La seconda vita di Abram Potz 9788855290357, 9788855292788

"Ho ucciso un uomo che non mi aveva fatto nulla." - Diario di Abram Potz, psicanalista ebreo, un vecchio dislo

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Italian Pages 159 [160] Year 2022

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La seconda vita di Abram Potz
 9788855290357, 9788855292788

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Foulek Ringelheim

La seconda vita di Abram Potz

Margini

Collana diretta da Filippo La Porta

Margini | 12

Foulek Ringelheim

La seconda vita di Abram Potz Traduzione italiana di Chiara Strabioli

Titolo originale La seconde vie d’Abram Potz, Espace Nord, Bruxelles 2014. © 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 12 – marzo 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-035-7 ISBN – Ebook: 978-88-5529-278-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Horror movie concept: vintage typewriter and cleaver with blood © stokkete – stock.adobe.com

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La seconda vita di Abram Potz

Ho ucciso un uomo che non mi aveva fatto niente. Io! Io, Abram Potz, con le mie mani moribonde e frigide, senza un movente apparente, ho gettato un uomo alla morte. Ho abolito un’anima. Ed ecco che questo primo delitto mi dà non dico la gioia di vivere – non chiedo tanto –, ma una ragione per differire il mio trapasso. Ho meno fretta di morire, sento in me un’alacrità nuova. Mi dico primo crimine, come si dice primo amore: le gioie dell’uno e dell’altro mi sembrano di uguale intensità, benché io abbia dimenticato il gusto del secondo. Non solo questo primo crimine mi ha procurato felicità, ma mi incita a commetterne degli altri, potrebbe non essere che il primo di una serie, ma… Ohi! Abram! Con calma! Non vedo niente nella mia biografia che mi predisponesse al crimine. Certo, ogni uomo è un potenziale assassino. Chi potrebbe affermare di non aver mai augurato la morte a nessuno? La liberazione improvvisa della pulsione di omicidio travolge le impalcature della morale come la burrasca trascina un parapetto. Attesto che uccidere è eccessivamente facile. Si fa presto a commettere un omicidio. Ora, questo pomeriggio tutto in me si è sbloccato.

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È successo così rapidamente che mi domando se sia stato un atto volontario. Ma il dubbio non mi è permesso: l’intenzione di uccidere era incontestabile. Tuttavia, senza cercare di mercanteggiare sulla mia responsabilità – cosa che non è nel mio stile –, ho l’impressione che la mia azione abbia anticipato il mio pensiero. Ma non discuto: questo omicidio l’ho voluto. Come definirlo? Più che di un crimine gratuito si tratta di un crimine fortuito. E l’avvenire mi dirà se perfetto. Alla boutique dell’albergo ho comprato un quaderno a spirale da sessantaquattro fogli quadrettati, con la copertina plastificata color blu petrolio. Ho attraversato la hall dondolando il mio bastone alla maniera di un tamburo maggiore, con un sorriso che volevo sardonico sulle mie labbra logore. Ho aspettato l’ascensore ronzando sull’aria di Alouette, gentille alouette e battendo il tempo con il mio piede destro. Nella cabina zeppa di gente sono stato premuto tutto contro un’alta donna bruna dal profumo tropicale e muschiato. I miei occhi annebbiati si trovavano all’altezza dei suoi seni gonfi di vanità che premevano per evadere dalla camicetta di seta bianca. Ella girava la testa con disgusto, le narici arricciate, come se fosse disturbata dalla presenza di un escremento. Questo non mi turba più. La repulsione che ispiro alle giovani donne mi fa esultare. Mentre rendevo un omaggio silenzioso a quelle leccornie imbevute di sole, il mio sesso – se posso qualificare così questo lembo di carne – è stato attraversato da un fremito. Cosa?, mi sono chiesto. Il sesso avrebbe dunque una memoria autonoma? Macché, era solo uno spasmo immaginario causato da una reminiscenza delle mie erezioni di una volta, proprio come un dolore folgorante ricorda al monco il braccio che gli è stato amputato. L’ascensore si è fermato al quinto piano, ho ringraziato la proprietaria di quel petto turbolento e sono uscito brontolando un non so che di impercettibile.

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Dopo un lungo bagno tiepido, mi sono seduto in accappatoio davanti alla scrivania in tek e, gli occhi incollati su un’incisione raffigurante un lago circondato da montagne dalle cime innevate, ho cercato la mia prima frase. Ho sempre curato molto la prima pagina dei miei quaderni. In tutte le cose non ho mai preso vero piacere se non nei preliminari e negli inizi. Ho sempre preferito i prolegomeni all’opera propriamente detta, il preludio alla sonata intera. È con la prima frase che si afferra il lettore per la gola o che gli si fa gettare via il libro. Ho inizialmente scritto: il demone del crimine è piombato su di me. Questa ampollosità non poteva che nauseare un lettore accorto. Poiché detesto i fallimenti, ho strappato il foglio. Sono un lettore impietoso dei miei scritti. Ho messo: “Io! Io, Abram Potz, ho ucciso!”. Il raddoppio dell’io, la forma intransitiva del più sinistro dei verbi mi sono dapprima sembrati avvincenti. Alla rilettura, non ho visto che falsa smargiasseria, ridondante e, per dirla tutta, ridicola. Ho depennato quella buffoneria e ho strappato la pagina. Alla fine, mi sono accontentato di dire semplicemente quello che avevo commesso, cioè l’omicidio di un uomo che non mi aveva fatto niente di male. Ma adesso basta tergiversare. Sono un fedele dei Viaggi di Ippocrate, un club riservato ai praticanti dell’arte di guarire, che organizza dei seminari itineranti agli antipodi, combinando ricerca scientifica e investigazione turistica, formazione continua ed evasione fugace, studio e beatitudine, riflessione e divagazione. Dall’alba al crepuscolo, in autobus, in battello, in aereo, a piedi, partiamo all’assalto delle rovine, dei templi, dei musei, dei negozi, e soprattutto del villaggio autentico e segreto al quale il volgare turista non ha accesso. Al morir del giorno, tra le cinque e le sette, i medici, sfiniti dalla fatica, si riuniscono in seminario sotto la direzione di un professore universitario, mentre i loro coniugi e amanti, stravaccati, bevono alcolici al bar dell’hotel. Essendo psicana-

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lista, non mi interesso alle malattie infettive. È per solidarietà che assisto a questi bagni di noia. Mi siedo in fondo alla sala e scrivo, scrivo la qualunque. Quando la prostrazione fa calare le mie palpebre, metto la mano a visiera e faccio un sonnellino. Gli altri mi osservano di soppiatto. Nessuno ha l’audacia di interpellarmi. Il mio viso terreo e il mio sguardo funebre sono, lo so, dissuasivi. I nostri viaggi ippocratici non hanno nulla in comune con quelle incursioni mercantili e saccheggiatrici organizzate dai tour operator, che hanno trasformato il Nilo in un’autostrada a pedaggio e il Sud-Est asiatico in un lupanare. Non abbiamo niente a che vedere con quei carichi di avventurieri della domenica sbraitanti ed eterogenei riversati sulle spiagge e sui monti, né con quei reggimenti di spacconi strampalati che partono all’assalto delle foreste vergini, dove i leoni sonnolenti e indifferenti non si degnano nemmeno più di ruggire davanti alle macchine fotografiche. Viaggiatori d’élite, partiamo esclusivamente in bassa stagione. Per meglio evitare il contatto con la plebaglia turistica, discendiamo in palazzi cinque stelle. Siamo ventisei tra uomini e donne, uniti nel ricordo di gioie e dolori comuni. Tra un viaggio e l’altro si sono allacciate in seno al gruppo delle piccole amicizie, ma tanto più intense quanto più brevi. Non abbiamo il tempo di litigare. Attraverso eliminazioni successive, il gruppo ha finito per trovare una coesione. Gli scocciatori sono radiati dalla lista. Ogni anno, in autunno, ci ritroviamo all’aeroporto di Roissy, ilari come dei collegiali che partono in colonia. Io gusto poco di queste esuberanze, non sono di natura espansiva, non rido che da solo. Testimonio ai miei compagni una simpatia prudente, distante, sforzandomi di far dimenticare la mia brutta faccia. Sono nell’età dove non rimangono che gli occhi per gioire: vedo e guardo. Malgrado la mia lunga pratica di terapeuta,

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non smetto mai di imparare sulla turpitudine umana. Questo è per me il principale interesse di questi viaggi. Ne ho viste di cose! A Ouarzazate, ho visto con i miei occhi Amébe Navarro, una farmacista ninfomane e zoofila, strofinarsi fino all’orgasmo contro la gobba del dromedario che cavalcava giusto il tempo di una foto, mentre il presuntuoso animale, credendosi il dispensatore di quel piacere furtivo, si pavoneggiava, sfoggiando un sorriso di stupefacente fatuità. A Santo Domingo, celato dietro un giornale, ho visto Simon Zorgman, un radiologo panciuto, scivolare nella camera di Betty Baguette, trentadue anni, giudice istruttorio, scheletrica moglie di Maurice Levaque, un radiologo irascibile; l’indomani mattina, durante la colazione, Levaque si è alzato e ha urlato che Zorgman non era che un porco circonciso e Betty una puttana di cui lui faceva dono a tutti i maschi del gruppo; ho saputo più tardi – nel nostro circolo tutto finisce per venirsi a sapere – che Levaque aveva passato quella notte nel letto di Veronique Mistral, una poetessa, moglie di Simon Zorgman. Questo vaudeville non ha fatto che rinforzare la mia convinzione che il sesso porti il mondo alla sua perdizione. Un giorno, a Canton, nel pullman, un oncologo rinomato e un eminente avvocato d’affari, che si contendevano il privilegio di occupare il sedile a fianco del conducente, si sono battuti a sangue come due monellacci. Esclusi dal gruppo. Mi ricordo con tristezza di Noè Tzitrîne, un cardiologo di cinquantadue anni, ebreo, scapolo, asmatico, pieno zeppo di nevrosi; quest’uomo enigmatico viaggiava solamente se accompagnato da sua madre, con la quale divideva la camera; questa madre folle non permetteva a nessuna donna di avvicinare suo figlio; una notte, in un rifugio ai piedi dell’Himalaya, dopo una violenta lite, Noè Tzitrîne ha sbattuto la porta della sua camera (oserei dire incestuosa) ed è andato a rifugiarsi in un ashram dove si è convertito al buddhismo e dove si trova ancora. Un giorno, in un pomeriggio di caldo opprimente, salivo le scale dell’Hotel Oriental a Bangkok in

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compagnia di Juliette Grouchka, una graziosa agopuntrice di origine bulgara che abitava a Compiègne, viva di spirito quanto di corpo; ci scambiavamo dei calembour quando, di colpo, lei ha avuto un singhiozzo, si è addossata al muro, proprio accanto alla foto del principe Ranieri di Monaco, e si è accasciata sui gradini di marmo; ammirando le sue cosce muscolose, mi sono inginocchiato e le ho fatto un bocca a bocca frenetico, vorace e penetrante, mentre le mie mani impastavano i suoi seni teneri come brioches; gli altri accorrevano; ho rimpatriato le mie mani e ho preso l’aria afflitta che le circostanze richiedevano. Perché la morte ha colpito quella giovane donna così spirituale e non me, che ero pertanto designato per essere la sua preda naturale? La morte è un giudice iniquo e incoerente, è tutto ciò che si può dire; ed è dire poco. Una sera a Luxor, in riva al Nilo, meditavo sulla mia fine prossima, ammaliato dall’oscura bellezza del fiume leggendario, ecc., quando ho sentito quei sospiri mostruosi che solo le voluttà abiette strappano agli uomini; qualche istante più tardi ho visto Maurice Moufflot – un reumatologo dalla barba bianca, membro del consiglio dell’ordine dei medici, presidente di un comitato etico, che ci ripeteva senza tregua la sua felicità di essere nonno e la sua indignazione di fronte all’indulgenza dei tribunali al riguardo dei pedofili –, l’ho visto uscire da un cespuglio, seguito da un ragazzino di otto anni vestito di stracci. Scrivo queste righe a Ciudad de Guatemala. È in Guatemala, il paese dei Quiché e dei Maya, inventori dello zero, che ho trucidato il mio uomo. I miei compagni di viaggio saranno, suppongo, chiamati a testimoniare al mio processo. Sono curioso di vedere chi testimonierà contro e chi a favore. Il gruppo conta tre generalisti, un neurologo, un anestesista, due pediatri, due oftalmologi, un ginecologo, un omeopata, un dermatologo, due dentisti: un policlinico ambulante. Bisogna aggiungere congiunti o concubine: un’antiquaria, un notaio, una detec-

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tive, un’architetta, un giudice stogato, una procuratrice della Repubblica, una sociologa, un banditore d’asta, una farmacista. Per ciò che concerne costumi e caratteri, ho rilevato: un mitomane, un maniacodepressivo, due alcolisti, un bigotto, un’esibizionista, una ninfomane, un guardone (io). Antoine R., dermatologo, compone giorno e notte dei poemi elegiaci che ci legge al microfono del pullman; ci canta delle canzoni di Mouloudji e Brassens. Jean-Lou Delagrange, notaio bretone, che si vanta di essere uno degli ultimi marxisti ortodossi viventi, ci recitava, con una dizione magnifica, il Manifesto del partito comunista; non meritava la sorte funesta che fu la sua, ci tornerò su. Non posso dimenticare Penelope P., un’antiquaria rossa di origine russa, indolente e distratta; un giorno, in un ristorante, ho aperto la porta dei gabinetti turchi: lei era là, accucciata, che si aspergeva la fica con un tubo di caucciù; ha gridato come una bestia ferita, ho immediatamente richiuso la porta e ho gioito di un raro momento di gaiezza. In seguito, ho avuto un bel profondermi in scuse, a dirle che lei si trovava nel bagno degli uomini, che non avevo visto nulla di indecente: non mi saluta più. Avevo un debole per Marianne W., pediatra di origine romena, una donna affascinante, disegnatrice di talento; mi ha per lungo tempo testimoniato una benevolenza sprovvista di compassione; la adoravo, ma è scesa nella mia stima il giorno che ha preso come amante Augustin Goth, un vecchio giudice che ha lasciato la magistratura in circostanze oscure sulle quali ha sempre rifiutato di spiegarsi; qualcosa mi dice che è stato destituito per qualche infamia. Questo losco leguleio, malvagio, imbevuto della sua persona, afflitto da uno strabismo divergente, mi odia; è un antisemita. L’equilibrio di questo gruppo aleatorio si deve al carisma di Jean-Sim, un dirigente di settant’anni, autoritario, gioviale e tenero; egli è l’organizzatore meticoloso delle nostre spedizioni; mai intoppi o ritardi; mi stima, è reciproco. Insiste sem-

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pre perché io partecipi al viaggio seguente; senza di me, egli sarebbe il più vecchio del gruppo, cosa che, credetemi, non è una posizione invidiabile. È arrivato il momento di dire qualcosa su di me. Sono uno psicanalista ebreo aschenazita in via di decomposizione, dalla memoria declinante, dall’intelligenza affannata, dal sesso infermo. Esiste una relazione di causalità tra il mio giudaismo e il mio atto criminale? Non credo. Non si tratta di un crimine ebreo, anche se la questione ebraica è un tale enigma che mi guardo bene dall’essere troppo perentorio. La criminalità violenta non fa parte della tradizione ebraica europea, se si eccettua l’immolazione pasquale di bambini cristiani, il cui sangue serviva alla fabbricazione del tradizionale pane azzimo. Abbiamo pagato abbastanza per questi crimini immaginari. Che cos’è un crimine giudeo? Lascio la domanda in sospeso. Ho menzionato il mio giudaismo solo per uno scrupolo di chiarezza: non vorrei si credesse che mi vergogni delle mie origini. La caratteristica essenziale del mio crimine, quello che fa la sua originalità, è la mia età: ho ottantasei anni. È un crimine da vecchio. Ottantasei, sì. Ogni volta che dico la mia età, mi stupisco, non realizzo subito che è di me che parlo. Non ho più denti né capelli. Le mie ossa sono porose. Cammino gobbo, spesso con un bastone, ma va bene, va bene… Non so esattamente cosa voglia dire aver vissuto. Se guardo indietro per cercare di cogliere con uno sguardo il mio passato, vedo un mare immobile e nero, dove tutto è inghiottito. Niente ha contato, tutto è sparito, niente ha avuto luogo. Davanti a me, una spessa nebbia sospesa sul vuoto. Arrivato in Guatemala domenica 2 novembre 1998, oggi è mercoledì. Questi tre giorni mi appaiono come l’annuncio di una seconda vita. Un piccolo supplemento di esistenza non si rifiuta.

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La mia intenzione è di dire la verità, ma non voglio giurarci. Jougou Fef. Ritorno dunque al 2 novembre.

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Domenica 2 novembre

Arrivo a Ciudad de Guatemala, Hotel Los Americas, alle due del mattino, dopo un sudicio scalo a Houston (Texas). Colazione alle sette, dopo quattro ore di un magro sonno. Il pullman parte alle otto. Come ogni mattina, mi meraviglio di essere ancora in vita; faccio l’inventario dei miei dolori. Tra sei mesi avrò ottantasette anni. Ho oltrepassato di otto anni il limite della speranza di vita dell’uomo occidentale e attesto che, oltre questo limite, si cade nella disperazione. Non ho più conosciuto una donna da… Come dice il primo eunuco nella nona lettera persiana di Montesquieu, «sono separato per sempre da me stesso». Il dramma è che nella mia testa ho trent’anni; non ho coscienza della mia decadenza fisica. Se vedo passare una donna per strada, il mio primo riflesso è di lanciarmi alla sua conquista, ma la mia artrosi mi richiama all’ordine. Oh giovinezza nemica! Odio i giovani tanto quanto faccio loro orrore. Noi siamo fatti per odiarci: loro sono ciò che io fui, io sono quello che loro saranno. Quando ero giovane, i vecchi mi ispiravano una ripugnanza insormontabile, mi facevano paura.

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Ora è il mio turno di fare orrore ai giovani. Il mio naso, dalla curvatura sospetta, si ammoscia, la sua estremità va incontro al mio mento che si solleva come una vecchia suola. Si direbbe che abbia ingoiato le mie labbra. I lobi delle mie orecchie si sono allungati. La pelle del mio viso si è crepata. Sono brutto. Puzzo di morte, lo indovino dalla faccia delle persone che frequento e, a dire il vero, lo sento io stesso. In queste condizioni, a che pro eternizzarmi? Sono quell’ospite indesiderato che si incrosta in casa e che solo le buone maniere impediscono di sbattere fuori. Vieillesse oblige: bisogna onorare i vecchi, la morale è la mia salvaguardia. Dovrei avere la nobiltà di andarmene volontariamente, ma gli atti di coraggio non sono mai stati il mio marchio di fabbrica. Restano i viaggi: formano la gioventù e portano a compimento i vecchi. Ingoio la mia amarezza come catarro e viaggio. Nel bus, sono stato costretto a dividere il sedile con l’abominevole Lucienne Groulard, una cardiologa di sessantotto anni dalla carnagione giallastra, una virago labbruta e baffuta, dall’imene infrangibile e ammuffito, che ostenta la sua verginità come un certificato di buona vita e buona condotta, una legione d’onore. Il suo braccio destro si accaparrava il bracciolo di mezzo. Io mi incavavo e mi rattrappivo per non toccarla. Dopo la partenza del bus, si è messa a grugnire come una scrofa, a scatarrare, a ispezionarsi i denti con la lingua. Per non sentire più questi gargarismi, ho fischiettato il ritornello de Il ponte sul fiume Kwai. Mi ha lanciato uno sguardo scandalizzato. Ho battuto in ritirata, rifiutando di lasciarmi trascinare in questo gioco da cretini. Ho spento il mio apparecchio acustico, privandomi delle spiegazioni della guida locale, Lucrecia, che ci parlava di Rigoberta Menchú, pasionaria dei contadini guatemaltechi e premio Nobel per la pace. Mi sono rifugiato nella pace profonda della mia sordità.

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Prima tappa: il museo archeologico. Mentre i miei compagni andavano a contemplare le urne funerarie maya, io ho passeggiato nel parco Aurora. Da quando sono diventato io stesso un pezzo da museo, gli ossari delle civiltà scomparse mi deprimono. D’altronde, le visite ai musei mi hanno sempre scocciato; oso, oggi, confessarlo senza vergogna. Si vedrà in questo una prova in più della mia senilità, non me ne importa. Non mi rovinerò gli ultimi momenti sulla terra infliggendomi delle corvée culturali. La mia scolarità è finita, per Dio. Gli altri mi seguirebbero se potessero, ma sono prigionieri dei loro doveri turistici. È proibito loro di eludere gli ineludibili. Fare il Guatemala senza fare il museo archeologico? Un crimine turistico assoluto. Sono tornati trenta minuti dopo e mi hanno assicurato, con gli occhi rovesciati, che avevo perso qualcosa di straordinario… di indicibile. Ho riguadagnato il mio posto vicino a Lucienne, che ha ripreso il suo raschiamento dentale e orale. Sudava, la sua maglietta si incollava alle sue mammelle, la sua guancia flaccida e segnata dalla couperose riluceva di sudore. I suoi afrori mi soffocavano. Ho rigirato a lungo una frase nella mia testa: “Signora, il drenaggio della vostra fogna sta facendo impazzire le mosche merdaiole”. Non ho avuto il coraggio di dirglielo. La vecchiaia ci rende dei codardi. Seconda tappa: il museo Popol Vuh, nel campus dell’Università Francisco Marroquín, dove si possono ammirare le vestigia delle civiltà Maya-Quiché. Ho addossato la mia schiena contro un muro rovente e, appoggiandomi al mio bastone, mi sono lasciato scivolare al suolo. Il selciato era caldo. Ho esposto la mia osteoporosi al sole. Mi sono addormentato e ho sognato che dormivo sul ventre di una gigantessa, i piedi nudi nel suo vello, la testa all’ombra dei suoi seni. Mi sono svegliato nel momento in cui un turista italiano gettava una monetina nel mio panama che era rotolato al suolo. Abbiamo riso del suo equivoco e mi

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ha aiutato a rimettermi in piedi. La mia dentiera superiore si era staccata. Mi sono diretto a passettini verso il pullman, maledicendo il mio protesista, Nicolas Nabokov, che sostiene di essere un lontano cugino di Vladimir. Aspettando il ritorno dei miei compagni, ho scambiato con Danielito, il nostro autista, qualche parola in spagnolo. La sua faccia potrebbe servire da matrice per il confezionamento di maschere maya: capigliatura nera e liscia, fronte bassa, naso arcuato, zigomi pronunciati, labbra spesse. Mi fa segno di seguirlo all’interno del pullman. Mi trascina dietro e mi mostra con un sorriso trionfante i due sedili in fondo che ha liberato per me dalle casse che li ingombravano. Aveva visto il mio martirio nel suo grande specchio retrovisore interno. Gli ho lanciato uno sguardo di gratitudine. Ha rifiutato la banconota che gli tendevo: la fratellanza non si monetizza. Questi gesti rari attenuano un po’ la mia amarezza. Abbiamo ripreso la strada per Antigua, a quarantacinque chilometri. Adesso, ero seduto dietro a Claude e Claudine, una coppia di dentisti cinquantenni. Lui è magro, amabile e burlone; lei è esile, elegante e sognatrice. Questi sono degli adepti adatti. Avendo assistito al mio supplizio vicino all’innominabile matrona, mi hanno accolto con i riguardi dovuti alla vittima di un errore giudiziario. Malgrado l’abisso dei trentacinque anni che ci separano, Claudine mi dà del tu con una spontaneità che mi incanta. Quando si è a tu per tu con la morte, il darsi del tu con una giovane donna è una cosa inestimabile. Mi ha detto: – Ebbene! Crudele Abram, abbandoni la cara Lucienne? – Mi ha fatto delle proposte contro natura… Lei mi ha mostrato i suoi bei denti bianchi. All’uscita dalla città abbiamo avuto diritto a una sosta per le foto sulla cresta a strapiombo sulle bidonville selvagge che si accatastano sul fianco della collina tra le discariche pubbliche.

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Nessuno è uscito dal pullman per via della puzza e per paura di aggressioni. Hanno filmato la miseria attraverso i vetri. I reumatismi mi triturano le spalle già abbastanza, senza che io mi ingombri anche di una macchina fotografica. Si fanno delle foto per arredare l’avvenire. Ora, di avvenire, io non ne ho più, il mio valore attuariale è nullo, sono statisticamente morto. Le immagini del mio passato mi pietrificano, la nostalgia mi dà la nausea. Ho buttato le mie foto e ho venduto la mia macchina fotografica. Passeggio a mani libere. Senza macchina fotografica devo avere l’aria di un falso turista: vengo guardato con sospetto. Antigua è una piccola città rosa, dalle vie strette, dalle case basse. Abbiamo pranzato in un ristorante, Las Antorchas, gestito da due giovani francesi di Tolosa. La mia dentiera mi segava le gengive, non ho potuto mangiare. Ero allo stremo delle forze. Ho temuto per un momento che il mio stimolatore cardiaco fosse andato in panne, talmente le pulsazioni erano rallentate. Mi sono chiesto se la morte non stesse per prendermi, ed ero più curioso che inquieto. Ho schivato la visita al negozio di giade e ho raggiunto a piccoli passi la mia camera nell’Hotel Ramada. Le mie dita tremavano a tal punto che non riuscivo a infilare la chiave nella serratura. Una giovane cameriera che passava ha avuto pietà di me e mi ha preso dolcemente la chiave dalle mani. È inoffensivo, un vecchietto. Al minimo gesto fuori posto, poteva sbattermi a terra con due dita. Mentre si piegava verso la serratura, morivo dalla voglia di baciare la sua nuca bruna e pubescente, leggermente umida. Avrei potuto creparne. Sarebbe stata una bella morte. Ho preso un sonnifero. Ogni sera, quando mi metto a letto, penso che ho delle serie probabilità di non risvegliarmi. Allora, in ogni caso, mi dico addio.

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Lunedì 3 novembre

Ore 8:00 Poiché zoppicavo verso il pullman, Augustin Goth, l’ex giudice losco, mi ha raggiunto e ha avviato la conversazione con un tono paterno. Aveva già fatto qualche tentativo, fermamente respinto. Dal primo incontro, questo falso disinvolto mi è stato assolutamente antipatico. Quello sguardo da giudice, inquisitore e sardonico, che posa sul suo interlocutore mi esaspera. L’interesse che mi manifesta non mi piace. Mi ha lanciato un: “Come va Potz?”. Ho risposto: “Così”. Ha dichiarato che faceva bel tempo e io ho detto che la sua osservazione mi sembrava pertinente. Ha riso imbarazzato. Mi ha chiesto se praticavo ancora. “Se non sono indiscreto, certo”, ha aggiunto. Non era il primo a pormi questa detestabile domanda. Io ho una risposta già pronta, che, generalmente, taglia corto l’interrogatorio: – Di quale pratica parli, Goth? La religione? Sono un ebreo ateo. Il sesso? Do una bottarella due volte alla settimana. Uno sport? Karatè la domenica mattina. La psicoanalisi? Sì, pratico ancora, ma – non lo dire a nessuno – visti i miei problemi, sono io a sdraiarmi sul lettino. Mi ha detto che apprezzava molto il mio senso dell’umorismo, ma nascondeva male il suo dispetto. Sono passato al contro­ interrogatorio:

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– Visto che siamo arrivati alle confidenze; quanto a te, Goth, se non sono indiscreto, perché hai rinunciato a giudicare i tuoi simili? Si è accigliato, come se smuovessi dei brutti ricordi, uno scandalo insabbiato, un’omissione di atti d’ufficio… Se l’è cavata con una battuta perfida: – Chi ti dice che dei giudicabili siano miei simili? Era per la sua sufficienza? Per il suo ghigno? Per il suo sguardo torvo? Mi ha preso la collera, e per la prima volta nella mia vita ho provato un desiderio di omicidio. Non un augurio di morte astratto, sorto dal furore e che sparisce con esso, ma una fervente volontà di sopprimere con le mie mani un individuo nocivo. L’idea che lui potesse sopravvivermi una trentina d’anni mi era intollerabile, e non sopportavo il pensiero che Marianne, una donna così delicata, potesse dividere il letto di un tale cafone. Non potevamo più sbagliarci riguardo ai nostri sentimenti reciproci. C’eravamo fatti una dichiarazione tacita, ma indubbia, di ostilità totale. Ha sentito che sarebbe stato inopportuno da parte sua aiutarmi a salire sul bus. D’altro canto, il mio amico Danielito mi tendeva la mano. Ho guadagnato il fondo del pullman, senza dimenticare di inviare all’immonda Lucienne, mentre passavo, uno sguardo nel quale avevo concentrato tutto il mio disprezzo. Non conosco un luogo più propizio allo sfogo collettivo, al degenerare della condotta, all’oblio di ogni pudore, dello spazio chiuso di un pullman traballante sotto i tropici. La trascuratezza della tenuta favorisce lo sbraco dello spirito. Là il ridicolo non solo non uccide, ma magnifica chi vi si compiace. La più scialba idiozia fa ridere e il suo autore è ammirato. Vi si rivendica, come un diritto dell’uomo, la libertà di fare gli scemi. Ho visto un reportage televisivo su un centro di risataterapia dove si cura lo stress con il ridere; i pazienti, disposti

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in cerchio intorno al risata-terapeuta, urlano e si contorcono dal ridere fino allo sfinimento. È a questo che assomiglia il nostro autobus. Non ho niente contro l’allegria, purché questa si esprima degnamente. Seppure io non abbia più animo di ridere, riconosco agli altri il diritto di divertirsi. Quello che non sopporto è lo sghignazzare tonante e totalitario. Questo essere che nitrisce, che abbaia, che singhiozza, dandosi pacche sulle cosce, la faccia congestionata, gli occhi strabuzzati, non ha più niente di umano. Non venitemi a dire che quel ridere lì è proprio dell’uomo; lo rispedisce a un rango inferiore a quello della bestia rabbiosa. Dimostrazione questa mattina. Viaggiavamo in una regione montagnosa, sotto un sole demenziale. Attraversando la piazza di un paesino, siamo passati vicino a un gruppo di donne che danzavano in costume tradizionale quiché. All’uscita dal paese, Jules, un ginecologo, abitualmente riservato, ha gridato: “Eh, amici! Ci facciamo una Quiché lorraine a pranzo?”, scatenando un tornado di risate. Approfittando di una tregua, il banditore d’asta Antoine ha urlato: “E la Quiché lorraine avrà le strisce come l’ape Maya? Eh?”. Uragano di risate. La voce stridula di Amélie, la farmacista zoofila, ha forato il tumulto: “Ma no, gente, facciamoci noi una striscia”. Ero costernato nel vedere che persino Claudine e Marianne, che consideravo donne di spirito, ridevano di quelle volgarità. Irritata dalla mia aria cupa, Claudine mi ha supplicato di non fare quella faccia da guastafeste; Marianne ha aggiunto che ero più sinistro di Buster Keaton. Decisamente, non valevano più delle altre. Che cosa mi ero dunque immaginato? Quelle giovani signore erano dalla loro parte. Ero assolutamente solo. Ho avuto la presenza di spirito di dissimulare la mia riprovazione. Gli ho sorriso per entrare nelle loro grazie. Prudenza!

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Nel mezzo del villaggio, il pullman è stato bloccato da una folla che si recava al mercato. Una bambina di dieci anni, in piedi sul ciglio della strada, i piedi nudi nel fango, le ginocchia sbucciate, il collo di una gallina che si contorceva e sbatteva il becco stretto sotto l’ascella sinistra, mi fissava con i suoi occhi impassibili. Bruscamente, mi ha preso il desiderio di adottarla e di farne la mia erede. Ma, lei e me, non eravamo sullo stesso pianeta. Ho distolto lo sguardo. Sono quindi ancora capace di provare delle emozioni. Arrivo la sera a Chichi (Chichicastenango) dopo sette ore di strada estenuante. Jean-Sim mi ha quasi portato in braccio fino alla mia camera. Djem Dja!

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Martedì 4 novembre

Ore 9:00 Esplosione del carnevale indio al mercato di Chichicastenango. Assolutamente da vedere, dicono le guide. Chi non ha visto questo, non ha visto nulla del Guatemala. Ballerini con costumi gialli e rossi, che indossano delle maschere maya, acconciati con piume di struzzo, volteggiano in pieno sole come delle trottole, percuotendo la terra con i loro stivali. In piedi sui gradini di una chiesa, un accordéon, una tromba e un tamburo imprimono ai corpi agglutinati un ritmo sincopato; tutti quanti, turisti compresi, dondolano a tempo. Difficile resistere, il corpo si mette da solo in movimento. Dappertutto si spande un acre fumo d’incenso. Schiacciato tra i fondoschiena e le pance delle grasse indie che ancheggiavano, trascinato come un pezzo di legno in un fiume vorticoso, andavo alla deriva nei mulinelli, perdevo piede, avevo dei sudori di ansia, soffocavo, avevo paura di farmi calpestare, il mio cuore si è ingolfato. Avevo previsto tutto eccetto una morte carnevalesca. Giocando di gomito, sono riuscito a estirparmi dalla massa tumultuosa. Ho appoggiato la mia fronte contro un muro e ho aspettato, rantolando, che il mio cuore si calmasse. Sono andato per le strade deserte fino a Santo Tomás, chiesa del XVI secolo. Sul sagrato, bruciava del copale dentro a dei

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barattoli di conserva. All’interno il pavimento era coperto di petali di rose e di spighe di mais. Una vecchia accucciata beveva acquavite dal collo di una bottiglia. Mi sono seduto per terra contro la parete, di fronte a un Cristo in legno dipinto, scuro come un indio, che sfoggiava una barba da conquistador, con la corona di spine cosparsa di fiori porpora, posata su un foulard arancione i cui lembi sventolavano sul suo torso lucente; gli avevano annodato attorno alla vita un pareo violetto a frange gialle che gli copriva le ginocchia. Mi sono assopito guardando questo Cristo farsesco che non aveva più niente di ebreo. Le esclamazioni dei miei compagni di viaggio mi hanno svegliato. Ero inchiodato al suolo come Gregorio Samsa dopo la sua metamorfosi. Non mi sarei potuto rialzare se non al prezzo di contorsioni complicate, penose e umilianti. Era fuori questione offrir loro la mia decrepitezza in spettacolo. Ma si dirigevano già verso l’uscita senza curarsi di me. Se avessero potuto, mi avrebbero abbandonato lì, come un rifiuto, e avrebbero proseguito il loro viaggio, sollevati per essersi sbarazzati di un guastafeste. Maledetti giovani! Jean-Sim ha colto la mia frustrazione. Dopo che se ne erano andati, mi ha rialzato con precauzione e mi ha accompagnato fino al bus. Isolato nel mio angolo, in fondo all’autobus, mentre osservavo le nuche dei miei compagni, immaginavo delle disgrazie abbattersi su di loro, uno dopo l’altro, come le piaghe d’Egitto: Thomas, il gigolò dei thè danzanti, colpito da impotenza; la calda Amélie da frigidità; Hadrien, l’efebo delle piscine pubbliche, da paraplegia; Hector, il Cicerone delle periferie, da afasia; Antoine, la memoria prodigiosa, da amnesia; il giudice Goth condannato a cinque anni di prigione per corruzione; Lucienne violentata da una tribù di scimpanzé guatemaltechi… Formulavo dei terribili ex voto. Poi, fatalmente, ho pensato alla mia morte, tanto improbabile quanto imminente. Basterebbe una scossa, la rottura di un filo qualunque… Non riesco a pensare

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alla mia scomparsa, alla mia non esistenza. Non essere più, in nessun luogo… L’inferno? Ma ci sono già. L’inferno sono gli altri, ha detto Sartre, mettendo, con questo aforisma cristallino, mille pagine di filosofia pratica alla portata degli imbecilli. Ne verifico ogni giorno la verità. Avendo esperito tutte le porcate dell’alterità sotto tutte le sue forme, mi permetto di aggiungere questa postilla: l’inferno sono i giovani. Un sole arancione tramontava sul lago Atitlán quando siamo arrivati a Panajachel. Prima di raggiungere la mia camera, ho bevuto un vermut al bar. Era la prima volta dopo dieci anni che prendevo un alcolico. Avevo deciso di farla finita con le privazioni alle quali i medici condannano i vecchi, frustrandoli dei rari piaceri che la vita può ancora donare loro. Si prolunga così una esistenza insipida della quale loro dovrebbero, se avessero buon senso, implorare di essere liberati al più presto. Goth si è seduto a fianco a me e mi ha porto il suo pacchetto di Gauloises, le sigarette dei miei vent’anni. Il suo strabismo gli conferiva un’aria profondamente da coglione. Ho smesso di fumare da trent’anni, lui lo sapeva. Voleva forse affrettare la mia morte, il furbo? In ogni caso, la sua offerta cadeva a proposito. Ho preso una sigaretta e, per non fargli credere di poter comprare la mia simpatia con una cicca, ho terminato il mio vermut, l’ho salutato e l’ho piantato lì. La sigaretta ha ripreso il suo posto tra il mio dito indice e il medio. La parte migliore della nostra memoria è fuori di noi, ha detto il sublime cercatore del Tempo perduto. Il primo tiro ha riportato la nausea della mia prima sigaretta, il secondo mi ha restituito gli aromi della mia prima notte d’amore. Un po’ d’alcol, un po’ di tabacco… e perché no, un po’ di sesso? Il Viagra, questo maschio afrodisiaco dei tempi moderni, non è fatto per i giovani, del resto… E poiché bisogna morire prima o poi, tanto vale che sia con un’erezione… Ho incontrato Jean-Sim davanti agli ascensori. L’ho avvisato che avrei rinunciato all’escursione

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dell’indomani mattina, che desideravo riposarmi. Nulla mi lasciava presagire che l’indomani avrei ucciso un uomo.

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Mercoledì 5 novembre

Indugiato a letto fino alle 9. Alle 10 la sala da pranzo era deserta, erano tutti in manovra sui siti. Ho preso le mie cinque compresse numerate del mattino: un diuretico, un antidepressivo, un ansiolitico, un lassativo, un betabloccante. Ho acceso una sigaretta e ho fatto dei cerchi di fumo mentre bevevo il mio caffè.

Ore 11:00 Ritorno in camera mia. Le mani appoggiate al lavandino, ho affrontato il più tranquillamente possibile il riflesso del mio viso nello specchio del bagno. Ho guardato questa faccia screpolata, arrugginita, cosparsa di cacche di mosca, questo cranio ingiallito e bitorzoluto, questi occhi glauchi e pesti, questa pappagorgia rinsecchita che mi fa un collo da tartaruga, questa crepa a cui si riduce la mia bocca. Che massacro! Nessun chirurgo potrebbe riparare questa carogna. Sono positivamente orrendo. La metamorfosi mi ha preso a tradimento. Ogni mattina il mio specchio mi mostrava la stessa immagine del giorno prima, celandomi i progressi della mia lebbra. Un giorno, mi sono visto in una foto a colori, ho visto le mie rughe, i miei

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capelli radi e bianchi, le mie chiazze, la mia pelle livida. Allora il mio specchio ha smesso di mentirmi, come se avesse atteso che io scoprissi altrove la triste realtà. L’autoderisione è il mio antidoto contro l’esecrabile autocompassione. Ho gonfiato le guance tirando fuori la punta della lingua. Mi sono curvato sul mio bastone, come l’ebreo a tre zampe di Baudelaire, i cui versi sembrano fatti per me: Il n’était pas voûté, mais cassé, son échine Faisait (mm mm mm) un parfait angle droit, (mmm m mm) son bâton, parachevant sa mine Lui donnait (mm mmm mm) le pas maladroit D’un quadrupède infirme ou d’un juif à trois pattes.1

La mia memoria incespica ma resiste, vi si scavano dei buchi come delle carie ma lei tiene duro. Ho giocato i miei ricordi e le mie dimenticanze a pigeon vole. Questo gioco consiste nel lanciare una parola a guisa d’amo: se riporta un ricordo si vince. La carriola di mio padre: ricordato; il viaggio dell’anno scorso: dimenticato; Ponthir, il mio professore di latino dai baffi da colonnello inglese: ricordato; la scommessa di Pascal: dimenticata; Édith Piaf, la mia penna Pelikan a righe verdi, il completo blu del mio bar mitzvah, le pilloline Carter per il fegato, la brillantina Roja: sì; il mio gruppo sanguigno, il teorema di Pitagora, il nome di Flaubert: dimenticati, ecc. Per un bilancio più oggettivo, dovrei farmi interrogare da terzi. Sono uscito nudo sul balcone della mia camera, provocando la fuga di una donna che prendeva aria alla sua finestra. Il cie-

1.  «Non era curvo, ma spezzato: la sua schiena / formava con le gambe un perfetto angolo retto, / tanto che il suo bastone, completando il suo aspetto / gli dava l’aria e la goffa andatura / d’un quadrupede infermo o di un ebreo a tre zampe» (Ch. Baudelaire, Les sept vieillards, in Id., Le fleurs du mal, XC). [N.d.T.]

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lo ghiacciato, la montagna bonaria, le acque del lago, i grandi alberi alteri, mi notificavano il mio congedo, mi intimavano di lasciar stare. Smamma, mi diceva il sole, non hai più nulla da fare qui. Ho avuto un accesso di malinconia senile: se muoio qui, sul colpo, pensavo, non sarò mai esistito, tutto continuerà come se niente fosse accaduto, la donna tornerà questa sera alla finestra e vedrà un nuovo ospite sul mio balcone, il viaggio continuerà senza di me, nessuno in nessun luogo si stupirà di non vedermi più, nessuna memoria si ricorderà di me, sarei così totalmente inesistente come prima della mia nascita, prima del mio concepimento. Credendo di avere avuto una parte principale, non sarei stato che una comparsa, invisibile nella massa. Sono rientrati a mezzogiorno dalla loro crociera a Santa Cruz La Laguna. Io sorseggiavo un vermut al bar. Marianne e Claudine hanno caritatevolmente insistito perché io partecipassi all’escursione del pomeriggio. Era mia intenzione, ma mi sono comunque fatto pregare. Ero pieno d’odio come altri sono pieni d’amore. Dopo pranzo siamo andati in montagna a duemila metri di altitudine. I panorami strappavano ai miei compagni appiccicati ai finestrini le banalità di circostanza: stupendo, fantastico, incredibile, mozzafiato, sublime, mio dio, mamma, oh, ah. Io maceravo nel mio odio. Il pullman si è fermato su uno spiazzo da dove si scopre il lago Atitlán in tutta la sua estensione. Si sono precipitati fuori brandendo le loro macchine fotografiche. Il mio odio era cotto a puntino. Sono spariti dietro una grande roccia. Ramon, l’autista, mi ha aiutato a scendere dal pullman. Soffiava un vento freddo chiamato Xocomil. Come mi sono avvicinato, col fiato corto, alla grande roccia, loro tornavano già indietro, avendo fatto il pieno di stereotipi. Qualcuno mi ha apostrofato: “Sta attento, Abram, non t’avvicinare troppo al precipizio”. Dietro il masso, una piattaforma sovrastava il lago e la corona di vulcani che lo circonda. Un tipo alto stava

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in piedi sull’orlo del baratro, gambe allargate, mani sui fianchi. Portava una giacca di lino nero e un berretto di tela rosso. Plinio il Vecchio racconta che gli Sciiti uccidevano i vecchi dopo una delibera dell’Assemblea per l’assassinio degli anziani: si portavano i vegliardi condannati in cima al picco della morte e loro dovevano saltare… Ho fatto due passi in avanti, col fiato sospeso. Il tipo ha mormorato: “Merda, quant’è bello…”. Ho alzato il mio bastone con due mani e gli ho dato uno spintone nell’incavo dei reni. Si è incurvato, le sue braccia hanno fatto due mulinelli ed è caduto nel vuoto senza gridare. Ho sentito il corpo rimbalzare sulla parete e qualche secondo più tardi un rumore lontano seguito da un debole eco. Voltandomi di blocco, ho perso l’equilibrio e sono caduto su una pietra piatta. Mi tremavano le gambe, mi girava la testa, il mio cuore batteva sordamente contro le costole. Questo non è davvero il momento di beccarmi un infarto, mi sono detto. Jean-Sim è apparso. Sembrava scontento e nervoso: – Ah! Eccoti qua, tu! Spicciati, tutti ti aspettano… Qualcosa non va? – Un piccolo malore, il cuore. – Beh, vai piano. Dov’è Jean-Lou? Non hai visto Jean-Lou? – No, perché? Questo perché era superfluo. Bisogna sempre che io dica una parola di troppo. Così, la sorte funesta aveva designato JeanLou Delagrange, questo notaio per bene che credeva nella lotta di classe e nella dittatura del proletariato. Ho rivisto la sagoma dell’uomo, la sua schiena larga, il suo berretto rosso, nessun dubbio, era lui. Peccato. Era ai miei occhi il più degno di stima del gruppo, ma non avevo avuto scelta. Siamo tornati verso il pullman che aspettava a motore acceso. Mi hanno guardato male. A questi giovani cretini non piacciono i ritardatari. Volevano farmi sentire che diventavo un peso.

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Ma io ero ben lontano dai loro mediocri problemi. Provavo un’euforia vaporosa, paragonabile all’ebbrezza che mi invase il giorno in cui fui proclamato dottore in medicina. Questa volta avevo appena conseguito il brevetto da assassino! Abbiamo aspettato Jean-Lou. Thérèse Plumard, la moglie di Jean-Lou, un’oftalmologa dagli occhi verdi, ha buttato lì, per distendere l’atmosfera e smorzare l’ostilità che si sentiva spuntare contro quel marxista di suo marito: – Vedete, è questa la dittatura del notariato: si fa aspettare il popolo… Nessuno ha avuto la cortesia di ridere. La battuta era troppo fine per questi cafoni. L’impazienza ha fatto posto all’inquietudine. Thérèse si è alzata e ha detto, con una voce strozzata: – Questo non è normale… non è da lui. Gli è successo qualcosa… Il clacson è stato suonato a lungo. Poi siamo usciti e ci siamo sparpagliati per esplorare i dintorni chiamando Jean-Lou. Le mani a megafono, non mi sgolavo meno degli altri. Dopo una mezz’ora di vane ricerche alle quali ho attivamente contribuito malgrado gli edemi che mi gonfiavano le caviglie, abbiamo deciso di rientrare in albergo e di segnalare l’inquietante sparizione alla polizia. L’autobus, silenzioso, filava nella foschia come un carro funebre. Mi sentivo svuotato del mio odio. Vedevo Thérèse piangere con discrezione. Ho rimpianto che il giudice Goth o Lucienne non si fossero trovati al posto di Jean-Lou. Arrivando all’albergo, è stata chiamata la polizia. Dopo aver dormito due ore, sono sceso per comprare un quaderno alla boutique dell’albergo. Avevo bisogno di scrivere per calmare la frenesia che mi percorreva come una febbre. In seguito, nell’ascensore pieno zeppo, ho avuto la fortuna di venire premuto contro il petto impetuoso di una donna bruna dal profumo selvaggio.

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L’una di notte Insonnia. Che succederà? Non ho lasciato alcun indizio e non c’è nessun testimone oculare, benché tutti fossero presenti sul luogo. Si può sperare in un alibi migliore? Perché i sospetti dovrebbero dirigersi su un vecchietto malaticcio, mezzo defunto, a malapena capace di tenere il suo bastone? E quale potrebbe essere il mio movente? No, il mio crimine è più che perfetto. Perché sia fatta giustizia, sarebbe necessario che io mi costituisca. Niente confessione, niente sentenza. Ora, io proprio ci tengo a questo processo, lo voglio. Lì risiede forse il mio movente segreto. Che cosa mi aspetto da un processo? Non mi preoccupo di reclamare il mio diritto a un giusto castigo, come direbbe Hegel. La giustizia degli uomini non può nulla né per me, né contro di me. La mia età mi mette fuori dalla portata della sua autorità, sono inaccessibile alla punizione giudiziaria. Nel mio stato, quale potrebbe essere la sua utilità? L’espiazione? Troppo tardi, sono troppo vecchio. La redenzione? Troppo tardi di nuovo, ancor di più ché la redenzione è estranea alla mia concezione dell’esistenza. L’esemplarità della pena, il suo effetto falsamente dissuasivo? Ma chi si vorrebbe dissuadere? Non si contano assassini tra i grandi vegliardi, io sono un fenomeno. E quale punizione mi si potrebbe utilmente infliggere? La morte? Io la chiedo come una grazia: la pena di vita è per me la pena capitale. La prigione? Lo accetterei come un beneficio, io che trascino la mia vita come un galeotto la sua palla al piede. La sola punizione suscettibile di colpirmi la sto scontando: è la vecchiaia. Non conosco di peggio. La società non ha decisamente niente da guadagnare e tutto da perdere in questo processo, è denaro buttato, tempo perduto, lavoro sprecato. Mentre per me, perbacco!, è tanto di guadagnato. Pensate! La pompa di una corte d’assise! Si può sognare scenografia più grandiosa per una cerimonia d’addio, per di più,

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interamente finanziata dal tesoro pubblico. Dei giudici in toga di ermellino, dei giurati tutti pervasi dalla loro importanza sociale passeggera, un procuratore ruggente che punta contro di me un indice vendicatore e villoso, un cancelliere solenne che prende atto delle repliche capitali, un avvocato che perora tutto quel che vorrà eccetto l’indulgenza, pena l’essere sconfessato; degli esperti psichiatri, quei mercenari di giustizia, gonfi di pretensione, che si pronunciano a casaccio per la responsabilità attenuata dell’accusato; i miei compagni dei Viaggi di Ippocrate che sfilano al banco dei testimoni con delle espressioni costernate; i giornalisti che spiano le reazioni dell’infame vegliardo; il pubblico astioso che dardeggia sull’accusato degli sguardi di disprezzo. Tutto questo per me, eroe sbilenco e gobbo, Quasimodo del crimine. Io, in completo blu oltremare, seduto con noncuranza tra due guardie babbee, lasciando fluttuare sulle mie labbra esangui un esasperante sorriso, risponderò pazientemente alle domande del presidente. E allorché, dopo la chiusura del dibattimento, egli mi chiederà pro forma se ho ancora qualcosa da aggiungere, lascerò il silenzio spandersi in aula, poi mi alzerò, avvicinerò la bocca al microfono e dirò il mio grande monologo. Comincerò col reiterare, con una finta modestia, la mia confessione e rivendicando l’intera responsabilità dei miei atti, checché abbia potuto insinuare un trio di esperti psichiatri incompetenti. Il mio tono misurato e la coerenza del mio discorso attesteranno il mio equilibrio mentale. Mi volterò verso il difensore ufficiale dell’ordine pubblico e dei buoni costumi per parlargli della vecchiaia straziata, oppressa da una gioventù ingrata, abbandonata dai poteri pubblici. Ai giurati, svelerò la grande miseria del vecchio nella nostra società dei buoni sentimenti. Denuncerò le menzogne e le palinodie dello Stato, delle Chiese, delle Sinagoghe, delle società di beneficenza. Demistificherò le omelie bavose sul rispetto per le persone anzia-

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ne. Ricorderò che la storia dell’umanità è stata anche la storia della lotta delle età. Che l’omicidio del padre non è solo una figura simbolica resa popolare dal teatro e dalla psicanalisi. Che se l’infelice Edipo fu condotto inesorabilmente al parricidio in virtù di un decreto delle potenze malefiche, non bisognerebbe dimenticare che le popolazioni antiche liquidavano, occhi negli occhi, i loro vecchi diventati improduttivi. I Dinka del Sudan li seppellivano vivi, i Ciukci della Siberia li strangolavano con una spina di foca, gli Ottentotti della Namibia e i Sioux d’America li chiudevano dentro una capanna isolata, i Tonga del Sudafrica li abbandonavano in mezzo ai rifiuti, gli Ojibwa del Canada gli spaccavano il cranio con un colpo di tomahawk, in alcune contrade del Giappone gli adulti mangiavano i vecchi per assimilare la loro saggezza… Gli dimostrerò che il geronticidio è una pratica universale che ai giorni nostri fa proprie forme oblique e civilizzate, compatibili in apparenza con la convenzione universale dei diritti dell’uomo, la quale non protegge, in verità, che i diritti dell’uomo giovane. Solo il rispetto sacrosanto dei diritti della difesa impedirà ai giudici perplessi di interrompermi. Non commetterò l’errore di misconoscere le dimostrazioni di tenerezza e compassione di cui i nostri vecchi sono oggetto, né di disdegnare i vantaggi che sono loro concessi: pensioni, medaglie, giubilei, trasporti gratuiti, assistenza sanitaria, case di riposo e pietosi funerali. Non contesterò che a volte i nostri avvizziti sono viziati. Poi sezionerò col bisturi la loro coscienza pulita borghese. Non permetterò loro di ignorare la massa sparpagliata di vecchi che non si vuole vedere, di quei vecchi dimenticati, abbandonati a una morte lenta in sordidi ospizi o in bugigattoli oscuri. Dirò il maltrattamento dei pensionati, canterò la solitudine siderale dei vegliardi. Chi tra di voi, signori giurati, esclamerò, può affermare seriamente di aver mai incontrato un vecchio felice rimasto sano di mente? Non vedete, quando camminate per

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le strade, questi esseri crepuscolari, incartapecoriti, difformi, cenciosi, trotterellare lungo i muri come dei ratti? Non sapete che nelle pieghe sinuose delle vecchie capitali, nel momento in cui io vi parlo, dei vecchi crepano di fame o di freddo? Che, quando viene l’estate, gli ospedali si riempiono di vegliardi inerti, parcheggiati dalle famiglie che partono in vacanza nutrendo la dolorosa speranza che al loro ritorno gli venga annunciato il decesso improvviso del nonno? Che nell’intimità di alcune case dove si enunciano con gravità i diritti dell’uomo, degli eredi impazienti, cittadini esemplari e perfetti melomani, riempiono di botte i loro vecchi la cui longevità appare loro come una provocazione? E che non esistono rifugi per vecchi malmenati? Che il suicidio dei vecchi è in aumento costante? Che i vecchi sono gli ultimi dannati della terra? Invertendo i ruoli, mi farò grande accusatore. Dopo di che mi risiederò, mi asciugherò la fronte col mio fazzoletto percorrendo l’aula con uno sguardo freddo, incrocerò le braccia e aspetterò il verdetto. So ancora essere lirico quando serve. Héba-beriba. Il mio nome rimarrà negli annali del crimine: Abram Potz, decano degli assassini. Mi sono addormentato soddisfatto.

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Giovedì 6 novembre

Abbiamo appreso l’orribile notizia durante la colazione: il corpo dilaniato di Jean-Lou era stato ritrovato all’alba. C’è stato un silenzio fragoroso. Thérèse ha cacciato un urlo da lupa pugnalata e si è accasciata, la testa nel suo piatto. Non avrei mai creduto che l’amasse tanto. È stata portata nella sua camera. Jean-Sim mi ha preso da parte: – Abram, tu che sei psicanalista, aiutala a elaborare il lutto, vuoi? – Conta su di me, Jean-Sim, l’elaborazione del lutto è la mia specialità. Sono andato al suo capezzale. Le ho preso la mano e ho mormorato con delle modulazioni ecclesiali le formule sovrane sulla crudeltà del destino, sull’indispensabile coraggio, sulla vita che è più forte della morte e altre idiozie consolatrici. Gli altri, attorno al letto, si raccoglievano in silenzio. Thérèse mi ha stretto la mano e mi ha dedicato un sorriso struggente. Dopo aver meditato lungamente, le sopracciglia aggrottate, ha detto con una voce esitante: – C’è qualcosa che non quadra… Jean-Lou conosceva la montagna, ha fatto alpinismo… come è potuto cadere da quella piattaforma? Non capisco…

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Ci siamo tutti scambiati degli sguardi dubbiosi. – Un malore, può darsi? Ha suggerito qualcuno. – Era in piena forma… Il disagio si tagliava con il coltello. Fissando su di me il suo sguardo da iena Goth ha detto: – Se si potesse sapere chi tra di noi l’ha visto per ultimo… L’attacco era diretto benché tacito, ma non ho battuto ciglio. Gli altri hanno espresso il loro scetticismo: sarebbe stato impossibile da stabilire, e non si vedeva a cosa questo ci potesse servire. Ho aggiunto che questo avrebbe introdotto nel gruppo la piaga del sospetto; gli altri mi hanno dato ragione. Goth non ha insistito. Avvalendomi della mia autorità di esperto del lutto, ho dichiarato che Thérèse aveva bisogno di riposo e ho invitato tutti a lasciare la camera. Nessuno di noi ci teneva a proseguire il viaggio. Abbiamo deciso di rientrare. La sera stessa eravamo all’Hotel Los Americas di Guatemala City. Jean-Sim ci ha riuniti in un salone privato e ha pronunciato una corta orazione, adeguata, pertinente, sobria, sprovvista di melensaggini. Non era Bossuet, no, ma era di una semplicità commovente. Si è astenuto dal dire che sono i migliori che se ne vanno per primi, questo fu molto apprezzato. Ci ha annunciato che aveva prenotato un volo per Parigi, l’indomani mattina. Che la destinazione del viaggio dell’anno prossimo sarà il Vietnam, ma che questo viaggio si farà con Thérèse o non si farà affatto. Lo abbiamo applaudito. Goth si è chinato verso di me e mi ha chiesto con la sua aria beffarda se io contavo di andarci. Ho risposto che solo la paralisi o la morte potrebbero impedirmi di partecipare a un Viaggio d’Ippocrate, la destinazione fosse anche l’inferno. Mi ha detto: idem per me.

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L’anno prossimo avrò ottantasette anni. Se mi è dato di vivere fin lì e di essere trasportabile, andrò in Vietnam. Spero che laggiù ci siano delle alte montagne. Quello sarà forse il mio ultimo viaggio, ma giuro che Goth farà ritorno dentro una bara.

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Lunedì 10 novembre

Sono rientrato da quattro giorni. Ho deciso di continuare il mio diario. Queste confessioni di un assassino fuori norma interesseranno i criminologi. Che sappiano che il mio crimine mi ha dato un nuovo slancio. Ho l’impressione di cominciare una seconda vita, anche se breve, per forza di cose. Le ore sono contate e il tempo che mi resta è un tempo morto. Gioco i supplementari. Fisicamente ho raggiunto la fase ultima del mio invecchiamento, la modellatura della mia maschera mortuaria è terminata, la mia faccia non cambierà più. Che fare di questa remissione nel processo di decomposizione? Un altro crimine. Altri crimini, se possibile, e senza tardare. Non posso permettermi di rimandarne l’esecuzione all’anno prossimo. Quando, al mio ritorno dal Guatemala, ho aperto la porta del mio appartamento di via Jean-Pierre Timbaud, l’odore mi ha fatto indietreggiare: un tanfo di medicinali, di sudore raffreddato, di acqua imputridita, di latte cagliato, che evocavano la mensa di un reparto di geriatria. So che la vecchiaia esala un aroma pre-cadaverico, ma non ero mai stato infastidito a tal

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punto dal mio stesso odore che aveva stagnato qui durante la mia assenza. Nessun dubbio: il mio salone puzzava di vecchio. Ho aperto le finestre e ho inalato l’aria fredda di novembre. Sono un adepto dell’introspezione. Ho imparato a sventare le insidie della falsa lucidità. Mi interrogo senza compiacenza sul mio equilibrio mentale. Dopo gli ottant’anni la demenza senile ci minaccia tutti. La decadenza fisica dà spettacolo: come se morire non bastasse, l’uomo deve dapprima marcire in piedi. La regressione mentale, quella, è progressiva e subdola. Mi osservo come un clinico implacabile e non escludo alcuna ipotesi. Lo spettro dell’Alzheimer, oggetto classico dei gesti apotropaici, mi ossessiona. I sintomi di questa malattia emblematica della vecchiaia non si sono ancora manifestati in me: né gravi turbe dell’umore, né amnesie massicce, né perdita notevole dei punti di riferimento spazio-temporali. Naturalmente la vetustà si manifesta: la mia memoria si disgrega, le mie dimenticanze si accumulano, il mio ragionamento diventa bolso, il mio pensiero opacizza, leggere mi stanca, divento diffidente, irritabile e rancoroso. Ma non diagnostico patologie particolari, salvo considerare la vecchiaia stessa come malattia, cosa che non contesto affatto. Il mio io non si è dissolto in deliri paranoici, mantengo una chiara coscienza della mia identità. Lotto imparando delle poesie a memoria: la memorizzazione è laboriosa ma apprezzabile. La mia memoria non ha ancora capitolato e la mia immaginazione non si difende male. I giurati non potranno dire che l’imputato era incapace di intendere e volere. Sono colpevole e responsabile.

Pomeriggio Ho schiacciato un pisolino sulla mia poltrona sfondata, guarnita di velluto marrone. Ho sognato che Jean-Lou, nel momento

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in cui lo spingevo nel vuoto, dava un colpo di reni e prendeva il volo. Io lo guardavo volteggiare alto nel cielo come uno sparviero. Lui faceva un lungo volo planato e, dopo un looping, si tuffava nel lago. In piedi lassù sul bordo della piattaforma da dove lo avevo spinto, io vedevo la sua testa riemergere, e lui nuotare fino a riva. Un po’ più tardi entrava nell’albergo, il viso sgocciolante acqua rossastra di sangue, i capelli schiacciati sulla fronte; avanzava verso di me con un’andatura da automa, fissandomi con il suo sguardo da annegato; apriva la bocca, tendeva le braccia su di me e mi diceva con una voce lugubre: assassino, assassino… Non andrò in Vietnam. Appendo al chiodo le mie scarpe da marcia, mi ritiro dal mestiere di turista. Aspettare un anno per commettere il mio prossimo delitto sarebbe una incoerenza folle. I progetti a lungo termine mi sono vietati. Le mie probabilità di vivere fino a quel giorno sono infime. Quello sfibrante e rischioso viaggio non avrebbe altro scopo che l’omicidio del giudice Goth. Ora, lui non mi ha nascosto i suoi sospetti a proposito della morte di Jean-Lou, diffida di me, non mi volterà mai le spalle. Se per caso io riuscissi il mio colpo, una seconda caduta mortale in seno al gruppo assomiglierebbe a un romanzo di Agatha Christie. Ci sarebbe un’inchiesta. L’avversione che Goth e io ci votiamo mutualmente è nota, sarei il primo sospettato. Non temo il processo, al contrario, è il mio scopo ultimo. Ma non voglio essere arrestato come un omicida mediocre e maldestro. Voglio costituirmi quando giudicherò la mia opera compiuta. Per tanto non rinuncio a liquidare il giudice Goth. Ho il suo numero di telefono, tenterò di attirarlo in qualche tranello. Ma che questo non mi impedisca di cercare altre vittime. Non è certo questo che manca a Parigi, dove si contano due omicidi al giorno. Se voglio conquistare il titolo di decano degli assassini seriali, bisogna che passi all’azione già da domani. Ma come? Non ci sono montagne a Parigi, a

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parte il poggio Montmartre. Devo trovare un modus operandi compatibile con la mia estrema debolezza. Bisognerà essere astuto. Le astuzie di Abram Potz… Zoungou!

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Martedì 11 novembre

L’armistizio. 1918, la nuova repubblica di Polonia. Ventitré milioni di polacchi cristiani che sognano pogrom, tre milioni di ebrei polacchi che sognano l’emigrazione, uno Stato ebreo, o una società senza classi. Ho sei anni, un volto grassottello che è l’orgoglio di mia madre. Lei mi dà un pizzicotto sulle guance dicendo: kaïn aïnè ore (grazie a Dio). A Chmielnik, viviamo in cinque in due stanze senza acqua corrente. L’Europa raccoglie i suoi arnesi e si appresta a ripartire al massacro… Noi ci prepariamo a emigrare verso ovest, il Belgio o la Francia. Alle undici, Isabelle Perruche è arrivata per la sua seduta di analisi. Sono quindici anni che mi racconta le avventure della sua vagina. Conosco tutti gli umori, tutte le delusioni, tutte le performance, tutte le follie della sua topa, come lei chiama il suo organo genitale. Questa donna di mondo elegante ed eccentrica, conosciuta per il suo linguaggio castigato, cerca, attraverso la sua analisi, di liberarsi dei postumi nevrotici di un’educazione puritana. Viene da me per il piacere di cagare liberamente, dice lei, sulla memoria di suo padre. Si abbandona, in effetti, a un’interminabile defecazione simbolica. Nel segreto del mio studio, si eccita sciorinando, con la sua voce aristo-

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cratica, delle oscenità. Così esprime il risentimento eterno che vota a suo padre morto. Che cosa le ha fatto? Lo ignoro. Non l’ascolto più. I suoi monologhi ginecologici hanno smesso di divertirmi. Ai tempi della prima visita aveva quarantaquattro anni, un viso fine, dei begli occhi, una bocca sensuale, capelli neri e brillanti. Adesso ha sessantott’anni, il doppio mento e i capelli grigi. Due anni fa ho invertito le nostre posizioni reciproche: a lei la sedia, a me il divano. Le ho spiegato che questa inversione epistemologica (il termine l’ha ammaliata), inventata da Milena Jesenská, la grande psicanalista ceca, aveva il vantaggio di facilitare il suo transito emozionale, di decongestionare il suo subcosciente e di assicurarle un contro-transfert senza dolore. Ha detto che per lei era uguale, purché potesse continuare a cagare sulla memoria di suo padre. Due pazienti, fermamente attaccati alla tradizione freudiana, non hanno accettato l’innovazione e se ne sono andati. Me ne restano tre, e mi bastano. Isabelle eruttava e io fantasticavo. Che avrebbe detto Freud di un analista che immagina non tanto di andare a letto con la sua paziente, cosa che, come lui, io disapprovo, ma di assassinarla? E sopprimere una fonte di reddito? Calma, Abram, questo richiede una riflessione.

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Mercoledì 13 novembre

Ore 10:00 Mentre andavo verso la finestra, sono caduto. Niente frattura del collo del femore: la mia ossessione. Mi ci sono voluti venti minuti per trascinarmi fino alla poltrona e rialzarmi. Non posso più affidarmi al mio bastone. Rue du Temple, ho comprato due stampelle, dotate di un’impugnatura in caucciù e di un supporto a semicerchio che circonda e sostiene l’avambraccio. Mi danno una sensazione di maggiore sicurezza e sono abbastanza comode. Ho preso la decisione di non andare in Vietnam l’anno prossimo. Non ne ho la forza.

Pomeriggio Sono andato a bere qualcosa da Palamède, boulevard Richard-­ Lenoir. Per strada, la gente si scostava da me come da una vecchia porcellana, per timore di investirmi. Hanno paura che mi rompa le ossa sul selciato e che li persegua per i danni e gli interessi.

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Mi sono seduto in fondo alla sala piena di fumo. Il cameriere correva tra i tavoli e fingeva di non accorgersi dei miei segnali. Un mio consimile settantenne, per solidarietà generazionale, gli ha segnalato la mia presenza. Il cameriere ha finito per fermarsi davanti al mio tavolo senza concedermi uno sguardo né pronunciare una parola. Ho ordinato un vermut alla granatina. Lui è rimasto interdetto. Ho brontolato: – Che c’è, ragazzo, ho la faccia di uno che beve camomilla? Gli avevo dato una lezione! Ha alzato le spalle ed è ripartito. Ben inteso, mi ha fatto aspettare, servendo prima dei clienti arrivati dopo di me. Il disprezzo dei giovani è la mia ricompensa quotidiana. L’insolenza di quel lacchè aveva eccitato il mio desiderio di vendetta. La mia umiliazione non rimarrà più impunita. Qualcuno pagherà per lui. Ho acceso una sigaretta e ho ostentato un’aria distaccata, come se avessi tutto il tempo del mondo. D’altronde, avevo tempo. Alla mia sinistra, una donna sola beveva pensosamente una birra bruna, a piccoli sorsi; più in là due innamorati, faccia a faccia, le labbra umide, si ispezionavano a vicenda il fondo degli occhi, avevano l’aria di due pecore; tre quarantenni corpulenti, in camicia, discutevano con veemenza; un artista fallito, la sciarpa gialla intorno al collo, beveva un succo di pomodoro scarabocchiando sulla tovaglia di carta; un uomo e una donna seduti uno di fianco all’altra si annoiavano; una donna adultera aspettava il suo amante; un uomo, di cui scorgevo solo il cappello, leggeva «Le Monde» spiegato davanti al suo viso: la clientela ordinaria di un caffè, intorno alle cinque del pomeriggio. Queste persone componevano la tribù dei clienti del caffè Palamède e si riconoscevano tra di loro come tali, anche se non si conoscevano affatto. Essere insieme li rassicurava, c’era tra di loro un patto di non aggressione, e di mutua assistenza. Se uno di loro avesse avuto un malore, gli altri sarebbero accorsi subito in suo aiuto. C’era un intruso: io. Ho subito sentito che il mio ingresso gettava il gelo, i loro sguardi erano eloquenti: che ci

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viene a fare qui questo fossile? Perché non è all’ospizio? Avevo nettamente percepito i movimenti all’indietro quando mi ero intrufolato goffamente tra i tavoli. Il Palamède non è vietato ai vecchi, ma non sono certo i benvenuti. Se avessero saputo che questo vecchio era un assassino, ebreo per giunta. Nel momento in cui il cameriere posava il vermut alla granatina sul mio tavolo, un dolore mi ha trafitto il ginocchio sinistro. Ma tenevo la mia frecciata pronta: – Ho un cattivo odore, ragazzo mio? – Mi scusi? – Puzzo? Touché! Il suo sbalordimento mi ha rallegrato: – Eh? Ma perché dice questo? Ho portato il bicchiere alle labbra per fargli capire che la conversazione era terminata. Se n’è andato allibito. La mia vicina ha attaccato una seconda birra. Aveva un po’ di schiuma sotto il naso, la sua bocca rosso vivo era umida. Faceva girare il piede del suo bicchiere tra le sue dita dalle unghie lunghe laccate di rosa. Era una donna sui trent’anni, dal viso luminoso. Con la testa inclinata, simulava la malinconia. Ho intravisto con la coda dell’occhio una mano che lasciava cadere una zolletta di zucchero in una tazza di thè. Mi sono immaginato gettare una zolletta nel boccale di birra della bella sognatrice mentre lei è alla toilette; lei riviene, l’aria altera, porta il bicchiere alle labbra, fa una smorfia… Magia delle associazioni di idee: avevo appena trovato il mio strumento di lavoro: il veleno! Ecco la mia arma, l’arma dei vigliacchi, che non esige né forza fisica, né agilità corporea. Ognuno secondo le proprie capacità, no? La sola difficoltà sarebbe di portare la vittima a bere il mio intruglio. Non volevo far soffrire, solamente impedire la vita, questa sarebbe stata la mia etica di assassino. Escluderei per esempio l’arsenico, che provoca convulsioni e vomito di san-

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gue nero. Desideravo somministrare una morte pulita, dolce come un’estrema unzione. Restava da indentificare la mia vittima e da trovare il veleno idoneo. Non ne sapevo niente, dovevo informarmi. Ho quindi deciso che non andrò in Vietnam, anche se dovessi essere ancora a questo mondo in quel momento, cosa di cui dubito sempre di più. Ho cercato con lo sguardo il cameriere per sganciargli un sorriso di disprezzo, ma non guardava nella mia direzione. Ho lasciato gli spiccioli sul tavolo e sono uscito, nel sollievo generale. Avevo le gambe anchilosate, le reni spezzate. Percorsi trecento metri, mi sono dovuto sedere su una panchina, senza fiato, gli avambracci sulle cosce, la testa tra le ginocchia divaricate. Un uomo, che emanava un odore di lavanda, mi ha chiesto se avessi bisogno di aiuto. Ho raddrizzato la testa. Era un vigoroso sessantenne, con delle belle guance cascanti da curato di campagna. Ma i suoi capelli argentati, pettinati con cura, il suo soprabito di cachemire e i suoi lussuosi stivaletti palesavano piuttosto un ricco pagano pieno di amanti. Ho avuto la certezza di aver già visto quella faccia da pappone, ma, poiché questo mi succede sempre più spesso, non mi ricordavo né dove né quando. L’ho ringraziato seccamente e gli ho detto che era tutto a posto. Lui ha insistito, proponendomi persino di accompagnarmi fino a casa non appena fossi stato in grado di camminare. La sua voce distinta, vellutata, mi era familiare. L’ho squadrato più attentamente e ho riconosciuto il ministro dell’Interno. Dapprincipio ho voluto credere a una singolare somiglianza. Ma la verruca sulla sua narice e lo sbattere di palpebre incessante dei suoi occhi non lasciavano dubbi, era il ministro in persona. Allungando le sue guance cascanti, i caricaturisti gli fanno la faccia da gallinaceo. Ero certamente sorpreso, ma niente affatto impressionato. Perché un ministro, passeggiando sul boulevard fuori del suo orario di servizio, non dovrebbe preoccuparsi di un vecchio in diffi-

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coltà respiratorie? Non di meno, sapendo che un ministro non fa nulla senza una contropartita mediatica, ho tentato di individuare la telecamera che riprendeva questa scena edificante in vista di una propaganda elettorale, ma non ho notato nulla. L’altruismo e il disinteresse, tuttavia, non sono delle virtù comuni nella classe politica. Ne guadagnava ancora più di merito. Mi sono permesso di dirgli che mi sembrava imprudente per un ministro di andare in giro senza guardie del corpo. Si è mostrato contrariato di essere riconosciuto e ha sostenuto che mi sbagliavo. Il suo diniego suonava falso. Più lui protestava, più io ero sicuro di riconoscerlo. Ho concluso che, per delle ragioni di Stato o private che non mi riguardavano, desiderava restare in incognito. Era tutto a suo onore, non gli avrei dato noia. Gli ho lanciato uno sguardo di connivenza e ho evitato ogni allusione alle sue funzioni. Mi ha accompagnato fino a rue Timbaud tenendomi il braccio. Chiacchieravamo come due cittadini ordinari. Ho comunque azzardato una domanda sul problema dell’insicurezza urbana, ma lui ha immediatamente cambiato argomento. Non ero il solo ad averlo riconosciuto: incrociavamo delle persone stupite di veder passare il vecchio Potz sottobraccio al ministro dell’Interno. Mi sono sentito obbligato a invitarlo a prendere un caffè da me, pregando che rifiutasse, cosa che ha fatto. Non mi sono potuto trattenere dal dirgli che aveva appena guadagnato un elettore. Ha avuto un sorriso di gratitudine equivalente a una confessione, ma non smetteva di negare, anche se più timidamente. Ciò diventava spiacevole, tanto esibizionismo mi stava esasperando. L’ho salutato senza celargli la mia irritazione. Informarmi d’urgenza sui veleni.

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Sabato 16 novembre

Questa sera c’è stata la cena di commemorazione del sessantottesimo anniversario del mio diploma, anno 1930. L’evento era preceduto da un pellegrinaggio e da un rinfresco nel nostro liceo. Ho molto esitato ad andarci, diviso tra una sana repulsione e una curiosità morbosa. Il banchetto del venticinquesimo anniversario, nel 1955, mi aveva lasciato un sapore putrido schifoso. Su ventisette alunni, diciassette o diciotto avevano risposto all’appello, dei padri di famiglia seri e panciuti e qualche scapolo burlone, che si davano pacche sulle spalle esaminandosi a vicenda con dei sorrisi pietrificati. Dopo che ciascuno ebbe detto quello che era diventato, e una volta vuotato il sacco dei ricordi, non avevamo più niente da dirci. Mi ero chiesto cosa avessero fatto durante la guerra, quanti nella resistenza, quanti collaborazionisti. La questione era stata riassunta da un prudente: “brutti tempi!”, e non se ne era più parlato. Sessant’anni dopo, quanti sopravvissuti ci saranno, e in che stato? Il programma dei festeggiamenti che era sull’invito, aveva un titolo melodrammatico: L’ultima classe. La commemorazione prometteva di essere funesta. La curiosità ha vinto.

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Il liceo non è cambiato. Il suo portone in quercia è sempre così stucchevole. All’ingresso, una signora ha appuntato sul bavero del mio giaccone una spilla con il mio nome e mi ha accompagnato fino al luogo dei festeggiamenti. Avanzavamo a passi minuti lungo il corridoio dove per gli alunni era vietato correre; riconoscevo le irregolarità del pavimento; ho rivisto il pilastro dietro il quale mi sono fatto pizzicare mentre fumavo una sigaretta. Il rinfresco si svolgeva nel vecchio ufficio del preside, le cui finestre danno sul cortile della ricreazione. Addentrandomi nella stanza mi sono pentito d’essere venuto: mi trovavo nella sala comune di un ospizio per grandi storpiati dal tempo. Gli alunni erano, come all’epoca, raggruppati per classi, ognuna designata dal suo numero scritto su un gran cartello fissato su un treppiedi. Ho calcolato cinque sedie a rotelle, tre deambulatori, non si contavano le stampelle e i bastoni. C’erano una decina di vecchiardi per gruppo: i miei compagni, sfigurati, irriconoscibili… La gran parte mi sono sembrati più avvizziti di me. Di quale guerra eravamo i superstiti? Ho avuto un momento di panico non riconoscendo nessuno. Era il ballo degli spettri. Ho individuato i miei compagni della terza C, liceo classico, vicino a una tavola imbandita di succhi di frutta e di dolcetti morbidi: sette vecchietti incartapecoriti, in abito scuro, pigiati sulle loro sedie, che avvicinavano le loro teste traballanti come dei cospiratori in pieno complotto. Mi sono avvicinato, ho stretto mani ruvide, ossute, deformate dall’artrosi, mormorando macchinalmente: “Ah! Sei tu, come stai?”. Qualcuno ha spontaneamente articolato il mio nome. Per non offenderli, evitavo di leggere i nomi sulle spille. Ho avuto uno choc nel rivedere Sébastien Bab, uno dei più capaci del liceo, appassionato di chimica e letteratura, grande sportivo; senza essere brutto, non era bello, ma aveva degli occhi affascinanti; cambiava ragazza come cambiava camicia. Verso la fine dei

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nostri studi eravamo diventati inseparabili. Era su una sedia a rotelle, con entrambe le gambe amputate, a causa del diabete, la faccia gonfia per il cortisone. Ci siamo abbracciati. Non mi sono fatto abbindolare dal buon umore acido che ostentava. Ho letto tutta l’amarezza che il suo sguardo celava. Sono trasalito apprendendo che aveva fatto una grande carriera di professore di farmacologia: doveva quindi conoscere a fondo i veleni. Gli altri hanno interrotto la nostra confabulazione per coinvolgerci nel loro vaneggiamento e siamo stati risucchiati in fondo al nostro passato. L’occhio della memoria possiede un potere di adattamento stupefacente. Assistevo a un’incredibile trasfigurazione. Allo stesso modo in cui si rivelano i disegni di un’antica ceramica quando si gratta via la terra che la ricopre, così rintracciavo qui la forma di un naso, là il movimento di un labbro. Un tic, una risata, un’intonazione, un timbro di voce, e le pieghe delle carni gonfie si attenuavano, lasciando riapparire i tratti dell’adolescente scomparso. I nostri visi si lasciavano decifrare come dei palinsesti. Avevamo all’improvviso diciassette anni ed eravamo ridiventati immensamente idioti. Venticinque all’origine, eravamo otto presenti. Tre si erano fatti scusare: intrasportabili. Quattordici morti o dispersi. A turno ognuno ha fatto il suo bilancio. Totalizzavamo: cinque asportazioni della prostata, quattro tripli bypass, tre cancri (colon, polmoni, laringe), un caso di AIDS, una cecità. Cinque vedovi, un divorziato, uno scapolo. Quattro nonni, un bisnonno. Abbiamo dispiegato la scacchiera dei ricordi: ti ricordi del giorno in cui…? Il giorno in cui Robert Dobson (ottantasette anni, ex preside di liceo) ha organizzato una gara di pugnette in camera di Pierre Cromant (stessa età, ex notaio) e la madre di quest’ultimo, una donna così devota, ci ha sorpreso mentre ci portava una torta alle amarene; il giorno in cui François Lebic (ottantasette anni, ex giornalista) ha trattato Abram Potz da sporco ebreo, il quale ebreo gli ha spaccato il labbro; il giorno in cui Trom,

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il prof. d’inglese, ha tirato fuori dalla sua cartella, davanti alla classe pietrificata, la mutandina da donna strofinata d’aglio e pepe verde che François Bodinol (ottantotto anni, ex avvocato d’affari) ci aveva messo. Sghignazzavamo come dei corvi, ci ammazzavamo dalle risate. Degli allievi della classe vicina, vecchi filistei irrecuperabili, ci hanno guardato di traverso. Alain Jaquin (ottantasette anni, amministratore di società) si è drizzato, con il pugno alzato, l’occhio feroce, gridando: “Vogliono la rissa o che?”, mentre Sébastien Bab faceva loro il gesto dell’ombrello. Stuzzicato dall’atmosfera, ho rischiato di dir loro che avevo ucciso un uomo. Non mi avrebbero creduto, ma ho comunque fatto bene a stare zitto. La nostalgia è un sentimento ripugnante, nefasto ai vecchi. C’è stato un brutto silenzio, noi abbiamo commesso l’imprudenza di guardarci e ci siamo visti come eravamo realmente: l’incantesimo si era spezzato, la maschera caduta. Robert piagnucolava, François è stato scosso da un accesso di tosse catarrosa. La mascherata era finita. Eravamo ritornati ai nostri acciacchi. Dovevano portarci in minibus a La Renaissance, il ristorante delle nostre cene di studenti, dove ci sarebbe stato servito uno spuntino dietetico. Questa grottesca ultima cena si farà senza di me. Ho detto a Sébastien Bab che desideravo rivederlo, lui mi ha dato il suo numero di telefono, e io mi sono eclissato furtivamente. Ho ritrovato la porta dalla quale scappavamo per marinare le lezioni. Al Monntrereu! Al Saccapièch! Queste formule incantatorie che invento e proferisco a seconda delle circostanze, mi sollevano. È la mia lingua intima. La solitudine del vecchiardo è un assaggio del nulla. Houpliou.

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Martedì 17 novembre Il babone di Bab

Ho telefonato a Sébastien Bab. Sapevo che detestava le circonlocuzioni, era un positivista, un tantino cinico. “Al sodo! Al sodo!”, diceva. Malgrado la nostra amicizia non ho potuto confidargli le mie vere intenzioni. Gli ho raccontato che eravamo tre amici decisi a morire insieme, cercavamo un veleno dall’effetto rapido, non troppo doloroso, che ci permettesse di restare coscienti fino alla fine e in grado di parlare, di scambiarci le nostre impressioni, di guardarci partire, di dirci addio. Mi ha interrotto: – Un suicidio conviviale! Interessante. Mi sarei volentieri proposto come quarto ladrone, ma non sono pronto. Andiamo, vecchio mio, non raccontarmi storie, sei libero, non mi devi spiegazioni… nello stato in cui siamo, considero superata ogni morale. In breve, credo di avere ciò che cerchi. Puoi passare da me verso le sei?

Ore 18:00 Augustin Bab abita da solo a due passi dai Buttes-Chaumont, nel vasto appartamento che occupava una volta con sua moglie

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e i suoi tre figli, morti una trentina di anni fa in un incidente aereo. Curioso lapsus, questo Augustin al posto di Sébastien. Prodromi di confusione mentale? Ma io sto attento! Mi sono accomodato su un divano di cuoio, una vodka in mano. Manovrando la sua sedia a rotelle con una notevole destrezza, l’angelo blu – era il suo soprannome al liceo – è venuto a mettersi di fronte a me. La vista della sua faccia gonfia e violacea mi faceva pena. Sotto il suo mento largo penzolavano dei fanoni somiglianti a uno scroto di cavallo. I monconi delle sue gambe, dissimulati sotto una coperta scozzese, si sollevavano di tanto in tanto. Mi sono meritato una lezione sulla tipologia dei veleni e sul loro grado di tossicità. Me lo aspettavo: già al liceo spingeva il suo snobismo fino a rispondere alle domande più semplici con un’esposizione in tre punti. Evitavamo di chiedergli l’ora per non dargli il pretesto per una conferenza sul concetto di tempo. Murato nella sua solitudine, condannato al soliloquio, doveva soffrire. La mia visita era una fortuna inaspettata: gli portavo finalmente un auditorio attento e paziente. Questo almeno glielo dovevo. Si è pizzicato due volte le narici e ha sollevato il suo indice destro: – Ti sei domandato, Abram, quale Dio sadico abbia disseminato la superficie della terra di piante che uccidono e di piante che guariscono, spesso le stesse, del resto? Eh sì, i veleni del Creatore sono impenetrabili, e la teologia è una materia altamente tossica. D’accordo, d’accordo, non insisto. Lascia soltanto che ti dia un minimo cenno di queste erbe pazzerelle sulle quali è fondata tutta la nostra farmacopea. Se sei venuto a trovarmi, è per non morire ignaro, no? Rassicurati, sarò breve. Devi sapere che l’elemento attivo delle piante velenose è l’alcaloide. Per meglio stregare gli uomini, a queste piante è stato dato un nome affascinante. Prendiamo per esempio il colchico, color di livido e di lillà. Ti ricordi la canzone che cantavamo a Villa Johanna? Cochiques dans les prés, Fleurissent, fleurissent, Colchiques dans les prés, C’est la fin de

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l’été1… Ti ricordi quelle fin d’estate viola? Va bene! Vado avanti. L’alcaloide del colchico, la colchicina, provoca ustioni viscerali, disordini nervosi, convulsioni, vomito, delirio. A piccole dosi, la colchicina, è un rimedio per la gotta. Divertente, no? Ma non è quello che ti serve. Ci sono le tre Daphne: il fior di stecco, la laureola e la dittinella: sono delle assassine di bambini. Passiamo agli squisiti belladonna e giusquiamo: gli alcaloidi di questi signori, la scopolamina e l’atropina, provocano dolori addominali, tremiti, delirio, paralisi degli arti, due lunghe ore di sofferenza. Non indugio sullo stramonio, la stricnina o noce vomica, che sono più terribili ancora. La storia del curaro è interessante. Vale la deviazione, direbbe la Guide bleu. Gli indiani dell’Amaz­zonia osservarono che i falchi strofinavano i loro artigli su una certa liana prima di piombare sulla loro preda. Ebbero l’idea di strofinarvi le punte delle loro frecce: la selvaggina che ne veniva colpita era uccisa sul colpo. José Gumilla, un padre gesuita spagnolo, ha costatato che l’uomo graffiato da una freccia cosparsa di curaro, moriva così velocemente che poteva a malapena dire tre volte il nome di Gesù. I tuoi amici non avrebbero il tempo di pronunciare tre volte il tuo nome, Abram. I conquistatori spagnoli che ne erano colpiti crepavano in atroci sofferenze. Non è ciò che vi consiglio. Ha bevuto un po’ d’acqua e si è asciugato la bocca con la manica della camicia. Aveva il fiato corto. Ha chiuso gli occhi. Può darsi che si sia addormentato. Può darsi che io mi sia addormentato. Siamo così, noi vecchi, il sonno ci casca addosso

1.  «Colchichi nei prati, Fioriscono, fioriscono, Colchichi nei prati, è la fine dell’estate…». Colchiques dans les prés è una canzone popolare francese creata verso il 1942-’43 per i giovani che frequentavano i campi scout. È stata ripresa e adattata fino agli anni ’90. [N.d.T.]

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all’improvviso. Ho sobbalzato quando ha ripreso la parola con una voce arrochita: – Insomma, tu e i tuoi compagni, se ho ben capito, vorreste regalarvi una morte socratica? Un ultimo banchetto innaffiato di cicuta. La tua idea mi piace enormemente. Sappi dunque che la cicuta non è un vano mito. Esiste. La si trova un po’ dovunque in Europa. Il suo alcaloide è la coniina. Somiglia al prezzemolo e le sue foglie odorano di pipì di gatto. I Greci la utilizzavano per curare le ulcere e le emorroidi. Sei grammi di foglie fresche sono mortali. Non c’è avvelenamento senza dolore, Abram: aspettatevi, tu e i tuoi amici, delle emicranie e delle vertigini. Ma è sopportabile. Secondo Platone, qualche istante dopo aver bevuto la sua coppa di cicuta, Socrate ha dichiarato che le sue gambe diventavano pesanti; si è steso supino e si è coperto la faccia con un fazzoletto. L’uomo che gli aveva fatto bere la cicuta gli ha pizzicato il piede e gli ha chiesto se sentiva qualcosa. Non sentiva niente. Un po’ più tardi gli ha pizzicato le gambe: nessuna reazione. Il corpo si freddava e si irrigidiva, il basso ventre diventava insensibile. Socrate ha sollevato il suo velo e ha detto: “Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio; non dimenticare di pagarlo”. Queste furono le sue ultime parole. In teoria, la morte sopraggiunge un’ora dopo l’ingestione. Sono arrivato a ridurre questo lasso di tempo a quindici o venti minuti e a diminuire i dolori, aggiungendo alla mia soluzione un estratto di amanite falloide e un analgesico, ti risparmio i dettagli. Credo che sarai soddisfatto, ma, per modo di dire, non sarai in grado di farmelo sapere. Vanità d’inventore: sarei felice se tu accettassi di dare il mio nome al preparato: il bah… meglio: il babone. Vuoi? Pensa a me nel momento in cui lo berrai. Ci siamo detti addio scambiandoci un lungo e insondabile sguardo, che abbiamo tagliato corto di comune accordo pri-

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ma che degenerasse. Me ne sono andato con quattro fiale di babone in tasca. Pensiero vespertino: se non fossimo mortali, avremmo la tentazione del suicidio?

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Mercoledì 20

Economizzare le forze. Dita rigide. Dormito male. Sveglia: ore nove. In forma? Dolore ginocchio sinistro. Reumatismi, costipazione. Colazione? Pane grigliato, un bicchiere di latte. Giorno? Mercoledì. Data? 22 o 23 novembre. Neve. Organizzazione della giornata? Ore undici: seduta nel mio studio. Dove? Rue Folie-Méricourt. Distanza? Ottocento metri. In quanto tempo? Trenta minuti. Sicuro? Sicuro. Un paziente? Una paziente: Victorine Lecouvreur. Età? Sessantatré anni. Il suo problema? Nessuno: fabulatrice stupida. Lamentela espressa? Suo padre l’avrebbe violentata all’età di tre anni. Se ne sarebbe ricordata di colpo guardando una trasmissione televisiva sugli abusi sessuali. Dopo? Pranzo da Dastier. Cosa? Coniglio alle prugne secche. Vino? Chambolle Musigny. In seguito? Siesta. Dopo? Da Palamède. Basta, basta! Troppo secco. Scrittura pelle e ossa. Entrando da Palamède ho avuto un brivido: la bionda bevitrice di birra bruna era là, sola, allo stesso tavolo. Quello che avevo occupato l’altro giorno era libero. Mi sono seduto senza che lei abbia minimamente notato la mia presenza. Il suo sguardo blu mi ha attraversato come un vetro, mi sono senti-

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to ancora una volta annullato, annientato. Provavo invano ad attirare la sua attenzione con delle smorfie accompagnate da rimestamenti di dentiera. C’era un altro cameriere in servizio, più anziano, quindi più affabile. Non so perché gli ho detto che volevo la stessa birra della donna accanto. Lui mi ha detto con un sorriso licenzioso che era una bella bionda. Gli ho fatto capire che trovavo la sua confidenza fuori posto. Poi ho capito che parlava della birra. Ho detto: “Vada per una bionda”. Lui nemmeno potrebbe indentificarmi se domani gli mostrassero la mia foto tra una serie di sospettati. La birra era fresca e asprigna. Ho messo la mano nella tasca del mio soprabito e ho accarezzato con il pollice l’ampolla di babone. Nessuno mi accordava il minimo interesse, non mi avevano nemmeno visto entrare. L’assassino invisibile. Non mi dispiaceva di certo. Sulla pagina di un giornale aperto che mi nascondeva il viso del lettore, un titolo ha attratto il mio sguardo: Ottantenne selvaggiamente sgozzato da tre disoccupati. Bottino: cento franchi! Selvaggiamente sgozzato! Un ottantenne merita evidentemente di essere sgozzato in maniera civilizzata. Tre giovani disoccupati… di ritorno dalla guerra… Ram pan tan pian. Sentivo già l’arringa dell’avvocato della difesa: – La disoccupazione, signore e signori giurati, riduce la nostra gioventù all’indigenza e all’inattività, madre di tutti i vizi. La causa maggiore di questo flagello risiede nell’aumento della longevità, del quale abbiamo torto a rallegrarci perché manda in rovina il nostro sistema sanitario e pensionistico. Non illudiamoci, signori, manteniamo una massa considerevole di vecchi, non solamente improduttivi, ma malati. I vecchi pullulano e vivono da parassiti, i termini sono brutali ma, ahimè, esatti! Non fanno altro che consumare medicinali costosi che sono dispensati loro gratuitamente, occupano inutilmente i nostri ospedali, assorbono la gran parte delle nostre imposte, gettando la nostra economia nel ristagno. La gerontocrazia finanziaria internazionale che controlla i fondi pensionistici

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decide, contentando unicamente i propri interessi, la chiusura delle imprese, riducendo alla disoccupazione centinaia di migliaia di giovani che vagano erranti per le strade. Il pubblico ministero cerca di impietosirvi con l’età avanzata della vittima e insiste pesantemente sulla mediocrità del bottino: cento franchi. Ma si omette di precisare che il contenuto del conto in banca della sedicente vittima avrebbe permesso di pagare ai miei tre giovani clienti un salario decente per un anno. Per non parlare dei suoi conti in Svizzera. Gestiva il suo denaro in nero, indifferente di fronte alla sventura della nostra gioventù. Le vere vittime sono i nostri giovani, che la miseria spinge al crimine. Hanno agito in stato di necessità. Sì, la nostra società traballante è malata di vecchiaia, bisogna avere il coraggio di dirlo, anche se è politicamente scorretto, ecc. La Corte, riconoscendo agli accusati delle ampie circostanze attenuanti, considerata l’età avanzata della vittima, la sua inutilità sociale… La giovane donna si è alzata e si è diretta verso le scale che portano alle toilette. Era alta, magra, aveva un portamento altero, il genere di donna che mi ha sempre intimidito. Azione! Mi sono lubrificato la bocca con un sorso di bionda, poi mi sono alzato e ho fatto tre passi disinvolti fino al porta-giornali. In assenza de «Le Monde», ho preso «Libération», il giornale dei giovani, la gazzetta del nemico. Fingendo di essere assorto nella lettura, sono andato a sedermi, come per sbaglio, sulla sedia della mia vicina. È stato un gioco da ragazzi versare il babone nel suo bicchiere di birra, la mano nascosta dietro il mio giornale. Risollevando la testa, ho preso un’aria attonita. Pantomima superflua: nessuno si interessava a me. Mi sono alzato troppo precipitosamente: una pugnalata nelle reni mi ha piegato in due. Non so come ho superato i due metri che mi separavano dal mio tavolo. Ho ingoiato un antinfiammatorio. Lei è ritornata, imperiale e imbronciata. Ha incrociato le sue

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lunghe gambe, ha bevuto tutto il suo bicchiere di birra e ne ha ordinato un altro. L’attesa è cominciata. Un suono stridulo ha attraversato il brusio delle conversazioni. Lei ha preso dalla sua borsa un cellulare che ha poggiato contro il suo orecchio e immediatamente era altrove, i clienti del caffè Palamède non esistevano più, parlava a voce alta con un’impudicizia inaudita, assolutamente indifferente alla gente che la circondava e che poteva sentirla. Incatenata al suo cellulare, era appartata dal mondo, l’umanità poteva crepare. Aveva una voce profonda e una dizione pura: – Sei tu amore mio… Sono sola, possiamo parlare… Da Palamède… Mio marito? È dalla sua amante a Poitiers… Una volgare storia di adulterio. Si è fermata ad ascoltare il suo interlocutore. Il cameriere ha posato davanti a lei un nuovo boccale di birra. Ero preso dall’angoscia. Lei ha ripreso: – Raccontami, mia cara… No, basta, mi ecciti… sei pazza, Odette, basta… Si premeva una mano contro il petto. Non avevo mai assistito ai giochi amorosi di due lesbiche. Ero turbato, il mio vecchio cuore sobbalzava. Contemplavo questa bella donna ed ero contento di sapere che neanche gli altri uomini l’avrebbero avuta. Non ero il solo a tendere l’orecchio. Poco a poco, il rumore delle conversazioni diminuiva d’intensità. Lei arrotolava una ciocca di capelli attorno al suo indice. Del sudore le imperlava la fronte. Ha passato la lingua sulle labbra e ha detto con una voce alterata: – Odette… mi succede qualcosa di strano, non mi sento bene… ho le gambe pesanti… ho freddo… Oh! Odette sto male… Livida, la mano sinistra contratta sulla gola, ha fissato su di me degli occhi spaventati. Ero sicuro che non mi stesse guardando, che non vedesse niente, ma avevo lo stesso l’impressione di essere l’oggetto di un’accusa pubblica. Tremava. Ho sinceramen-

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te auspicato la fine rapida delle sue sofferenze. Alcune persone si sono alzate. Lei ha avuto un conato, la sua fronte si è schiantata come una pietra sul marmo del tavolino e il suo telefono si è schiantato sul pavimento. Una delle sue mani, che pendeva sotto il tavolo, le dita ricurve, somigliava a un granchio sospeso a un filo. Una donna ha gridato, un uomo ha lanciato con una voce autoritaria: “C’è un medico qui?”. Ho avuto un’esitazione: sono pur sempre dottore in medicina. Beninteso, non ho avuto questa audacia. Un inetto in blazer blu marino con bottoni dorati si è fatto avanti con un’aria lusinghiera e, gli occhi al soffitto, ha preso il polso della mia vittima. Avevo l’impressione che si impadronisse di qualcosa di mio. Ha scosso la testa e ha lasciato la mano della defunta come una compressa sporca. Gli infermieri del pronto intervento sono entrati, hanno sollevato il corpo e lo hanno steso su una barella, non senza che i miei occhi attenti avessero scorto un lembo di coscia bianca. Secondo l’uso, l’hanno ricoperto con una fetida coperta grigiastra. Dopo la loro partenza, si è svolto un vivo dibattito sul dramma al quale avevamo appena assistito. Da un tavolo all’altro, ci si scambiavano riflessioni sulla fragilità della vita umana. Frettoloso di lasciare il luogo prima di essere interpellato da uno di quei filosofi, ho discretamente raggiunto l’uscita. Cadeva la notte, una pioggia fredda e fitta mi ha sferzato il viso. Mentre mi allontanavo, puntellato sulle mie stampelle, una voce ruvida mi ha acchiappato per il collo come un nodo scorsoio. – Ma allora! Là dove Potz passa, qualcuno trapassa… La rima non era affatto rara ma era onesta, si era preso il tempo di limarla. Ho sentito dei formicolii sul mio cranio, come se i miei capelli fossero rispuntati al solo fine di drizzarsi. Era Goth, lo spretato. Malgrado la mia sorpresa, non mi feci cogliere impreparato: – Ciao, scomunicato dalla giustizia.

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Il suo sorriso è scomparso. Ci siamo sfidati con lo sguardo. Un giornale piegato spuntava dalla tasca del suo cappotto: Ottantenne selvaggiamente sgozzato… L’individuo nascosto dietro «Le Monde», da Palamède, era lui! Dunque mi seguiva dappertutto, l’ignobile! Che avesse visto tutto? Ma cosa aspettava a denunciarmi? Il suo silenzio lo comprometteva. A che gioco stava giocando? Mi ha proposto di accompagnarmi. Gli ho voltato le spalle e mi sono allontanato. Lo ucciderò. Non so come, ma gli tenderò una trappola e lo ucciderò. È necessario. Non capisco come io mi sia potuto perdere nel quartiere dove abito da trent’anni. Ho errato per strade che non riconoscevo, ne percorrevo altre che mi erano familiari. Non so quante volte ho attraversato il boulevard Voltaire. Ho incrociato dei giovani che mi hanno insultato, hanno ballato attorno a me trattandomi da vecchio imbecille. Ho girato in tondo per due ore, ritornando dieci volte negli stessi luoghi. In rue des Trois Bornes, ho pianto come un bambino. Ho dormito sotto un portico. Ho insultato Yehovah pisciando contro un lampione in rue Saint-Maur. Ho sputato sangue a rue de la Folie Méricourt. Mi sono fatto rubare il portafogli da un vecchio barbone. Ho desiderato di morire in rue Oberkampf. Alle due del mattino, non so come, mi sono improvvisamente ritrovato davanti alla mia porta, sbalordito. Queste ore di vaneggiamenti mi preoccupano. Scrivo, scrivo, traccio, traccio delle tracce, alla maniera di una lumaca che lascia una striscia appiccicosa sul vetro. Insomma, non so più. Mettendomi a letto, ho pensato a Copel Glatt al suo ritorno dai campi, cranio rasato, sguardo da fantasma, voce dell’oltretomba. Perché.

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Neve

Questa notte, andando a pisciare, sono caduto in bagno. Devo aver urtato il lavandino o la tazza del cesso. Mi sono tagliato l’arcata sopraccigliare e ho perso conoscenza. Ecco. La camicia del mio pigiama era piena di sangue. Ho costatato con sollievo che non c’era frattura del collo del femore. Il collo del femore è la mia ossessione. Ho cercato di rialzarmi ma ricadevo come una blatta in una vasca da bagno. Sono rimasto steso sulla schiena fino al mattino. Mi dispiaceva di non poter digrignare dei denti: i miei riposavano sul fondo di un bicchiere d’acqua mentolata sul mio comodino. Ho un po’ dormito, credo. Era il giorno di Germaine, il mio aiuto domestico. Cinque o sei mesi fa, il dottor Émile Adler, che da dieci anni viene d’ufficio a visitarmi una volta alla settimana, mi ha dichiarato, con la sua voce bassa e un tono categorico, che mi trovavo in stato di dipendenza funzionale e che non avevo che un’alternativa: o la casa di riposo, o un aiuto a domicilio. Dovevo decidere all’istante. Una morte immediata mi sembrava preferibile alla prima soluzione. Qualche giorno più tardi, l’APA (Aiuto Personalizzato Autonomia) mi ha inviato Germaine: una donnona di cinquantacinque anni, autoritaria e affettuosa, che si è messa

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a governare la mia esistenza. Ha modificato tutta la disposizione del mio appartamento per migliorare il mio confort. Viene tre volte a settimana, il lunedì, il venerdì e il lunedì. Mi fa il bagno, mi veste, mi cura, sorveglia la mia alimentazione e si sforza di comunicarmi il suo ottimismo. Le sue grasse mani da operaia sono delicate. Mi sgrida per le mie imprudenze. Adoro la mia badante. Mi prepara dei piatti cucinati per il resto della settimana. La sua zuppa di zucca, i suoi porri gratinati sono delle meraviglie. Prima di andarsene, gioca con me una partita a scarabeo e io le recito una poesia. Questa mattina, quando lei è arrivata, io giacevo dunque a terra nel bagno. L’ho sentita che mi chiamava con una voce inquieta. Ho aperto la bocca ma è uscito solo un debole rantolo. Quando mi ha scoperto ha esclamato: “Mio Dio, signor Abram! Che cosa avete fatto ancora!”. Dopo avermi delicatamente lavato, mi ha portato fino al mio letto. Il suo petto, grande e morbido come una trapunta, profumava di sapone al gelsomino. Quando mi ha tolto i pantaloni del pigiama per cambiarmi, ho sperato che la sua mano distratta sfiorasse il mio vecchio cazzo addormentato. Ma la mano di Germaine non è mai distratta. Cosa le costerebbe di fare un gesto? Ho pensato. Avevo vergogna del mio corpo rachitico. Mi ha comunicato che nevicava e che era venerdì, senza precisare la data. O, può darsi, la data senza precisare il giorno. Mi ha vietato d’ora in poi di muovermi nel mio appartamento senza le stampelle, poi ha deciso che, per la propria tranquillità d’animo, mi avrebbe ordinato un deambulatore. Come può provare simpatia per un vecchio così marcio come me, mi dicevo? Il giorno in cui saprà che coccolava un assassino… Perdonami, Germaine. Ho sognato mia madre. Nel suo lungo abito nero, un foulard nero sui capelli, accendeva le candele dello shabbat. In piedi,

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davanti ai due candelabri di rame, avvicinava le palme delle mani alle due fiamme, eseguiva dei segni cabalistici davanti al suo viso, poi metteva le dita sulle palpebre mormorando la sua preghiera. Stabat mater dei miei shabbat.

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Domenica mattina 22

Mi ha svegliato lo squillo del telefono. Non mi telefonano mai, mai. Ho fissato il grosso apparecchio nero dall’aria di batrace, credendo a un errore. Poi ho pensato che doveva essere il purulento Goth. Alla fine ho risposto, cercando un’espressione sferzante. Ho fatto: “Mmmh?”. Una voce femminile, esitante e soave si è insinuata nel mio orecchio: “Dottor Potz?”. Di colpo una paratia si è aperta nella mia memoria e la mia anima è stata inondata di ricordi gorgoglianti: Esther Weisberg! Mi domandava se mi ricordavo di lei! Facevo lo psichiatra all’ospedale S., avevo cinquant’anni; Esther, la mia segretaria, ne aveva ventitré. Era un’ebrea di una bellezza clamorosa. Ero pazzo d’amore e non osavo dichiararmi. Mi credevo troppo vecchio, troppo brutto, troppo insulso. In sua presenza, la paura di dire una banalità mi rendeva spaventosamente laconico, mi limitavo alle istruzioni professionali. Ero oppresso da fantasticherie: galoppavo, nudo, in una prateria, Esther nuda a cavallo sulla mia nuca, i capelli al vento. La chiamavo nel mio ufficio con i pretesti più futili, solo per vederla, e la trattenevo il più a lungo possibile, fin quando il buon senso lo permetteva. Quando faceva una cer-

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ta smorfia, anelavo a cogliere con le mie labbra la sua bocca rossa e lucente come una ciliegia. Appena lei girava gli occhi, lasciavo il mio sguardo allucinato saziarsi del suo corpo, e quando camminava verso la porta per andarsene, divoravo il suo culo con gli occhi. Dopo che se ne era andata, stringevo a lungo le tempie tra le mani. Ho sbraitato di rabbia battendo con i pugni sulla mia scrivania di mogano. Segretaria impeccabile, devota, sorridente, non mi lasciava indovinare niente dei suoi sentimenti, mai sorprendevo quel gesto ambiguo che aspettavo e del quale avrei potuto approfittare per tentare una svolta. Ho sempre sguazzato nell’equivoco. Al fine di svegliare la sua gelosia, ingaggiai una mia amica prostituta. Agathe si presentava nel mio studio come una delle mie pazienti. Aspettava nell’ufficio di Esther. Le due donne chiacchieravano, si presero in simpatia. Agathe fece comprendere a Esther che la terapia per delle sue turbe psichiche non era il vero scopo di quelle sedute. Di fatto, io non mi risparmiavo di farmela sul mio divano: la pagavo caro abbastanza. In seguito, lei ripassava dall’ufficio di Esther con la faccia di una donna stremata da violenti orgasmi. Agathe, da brava professionista del sesso, era prodiga di consigli: è una vaginale, vecchio mio, a una così devi metterle i coglioni davanti, per farla bagnare. Detestavo le sue volgarità. In capo a qualche settimana ho creduto di percepire una deferenza ammirata nei profondi occhi di Esther. Ma niente, del suo atteggiamento nei miei confronti, cambiava. Aspettavo un invito che non arrivò mai, o che io non volli vedere. La mia timidezza morbosa mi paralizzava. Mentre il mio io e il mio super-io materno erano in acuto conflitto, io affondavo nella depressione. Un’impietosa autoanalisi – ci tenevo a regolare da solo la questione – mi ha condotto a questa conclusione paradossale, stravagante ma irrecusabile: se non ho potuto sedurre e amare carnalmente Esther Weisberg, è perché lei era ebrea. Ancora oggi,

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confermo la pertinenza della mia analisi. Per cogliere questo strano fenomeno, è stato necessario perforare la dura scorza dell’amnesia infantile. Riassumo. Ero e rimango un ebreo di origine controllata, certificata dall’ablazione rituale del prepuzio. L’interpretazione freudiana dei sogni ha mostrato l’importanza dell’eredità arcaica, residuo dell’esperienza degli antenati, che il bambino reca alla nascita. Dunque, io ho ricevuto in eredità l’essenza filogenetica del giudaismo. Se i processi psichici sono un enigma, la questione ebraica è un mistero. Non parlo della religione ebraica, con la quale non ho nulla a che fare, ma dell’ebraismo laico, della giudeità esistenziale, fonte inestinguibile di complessi e di nevrosi fobiche nella formazione delle quali la madre ebrea gioca un ruolo schiacciante. La mia non ha fallito la sua missione, mi ha allevato nel culto del matrimonio endogamico, unica garanzia della conservazione della specie ebraica. Il mio compito sulla terra era di trasmettere il gene ebreo del quale ero portatore. Al di fuori del matrimonio ebraico, alcuna salvezza. Mi si autorizzava, come norma di igiene, a delle avventure con donne non ebree, a condizione che fossero temporanee e non matrimoniali, mentre le vulve ebree erano intoccabili, salvo exequatur rilasciato dalla sinagoga. Mia madre aveva fatto voto che ogni trasgressione di questo divieto compiuta da suo figlio avrebbe comportato il suo suicidio immediato per defenestrazione. A vent’anni ho fatto un sogno nitido: sposavo una danese cristiana nella chiesa di Saint-Sulpice; un po’ più tardi, spegnevo la luce e raggiungevo la mia giovane moglie nel letto coniugale: le mormoravo parole d’amore e la stringevo, lei gemeva con gioia; all’improvviso lei cacciava un grido; accendevo la lampada da notte; i suoi occhi spalancati erano immobili; era mia madre; era morta. A venticinque anni mi sono innamorato di Justine, un’ebrea emancipata che si spazientiva per il platonismo della mia passione; una sera d’inverno lei mi si è decisamente donata; non ho potuto prenderla: colpito da impotenza; dopo es-

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sersi dedicata a qualche tentativo infruttuoso di rianimazione, Justine se ne era andata, gelata e mortificata per sempre. Ho passato il resto della notte a odiare mia madre che non aveva smesso di ficcarmi in testa, con dei grandi sospiri: figlio mio, è difficile essere ebreo. Aveva così ben fatto, che mi rese inestricabile questa difficoltà di essere. Ecco perché, a cinquant’anni, mi sono ritrovato paralizzato di fronte a Esther. La mia situazione in ospedale era diventata insostenibile. Il mio lavoro mi annoiava, i miei pazienti si rendevano conto che non li ascoltavo, non dormivo più, mi nutrivo appena, ero diventato irascibile, perdevo ogni credibilità. Quando ho saputo che Esther aveva un fidanzato, un giovane avvocato protestante, sono rimasto seduto tutta la notte nel mio ufficio, con gli occhi fissi nel vuoto. Stavo pensando di impiccarmi e ho cercato un appiglio nel quale passare la corda con il cappio. Al mattino, ho deciso di lasciare l’ospedale e di aprire un mio studio privato di psicoterapia. Ho subito redatto la mia lettera di dimissioni. Il giorno della mia partenza mi è toccato, come temevo, il tradizionale bicchiere dell’addio, quel bicchiere di spumante acido che si leva, con un’aria falsamente malinconica, in onore di chi se ne va e che piuttosto gli si lancerebbe in faccia. Nella sua allocuzione stereotipata, presa da un’antologia di discorsi di circostanza, Vilgazon, il capo del personale, un uomo volgare e cattivo, ha fatto un’allusione perfida alle mie relazioni spasmodiche con Esther. Ho gettato il mio bicchiere per terra e me ne sono andato, a mascelle serrate, lasciando gli astanti impietriti. Sono andato nel mio ufficio, ero abbastanza contento di me. Esther è entrata, mi ha baciato sulla guancia dicendomi che ero stato magnifico, che la bassezza di Vilgazon aveva indignato tutti. Per risposta al suo bacio io ho voluto baciarla sulle labbra, ma ho perso l’equilibrio e il mio naso ha urtato ridicolmente la sua spalla. Lei ha riso della mia goffaggine e ha detto che le dispiaceva per la mia parten-

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za. Eravamo in una penombra propizia. Non ho parlato. Lei nemmeno. Non gliel’ho mai perdonato. Perché tornava a tormentarmi trent’anni dopo? La sua voce si riversava nel mio orecchio come acqua calda su una bruciatura. Doveva avere cinquantasei anni, nel fiore degli anni. Rispondevo con una voce neutra, intanto che un pensiero velenoso nasceva nel mio animo. Mi ha spiegato che ritornava da un lungo soggiorno all’estero, che sentiva il bisogno di entrare in analisi, non vedendo più chiaramente in se stessa, che non conosceva più nessuno, insomma, mi chiedeva di indicarle un analista serio. Non le passava nemmeno per la mente che io potessi ancora esercitare! Mi considerava senza dubbio un analista da strapazzo, un terapeuta obsoleto! Le interessava solamente la mia rubrica! Una biglia di bile mi è salita alla gola. Questa donna che mi aveva infuocato, che mi aveva fatto sbavare per anni, che aveva assistito senza turbarsi al mio deperimento, tornava adesso a turbare la mia pensione e a riaprire le ferite che mi aveva inflitto. Salderemo i nostri conti, mia cara, ho pensato. Le vendette tardive sono le più inebrianti… L’ho invitata a pranzare, domani, a La Coupole. Con gioia, ha detto lei, sono così felice di rivedervi. L’ho avvertita che ero molto cambiato e che doveva aspettarsi uno shock. Non potendo più contare sulla mia memoria vagabonda, ho disseminato in tutto l’appartamento dei pezzi di carta con su scritto: “Esther Weisberg, venerdì 15, 12:30, La Coupole, babone”. Blahetz.

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23 novembre

Notte d’insonnia, mattino amaro nelle mie lenzuola sabbiose. Booz esclamava: la cifra dei miei anni ha oltrepassato l’ottanta, e non ho più una donna… Lo squillo del telefono mi ha sfondato il cranio. Sbalordito, fissavo il mio apparecchio in bachelite nera che riluceva come un rospo sul comodino. Mai, mai nessuno mi telefona. Ho pensato a Germaine, a Goth, a una paziente, a un errore… Ho avvicinato la cornetta al mio orecchio senza parlare. Era una donna: “Pronto? Abram?… non vi sento…”. Ho immediatamente riconosciuto la voce di Esther Weisberg, la mia segretaria all’ospedale S. Tira, tira il saliscendi e la porticina della memoria si aprirà. L’onda di fondo dei ricordi mi ha travolto, tutto mi è tornato con dolorosa precisione: il mio amore catastrofico, la mia codardia, il suo sorriso ammirato, il suo sedere irreprensibile, la mia rovina, le mie dimissioni, il discorso miserabile di Vilgazon, il mio scatto di dignità, il bicchiere dell’amicizia spezzato, la mia disfatta finale. I rimpianti mi hanno attorcigliato le budella come delle coliche. Cosa gli veniva in mente di tornare a tormentarmi dopo trent’anni di silenzio? La cosa più strana era di sentirla parlare come se ci fossimo lasciati il giorno prima. Tuttavia la mia sorpresa mi sembrava avere qualcosa di insolito, di fittizio, di smorzato. Ho farfugliato:

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– Sto sognando, Esther? – È oggi alle 12:30 che ci vediamo, vero Abram? La mia mascella si è staccata. La mia dentiera rideva sul fondo di un bicchiere di acqua mentolata. Ho scorto il promemoria attaccato sul cassetto del comodino: “Esther Weisberg, venerdì 15, 12:30, La Coupole, babone”, ed è scattato un riflesso condizionato: mi sono ricordato della nostra conversazione di ieri sera, del nostro appuntamento. Ho detto: “Sì, Esther, 12:30, non vedo l’ora di vedervi”. Ma ero stato avvisato: la mia memoria aveva iniziato la sua discesa nelle tenebre, avrebbe presto avuto bisogno di protesi. Alle 12:10 il taxi mi ha lasciato davanti a La Coupole. Ci avevo tenuto ad arrivare prima di lei così che non mi vedesse attraversare la sala zoppicando. Per civetteria, mi ero munito solamente del mio bastone in ebano che, meglio dell’ombrello, mi conferisce un’aria britannica. Se lo sapesse Germaine, sarebbe furiosa. Vedendomi entrare, le persone sedute ai tavoli hanno interrotto la loro masticazione e distolto lo sguardo: toglievo loro l’appetito. Si domandavano visibilmente che cosa venisse a fare qui questo sfuggito dall’obitorio. Questo mi ha ricordato il 1942, quando penetravo in un luogo pubblico con la mia stella gialla cucita sul giaccone. Adesso, non c’è più bisogno di emblemi, le stimmate della mia infamia sono incise sulla mia pelle necrotizzata. Avevo prenotato un tavolo all’angolo. Bevendo un vermut, mi sono preparato all’incontro, premunendomi contro i tranelli del sentimentalismo senile. Esther è apparsa: la bimba era ancora bella. Mi ha cercato con lo sguardo e ha represso una smorfia incredula quando i suoi occhi hanno incontrato il mio muso. Non poteva sbagliarsi: ero il più sgangherato tra i presenti. Non mi sono alzato perché le mie gambe vacillavano; lei non mi ha teso la mano, non essendo

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sicura che io sarei stato capace di tenderle la mia. Il suo viso si era appesantito, delle zampe di gallina comparivano agli angoli degli occhi e delle labbra, pieghe orizzontali sulla sua fronte bombata, ma risplendeva di maturità florida e si intuiva che le acrobazie amorose erano lungi dall’esserle diventate estranee. Ripeteva che era così contenta di rivedermi, ma vedevo che aveva fretta di veder arrivare il momento in cui il nostro incontro a tu per tu sarebbe finito. Ho stimato in meno di due ore il tempo che le restava da vivere. Non so più cosa abbiamo mangiato ma abbiamo bevuto del bourgogne. La sua vita? Un racconto borghese. Due anni dopo le mie dimissioni dall’ospedale, lei ha sposato un ricco commerciante che ebbe la decenza di morire quattro anni più tardi lasciandole un bel gruzzolo e qualche immobile redditizio. Ha viaggiato, ha avuto degli amanti, dei piaceri e dei dispiaceri. Mi ha educatamente domandato come andava per me. Le ho detto che vivevo in concubinato attivo con una senegalese di quarantanove anni. La sua forchetta si è immobilizzata qualche secondo davanti alla sua bocca aperta. Bevevamo entrambi smodatamente, ma riempivo il suo bicchiere più spesso del mio. Ho ordinato una seconda bottiglia di Pommard. Mi sono regalato un minuto di lirismo per cercare di cauterizzare l’ulcera che mi rodeva l’anima. Ho preso un tono grave: – Esther, se sono ancora qui vuol dire che c’è stato un overbooking per i viaggi per l’aldilà. Sono in partenza. Concedete a un uomo morto di farvi una confessione: io vi ho amato alla follia… non avevate davvero indovinato niente? Lei ha posato il suo bicchiere, mi ha guardato negli occhi e mi ha assassinato: – Ma Abram, Abram, perché tacere…? Anch’io vi amavo… Venivo nel vostro ufficio con ogni sorta di pretesto… Ma voi eravate così distante… E poi, avevate Agathe, talmente innamorata di voi…

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Mi calpestava con i suoi tacchi a spillo. Mi prudevano le mani dalla voglia di schiaffeggiarla, di fracassare il mio bicchiere sui suoi zigomi rosa. Ho messo la mia testa sul ceppo per ricevere il colpo di grazia: – E se vi avessi chiesto di sposarmi, Esther? – Cosa mi dite, Abram? L’avevo tanto sperato… Il giorno delle vostre dimissioni, lo speravo ancora, vi ho baciato, voi non avete reagito… A che pro rivangare questo tempo andato… Questo tempo andato! Vedevo con orrore il suo sguardo indifferente. Perché mi recitava questa commedia? Non contenta di aver devastato la mia esistenza, tornava dopo trent’anni per costatare i danni e con l’occasione darmi il colpo di grazia? Andrebbe senza dubbio pure a sputare sulla mia tomba? Non ne avrà l’occasione. Si è alzata per andare a lavarsi le mani, come dicono le donne di mondo. Vacillava, il suo culo aveva guadagnato in maestà, non ero il solo ad ammirarlo. Ho versato nel suo vino il contenuto di una fiala di babone. È tornata, sollevata e truccata a nuovo. Ho fatto tintinnare il mio bicchiere contro il suo dicendo: “Al nostro amore nato morto, cara Esther”. L’ho guardata bere, poi le ho domandato se le andava di vedere delle foto di lei e me, fatte all’epoca dell’ospedale. Si è mostrata interessata ma affrettata. Dovevo andarle a prendere nella mia macchina, parcheggiata a duecento metri, mi ci volevano cinque minuti. Mi ha pregato di fare presto. Ho attraversato il ristorante sforzandomi di camminare dritto. Sul boulevard du Montparnasse regnava una calma inusuale. Ho spinto la porta di un caffè di fronte a La Coupole. Mi sono accomodato vicino a una finestra e ho preso un caffè. Al tavolo vicino, una donna dalla faccia da giumenta fumava un sigaro,

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scostando all’indietro i capelli che le ricadevano instancabilmente sugli occhi. Al bancone un uomo col berretto discuteva con il padrone. In capo a una mezz’ora, si è sentita la sirena, l’ambulanza si è sistemata sul marciapiede, due barellieri in camice bianco si sono precipitati nel ristorante. Il padrone ha detto scuotendo la testa: “Laggiù si crepa di fame, qui si crepa di troppo mangiare”. I portantini sono usciti, portando la barella sulla quale era steso un corpo dissimulato sotto una coperta. Dei curiosi facevano attorno a loro una sorta di picchetto d’onore. Ho pensato che l’omicidio di Esther non era così gratuito come quello della bevitrice di birra del Palamède: c’era di mezzo un ritorno della mia vecchia passione, era un crimine quasi passionale. Avevo assassinato l’ebrea che avrei dovuto sposare. Mia madre ne sarebbe stata inorridita, ma non si sarebbe per questo gettata dalla finestra. Ho scorto il giudice Goth, infagottato in un lungo cappotto verde, che camminava a rapidi passi verso la rue de La Gaîté. Come faceva a essere così puntuale? Non lo temo più: il suo silenzio enigmatico fa di lui un complice. Un giorno lo stanerò e lo farò fuori. Mi servirà un revolver. Ha guardato nella mia direzione, mi sono ritratto all’indietro e un peto sonoro è partito come una pallottola vagante. Ho tentato di confondere le tracce tossendo rumorosamente, ma la natura della deflagrazione era evidente. La giumenta ha soffiato rabbiosamente il fumo del suo sigaro, ha gettato delle monete nel sottobicchiere e se n’è andata al trotto. Il padrone ha brontolato: “E in più vengono a scoreggiarci in faccia”. Una visione diabolica mi ha assalito: vedevo il papa che pronunciava la sua omelia, seduto sulla sua poltrona come un buddha sofferente, la testa inclinata sulla spalla destra; all’improvviso un peto canonico scappa dalla santa sede; i cardinali, in piedi al suo fianco, si scambiano degli sguardi atterriti: quando un papa si

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mette a fare aria urbi et orbi, non conviene riunire un conclave, senza indugio, per eleggere un vice-papa1 di sicurezza? Nessuna intenzione blasfema in queste digressioni ecclesiastiche. Mille scuse, signori giurati, non sono responsabile delle mie allucinazioni. D’altronde, mi sentivo solidale con quel valoroso e instancabile pastore, che percorre come una via crucis i cinque continenti a favore della pace nel mondo. Io e lui eravamo uniti dall’artrosi. Sogno l’avvento di un papa ebreo, che gli ebrei accoglieranno come il figliol prodigo che torna nella casa paterna; reintegrando la Sinagoga, la Chiesa che si asperge generosamente di pentimento, questo deodorante universale, riceverà forse il perdono che ha chiesto al suo dio per aver commesso, per venti secoli, il peccato di anti­giudaismo; allora il papa aggiungerà al suo repertorio una benedizione in Yiddish, i due testamenti saranno unificati, il Vaticano trasferito a Gerusalemme, ecc.… La collera del padrone era lungi dall’essere sbollita. Ha borbottato sbirciandomi con disgusto: “Il bagno, signore, è di là. L’uscita, di qua!”. Anche se le leggi della Repubblica vietano di maltrattare i vecchi nei luoghi pubblici, era prudente sloggiare. Sull’uscio, ho lanciato: “Sappiate, signore, che anche il papa peta”. Ho l’impressione di aver dimenticato qualcosa di essenziale. Tutto ciò che faccio ha un gusto postumo.

1.  Soupape de securité significa “valvola di sicurezza”, intraducibile il gioco di parole tra soupape e sous-Pape. [N.d.T.]

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12 agosto 1942

Sono arrivato a casa di mio padre e mia madre due ore dopo il loro arresto da parte della Gestapo. Pierre, il barista, mi ha esortato a fuggire, a nascondermi. Maurice Chevalier cantava: Dans la vie faut pas s’en faire, moi je m’en fait pas. La Francia all’unisono rispondeva: Prosper, Yop la boum1! I miei genitori venivano trasferiti a Drancy. Degli amici comunisti mi hanno introdotto nel gruppo AL dei partigiani armati e sono stato chiamato Fabrice. Per la mia prima missione dovevo andare in una libreria del boulevard R. e domandare a M. Gilbert se le lettere di madame de Sévigné fossero arrivate. Il libraio, un ometto magro in cardigan, mi ha detto a mezza voce, mentre puliva le lenti dei suoi occhiali, che le aspettava per mercoledì. Non ho dovuto tornarci; sarebbe stato mandato qualcun altro. Non ho fatto domande, mi piacevano quei misteri. Ero fiero di far parte di questa

1.  Due canzoni di successo di Maurice Chevalier, molto famose in Francia durante la Seconda guerra mondiale. Dans la vie faut pas s’en faire, moi je, m’en fait pas significa: “nella vita non bisogna prendersela, io non me la prendo”. [N.d.T.]

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confraternita segreta. Sognavo di mitragliare sentinelle, di far deragliare treni, di liberare prigionieri. Nella tasca interna sinistra del mio giaccone avevo una pistola FN 7 e 65 prelevata da un miliziano ucciso in un’imboscata a Belleville; nella tasca sinistra, una falsa carta d’identità a nome di Fabrice Dedonge. Ero costantemente sul chi va là. Per strada, avevo il viso chiuso e lo sguardo in agguato del resistente armato. Il 16 agosto, boulevard du Port Royal, Lambert il balbuziente e io, portando ognuno una mina da dieci chili, scaliamo il muro di una scuola requisita dai tedeschi. Facciamo saltare in aria i cinque camion che stazionavano nel cortile. Dei soldati sparano, Lambert cade, io continuo a correre: erano gli ordini. Il 21 agosto sono a bere vino bianco al Petit navire, un bistrot di rue de Varenne, con Simone (il suo vero nome Ruth Blum), responsabile della tipografia clandestina. Dalla finestra vedo arrivare tre uomini dal cappotto di pelle nera. Ho appena il tempo di ficcare la mia pistola nella tasca di un soprabito qualunque appeso all’attaccapanni dietro di me. Entrano: con lo stesso riflesso, Ruth e io ci baciamo sulla bocca e chiudiamo gli occhi, benché avessimo avuto fino a quel momento solamente delle relazioni militanti. Con le nostre bocche incollate l’una all’altra non ci muovevamo più. Cosa ci ha ispirato questo riflesso simultaneo? La speranza puerile di imbrogliarli o di intenerirli offrendogli il quadretto di due amanti innocenti? Credo piuttosto che avessimo avuto, nello stesso momento, la folgorante certezza che eravamo perduti e che il tempo dei preliminari fosse finito. Il nostro idillio fu di breve durata. Sono venuti dritti al nostro tavolo e non ci hanno neanche domandato i documenti. Un collaborazionista ci aveva denunciati, non come partigiani, ma come ebrei. Qualche giorno più tardi fu identificato e giustiziato dai compagni.

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Ci hanno condotto al campo di Drancy, dove siamo stati iniziati alla fame, alla vessazione, all’avvilimento, alla sporcizia, ai parassiti. Davanti alla porta del dormitorio in cui erano ammucchiate più di sessanta persone affette da dissenteria, due secchi pieni di merda e di urina che sgocciolavano per le scale simbolizzavano perfettamente lo Stato francese collaborazionista. In capo a un mese siamo stati portati alla stazione e infornati nei vagoni di un treno merci. Giocando di gomiti ho potuto raggiungere Ruth contro una delle pareti, vicino a un lucernaio. Le nostre labbra non si sono praticamente mai staccate durante i tre giorni e le tre notti che è durato il viaggio. Il sale dei nostri baci è ancora sulle mie labbra. Riuscivamo a fare astrazione dal fetore, dalle grida, dai lamenti. Andavo verso la morte con la donna della mia vita. Ad Auschwitz siamo stati separati e non l’ho più rivista. Non c’era nessuno ad aspettarmi quando, nel maggio del 1945, sono stato depositato come un pacco fragile all’Hotel Lutetia. Avevo trentatré anni e più o meno lo stesso numero di chili. Una parte di me non era tornata. I miei genitori mi avevano preceduto ad Auschwitz, da dove sono potuti scappare solo attraverso il camino. Rivolgendosi ai giurati: mostrare pentimento. Il racconto che precede è una favola, tutto è falso, eccetto la deportazione e la morte dei miei genitori. Non sono stato né partigiano né deportato. Ruth non è esistita. O meglio, sicuramente è esistita ma io non ho avuto la fortuna di incontrarla. Nel 1942 sono passato in zona franca e ho raggiunto Aix-lesBains, dove ho trovato un impiego come aiuto fornaio presso Marcel Bigre, gestore del Croissant d’Aix. Vi sono rimasto fino alla fine della guerra. In materia di forni ho conosciuto solo i forni per il pane. Al mio ritorno, dopo la Liberazione,

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ho beneficiato indebitamente della compassione circospetta che suscitavano gli ebrei superstiti. Quegli spettri provocavano uno strano malessere, come se si vedesse in loro dei testimoni dell’accusa. Io, di fronte ai sopravvissuti ai campi della morte, avevo vergogna delle mie guance paffute. Il loro silenzio spettrale, i loro sguardi dell’aldilà, sembravano accusarmi di tradimento e di impostura. Avevo l’impressione di rubare loro la ricompensa per le loro sofferenze, di fregiarmi del loro pigiama a righe. I miei genitori non erano ritornati. Avevo vergogna di non essere morto. Poi è stato glorificato l’eroismo dei partigiani e ci si è stupiti della docilità degli ebrei che si erano lasciati portare al macello come delle pecore. La commiserazione si tinse del disprezzo che ispira la vittima consenziente. Coloro che non si erano battuti non potevano evidentemente aspirare allo stesso prestigio, alla stessa gloria di quelli che erano morti in piedi, armi alla mano. Le associazioni dei partigiani videro aumentare considerevolmente i loro effettivi. Più passavano gli anni più le memorie assopite si risvegliavano: gli uni si ricordavano all’improvviso di avere, una sera del 1944, imbucato una lettera pericolosa; gli altri avevano sfidato il coprifuoco; un tale aveva preso per il naso un soldato tedesco: tutti quanti avevano nascosto almeno un ebreo; nessuno aveva acclamato Pétain. Partigiani ignoti quanto il milite che riposa sotto l’Arco di Trionfo, acconsentivano, vent’anni dopo, a uscire dalla clandestinità; un po’ dappertutto suonava il campanello della venticinquesima ora. Il berretto alpino e il cappello di feltro di Jean Moulin conobbero una gran voga. Io, l’imboscato di Aix-les-Bains, abbassai la testa. Adesso, fingendo, nelle pagine precedenti, di usurpare i titoli dei partigiani e dei deportati, ho solamente voluto gustare, un istante, il sentimento che si prova a essere guardato come un eroe dal destino tragico, assaporare l’ammirazione del mio credulo lettore. Avrei potuto non smentire, lasciar sussistere la menzogna. Apprezzate il mio senso etico.

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I miei crimini non saranno una forma di resistenza? Di resistenza a che? Non vado oltre, per paura di diventare osceno. Andiamo, il crimine senile dipende da un’eziologia mal compresa. Per ingannare la mia noia, invento dei rebus, delle sciarade, dei calembour, delle allocuzioni dall’apparenza barbara: Grounjou, Rahamin, Blahetz! Mi ci ritrovo.

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Giorno di pioggia

Valetudinario. Sua Eccellenza Valetudinario si riposa, non c’è per nessuno. Da due giorni piove: non sono uscito. Paura di scivolare sul selciato bagnato e di fratturarmi il collo del femore. La frattura del collo del femore è la mia ossessione. Il mio femore è il mio tallone di Achille. Achille, Patroclo. Patroclo, Ettore. Ettore, Paride. Paride, Priamo. L’Iliade. L’Acheronte. Ho adesso l’audacia di riconoscere che non ho mai letto l’Iliade. Né la Divina Commedia. Peggio per me. Come si può osare di morire senza aver letto questi capolavori? Troppo tardi. L’altro giorno l’ascensore era guasto. Ho dovuto risolvermi a salire a piedi. Sul pianerottolo del primo piano ho temuto un infarto. Un quarto d’ora più tardi crollavo sull’ultimo gradino del secondo. Ho sentito dei passi che venivano dai piani superiori, qualcuno scendeva. Era Aurélien, il giovane attore del quinto piano. È un bel ragazzo di ventitré anni, slanciato, con degli occhi grigio-azzurri, la capigliatura bohémienne. Non solo mi saluta, ma mi parla, mi domanda se io abbia bisogno di qualcosa, mi fa la spesa. Si è offerto di aiutarmi a salire l’ul-

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tima rampa di scale. Tenendomi saldamente sotto le braccia, mi ha issato, gradino per gradino, fino al mio appartamento, ha aperto la porta e mi ha depositato sulla poltrona. Mi sarebbe piaciuto avere un figlio come lui. Sono certo che ha la stoffa di un grande attore, farà una bella carriera. Lo nominerò nel mio testamento… Dopo aver ripreso fiato, mi sono toccato la spalla destra con le dita della mano destra, ho teso il braccio in avanti e ho detto: Hé hé! La Gayssa! È una delle mie formule. Ma cosa diavolo ci faccio ancora quaggiù? Se non ci fossero i miei affari criminali… Ma gli affari sono difficili, come diceva tutte le sere Pinkus Goldberg, il sarto di rue de Turbigo. Il mio bottino di caccia è piuttosto magro: c’è l’affascinante lesbica del Palamède, Esther… Il conto non torna, sono sicuro che c’è una terza vittima che non riesco a identificare. Mi rifiuto di controllare su questo quaderno. Non mi fido di ciò che ho scritto. Sono ben capace di aver infilato nel mio diario degli aneddoti fittizi per fuorviarmi da solo nel caso in cui mi azzardassi a rileggermi. Mi conosco: mi capita di giocarmi dei brutti tiri. Ciò che la mia memoria non mi restituisce spontaneamente è perduto. Questa è la mia regola del gioco. Una sensazione di umidità sul mento mi ha disturbato. Era un rivolo di bava. Le mie ghiandole salivari diventano incontrollabili. Mi sono asciugato con un asciugamano di spugna che tengo a portata di mano. Puzzava. Chiederò a Germaine di cambiarlo. Quando sarò seduto sul banco degli imputati, con le mani posate sul pomo del mio bastone, irriterò i miei giudici con la mia calma arroganza. No.

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Volevo mangiare una fetta di pane a cassetta con delle sardine sott’olio. È il mio piatto preferito. Salivavo disperatamente. Non sono riuscito ad aprire la scatola di sardine; ho raccolto tutte le mie forze, ma la linguetta non girava di un millimetro. Questa è la vecchiaia. Mi sono accontentato di intingere il mio pane in un po’ di latte. Ho preso le mie cinque pasticche della sera e mi sono messo a letto, il pappagallo tra le cosce.

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Ven 27

Lo squillo del telefono mi ha svegliato. Le lenzuola erano bagnate: il mio pene era uscito dal collo del pappagallo. Bisognerà che trovi un sistema per attaccarlo. Il pappagallo. Il telefono sembrava tutto galvanizzato di riprendere servizio. Ero pronto ad avere una discussione con il giudice Goth. Mi accingevo a dirgli di andare a farsi fottere altrimenti avrei sporto denuncia per molestie morali. Era Isabelle Perruche, la mia paziente dall’inenarrabile vagina. Si scusava di non poter venire alla seduta di questa mattina poiché era un po’ malata. Ho capito che avevo appena trovato la mia terza o quarta vittima. Perché complicarmi la fine della mia esistenza a correre dietro a una vittima sconosciuta, esponendomi a ogni tipo di rischio, quando avevo Isabelle tra le mani? Sarei stato finalmente libero dai deliri della sua topa. Ho detto, dottoralmente perentorio: – Dovete curarvi signora Perruche. – Oh! Non è nulla di grave, dottore, sono raffreddada, mi sendo un po’ debole… Perché mi dava improvvisamente del “dottore”, quando mi ha sempre chiamato signor Potz? Strano. – Avete chiamato un medico? – No, ma…

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La mia strategia nasceva dalle parole che la mia bocca pronunciava: – Siete allettata? – Eh… Sì, ma… – Sapete cosa faremo, signora Perruche? Resteremo buone buone nel nostro letto e io passerò a visitarvi. Sì, sì, lo voglio. So ancora usare il mio stetoscopio, sapete? E se constato che il vostro stato lo permette, faremo la nostra seduta di analisi. Due piccioni con una fava. Che ne pensate? Non ci sono “ma”: vengo. Curiosamente non si è fatta pregare per dirmi il numero del codice di sicurezza; la porta del suo appartamento sarà socchiusa… Strano. Mi sono preparato con il sangue freddo di un assassino provetto. Cominciavo a essere pratico del mestiere. In un cassetto ho trovato un portacipria di smalto nero. Ricordo di una donna di cui avrei dimenticato il nome quanto il viso? Può darsi. Ho avuto l’intuizione che lo specchietto interno avrebbe potuto essermi utile; l’ho messo nella mia cartella con uno sfigmomanometro dalla pompetta spaccata, dei guanti da chirurgo e uno stetoscopio fuori uso. Al momento di uscire, ho giudicato opportuno dire: Miniouh, gaï aroupp finn tich, cosa che, in tali circostanze, potrebbe tradursi con: alea iacta est. Nel taxi ho voluto assicurarmi che il giudice Goth non mi seguisse. La mia artrite cervicale mi impediva di girare la testa; ho pensato al portacipria, lodandomi per il mio spirito inventivo. Quando l’ho aperto, una nuvola di polvere di riso alla vaniglia si è sparsa nell’automobile. Mentre ispezionavo dietro di me nel piccolo specchio che tenevo all’altezza degli occhi, ho sorpreso nel retrovisore lo sguardo divertito del conducente: mi prendeva per una vecchia checca. Non mi andava di deluderlo:

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mi sono picchiettato le guance con il piumino, ho passato la punta dell’indice sulla lingua e mi sono lisciato le sopracciglia. Per poco non andava a sbattere. Gli ho detto: “Faresti meglio a guardare davanti, tesoro”. Non smetteva comunque di squadrarmi con gioiosa impertinenza. Ero piuttosto intrigato dal comportamento di Isabelle Perruche. Le sue proteste erano state deboli, aveva accettato troppo facilmente la mia offerta di servizi medici. E se fosse lei ad aver tramato per attirarmi nella sua camera? Se fosse un sotterfugio da donna in calore? Certo era in menopausa, ma aveva l’animo lascivo. E se le fosse presa la fantasia di attirarmi nel suo letto? Mi rendevo conto che la mia impresa non era priva di pericoli. Il taxi si è fermato davanti a un immobile di sei piani, in rue du Général de Gaulle a Vincennes. Entrando nella cabina dell’ascensore, ho inciampato e mi sono spalmato a terra. La porta si è richiusa automaticamente e l’ascensore è salito. Una frattura del collo del femore in questo momento mi avrebbe annientato. Per fortuna, uno spesso zerbino aveva ammortizzato la mia caduta. L’ascensore si è fermato, la porta si è aperta e un grosso e gioviale barbuto in tuta blu macchiata di morchia ha esclamato: “Ma che vi è successo, mio povero signore?”. Si è chinato e mi ha risollevato con le sue larghe mani da proletario. Mi ha porto le mie stampelle e mi ha chiesto a che piano andassi. – Al quarto. – Dalla signora Perruche? Ho fatto sì con la testa. Mi ha esaminato con occhio malizioso e scettico. Quando l’ascensore si è fermato, mi ha aiutato a uscire dicendomi: “Siate prudente”. I sottintesi di quello zotico non facevano che aumentare i miei timori. Ho richiuso rumorosamente la porta dell’appartamento per annunciarmi. Isabelle mi ha gridato di venire nella sua camera, in fondo al corridoio. Era seduta nel suo letto in camicia

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da notte di raso rosa. Non portava il reggiseno. I suoi seni dai capezzoli turgidi riposavano sul suo addome come dei sacchi di farina. I suoi capelli brizzolati e disfatti cadevano sulle sue pesanti spalle. Pensavo al sorriso beffardo del barbuto dell’ascensore. Forse Isabelle è la sgualdrina del palazzo? Avevo l’impressione di essermi fatto mettere in trappola. Mi disse con una voce debole: – Vi ringrazio, dottore, ma veramente non avreste dovuto… – Andiamo, andiamo, lasciatemi fare, rilassatevi… La mia bocca era secca come una cisterna gallo-romana. Il mio diploma, decisamente antiquato, di dottore in medicina mi dava il diritto di giocare impunemente con quel corpo paffuto, di toccarlo dove volevo, di impastarlo, di esplorarne tutti gli orifizi. Ne ho conosciuti che facevano medicina solo per questo. Le ho suggerito di rilassarsi, e ho fatto la stessa raccomandazione anche a me stesso. Ho ficcato il termometro nei peli neri della sua ascella sinistra. Si sentiva solo il fischio della mia respirazione. Ho afferrato il suo braccio per prenderle in polso. Il battito del mio cuore mi impediva di concentrarmi sul ritmo del suo, che era, del resto, l’ultimo dei miei problemi. Mi immaginavo aspirato dal suo sesso spalancato come una bocca di squalo, schiacciato, mentre soffocavo tra le sue larghe cosce. Perché mi aveva fatto venire? Questa donna che sta invecchiando, ma ancora giovane, non sarà una gerontofila? Questa perversione non è così rara come si crede. Sono pagato per sapere che le deviazioni sessuali sono illimitate. I vecchi, per esempio, cedono spesso al voyeurismo. Victor Hugo, a settantotto anni, pagava giovani donne per guardarle nude, dando un supplemento per poterle toccare; il vecchio Léautaud, privato di nudità femminile, di pose licenziose e di leccate, si consolava guardando delle foto; io stesso… Il sesso muore, la voglia rimane… Ho sobbalzato: lei mi parlava: – Sembrate pensieroso, dottore… qualcosa di anormale?

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Un po’ di angoscia non le avrebbe fatto male: ho preso un’aria evasiva e, senza risponderle, ho abbassato la palpebra inferiore del suo occhio sinistro, le ho fatto tirar fuori la lingua, che era biancastra e carica, poi ho preso il mio stetoscopio. I ricevitori del mio apparecchio acustico mi impedivano di introdurre le estremità nelle orecchie. Ho trovato il pretesto di lavarmi le mani, lei mi ha indicato il bagno. Sulla porta, di spalle, l’ho pregata seccamente di spogliarsi fino alla vita; non avevo ragioni sufficienti per esaminarla sotto la cintura. Il bagno odorava di profumo dolciastro e di biancheria sporca. Ho tolto le mie protesi e ho bevuto un po’ d’acqua dal rubinetto. Con lo stetoscopio attorno al collo, sono tornato in quella che i giornalisti avrebbero presto chiamato, se tutto fosse andato bene, la scena del crimine. Lei aspettava, docile, nuda conformemente alle mie istruzioni, con gli occhi bassi. I suoi seni bianchi e venati mi hanno fatto pensare a delle zucche giganti. Quando scorgerò delle zucche esposte nel negozio di verdura, rivedrò i seni di Isabelle Perruche. Mi sono seduto di sbieco sul bordo del letto e mi sono chinato per posare il mio orecchio destro sul suo seno sinistro. Che imprudenza! Ho perso l’equilibrio e la mia testa è caduta sul suo ventre mentre mi mordevo la lingua. La pancia di Isabelle era flaccida, calda e palpitante. Privo di bicipiti, di diaframma, di psoas, di natiche, principali elevatori muscolari, ero incapace di rialzarmi. Lei ha posato una mano sul mio cranio. Ho temuto che, fraintendendo le mie intenzioni, volesse avvicinare il mio viso al suo basso ventre il cui rudi sentori martirizzavano le mie narici. Per tirarmene fuori, ho dovuto decidermi a confessarle il mio crollo muscolare e a sollecitare il suo aiuto. Lei ha riso, mi ha afferrato per le spalle e mi ha rimesso dritto, Ero umiliato. Ho preso, per auscultarla, l’espressione burbera di Louis Jouvet nel ruolo del dottor Knock. Le passavo il piccolo cilindro sul petto, sulla schiena, ordinandole di respirare dalla bocca, di espirare, di tossire. Dopo aver messo a posto il

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mio stetoscopio posticcio, ho palpato le estremità mammarie intorno alle areole. Mentre si ritirava su le spalline della sua camicia da notte, le ho fatto domande sulle sue feci, urine, digestione, sonno… Lei mi guardava interrogativamente; ho dato il mio pronostico: – Abbiamo un po’ di anemia, con l’aggiunta di un po’ di ipertensione. Mi farete il piacere di ingoiare questa miscela di piridossina e vitamina B12. Dopo di che, riposo assoluto. Sul comodino c’era un bicchiere e una bottiglia di acqua minerale; ho versato un po’ d’acqua nel bicchiere e vi ho aggiunto, sotto il suo sguardo ansioso, il contenuto di una fiala di babone. Lei ha bevuto tutto d’un fiato. L’obbedienza dei malati ai loro medici è letteralmente suicida. Non so perché ho pensato al dottor Petiot che, durante l’ultima guerra, ha bruciato una quarantina di donne in una stufa. Eppure non ho nulla in comune con quell’indegno collega: i suoi crimini erano venali, i miei sono gratuiti. Sono ritornato in bagno, dove ho atteso l’esito fatale, seduto sul sedile del water, con la schiena appoggiata contro la cassetta dello scarico. Speravo che Isabelle non soffrisse troppo. Nell’appartamento regnava un silenzio assoluto, propizio alla meditazione. La mia calma mi stupiva. È da credere che i sentimenti si dissolvano in vecchiaia. Si direbbe che l’anima del vecchio si rivesta di una crosta di indifferenza come ci si protegge il busto con un giubbotto antiproiettile. Il vecchio è al di là del bene e del male, al di fuori della vita, in sintonia con il tempo allo stato puro. Egli rinuncia a fare progetti, manca di tempo per realizzarne alcuno. Non coniuga più i verbi al futuro semplice, il suo presente è un isolotto circondato dalla morte, la gran parte del suo passato è svanita: si ritrova addossato alla sua infanzia, in totale contiguità con essa. Svuotato di ogni progetto, la sua vita non ha senso e si ferma, attende che

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la morte lo afferri. Io, invece, inganno la morte somministrandola agli altri. La premeditazione dei miei delitti mi proietta nell’azione, la loro esecuzione mi fa vivere intensamente. La mia vita ritrova un senso, i miei progetti criminali mi danno una seconda vita, per quanto breve essa sia. Alleluia. Stavo defecando quando lei mi ha chiamato con una voce alterata: “Dottor Potz… Che fate?… Non mi sento bene!”. Le mie feci avevano un buon aspetto. Ho gridato: “Arrivo, arrivo!…”. C’è stato un rumore come di un bicchiere infranto. Lei ha urlato: “Che cosa mi avete fatto?”. Il mio sfintere si è contratto. Mi avrebbe fatto scoprire? E se le restassero abbastanza forze per trovare un antidoto? Se chiamasse la polizia? Ha implorato: “Aiuto!”. La sua voce si indeboliva. Ero di ghiaccio. Mi sono alzato con fatica e ho riabbottonato i pantaloni. Poiché non la sentivo più, ho impugnato le mie stampelle e ho fatto due passi nel corridoio, l’orecchio teso. Ho percepito dei lievi rantolii, poi il silenzio. Mi sono avvicinato alla porta della camera, ho sporto la testa: la posizione del suo corpo e il disordine delle lenzuola attestavano che aveva combattuto una grande battaglia contro la morte. Le coperte erano sparse a terra, lei era sdraiata supina, la gamba sinistra fuori dal letto, la gamba destra piegata, il braccio sinistro steso, la mano destra che stringeva un lembo della camicia da notte rialzata fino al ventre, la vagina leggermente socchiusa sotto il vello rado. Non si muoveva: avevo appena perso la più loquace delle mie pazienti. Misericordia! Ho avvicinato una sedia per contemplare da vicino quella fessura della voluttà dove il mondo ha la sua fonte. Non mi ci abbevero più da così a lungo che ne avevo dimenticato i contorni. Non ero più in grado di renderle l’omaggio di un ultimo oltraggio; se anche lo fossi stato, confesso che non l’avrei fatto. Immaginavo, in compenso, un cero scaturire dalle sue viscere come un fallo lunare. Questa

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visione mi ha ispirato una simpatica quartina che ho salmodiato a mezza voce: O vagina venerabile O fica impenetrabile La tua storia è finita, Ah! Tristezza infinita.

Lo squillo del telefono ha interrotto la mia veglia funebre. Perso nei miei sogni a occhi aperti, ho risposto senza rendermene conto: “Isabelle?”. Non ci si poteva sbagliare: era la voce sdolcinata e dispotica di un amante in cerca di copula. Canticchiava: “Sei lì, amore mio?”. Queste sdolcinatezze mi hanno profondamente irritato. Ho detto: – Non c’è più nessuna Isabelle, ragazzino. La passerina non canterà più. – Come? – Isabelle è morta. – Voi chi siete? Cosa… – Io sono l’assassino di Isabelle, ragazzino, la passera non avrà più orgasmi… Jam Jouk! – …! – Ho la sua vagina davanti agli occhi, ragazzino. Non respira più, le sue grandi labbra sono pallide… Inclinando la testa da un lato, intravedo sotto la mucosa rosa del vestibolo, i follicoli mucipari e le ghiandole vulvari dette ghiandole di Bartolini. Si direbbe un tubero spugnoso. Pronto? Ti ascolto ragazzino… Aveva riattaccato, il villano. Indossavo dei guanti da chirurgo. Isabelle sembrava un’esibizionista che facesse finta di dormire. Sono andato nel salone arredato con mobili art déco, dove ho notato, di sfuggita, un’orchidea viola. Ho reciso uno dei suoi labelli e sono andato a posarlo sulla fica di Isabelle. Gustave Courbet avrebbe fatto di questa natura morta un capolavoro. Ho chiamato un taxi dal telefono. L’autista, un giovane uomo

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loquace, mi ha accompagnato fino alla porta d’ingresso del mio palazzo sostenendomi per il gomito. Se gli indizi materiali che ho lasciato dietro di me non mettono la polizia sulle mie tracce, questa sarà la prova della sua imperizia e, da quel momento in poi, tutto mi sarà permesso.

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Samenica 28

Costipazione dolorosa. Un obice mi ostruiva l’ano. Malgrado i dolori che mi dilaniavano il ventre, la lettura del giornale mi ha provocato piacere. Era a pagina quattro. Pazienza, ben presto guadagnerò la prima pagina. Una morte sospetta. Questo venerdì 27 novembre, il corpo senza vita di Isabelle Perruche, di anni 57, è stato scoperto nella sua abitazione, a Vincennes. Il decesso potrebbe essere stato causato dall’ingestione di sostanze tossiche. È stata ordinata l’autopsia. Suicidio o omicidio? Secondo le nostre fonti, gli inquirenti sembrano privilegiare l’ipotesi del delitto. È stato un amico della vittima, Jacques Bourbon, ingegnere commerciale, anni 32, ad aver avvertito la polizia. Avrebbe dichiarato di aver telefonato alla Perruche nel tardo pomeriggio e di essersi imbattuto in uno sconosciuto che avrebbe confessato in termini osceni di aver assassinato la cinquantenne. Il signor Bourbon ha inizialmente creduto a uno scherzo di cattivo gusto. Poi si è recato nell’appartamento della Perruche, dove ha fatto la macabra scoperta. La malcapitata era stesa, in camicia da notte, sul suo letto, che si trovava in gran disordine. Il procuratore ha evocato una macabra messa in scena. Non è stata rilevata alcuna traccia di effrazione o di violenza sessuale. Jacques Bourbon è stato messo sotto sorveglianza. Il suo fascicolo è stato assegnato al giudice istruttore

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Taureau-Dumensnil. Ci teniamo a ricordare ai nostri lettori che Jacques Bourbon è legalmente presunto innocente. Ce l’avevo su con il giornalista per non aver menzionato il sesso fiorito di Isabelle. Ero arrabbiato per essermi fatto soffiare la ribalta da questo Jacques Bourbon, ma lo rispedirò presto nel suo anonimato. Lo lascerò sguazzare per qualche tempo nel pentolone giudiziario, così imparerà a immischiarsi nei miei affari. Ma non gli permetterò di belare la sua innocenza davanti alla corte d’assise. Non avrà l’onore dell’errore giudiziario. Ho creato io il personaggio, mi appartiene, non mi serve la controfigura. Contrariamente alla maggior parte degli accusati io proclamerò la mia colpevolezza. Hm Hess.

Ore 11:00 Sono uscito a prendere un po’ d’aria. C’era gente sui marciapiedi. Temendo di essere spintonato, avanzavo prudentemente, pronto a scansarmi, ma le persone mi evitavano, la folla si divaricava davanti a me, come se la strada avesse decretato la mia messa in quarantena. Se avessi avuto una mitragliatrice, avrei sparato nel mucchio. All’entrata di una banca, ho notato due uomini di alta statura, vestiti con impermeabili beige, immobili come due cacciatori appostati. Uno di loro guardava nella mia direzione, l’altro fingeva di non vedermi. La loro stessa immobilità, in mezzo alla calca, li tradiva: era evidente che mi stessero sorvegliando. Sono tornato indietro. Dopo cento metri ho preso una strada a destra, poi una a sinistra, e così di seguito. Dopo molte deviazioni, sbucando sulla via di casa mia, li ho visti precipitarsi in un alimentari. La caccia all’uomo era cominciata.

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Sono rientrato per riflettere. Il mio appartamento era stato visitato. L’ho capito anche prima di entrarci. Chiudo sempre la porta a chiave quando esco. Mai, assolutamente mai, nel corso degli ultimi trent’anni, ho omesso di chiudere la porta di casa a chiave. Ero assolutamente certo di averla chiusa quando ero uscito poco prima, poiché mi ricordavo che la chiave era caduta in terra e che avevo avuto difficoltà a chinarmi per raccoglierla e introdurla nella serratura. Non si dimenticano questo tipo di cose. Ora, la porta non era chiusa a chiave. All’interno regnava l’ordine, tutto era stato rimesso a posto. Ma non ho avuto bisogno di molto tempo prima di costatare che la mia incantatrice di serpenti, una statuetta in pietra di Sassonia, non si trovava più sul tavolino. Perché prendere quella statuetta? Per farmi perdere la testa e commettere un errore? O si trattava, più sordidamente, di poliziotti disonesti? Avrebbero delle belle noie se sporgessi denuncia. Ma non sono un idiota… Cosa erano venuti a cercare? Avevano un mandato di perquisizione? Preso dall’inquietudine, ho aperto il cassetto della mia scrivania dove ripongo le mie fiale di babone (dovevano restarmene una o due): non c’erano. Nemmeno nell’armadietto del bagno. Se detenevano questa prova, ero cotto. Le domande si affollavano in disordine nella mia testa. Perché non mi arrestavano? Per quale dei miei crimini mi perseguitavano? La donna da Palamède? Poco probabile, a meno che Goth non si sia deciso a denunciarmi, cosa della quale ho buone ragioni di dubitare. Esther Weisberg? Questo mi sembrerebbe ancora meno verosimile. Restava Isabelle Perruche. Diversi testimoni potrebbero riconoscermi: il ciccione barbuto dell’ascensore, l’autista del taxi che mi aveva preso per una vecchia checca, quello che mi ha riportato a casa mia… Ho forse dimenticato qualche strumento nella camera? Jacques Bourbon avrà trovato un alibi? Avevano potuto trovare delle tracce del mio DNA?… La storia si faceva appassionante.

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Cercando la mia penna nella tasca della giacca di velluto, ho messo la mano su un’ampolla di babone. Non ho ancora detto la mia ultima parola. Il telefono ha squillato di nuovo. Mentre avvicinavo la cornetta al mio orecchio, ho sentito un clic caratteristico: la mia linea telefonica era sotto controllo. Una voce maschile grossolanamente contraffatta ha grugnito: “Potz?”. Io ho grugnito di rimando: “Shmok?”1. Taceva, senza dubbio disarcionato dalla mia risposta, ma lo sentivo respirare. Non mi sembrava che fosse il giudice Goth. Ma allora chi? Siamo rimasti senza parlare per diversi minuti. Ho detto: “Ciao, shmoki”, e ho riattaccato. Non hanno richiamato.

1. “Pene”, “cazzo” in Yiddish. Il nome comune Potz ha un significato equivalente ed è anche impiegato nel senso di “coglione”, “cretino”.

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29 novembre

La mia memoria colabrodo si svuota della sua sostanza. Le mie dimenticanze e le mie confusioni si moltiplicano. I miei trucchi mnemonici non funzionano più. Non sono nemmeno tanto sicuro che oggi sia martedì 29 novembre. Questa mattina, alle undici, sono entrato nella farmacia Grognard. La farmacista, una megera smorta dalle labbra spesse, gli occhi spenti, era visibilmente contrariata di vedermi pagaiare con le mie stampelle verso il suo bancone. Ho aperto la bocca ma non sono stato in grado di dire niente. Avevo dimenticato che cosa ero andato a comprare. Con le mani nelle tasche del suo camice bianco, la farmacista mi interrogava con il suo sguardo ostile. Ho passato in rassegna le lettere dell’alfabeto per tentare di afferrare al volo l’iniziale del nome del medicinale che mi mancava, sperando che le lettere seguenti si sarebbero attaccate per un effetto calamita. Tempo perso. La farmacista si spazientiva e io ero solamente alla lettera K. Dietro di me si formava la fila, dalla quale emanavano nervosismo e agitazione crescenti. Per guadagnare tempo, ho chiesto una confezione di aspirina. Mentre lei cercava in un cassetto, io rovistavo invano nella mia memoria, leggevo i nomi dei me-

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dicinali esposti sugli scaffali. Quando ha posato sul bancone la scatola di aspirina, ho reclamato un tubetto di vaselina. Poi un lassativo, uno shampoo, del mercurio cromo, delle pastiglie contro la tosse, dei preservativi. La farmacista ha aggrottato le sopracciglia e una donna, dietro di me, ha sbuffato. Mi sono girato, e ho invitato chiunque avesse un’obiezione a farsi avanti. Tacevano, spaventati, prendendomi per un folle. Più niente mi tratteneva: ho lanciato due acuti latrati sostenuti da sguardi furibondi. Nessuno ha battuto ciglio. Allora ho detto alla farmacista abbattuta che poteva tenersi i prodotti che aveva allineato sul bancone, poiché sarei andato in una farmacia dove si rispettavano le persone anziane. Mi sono congratulato con me stesso mentre rientravo a casa, ma ero inquieto all’idea che mi mancassero dei medicinali, forse vitali. Alle undici di sera, la scatola vuota dei sonniferi sul mio comodino mi ha ricordato cosa fossi andato a cercare alla farmacia Grognard. Ero pronto per un’insonnia. Le mie perdite di memoria mi costano perdite di sonno e viceversa.

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30 novembre

I due uomini con il soprabito banale, incaricati di sorvegliarmi, conversavano davanti al chiosco di giornali. Ho fatto loro un cenno con la mano per mostrargli che non ero scemo e che non mi facevano paura. Non hanno reagito. Si sono stretti la mano e se ne sono andati in due direzioni opposte. Mi sono incamminato in una terza direzione. Dieci minuti più tardi mi sono fermato davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento da uomo. Non sono stato sorpreso di vedere, a cinquanta metri da me, uno dei due sbirri che simulava di leggere un libro davanti alla bancarella di un libraio. Contrariamente a quello che pensano questi asini, un soprabito banale non passa inosservato. Sono entrato nel negozio e ho comprato un completo blu notte. Il commesso, un omosessuale squisito, dal mento a punta, dalle sopracciglia depilate, ha preso le mie misure per i ritocchi da fare al pantalone. Si è inginocchiato e ha messo l’estremità del suo metro da sarto nell’incavo del mio cavallo, dove le sue dita frementi si sono attardate. Niente l’obbligava. Quel gesto delicato, anche se la sua finalità era puramente commerciale, mi ha commosso. Una piacevole sensazione ha percorso la mia zona genito-anale. Ecco che scoprivo, a ottantasette anni suonati, delle inclinazioni omosessuali nascoste. È vero, dunque, che lo si può scoprire a ogni età. Capivo meglio

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il vecchio barone Charlus. Il pantalone sarà pronto lunedì per una prova. Gli chiederò di riprendere accuratamente le mie misure. Il soprabito banale mi aspettava, immerso nella sua lettura. Per dargli una lezione di pedinamento a modo mio, ho pensato di trascinarlo in un piccolo cinema porno dove l’oscenità non è sullo schermo ma nella sala. È un ritrovo per vecchi depravati, vi regna un’umidità da porcile, traversata da mormorii e sospiri ignobili; è letteralmente un bordello. Si possono distinguere, nella penombra, dei capelli bianchi e dei crani pelati; e nelle file si indovinano dei toccamenti inauditi. Certi ci passano la giornata, con i loro panini. Io ci sono andato una volta per curiosità; non ho retto cinque minuti. Ma era lontano, e io ero stanco. Mi sono accontentato di sfidare il mio fine segugio levando in alto una delle mie stampelle e sono rientrato a casa senza voltarmi. In una farmacia ho comprato una scatola di sonniferi. Prima di addormentarmi, mi sono chiesto se non dovessi riservare l’ultima fiala di babone per me, nel caso in cui mi sottomettessero a tortura. Ma rinuncerei al mio processo? Mai.

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Venerdì nero, inizio dicembre

Ore undici e un quarto In banca ho dovuto fare la fila per un quarto d’ora abbondante, appeso alle mie stampelle. Nessuno di quei giovani stronzetti che, davanti a me, ridevano, mi ha proposto di cedermi il posto, né, almeno, suggerito che mi venisse data una sedia. Il giovane impiegatuccio ha avuto l’aria contrariata quando mi ha visto davanti al vetro del suo sportello. Era nervoso, tirava su senza sosta gli occhiali che gli scivolavano sul naso piatto. Dopo aver ritirato del denaro in contanti, gli ho detto che volevo conoscere la situazione del mio portafoglio titoli. È sbiancato e si è agitato sul suo sedile, lanciando sguardi oltre la sua spalla. Ha sostenuto che avevo dato l’ordine di vendere tutti i miei titoli il mese scorso, che ero già venuto ieri e che mi avevano mostrato le ricevute di vendita. I suoi discorsi erano confusi. Gli ho fatto notare che ieri era domenica. Ha avuto un sorriso trionfante e mi ha detto con una lentezza insolente: – Ieri era giovedì, signor Potz. Oggi è venerdì. – Mi credete completamente rimbambito, eh? Siete caduto nella trappola, pivello. Credevate veramente che io non sappia che giorno è oggi? Sapete perché è impossibile che io sia venuto qui ieri? Perché, signorino mio, ieri, giovedì, io ero a Roma.

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– Sono spiacente, signore, ma forse avete dimenticato… Ieri voi avete avuto un colloquio con il nostro direttore, il sig. Saulieu. Avete firmato dei documenti… – Ma certo! Sono io che sono pazzo! Ditelo, dunque, zoticone, che io sono pazzo! Il direttore mi si è avvicinato, brandendo dei foglietti gialli, le famose ricevute che sostenevano io avessi firmato ieri. Glieli ho tolti dalle mani e li ho strappati, gridando che non ero certo il primo ebreo a cui facevano il colpo delle false ricevute. L’ho afferrato per la cravatta, le mie stampelle sono cadute a terra, ho avuto un mancamento. Ho ripreso conoscenza seduto su una sedia in un angolo, lontano dal pubblico. Tre impiegati della banca si piegavano su di me con delle facce da becchini. Uno di loro mi tendeva un bicchiere d’acqua che ho respinto violentemente, schizzando la sua camicia bianca. Quegli uomini erano ricchi di milioni di ore da vivere, e mi avevano defraudato, a me, che avevo esaurito tutto il mio credito alla banca del tempo. Ripetevo: “Ridatemi i miei titoli, ridatemi i miei titoli, canaglie…”. Mi faceva male la gola. Si scambiavano sguardi esasperati. Qualcuno ha tirato fuori l’idea di chiamare un’ambulanza. Ho detto che non volevo, che ero pronto per andarmene. Mi sono alzato, ho preso le mie stampelle, mi hanno accompagnato fino alla porta, ma non ho permesso loro di toccarmi. Li ho avvisati che avrei fatto reclamo. Uno di loro mi ha risposto che era mio diritto. E mi hanno lasciato andar via. Nello stato in cui ero. Stronzi! Mentre rientravo, ho ruminato rappresaglie. Una denuncia sarebbe stata un’inezia. Un vecchio tòcco che accusa un’istituzione finanziaria: mi rinchiuderebbero immediatamente. Non avendo le prove della falsificazione dei documenti, non avevo alcuna possibilità di essere ascoltato. Ero costretto alla vendetta privata. Ho avuto un’idea: telefonare al direttore e suppli-

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carlo di scusarmi per la mia condotta riprovevole, dirgli che riconoscevo di aver ordinato la vendita dei miei titoli, e che ho in lui completa fiducia, che desidero effettuare dei nuovi investimenti finanziari avendo ereditato un importante capitale. Da avido banchiere, mi assicurerebbe con la sua voce untuosa come una meringa, che considera l’incidente chiuso e dimenticato. Lo inviterei a pranzo per discutere della gestione del mio nuovo patrimonio. Mentre lui è in bagno, verserei il babone nel suo vino. Non essendo sicuro che accetterebbe il mio invito, ho architettato una soluzione alternativa. Dopo essermi scusato, gli proporrei di recarmi io stesso in banca per depositarvi una somma importante; mi accomoderei davanti a uno dei tavoli riservati al pubblico, tirerei fuori dalla mia valigetta una bottiglia di benzina che spargerei sui sottomano e sui fogli, accenderei un fiammifero e scapperei gridando al fuoco. Le fiamme schioccherebbero al vento come gli stendardi della vendetta, le sirene delle auto dei pompieri spargerebbero la buona novella, gli sciacalli accorrerebbero con le loro telecamere… Aglaé uscirebbe dalla banca con i capelli in fiamme. Il direttore salterebbe dalla finestra del secondo piano. Ouh Krapott! Che vendetta! La gente si scostava al mio passaggio. Mi sono reso conto che parlavo ad alta voce gesticolando. Attenzione!

Pomeriggio Mio/tuo/suo/mia/tua/sua… nostro/vostro/loro… miei/tuoi/ suoi. Paul Limbourg, il maestro delle elementari, ci insegna gli aggettivi possessivi cantando. Batte il tempo con due mani, la sua grande matita rossa e blu nella destra, il suo righello nella sinistra. Io fotto, tu fotti, noi fottiamo, voi fotterete, che io fotta, fottendo, fottuto. Limbourg porta dei pantaloni neri a

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righe e delle giarrettiere ai polpacci per tenere i calzini. I ladri! Faccio l’occhiolino a Jean Massin. Ieri, dopo i corsi, siamo entrati nella classe dalla finestra e abbiamo rubato dei buoni punti e delle carte d’onore dalla cattedra del maestro. Abbiamo preso anche le collezioni di figurine che ci aveva confiscato: i viaggi di Gulliver. Ora Perrette, avendo danzato tutta l’estate, apre un largo becco, lascia cadere la sua preda e scorge due occhi che fiammeggiano… Booz dormiva, aveva due buchi rossi sul fianco destro e i cuccioli del lupo giocavano in silenzio, mentre la lepre, essendo pelle e ossa, scappa e corre ancora: cosa volete che facesse solo contro tre? Pensa, pensa, Céphise, a Ulisse che fece un bel viaggio e conquistò il vello d’oro o a Titiro che petulae recubans sub tegmine fagi… Oh potenza del tempo! Oh anni spensierati! Oh Lago, dove un annegato pensieroso di tanto in tanto discende…è là che ho vissuto nelle calme voluttà… Dite, abbiamo navigato abbastanza in questa cattiva onda da bere? Oh signore, è su questa pietra, dove ella veniva a sedersi, che ho riposto la fronte sul mio fucile senza polvere, mentre il giorno splendeva in un azzurro senza confini… allora, allora una sera di foschia a Londra, noi ci vedemmo in tremila arrivando al porto; non morirono tutti, ma tutti furono colpiti e il dio Kneph tremando scosse l’universo… dove nascondermi? Fuggiamo nella notte infernale, poiché Raminagrobis compie ovunque una strana carneficina. Fi, vi dico1. Ho vomitato tutto ciò d’un sol colpo. La memoria del cuore è immortale.

1.  Questo paragrafo è un miscuglio confuso di estratti di poemi. [N.d.T.]

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Inizio dicembre

Formidabile! Sono ancora vivo! La mannaia non è caduta stanotte. Una giornata in più da trascinare nel braccio della morte. Sarò avvisato del momento dell’esecuzione? Avrò il tempo di esalarlo, il mio ultimo respiro, o sarò abbattuto a tradimento? Un’agonia lenta e laboriosa o un trapasso istantaneo? Spedito a rotta di collo o fermato alla frontiera per un controllo del passaporto? Non so di che morte morire. Dire che la morte mi gira intorno è un eufemismo: è incollata alla mia schiena come una ventosa. Cosa sta aspettando? Seduto sulla mia poltrona ammazzo il tempo. Sbagliato: non si ammazza il tempo, è il tempo che ammazza noi. Sonnolenza frequente. Prove di incontinenza sulle mie lenzuola. Mi lavo le lenzuola da solo perché mi vergogno di fronte a Germaine. Tremolio della mano destra. La disfatta. Jacques Bourbon, il presunto autore dell’omicidio di Isabelle Perruche, il mio prestanome, continua a negare tenacemente e a dichiarare la sua innocenza. Sono sempre tenaci le dichiarazioni di innocenza degli accusati. Ben presto restituirò la libertà a questo coglione.

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Dimenticavo: ho ritrovato la mia incantatrice di serpenti in porcellana. Sono venuti a rimetterla a posto durante la mia assenza. Quando sono rientrato, questo pomeriggio, ho di nuovo trovato la porta aperta. Una delle mie finestre mi guarda. Dietro di essa, si agglutinano migliaia di occhi glauchi. Tutti questi sguardi… Ho preso lo slancio e ho sputato sul vetro. Poi ho tirato le cortine. Cos’altro? Niente.

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Martedì 5 dicembre?

Questa mattina, mi sono disteso in pigiama sul pavimento del bagno e ho aspettato Germaine. Lei ha aperto la porta e ha gridato: “Monsieur Abram! Cosa vi è successo ancora! Mi farete morire di paura”. Mi ha preso in braccio e mi ha portato nel mio letto. Era quello che volevo. Ho avuto, nelle sue braccia, un minuto di felicità. Scrivo e penso. Occupo un posto a parte nella confraternita degli assassini seriali. I vecchi commettono piccoli crimini, raramente degli omicidi. L’omicidio seriale è una specialità degli uomini giovani. L’assassino seriale è violento e perverso: piomba sulla sua vittima come un’aquila nazista, la colpisce, la stupra, la sgozza, la smembra e a volte la mangia. Io sono un assassino non violento, riflessivo, non sopporto di veder soffrire la mia vittima. Godo dei miei crimini come un eiaculatore tardivo. Ho letto da qualche parte che il sesso muore ma non si arrende mai. È presto detto.

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Attenzione! Nuovo malessere nella civiltà. Uno spettro inatteso abita l’Occidente: lo spettro della vecchiaia. Il pericolo vecchi. La lotta delle generazioni. La rivoluzione demografica. La durata della vita umana si allunga, le popolazioni invecchiano, gli anziani proliferano. Una miniera d’oro per l’industria farmaceutica, i chirurghi estetici, i fabbricanti di protesi, i club méditerranée della quinta età. Gli ultrasettantaduenni saranno ben presto la maggioranza. Nel 2025 la speranza di vita delle donne oltrepasserà i cento anni, quella degli uomini i novantadue. L’isola di Okinawa, nel sud del Giappone, conta seicentodue centenari su 1,3 milioni di abitanti. Jeanne Calment, decana dell’umanità, nata ad Arles nel 1875, è morta all’età di centoventidue anni. Per il suo centesimo compleanno, nel 1975, cento reti televisive hanno invaso la sua casa e la vecchia Giovanna d’Arles ha eclissato completamente la giovane Giovanna d’Orleans. Attenzione, dico io. Gli studi di gerontologi prosperano. Si preannuncia l’arrivo imminente dell’anziano geneticamente modificato, con una resistenza prodigiosa. L’immortalità non è più una chimera. Dei crononauti, viaggiatori del tempo pietrificati, si fanno congelare fino al giorno in cui sarà stata trovata. Cosa? L’eternità, perbacco! I laboratori inventano ogni giorno dei trattamenti anti-invecchiamento, delle acque della giovinezza, degli enzimi raddrizzatori. I più grandi successi delle librerie sono: Buongiorno vecchiaia; L’avventura comincia a ottant’anni; Amore nell’incavo delle rughe; Un bebè per la vostra vecchiaia; Vecchiaia e perversioni sessuali; Riderà bene chi riderà vecchio. Proces-

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so esemplare in Belgio: una donna di ottantasei anni accusata di aver strangolato, con la sua corda per saltare, suo nipote, di trent’anni più giovane, che aveva rifiutato di accoppiarsi con lei; i giudici hanno ritenuto che la vecchiaia non costituisse un’attenuante, ma, considerando il carattere passionale del crimine, hanno condannato l’ardente signora a soli tre anni di prigione con la condizionale. I vecchi hanno dei sogni da giovani, si fanno restaurare come dei mobili antichi. Rattoppati, ricuciti, rabberciati, imbiancati, lucenti di fard, gettano il panico nelle sale di body building. Altri vanno a ballare un ultimo tango la domenica pomeriggio in un dancing anteguerra rinnovato e vietato ai minori di sessantacinque anni; vi si muore, a volte, di overdose da nostalgia. L’Agenzia Antiche Frontiere organizza dei viaggi per vecchi, in hotel dotati di un’unità di terapia intensiva. Le università della quarta età fanno il tutto esaurito: non morite ignoranti. Si vedono comparire, qua e là, dei quartieri residenziali riservati esclusivamente alla vecchiaia dorata; dei vecchi miliardari ci vivono in completa autarchia finché morte non sopraggiunga. E allora? I vecchi possiedono un’arma della quale loro stessi non misurano la portata: il diritto di voto. Hanno il numero, hanno la grana; guardate i loro eredi scalpitare davanti alle loro casseforti! E sono eleggibili! Tuttavia, il potere è esercitato dai giovani. Non è lontano il giorno in cui i vecchi sfileranno per le strade delle grandi città, al grido di: “Il potere agli anziani!”. I quarantenni che governano sono troppo ossessionati dal lucro e dalla lussuria per poter difendere bene l’interesse comune. La polposa Dalila Lewinsky è quasi riuscita a spianare con un colpo di lingua esperta Sansone Clinton, presidente degli Stati Uniti. I vecchi, liberi dalla tirannia del sesso, distaccati dai beni materiali, virtuosi per necessità, non sono proprio i

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più qualificati per governare? Platone, nella Repubblica, riserva ai vecchi l’esercizio delle alte magistrature. Loro hanno il coraggio di quelli che non temono più la morte. Vecchi non si nasce, si diventa, al temine di lunghe prove. E i vecchi potrebbero creare un partito politico, perché no? Il partito degli Anziani, sì, aperto a tutti i vecchi: vecchi allievi, vecchi combattenti, vecchi comunisti, vecchi filosofi, vecchi giovani, ecc., di almeno sessantacinque anni. Questo partito esigerebbe la parità tra giovani e vecchi nelle liste elettorali. Proporrebbe una dichiarazione universale dei diritti dei vecchi, la repressione della gerontofobia e di tutte le forme di razzismo anti-vecchi, l’abolizione della pena di reclusione per i vecchi (eccetto per i Maurice Papon, questi funzionari dell’abiezione), la creazione di posti di lavoro per vecchi, di bordelli della terza età. Se me lo domandassero, non rifiuterei di essere un candidato. Non mi mancano certo le idee. Nel tardo pomeriggio, ho trovato il coraggio di tornare da Palamède. Mi sono seduto al tavolo della mia vittima. Ho riconosciuto delle facce. Nessuno si ricordava di me. Avevo nella tasca l’ultima fiala di babone. Avrei potuto tentare una riedizione del mio colpo. C’era una donna sola a un tavolo, davanti a un bicchiere di vino rosso. Ho avuto paura. Uscendo, ho visto la sagoma di Goth che si allontanava.

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Giovedì 6 dicembre

Mi pedinano senza sosta. Li vedo dalla finestra, fare il palo vicino al giornalaio. Secondo i miei calcoli, sono quattro squadre di due a darsi il cambio giorno e notte. I cambi della guardia sono estremamente discreti: non ne ho mai sorpreso nemmeno uno. Sono dei tizi qualunque, vestiti in modo ordinario. Loro sanno che li ho scoperti, poiché non mi faccio problemi a rivolgere loro dei gran cenni con le mani. Mi interrogo sulla strategia messa in atto. Suppongo che non abbiano prove sufficienti e che vogliano soprattutto impedirmi di fuggire. Senza dubbio sperano di cogliermi in flagrante. Io, dal canto mio, vorrei trovare rapidamente la mia ultima vittima e chiudere il mio bilancio criminale. La sorveglianza costante di cui sono oggetto complica il mio compito. Sento che mi sto indebolendo. Se questa situazione si protrae per troppo tempo, non sarò più in grado di sopportare la prova del processo. Bisogna che trovi il modo di affrettare le cose. Sono passato all’offensiva a mezzogiorno. I miei due sbirri si tenevano a dieci metri l’uno dall’altro. Ho attraversato la strada e sono andato dal più vicino. Mi ha guardato arrivare senza muoversi. Gli ho chiesto se avesse qualcosa da dirmi.

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Ha fatto lo stupito: – No, perché? – Quanto volete per lasciarmi scappare? – Non capisco… – Peggio per voi, ero pronto a pagare il prezzo… Arrivava un taxi, ho fatto un passo di lato alzando il mio bastone, si è fermato. Salendo nell’auto, ho detto al conducente di andare dritto, aggiungendo che gli avrei dato le indicazioni via via. Nel momento in cui partiva, ho guardato lo sbirro piantato sul bordo del marciapiede e gli ho fatto marameo. Aveva l’aria mortificata. Ben fatto! Il traffico era denso, procedevamo lentamente. Li avevo fregati. Mi sentivo galvanizzato. Se volevo fuggire, era il momento. Ma fuggire dove? Vedevo il volto del conducente nello specchietto retrovisore: aveva dei tratti regolari, naso dritto, una bella capigliatura bruna divisa in due da una riga impeccabile, una fronte senza rughe, uno sguardo franco. Questo ragazzo mi piaceva, aveva una faccia da patriota. Ma, per sapere se potevo fare affidamento su di lui, dovevo sondarlo. Ho cominciato con delle prudenti considerazioni sul maltempo, sull’inquinamento, sul Tour de France, sul cinema americano; poi ho fatto allusione all’aggressività dei crucchi: non ha battuto ciglio; l’insicurezza delle città, le canzoni di Charles Trenet… Le sue risposte precise e garbate mi hanno convinto della sua rettitudine. Intelligenza media, ma onesto. Un brav’uomo. L’ho pregato di verificare che non fossimo seguiti. Mi ha lanciato uno sguardo esitante, ma ha ottemperato. Di tanto in tanto gli dicevo di girare a sinistra. Probabilmente mi sono addormentato, poiché sono stato svegliato di soprassalto da una sbandata. Bisognava tagliar corto. Rue Auguste Compte, gli ho detto di fermarsi qualche istante. Ho lasciato che tra di noi si istaurasse quel silenzio austero che accompa-

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gna una partita di scacchi, l’ho guardato a lungo con gravità, poi l’ho apostrofato in modo diretto: – Volete aiutarmi? Ha avuto l’aria smarrita: – Aiutarvi come? – Ci sono dei tipi che vogliono farmi fuori… sentite, ragazzo mio, siamo chiari, se io vi dicessi: le lettere di Madame de Sévigné non sono arrivate a destinazione… Mi capite? – Veramente, non so… – Le lettere di Madame de Sévigné non sono arrivate… non vi dice nulla? – No, veramente no, Monsieur… Lo sciopero delle poste, può darsi? Che bestia! Decisamente, non era questo il mio uomo. Avevo torto a insistere. Gli ho dato un ultimo aiuto: – Se vi chiedessi di condurmi in zona libera? – Dove? – Va bene! Io non ho detto niente… alla Madeleine, e svelto. Mi ero sbagliato. Guidava nervosamente, le spalle contratte. Aveva un solo desiderio: sbarazzarsi di me. Alla Madeleine, gli ho detto di aspettarmi. Il suo tassametro segnava una cifra elevata, non rischiavo che se ne andasse. Sono entrato da Faucheton, dove ho comprato del salmone affumicato e una bottiglia di vino bianco. Il ministro dell’Interno mangiava un panino, in piedi davanti al bancone. L’ho salutato con discrezione, ma ha finto di non riconoscermi. Demagogo! Mi sono fatto portare a casa. Non abbiamo più scambiato una parola. Gli ho ordinato di fermarsi a rue de la Pierre Levée: non volevo dargli l’occasione di segnarsi il mio indirizzo.

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Sabato 8 dicembre

Ho sognato che stavo sul bordo di uno stagno, in piedi, nella melma. Una giovane donna mi lanciava delle manciate d’acqua sul viso. Era rossa d’indignazione e gridava: “Vattene via, vecchio disgustoso!”. Ignoravo la causa della sua collera. Al mio risveglio, ero bagnato, c’era odore di urina, il mio pantalone era appiccicato alle cosce. Non ho avuto la forza di cambiarmi, per quanto avessi la pelle irritata. Bisognerà proprio che mi risolva a usare di nuovo dei pannoloni assorbenti che mi faranno un gradevole cuscinetto sotto al sedere. Mi piacerebbe farmi fasciare da Germaine. Non c’è alcuna possibilità che lei accetti. Ricordi che cadono goccia a goccia… La mia Polonia maledetta, il mio paese natale. Mio padre, Mojzek il ferrivecchi, spinge il suo carretto lungo le strade di Pogwizdów lanciando il suo rauco grido che ricorda agli scolari polacchi che è ora di andare a scuola. La domenica, lo accompagno nel suo giro. Reti sventrate e pentole bucate si ammucchiano sulla carretta. Imparo a rovistare nell’immondizia. Mia madre prepara la pasta all’uovo e il brodo di gallina. Le nostre miserie non scalfiscono la sua ironia intrisa di amarezza. 1925, emigriamo in Francia. Fermata alla stazione di Oświęcim: i miei genito-

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ri non sospettano che ci torneranno quando si chiamerà Auschwitz. A Parigi, mio padre lavora in una macelleria kasher, in rue des Écouffes. Quando torna a casa, puzza di carne e di sangue fresco, mi disgusta. Mi porta alla sinagoga del Marais, dove mi annoio. Alla scuola della Repubblica, mi soprannominano concentrato di ebreo. La mia vergogna per l’accento yiddish dei miei genitori e la mia vergogna per la mia vergogna. 1935: mio padre è tagliatore da Goldberg, un laboratorio di sartoria, in rue de Turbigo. Io entro alla facoltà di medicina e mi degiudaizzo. Nel 1940 i miei genitori hanno un figlio dottore. Non capiscono perché io voglia diventare in più anche pzikanalista, un doctore per i meshigoym1. Divieto agli ebrei di praticare la medicina: eccomi rigiudaizzato per decreto, decorato con la stella gialla. 1942: deportazione dei miei genitori. Dopo la Liberazione, seguendo il consiglio di un imbecille, intraprendo un’analisi didattica presso Boruch Zilberberg, un ciarlatano che professa un freudismo primario arricchito di esistenzialismo be-bop. Mi diagnostica una nevrosi identitaria causata dallo sguardo dell’altro, e mi spinge a impegnarmi sul cammino della libertà per trovare la stretta porta che conduce all’autenticità e alla fusione dell’essere-ebreo-per-sé con l’essere-ebreo-per-gli-altri. Tre anni più tardi si converte al cristianesimo con il nome di Boris Montdargent. Diventato schizofrenico, si spara una pallottola in bocca in piena seduta d’analisi. Io vivo per tre anni in concubinato con Lucienne Delyle. Vengo assunto all’ospedale di S. e incontro Esther Weisberg che mi abbaglia e mi uccide… Piangerei volentieri, ma solo una bomba lacrimogena potrebbe ancora strapparmi delle lacrime.

1.  Calembour yiddish risultante dalla contrazione di mèshigè (“pazzo”) e di goyim (plurale di goy, “gentile”, non ebreo).

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Se tra tre giorni non sarò schiattato, mi consegnerò alla giustizia. Questa decisione mi dà sollievo. Non voglio lasciare a nessuno il compito di redigere il mio necrologio. Se muoio a mia insaputa, troveranno sul mio tavolo, oltre alle istruzioni per la mia banca, una lettera con la quale delego Germaine di riservare uno spazio nella rubrica dei necrologi de «Le Monde» e de «Le Figaro» per pubblicarvi il seguente annuncio: «Abram Potz, uomo dell’essere, non è più». La formula potrà servirmi da epitaffio. I passanti che si fermeranno davanti alla mia tomba diranno che lì giace un burlone. Le cose si complicano. Jacques Bourbon, il sospettato numero uno nel delitto di Isabelle Perruche, è stato rimesso in libertà provvisoria. È il mio turno per giocare.

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Mercoledì 12 dicembre

La campana del palazzo di giustizia sta forse suonando a morto per la mia impunità? Mi stanno chiamando a entrare in scena per l’ultimo atto? Sono convocato dalla sezione omicidi, al 36 di quai des Orfèvres. Dovevo aspettarmelo, ma quando ho trovato nella cassetta della posta la busta con su scritto a lettere nere il leggendario indirizzo, il mio cuore si è messo a battere all’impazzata. Non l’ho aperta subito. Mi sono detto: se si accontentano di inviarmi una semplice lettera, vuol dire che non hanno ancora delle prove decisive, altrimenti sarebbero venuti ad arrestarmi. Può darsi che cerchino di confondermi con un effetto sorpresa… Sono invitato a presentarmi venerdì 14 alle ore 11 per essere ascoltato dall’ispettore Gazoul-Lefloid, senza ulteriori precisazioni. Tra quarantott’ore saprò come sto messo. Per non mancare a questo appuntamento, ho attaccato la convocazione sulla porta e ho sparso dappertutto dei promemoria. Al pensiero delle prove che mi attendono: interrogatori sotto i riflettori, fumo di sigaretta negli occhi, sarcasmo, maleducazione, cella umida… mi ha preso un’immensa fatica, e ho seriamente pensato di farla finita ingoiando l’ultima fiala di veleno.

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Tutto è stato detto. Poco importa del seguito degli avvenimenti. Vegliardo conquistato dal crimine, avrò avuto l’opportunità di vivere una seconda vita, breve e intensa come un sogno. E, tutto sommato, più interessante della prima, della quale non mi resta più niente. Ci deve essere un po’ di folle follia lassù. Non saprei chi ringraziare per questo destino generoso. Dunque avrò vissuto due volte. Io sono il solo assassino seriale prodotto dalla diaspora ebraica aschenazita. Non me ne vanto, no, ma la cosa non mi è indifferente. Su, diciamolo, me ne vanto. Ho meno memoria che se avessi dieci anni. Ma è ancora più grave: non accuso più solo delle semplici perdite di memoria, ma ho delle emorragie, delle mestruazioni mnesiche; non sono più dei vuoti ma delle voragini. Questo pomeriggio ho avuto un’amnesia terrificante. Dimenticato il mio indirizzo e il mio nome. Il fenomeno deve essere annotato con esattezza, interesserà qualche geriatra. Camminavo, non so più su quale boulevard, senza d’altronde sapere come vi fossi capitato. Dovevano essere le cinque o le sei del pomeriggio. Ho deciso di mettere fine al mio assurdo vagare e di tornare a casa. Fermo un taxi che passava. Il conducente, un musulmano massiccio in gellaba grigia, con una spessa barba blu e degli occhiali dalla montatura metallica, il cranio stretto in un berretto di merletto bianco che gli copriva la fronte fino alla radice del naso, aspetta placidamente che io gli dica la mia destinazione. Vorrei dargli il mio indirizzo, ma la mia glottide si blocca, nessun messaggio s’iscrive nel mio cervello, la mia memoria non emette più, ho dimenticato il nome della via nella quale abito da quarant’anni. Il tassametro correva. Il tassista si gira verso di me, con le sopracciglia alzate e nota il mio imbarazzo. Gli dico con voce precipitosa: – È incredibile… devo andare da un amico e non ritrovo più il nome della via dove abita… potrei andarci a occhi chiusi, ma… aspettate… ce l’ho sulla punta della lingua.

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– Ho tutto il tempo, signore, non spaventatevi, recuperate la calma. In che zona abita il vostro amico? – Dalle parti della stazione credo… – Quale stazione? Gare du Nord? Gare de Lyon? – Nord, credo… – Credete? Andiamoci. Sono affetto da cecità interiore: è buio nella mia testa. Non mi ricordo il mio numero di telefono. Ma è anche vero che non lo uso mai. Il tassista mi racconta che suo padre, di ottantaquattro anni, soffre, anche lui, di perdite di memoria, che non riconosce le persone con le quali ha cenato la sera prima, che dimentica il nome di sua moglie… I racconti su suo padre toccano un nervo scoperto, ma non oso interromperlo. Cerco nelle mie tasche la mia carta d’identità, ma non c’è. L’automobile rallenta davanti al bistrot La grenouille bleue. Mi viene un’idea: prova che le mie facoltà mentali non sono del tutto andate. Dico al conducente di fermarsi, giusto il tempo di salutare il padrone del locale che è un mio vecchio amico. Accosta la vettura e mi guarda con sospetto. Entro nel caffè, chiedo un vermut e l’elenco del telefono. Sfoglio febbrilmente il tomo sbrecciato e appiccicoso, cercando il mio nome. Dapprincipio avevo creduto a un’eclissi momentanea, a una pigrizia dello spirito, come accade a chiunque nella vita quotidiana. Ma devo ben presto ammettere questa cosa inconcepibile: non so più come mi chiamo. Non lo avrei mai creduto possibile. Cerco di convincermi che fintanto che conservo la coscienza dei miei atti c’è speranza. Man mano che sfilano le colonne di nomi – Sutre… Rost… Rops… Rong… Ring… – un formicolio percorre il mio cervello, sento che mi avvicino all’obiettivo, e avviene il clic: …Pronton… Proust… Potz! Annoto il mio nome, il mio indirizzo e il mio numero di telefono su un pezzo di carta che mi riprometto di tenere sempre nella mia tasca.

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Il taxi mi aspettava. Ho spiegato al tassista che avevo trovato l’indirizzo del mio amico nell’elenco del telefono. Si è congratulato: – Inch Allah! Molto furbo averci pensato. Bisognerà che lo racconti a mio padre. Come si dice dalle mie parti: la memoria non ha orecchie… Ho riso con lui per non offenderlo, non ho capito il senso del suo aforisma.

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14 dicembre

Alle 10 e 50 varcavo le porte della sede della sezione omicidi, al 36 di quai des Orfèvres, sotto lo sguardo impassibile del poliziotto di guardia. Entravo da vincitore nella Casa delle confessioni. Senza sapere su cosa sarei stato interrogato, ero preparato a tutto. Mi sentivo calmo e combattivo, risoluto a tenere la mia memoria al guinzaglio. L’ispettore Gouzal-Lefloid è un fusto di un metro e ottantacinque dallo sguardo dolce che contrasta con il cranio rasato e il naso da pugile. Mi ha accolto cortesemente, scusandosi di avermi disturbato per così poco, un semplice colloquio di routine. Non ho abbassato la guardia, sapendo che gli sbirri più soavi sono i più cattivi. Tiro fuori dalla mia cartella un foglio di carta e gli chiedo se posso prendere appunti, non potendo più, alla mia età, fidarmi della mia memoria. “Sì, certamente…”, dice lui, ma non mi sfugge che ha sbattuto le ciglia: ho appena segnato un punto. Accanto al suo sottomano da scrivania, c’è una tazza di caffè nero fumante. Ne propone una anche a me. “Mai mentre sono in servizio”, gli rispondo; non sembra apprezzare la mia ironia. Vorrei accavallare le gambe,

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ma questo non rientra più tra le mie facoltà. Finalmente passa all’attacco, consultando il fascicolo: – È a proposito della morte del notaio Delagrange. La mia memoria si illumina, vedo un uomo corpulento che plana come un grosso uccello in un cielo azzurro sopra un lago. Me l’ero completamente dimenticato. Ma allora… ma allora… con questo ne ho fatti fuori quattro! Ho il mio poker d’assi. La rigidità della mia epidermide non lascia trasparire la mia esaltazione. Lancio il mio contrattacco: – Che notaio? Che garage? Mi squadra attentamente, poi scandisce: – De-la-grange tutto attaccato, signor Potzz… Jean-Lou Delagrange, notaio di Roubaix. Non mi è piaciuto il modo in cui ha pronunciato il mio nome, insistendo sulle consonanti finali: tz. Fiutavo l’antisemita. E su questo, il mio fiuto è infallibile. Dovevo portarlo allo scoperto. Gli dico: – Sapete, alla mia età, la memoria per i nomi… – Capisco… Vi rinfrescherò la memoria, signor Potzz. JeanLou Delagrange è morto nel corso di un viaggio in Guatemala al quale avete partecipato anche voi. Una caduta sulle montagne dell’Atitlán. Questo non si dimentica… – Sareste sorpreso di scoprire la nostra capacità di oblio, ispettore Lefroid. La memoria umana è un mare di oblio. A Malta, dite? Non ho mai messo piede a Malta. – Mi avete capito male signor Potzz, a meno che non abbiate voglia di scherzare. Ho parlato del Guatemala, in America centrale, signor Potzz. I Viaggi di Ippocrate, sapete? – Certo, ne sono il membro più anziano. – Dal 2 al 10 novembre, appena un mese fa, voi avete partecipato al loro viaggio in Guatemala.

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– Negativo. Ero in Israele. – Andiamo, signor Potzz! Il vostro nome figura sulla lista dei partecipanti. – Andiamo, signor Lefroid. Ho potuto iscrivermi e poi rinunciare. – Lefloid, con una L, come Louis, per favore… Tutti gli altri hanno confermato la vostra presenza. Sarebbe un’allucinazione collettiva? Signor Potzz? L’ispettore ha perduto la sua flemma poliziesca e la dolcezza tattica del suo sguardo è sparita. Vedo i suoi veri sentimenti rimontare dai bassofondi della sua anima: l’odio per gli ebrei e il disprezzo per i vecchi. Ho visto i suoi lineamenti indurirsi quando ho pronunciato il nome di Israele. Non potevo lasciar passare le sue insinuazioni: – E perché no, signor inss-pettore? Questo vi sembra inconcepibile? E i Protocolli dei Saggi di Sion, era un’allucinazione collettiva, può darsi? E l’affare Dreyfus? Un fantasma collettivo? E voi osate parlarmi di allucinazioni? L’ispettore Gazoul-Lefloid è un professionista, ha imparato a mantenere la calma in ogni circostanza. Ha ricevuto una formazione speciale. Si passa le mani sulle guance mal rasate, le posa piatte sulla scrivania e riprende con una voce che controlla con uno sforzo visibile: – Credo che ci stiamo perdendo, signor Potz. Ecco i fatti: il 5 novembre, Jean-Lou Delagrange ha fatto una caduta mortale sulle montagne dell’Atitlán, in Guatemala. Le autorità locali hanno concluso che è stato un incidente. – Allora, io che c’entro? – Thérèse Bouchat, la vedova di Delagrange, ha sporto denuncia contro ignoti, con l’accusa di omicidio volontario, presso un giudice istruttorio francese. – Il quale sconosciuto non sarebbe altri che me?

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– Nessuno insinua questo, signor Potz. Tutti i partecipanti al viaggio sono stati sentiti. – E tutti, all’unanimità, hanno designato il vecchio Potz! Su, andiamo! Il capro espiatorio ideale, eh? Non c’è buon capro se non nel ghetto, no? Beh, vediamo, Kommissario! [Non sapevo come fargli sentire la K di Kommandantur]. Mi dispiace, ma il giorno dell’incidente ero a Gerusalemme, allo Yad Vashem, il memoriale dei campi di sterminio: la grande allucinazione, capite cosa intendo?… Non ho altro da aggiungere. L’ispettore Gouzal-Lefloid mi osservava, le mascelle serrate. Stava per rispondere quando una suoneria elettronica l’ha interrotto, un’aria di rumba. Alzandosi, ha tirato fuori dalla tasca un cellulare, ed è andato alla finestra. Parlava a bassa voce dandomi le spalle! Solo la convinzione che il vecchio mucchietto di macerie accartocciato su una sedia dietro di lui non costituisse alcun rischio, può spiegare un errore così grossolano da parte di un poliziotto esperto. Ci sono nella vita dei momenti prometeici che bisogna avere l’audacia di afferrare al volo. Con gli occhi inchiodati sulla nuca atletica dell’ispettore, ho versato la mia ultima dose di babone nella sua tazza di caffè nero bevuta a metà. È tornato davanti alla sua scrivania, e, senza rimettersi a sedere, ha bevuto la cicuta. Ero meravigliato di vederlo interpretare così docilmente il ruolo che io gli avevo assegnato. Mi ha dichiarato seccamente che riprovava gli eccessi delle mie affermazioni, che riteneva preferibile porre fine al colloquio, ma che dovevo aspettarmi di essere nuovamente convocato per un confronto, che sperava che per allora avessi ritrovato la ragione. Ha fatto il giro della scrivania e mi ha aperto la porta. Passandogli davanti, gli ho detto che non avrei mancato di segnalare al ministro dell’Interno, che era uno dei miei migliori amici, che la polizia repubblicana non era del tutto epurata.

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Il poliziotto di guardia ha fermato il traffico per permettere a me, all’assassino seriale, di attraversare il viale. Ho percorso il lungofiume fino al ponte Saint-Michel. Mi sono accovacciato contro il muretto. Dopo una mezz’ora ho sentito l’urlo delle sirene. L’ispettore Gouzal-Lefloid non farà più domande. E adesso, giurati della corte d’assise, a noi.

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15 o 16 dicembre

Questa mattina, li ho fregati. Mi sarebbe piaciuto vedere le loro facce, ma mi basta immaginarle. Allora, passeggiavo sull’avenue de la République, fermandomi davanti alle vetrine per riprendere fiato e per assicurarmi di essere sempre seguito. Ho camminato, costi quel che costi, fino alla rue Oberkampf, ho girato l’angolo e hop!, volatilizzato: ero a Roma. Ne conosco, io, di scorciatoie! Sono andato a prendere un cappuccino sulla terrazza del caffè Bellini, a piazza di Spagna. Ho esposto le mie ossa porose e la mia faccia scarna al pallido sole d’aprile. Gli altri clienti si giravano disgustati; i tavoli accanto al mio rimanevano vuoti, come se si fosse stabilito intorno a me un cordone sanitario. La scalinata che porta alla chiesa della Trinità dei Monti era piena di giovani sdraiati sui gradini. Io esaminavo la pancia bruna delle ragazze che attraversavano allegramente la piazza verso di me, sculettando come delle puttane candide, con la cintura dei loro jeans al limite del pube. Molte avevano un brillante incastonato nell’ombelico. Oltre a non poter avere la minima speranza, non sono un pedofilo, solo un assassino nobile, prossimo al ritiro. Il piacere che mi prendevo era di natura puramente estetica. Alla mia età, lo ripeto, si può godere solo con lo sguardo. Ora, i miei occhi non tarderanno a chiudersi per sempre. Allora, io guardo e godo finché la mia

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vista declinante me lo permette. Con gli occhi ben rifatti, mi sono trascinato fino ai giardini di Villa Borghese. Mi sono steso sull’erba, vicino a via Omero. E l’ho visto. A dieci metri da me, seduto su una panchina, i gomiti sulle ginocchia, un libro aperto in mano, del quale non si dava nemmeno la pena di girare le pagine, l’uomo, con un ridicolo panama troppo largo, occhiali da sole e barba finta, mi spiava. Povero Shmok! Aveva l’aria di un vero Regheghelo. Ho immediatamente riconosciuto l’uploso che mi seguiva stamattina sul boulevard Voltaire. Ma come fanno a seguirmi fino a Roma? Bisogna che vada a nascondermi a Lodz? A Tel-Aviv? Ho resistito alla voglia di andare a tirargli la barba. Mi sono rialzato, ho preso via Omero e sono rientrato a Parigi per rue Timbaud. Nel pomeriggio, mentre passavo davanti alla sinagoga di Saint-Germain des Prés, sono stato spintonato da un individuo con il viso dissimulato dietro un mazzetto di gladioli, che gli è caduto per terra. Era il tipo con il cappello di Villa Borghese. Portava un berretto e aveva tolto la barba. Vedendosi scoperto, ha borbottato una scusa e si è allontanato per raggiungere il suo collega in impermeabile, all’entrata della stazione del metrò. È stato allora che ho deciso di passare nella clandestinità. Sono rientrato a casa. Una volta di più, ho fatto la mia valigia. Dovevo solo attraversare la strada: proprio di fronte a casa mia, c’è un albergo perfettamente lambo, pensate un po’. Il tipo della reception somiglia a Hitler: baffi, ciuffo sulla fronte, occhi di ghiaccio. Gli ho spiegato che facevano dei lavori nel mio appartamento e che sarei rimasto per una settimana. Mi sono registrato con il nome di Felix Ménestrel. Con un colpo di testa, ha gettato indietro la sua ciocca e mi ha dato la camera 48, al quarto piano, dicendomi con voce esile: “Buona serata signor Potz!”. Mi sono chinato verso di lui: “Grazie, Adolf”. Dalla mia camera, ho una vista dall’alto sulle finestre del mio appartamento. Ci sono dei miliziani davanti alla mia porta. Sorveglio i miei sorveglianti. Sono rari i fuggitivi che hanno

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potuto beneficiare di una tale posizione strategica. Eccomi, per la seconda volta nella mia vita, un uomo nascosto. E sono come la lettera rubata di Edgar Poe: introvabile, quando è sotto gli occhi. Quando la polizia avrà costatato la mia scomparsa, controlleranno le strade, gli aeroporti, diffonderanno la mia foto segnaletica, allerteranno l’Interpol. Ma chi penserà a cercarmi davanti casa mia? Il problema è Hitler, l’uomo della reception. Una delazione non è da escludere. Devo provvedere a un’uscita di emergenza.

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Camera 38

Rinchiuso da tre giorni nella mia camera introvabile dove tutto è lamboso. Dormo il sonno dei giusti. Sto in agguato, seduto in una poltrona crapaud accanto alla porta finestra, bevendo un Martini. La mia prospettiva è invertita: spio le entrate e le uscite del mio palazzo, ispeziono le finestre del mio appartamento, tengo d’occhio l’angolo dell’avenue Parmentier a sinistra, il bistrot di rue de Nemours a destra. Faccio portare in camera dei pasti leggeri. Non ho rimorsi, ma un rimpianto sì: quello di essere nato. Peccato che non si possa morire a volontà, con una buona spinta, come si vuotano gli intestini, come si evacua un calcolo renale. Si spingerebbe, si spingerebbe e si evacuerebbe la propria anima come un escremento. Si morirebbe nelle proprie braghe. Come sarebbe semplice. Rinuncio al mio processo. Non sarà necessario disturbare nove cittadini per costruire una giuria. Non voglio più essere giudicato. Questa confessione dovrà bastare.

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La Polonia mi ha riacchiappato, incarnata dalla cameriera, una robusta polacca di cinquant’anni dal lungo viso di madonna slava appena sciupato, dagli occhi blu, capelli biondi raccolti a cipolla. Porta una corta gonna nera, doppiata da un piccolo grembiule bianco con i bordi arrotondati e ricamati. Quando si china per far scivolare le coperte sotto il materasso, mi mostra le sue cosce colossali. Dal profondo del suo coma, il mio vecchio sesso si ricorda dei tempi andati e si illude; è morto, ma non si arrende. Il primo giorno le ho offerto due banconote da cinquecento franchi. Lei le ha fissate come una civetta abbagliata, dilaniata tra la bramosia e la diffidenza. Temeva di incoraggiare i capricci di un vecchio viscido. La somma era troppo grossa per non fare appello a una contropartita che non poteva che essere scabrosa. Le dicevo: “Prendete, prendete, ho troppo denaro, non potrò farmene niente nella mia tomba”. Mi sono impadronito della sua mano destra e vi ho chiuso la banconota: “Prendete, dunque, è gratuita”. Con il viso cremisi, è uscita indietreggiando. L’indomani mattina, ho avuto l’impressione che si chinasse più in basso sul mio letto, scoprendo più su le sue cosce. Questa volta ha afferrato lestamente i biglietti da cinquecento franchi che le tendevo e, seguendo l’antico uso femminile, con un gesto grazioso li ha cacciati nel suo voluminoso corpetto. Questa mattina, ho aspettato il suo arrivo, nudo ma coperto, nel mio letto. Vedendomi coricato, lei ha detto che sarebbe ripassata più tardi, ma io l’ho invitata a entrare. È rimasta stupefatta e incantata di sentirmi parlare polacco. Togliendo la mia coperta, le ho chiesto se voleva, per favore, massaggiarmi. Ha avuto un fremito alla vista del mio corpo malandato, ma, accettando i suoi obblighi con coraggio, ha dato prova di una perfetta lealtà contrattuale. Mi ha risparmiato gli ipocriti

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preliminari periferici ed è andata dritta all’essenziale, alternando con ammirevole destrezza, sfioramenti, pressioni e su e giù energici. Elettrosessogramma piatto. Ho messo fine a quel pietoso accanimento… il suo savoir-faire non era in questione, la missione era impossibile, non potevo pretendere da lei l’obbligo di un risultato. Essendosi affrancata dal suo debito, ha posato sulla mia fronte il bacio più mortificante e più costoso della mia lunga esistenza. Se mi avessero predetto che avrei ricevuto il mio ultimo bacio da una polacca… Strano, strano destino… Ma era tempo che se ne andasse: cominciavano a venirmi idee di omicidio. Sento il bisogno di accedere alle tenebre più totali. Ho riflettuto a destra e a manca: annullo lo spettacolo. Il processo dell’abominevole ottantenne non avrà luogo. Ho telefonato a Hitler per fargli sapere che non c’ero per nessuno, nemmeno per Ava Gardner. Ha detto con la sua voce da teppista: “Bene, monsieur Potz”. Ora, io mi sono registrato sotto il nome di Ménestrel o Mènestret. Che mi abbia già venduto? Ho socchiuso la porta: si sentiva solo il lontano russare di un’aspirapolvere. Un camion dei traslochi staziona davanti all’edificio. Stanno svuotando il mio appartamento. Due uomini portano la mia poltrona fino al camion. Prendo due tranquillanti. Ma perché, perché, perché, perché, perché sono venuto? Gli avvenimenti precipitano. Porta chiusa a chiave. Se sfondano la porta salterò dalla finestra, mi schianterò sull’asfalto, il mio sangue giallo colerà nel canale. I curiosi si immobilizzeranno come dei manichini nelle vetrine. So che non salterò.

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Non ho nemmeno avuto le palle di saltare dal treno. Vado dalla finestra alla scrivania per annotare tutto sul mio quaderno. Perché ebreo? Ebreo come? Che tipo di ebreo sono? Mi sarei stupito se la domanda non fosse tornata a tormentarmi alla fine della partita. Non ho letto i grandi libri ebraici, non ho studiato i valori ebraici, non commemoro la fuga dall’Egitto, non conosco l’ebraico, ho dimenticato lo Yiddish, mangio carne di maiale. Cosa resta? Un ebreo non qualificato. Ma che cosa è in fondo un ebreo? L’ebreo è un altro. La definizione mi si confà, calma il mio orgoglio. Nato ebreo, nato colpevole, è un tutt’uno. Sono legato non tanto alla barba di Jahvè, l’eterno assente al quale non ho mai creduto (gli dèi greci sono ben più interessanti), ma alle ceneri di Auschwitz. Come dice Paolo, il santo rinnegato, la vera circoncisione è quella del cuore. Ho l’anima circoncisa. Nato ebreo, morto ebreo. Sono un ebreo senza pedigree. Un ebreo senza qualità. E basta. Agitazione di fronte. I militari hanno preso d’assalto il mio appartamento, li vedo passare davanti alle mie finestre, con i loro berretti neri. I fasci delle torce zebrano i muri del mio salotto. Gli mostrerò di che pasta è fatto il vecchio Potz. Ho ri-indossato il mio completo blu notte, una camicia bianca, una cravatta rossa. Una calma isterica mi pervade. Spingo i due comodini contro il secrétaire di mogano, poi le due sedie. Spargo elenchi telefonici, giornali e carte varie sui mobili. Falò pronto. Fiammifero acceso. Bouf! La carta prende bene. Annoto e vado a vedere alla finestra. Socchiudo la finestra per dare una presa d’aria. Mi stendo sul letto con penna e quaderno. La sedia arde. Il secrétaire brucia.

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Yisgadal, Veyisskadach1, e Yggdrasil?… No! Niente kaddish! Non glorificherò il nome del grande Impostore! Tende in fiamme. Brace, braciere, brasile, brasato. Tossisco, mi allento la cravatta. Le nostre fronti fraterne arrossiscono, la sabbia è calda. Oh fiamma, sali, che la tua luce ci purifichi! Strie nere sul soffitto. Sono incenerito, me ne vado in fumo, come gli altri, come mio padre. Il telefono suona. Hitler urla: “Che succede?”. Fanculo, nazista! Panico alla reception. Galoppata nel corridoio. Colpi contro la porta, urla: al fuoco, oddio! Sfondano la porta. Tradimento… cederà? Chi cederà per primo, io o lei? Tamburellano… la porta vacilla, i cardini… i cardini… cedono, i cardini.

1.  Le prime parole del kaddish, la preghiera dei morti ebraica: «Che il Suo nome sia glorificato e santificato». [N.d.T.]

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Indice

La seconda vita di Abram Potz

p. 9

Domenica 2 novembre

p. 19

Lunedì 3 novembre

p. 25

Martedì 4 novembre

p. 29

Mercoledì 5 novembre

p. 33

Giovedì 6 novembre

p. 43

Lunedì 10 novembre

p. 47

Martedì 11 novembre

p. 51

Mercoledì 13 novembre

p. 53

Sabato 16 novembre

p. 59

Martedì 17 novembre. Il babone di Bab

p. 63

Mercoledì 20

p. 69

Neve

p. 75

Domenica mattina 22

p. 79

23 novembre

p. 85

12 agosto 1942

p. 91

Giorno di pioggia

p. 97

158

Ven 27

p. 101

Samenica 28

p. 111

29 novembre

p. 115

30 novembre

p. 117

Venerdì nero, inizio dicembre

p. 119

Inizio dicembre

p. 123

Martedì 5 dicembre?

p. 125

Giovedì 6 dicembre

p. 129

Sabato 8 dicembre

p. 133

Mercoledì 12 dicembre

p. 137

14 dicembre

p. 141

15 o 16 dicembre

p. 147

Camera 38

p. 151

Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da

Filippo La Porta

1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste. 10. Xavier Farré, L’auditorio di Görlitz. (Visioni poetiche). 11. Michele Rago, Pagine di diario (1951-1996). 12. Foulek Ringelheim, La seconda vita di Abram Potz.

La seconda vita di Abram Potz «Ho ucciso un uomo che non mi aveva fatto niente. Io! Io, Abram Potz, con le mie mani moribonde e frigide, senza un movente apparente, ho gettato un uomo alla morte. Ho abolito un’anima. Ed ecco che questo primo delitto mi dà non dico la gioia di vivere – non chiedo tanto –, ma una ragione per differire il mio trapasso. Ho meno fretta di morire, sento in me un’alacrità nuova.» Abram Potz, psicanalista ebreo, un vecchio dislocato, con una memoria vacillante ma perversa. Le sue confessioni ci immergono, con toccante cinismo e implacabile umorismo, nelle doglie della vecchiaia.

Foulek Ringelheim (1938-2019) è stato avvocato, poi magistrato, membro del Consiglio superiore di giustizia e caporedattore della rivista Juger. Il suo romanzo La Seconde Vie d’Abram Potz ha ricevuto il premio France-Communauté française de Belgique e il premio degli studenti delle scuole superiori nel 2005.

Margini | 12 € 7,00

Collana diretta da Filippo La Porta

ISBN ebook 9788855292788