioni le propongono coloro che stanno relativamente bene; la miseria è conservatrice). I detonatori (vale a dire, le occasioni per l'e splosione) sono stati differen­ ti (Vietnam e rapporti razziali in Usa; Grosse Koalition, sen­ za opposizione, in Germania; autoritarismo di De G aulle in Francia; gerontocrazia politica e elitarismo clientelare in I tali a; altrove, Ungheria e Cecoslovacchia, il '68 è schiaccia­ to dai carro armati) . 3 . In I tali a, il '68 è, almeno in parte, la "rivoluzione dei signorini", che a fine mese ricevono l'assegno di papà. Essi danno tuttavia una scossa alle istituzioni, che, invece di aprirsi, si barricano e si avvitano su se stesse. Lasciati i con­ testatori soli e isolati: a) confondono il potere con l 'autorità; b) prevale il momento emotivo, dei cortei e delle manifesta­ zioni assembleari; incapacità di trasformare la protesta in proposta; la ribellione spontanea in progetto; c) di qui, l 'esito para-letterario, povero di idee pensate fino alla fine, ma ric­ co di slogan e parole d'o rdine: " Vietato vietare"; " Vogliamo ...

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tutto e subito"; "I popoli fanno la storia e i padroni la rac­ contano"; "Il privato è politico" (quindi, l'innamoramento come rivoluzione sociale a buon mercato); "Cloro al clero"; "Se la carne aumenta, mangiate Agnelli"; "Contro lo Stato della violenza - ora e sempre resistenza". 4. Inevitabile la deriva irrazionalistica: e quindi la violen­ za come interruzione del dialogo razionale. Il terrorismo è la tomba del '68. 5 . Il '68 ha inciso sul costume. Ha dato lezioni di irrive­ renza contro le posizioni di potere. Pur mancando di acume analitico, ha spolverato e ringiovanito comportamenti palu­ dati, dentro e fuori le istituzioni. I rapporti inter-personali sono più sciolti. Il potere non è stato scalfito, ma è meno sicuro di se stesso; la sua legittimità sostanziale è stata chia­ mata in causa. N o n basta.

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9 . IL POTERE COME "DEUS ABSCONDITUS''

Dopo tanti clamori e fragorose manifestazioni, il pote­ re è rimasto intatto. Il generale de Gaulle ha potuto dire: "La ricreazione è finita" . Il '68 non ha scalfito il potere. Per carenza analitica, forse non lo ha neppure sfiorato. Para­ dossalmente, con una di quelle conseguenze impreviste di cui è ricca l'esperienza storica, lo ha addirittura consolidato, offrendo ampie giustificazioni e pretesti per rafforzare la repressione poliziesca e la promulgazione di leggi speciali. Il '68 ha intrattenuto una concezione cospiratoria del po­ tere che ha finito per vederlo ovunque e in nessun luogo. Cedendo alle suggestioni della fantasia poetica di scrittori antropologi a orecchio e rivoluzionari dilettanti come Pier Paolo Pasolini, ha creduto alla metafora del "palazzo del potere", incarnandolo in personaggi che ne erano, al più, degli zelanti maggiordomi. Il potere più oppressivo non è quello che si suppone guatare, macchinare nell'ombra e pre­ gustare continuamente la preda. Il potere più oppressivo è il potere che si rifiuta di esercitarsi come potere, il potere burocratizzato e inerte, che non prende iniziative positive, che non mira a dirigere, ma solo a durare indefinitivamen­ te, eternizzando la datità dell'e sistente, bloccando la società, 53

schiacciandone i membri giovani, più dinamici, avventurosi, coraggiosi; frustrandoli fino all'e stinzione. E l'e terno ri torno dell'identico. Ancor oggi, questo non è capito, neppure in un paese di monsignori inamovibili come l'Italia. Anni fa, in un volumetto Studenti, scuola, sistema 1 ave­ vo posto, se pur schematicamente, la questione: i due poli fondamentali della questione sono dunque i concetti di "partecipazione", di "apoliticità". Concetti elusivi, carichi di ambiguità e suscettibili di usi contradditori. Cosa si nasconde dietro l'apatia politica? E solo disinteresse oppure si tratta d'una opposizione così radicale e profonda da non voler neppure tentare le vie prestabilite dell'apparato normativo vigente? E sempre più chiaro, ad ogni buon conto, che l'identificazione democratico-plebiscitaria tra la volon­ tà della maggioranza parlamentare, dominante nel governo e nel parlamento, e la volontà del popolo è in realtà una identificazione fittizia, la quale dipende essenzialmente dalla possibilità di disporre di mezzi di coazione e di edu­ cazione idonei a "formare" la volontà del popolo con criteri manipolatori o dimostrativi. I partiti sono strumenti per la formazione della volontà popolare, ma non nelle mani del popolo, bensì di coloro che ne dominano l'apparato orga­ nizzativo. L'opinione pubblica viene "prodotta", non è più "data". Qyesta opinione pubblica prodotta predilige un ma­ teriale che riguarda una sfera nettamente in contrasto con il suo significato: la sfera privata. Qyesta sfera continua ad essere considerata privata, personale, autonoma; nello stes­ so tempo non solo viene lasciata in balìa dei mass media, ..

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Napoli , Liguori, 1 976.

viene addirittura costruita secondo le inclinazioni di questi ultimi. Per contro, l'autentica sfera pubblica, quella della grande organizzazione dello Stato e dell'e conomia, viene privatizzata e presentata come se si trattasse di persone e di relazioni fra persone, mentre si tratta di istituzioni e di interessi. Per tal via, la partecipazione politica del cittadino viene tendenzialmente neutralizzata in anticipo. L'opinione pubblica è manipolata, non si forma più con il concorso dei cittadini, non è quindi più autenticamente tale. Gli autori di Student und Politik notano che il fenomeno può esprimersi compiutamente con una frase che è sopravvissuta, non a caso, alla dittatura nazista e alla guerra: "l'opinione pubblica si lascia impostarè'2• La "teoria critica" di Horkheimer e Adorno era giunta a formulare il concetto di fabbricazione artificiale della natura; con Student und Politik abbiamo la formulazione del con­ cetto di fabbricazione artificiale degli interessi e delle richieste dell 'opinione pubblica. Il capolavoro della fabbricazione ar­ tificiale politica e nello stesso tempo la sua giustificazione "machiavellica" costituiscono, nella costruzione del consenso sociale, quel consenso di cui non saprebbero fare a meno neppure le dittature più brutali e che spingeva i capi nazisti ad alzare sui campi di sterminio la scritta "Il lavoro rende liberi" (Arbeit macht Frei). Ma anche nelle situazioni normali la manipolazione è al lavoro: «si proclama l'idea della democrazia e anche, in un certo modo, la si istituzionalizza, ma di fatto si esercita una 2

Jiirgen Habermas et al. , Student und Politik . Eine soziologisch e Unter­ suchung zum politisch en Bewusstsein Frankfurter Studenten, Neuwied, Lu­ therhand, 1 96 1 , p. 32; corsivo nell'originale . 55

democrazia di minoranza fondata su una gerarchia sociale. Qyesta contraddizione caratterizza anche la partecipazio­ ne democratica del cittadino alla vita politica che funziona nelle forme classiche del parlamentarismo rappresentativo, vale a dire, secondo la dimostrazione di Max Weber, in par­ te e de jure sulla base dei notabili e, defacto, con la completa esclusione della massa dei cittadini, con i quali peraltro la società borghese si identifica»3. Viene dunque deliberatamente pianificata una restrizio­ ne della partecipazione alla vita politica. Accanto al "cit­ tadino impolitico" troviamo ora l'e mancipazione politica del popolo attuata in termini di paternalismo politico. Che cosa è divenuto nel frattempo questo popolo nel cui nome sono formalmente prese tutte le decisioni democratiche? E forse rimasto una "massa ondeggiante e dubbiosa", come suggeriva Hitler? In realtà, il popolo è presente in ogni forma di vita so­ ciale; tutte le espressioni gli sono note e garantite; tutte, eccetto quella politica. Poteri politici e industria culturale convergono. La sfera politica, nei limiti in cui vi parteci­ pa la popolazione adulta, tende a divenire una parte della sfera del consumo. Gli avvenimenti politici, le notizie e i tipi di comportamento politico divengono merce. I mass media li trasmettono come articoli di propaganda destinati allo svago, in una sorta di gioco. Le opzioni democratiche di una volontà popolare formalmente sovrana tendono a somigliare all'ampia gamma di assortimento che offre un supermercato ben fornito. La pubblicità elettorale tende a ..

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lvi, p. 2 1 .

somigliare sempre più e ad usare le tecniche della pubbli­ cità commerciale. Le immagini del capo e del suo persona­ le sono attentamente vagliate, saggiate, inscenate prima di venir prestate al pubblico; gli slogan sono sottoposti a test preventivi; le cerimonie di massa alla radio e alla televisione sono studiate, provate e infine recitate secondo un copione preciso. La ripresa televisiva delle sedute parlamentari tende a trasformare rapidamente l'uomo politico in un entertainer, in un attore. L'opinione pubblica, il parlamento e la apoli­ ticità corrispondono ora a popolo, elezioni e pubblicità. La nozione di uno Stato ideale è caduta. La democrazia è solo un meccanismo, un rituale; la sua dimensione teleologica è stata sconfitta dal prevalere degli interessi dominanti che non hanno nulla di buono da sperare dall'alterarsi di un equilibrio delle forze sociali che li vede in posizione di van­ taggio relativo. In questa situazione, a quali condizioni la partecipazione politica non è di fatto una partecipazione di comodo? I politologi più aggiornati, e smaliziati, vengono in soccorso. Giustificano e consolano, con rude realismo: "Chi vuole la democrazia deve contentarsene".

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10. IL PRECARIATO GIOVANILE

Ci sono state molte leggende; molti racconti si sono ri­ solti in narrazioni prive di senso. I giovani sono oggi più che mai isolati, impotenti, precarizzati. Possono salire sui tetti, agitare bandiere e striscioni, lanciare parole d'o rdine, che però non mordono nella realtà. Conquistano un bricio­ lo di visibilità. Ma restano privi di rappresentanza diretta e precarizzati. Come mai? Dov'è la matrice causale oggettiva? La psicologizzazione delle contraddizioni sociali, la ridu­ zione delle questioni di fatto, strutturali, a problemi di stati d'animo costituiscono ormai una mistificazione intollerabi­ le. Dov'è, qual è il principio fondamentale cui è stato sotto­ posto lo sviluppo delle società moderne e chi lo governa, lo dirige, lo applica? Nelle società tecnicamente progredite, in cui oggi non abita più di un quinto della popolazione mondiale anche se consumano circa l'o ttanta per cento delle risorse del pianeta, il potere si nasconde, è nelle mani di agenti anonimi, auten­ tico deus absconditus. Si calcola che esistano oggi al mondo poco più di duecento compagnie multinazionali. Decidono i grandi investimenti, trasformano, trivellano, disboscano, cambiano la faccia della terra. Di chi sono? Chi dà gli ordi­ ni? Chi controlla i risultati? Chi agisce? Chi subisce? 59

Gran parte delle compagnie multinazionali sono norda­ mericane. Nessun dubbio che gli Stati Uniti stiano pagando il prezzo della loro posizione egemonica su scala mondiale. Ma declino o non declino, impero o non impero, il biglietto verde continua ad essere l'unità di conto, la moneta con cui si calcolano e si pagano tutte le materie prime fondamenta­ li, dal petrolio alla soia, dal rame al frumento. Il commodity market di Chicago continua ad essere il mer­ cato delle merci su scala planetaria, il punto di riferimen­ to fondamentale. Il ChiefExecutive Office è l'homo novus di questo ordine economico-finanziario mondiale. Dapprima, agli inizi della "rivoluzione-industriale" nell'Inghilterra del tardo Settecento, il potere fu nelle mani del capitalista-pro­ prietario e amministratore in proprio. Ampliatesi le opera­ zioni si rese necessaria l'assunzione di dirigenti industriali di professione, non legati all'o riginaria famiglia proprieta­ ria. Ma il professional manager era pur sempre dominato da un comportamento reverenziale verso il tycoon, il magnate fondatore. Ora il potere è passato nelle mani del C. E. O . Non è solo un amministratore delegato. E colui che sa e decide. Gli azionisti sono polverizzati. Il consiglio d'ammini­ strazione è lontano. Lui è Cesare in Gallia, Alessandro alle soglie dell'India. Non si controlla se non ciò che si conosce. E lui è il depositario e insieme il puntiglioso conoscitore degli arcana del potere economico e finanziario, della tec­ nologia avanzata in quei settori in cui la scienza diventa un fattore direttamente produttivo. E lui a decidere e a dirigere i grandi investimenti strategici, a scegliere paesi e continen­ ti verso cui convogliare risorse tecniche e flussi finanzia­ ri importanti, a "chiudere i rubinetti" là dove la "volatilità" ...

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eccessiva non gli consenta di prevedere gli esiti delle sue iniziative. I governi politici e le loro leggi esistono, certa­ mente. Ma contano solo nella misura in cui possono aiutare oppure ostacolare i suoi progetti. Costituiscono termini di confronto solo in senso relativo. In tutte le società tecni­ camente progredite e formalmente "democratiche" i gran­ di potentati economici sono considerati dalle leggi vigenti J? Uri "domicili privati", dotati di piena autonomia operativa. E uno squilibrio che dovrebbe costituire per dei giuristi seri ampia materia di riflessione, se non di vergogna. Di fatto, questi potentati, governati discrezionalmente dai C. E. O., sono economicamente dominanti, finanziaria­ mente decisivi e politicamente irresponsabili. La contrad­ dizione fra potere di fatto e responsabilità sociale statuita non riguarda soltanto il quadro generale. Entra e coinvolge la vita quotidiana degli individui. Non basta scrivere di "vite spezzate", come hanno fatto, peraltro egregiamente, Zyg­ munt Bauman, Richard Sennet e una legione di stucchevoli ripetitori, fino a ridurre la contraddizione, che è strutturale, a labile stato d'animo e a chiudere gli occhi sulla sociogene­ si delle depressioni e delle nevrosi degli individui che affol­ lano le anticamere degli psicoanalisti. Ricerche e sondaggi come quelli del CEN SI S in Italia e gran parte delle inda­ gini nella gioventù odierna condotte nelle società tecnica­ mente progredite, in Europa e negli Stati Uniti, mostrano ormai chiaramente questa confusione fra "problemi di mi­ lieu" e "problemi di struttura", per usare la terminologia di C. Wright Milis. Chi definisce queste e consimili ricerche spazzatura meriterebbe forse le attenuanti. 61

1 1 . UNA GIORNATA IN UN CALL CENTER

Pubblico qui di seguito la testimonianza personale, rac­ colta da Veronica Meo, su una giornata di lavoro in un cali center (inbound assistenza clienti). Sono le 6.30 del mattino; oggi potrei prendermela co­ moda; ho il turno pomeridiano, ma non riesco a dormire. La settimana scorsa facevo il turno delle 8.30 e so già che quando mi sarò abituato a svegliarmi più tardi sarò di nuo­ vo assegnato al turno della mattina. Pazienza. Tanto vale alzarsi. Fino a quest'e state avevo sempre lo stesso turno e gli stessi giorni di riposo, rigorosamente separati, il giovedì e la domenica. Non avere mai un vero weekend era stancante, ma era più facile organizzarsi sapendo i giorni liberi. Poi l'azienda ha minacciato di chiudere a causa della crisi, lo Stato è intervenuto garantendo la solidarietà. Nonostan­ te questo l'azienda ha deciso di applicare la flessibilità sui turni, in accordo con i sindacati, ma non con i dipendenti. Ora i miei turni possono cambiare a seconda delle esigenze dell'azienda. Possono avvisarmi di un cambio turno con 48 ore di preavviso, devo lavorare 2 domeniche al mese e devo essere disponibile per tutti i turni. 63

Qyalche mese fa una mia collega ha dovuto licenziarsi, è una ragazza madre e non poteva permettersi di lavorare al pomeriggio perché non sapeva dove lasciare sua figlia. Esco alle 15.00, il turno inizia alle 1 6.00 ma mi serve mezz'o ra per completare alcune operazioni prima di poter iniziare a lavorare. "Beggiare l'e ntrata" (strisciare il badge allentrata), aprire i vari software gestionali, pulire la posta­ zione lasciata da un collega non sempre ordinato. Per un quarto d'o ra di ritardo si riceve una lettera di richiamo, alla terza c'è il licenziamento. I dipendenti sono divisi in team a cui vengono dati i nomi di animali, forse vorrebbe essere una trovata simpati­ ca, probabilmente qualche psicologo del lavoro ha pensato che serva a creare affiatamento, spirito di gruppo e un po' di sana competizione. Nella mia sede lavoriamo in 300, prima arrivavo presto anche per poter scegliere una postazione, ad esempio dove sapevo che il computer funzionava bene, ora si viene asse­ gnati a una cosiddetta "isola". Un'isola è una serie di posta­ zioni adiacenti, in modo che il supervisor possa tenere sotto controllo gli operatori del suo team. E stata una decisione presa per migliorare l'e fficienza e la produttività del singolo operatore. Non mi è mai piaciuto parlare al telefono, ma nella vita vale la legge del contrappasso, ti toccherà fare quello che detesti. Sono pronto, indosso le cuffiette, l'unica cosa per­ sonale è il copri cuffia di spugna. Devo ricordarmi di non lasciare il cellulare sul tavolo, altrimenti lettera di richiamo. So già che riceverò una sessantina di chiamate nelle mie 6 ore, che dovrò gestire in 3 minuti di media. Non sempre ..

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è facile, spesso i clienti sono arrabbiati e vanno recuperati. Qyasi sempre la causa è qualche collega che, considerando questo lavoro "di passaggio", non crede sia importante es­ sere professionale, e magari attacca il telefono solo perché non sa come risolvere un problema. Io ho 3 6 anni, non ho scelto questo lavoro, ma mi serve e voglio farlo bene. Non sono l'unico, ma siamo in pochi, qui la maggior parte sono ragazzi più giovani, studenti uni­ versitari con altre aspirazioni. Se voglio essere professionale so che probabilmente mi serviranno più di tre minuti, que­ sto vorrà dire essere meno produttivo secondo i parametri aziendali, ma non voglio rinunciare a essere corretto verso un cliente che telefona per risolvere un problema, un gior­ no potrei essere io e vorrei che rispondesse qualcuno come me. Accanto a me lavora una ragazza che ha iniziato da poco, se posso cerco di aiutarla, all'inizio non è stato facile nean­ che per me. Le hanno fatto un contratto a progetto di due mesi, io invece sono stato assunto a tempo indeterminato. Dovrei sentirmi meno precario, ed è stato così per un paio d'anni, ma ora non passano due mesi senza che l'azienda minacci il fallimento per via della crisi. Lo scopo è ottenere finanziamenti dallo Stato e la possibilità di chiedere sacri­ fici ai dipendenti. Ma questo significa vivere senza nessu­ na certezza, senza poter fare programmi a lunga scadenza, obbligati a vivere giorno per giorno. Sembra che ormai il lavoro sia un favore che ti viene concesso, e non puoi sapere per quanto. Sono le 1 8 .00, vado in pausa, per legge un quarto d'ora ogni due ore per riposare gli occhi dallo schermo del com65

puter. Bisogna beggiare 2 volte sia per uscire che per rien­ trare, anche oggi non si trova il registro delle pause del mio team, e la pausa è già diventata di 10 minuti. Una sigaretta e altre due ore in cuffia. Siamo in 300, postazioni affiancate divise da separatori, siamo tutti vicini, tutti insieme, e tutti a lavorare da soli. Isolati dalle cuffie, non cè modo di scambiare una battuta con un collega, anche le pause sono separate. Qyando racconto che lavoro faccio non credo che le per­ sone capiscano cosa vuol dire. - Alla fine te ne stai seduto al telefono - non hai nessuna responsabilità - io a voi del cali center vi verrei a cercare sotto casa, attaccate sempre e sto in attesa per ore - e per chi lavori? Me la puoi fare una pro­ mozione? -. Sono solo alcuni dei commenti che fanno, non è cattiveria, è che non capiscono. I cali center sono una realtà molto diffusa in Italia, credo che chiunque abbia in famiglia o tra gli amici qualcuno che ci è anche solo passato, ma il senso di alienazione di questo lavoro non viene percepito. Alienazione perché il cliente cambia, ma il lavoro è sem­ pre lo stesso, perché qualcuno mi ringrazia ma la soddisfa­ zione è poca e non è mai l'azienda a riconoscere il valore di un dipendente, perché posso impegnarmi di più ma lo stipendio sarà lo stesso e non è un granché. N o n esiste un progetto, sono solo 6 ore che devono passare, ogni giorno, ed è se m p re difficile. Ho vissuto i turni di dicembre, lavoro il 24 dalle 1 6 alle 22 e anche il 3 1 fino alle 22, mia moglie si arrabbierà di sicuro, ma io che ci posso fare? Sono le 22, finalmente stacco e vado a casa. Ho fatto bene il mio lavoro, sono stato cordiale e corretto con tutti, anche 66

con chi mi offende. Tutti mi chiedono come faccio a resta­ re così calmo, com'è possibile che alla fine anche il cliente più arrabbiato mi saluti ringraziandomi. Qyando indosso quelle cuffie io rappresento l'azienda, offendono l'azienda, non sono io, non è con me che ce l'hanno. Io ricomincio ad essere me stesso quando esco di qui. Faccio un lavoro per il quale non esisto. Per dieci ore al giorno sono un uomo­ ombra, un uomo "senza qualità", una "macchina animata".

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1 2 . A RTI, MESTIERI, , LAVORO ALIENATO, PRECARIETA

Come siamo giunti a questo esito? Come siamo passati dalla bottega del Verrocchio, in cui arte, artigianato e pro­ duzione convivevano e Leonardo da Vinci lavorava gomito a gomito con Michelangelo Buonarroti, al call center? Vale a dire: al lavoro precario, disintegrato al punto da disinte­ grare psicologicamente il lavoratore? I confronti e le comparazioni fra epoca ed epoca sono una tentazione irresistibile per gli spiriti enciclopedici o an­ che, più semplicemente, per coloro che potrebbero riferire a se stessi l'autodefinizione di Vietar Hugo: '']e suis un médio­ cre immense". Le comparazioni fra epoche storiche diverse e lontane richiedono ad ogni buon conto, pur suggestive come sono, grande cautela. E tuttavia, parlando dell'Italia e della sua lunga storia - una storia sommariamente calco­ labile in trenta secoli - e avendo l'occhio non solo ai vertici della società, ma anche alle pratiche di vita e di lavoro che definiscono la quotidianità delle persone comuni in que­ sto straordinario "arcipelago di culture" dagli Etruschi e dai Romani antichi, ottimi operatori con la vanga, ma anche con la lancia, alla società industrializzata di oggi, ciò che colpisce è la perdurante vitalità delle antiche radici. 69

Qyeste radici costituiscono l'e redità classica su cui gli italiani, consapevoli o meno che siano, sono cresciuti. Clas­ sico non è solo ciò che ha "classe" in un dato contesto, bensì ciò che lo supera, ciò che trascende le circostanze specifiche, che si pone come un valore di riferimento permanente. E una sorta di filo segreto, sotterraneo, che lega insieme fra loro le generazioni e dà senso a ciò che generalmente si chiama la «coscienza storica». Gli antichi Romani erano in primo luogo, a differenza dei Greci, da loro conquistati ma non asserviti, spiriti pragmatici, costruttori positivi. Simone Weil si domandava come mai gli antichi Romani avevano potuto costruire un impero senza disporre di una filosofia. Si potrebbe rispondere che hanno potuto costruirlo perché non avevano una filosofia. Leggevano nel dato il valore, in ciò che è utile ciò che è bene. Un ponte è un ponte, collega opposte rive, riunisce e rafforza, consente risparmi e siner­ gie. Pontifex è colui che fa i ponti. I Romani costruivano a secco, con una precisione impressionante, tanto che i loro archi e i loro acquedotti hanno sfidato i secoli. Costruiva­ no, ovunque arrivassero le loro legioni, le infrastrutture es­ senziali alla vita civile: strade - le famose vie consolari -, ponti, acquedotti e insieme arene, circhi, terme, ossia bagni pubblici. Anche gli storici più tendenziosi hanno dovuto riconoscerlo, pur deplorando che ovunque abbiano imposto la loro lingua. Edward Gibbon, nelle conclusioni di 1he De­ cline and Fall oJ the Roman Empire, ha parlato per tutti. Il Mare nostrum li ha certamente aiutati: il Mediterraneo è il "mare fra le terre"; un mare chiuso, "materno", che aiuta le comunicazioni interculturali, lo scambio commerciale e l'incontro delle idee. In esso si può leggere, fin dalle lontane ..

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origini, la Pax augusta. Ma nella precisione dei costruttori romani c'è qualche cosa che sopravvive alla caduta dell'Im­ pero d'Occidente nel 476 dell'e ra volgare. C'è già il seme delle meravigliose "macchine" di Leonardo. Nell'atmosfe­ ra di convivialità e di vita comunitaria che aleggiava nella bottega rinascimentale del Verrocchio l'e redità classica si fa esperienza quotidiana, rivive fra le mani dei giovani ap­ prendisti dai nomi che un giorno saranno famosi. Si tratti di macchine da guerra o di strumenti e congegni studiati per il divertimento e per le fastose feste del signore di Milano Lodovico Sforza detto "il Moro", il gusto per la precisione meccanica celebra i suoi primi trionfi. Forse non è mai stato sufficientemente chiarito o quanto meno, e sia pure embrionalmente, percepito, il nesso mi­ sterioso fra precisione meccanica e ideale estetico. Special­ mente in Leonardo, ma poi anche negli allucinati disegni delle carceri di Piranesi, si nota il legame fra costruzione meccanica, incastro scientificamente studiato e misurato fra ingranaggi diversi a costituire un "sistema" organicamente funzionante, e un'idea di bellezza formale, per cui anche il cedimento o il cattivo funzionamento di una vite inceppe­ rebbero il tutto, quasi come un'ombra di impurità è suffi­ ciente a pregiudicare irreparabilmente la perfezione di un cristallo. Qyesta specie di love affair con la macchina è forse all'origine dell'odierno industria! design. L'utilità non è ne­ cessariamente nemica della bellezza. Forse il gusto della perfezione tecnica o anche solo dell'invenzione di aggeggi o gadget meccanici contiene già, in nuce, i prodotti più raffi­ nati dell'industria di oggi e della produzione di massa, no71

nostante l'apparente contrasto fra produzione esteticamen­ te godibile e riproduzione puramente standardizzata, che doveva angustiare il sensibile Walter Benj amin (in L'opera d 'arte nell'epoca della sua riproducibilità meccanica). Ma chi ha dimenticato la macchina per scrivere Lettera 22 della Olivetti, esposta per settimane al Museum ofModern Art di New York? E appena il caso di menzionare i due blocchi che avevano impedito, nel mondo classico greco-romano, lo sviluppo della produzione di massa, anche se erano già disponibili tutti i presupposti teorici e organizzativi: a) un blocco sociale, dovuto alla presenza degli schiavi (perché valersi di mac­ chine per produrre quando c'e ra abbondanza di "macchine parlanti", e per di più gratuite?; b) un blocco mentale, che impediva l'uso pratico-applicativo delle nozioni teoriche (Archimede brucia i suoi taccuini relativi agli specchi ustori e alle altre macchine per difendere, vittoriosamente, la sua Siracusa perché teme la contaminazione pratica delle pure idee teoriche) . Dall'antichità classica l'evoluzione è tutta nelle parole: téchne; tecnica; arte; artigiano; manufatto; "fatto a mano" e, secoli più tardi, manifattura, da cui la "fabbrica". Mi ten­ ta un'interessante comparazione, tornando al gusto per l'invenzione meccanica, fra l'amore rinascimentale per la tecnica come prodotto, oltre che utile, anche formalmente estetico, e la passione dei primi americani per la meccanica puramente utile. Il caso di Thomas Jefferson, l'autore della Declaration oJIndependence è istruttivo. Jefferson appare, da tutti i resoconti affidabili, perdutamente innamorato delle invenzioni meccaniche, ma non per puro gioco o estetico ...

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diletto. Non ci si potranno mai attendere da lui i Mostri di Bomarzo o gli zampilli di Villa d 'Este a Tivoli. Il contrasto fra gusto rinascimentale e vocazione strettamente utilitaria è netto. Altrove ho rilevato la passione, tipicamente americana, per le invenzioni meccaniche, anche per quelle minime o di puro capriccio, che non meritano neppure di venir brevet­ tate, insieme con la contraddizione, risolta sul piano pratico, del "mito rurale" e delle invenzioni meccaniche come dono di Dio in Thomas Jefferson. Merita però attenzione anche il caso di Thomas Alva Edison: l'invenzione non tanto come folgorazione improvvisa, ma come risultato di lunghi espe­ rimenti, attraverso tentativi ed errori. In America oggi 1 ho notato che l'autore della Declaration ofIndependence non è un teorico. Diffida delle astrazioni. Concepisce il mondo come un grande meccanismo. Qyest'uomo, Thomas Jeffer­ son, che adora la campagna, ha una sua personale visione degli Stati Uniti. Li vede come un ordinato conglomerato di fattorie agricole di medie dimensioni, autosufficienti, non troppo grandi né troppo piccole, al riparo dalla corruzione inevitabile dei centri metropolitani industriali. E difficile sottrarsi all'impressione che sia vittima di una tipica am­ bivalenza americana: ama l'innocenza dell' independent Jar­ mer, dell'agricoltore indipendente, ma, nello stesso tempo, con l'invenzione del tavolino o scrittoio portatile, portable desk, anticipa in maniera sorprendente illap top dell'odierno computer. Ma oggi l'agricoltura è stata industrializzata2. ..

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Uscito per la Newton & Compton (Roma, 2006). 2 Si veda Corrado Barberis, La rivincita delle campagne, Roma, Don­ zelli, 2009. 73

N ella cultura mediterranea prevale almeno in parte la p a­ zienza del buon artigiano e del contadino. Ciò che sembra tipico della classe operaia i tali an a è che non ha mai rinne­ gato il passato contadino e che molti operai italiani sono rimasti operai-contadini, relativamente immuni rispetto al "male" dell'alienazione e della marginalizzazione, anche se la transizione dal mondo contadino, rurale e artigianale, è avvenuta in Italia, fra il 1 950 e il 1 9 80, con una rapidità impressionante. Nel giro di poco più di una generazione e mezza si è avuta in I tali a una "rivoluzione industriale" che in Inghilterra ha richiesto poco meno di due secoli. E tut­ tavia, in Italia il trapasso è riuscito meno traumatico che in Inghilterra, dove lo Enclosure Aet aveva spinto contadini, pastori e artigiani impoveriti, non più in grado di valersi dei pascoli liberi, ad affollarsi nei bassifondi metropolitani, formalmente liberi, in realtà schiavizzati, costretti a vendere la loro forza -lavoro al miglior offerente.

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1 3 . LA PECULIARITÀ DEL PROCES SO DI INDUSTRIALIZZAZIONE IN ITALIA

Per comprendere le caratteristiche originali del proces­ so di industrializzazione in I tali a non sembrano sufficienti le impostazioni tradizionali della ricerca storiografica, che è per lo più storia di vertici, o quelle tipiche della ricerca giuridico-formale oppure macroeconomica. E importante dare la parola, per capire il processo di industrializzazio­ ne, a coloro che lo hanno, giorno per giorno, vissuto come esperienza esistenziale diretta, agli operai e alle operaie, al di là e, se necess ario, contro i vetri colorati delle varie ideo­ logie. Si vedano in proposito La parola operaia 1 e le storie di vita dei lavoratori dell'Italia settentrionale, centrale e meridionale. Da questi resoconti autobiografici è possibi­ le ricavare un'idea realistica non solo della transizione dal mondo agricolo alla società industriale in termini macra­ economici e storico-istituzionali, ma anche rendersi conto dell'impatto del cambiamento socio-tecnico sulle pratiche di vita dei singoli e dei gruppi familiari. In particolare, si comprende come la transizione, benché rapida e special­ mente accelerata fra gli anni '50 e '80, non sia stata la..

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L'Aquila, S cuola Reiss-Romoli, 1 9 95 . 75

cerante come altrove. Le grandi migrazioni interne degli anni '60, dal Sud al Nord e dall'Est all'Ovest ( all'incirca otto milioni di famiglie) riguardavano lavoratori che non si lasciavano alle spalle una cultura, non erano uomini nel limbo fra una cultura abbandonata e un'altra cultura che non li accoglieva, non erano quindi persone sospese "a mezza parete", come invece accadrà ai più recenti immi­ grati extra-comunitari. Le circostanze oggettive, indubbiamente, cambiava­ no. Mutavano, anche radicalmente, i metodi e le tecniche di lavoro. Venivano intaccati i "valori" fondamentali, dalla dimensione e struttura della famiglia al senso del tempo, naturale nel mondo contadino (albe e tramonti), meccani­ camente misurato nelle fabbriche e negli uffici - la voce meccanica della sirena all'inizio e alla fine della giornata la­ vorativa. Il grande passaggio non coinvolgeva però soltanto la struttura della famiglia e le aspettative di vita degli indi­ vidui. Scomparivano vecchi mestieri, ormai non più neces­ sari. La stessa agricoltura veniva industrializzata. Il trattore sostituiva sempre più estesamente l'aratro a mano, tirato dal cavallo o dalla coppia di buoi. N o n arrivavano più le mon­ dine dal Nord-Est per strappare la gramigna che soffoca­ va il riso. Al loro posto facevano la comparsa i diserbanti chimici, la mietitrebbia, la semina automatica e non più a braccio. Mestieri dal contenuto artigianale, dai più sem­ plici, come i "ranatieri", o cacciatori di rane, ai "prataioli", incaricati di aprire e chiudere i canaletti che garantivano la irrigazione razionale, diventavano obsoleti e alla fine scom­ parivano, insieme con i loro strumenti tipici, quali la falce m es sori a, le ronco le e i falcetti dei sarchiaioli, che "sarchia76

vano", vale a dire mantenevano puliti i ruscelli di scarico ad evitare intoppi e straripamenti, soprattutto a primavera; erano sempre più rare le cigolanti carriole dei muratori e dei braccianti agricoli, e così via. La meccanizzazione di tipo industriale dell'agricoltura ha avuto risvolti tecnici e umani degni di nota. Nessun dub­ bio che abbia reso necessari investimenti cospicui, ai quali non hanno potuto far fronte i piccoli e neanche i medi proprietari agricoli. E così entrata in crisi la piccola proprietà, in parte o completamente soppiantata dalle grandi azien­ de agricole, gestite con criteri industriali, di regola come campo di investimenti privilegiato per profitti ottenuti con la produzione e la distribuzione in serie dei prodotti dell'industria oppure come canale di sbocco delle plusva­ lenze degli istituti di credito. La stessa industria, del resto, è passata attraverso diverse fasi, contrassegnate in primo luogo dall'evoluzione del macchinario industriale, dai primi capannoni in cui si aggregavano, ma per lavorare ancora in­ dividualmente, i vecchi artigiani, spesso indebitati e quindi costretti a rinunciare alla loro autonomia, sotto la guida di qualche "capoccia" o supervisore, che non aveva alcuna pre­ tesa di direzione aziendale "scientifica". Nella maggioranza dei casi non andava al di là dell'autorevolezza di un "mastro" di bottega artigiana più anziano e quindi, si supponeva, di maggior esperienza lavorativa. Riuniti nello stesso luogo di lavoro, sorvegliati - ma non certamente "scientificamente" organizzati - da un unico supervisore, gli ex-artigiani con­ tinuavano però a lavorare ciascuno per conto suo. L'apparato tecnologico dell'industria moderna è l'aspet­ to aziendale che più facilmente colpisce l'immaginazione. ....

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Dal primo sorgere del fenomeno industriale la riflessione intellettuale, particolarmente in un secolo che del progresso meccanico si faceva un mito e talora una speranza risolu­ trice di molti problemi, ha visto nel fenomeno del mac­ chinismo industriale l'e lemento cruciale delle nuove forme di produzione economica. Qyalunque possa essere il giu­ dizio storico sul ruolo giocato dal macchinismo nell'evolu­ zione dell'impresa capitalistica industriale, è indubbio che nell'azienda moderna la struttura tecnologica abbia una po­ sizione fondamentale. Non vi è aspetto dell'organizzazione del processo produttivo, da quello amministrativo contabile a quello del prestigio nell'o rganizzazione informale (per ci­ tare due tra i più disparati aspetti aziendali), che non subi­ sca un condizionamento spesso determinante da parte della struttura tecnologica. L'effetto più diretto e cruciale è quello che l'apparato tec­ nologico esercita sulla divisione tecnica del lavoro e quindi sulla struttura professionale aziendale. Già con l'introdu­ zione delle macchine utensili, e cioè con quelle macchine azionanti gli strumenti simili a quelli adoperati dall'uomo, la tradizionale struttura artigianale aveva subito un mutamen­ to sostanziale. L'artigiano che lavorava con utensili a mano era uno specialista in termini del prodotto del suo lavoro. Essendo gli strumenti da lui usati raramente specializzati, l'abilità era nel suo mestiere e nelle sue capacità personali, piuttosto che nel tipo di lavoro svolto. La gerarchia pro­ fessionale era fondata in parte sull'esperienza e l'anzianità nel mestiere, che spesso condizionava l'iniziazione graduale ai segreti professionali, e in parte sulle sue doti e capacità personali. L'apprendistato era lungo e comportava l'assimi78

lazio ne di conoscenze di mestiere cui s'accompagnava una formazione culturale. Con l'introduzione delle macchine utensili la capacità professionale tende a spostarsi dall'uo­ mo alla macchina. N elle stesse botteghe artigiane specialista e specializzato cominciano a differenziarsi. Il primo conosce ancora tutti i segreti professionali che conducono alla cre­ azione del prodotto fini to, assegna i compiti agli specializ­ zati e ne coordina l'attività. Qyesti ultimi sono padroni di abilità specifiche che si definiscono come capacità profes­ sionali solo in quanto legate all'utilizzazione di una o più macchine. L'apprendistato è ancora lungo e in vista di una qualificazione tecnica generale, ma il mestiere non è più unitario in relazione al prodotto. Non solo: il ruolo tecnico non riesce più a coincidere in modo evidente con quello sociale. Lo specializzato al tornio per lavori al legno non ha un posto sociale, e cioè uno status e un ruolo nella sua comunità, nel senso che lo ha il falegname. Nella manifattura, le macchine utensili sono le condi­ zioni essenziali per la concentrazione nella "fabbrica". Ma, in questa prima fase, le macchine utensili sono ancora mac­ chine polivalenti e flessibili, predisposte a tutta una vasta e differenziata serie di lavori. Con un buon tornio si possono fare molte cose, e perfino taluni prodotti finiti. Ma occorre saperlo "mettere a punto", conoscere la velocità di taglio, va­ lutaria in relazione al materiale e alla qualità degli utensili, stimare il gioco e i limiti della calibratura accettabile, ecc. Occorre insomma essere qualificati a quella data macchina attraverso un apprendistato a volte lungo e difficile. Si ha così il mestiere industriale, quello che una volta appreso è un'" arte" inalienabile della persona, un capitale di sicurezza 79

professionale futura. Si può mutare "padrone", industria, o città, con relativa tranquillità perché si ha un mestiere, si è ancora un professionista.

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14. LA C RI SI DEL MESTIERE E DELLA SUA PROFES SIONALITÀ

Il mestiere viene meno però non appena le macchine flessibili e polivalenti sono sostituite da macchine speciali, quelle costruite unicamente per una data lavorazione ad un prodotto particolare. La sostituzione delle macchine speciali a quelle universali avviene in conseguenza della lavorazione di serie organizzata secondo i dettami dell'Organizzazione Scientifica del Lavoro. L'intercambiabilità dei pezzi com­ ponenti un dato prodotto finito costituisce a questo pro­ posito l'aspetto tecnico decisivo. Più tardi le tecniche del trasferimento, quali i convettori, la catena e la giostra di montaggio, consentendo l'utilizzazione del sempre mag­ giore volume di produzione ottenuta con la lavorazione in serie, la stimola all'e stremo e la generalizza. Così, per esempio, di contro al tornitore di vecchio stam­ po, che "col tornio sapeva fare di tutto", sorgono ora dei ma­ novali specializzati che lavorano a torni speciali, esercitando pochi movimenti ripetuti in tempi prefissati. Qyesto tornio speciale spesso non lo si chiama neppure più "tornio". E una macchina, come le altre, e l'operaio che ad essa lavora non è un torni tore, bensì un "addetto macchina". L'ignoran­ za completa della macchina alla quale lavora è frutto della '

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parcellizzazione dell'attività produttiva e della specializza­ zione dei compiti. Senza più apprendistato, addestrato in pochi giorni e talora in poche ore, il manovale specializzato ( o l'o peraio comune, come viene generalmente chiamato ) non è tenuto - anzi è scoraggiato - a sapere come si mette a punto la macchina, come la si mantiene o ripara, come funziona. La relazione tra sé e la macchina è una relazione meccanica, non di uso tecnico: egli non usa la macchina, perché non sa neppure come "usarla", egli la fa funzionare .... per un uso che altri, gli uffici tecnici, conoscono. E la macchina che richiede la sua presenza, e lo fa in un senso mec­ canico, in un rapporto che è quasi di pari a pari. Dalla qualificazione tecnica si è quindi passati alla spe­ cializzazione meccanica. Gli effetti di questa trasformazione nella struttura delle capacità professionali sono molteplici. Innanzitutto la destituzione delle abilità professionali, ri­ dotte alla precisione e automaticità dei gesti, crea un motivo di profonda insoddisfazione sul lavoro e tende a promuo­ vere l'atrofizzazione delle qualità intellettuali e un senso di aridità interiore. I lavori ripetitivi e parcellari a ritmo obbli­ gato sia individuali che collettivi, essendo spersonalizzati, inducono noia e disinteresse e promuovono forme di fatica più pericolosa di quella meramente fisica. Si tratta della tri­ stezza industriale, fatta di nevrosi e inquietudini. Le stessa separazione della serie fisica dei gesti dalla serie mentale delle idee e delle immagini, richiesta da questi tipi di lavori ripetitivi e parcellari, alimenta l'inquietudine col consentire la fantasticheria e i sogni ad occhi aperti. Talora questa serie mentale di idee ed immagini è attivata dalla conversazione, quando il rumore e la disposizione fisica dei posti di lavoro 82

lo consentono. In questo caso la vita di gruppo al lavoro rimane l'unica soddisfazione che il lavoratore finisce per avere sul posto di lavoro. I sistemi di lavoro parcellare creano inoltre si tu azio­ ni di blocco nella mobilità verticale aziendale. Sebbene il passaggio da qualifiche operaie a quelle impiegatizie sia sempre raro, la divisione tecnica spinta all'e stremo dei la­ vori parcellari non favorisce neppure la mobilità all'inter­ no delle qualifiche operaie. Non sembra vi possa essere una "carriera" operaia, là dove manca anche la parvenza di un apprendistato, e dove il lavoro è parcellare e a ritmo obbli­ gato. Coloro che hanno dei sogni di successo, magari cullati dagli stereotipi societari, devono ben presto rinunciarvi: la speranza per il futuro è al massimo quella di farsi mutare mansione, di farsi togliere dalla catena. La struttura pro­ fessionale aziendale, in questa fase dell'evoluzione del mac­ chinario industriale, è notevolmente rigida e caratterizzata, ai livelli inferiori, da gerarchie non fondate sulla capacità e abilità professionale, bensì sulla funzionalità meccanica della relazione macchina-uomo. Dal discepolo al lavorante, dall'o peraio all'o peratore: anche l'abilità e la capacità pro­ fessionale è andata mano a mano scomparendo. Alla perdita del mestiere, caratterizzato da una relativa sicurezza per il futuro, si sostituisce ora la consapevolezza di avere soltanto, quando si riesce ad averlo, un "posto" di lavoro, con tutta la corrispondente insicurezza, economica e psicologica, che ne deriva. N o n si ha più un bagaglio di cognizioni e di abilità da poter trasferire da luogo a luo­ go, da contrattare con cognizioni di causa, da trasmettere a qualcun altro, da utilizzare, nel caso, con propri capitali. Si 83

è in balia di un mercato del lavoro del tutto impersonale, nel quale le abilità personali non hanno un grande, decisivo valore. Addestrati in pochi giorni da una certa impresa, si può da essa essere sostituiti nel medesimo tempo e non si è neppure guadagnata, nel frattempo, un'esperienza che pos­ sa essere utilizzata in altri luoghi, per altre imprese. In tali condizioni solo il monopolio dell'offerta di lavoro può co­ stituire un limite al completo arbitrio dei datori di lavoro.

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1 5 . LA TECNICA, PERFEZIONE PRIVA DI SCOPO, PRENDE IL COMANDO SULLA VIA DEL DI SA STRO

L'evoluzione del macchinismo industriale e le sue con­ seguenze sui ruoli professionali, le qualifiche e la coscienza di classe non si arrestano alle macchine speciali. Un a nuo­ va fase è già iniziata, e rappresenta una forma di mecca­ nizzazione spinta: l'automazione, portata alle conseguen­ ze estreme dell'e lettronica e della robotica. Solo in taluni casi le macchine specializzate erano delle macchine simili a quelle universali, diverse unicamente per il fatto di essere costruite con una messa a punto fissa. Si trattava invece, solitamente, di macchine più complesse, che combinavano ai fini di una determinata lavorazione i principi e le forme di diverse macchine utensili. L'operatore è in parte addetto al funzionamento della macchina e in parte addetto alla sua alimentazione e scaricamento. Qyesto suo "attendere" alla macchina è un rapporto meccanico, si diceva, chiaramente e precisamente prefissato nei movimenti e nei tempi. A sostituire anche questo elemento umano - che dell'umano ha ormai ben poco, non dovendo esercitare che pochi e semplici giudizi rispetto a scelte spesso già scontate e previste - il passo era breve. I servo-meccanismi sostitui85

scono le mani dell'uomo nel far funzionare la macchina utensile, mentre un interprete elettronico (generalmente chiamato controller) sostituisce il cervello. Occorrono cer­ tamente anche circuiti e accorgimenti di feed-back e una serie di informazioni e di specificazioni programmate, che consentono al controllore di guidare i servo-meccanismi, cioè di sviluppare una coordinazione cervello-mani. Infi­ ne, attraverso altri servo-meccanismi, che sovrintendono all'alimentazione e allo scaricamento, la macchina utensile viene collegata con un'altra operata nello stesso modo. Si ha così quella che viene comunemente chiamata una macchina transfer, cioè un insieme di più macchine utensili specializ­ zate che sono operate, alimentate e scaricate in un processo continuo corrispondente ad un ciclo di lavorazione (me­ diante il trasferimento) del prodotto. Qyando alle macchi­ ne transfer si aggiungono accorgimenti elettromeccanici di controllo di qualità, meccanismi automatici di contabilità e inventario, e accorgimenti automatici di manutenzione che segnalano l'eventuale guasto e provvedono, inoltre, alla nor­ male lubrificazione, siamo in presenza di un complesso auto­ matizzato. L'uomo sembra dimenticato. In realtà i lavora­ tori, se pure in proporzione ridotta, non solo sono presenti, ma vedono rivalutata, su un piano diverso, la funzione delle loro capacità intellettuali e abilità professionali. Con l'automazione e più ancora con l'informatizzazione e l'elettronica applicata su vasta scala scompaiono i compiti parcellari e ripetitivi a ritmo obbligato. La macchina non determina più il ritmo e l'intensità del lavoro umano, che diviene invece un lavoro essenzialmente di supervisione. I compiti di controllo, manutenzione e riparazione del mac86

chinario automatizzato vengono a costituire delle nuove mansioni operaie di alta responsabilità e specializzazione tecnica. Vi sono ostacoli da rimuovere, difficoltà da supe­ rare. Vi è quindi la possibilità di esprimere le proprie capa­ cità intellettuali, con conseguente maggiore soddisfazione professionale e di lavoro. L'operaio, promosso a operatore, deve avere una adeguata preparazione tecnica, saper leggere tempestivamente i segnali di una tavola elettromagnetica. Stiamo passando dalla tuta blu al camice bianco. La spe­ cializzazione tecnica tende di nuovo a configurarsi come mestiere, in virtù delle cognizioni teoriche che si devono ora accompagnare all'abilità e all'e sperienza personale. L'ap­ prendistato, non più valutabile in termini di tempo, com­ porta inoltre una formazione culturale e tecnica insieme, e ridiviene analoga a quella artigianale. Il passaggio dal rapporto uomo-macchina a quello uo­ mo-azienda modifica sostanzialmente le relazioni sociali aziendali. I riflessi sulle relazioni di gruppo sul lavoro sono ancora troppo poco prevedibili, ma uno studio empirico in una azienda automobilistica di Detroit altamente auto­ matizzata ha messo in rilievo una diminuzione sostanziale nell'o pportunità di interazione sociale rispetto a quanto av­ viene nell'azienda automobilistica tradizionale. I rapporti sociali informali avvengono soltanto all'interno di piccoli gruppi, e anche in questi l'identificazione dei singoli lavo­ ratori col gruppo di lavoro è di minore intensità e talora inesistente. Con il "telelavoro" si torna, paradossalmente, all'o tto­ centesco lavoro a domicilio, certamente a un livello tecnico raffinato, ma ancora socialmente alienante. Nel mio La per87

fezione del nulla 1 ho dato notizia di esperimenti realizzati nella regione parigina, in cui, attraverso l'aggregazione di più telelavoranti, che pur continuano a lavorare in stato di isolamento, si costituiscono dei veri e propri voisinages, os­ sia dei "vicinati", tesi a superare la solitudine degli addetti ai computer e a recuperare un minimo di interazione so­ ciale. Una volta di più sembra confermato che l'imperati­ vo tecnologico consente grande efficienza produttiva, ma a scapito dell'interazione sociale. I vecchi mestieri a misura d'uomo non sono soltanto oggetto di una romantica no­ stalgia. Forse possono ancora indicare una via d'uscita dalle contraddizioni di oggi. Se mi è consentito di procedere a colpi di sciabolate, posso dire che siamo passati nel breve giro di cinque secoli dalla bottega artigiana e artistica del Verrocchio a Firenze, dove téchne e tecnica, arte e artigianato erano ancora uni­ ti, all'impersonale e anonimo call center. Nella bottega del Verrocchio lavoravano gomito a gomito Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti. Al call center troviamo giovani d'ambo i sessi, gli occhi fissi sugli schermi opachi, cuffie alle orecchie per i messaggi in arrivo, con contratti a termine di tre mesi in tre mesi. Il lavoro cambia. Passa dall'o peraio­ artigiano che lavora a ciclo completo, dalla materia prima al prodotto finito, al tornio universale o flessibile, quindi alla catene di montaggio e poi alle macchine-transfer, all'auto­ mazione e all'informatizzazione . E l'innovazione tecnica che comanda, condanna i vecchi prodotti, crea nuovi mercati. Ma la tecnica è una perfezione ...

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Roma-Bari, Laterza, 2002 .

priva di scopo. Un valore strumentale è venerato come valore finale. Ha il potere di scuotere e frantumare le vecchie cate­ gorie professionali, i profili di mestiere, il lavoro direttamente muscolare e al limite la stessa presenza dell'operaio-operato­ re, non più in tuta blu ma in camice bianco, fino a dar luogo a quel non -senso che è la jobless growth, la crescita produttiva senza posti di lavoro, e quindi il contraddittorio corto circuito sovrapproduzione-sottoconsumo. E in questo corto circuito che i giovani d'oggi sono presi, imprigionati, precarizzati. Se cresce la produzione ma svaniscono i posti sicuri e viene meno il salario regolare perché la robotificazione elimina la manodopera subordinata, che è però fatta di consumatori, il corto circuito sovrapproduzione-sottoconsumo è inevitabile. Non solo: le direzioni aziendali, dovendo fare i conti con una tecnica in continuo e rapido cambiamento e tempi di ammortamento degli investimenti sempre più brevi, non possono permettersi di firmare contratti di lavoro a tempo indeterminato. In una parola, hanno bisogno di una ma­ nodopera non solo docile, ma malleabile, mobile, precaria, fungibile. E il nuovo schiavismo delle società tecnicamente progredite. Con riguardo ai giovani d'oggi l'e sclusione sociale, la precarietà economica, l'irrilevanza politica sono fatti oggettivi, empiricamente documentabili. Interpretarli in chiave psicologica o puramente culturologica è rischioso. Se ne perde il senso profondo, l'incisività determinante, il carattere di "durezza" che Emile D urkheim, agli inizi del secolo scorso, riconosceva ai fatti sociali e che lo induceva a studiar li "come cose", comme des choses. L'emotività, oggi prevalente, comporta lo svicolamento verso i labili stati d'animo. Non sottoscriverei l'eliminazione '

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della psicologia dal novero delle scienze sociali, decretata da Auguste Comte e da Emile D urkheim. Ma una ricerca sui giovani d'oggi, drammaticamente alle prese con i loro mez­ zi elementari di sussistenza autonoma, in cui analisti sociali fino a prova contraria responsabili non esitano a far sfog­ gio di tutto un armamentario psicoanalitico tanto criptico quanto inutile, provoca una certa dose di legittimo stupore. Termini come rimozione, depressione cronica, apatia, go­ dimento immediato senza limiti, sfruttamento desideran­ te, rifiuto di sognare, castrazione del desiderio, e così via, presuppongono una folla di pazienti candidati agli ospedali psichiatrici più che giovani semplicemente in cerca di un impiego possibilmente non precario, per ottenere un mu­ tuo, crearsi una famiglia, garantirsi un proprio spazio vitale . E chiedere troppo? Significa cedere a "godimenti immediati e senza limi ti", come dicono certi analisti oggi sulla cresta dell'o nda, rispolverando un linguaggio che, a parte Freud e Lacan, richiama la "rerum novarum cupiditas" di Leone XIII? A me non sembra. Vi sono oggi degli analisti sociali che, da volenterosi p si­ canalisti dilettanti, ripetono ai giovani angosciati dall'in­ sicurezza dei loro mezzi materiali di vita: «Coraggio ! Imparate di nuovo a sognare. Le cose andranno meglio». E la traduzione europea del positive thinking americano di cinquant'anni fa. I teorici della "società liquida", dovizio­ samente propagandati da editori e giornali italiani di bocca buona, sono sulla stessa lunghezza d'o nda. Dicono al pre­ cario: «Non disperare. Nuota, ragazzo mio, nuota! Un bel giorno arriverai anche tu alla terra ferma, se non alla terra promessa». ,

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E ormai universalmente noto che i giovani d'oggi, rovesciando una consolidata tradizione, non aiutano i loro vec­ chi. Pesano invece su di loro, sui genitori, ma anche sui non­ ni, gli zii e le zie. Fanno pensare, in un contesto così diverso, alla preoccupata e ironica domanda di Leo Longanesi: "Ci salveranno le vecchie zie?". E certo che ne limano i risparmi fino all'esaurimento, mai troppo lontano. Secondo fonti at­ tendibili (B ankitalia), il lavoro è stato "salvato" dalla famiglia, la quale ha protetto i giovani sui quali la crisi si è scaricata con più violenza. Ha retto il capofamiglia, sostenuto, quan­ do necessario, dalla cassa integrazione. Il mercato del lavoro si è ulteriormente divaricato tra giovani e anziani. Così la perdita del lavoro di un figlio di età tra i 15 e i 34 anni ha ridotto il reddito familiare di poco più del 28 per cento, meno del contributo che mediamente dà la donna (37, 1 per cento). Il 50 per cento arriva invece dall'uomo, ancora il più protetto dagli ammortizzatori sociali. «A tutelare una parte delle famiglie con figli a rischio di perdita del lavoro di uno dei genitori è stato il ricorso alla cassa integrazione. La fami­ glia - si legge nell'ultimo Rapporto dell'Istat sulla situ azione del paese - ha svolto il consueto ruolo di ammortizzatore sociale, sopportando il peso della mancanza di occupazione dei figli. I.:azione congiunta di questi due aspetti ha quindi mitigato gli effetti della crisi, almeno per il momento». Un momento che - per definizione - non sarà lunghis­ simo. Il nostro welfare, centrato proprio sulla famiglia, non reggerà l'impatto con l'invecchiamento della popolazione. Giovani che oggi hanno diciotto, venticinque, trent'an­ ni sono ancora costretti a farsi mantenere. Una parte (una gran parte?) di questi giovani precari ha smesso di cercare ...

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un lavoro regolare, con un contratto a tempo indeterminato. Vivono, controvoglia, a scrocco. Sopravvivono. Sono la te­ stimonianza vivente di una società tecnicamente progredita e umanamente imbarbarita. E la società saturnina. Mette al mondo i figli e poi li divora. La cronaca aiuta? Forse no. Sta però di fatto che pas­ siamo su questo pianeta solo una volta e che di cronaca sono fatte le nostre vite. So bene che cronaca e storia sono contrapposte da spiriti magni ancora oggi, ma è certo dif­ ficile concepire i grandi fatti storici "epocali" senza un pur fuggevole sguardo al formicolante humus su cui sono sorti. Si fa forse uno storico sensibile che possa occuparsi delle Piramidi dell'antico Egitto senza pensare ai braccianti del Nilo o al fiorire delle grandi culture classiche senza inviare un pensiero riconoscente all'anonimo lavoro schiavile che ne ha consentito l'e mergere e la crescita? Tutto questo solo per giustificare un fatterello di cronaca e mettere le mani avanti qualora taluno abbia a rimproverarmi di eccessiva attenzione autoreferenziale. Il giorno 8 dicembre 2010, con l'aiuto di Claudio Tognonato, inviavo al "Manifesto" la let­ tera che qui di seguito si pubblica: '

Caro direttore, Lo s cambio, più di complimenti che polemico, fra Re ­ calcati e D e Rita , pubblicato l'altro ieri e oggi dal "M anife ­ sto", merita attenzione come indicatore e segnale del livello preoccup antemente basso del dibattito culturale e politico odierno. D e Rita lamenta di non aver punti di riferimento nella letteratura sociologica e di dover per questo ridursi a s accheggiare un libro di psicoanalisi. La cosa è piuttosto 92

sorprendente . Bastava ricordarsi della contrapposizio ne fra problemi di

milieu

e problemi di

struttura finem ente

ela­

borata anni fa da C . Wright Milis . Il nesso micro-macro non è da ricercarsi in termini psicologici, anche se è vero che l'individuo non è il mero epifenomeno del sociale. Il male ss ere individuale è l'antenna, l'allarme , il segnale di una m atrice sottostante , strutturale, legata direttamente ai mezzi m ateriali di vita . Ridurre que sta matrice ed e spri­ meda in termini psicologici o addirittura p sicoanalitici si­ gnifica dar corso a un'operazione di mistificazione su vasta s cala. In effetti, non da oggi mi sembra che sia in corso, su scala planetaria , una nuova strage degli innocenti . Ne s ­ sun Erode all'orizzonte . E neppure una s anta coppia con bambino in fuga verso l'Egitto. Del resto, non c'è più alcun Egitto in cui rifugiarsi . S i sta verificando una m as siccia p sicologizzazione dei fatti e delle co ntraddizioni sociali . L e vittime sono trasformate in carnefici di se stes s e .

È uno

straordinario rove sciamento di ruoli e di re spon sabilità . I giovani sono inermi e fotogenici . Si prestano all'op erazio­ ne , p er lo più senza s aperlo, forse sperando nella "visibilità" . Vittime con senzie nti e incons ap evoli . S ono stati dapprima ipnotizzati dalle comunicazioni elettroniche in m ano ai tenutari del postribolo planetario. Q!tindi, proletarizzati, precarizzati a vita, azzerati . S iamo entrati nell'epoca della società s aturnina: i giovani si procreano, li si fanno stu ­ diare, magari fino al master e al dottorato, e poi si divora­ no, dando loro la colp a, perché sono "stanchi , demotivati , apatici, s enza de sideri". Chi definis se que ste e consimili analisi sp azzatura meriterebbe le attenuanti . Un cordiale s aluto. 93

Che questa lettera non fosse pubblicata c'e ra da aspet­ tarselo. Le ortodossie di sinistra sono impervie. Ma la realtà cui si riferisce è sotto gli occhi di tutti. Le recenti mani­ festazioni studentesche l'hanno duramente richiamata. Ne sortirà qualcosa? D ubito. Il contesto è fortemente diverso. Ma già quarant'anni fa, ai tempi del mitico '68, una protesta generosa non era riuscita a farsi progetto razionale. Allora l'economia era in pieno boom. I giovani volevano "tutto e subito", "trasformare il mondo". Oggi si contenterebbero di un posto fisso, a tempo indeterminato. Sarà loro negato, forse in base alla misteriosa logica evangelica: «A chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche il poco che ha». La società saturnina sa fare bene i suoi massacri. Non lascia vivo alcun superstite. Così non correrà il rischio di dover affrontare, domani, un superteste.

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APPENDICI

I. INTERVISTA DI F RANCO FERRAROTTI A F RANCESCO CARDARELLI*

Come Davide difronte a Golia In un suo saggio lei definisce Internet come la "perfezione del nulla ". . . E una grande promessa, ma anche un grande problema. Prendiamo la realtà virtuale, che altro non è che simulazione, cioè una costruzione mentale arbitraria - resa in maniera sin­ tetica dall'immagine - che, pur essendo inesistente, è tuttavia possibile. Può costituire un pericolo per persone non partico­ larmente mature dal punto di vista morale e intellettuale, per­ ché tende ad attenuare la differenza tra realtà vera e simulazio­ ne, tra il di dentro e il di fuori, tra ciò che è da affrontare come compito responsabile e ciò che sembra tale, ma non lo è. ...

Sarà anche la perfezione del nulla ma quasi nessuno sembra resistere alla seduzione di Internet, specialmente tra i giovani . . . Per molti navigatori in erba si tratta davvero di una nuo­ va droga. Passano ore e ore nel cyberspazio, riempiendosi la mente di immagini che spesso non riescono a dominare: * Maggio 1 997, per Naufragi e Approdi , Roma, Fondazione Italiana per il Volontariato, 1 999. 97

alla fine non si possono più considerare persone informate, ma soltanto fagocitate e purtroppo disorientate. E poi, sulla World Wide Web, la rete mondiale planetaria, e su Internet, si trova di tutto: i messaggi di Giovanni Paolo II (perché anche il Vaticano ha naturalmente un suo sito), ma anche scene hardcore degne dei peggiori bordelli, e addirittura gli indirizzi utili ai pedofili, per non parlare di scene di una violenza e di una ferocia senza limiti. Il problema è che nes­ suno sa che cosa fare; i governi, imbarazzati, mantengono il più sovrano silenzio: nessuno vuole fare la figura del cen­ sore. Intanto, abbiamo una volta di più l'e sempio di quanto la tecnologia sia un contenitore privo di scopo o, se si vuole, una perfezione puramente auto-referenziale. Èforse entrato in crisi il modello di uomo occidentale, che ha dominatofino a oggi la storia mondiale ? In effetti, l'homo sapiens, cioè il modello dell'uomo sacra­ tico, che ragiona e che conquista le sue certezze interiori per mezzo della logica aristotelica, sembra oggi in declino. In par­ ticolare, nei giovani si è creata una preferenza, a volte imposta dalle circostanze, a volte scelta più o meno deliberatamente, dellemozione e dell'immagine rispetto al raziocinio e alla ri­ flessione interiore. La cosa non è del tutto nuova, se è vero che già al principio del secolo XX emergeva fra i sociologi, so­ prattutto in Max Weber, la preoccupazione di un'umanità alla ricerca dell'emozione, che aveva bisogno di essere eccitata. Se uno osserva i comportamenti giovanili, soprattutto quelli legati alla nuova musica, come il rock e il rap, si ac­ corge che conta molto il rito, la stare insieme, non per uno scopo elaborato in modo razionale e lucidamente condiviso, 98

ma quasi come riconquista di un contatto epidermico, fisi­ co . . . Forse, quello che al mondo adulto appare come ricerca di uno stare insieme prefazionale o irrazionale, come un puro titillamento, in realtà significa ed esprime un bisogno di valori trascendenti, una profonda insoddisfazione nei confronti dello stesso mondo adulto - dominato dal pro­ duttivismo, dalla competizione, dalla spasmodica ricerca del profitto massimizzato - in nome di una visione neo-co­ munitaria. C'è un fortissimo bisogno di fratellanza, di soli­ darietà, anche se ricercato in maniera selvaggia e perseguito secondo modelli di comportamento del tutto discutibili.

Ma che posto occupa la solidarietà nella nostra società ? Lei tocca la ferita aperta della nostra società, che sembra spezzata - è proprio il caso di dire - da una contraddizione fondamentale. Da una parte dice, specialmente ai giova­ ni: «Dovete essere solidali con gli altri, dovete riconoscere negli altri voi stessi» ma dall'altra, simultaneamente, dice agli stessi giovani: «Dovete fare carriera, anche se questo significa fare le scarpe al vostro collega, dare una gomita­ ta al vostro vicino, dovete essere i primi». C'è una spinta competitiva selvaggia, che annulla completamente l'e sigen­ za di solidarietà e il senso della comunità interindividuale. E questo avviene in tutti gli ambienti: dovunque l'attività lavorativa e la carriera individuale sono viste in contrasto e in concorrenza con la carriera e le attività di altri. Qyesto comporta la caduta di ogni standard etico: significa ricono­ scere che è moralmente accettabile e ammissibile ciò che ha successo, che chi non ce la fa nella vita e non riesce ad andare avanti è un essere umano inferiore. 99

Insomma, la nostra è una società che cresce sulle macerie della comunità . . . Sì. La vecchia dicotomia tra società contrattuale, da una parte, e comunità familiare, fraterna, dall'altra, si è accre­ sciuta al punto che la prima ha preso il netto sopravvento sulla seconda, così da sfigurare persino la vita interna delle famiglie. La massimizzazione del profitto e il bisogno di successo sono penetrati nel profondo, scalzando talvolta il terreno di convergenza tra marito e moglie, tra genitori e fi­ gli, l'area della concordia familiare, rispetto alla società vista come terra straniera. Da questo punto di vista, un quadro spaventoso ce l'o ffre la società nordamericana, divenuta così legalistica, che si può dire che ognuno faccia causa all'altro. Chiunque ha un problema, per prima cosa dice: " Vado dal mio avvocato". E una società che ha formalizzato talmente le relazioni in un sistema codificato da aver reso quasi impossibili i rapporti comunitari. Per fortuna, ci sono gli anticorpi. ....

Di che cosa si tratta ? Del fatto che quasi mai si pongono dei problemi all'uma­ nità senza che, all'interno delle tendenze evolutive in atto, sorgano degli anticorpi, dei movimenti, che a poco a poco si rafforzano, impedendo alle tendenze evolutive di arriva­ re alle conseguenze estreme. Nel volontariato vedo questa funzione di anticorpo, rispetto alla logica darwiniana di una società che, lasciata a se stessa, produce emarginazione sempre crescente. Siamo in presenza di un'economia globa­ lizzata che non conosce limiti e che domani può distrugge­ re la foresta amazzonica, come ha creato le favelas di Rio di 1 00

Janeiro o l'immonda periferia romana. Il volontariato miti­ ga e in qualche modo obbliga lo sviluppo a non essere più pura espansione, del tutto irresponsabile verso le condizioni dell'ambiente o della produzione di maggiore povertà e di maggiore polarizzazione della ricchezza.

Il volontariato è all 'altezza di questo compito ? Sicuramente occorre una forte presa di posizione e so­ prattutto un'opera pratica e specifica, che faccia comprende­ re come lo sviluppo a oltranza e l'illimitata corsa alla massi­ mizzazione della produzione in vista del puro profitto siano in realtà una corsa suicida. Il volontariato ci fa capire quel che nel secolo scorso non era chiaro nemmeno ai pensatori rivoluzionari. Marx, Engels, Proudhon, gli anarchici inglesi non avevano il senso dei limiti e dell'e sauribilità delle risor­ se: concepivano la natura come una sorta di tesoro da cui attingere senza fine. Attenzione, però: l'azione volontaria è vista per lo più come un'opera nobile, filantropica, ma in fondo accessoria, facoltativa. Bisogna invece dire che è l'ul­ timo campanello d'allarme. Insomma, il volontariato non è un'azione volontaria, ma necessaria. Certo, è ancora troppo debole, anche dal punto di vista teorico: è un piccolo Davi­ de di fronte a un gigantesco Golia. E non possiamo fidarci sempre della fionda di Davide. Eppure, i Paesi in via di sviluppo non sono sempre sensibili e disponibili a impegnarsi su certi temi. Sì, è vero, ma è troppo facile condannare il consumismo da parte di chi ha già consumato. Il disboscamento della foresta amazzonica continua, nonostante il pregiudizio che 101

si reca all'equilibrio ecosistemico. Qyando si dice: ma così compromettete l'ultimo polmone essenziale per il pianeta Terra, la risposta è: voi dite questo da Parigi, da Londra, da Roma, dalle capitali dei Paesi che si sono sviluppati e già godono dei frutti dello sviluppo, mentre noi cominciamo solo ora. C'è una sola soluzione, e ancora una volta il volon­ tariato può dire una parola decisiva: occorre ridistribuire le ricchezze e le risorse fondamentali di cui possiamo disporre nel pianeta.

Parliamo di un altro argomento scottante: l 'immigrazione. Il grande evento di questo secolo è l'uscita, dagli scanti­ nati della storia, di interi popoli, che esistevano fino a poco fa solo come combustibile nelle mani dei popoli domina­ tori. Credo che il prossimo sarà un secolo di movimenti demografici di massa, e il rapporto interculturale e inte­ retnico sarà il problema dominante. La grande questione che si porrà sarà il riconoscimento e l'accettazione piena della diversità dell'altro. Le alternative non sono poi mol­ te: c'è la soluzione criminale, omicida, quella dei campi di concentramento e della pulizia etnica. C'è poi la soluzione di un'Europa blindata, in parte praticata oggi dagli Stati­ nazione. Una via che non tiene conto di una situazione con­ traddittoria esplosiva: le nazioni del Nord del mondo sono tecnicamente, economicamente, finanziariamente molto ricche, ma demograficamente deboli. Nel Sud del pianeta c' à una grande ricchezza demografica e un'estrema pover­ tà di mezzi materiali. Qyeste due contraddizioni si posso­ no risolvere solo attraverso la mediazione dell'una rispetto all'altra. La sola soluzione possibile sarà quella di accettare 1 02

una ridistribuzione della popolazione mondiale, dal Sud verso il Nord, dall'Est verso l'Ovest.

Lo crede realistico ? Credo che sia l'unica soluzione praticabile. Si tratta di inaugurare una sorta di nuova età alessandrina, basata sull'accettazione delle varie culture, su un certo meticcia­ mento fra di loro, attraverso uno slancio ecumenico univer­ salistico. Debbo rendere omaggio alla Chiesa cattolica, che, con Giovanni XXIII e con il Concilio Vaticano II, ha dato prova di una sensibilità straordinaria, tracciando un solco, aprendo una strada che difficilmente potrà essere richiusa. Lei ha denunciato con forza "la tentazione dell 'oblio" dell 'Olocausto e il pericolo rappresentato dal razzismo e dall 'an­ tisemitismo. Abbiamo distrutto il nazismo e il fascismo, e gran par­ te delle forse economiche che li avevano finanziati: così, il razzismo è quasi del tutto scomparso dal punto di vista politico ed economico. Ciò che non è stato fatto, e che è urgentissimo fare, è distruggere le basi culturali del razzi­ smo, che si fondano sull'idea che la sola cultura degna di questo nome sia quella europea. Tutte le altre culture non legate alla raison illuministica sarebbero culture per modo di dire, preculture, inculture, che attenderebbero di venire europeizzate per diventare accettabili. Qyest'idea, del tut­ to insostenibile teoricamente, è ancora oggi molto diffusa, spesso anche in modo inconsapevole. B asti pensare a certe forme di pubblicità. 103

Che cosa occorrefare ? Riconoscere che la cultura europea è solo una fra le altre, tutte degne dello stesso rispetto. Qyesto significa che i miti swahili sono importanti quanto la Divina Commedia o le tragedie di Shakespeare? Non si tratta di fare graduatorie, ma di riconoscere che sono produzioni di significato che hanno la stessa valenza. Le razze sono diverse dal punto di vista genetico, ma la comune umanità non va ricercata nella pigmentazione della pelle, negli aspetti esterni: si fonda sul fatto che tutti gli esseri umani sono capaci di espressioni, gesti, confabulazioni, produzione di cultura, cioè significati, esperienze, valori, condivisi e convissuti. Ma questa concezione non è quasi universalmente accettata oggi ? Solo in apparenza. C'è che dice, come Taguieff in Fran­ cia: tutte le culture hanno lo stesso valore, ma ogni cultura stia al suo posto. Qyesta è una forma raffinata di discri­ minazione razzistica, non più basata su caratteristiche cor­ porali fisiche, ma sulla stessa produzione culturale. Ogni cultura è accettata, purché resti nel suo ghetto, chiusa in se stessa, senza comunicare con le altre, perché si teme la contaminazione da contatto, la diluizione. In pratica, tutte le culture sono uguali, ma qualcuna è più uguale delle altre. Cultura vuol dire lingua, religione, sistemi di significato: se le varie culture non comunicano, se restano completamente separate le une dalle altre, prima o poi avviene lo scontro. La storia è lì a dimostrarlo.

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II. IL '6 8 : LE RAGIONI DEL FALLIMENTO*

Il panorama non è consolante. Trent'anni dopo si spreca­ no le piccoli infamie del tipo: "l'avevo detto io" oppure "c'era da aspettarselo". Su altre sponde, non si contano i rimpianti e le nostalgie. Fatica buttata. Lacrime vane1. Perché il '68 è fallito ? Avevo arrischiato una risposta, fin dagli inizi: perché la protesta non si è trasformata in progetto. Ma come mai il progetto non solo non è decol­ lato, ma non si è neppure formato? Perché un progetto degno del nome non è solo perorazione retorica, rumore d'assemblea, mozione degli affetti o appello ai buoni sen­ timenti. In Una sociologia alternativa2 ho dimostrato che un pro­ getto autentico ha da poggiare e fondarsi su una analisi scientifica delle forze in gioco. Qyesta analisi è mancata. Si voleva l'immaginazione al potere, ma del potere si intratte­ neva infantilmente un'idea immaginaria, grossolanamente antropomorfica. Il potere diveniva così onnipotente e intro•

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Pubblicato in «La Critica sociologica», 1 99 8 . Si veda il mio Il '68 quarant 'anni dopo , Roma, EDUP, 2008. B ari, De Donato, 1 9 72. 105

vabile nello stesso tempo. La contestazione globale dava la mano alla conservazione assoluta. Le critiche - durissime e forse anche ingenerose - mos­ semi dal sociologo sovietico S.A. Efirov si saldavano con quelle dei reazionari più incalliti: l'ufficialità si difendeva su tutti i fronti. In USA lo scontro riguardava gli afro-america­ ni e il Vietnam. In Francia, l'autoritarismo di de Gaulle. In Germania, l'assenza di opposizione poli tic a, dopo la Grosse Koalition. In I tali a, si era alcuni passi indietro. Era chiamata in causa l'autorità dei "baroni" accademici, in funzione di padri putativi, soprattutto da parte di studenti da famiglie provinciali piuttosto arcaiche. I leader avevano invece alle spalle l'assegno di papà; potevano dedicarsi alla rivoluzione a pieno tempo. Ma l'assenza di analisi determinava l'emer­ gere di nuovi dogmatismi, bloccava il collegamento critico fra teoria e prassi, portava il movimento all'inanità di parole d'o rdine vuote e alla fine al fallimento. Tornavano i dogmi, il comportamento referenziale, le formule "rivoluzionarie" ripetute come giaculatorie. I con­ testatori più lesti si assicuravano mansioni manageriali nell'industria, nel caso peggiore un seggio al parlamento europeo, naturalmente esentasse. E straordinario che, trent'anni dopo, una situazione consimile debba registrarsi in Francia. Il caso di Pierre Bourdieu, sociologo al Collège de France, sembra una seconda edizione, poco riveduta, del '68. Ancora una volta, si tratta della sociologia critica, vale a dire del carattere intrinsecamente innovativo e, anzi, sov­ versivo, della ricerca sociale quando riesca a stabilire contat­ ti autonomi con le forze sociali in movimento. Con la sua pedante suddivisione in "campi" separati dell'e sperienza so,

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ciale con la taccagna ostinazione d'un proprietario agricolo, Bourdieu intende demistificare il potere, prendere il posto di Jean-Paul Sartre e di Michel Foucault3. Invece di una nuova rivoluzione, è probabile che dovre­ mo accontentarci di una nuova scolastica, ancora una volta si dovrà prendere nota della deplorevole confusione fra il momento analitico e l'intervento terapeutico. Il sociologo alla Bourdieu - scrivevo tempo fa in Politics, Culture and So­ ciety - si concepisce come il supremo ostetrico della società nuova. D'accordo. Ma ci sono buone levatrici, che all'oc­ correnza sanno usare bene il forcipe o procedere al taglio cesareo. Ci sono però anche quelle che ammazzano il bam­ bino. Trent'anni dopo bisogna forse rassegnarsi e accettare il fatto che il '68 è nato morto.

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Si veda «Le monde des Livres» del 28 agosto 1 998. 107

III. L'INDIV IDUO EUROPEO ­ SOCIALIZZAZIONE E IDENTITÀ COME PROCE S SO DINAMICO E INV ENTIVITÀ EVOLUTIVA

La produzione di massa, e quindi il consumo di massa, erano già possibili nell'antichità classica greco-romana. Se non sono stati realizzati ciò sembra dovuto a due blocchi: a) un blocco mentale, essenzialmente psicologico, per cui le nozioni teoriche non potevano essere utilizzate sul piano pratico senza svilirle, in modo pressoché sacri­ lego (è noto che, difesa la sua città di Siracusa con gli specchi ustori che mettevano a fuoco le navi nemiche, Archimede distrugge i suoi taccuini); h) un blocco sociale: perchè costruire macchine per la pro­ duzione su vasta scala quando erano disponibili in gran numero quelle "macchine parlanti" (Aristotele) e quei "piedi d'uomo" (Platone) che erano gli schiavi? E tuttavia, rispetto ad altri mondi storici e culturali, quello europeo si distingue per il dinamismo e l'inventività e per l'individuo concepito come valore. Già nel suo aureo testo On Liberty, John Stuart Mill, soprattutto nei capitoli terzo e quarto, si era posto il problema: come mai la Cina, 109

con grandi risorse umane e materiali, resta un gigante ad­ dormentato mentre l'Europa occidentale - territorialmente ridotta, demograficamente debole - appare caratterizzata da un'incredibile capacità evolutiva su una molteplicità di piani, da quello economico-meccanico a quello isti tuzio­ nale e politico? Ho notato in altra sede che è raro trovare nella letteratura sociologica e di filosofia sociale un inno tanto appassionato quanto quello sciolto da Stuart Mill in lode della "individualità dell'individuo"; forse, solo nel pa­ radossale, inatteso panegirico della borghesia nel Manifesto di Karl Marx e Friedrich Engels, là dove gli autori celebra­ no la nuova classe borghese in ascesa come la "liquidatrice dell'idiotismo della vita rurale". Stuart Mill contrappone la dinamica Europa alla statica Cina del suo tempo e la rispo­ sta al suo interrogativo è esplicita: l'Europa è dinamica a causa della varietà degli individui che la compongono. Max Weber vi aggiungerà un ulteriore fattore, vale a dire l 'etica vissuta del mondo protestante: spiegazione del perchè "solo in Occidente" (nur in Okzident) abbia attecchito lo sviluppo economico autogenerantesi: persino gli europei pessimisti 1 sono costretti a riconoscere nel valore dell'individuo l'asse portante della civiltà europea, la sua peculiarità specifica, ciò che ne fa un unicum nella storia universale. L'identità europea, nel suo dinamismo e iperattivismo, ha nell'indivi­ duo la sua radice essenziale. Individuo e identità sono concetti correlativi. Un indi­ viduo si costituisce come tale, ossia come soggetto o come 1

Per esempio, fra gli altri, Julien Freund, La fin e dello spirito europeo, trad. i t., Roma, Armando, 1 9 8 3 . 1 10

attore sociale relativamente autonomo, nella misura in cui può contare su una sua identità specifica. Per questa ragione, in un'epoca di grandi movimenti di massa da paese a paese e da cultura a cultura, ci si preoccupa di salvaguardare la pro­ pria identità. L'identità, già data per scontata, torna a porsi in termini problematici. Si ricercano e si rivalutano, talvolta con un pathos eccessivo, le proprie "radici". La nozione di individuo si fonda sulla sua identità. Ma, contrariamente a ciò che può suggerire l'e timologia, l'individuo non è l'in­ dividuum, ossia l'indivisibile. In ogni individuo convive una molteplicità di individui. Qyando io prendo la parola, cen­ tinaia, forse migliaia di individui parlano con me, dentro di me. La lingua di cui mi valgo non sorge unicamente dalla mia interiorità. Con i termini, che si legano secondo le re­ gole grammaticali, e i nessi sintattici, che reggono la frase, dal soggetto o sostantivo al predicato nominale o verbale al complemento, ho appreso la lingua dai miei simili, in primo luogo dai familiari, e insieme con la lingua, dalle occhiate, dai movimenti e dai gesti, ho appreso il linguaggio del cor­ po, dai segnali pre-verbali alle indicazioni più precisamente dotate di significati evidenti. Forse non sono io che parlo la lingua. E la lingua che parla in me. Più che parlare, sono parlato dalla lingua corrente, che tesse la trama della quo­ tidianità e che io apprendo senza sforzo apparente per via mimetica, nell'interazione costante con il gruppo dei pari, dapprima all'interno della famiglia d'o rigine, e poi fuori, nella più grande società. In ogni individuo coesistono, dunque, una moltitudine di individui. La stessa identità, di cui l'individuo è tradi­ zionalmente geloso, non è un dato, ma un processo. Non ...

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solo: per quanto suoni paradossale, l'identità presuppone e ha bisogno dell'alterità. L'individuo non nasce da se stesso né emerge in sé compiuto come Minerva, armata di tutto punto, ex capite ]ovis. Un esempio famoso: i Greci dell'an­ tichità classica divengono consapevoli della loro "grecità" solo quando vengono a contatto con i non-greci, ossia con i "barbari", da essi così chiamati perchè non parlavano la lingua greca e, anzi, nell'ascoltarli, davano l'impressione che stessero balbettando, e per questa ragione li chiamavano barbari, oi bàrnaroi. Se l'identità non è un dato fisso, acquisito una volta per tutte, bensì un punto di riferimento mobile, relativamente fluido, sottoposto a continue verifiche e a mutamenti in­ dotti dall'esterno, l'individuo non è nulla in senso assoluto. N o n è un mero epifenomeno del sociale, ma per formarsi, per crescere e svilupparsi non può prescindere dall' ambien­ te, dalle circostanze oggettive (extra-soggettive) in cui si trova a vivere. L'individuo, in questo senso, è ciò che è stato. Più precisamente: ciò che ricorda di essere stato. L'indivi­ duo è dunque figlio delle sue esperienze di vita, ma queste esperienze non si accumulano in lui a caso né alla rinfusa e neppure danno luogo a un coacervo di nozioni, impressio­ ni, sensazioni puramente caotiche. Qyeste esperienze sono filtrate, più o meno criticamente, organizzate, ricordate in un ordine particolare e secondo il filo rosso di una coerenza interiore riflessa, in modo da costituire la persona o, anzi, la "personalità" della persona. In una persona vi sono e interagiscono più persone. Se l'identità presuppone l'alterità, contro cui misurarsi e con la quale conversare (entrare in un rapporto dialogico-dia1 12

lettico), l'individuo non è più concepibile come una realtà assolutamente autonoma e sovranamente autosufficiente come avevano immaginato gli Illuministi, quando costrui­ vano ed elaboravano polemicamente il concetto di indivi­ duo contro la supposta "manomorta" del passato e della tra­ dizione, spesso senza rendersi conto che tranciare le radici tradizionali significava non emancipare, ma condannare lo stesso individuo all'irrilevanza. Un giovanissimo veggente ha enunciato questa verità in modo paradossale e chiaris­ simo a un tempo: '']e est un autre" (Vlo è un altro - Arthur Rimbaud). Un altro veggente, che tenterà di liberarsi del padre pastore protestante immedesimandosi nella figura di un Anti-Cristo parricida, osserverà che «gli organismi sono definiti individui in quanto centri di fini. Ma ci sono unità solo per il nostro intelletto. Ogni individuo ha in sé un'in­ finità di individui viventi». E più avanti, citando Goethe: « Ogni essere vivente non è un singolo, ma una molteplicità, anche quando ci appare come individuo, resta sempre una riunione di esseri viventi autonomi». E poi ancora «Ogni individuo ha in sé un'infinità di individui viventi. E solo un modo di vedere grossolano, ricavato forse inizialmente dal corpo umano»2. Lindividuo vive dunque nella società. Tornare al bosco è tanto impossibile quanto inutile. Il suo vivere, crescere e svilupparsi presuppone un dialogo con gli altri, lo scambio, l'interazione. Anche i fautori più radicali dell'individuali­ smo estremo e dell'autorefenzialità, al limite dell'egotismo ...

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Cfr. Friedrich Nietzsche, Appuntifilosofici 1 867- 1 869, trad. it. , Mila­ no, Adelphi, 1 993, pp. 21 e 1 5 3 . 113

e dell'egolatria, devono ammettere che lo stesso processo di individuazione è un processo sociale. Si fonda sull'esistenza del contatto interindividuale e, nel quadro di questo, offre la possibilità di scegliere l'interlocutore, l'atteggiamento, la linea di condotta. Qyesto processo sociale di individuazio­ ne può chiamarsi socializzazione, da suddividersi in due grandi settori o fasi: la socializzazione primaria, in cui l'in­ dividuo si forma e interagisce nel seno della famiglia o del gruppo dei pari, senza tendere ad alcun fine utilitario in base ad un calcolo razionale esterno al gruppo, familiare o dei pari, poiché i rapporti della socializzazione primaria hanno valore in sé e per sé; la socializzazione secondaria, in cui l'individuo esce dall'atmosfera calda e comunitaria per entrare nella società extra-familiare ed extra-scolastica, quasi come in una terra straniera, caratterizzata dalla spinta competitiva e dalla lotta per la vita, dalla scelta professio­ nale, dal lavoro per procacciarsi i mezzi di sussistenza e per ottenere, insieme con il successo, il riconoscimento sociale, che aiuta e consolida l'auto-immagine individuale . E infatti nella scelta che il soggetto si costituisce nella sua individualità - unica, irripetibile, irriducibile ad altro, e nello stesso tempo condizionata dalle circostanze ambien­ tali. Nessuna meraviglia che la costituzione del Sé, o la for­ mazione del soggetto o dell'attore sociale, come si potreb­ be anche dire, comporti un processo laborioso, che rinvia necessariamente alla socializzazione nel suo significato più ampio, sia primario che secondario, alla famiglia d'o rigine, al ceto sociale, alla classe d'appartenenza, alla fase storica. Non si dà Io che non rimandi, inevitabilmente, a un Tu, a un contatto, a un rapporto. Qyesto rapporto potrà gran...

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demente variare, dalla simbiosi alla sinergia, dalla collabo­ razione al contrasto, dalla frizione passeggera al conflitto permanente. Nella letteratura socio logica classica la costruzione del Sé ha battuto strade divergenti, che si riassumono nelle opere di due sociologi francesi, Emile Durkheim e Gabriel Tarde. Per D urkheim l'individuo rischia continuamente di cadere preda dell'anomia, cedendo a desideri smodati che la so­ cietà non è in grado di soddisfare. Egli può svilupparsi solo riconoscendosi nella "coscienza collettiva" e nella coercitivi­ tà del "fatto sociale", che un durkheimiano di stretta osser­ vanza, Marcel Mauss, teorizzerà come "fatto sociale totale". Per Gabrel Tarde, collocato all'estremo opposto rispetto a D urkheim, la società non è che un'ipostasi, o astrazione o effetto inintenzionale, il prodotto dei comportamenti indi­ viduali, che a loro volta sono mossi dall'istinto mimetico. Le sole " leggi" sociali di cui si può parlare sono le "leggi dell'imitazione". Gruppo-centrismo in chiave sociopsico­ logica contro socio-centrismo negatore dell'individuo, per il quale gli stessi "fatti sociali" sono da studiare come "cose", ad evitare ogni loro dissoluzione in meri stati d'animo privi di capacità vincolanti rispetto agli individui. E chiaro che, portato alle sue conseguenze estreme, il problema del rapporto fra individuo e società si rivela ben presto come un problema ozioso poiché non si dà indivi­ duo senza società e d'altro canto sarebbe vano parlare di società senza individui. Sta di fatto che anche l'e ssere uma­ no più solitario ha il suo Tu: è appunto il se stesso, l' a lter ego, l'ego superior e l'ego inferior, l'inces sante confabulazione del Sé con se stesso, per cui si danno straordinarie conver,

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genze fra mondi di pensiero diversi e fin contrapposti. Si pensi alle Confessioni e ai Soliloquia del Vescovo di Ippona, S. Agostino, agli Essais di Michel de Montaigne, ai Souve­ nirs d 'égotisme di Stendhal, alla Histoire d 'une ame di Thérè­ se de Lisieux, meglio nota come Santa Teres a del B ambin Gesù. La costruzione del Sé è, in certi limiti, un'auto-costru­ zione. I neo-idealisti lo sapevano bene. Ciò che trascura­ vano come poco importante era invece fondamentale: le circostanze esterne, l'ambiente extra-soggettivo, il mondo, come dicevano gli Scolastici sulla falsariga di Aristotele, a parte rei. Il monologo è anch'e sso un dialogo o, comunque, lo prepara. Forse un giorno si scoprirà che è pos sibile un dialogo oltre la diade, oltre il rapporto diretto del gruppo primario, a faccia a faccia, una sorte di "oclòlogo", ossia un dialogo di massa. Viviamo o possiamo scegliere di vivere nella soli tu dine come J e an-J acques Rousseau nelle Réveries du promeneur solitaire o Henry David Thoreau nelle Walden sulle rive del laghetto di Concord o fra le pagine del]ournal intime di Frédéric Amiel, ma non si dà "discesa introspetti­ va" che possa far dimenticare il semplice fatto che, vivendo, noi non viviamo in realtà mai soli, ma conviviamo, ossia interdipendiamo. I ricordi sono i mattoni, per così dire, con cui è possibile costruire la propria identità e sono quindi gli ingredienti per la formazione della soggettività relativamente unitaria e coerente. Dal punto di vista dell'analisi socio logica, che qui ci interessa, si possono distinguere alcuni gradini nel pro­ cesso della costruzione dell'identità e dell'auto-coscienza del Soggetto: 116

a) l'identità cresce, si sviluppa e si conferma secondo una sequenza temporale direttamente legata alla coscien­ za di sé, ciò non significa che essa si possa ridurre a uno sviluppo in senso meramente cronologico, ma poiché riflette, influenza ed è influenzata dalle cir­ costanze esterne, extra-soggettive, l'identità presenta una capacità evolutiva che si viene sviluppando nel tempo; b) nel suo svilupparsi nel tempo e in correlazione con le vicissitudini esterne, l'identità comporta un atteggia­ mento tendente alla padronanza relativa delle espe­ rienze in senso unitario e coerente; vedremo più avan­ ti come ciò si presenti oggi forse più difficile che per il passato, anche solo per la quantità degli stimoli da cui l'individuo viene investito dai mezzi di comunica­ zione di massa; la necessaria azione di filtraggio criti­ co da parte dell'individuo non è più agevole come un tempo, nel mondo della penuria, quando i messaggi e gli stimoli inviati all'individuo erano meno numerosi e, in ogni caso, meno dotati di forte incisività emotiva; infatti; c) l'identità, in quanto processo, consiste essenzialmente nella capacità di padroneggiare, interpretare e riordinare razionalmente, rispetto ai propri scopi, la molteplicità degli stimoli ricevuti dall'ambiente; se questa azione di riordino razionale non ha luogo o non è sufficiente, l'individuo rischia quel tipo di comportamento che si può definire come un relativistico "lasciarsi anda­ re" oppure, di fronte a pulsioni contraddittorie, l'in­ dividuo si vede e si sente condannato alla stasi, più o 117

meno nevrotica; la personalità nevrotica è definibile, infatti, come quella personalità che avverte in sé due tendenze, simultanee e contrarie, tanto da esserne in­ timamente lacerata e quindi paralizzata; d) l'identità si viene formando e affermando in base ad una triplice operazione: 1 . la separazione dal gruppo sociale o familiare originario; 2. la conquista di una relativa autonomia; 3. l'auto-affermazione del sogget­ to· e) le vie per affermare e rafforzare l'identità si collegano variamente con il sentimento e l'accettazione della propria originalità, anche quando questa cozzi contro la mentalità dominante, assumendo in proprio azioni e iniziative, ponendosi come valore e come oggetto di auto-stima, da accettare e da amare. '

È appena necessario osservare che in tutti i gradini del processo di auto-costruzione del soggetto e della sua identità, l'altro è essenziale. Occorre inoltre tener presente che per la stessa tradizione culturale europea occidentale l'individuo come soggetto e attore sociale relativamente autonomo è una conquisa recente. Nell'antichità classica greco-romana l'individuo non viene riconosciuto come un valore, in sé e per sé, in quanto individuo. L'individuo della tradizione classica, il detentore dell'are tè greca e il vir pro­ bus dicendi peritus, secondo la definizione di Cicerone, vale a dire "l'uomo probo esperto nell'arte del dire", non si af­ ferma né è altamente considerato come individuo, ma solo come uomo pubblico, legato alle sorti dello Stato. Lo stesso Agostino, nei cui scritti si coglie spesso come una risonan118

za interiore che lo avvicina suggestivamente a certe pagine dell'esistenzialismo moderno, da Soren Kierkegaard, con il suo singulus. A Martin Heidegger e al suo Sein zum Tode, o "essere per la morte", in realtà, quando parla con se stesso e affronta i temi struggenti della sua lotta personale contro le tentazioni della carne, non sfugge alla logica del valore trascendente; il suo intento, al di là del colloquio interiore con se stesso, è rivolto verso Dio, interlocutore privilegiato; il suo discorso, anche nelle pieghe più intime, resta un di­ scorso edificante. L'individuo è una conquista piuttosto recente del­ la tradizione culturale europea. Al di fuori dell'Europa e del Nordamerica sta solo ora cominciando ad attecchire. Jacob Burckhardt ne scorgeva le origini, dal punto di vi­ sta storico, nel particolarismo esasperato dei piccoli Sta­ ti dell'Italia rinascimentale: «La natura di questi Stati precis a Burckhardt - siano essi repubblicani o dispotici, è la causa principale, se non l'unica, del precoce sviluppo dell'italiano; è soprattutto grazie ad essa che egli è divenuto un uomo moderno. E ancora grazie ad essa che egli è stato il primo dei figli dell'Europa attuale. Nel Medioevo le due facce della coscienza, la faccia oggettiva e la faccia soggettiva, erano in qualche modo velate; la vita intellet­ tuale somigliava ad un dormiveglia. Il velo che avvolgeva gli spiriti era un tessuto di fede e di pregiudizi, d'ignoranza e di illusioni; faceva apparire il mondo e la storia sotto co­ lori bizzarri . . . L'Italia per prima strappa questo velo e dà il segnale dello studio obbiettivo dello Stato e di tutte le cose di questo mondo; ma accanto a questo modo di considerare gli oggetti si sviluppa l'aspetto soggettivo; l'uomo diviene ,

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individuo spirituale e acquista la coscienza di questa nuova condizione»3 E possibile riassuntivamente affermare che l'identità dell'individuo moderno si costruisce sulla base di tre fonda­ mentali concetti del bene etico-poli tico, che valgono nello stesso tempo come criteri legittimanti: a) la consapevolezza interiore del proprio valore secon­ do una prospettiva meta-utilitaria, e quindi univer­ sale, orientata al Bene e quindi non priva del senso della misura, ossia del classico ne quid nimis (''nulla in eccesso"); h) il sentimento della comunità in cui l'individuo fiorisce e si sviluppa fra eguali, mantenendo inalterata la pro­ pria capacità d'iniziativa e auto-determinazione nel perseguire i propri fini; c) l'individuo come proprio capolavoro, che non può ri­ schiare di giungere a morte prima di aver pienamente vissuto - come temeva J .]. Rousseau - e che, al di là del comportamento strumentale pragmaticamente fi­ nalizzato, si realizza nei comportamenti espressivi in cui è possibile fondere, almeno in via di principio, esi­ genze etiche e atteggiamenti estetici, virtù e piacere. •

...

Qyi è forse possibile cogliere una debolezza mortale dell'individuo moderno in quanto le due verità - quella scientifica, o verificata o stipulata come procedura pubbli­ ca, e quella legata alla consapevolezza interiore, vengono a 3

Cfr. Jakob Burckhardt , La civiltà del Rinascimen to in Italia, trad. it. , Firenze , S ansoni, 1 92 1 , pp. 1 5 3 - 154; corsivo nel testo. 1 20

confondersi, ponendo in essere il rischio dell'appiattimento scientistico con la riduzione drastica del pensiero "medi­ tante", libero, non finalizzato e in permanente tensione, al pensiero "calcolante", rivolto ai problemi tecnici, solubili caso per caso, previa l'e satta applicazione delle istruzioni per l'uso. Con la caduta della consapevolezza problematica e il predominio della mentalità tecnica e dell'esprit polytechni­ cien, l'individuo e le sue "libertà", consacrate negli "immor­ tali principi" dell'89, hanno potuto essere considerati come scontati nei termini di una acquisizione perenne. Persino un sociologo problematico ai limiti dell'angoscia e della ne­ vrosi, come Max Weber, non sembra rendersi conto della loro fragilità. Non prevede né si accorge dell'incombente notte totalitaria del regime hi de riano. Si noti: non siamo nelle steppe russe o alle foci del Nilo faraonico o in Me­ sopotamia. Non si tratta del "dispotismo orientale", di cui si occuperà Karl Wittfogel con la sua "teoria idraulica del potere". Ci troviamo nel cuore dell'Europa occidentale, a poche centinaia di chilometri da Parigi, la "ville lumière". Eppure, l'individuo dei Lumi è fragile. Le sue libertà sono labili. Un'opera come Dialettica dell'I lluminismo di Max Horkheimer e Theodor Adorno ne è una temibile confer­ ma. N o n vi è grande trasformazione storica che non abbia un suo prezzo. Da un tradizionalismo magico-religioso, quin­ di da una visione della vita e del proprio destino come es­ senzialmente trascendente, tanto da poter dire con Goethe "Alles Vergangliche l ist nur ein Gleichnis" ( Ogni cosa appa­ rente l è soltanto una similitudine), siamo passati ad una 121

società caratterizzata dal processo di industrializzazione, e quindi di razionalizzazione, su scala sempre più vasta, che ha l'ambizione, esplicitamente affermata, di produrre da sé i propri valori e che del resto non riconosce come vincolante alcun criterio valutativo esterno alla correttezza interna dei propri procedimenti. Caduta la trascendenza o, più precisa­ mente, tradotti e ridotti i principi trascendenti ad abitudini metodiche quotidiane, il mondo moderno appare come un mondo che abbia raggiunto la maggiore età, forse in grado di comprendere potenziali semi positivi, e che è venuto il tempo di prendere sul serio il monito di Kant, del 1 784: "Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua intelli­ genza". Il contrasto con tipi precedenti di società, tutti legati in vario modo ad un marcato simbolismo magico-religioso on­ ni -pervasivo, è parso a molti studiosi così forte da scorgervi una rottura quali tativa. Un'osservazione del grande storico olandese J. Huizinga, in L'autunno del Medioevo4, cade qui opportuna: «Lo spirito di quel tempo era così riempito di Cristo che la più tenue analogia che un'azione o un pen­ siero avesse con la vita o con la passione del Signore, ne evocava immediatamente l'immagine. Una povera monaca, portando legna da ardere in cucina, s'immagina di portare la croce: la sola idea di portare il legno basta per circondare l'azione dell'aureola di un supremo atto d'amore. Una don­ netta cieca nel fare il bucato prende la tinozza e il lavatoio per il presepio e la stalla». Il venir meno di questa potenza simbologica, quotidianamente vissuta, è probabilmente alla 4

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Trad. i t. , Firenze , S ansoni, 1 978 , p. 264.

base del "disincanto" che sembra definire il mondo moder­ no. Con ciò si apre la questione di come "educare l'indivi­ duo", ossia di come rendere possibile l'adattamento dell'in­ dividuo alle esigenze funzionali di una società che ha ri­ nunciato all'autorità dell'e terno ieri. Essa si trova costret­ ta a processi innovativi che comportano per gli individui un'educazione permanente. Riemerge qui la funzione fon­ damentale della socializzazione. Più sopra ne ab biamo già fatto cenno, distinguendo la socializzazione primaria e la socializzazione secondaria. L'individuo, come tale, è impre­ vedibile e una certa misura di controllo sociale e di forma­ zione psico-pedagogica appare, oltre che inevitabile, neces­ saria e desiderabile. Ogni società ha bisogno di un certo tipo di individui. La socializzazione può definirsi come l'insieme delle tecniche di adattamento e di assimilazione degli individui nei confronti della loro società. Si ripropone nuovamente il rapporto, tradizionalmente controverso, fra individuo e società. Sembra plausibile l'idea che entrambi i termini siano necessari e che nessuno dei due vada assolu­ tizzato. Socio-centrismo estremo e estremo individualismo metodologico appaiono assolutizzazioni intellettualistiche, viziate da ideologismi privi di riscontri empirici persuasivi. Mentre è vero che la società non va ipostatizzata né reifica­ ta - in altre parole, non bisogna dimenticare che la società è di per sé un'astrazione, altrettanto vero è che il problema dell'individuo non si esaurisce mai in una questione pura­ mente individuale. Non si tratta, dunque, di ritenere che le azioni dell'attore sociale siano sempre da considerarsi come effetti e mai come cause, tanto da scorgere nell'individuo 123

unicamente il prodotto, per così dire, di "concetti collettivi", come Stato, partito, chiesa, classe, nazione, e così via. Si trat­ ta invece di riconoscere che non è dato di ignorare il peso che determinate strutture sociali, informali o formalmente codificate, possono esercitare, insieme con le caratteristiche ambientali e i retaggi storici, sulle condotte individuali. Vivere in società significa convivere. La convivenza è pos­ sibile solo in base a regole certe e a una lucidità condivisa. Le famiglie fanno i figli. Le famiglie, la scuola, le istituzioni formative creano i cittadini. Qyest'opera di socializzazione corre un duplice rischio: per un verso, può dar luogo a rea­ zioni negative, che producono "disadattati" o "deviati", vale a dire individui che non rispettano le regole su cui si basa la società e che anticipano una differente società futura, di cui si pongono come propagandisti e profeti, quali sono gli ar­ tisti, seri ttori, poeti, oppure, al polo opposto, puri e semplici criminali e violatori delle norme vigenti; per un altro verso, è possibile che si verifichi una "sovrasocializzazione", per cui l'individuo si identifica così radicalmente e totalmente con la funzione sociale da esaurire la propria umanità di uomo nella condotta ligia al regolamento del perfetto funziona­ rio, dell'uomo in grigio dell'o rganizzazione, tanto da mera­ vigliarsi, come il medico nazista, che non si sente in colpa d'aver trattato esseri umani come cavie in laboratorio perchè gli esperimenti erano condotti in maniera scientificamente impeccabile. La sottosocializzazione genera disadattati e devianti; la sovrasocializzazione dà luogo all'appiattimento conformistico e all'ottundimento del senso morale. E stato da più studiosi osservato che le caratteristiche generali dei processi di socializzazione mutano in base ad '

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una variabile decisiva del sistema sociale: il suo grado di differenziazione. Le società tecnicamente semplici, quelle , che Emile D urkheim considerava contrassegnate dalla solidarietà meccanica, possono per lo più valersi di una socia.. lizzazione breve, segnata da fasi bene individuabili. E una socializzazione concentrata sull'infanzia e sull'adolescenza, che è del resto ridotta, tenuto conto che di regola, dopo le cinque classi elementari, si entra subito nel mercato del lavoro. Viene gestita quasi completamente dalla famiglia e dai gruppi primari e i suoi riti di passaggio sono rigidamen­ te codificati, mentre le sue tappe sono del tutto prevedibili. L'avviamento al lavoro è piuttosto precoce e la distinzione fra adolescenti e adulti si attenua mentre per tutti vale il controllo sociale, fondato sulla cultura in senso antropolo­ gico, ossia come complesso di esperienze e di valori condi­ visi e convissuti. Nelle società tecnicamente progredite, tenuto conto che si tratta di società fondate sul progresso tecnologico in con­ tinua e relativamente rapida evoluzione, la socializzazione è un processo che dura praticamente tutta la vita. Gli stessi individui adulti sono sottoposti a pressioni continue, che li costringono ad adattamenti ininterrotti alle nuove situazio­ ni ( di lavoro, di vita familiare, di residenza, e così via) e a nuovi orientamenti legati ad una realtà sociale dinamica. I "riti di passaggio" divengono labili, ripetibili, ad ogni buon conto mai definitivi. Gli esami non finiscono mai. Soprat­ tutto nella situazione odierna delle società tecnicamente progredite, tendono a scomparire le vecchie carriere, stabili, che consentivano o facevano sperare in un avanzamento da fattorino ad amministratore delegato. Si affermano invece 125

carriere spezzate, lavori interinali, occupazioni precarie, che richiedono agli individui prontezza di riflessi nell'adattarsi ai cambiamenti, flessibilità, rinuncia alla coerenza dei vecchi mestieri e ai vantaggi della specializzazione. La qualifica­ zione delle macchine dequalifica gli operai, che da operatori divengono servi tori del mezzo tecnico. Qyesta non vuol es­ sere una visione catastrofica, ma richiamare semplicemente alcune ricadute del modo di lavorare sulla concezione stessa del lavoro e sull'auto-immagine del lavoratore . E probabile che, nelle società tecnicamente più avanzate, il lavoro non sia più quel rapporto privilegiato con la propria comunità, che dava significato all'erogazione della propria energia mentale e muscolare, come avveniva in un tempo ormai lontano. Può anche essere che il lavoro preca­ rio non induca nell'individuo solo un senso di incertezza e precarietà, ma al contrario enfatizzi l'e silarante sensazione di libertà collegata con il legame con un lavoro che non sia sostanzialmente sempre lo stesso. Solo la ricerca sul campo potrà forse dirci in proposito qualche cosa di definitivo. Ma intanto dobbiamo prendere nota che la socializzazione ininterrotta anche per gli adulti viene gestita non più da gruppi primari, che si conoscono per relazioni a faccia a faccia, come i familiari, ma da attori istituzionali, come insegnanti, sacerdoti, direttori del perso­ nale, oppure dagli stessi mezzi di comunicazione di massa, con il loro potere di suggestione e di seduzione con riguar­ do ai modi di pensare, di vestire, di atteggiarsi, di reagire nelle varie situazioni sociali. Non solo: la socializzazione si complica, viene gestita non più da un centro riconoscibile, individuabile e respon...

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sabile; gli stimoli aumentano in quantità e qualità; le leal­ tà dell'individuo si fanno complesse, intersecantisi (over­ lapping), a volte contraddittorie. Ciò che poteva apparire come una grande ricchezza di opzioni e di possibilità aperte all'individuo rischia ora di porsi come un'occasione non fa­ cilmente evitabile di scissione e frammentazione psicolo­ gica, deconcentrazione, confusione esistenziale. Restano in piedi interrogativi fondamentali: di quali tipi di personalità ha bisogno una data società? E quali sono le agenzie, le istituzioni che dovranno avere il compito di formare que­ sti tipi di personalità? Come è possibile evitare le ricadute più negative del lavoro precario? E sperabile che si possano elaborare modelli di socializzazione in grado di adattare positivamente gli individui alle esigenze del sistema sociale, senza sacrificarne l'intelligenza creativa, lo spirito critico, l'inventività e la fantasia personale? Nessun dubbio che lo scopo finale dei processi di socia­ lizzazione consista nel creare dei cittadini, vale a dire degli individui capaci di vivere con un grado accettabile di sod­ disfazione nel quadro della loro nazione di appartenenza. Nella situazione attuale del pianeta, quando con le comu­ nicazioni elettronicamente assistite è possibile trasmettere messaggi a grande distanza in tempo reale, appare desueto e forse dannoso il concetto di nazione chiusa in se stessa, tanto da degradarsi e finire nella lamentevole deriva na­ zionalistica. Il concetto di nazione e di appartenenza oggi accettabile sembra essere quello di nazione aperta, dispo­ nibile per un incontro fra popoli diversi e per un dialogo sistematico fra le culture e le religioni, pronta ad accogliere immigrati in cerca di lavoro e rifugiati politici in cerca di ...

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sicurezza. Alla memoria del singolo individuo la nazione reca l'apporto importante della memoria collettiva, confer­ mata dalla convergenza e dalla condivisione della lingua, credo religioso, coscienza storica, premessa essenziale per il passaggio dall'identità individuale all'identità nazionale. Una cautela in proposito è stata espressa richiamando gli "abusi della memoria", quando questa sia occasione di ri­ gurgiti nazionalistici, se non di veri e propri genocidi, in nome della "pulizia etnica". Degna di altrettanta cura, ai fini della preservazione della memoria storica, è "la tentazione dell'oblio".

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