La Qabbalah 8858125495, 9788858125496

Giulio Busi guida alla conoscenza dei concetti fondamentali della Qabbalah, i cui testi sono ricchi di immagini difficil

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- Giulio Busi

La Qabbalah

h(:onomietz

Giulio Busi guida alla conoscenza dei concetti fondamentali della Qabbalah, i cui testi sono ricchi di immagini difficilmente comprensibili, di giochi di parole in lingua ebraica e di concetti espressi in modo da preservarne la segretezza. Oltre a penetrare nel linguaggio simbolico cabalistico, il lettore potrà così familiarizzarsi con la gimatreya, il criterio di permutazione linguistica basato sulle corrispondenze

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tra lettere e numeri, e con le

Giulio Busi è professore ordinario presso la Freie

Universitat di Berlino,

dove dirige l'Istituto di

altre tecniche di interpretazione. Completa il volume una esaustiva ricostruzione storica della Qabbalah, a partire dalle premesse di epoca tardoamica per giungere, attraverso il Medioevo e il Rinascimento, fìno alla scuola settecentesca dei hasidim e agli sviluppi della disciplina ai nostri giorni.

Giudaistica. Collabora regolarmente con il supplemento domenicale de "Il Sole

24 Ore".

Ha pubblicato,

tra l'altro: Mistica ebraica (a cura di, con Elena Loewenthal, Torino

1995);

Simboli deL pensiero ebraico (Torino

1999); Mantova e La Qabbalah (Ginevra-Milano 2001); Lontano da Gerusalemme (Torino 2003); Qabbalah visiva (Torino 2005); L'enigma deLL'ebraico neL Rinascimento (Torino

2007); Zohar.

!L Libro deLLo

splendore (a cura di, Torino

2008);

Giovanni Pico deLLa Mirandola. Mito, magia, Qabbalah (con Raphael Ebgi, Torino

2014).

In copertina: l quattro mistici che entrano nel Pardes. Miniatura della fìne del XV secoloper informazioni ;ui nosrri libri

ér iscriviti alla newsletter su

www.laterza.it eseguicisu

HC

€ l 0,00 (i.i.)

inizio XVI secolo. Tel Aviv, Collezione 'X'illiam Gross.

Giulio Busi

LaQabbalah

-Editori Laterza

©

1998,

Gius. Laterza & Figli www.laterza.it

Edizioni precedenti: 1998

«Biblioteca Essenziale Laterza»

Nella «Economica Laterza» Prima edizione luglio

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2016

Edizione 5 6 Anno

2016 2017 2018 2019 2020 2021

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (ltaly) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN

È

vietata la riproduzione, anche

parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è

lecita solo per uso personale purché

non danneggi l'autore.

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978-88-581-2549-6

La Qabbalah

Alfabeto ebraico Nelle trascrizioni dall'ebraico si sono adottate le seguenti corri­ spondenze: N

(alej): (non traslitterata, nei testi vocalizzati, in inizio e in fine di parola) '

:l (bet): b/v (sempre b in parole non vocalizzate) l

(gime/): g

1 (da/et): d il (he): h

, (waw): w (zayin): z n (�et):� T

� (!et): �

., :J

(yod): y

(1 in fine di parola- kaj): k

? (/amed): l

(C in fine di parola- mem): m l q in fine di parola- nun): n 7;)

O (samek): s ':1 ('ayin): ' E) ( r') in fine di parola - peh): p/f (sempre p nelle parole non vocalizzate) :!l ( r in fine di parola- �ade): �

V (qo/!: q

(re.ì'): r tv (fin): s W (Sin): s n (taw): t 1

Qabbalah: la «sapienza veritiera»

Con la parola ebraica qabbalah, che significa letteral­ mente «ricezione», si è soliti indicare la tradizione se­ greta del misticismo giudaico, e in particolare il movi­ mento di pensiero di connotazione esoterica che prese l'awio in Europa, a partire dal XII-XIII secolo. Già in età altomedievale con qabbalah si designava il patrimo­ nio culturale ricevuto dalle generazioni precedenti, e trasmesso da maestro ad allievo o di padre in figlio. Nel suo valore di «ricezione», qabbalah enuncia infatti il concetto di continuità con il passato e anche il senso di responsabilità che questa eredità spirituale comporta. Secondo la concezione ebraica, ogni generazione è chia­ mata a recepire dalla precedente il complesso di valori e di insegnamenti su cui si fonda il giudaismo e deve a sua volta trasmetterlo a quella successiva. I mistici scel­ sero quindi il termine qabbalah per sottolineare come anche gli insegnamenti esoterici fossero un bene che il passato affidava loro affinché ne mantenessero la com­ prensione e ne diffondessero il messaggio, seppure ne­ gli ambiti ristretti che la difficoltà della materia richie­ deva. Per la cultura tradizionale ebraica il legame con il passato ha sempre costituito il tema dominante, tanto che un'indiscussa autorevolezza veniva riconosciuta so­ lo alle dottrine che potevano vantare una lunga eredità: 3

anziché considerare lo scorrere del tempo come un pro­ gresso verso conoscenze sempre più certe, il passaggio di generazione in generazione veniva semmai visto co­ me un pericolo per gli insegnamenti più antichi, che erano ritenuti di origine divina. Al suo primo apparire come autonomo indirizzo cul­ turale, la qabbalah si richiamò pertanto alla lunga storia del misticismo ebraico d'età tardoantica e altomedieva­ le, di cui conservò alcuni dei temi fondamentali, soprat­ tutto quelli riguardanti il rapporto tra l'energia divina e il cosmo. Gli scritti cabbalistici infatti, pur traendo spun­ to dal testo biblico, contenevano ampie digressioni di to­ no cosmologico e illustravano come ogni parte del crea­ to rispondesse a una segreta armonia del disegno tra­ scendente. Nelle intenzioni dei mistici ebrei, il sistema della qabbalah doveva servire a rendere più intensa la vita re­ ligiosa ebraica e a fornire una spiegazione simbolica non solo delle immagini e dei temi biblici ma anche delle azioni quotidiane prescritte per ciascun ebreo. Poiché il giudaismo è innanzitutto un agire in base a un com­ plesso di norme e di principi, l'indagine mistica misurò la validità delle proprie raffigurazioni simboliche anche nell'esperienza quotidiana, facendo corrispondere agli aspetti materiali della liturgia i rapporti invisibili secon­ do cui l'energia divina regola il creato. Fin dai suoi esordi, la disciplina cabbalistica volle quindi essere innanzitutto un approfondimento spiri­ tuale, ben lontano dai tratti di esoterismo deteriore che vengono generalmente evocati dal termine italiano «ca­ bala». Significativamente, la parola emet, «verità», com­ pare così nelle locuzioni che, accanto al termine qabba­ lah, furono impiegate sin dal medioevo per indicare il misticismo ebraico: per esempio, �okmat ha-emet, «la 4

sapienza veritiera», o derek ha-emet, «il cammino della verità». I gradi della conoscenza mistica

La ricerca mistica ebraica non è segnata da un percorso iniziatico prestabilito; non ci sono cioè, nel giudaismo, vere e proprie tappe di iniziazione, attraverso le quali l'adepto debba passare per avere la sanzione formale di una progressiva penetrazione nella conoscenza segreta. Questo rifuggire da schemi preordinati non significa tuttavia che l'esperienza mistica non sia sottoposta al criterio della gradualità, ritenuto necessario per preser­ vare chi s'incammina su questa strada dai pericoli di una crisi d'identità religiosa. n primo limite posto al­ l'insegnamento della qabbalah è quello dell'età dello studente che, per tradizione, deve aver raggiunto la ma­ turità e deve quindi avere un'età variabile, a seconda delle scuole, dai trenta ai quaranta o addirittura ai cio­ quant' anni. Essenziale è poi, per lo studio della qabba­ lah, la figura del maestro che, con la propria guida, può trasmettere quelle nozioni che, di norma, non vengono affidate ai testi scritti. La necessità di un rapporto diretto tra maestro e al­ lievo nasce dall'intenzione di vagliare non solo le qua­ lità intellettuali di chi apprende ma anche il suo com­ portamento e le attitudini etiche che lo ispirano. Non diversamente da altre tradizioni mistiche, la qabbalah è infatti, in primo luogo, una ricerca interiore, il cui valo­ re dipende dalla qualità morale di chi la pratica. Nelle opere cabbalistiche si incontrano di frequente espres­ sioni limitative del tipo: «non mi è possibile scrivere ol­ tre», oppure: «chi è dotato d'intelletto capirà», che in­ tendono sottolineare l'esistenza di un'area concettuale 5

riservata alla trasmissione orale. Lo stile quasi sempre oscuro dei testi cabbalistici e la reticenza che talora ar­ resta le frasi prima dell'ultima enunciazione del mistero si giustificano con la preoccupazione di difendere le ve­ rità segrete dagli occhi profani, vale a dire da quei let­ tori anonimi di cui non si possono conoscere le doti mo­ rali. Col frequente ricorrere a immagini difficilmente comprensibili, il lessico esoterico svolge così la funzio­ ne di un efficace controllo della comunicazione, che la­ scia filtrare il messaggio cabbalistico solo per chi sia for­ nito di una capacità di penetrazione che vada oltre il si­ gnificato letterale del testo. L'esistenza di un nucleo del tutto segreto è, d'altra parte, sia una realtà sia un'utopia del pensiero mistico, giacché l'enorme patrimonio di scritti cab balistici rap­ presenta, in certa misura, una negazione del postulato di indicibilità del mistero. È vero che, rispetto agli oltre due millenni di storia della tradizione mistica, le opere lette­ rarie si infittirono solo a partire dall'alto medioevo, e di­ vennero particolarmente numerose solo in Europa e so­ lo in secoli recenti. Sembra dunque che la norma del se­ greto sia stata osservata con maggiore scrupolo nelle an­ tiche tradizioni orientali, mentre la diaspora europea, col suo frammentarsi in piccole comunità, avvertì la neces­ sità di affidare l'esperienza mistica alla pagina scritta. Al fine di preservare il proprio segreto, tuttavia, anche i mi­ stici ebrei d'Europa scelsero il linguaggio simbolico che, grazie alla sua natura allusiva, poteva adombrare i veri si­ gnificati senza enunciarli esplicitamente. Il linguaggio simbolico del giudaismo

Lo spazio simbolico dal quale i cabbalisti presero l'av­ vio è quello della Bibbia ebraica, che un'ininterrotta tra6

dizione esegetica aveva trasformato in una sorta di de­ posito privilegiato della memoria collettiva. Nel corso dei secoli, ogni parola e ogni episodio della Scrittura vennero infatti arricchiti di significati ulteriori, poiché, nell'antico testo, si cercava l'espressione assoluta, valida per ogni epoca, della vicenda interiore dell'uomo, della struttura del creato e della storia del popolo d'Israele. I racconti del Genesi o dell'Esodo divennero così il mo­ dello attraverso cui esprimere ogni esperienza ed emo­ zione, e i personaggi biblici assursero a paradigma dei corrispondenti moti dell'animo umano. Il drammatico episodio del sacrificio di !sacco fu, per esempio, l'icona di un timore cui faceva seguito una liberazione celeste, tanto che il semplice nome di !sacco bastava a indicare, nella tradizione postbiblica, l'attributo della paura. In modo simile, l'accoglienza fatta da Abramo ai tre mi­ steriosi ospiti divenne, nella tradizione interpretativa, metafora dell'inclinazione generosa dell'animo umano, così che il nome di Abramo evocò immediatamente la qualità positiva della misericordia. Al fine di scoprire i significati nascosti sotto il senso letterale del testo biblico, i maestri ebrei idearono poi una serie di raffinati strumenti esegetici, concentrando­ si - anziché sul significato complessivo dei libri della Scrittura o su ampie unità narrative- sui singoli versetti o addirittura sulle singole parole. Già a partire dai primi secoli dell'era cristiana, gli esegeti ebrei sottoposero in­ somma la Bibbia a una frammentazione del testo, che rappresenta la prima e più forte spinta verso una meta­ morfosi del significato originario. Mediante la decostru­ zione delle strutture narrative, i commentatori furono dunque in grado di inserire le singole frasi, o le parole, in nuovi contesti espressivi, mantenendosi fedeli a una cir7

coscritta porzione del testo originale, pur componendo contemporaneamente con essa un discorso nuovo. Il risultato fu la trasformazione della Bibbia in un corpus atemporale, e cioè in un testo nel quale, secondo una massima rabbinica, «non vi è un prima né un do­ po». Tutti i passi sono dunque sostanzialmente sullo stesso piano, così che affermazioni tratte da libri diver­ si possono essere messe in relazione tra loro, e coordi­ nate in nuove unità significative. Le corrispondenze tra le parole vennero allora istituite in primo luogo sulla ba­ se di criteri linguistici (di cui ci occuperemo più diffu­ samente in seguito), quali le assonanze, i rapporti eti­ mologici (o pseudoetimologici), le permutazioni tra let­ tere e le corrispondenze numeriche tra parole. Un me­ todo frequentemente impiegato fu poi il confronto tra due versetti, in apparente contraddizione l'uno con l'al­ tro: per risolvere la difficoltà veniva invocato un terzo passo che, secondo il termine tecnico, «decideva» tra i primi due, producendo così una commistione di signi­ ficati del tutto nuova. Queste procedure erano già alla base dell'ampia let­ teratura esegetica dedicata all'esposizione narrativa dei significati della Bibbia, e denominata haggadah, per di­ stinguerla da quella di tipo giuridico, basata invece su principi di deduzione logica, chiamata halakah. Il me­ todo haggadico di interpretazione del testo biblico è quindi una caratteristica tradizionale, e molto antica, dell'esegesi rabbinica e fu impiegato tanto nelle parti narrative dei due Talmudim (gerosolimitano e babilo­ nese, redatti tra il V e gli inizi del VI secolo) quanto in numerosissimi midrasim, compilati a partire dal V se­ colo fino al medioevo, e consacrati al commento dei di­ versi libri della Scrittura. Il simbolismo mistico dei cab­ balisti si inserì dunque all'interno di una tradizione ben 8

consolidata, dalla quale mutuò quasi tutte le tecniche, aggiungendovi un bagaglio originale di idee e un pro­ prio peculiare linguaggio. L'esegesi cabbalistica si pone dunque oggettivamente sotto il segno di una continuità col passato, e le immagini verbali, che ricorrono nella prosa dei mistici di età medievale e moderna, sono in buona parte le stesse che animavano le pagine mi­ drasiche. Non è un caso che alcune delle prime prove della qabbalah sefardita si misurino proprio con le par­ ti haggadiche del Talmud babilonese, e cerchino di ri­ percorrerle alla luce di una nuova sensibilità. La ricerca dei cabbalisti si fece tuttavia forte anche di altre componenti che avevano caratterizzato la spiri­ tualità giudaica durante il primo millennio dell'era vol­ gare, vale a dire di speculazioni- in buona parte slega­ te dal testo biblico- che esprimevano una ricerca orien­ tata a una conoscenza intuitiva o visionaria del mondo intradivino. n centro della dottrina dell'aspetto segreto della creazione fu, in questo senso, il Se/er ye�irah (li li­ bro della formazione), un grande classico del primo mi­ sticismo ebraico, che tracciò il disegno delle forze oc­ culte del cosmo quasi senza alcun riferimento diretto al testo della Scrittura, né alla tradizione rabbinica post­ biblica. La nozione di se/irot, espressa in quest'opera, divenne uno dei nuclei fondamentali del pensiero cab­ balistico poiché, grazie a essa, i mistici potevano ora usare metodi midrasici per costruire una dottrina orga­ nica dell'aspetto segreto del creato. Alla costruzione del pensiero cabbalistico contribuì poi il ricco repertorio di visioni celesti, custodito nei testi della cosiddetta lette­ ratura degli Hekalot (letteralmente «palazzi»), che già contenevano l'idea di un graduale processo di cono­ scenza e nei quali il mondo superno era raffigurato co­ me una struttura architettonica materiata di luce. Dal 9

misticismo tardoantico degli Hekalot, i cabbalisti ere­ ditarono una complessa angelologia e la raffigurazione di un'ascesa dell'anima articolata in tappe conoscitive sempre più elevate. Per comprendere il mutato orizzonte concettuale che rese possibile il sorgere della qabbalah, è indispen­ sabile infine prendere in considerazione una terza com­ ponente e cioè la letteratura filosofica che, a partire dal­ la fine del IX secolo, prese a diffondersi nella diaspora ebraica. Grazie soprattutto alla simbiosi culturale giu­ deo-araba, l'antico pensiero classico trasmise infatti parte del proprio lessico e delle proprie strutture cono­ scitive anche alla letteratura ebraica. La novità concet­ tuale più rilevante, mutuata dalla filosofia neoplatonica, fu l'idea di emanazione, che permise ai cabbalisti di reinterpretare la struttura sefirotica come una catena di discesa dell'energia, per gradi successivi, dal cielo verso la terra. Nella simbologia cabbalistica, il valore evocativo delle immagini è dunque il risultato di una complessa stratificazione di significati: i termini impiegati nella prosa mistica conservano in primo luogo la connotazio­ ne che avevano nella Bibbia, cui si aggiungono i sensi ulteriori acquisiti mediante le rielaborazioni haggadi­ che e, infine, il dinamismo di rappresentazione del di­ vino attraverso l'emanazione e le se/irot. I cabbalisti stessi furono consapevoli della molteplicità delle possi­ bili interpretazioni tanto che, per alludere ai diversi li­ velli esegetici, usarono il termine pardes (letteralmente «paradiso»), che in ebraico è composto dalle iniziali di quattro parole: peia(, che indica il senso letterale; de­ rasah, l'interpretazione midrasica; remez, il valore alle­ gorico, desunto con il metodo dell'esegesi filosofica; sod, il mistero mistico. Le raffigurazioni simboliche im10

piegate dai cabbalisti esprimono così una compresenza, che può racchiudere concetti anche molto diversi e tal­ volta persino tra loro contrastanti. La natura del sim­ bolo consente peraltro che questa polisemia non sia conflittuale, giacché i vari significati si sommano per al­ lusione, senza mai venire espressi in maniera discorsiva. Così, per esempio, il roveto ardente- che è al centro dell'episodio biblico narrato nel terzo capitolo dell'E­ sodo- diviene, nelle interpretazioni midrasiche, un'al­ legoria del giudizio divino sui malvagi, in cui il fuoco, che avvampa attorno all'arbusto, è il segno della puni­ zione. Alla fine del XVI secolo, nella qabbalah luriana, questo spunto porta all'enunciazione della corrispon­ denza tra il valore numerico della parola ha-seneh, «il roveto», con il numero complessivo di tutte le possibili trasformazioni di Elohim, il nome che designa spesso Dio nella sua manifestazione di durezza e rigore, ovve­ ro con la quinta se/irah, gevurah (potenza). La scala poggiata tra cielo e terra, vista da Giacobbe in sogno, si muta invece, nel trattato If-ullin (Cose pro­ fane) del Talmud babilonese, in una gigantesca struttu­ ra cosmica, larga «ottomila parasanghe» e capace di ac­ cogliere angeli smisurati. NelSe/er ha-zohar (Il libro del­ lo splendore) poi, il grande classico della qabbalah tar­ do-duecentesca, e in particolare nella sezione intitolata Ra'aya mehemna (Il pastore fidato), la stessa scala viene identificata con la decima sefirah, malkut (regno), vista nel doppio aspetto di preghiera e di presenza divina: e fece un sogno, ed ecco una scala era poggiata sulla terra ( Gen. 28.12), si tratta della preghiera, poggiata sulla terra, poiché gli uomini la intonano sulla terra - che corrisponde alla Seki­ nah- ed essa giunge al cielo, che equivale al Santo, sia Egli be­ nedetto.

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Un altro caso interessante di utilizzo e trasformazio­ ne di un'immagine biblica si trova per esempio nell'ese­ gesi cabbalistica del salmo 29 nel quale, per sette volte, viene ripetuta l'espressione la voce del Signore, in una sorta di inventario delle manifestazioni che accompa­ gnano la presenza divina nel creato, quali il vento e il tuo­ no. n simbolismo della qabbalah utilizza queste voci per raffigurare le sette se/irot inferiori, da malkut (regno) a �esed (clemenza), che fanno parte del mondo della ma­ nifestazione. Al di là di esse tuttavia esiste, secondo lo Zohar, anche una voce inudibile «voce grande, voce in­ teriore [. . .] che sussiste nel pensiero ma non si mostra e non può essere ascoltata»: è la se/irah binah (intelligen­ za), da cui emana la creazione visibile. Anche da questi rapidi cenni si può intuire fino a qual punto la trama simbolica caratterizzi i testi cabbalistici, rendendoli un vero e proprio percorso per immagini. La forza di attrazione dei simboli prevale infatti quasi sem­ pre sulla concatenazione logica degli argomenti, tanto che la lettura di questi scritti è spesso una discesa nella profondità dei singoli nodi espressivi più che uno scor­ rere lungo la superficie del testo. n discorso mistico si sviluppa dunque, per così dire, in maniera intermitten­ te, e i brevi intermezzi discorsivi servono per collegare tra loro innumerevoli immagini verbali, ciascuna delle quali ha una propria completa autonomia di significato. Il diagramma delle «se/irot»

Il termine se/irah (pl. se/irot) fa il proprio ingresso nel­ la mistica ebraica con il Se/er ye�irah, scritto probabil­ mente in Terra d'Israele tra il VI e il VII secolo. n vo­ cabolo, che era stato usato fino ad allora nel senso di «conta», owero di misura di un ciclo, acquista, nel Se12

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/er ye�irah, un valore allusivo più ampio, connotato so­

prattutto dalla categoria del numero dieci e da similitu­ dini di luce. Le se/irot non corrispondono ancora qui ad attributi specifici di Dio, benché descrivano già un irra­ diarsi dell'energia divina nello spazio. È solo tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo che compare nella letteratura mistica una teoria articolata delle se/irot, che rimarranno da allora in poi il vero cen­ tro simbolico del pensiero della qabbalah. Sebbene il concetto di se/irot venga svolto in maniera piuttosto va­ ria, a seconda degli autori e delle scuole, alcuni tratti fondamentali risultano comuni alla maggior parte delle dottrine cabbalistiche. Innanzitutto i cabbalisti sono concordi nel concepire le se/irot come gradi, e cioè co­ me livelli attraverso i quali la forza di Dio agisce nel creato. Benché esse siano invisibili, il loro influsso so­ stiene la realtà e la alimenta, tanto da poter essere per­ cepito sia nel macrocosmo sia nel microcosmo umano. La suddivisione dell'energia divina in se/irot dipende, secondo la qabbalah, dalla struttura dell'intelletto uma­ no, che può pervenire alla conoscenza solo gradualmen­ te. I testi cabbalistici non si stancano infatti di ripetere che le se/irot sono unite nel Signore e che sono separa­ te nella nostra limitata comprensione, la quale può in­ nalzarsi verso il cielo solo per tappe successive. Ciascu­ na se/irah non è dunque altro che un grado prowisorio di aggregazione dell'energia divina, inserito in un con­ tinuo dinamismo di discesa e di risalita. Un altro elemento costante in tutta la qabbalah è la convinzione che le se/irot siano dieci, in accordo con un simbolismo numerico precedente anche allo stesso Se/er ye�irah. Già nel Vicino Oriente antico e nella Bibbia il numero dieci esprimeva infatti la nozione di completez­ za, rappresentando una serie totalizzante e definitiva. 14

Sulla scorta di questi precedenti, i cabbalisti ritennero che la decade esprimesse la struttura profonda dell'esse­ re e fosse il modo migliore per riassumere l'intero cosmo. L'indagine cabbalistica raccolse, nei secoli, un vasto ma­ teriale letterario per dimostrare il carattere sacro del die­ ci e per rintracciare, negli antichi testi religiosi, e nella simbologia del rito, la conferma che questo numero fos­ se, esso stesso, chiave di conoscenza. Tutto ciò che è nu­ merabile per dieci è dunque, nella qabbalah, metafora del mondo sefirotico: lo sono, per esempio-come già nel Se/er ye!irah -le dita delle mani e anche le enunciazioni con cui Dio, all'inizio del Genesi, origina il creato. An­ che le decadi desunte da tradizioni non ebraiche vengo­ no prese a metafora delle se/irot, come nel caso delle die­ ci sfere celesti della filosofia antica, che la qabbalah me­ dievale fa corrispondere ai propri gradi divini. All'interno di questa serie di dieci è naturalmente possibile operare ulteriori suddivisioni, distinguendo in primo luogo tra i due gruppi del tre e del sette: alle tre se/irot superiori si contrappone infatti, in quasi tutta la letteratura cabbalistica, la successione delle sette infe­ riori. Mentre le prime si riferiscono alla sfera più occul­ ta della divinità, le seconde- dette anche «le sette infe­ riori» o «le sette voci» - permeano il mondo della ma­ nifestazione, regolato dalle leggi della dualità. Un altro raggruppamento separa l'uno dal nove, distinguendo la se/irah superna dalle nove più basse o, in maniera spe­ culare, la decima (e ultima) dalle nove che la precedo­ no. Come la più alta è awolta da un alone impenetrabi­ le di inconoscibilità, così la più bassa, più vicina al mon­ do materiale, è per così dire separata dai gradi superio­ ri, di cui riflette la luce «come uno specchio opaco». A partire dall'età medievale, oltre che con l'appella­ tivo generico di se/irot, i gradi dell'emanazione divina 15

furono designati con nomi specifici, in parte tratti da un versetto del primo libro delle Cronache (29.11) nel qua­ le Davide benedice Dio elencandone gli attributi: A te Signore si addice la grandezza (gedullah)) la potenza (gevurah)) la bellezza (tz/'eret)) l'eternità (ne�a�)) e il fa­ sto (hod)) perché tutto quello che sta in cielo e in terra è tuo. Ti è proprio) o Signore) il regnare (mamlakah) e l'e­ levarsi al di sopra di tutto. Questi nomi furono attribui­ ti, in ordine discendente, a sei delle sette se/irot inferio­ ri. Tra hod e malkut (regno) - come fu più frequente­ mente chiamata la decima- venne poi situata yesod, la se/irah del fondamento, mentre per le tre superiori, i termini più ricorrenti furono keter (corona), �okmah (sapienza) e binah (intelligenza). Accanto a denomina­ zioni alternative, quali per esempio �esed (clemenza) al posto di gedullah, o pa�ad (terrore) anziché gevurah, la designazione delle se/irot si avvalse poi di una grande

varietà di termini metaforici, come per esempio «luci», «giorni», o «vesti». Per ciascuna di esse i cabbalisti escogitarono inoltre una serie di corrispondenze sia tra i personaggi biblici sia tra le manifestazioni della natu­ ra: Abramo è così collegato a gedullah, !sacco a gevurah, mentre a Giacobbe si riferisce il fulgore di tz/'eret. A quest'ultima corrisponde, tra gli astri, il sole, così come a malkut corrisponde la luna. Alle se/irot fa dunque capo una rete di corrisponden­ ze che dimostra come il dominio di queste forze segrete pervada ogni livello della realtà. n riferimento del sole, di Giacobbe o della nozione astratta di bellezza a una medesima se/irah non significa naturalmente che questi disparati elementi siano tra loro equivalenti, ma piutto­ sto che essi sono legati da un'armonia simbolica, che isti­ tuisce un nesso intimo tra loro e cioè un grado comune, intuibile dietro la mutevole apparenza del reale. 16

I cabbalisti infine, fedeli a un'idea già esposta nel Se­ /er ye�irah, concepiscono la struttura sefirotica come soggetta a un incessante movimento, con cui il flusso di­ vino percorre il cosmo. Tale dinamismo è stato illustrato non solo con immagini verbali ma anche mediante rap­ presentazioni grafiche che cercano di fissare, seppure in maniera compendiaria, l'ordine gerarchico e le miste­ riose simmetrie che regolano la vita intradivina. Esisto­ no numerosi tipi di figurazioni della struttura sefirotica, per esempio in forma di sfere disposte sulla circonfe­ renza di un cerchio o di lettere ebraiche racchiuse l'una dentro l'altra, ma l'immagine più nota- divulgata dal­ l'edizione cinquecentesca del Pardes rimmonim (Il giar­ dino dei melograni) di Cordovero- è il cosiddetto al­ bero sefirotico nel quale, lungo tre assi principali, pa­ ralleli tra loro, sono disposti i cerchi che simboleggiano le se/irot, legati da numerosi canali trasversali, che se­ gnalano gli influssi reciproci. Secondo la tradizione cab­ balistica, la discesa delle forze celesti avviene lungo il la­ to di destra (con �okmah, �esed e ne�aM, mentre la risa­ lita percorre la parte sinistra (con binah, gevurah e hod). L'asse centrale, sul quale si allineano keter, ti/'eret, ye­ sod e malkut, è invece connotato dall'idea di presenza e di pienezza del divino. Il processo di emanazione

Nella concezione dei cabbalisti, sebbene invisibili al­ l'occhio, le se/irot possono essere percepite dalla cono­ scenza: a esse ci si può infatti avvicinare con lo studio e con la contemplazione delle tracce divine nel creato. Ciò che invece non è conoscibile è la vera essenza di Dio, l'origine incommensurabile della sua potenza, che presiede al mondo della manifestazione, senza esserne 17

in alcun modo limitata. Per descrivere l'assoluta tra­ scendenza di Dio, i cabbalisti ricorsero al frasario della teologia negativa, enunciando così l'impossibilità di qualificare la più intima natura del divino. Già con Yi��aq il Cieco, agli inizi del XIII secolo, il Dio inco­ noscibile è indicato con la locuzione ebraica En so/, let­ teralmente «non fine», e cioè «infinito». Benché i testi ripetano che questa connotazione negativa non è altro che l'affermazione del limite umano, essa sancisce il di­ vario incolmabile tra il mistero della trascendenza e i li­ miti conoscitivi della teosofia. Nella maggior parte delle opere cabbalistiche la ma­ nifestazione di Dio nel cosmo è concepita pertanto come un libero atto di svelamento che, nella sua fase inizia­ le, procede mediante un'emanazione. L'irraggiarsi della forza divina nel cosmo è per lo più descritto con una sim­ bologia di luce, con cui si cerca di sottolineare tanto il fat­ to che l'essenza dell'Emanatore non viene in alcun mo­ do alterata, quanto l'idea che le sostanze emanate sono il riflesso dello splendore divino. In uno deiSifre ha- 'iyyun (I libri della contemplazione)- redatti probabilmente al­ la metà del Duecento- si legge così: Egli è unito alle sue forze come la fiamma è unita ai suoi colori; le sue forze vengono emanate dalla sua unità come la luce dell'occhio esce dalla scura pupilla. Vengono emanate l'una dall'altra come il profumo dal profumo e come un lume da un lume[ . .] nell'emanato vi è la forza dell'Emanatore, ma questi non subisce alcuna diminuzione. .

Questa descrizione, che pure deve molto al lessico neoplatonico, esprime il profondo valore contemplati­ vo del concetto cabbalistico di emanazione, che i misti­ ci ebrei vivevano non come un astratto teorema intel­ lettuale ma come un'intima esperienza conoscitiva. 18

Ancora agli inizi del XIV secolo, nella letteratura d'i­ spirazione zoharica - in particolar modo nei Tiqqune ha-zohar (Gli ornamenti dello splendore) e nella Mas­ seket a!ilut (Trattato sull'emanazione) - il processo di emanazione comincia a venire distinto in fasi successi­ ve, per denotare la distanza che separa il mondo super­ no dalla bassa realtà materiale. I mistici parlano così di quattro mondi: quello dell'emanazione (a!ilut) vera e propria, il mondo della creazione (bertah), quello della formazione (ye!irah) e per ultimo quello della realizza­ zione ('afiyyah). Questi diversi nomi indicano la tra­ sformazione del tipo di influsso con cui le se/irot gover­ nano il cosmo. Il mondo dell'emanazione, che è il più vicino all'Emanatore, è retto da forze assolutamente im­ materiali mentre, dal dominio della creazione in poi, l'influenza sefirotica avviene attraverso mezzi sempre più concreti. La tradizione mistica associa ai mondi di creazione, formazione e realizzazione tre ripartizioni dell'antica cosmogonia rabbinica, ponendo nella crea­ zione il trono della gloria divina, nella formazione il mondo angelico e nella realizzazione il firmamento, i pianeti e gli influssi malvagi. Ciascuno di questi mondi segna uno scadimento del livello di energia e rappre­ senta anche un diverso grado di comprensione: affinan­ do la propria sensibilità per il mistero divino, l'uomo può infatti percorrere a ritroso il cammino dell'influsso celeste. La successione dei mondi allude anche ai diver­ si gradi dell'esperienza umana: se il mondo della realiz­ zazione è soggetto agli influssi astrali e alle suggestioni del male, quello della formazione rappresenta, secondo i cabbalisti, l'esperienza profana e la vita quotidiana, mentre il mondo della creazione è immaginato come un giorno festivo, un sabato nel quale ci si riavvicina al tro­ no divino. 19

La contrazione, la rottura dei vasi e la restaurazione

Il problema del passaggio dal mistero dell'En so/ al do­ minio dell'emanazione ha rappresentato uno dei punti più tormentati della speculazione cabbalistica. L'impul­ so alla manifestazione fu ritenuto, quasi concordemen­ te, un moto spontaneo e benefico della volontà divina che si esprimeva, come si è illustrato nelle pagine prece­ denti, nell'idea di una espansione, ovvero di una propa­ gazione di luce che, da un punto iniziale, s'irradiò senza confini. Nella qabbalah cinquecentesca si diffuse tutta­ via, in maniera sempre più organica, la riflessione sull'a­ spetto segreto dello scaturire dell'emanazione. I cabba­ listi ritennero infatti che l'En so/, per poter apparire nel cosmo, avesse dovuto limitare se stesso, stringersi, per così dire, entro un dominio di comprensibilità. L'idea di una contrazione - definita in ebraico con la radice #m�em- della Sekinah, la Presenza divina, compare già nella letteratura midrasica ed è ripresa, nel corso del Duecento, con alcune varianti, tanto da Mosè Nachma­ nide quanto in un passo del Midras ha-ne(elam (Il midras nascosto). Moseh Cordovero (1522-1570), genio precoce e lu­ cido espositore dei principi della qabbalah, esprime poi il concetto di contrazione divina con un breve illumi­ nante aforisma, secondo cui