La potestà di governo nella vita consacrata. Linee di sviluppo storico-giuridico ed ecclesiologico del can. 596 8889736798, 9788889736791


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La potestà di governo nella vita consacrata. Linee di sviluppo storico-giuridico ed ecclesiologico del can. 596
 8889736798, 9788889736791

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MONOGRAFIE 4 COLLANA DIRETTA DAL PROF. ARTURO CATTANEO

FRANCESCO PANIZZOLO

La potestà di governo nella vita consacrata Linee di sviluppo storico-giuridico ed ecclesiologico Presentazione di Arturo Cattaneo

© 2009, Marcianum Press, Venezia. Marcianum Press srl Dorsoduro 1 - 30123 Venezia Tel. 041 29 60 608 Fax 041 24 19 658 [email protected] www.marcianumpress.it

In copertina: Giotto, San Francesco e l’approvazione della regola da parte di Papa Innocenzo III, affresco sec. XIII. Assisi, Basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore dopo gli ultimi restauri (2005). Foto © Deganello Giorgio

Impaginazione e grafica: Linotipia Antoniana, Padova

ISBN 978-88-89736-79-1

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Presentazione Nella recente istruzione Faciem tuam della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica (11 maggio 2008), si dice che «la sequela del Signore non può essere impresa di navigatori solitari, ma è attuata nella comune barca di Pietro» (13, f). In questa comune barca di Pietro il Signore ha suscitato nella storia uomini e donne che hanno consacrato la loro vita al servizio di Dio sotto l’ispirazione dello Spirito santo. Di questa consacrazione e di questo servizio si è fatta sempre più garante la Chiesa, fino a riconoscere esplicitamente le forme di vita consacrata come un suo elemento imprescindibile, segno visibile dei doni dello Spirito, senza cui non si potrebbe capire la Chiesa stessa. Per questo, inizialmente apparsa in forme individuali, la vita consacrata si è nel tempo aggregata, creando strutture di vita fraterna e comunitaria a somiglianza della prima comunità di Gerusalemme. I carismi crebbero sulla scorta di una carità ordinata che vuole indicare un di più non solo evidente nella santità individuale – tensione sempre presente e necessaria per la vita nello Spirito – ma pure comunitaria, per cui i doni spirituali vengono condivisi e arricchiscono tutti. Posta in quest’ottica, la necessità della condivisione dei doni e del vivere insieme nella sequela Christi, ha concentrato la propria attenzione attorno a figure carismatiche che guidassero i fratelli sulle vie della santità. Ma, lungi dall’essere sintomo di diversità, di prevaricazione, di privilegio, coloro che guidano i consacrati sulle vie della santità, svolgono un vero e proprio servizio, affascinante e allo stesso tempo duro.

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La potestà di governo nella vita consacrata

Quest’opera cerca perciò di addentrarsi in questo servizio, prospettandone alcune caratteristiche particolari e, tuttavia, necessarie, come sono quelle giuridiche. Proprio con la sensibilità giuridica, si rivolge perciò a coloro che siano interessati ad approfondire una tematica non irrilevante della Chiesa e della cultura occidentale, a vederne il nascere e lo svilupparsi secondo la comprensione che la Chiesa ha avuto di sé nel tempo e che ha in particolare oggi, a quarant’anni e più dal Concilio Vaticano II. Lasciando ad altri, quindi, l’approfondimento teologico-spirituale del ruolo dell’autorità all’interno degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, ci limitiamo qui a sondare le vie che hanno preso carne nella storia con la capacità di lasciare il segno nei solchi del nostro presente, lì dove la buona semente del Vangelo veniva gettata per morire e così portare frutto. Impresa non facile sia per la vastità del tempo in cui questa semente è stata – e continua ad essere – gettata, sia per la complessità e diversità degli Ordini, Religioni, Congregazioni, Società, Istituti che ne sono nati, sia per la diversità di posizioni ed opinioni che anche oggi si scontrano e – a volte – incontrano. A questa difficoltà viene incontro il Codice di Diritto Canonico, che nella sintetica esposizione tipica dei testi giuridici, presenta – a volte in maniera inaspettata – soluzioni di ampio respiro e di profonda attualità. E a questa fonte si farà alla fine riferimento, per poter essere il più possibile coerenti con l’hodie della Chiesa. Al lettore l’augurio di poter gustare l’amore che la Chiesa ha per ogni consacrato e di poter appassionarsi per essere a sua volta possibilità di questo amore.

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Introduzione Osservando la vita della Chiesa, e particolarmente la vita della Chiesa così come è strutturata oggi, ci si trova di fronte ad una realtà complessa, che fa dell’amore per Cristo e in esso della salvezza delle anime la propria origine e meta. Essa trova concretamente espressione nella storia in cui è inserita, che pure viene consacrata e riportata a Cristo. Della vita stessa della Chiesa fanno parte uomini e donne che si consacrano al Signore nel nome di Cristo per la lode a Dio, nel servizio alla Chiesa e all’umanità intera. Con lo studio delle forme organizzate di vita consacrata, ci si imbatte anche nella loro struttura interna, così come è articolata ai nostri giorni, complessa e variegata ricchezza di carismi, particolarità e diversità per il bene del popolo di Dio. Alla identità e salvaguardia di questa ricchezza è posto il diritto degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica che, assieme al diritto particolare di ogni specifico gruppo di consacrati riconosciuto dalla Chiesa – universale o particolare –, forma l’ossatura ed il volto visibile di una realtà che travalica i confini dell’istituzione per entrare nel carisma e nell’invisibile. Tale diritto è parte, forse non fondamentale ma certamente importante e rilevante, del diritto canonico e della vita della Chiesa. Questo è il diritto posto al centro del presente elaborato, nella fattispecie il diritto che regolamenta quella complessa serie di rapporti che si instaura tra chi è chiamato a discernere per governare un Istituto o una Società e chi, facendo parte di tale comunità, è chiamato ad obbedirvi. È l’antica (per la storia della Chiesa) e sempre nuova (per-

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La potestà di governo nella vita consacrata

ché ogni persona è un mistero) ricerca dell’obbedienza a Dio Padre, che nel discernimento è chiamato a fare tanto chi governa quanto chi è governato. È ciò che il modello per eccellenza di ogni cristiano, Gesù Cristo, fece quando “assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini, apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,7b-8). Nel corso della storia, gran parte degli autori non hanno mancato di sottolineare che tale rapporto si inserisce in un ambito privato che soltanto occasionalmente sconfina nella vita pubblica della Chiesa e da essa viene riconosciuto, ma non per volontà interna, bensì per una volontà esterna e superiore, gerarchica. Questo ha generato la teoria (e la prassi) della ‘potestà dominativa’, che ben presto si è trasformata in un giuridicismo esasperato e minuzioso che, se da un lato rendeva il Superiore potenzialmente capace di far tendere il suddito alla salus animarum, dall’altro rischiava di far perdere di vista proprio il fondamento non solo dell’obbedienza, ma pure della consacrazione: l’amore per Cristo che si è fatto obbediente al Padre. Non sono mancate e non mancano riflessioni riguardanti il ruolo e la posizione dei consacrati nella vita della Chiesa e, certamente, non verranno a mancare, continuamente interpellati dalla storia in cui la Chiesa è chiamata a portare la luce di Cristo. A partire da queste riflessioni si è giunti – dal Concilio Ecumenico Vaticano II fino ad oggi – ad una revisione di tutto quello che è stato il modo di concepire la vita all’interno di Ordini, Religioni, Istituti e Società e, nel Codice attuale, si è giunti a darne una sintesi perfezionabile certamente, ma che sicuramente e soprattutto rompe con il passato. Si inserisce ora l’esistenza degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella vita pubblica della Chiesa, rendendo ragione del loro esistere all’interno di essa.

Introduzione

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Con questa nuova posizione ecclesiologica, la Chiesa pone le basi per una riflessione futura circa tutte le forme di vita consacrata. Ma allo stesso tempo apre interrogativi circa il rapporto esistente tra governante e governato che viene ora ad inserirsi nel più ampio contesto della potestà nella Chiesa, argomento fondamentale e delicato nonché al centro, seppur da angolazioni sempre diverse, di un continuo dibattito tra gli studiosi. Si tratta, infatti, della sacra potestas nella Chiesa, cioè dell’insieme di doveri e diritti1 che Gesù Cristo ha affidato a Pietro e, tramite lui, ai suoi vicari e successori del primo degli apostoli. Non si entra direttamente e propriamente nel dibattito circa l’origine di questa potestà nella Chiesa, ma se ne tratteggiano le linee fondamentali perché ad essa si fa riferimento più volte parlando del can. 596. In questo senso, la ricerca si vuole inserire anche nell’ambito del libro I del Codice, in quel titolo VIII riguardante la potestà di governo nella Chiesa che gioca un ruolo fondamentale nella guida alla salus animarum e che influisce direttamente nella sfera dei doveri e diritti delle persone fisiche e giuridiche nel corpo ecclesiale. Ed è proprio a questo tema che si cerca di dare alcune risposte nella trattazione della ricerca riguardo alla vita consacrata. La potestà di governo nella vita consacrata diviene allora un’esplorazione di quella che è stata ed è la concezione della potestas negli Istituti di vita consacrata, in prospettiva storica – secondo lo sviluppo che ebbe ad avere fin dai suoi primi passi nella Chiesa –, senza tralasciare i vari significati che vi si accostarono a livello ecclesiolo-

1 Sebbene questi siano ora disciplinati organicamente nel Codice, mentre dai Vangeli si ricava solamente che a Pietro viene affidata la cura del popolo di Dio nel nome di Gesù (cfr. Mt 16,18; Lc 22,31ss.; Gv 21,15-17).

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La potestà di governo nella vita consacrata

gico e le concrete disposizioni che – allora come adesso – furono prese a livello giuridico. La presente ricerca fa esplicito riferimento al can. 596 del Codice di diritto canonico, situato nel libro II sul popolo di Dio, alla parte III, il titolo I della sezione I riguardante gli Istituti di vita consacrata.2 Ed effettivamente lo spunto per questa riflessione è proprio partito da questo canone: qual è la potestà definita dal diritto universale e dalle costituzioni per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica? È sempre stata vista in questo modo nella Chiesa? Si può parlare di una potestà comune a queste forme di vita consacrata? Perché il Codice non vi fa esplicito riferimento? È la stessa potestà che la Chiesa ha ricevuto da Cristo? E come viene trasmessa agli Istituti e alle Società? A queste e ad altre domande si è cercato di dare una risposta soddisfacente nello sviluppo della ricerca che si è trovata affascinante e al contempo complessa, lungo il dipanarsi della questione. Con questo lavoro non si ha la pretesa di chiudere un capitolo dibattuto della vita religiosa, quanto piuttosto di porre dei punti fermi su ciò che finora è stato raggiunto e di indicare una via alla possibile soluzione di un argomento ancora discusso. Ed effettivamente non mancano le posizioni più diverse nella dottrina e sembra che tra gli autori debba ritenersi ancora distante il giorno per una possibile conciliazione delle diverse posizioni: vi è infatti chi sostiene una radicale diversità tra la sacra potestas esercitata dalla/nella Chiesa con quella degli Istituti e Società, e chi sostiene la sua sostanziale uguaglianza. Né d’altro canto mancano altre ricerche svolte in passato da studiosi o da studenti. Ma si deve rilevare che si sono trovate rivol-

2 Il can. 732, in combinato disposto, pone tale normativa anche per le Società di vita apostolica, mediante rinvio diretto.

Introduzione

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te più all’aspetto storico-teologico che ad una sua attenta analisi anche ecclesiologica e soprattutto giuridica. Questo può stupire tanto più in quanto il Codice lascia alla dottrina la definizione e l’approfondimento di questa potestà (indicando soluzioni interne a quel diritto comune che è il Codice stesso), evitando di addentrarsi in dispute e posizioni che trovano difficoltà ad armonizzarsi in un tutto unico, a volte anche tra i suoi stessi canoni. Partendo da questi presupposti, il metodo usato è al contempo ‘diacronico’ (soprattutto nei primi due capitoli che guardano più alla storia e all’ecclesiologia e, quindi, allo sviluppo del concetto di potestà dominativa fino quasi ai nostri giorni) e ‘sincronico’ (soprattutto negli ultimi tre capitoli che, avvicinandosi ai nostri giorni, si trovano ad affrontare contemporaneamente – e in un tentativo di riavvicinamento – le diverse posizioni giuridiche). L’argomentare è prevalentemente ‘induttivo’, guardando di volta in volta alle concrete disposizioni e scelte che il legislatore ha preso per affrontare le istanze della storia: si è riscontrato infatti che, in lavori svolti da altri autori, la teoria difficilmente riesce a sfociare poi in una pratica effettiva, sia perché non viene colta quella già esistente, sia perché non rende ragione di possibili cambiamenti futuri. Il Codice diviene allora una fonte sicura e pratica al contempo (la più pratica!) per riconoscere le teorie o forse, meglio, la teoria che vi sottostà, ed interpretarla alla luce del suo principio ispiratore: il Concilio. La necessità di un testo di base e comune diviene tanto più importante se si guarda alle posizioni degli autori dal principio del concetto di potestà dominativa fino alla promulgazione del Codice del ’17. Il capitolo primo, che ne cerca di tratteggiare le linee portanti, indica le radici del pensiero degli autori medievali all’interno del concetto giuridico romano di potestà, individuata nel suo ambito privato familiare di patria potestas (rapporti parentali) e do-

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La potestà di governo nella vita consacrata

minica potestas (rapporti servili). Ne fa seguito la posizione del Suàrez, coniatore del termine stesso di potestas dominativa, e, da ultimo, le analisi della potestà in vari tipi di società, in ambito privato e pubblico, con particolare riferimento alle differenze esistenti tra potestà negli Istituti esenti e non esenti. Il secondo capitolo analizza la dottrina che si accompagnò al Codice del ’17 e che favorì il riconoscimento di carattere pubblico alla potestà dominativa, sì che il Concilio Ecumenico Vaticano II recepì tale posizione e – ancora in fase conciliare – furono concesse speciali facoltà ai Superiori di Istituti di diritto pontificio sia clericali che laicali. È nel terzo capitolo che prende la luce il can. 596, così come si trova nel Codice vigente. Se ne seguono perciò le tappe fondamentali, l’iter di formazione dal post-Concilio al 1982, citando anche alcuni documenti della Curia Romana, che hanno segnato per la loro portata la norma particolare del nostro canone. Una volta raggiunta l’attuale legislazione in materia, si prendono ad esame quelle che sono le disposizioni concrete, l’insieme di doveri e diritti (e sono molti) che gli uffici di Ordinario e di Superiore maggiore comportano, se ne pongono a confronto l’esercizio di potestà che in entrambi vengono concesse, con un riguardo particolare alla potestas exsecutiva. All’ultimo capitolo è lasciata una panoramica sulle diverse opinioni degli autori riguardante la potestà dei Superiori maggiori. Si individuano principalmente due teorie, coloro che riferiscono la potestà esercitata negli Istituti e nelle Società come potestas sacra e coloro che non vi vedono alcun legame se non per gli Istituti religiosi e le Società di vita apostolica clericali di diritto pontificio. Nell’uno e nell’altro “schieramento” non mancano nomi illustri, tanto che, di una sessantina di autori presi in esame complessivamente, risulta difficile prendere posizione

Introduzione

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contro gli uni o contro gli altri. Si è cercato perciò di conciliare soprattutto le prospettive della seconda posizione, pur riconoscendo che la loro diversità notevole – per origine, sviluppo ed illustrazione della potestà descritta al can. 596 §1 – è il maggior ostacolo ad un’armonizzazione unitaria del gruppo. Infine, si cerca di cogliere delle conclusioni dal lavoro svolto e da alcune riflessioni personali per una soluzione al problema, rilevando alcuni spunti per un’analisi ancora possibile e proponendo anche la formulazione di un nuovo canone, consono all’esito del lavoro di ricerca svolto. Il risultato conclusivo che ne consegue è molto vasto. E, tuttavia, è opportuno notare che si è dovuta fare una selezione del copioso materiale esistente per non rischiare la dispersione ed anche la divagazione dal tema trattato. Infatti, spingendosi dai primordi della vita consacrata associata ai giorni nostri, si abbracciano quasi duemila anni di storia della Chiesa e perciò non solo un notevole arco storico, ma pure un bagaglio culturale e teologico notevole che, pur non avendo la pretesa di aver espresso esaustivamente, si auspica sia stato quanto meno ben impostato per capirne la profondità, che è profondità e sapienza della Chiesa e degli uomini che l’hanno formata, nel loro tutto unico di carne e spirito e, se si vuole, di pregi e difetti.

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Cap. I

Potestà dominativa dalle origini al CIC 17: sviluppo ed essenza

Il capitolo si propone di evidenziare la nascita del concetto di potestà dominativa nella vita consacrata, dai suoi albori nella vita monastica alle sue ultime forme di Società di vita comune ed Istituti secolari. Si espongono le linee fondamentali della potestà esercitata in ambito privato nel diritto romano, da cui spesso gli autori hanno tratto spunto per la loro trattazione del tema e le si raffronta con le principali posizioni degli autori medioevali e rinascimentali. Si circoscrive quindi la trattazione nell’osservare l’origine della potestà secondo i vari autori e la sua differente applicazione nei casi in cui venga considerata pubblica o privata. Infine, si espone il legame intercorrente tra l’istituto dell’esenzione e la potestà di giurisdizione nel campo della vita consacrata.

1.1. La potestà nel diritto romano Parlando della potestà dominativa, non si può omettere la trattazione della potestà in ambito romano e di quella potestas nelle relazioni familiari a cui questa stessa rimanda, per poter capire il sostrato giuridico su cui poggia tale potestà. Si dice infatti dominativa quella potestà che

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La potestà di governo nella vita consacrata

prende nome dal dominor (dominus),1 dal momento che i Superiori tengono quasi in dominio la volontà dei loro sudditi, esercitando su di essi una vera dominazione. Ma questa stessa non è assoluta né arbitraria, in quanto si esercita secondo i limiti professati con l’emissione dei voti.2 Essa prende forma da quella potestà propria del padre sul figlio, del marito sulla moglie, del padrone sullo schiavo in epoca romana.3 La dinamica interna della vita dei religiosi nei monasteri (si tenga ben presente che a lungo nella Chiesa l’unica forma di vita consacrata fu quella monacale, claustrale) fu regolata fin dai primi albori dalla diretta dipendenza ed obbedienza dei monaci all’abbas, l’abate.4 Nell’ambito dei rapporti assoluti esistenti tra i romani, si individuano due categorie: i ‘rapporti familiari’ (tra i quali si inseriscono la patria potestas ed il matrimonium) ed i ‘rapporti dominicali’ (tra i quali spicca il domìnium ex iure “«Habere» dubliciter accipitur: nam et eum habere dicimus, qui rei dominus est et eum, qui dominus quidem non est, sed tenet: denique habere rem apud nos depositam solemus dicere”. Così Ulpiano in D. 45, 1, 38, 9. Più oltre lo stesso autore afferma: “Pater autem familias appellatur, qui in domo dominium habet, recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat...”, D. 50, 16, 195. 2 Cfr. RAUS J.B., De sacrae obedientiae virtute et voto, Parigi 1923, 65. 3 Cfr. CABREROS DE ANTA, La potestas dominativa y su ejercicio, in AA.VV., La potestad de la Iglesia. Trabajos de la VII semana de Derecho canonico, Barcelona 1960, 59. 4 Non è un caso che in alcuni luoghi, il monaco fosse chiamato anche ‘figlio’ dell’abate, il quale significa appunto ‘padre’. Abbas sarebbe la forma familiare (propria dell’infante) di appellare la figura paterna, che nelle lingue indoeuropee è riconosciuta come atta. Infatti, la forma pa-ter avrebbe carattere giuridico e sociale che non sempre corrisponde alla paternità in senso fisico (in latino si usano i termini parens e genitor per indicare quest’ultima). Cfr. sull’argomento FRANCIOSI G., Clan gentilizio e strutture monogamiche, Napoli 1976, vol. II, 98-99 in nota, con ampia bibliografia. 1

Cap. I - Potestà dominativa dalle origini al CIC 17: sviluppo ed essenza

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Quiritiium e la dominica potestas sui servi). La patria potestas è la potestà che ha il padre nei confronti dei figli, mentre la potestas semplice (chiamata dalla dottrina potestas dominica) è quella che ha il signore nei confronti dei servi. In un certo senso, la struttura esistente all’interno della famiglia romana era in larga parte paragonabile a quella di uno Stato, anche in periodo giustinianeo.5 Tutte le funzioni familiari facevano capo al paterfamilias, la cui potestas trova un buon parallelo nelle organizzazioni statuali e che sopravviverà fino a Giustiniano. 1.1.1. La patria potestas Trattare della patria potestas così come era concepita nella familia romana, significa considerare l’evoluzione che questo istituto ha avuto in questa società dall’epoca delle XII tavole (VIII-VII sec. a.C. ca.) alla riforma del diritto romano attuata dall’imperatore Giustiniano (VI sec. d.C.). Ciò comporterebbe una vasta panoramica, che sarà qui trattata solo per sommi capi, all’unico fine di inquadrare le radici della potestà dominativa. Nel diritto romano, pater era non solo il genitore (chiamato pater naturalis), ma pure l’ascendente (chiamato pater familias, che poteva coincidere con la persona del genitore e che deteneva la patria potestas sul soggetto). È questa la posizione del BONFANTE P., Corso di diritto romano, Roma 1925, vol. I, 5 ss., che ha trovato in ARANGIO-RUIZ V., Le genti e la città, Messina 1914, 11 ss. il primo oppositore, in quanto vede nella famiglia romana una struttura più economica che politica, più legata all’unione per scambi commerciali, pur essendo presenti anche legami sociali. Anche LUZZATTO G.I., Le organizzazioni preciviche e lo Stato, Modena 1948, ne vede piuttosto nelle origini rurali la struttura famigliare così come si era formata nell’antica Roma. Il KASER M., La famiglia romana arcaica, in Conferenze romanistiche, Trieste 1950, 48, afferma che “la famiglia è, giuridicamente, l’unione di tutti gli aventi diritto all’azienda domestica”. 5

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La potestà di governo nella vita consacrata

Filii6 erano i discendenti di qualunque grado, che potevano essere legitimi, spùrii (nati da una unione illegittima), liberi naturales (nati dall’unione di un uomo libero con una concubina). I filii legitimi, cioè quelli concepiti da persone unite secondo giuste nozze, acquistavano la cittadinanza romana ed erano uomini liberi per nascita; portavano il nome della famiglia paterna e dovevano obsèquium e pìetas ad entrambi i genitori, contro i quali non potevano intentare azioni che avrebbero comportato infamia. Essi avevano il diritto ed il dovere degli alimenti verso i genitori (e questi ultimi verso i figli) e mantenevano i reciproci diritti successori. Appartenevano, almeno in origine, al padre con tutti i loro averi.7 Tuttavia, i filii familias potevano nascere anche per adoptio,8 cioè venire adottati creando non 6 “Filius eum definimus, qui ex viro et uxore eius nascitur”, afferma Ulpiano. In D. 1, 6, 6. I filii andavano distinti in maschi e femmine, in quanto sui primi ricadeva la patria potestas, sulle seconde ricadeva la manus, che gravava pure sulla moglie; VOLTERRA, Corso di istituzioni di diritto romano, Roma [s.d.], 88. 7 “Questa signoria familiare è pura e semplice proprietà e concede all’ascendente l’alienazione del figlio e del nipote”, MOMMSEN T., Disegno del diritto pubblico romano, Milano 1943, 27. Cfr. anche RONGA G., Istituzioni di diritto romano, vol. I, Torino 18992, 87. Con il dominio di Augusto, al figlio fu concesso di trattenere per sé la proprietà dei beni acquistati con il servizio militare. Costantino, inoltre, attribuì al filius familias il potere sui beni lasciati dalla madre in eredità allo stesso. Successivamente, pure Graziano e Valentiniano il Giovane accostarono le successioni degli avi all’istituto dei beni materni e alla sua successione. Questo ampliamento dei diritti appartenenti ai filii fu poi confermato pure da Onorio e da Arcadio. Il principe Valentiniano III tolse, infine, la proprietà del padre sui beni acquistati per il matrimonio dei figli che ancora fossero stati sottoposti alla patria potestas. Cfr. MERCANTI F., Compendio di diritto canonico, 511-513. 8 Secondo le due forme della adrogatio (cui si ricorreva per crearsi artificialmente un discendente che fosse già in età da partecipare ai comizi) e della adoptio semplice, utilizzata quasi esclusivamente per spostare le forze lavorative da una famiglia ad altra. Cfr. ARANGIO-

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certo un rapporto di sangue, quanto piuttosto di tipo giuridico e sociale, con eguali risultati di uno di sangue.9 La famiglia romana era regolata secondo una stretta struttura etico-religiosa. Essa era un organismo compatto, il cui capo, il pater familias, esercitava funzioni simili a quelle assunte dallo Stato. La patria potestà, se si pone a confronto la civiltà romana con quella ellenica, era un istituto tipicamente romano, proprio quindi dello ius civile, che non trovava riscontro nell’altra civiltà. Tuttavia, essa aveva un posto in molte altre civiltà antiche, come tra i Celti della Gallia o i Galati dell’Asia minore.10 Era, insomma, un istituto primitivo che fu dai romani consolidato. Il pater familias teneva ogni diritto di disposizione della persona e della volontà sul filius familias, pure di vendere (anche i figli adulti), di dare in pegno, di esporre o uccidere i neonati. L’obbedienza che il filius doveva al padre era assoluta, tanto che lo Stato nei suoi vari organi non vi poteva interferire.11 Inoltre, la patria potestas era impreRUIZ V., Istituzioni di diritto romano, Napoli 1954, 466; RONGA, Istituzioni, vol. I, 100-102; VOLTERRA, Corso di istituzioni, 92-94; BETTI, Istituzioni, 87-90; BIONDI, Istituzioni, 554-560. 9 “Filios familias non solum natura, verum et adoptiones faciunt. Quod adoptionis nomen est quidem generale, in duas autem species dividitur, quarum altera adoptio similiter dicitur, altera adrogatio. Adoptantur filii familias, adrogantur qui sui iuris sunt”. Così Modestino in D. 1, 7, 1. 10 Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 70. 11 Essa era un potere “formalmente identico al dominio sulle cose corporali; e massime alla potestà sopra gli schiavi, che con quella sui figli ha in comune l’indefinita possibilità di esplicazione che le è data dalle attitudini fisiche e spirituali dell’oggetto”, ARANGIO-RUIZ, Istituzioni, 474. “La patria potestà, come l’autorità in generale, anziché un diritto di colui che la esercita, è piuttosto un uffizio costituito a vantaggio di colui che vi è soggetto”, RONGA, Istituzioni, vol. I, 74. I figli erano per questo chiamati liberi in potestate. Tuttavia, tale rigore assoluto andò scemando già in epoca classica e nel diritto giustinianeo fu praticamente mantenuto come una forma di tradizione “orale”, più che pratica.

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scrittibile, senza alcun limite temporale (si potrebbe affermare che questa illimitatezza si esprimeva talvolta nella possibilità che aveva il padre, anche nel testamento – e quindi dopo la morte – di nominare ai figli, non ancora adulti, un tutore o un curatore).12 Una nota speciale si deve fare per quanto attiene il potere di punire il filius, che si estendeva in maniera assoluta: dalla pena a lavori infimi alla prigione, dalle percosse alla morte, non senza passare per l’esilio dal nucleo familiare (da questo punto di vista, è intuibile come vi sia stata spesso un’autocondanna da parte del figlio, fino ad arrivare al suicidio).13 Tale potestà si può riassumere con lo ius vitae et necis di cui il pater familias godeva nei confronti dei filii.14 Ciononostante, il filius non poteva venir equiparato al servo, né ad una proprietà del capofamiglia: la potestas sotto cui ricadeva era certamente la stessa cui faceva capo il servus, ma da quella pure si differenziava. Si può dire che essa veniva a rassomigliare maggiormente con il concetto di imperium (nel nostro caso imperium domesticum), concetto di diritto pubblico. Questo calcava la scia del magistrato romano, colui che esercitava il potere nelle due forme di coërcitio e di poena, di costrizione ad obbedire e di punizione del colpevole. Era, per così dire, il ruolo del pater familias domesticus magistratus.15 Dunque, la patria potestà

Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 71; MOMMSEN, Disegno del diritto, 27; RONGA, Istituzioni, 114. 13 Cfr. VALERIO MASSIMO 5, 8, 3-4. 14 Cfr. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni, 474-475. 15 Cfr. BONFANTE, Diritto romano, v. I, 73. In tal caso, come avrebbe agito il magistrato, egli si avvaleva di un consilium, al quale poteva far partecipare chi voleva, per dare luogo al vero e proprio iudicium domesticum. Il pater familias, ascoltando le proposte dei consiglieri, proclamava la sentenza che poteva essere di condanna o di assoluzione. 12

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veniva esercitata nella forma di una società politica: il figlio doveva obbedienza assoluta al padre come un cittadino l’avrebbe dovuta al potere pubblico esercitato in forma assoluta. Il pater familias esercitava il suo diritto di punire in quanto investito di un potere giurisdizionale, che gli permetteva di agire contro il figlio anche in caso di delitti contro la patria (congiura contro lo Stato, fuga davanti al nemico, …), la famiglia (parricidio o fratricidio, …), le persone, i beni. Massima forma di espressione di questo diritto di sovranità di cui erano investiti i patres familias era lo ius vitae et necis, che poteva essere trasferito in capo ad un altro soggetto di diritto. Ciò potrebbe essere la negazione stessa della possibilità di uno Stato, in quanto la famiglia risulterebbe completamente investita di autorità.16 Ma ciò che dominava la possibilità di regolare il diritto nella famiglia era la possibilità di disporre dei soggetti per il bene della società e di poter godere al massimo dei loro servigi (nel corpo e nella forza lavoro).17 Ed in questo la famiglia romana ben si può assimilare ad una monarchia assoluta. Tant’è che questa potestà era perpetua, non si estingueva con la maggiore età18 e non subiva limitazioni da parte dello ius civile e della civitas, perché autonoma ed originaria (almeno in epoca antica),

Cfr. ARANGIO-RUIZ, Le genti e la città, Messina 1914, 41 ss. “Non per nulla nelle fonti romane s’intende per famiglia, in un senso ampio della parola, tutto ciò che soggiace al potere del pater familias: oltre ai membri liberi, dunque, anche i non liberi e gli averi”, KASER M., La famiglia romana arcaica, 47. 18 Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 75. Cfr. pure ARANGIORUIZ, Istituzioni, 475, il quale precisa che vendita e noxae deditio del figlio fatte all’interno dello Stato romano non privavano dello status libertatis. 16 17

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autoreferenziale in quanto promanante dai mores maiorum.19 Solo nel periodo giustinianeo, l’istituto della patria potestà subì un cambiamento: il maltrattamento del filius familia da parte del padre poteva portare alla emancipazione forzosa del figlio. E anche se già precedentemente si erano avuti mutamenti in tal senso (con Adriano si vede la condanna alla deportazione di un pater per aver ucciso il filius senza aver prima consultato i consiglieri e, anzi, facendolo durante una partita di caccia), non possiamo affermare, senza il rischio di affermazioni prive di fondamento, che lo sviluppo di questo istituto abbia portato in età classica a mitigazioni nelle pene.20 È vero, invece, che lo ius vendendi fu notevolmente ridimensionato all’interno della cittadinanza romana e della lega latina, tanto che in capo al filius fu aumentata l’autonomia patrimoniale e si videro via via sfumare la possibilità della vendita ultra Tiberim e all’estero. Infatti, il figlio era un uomo libero che, per ciò stesso, non poteva essere valutato e quindi venduto, se non con la menzogna.21 Di pari passo si muoveva la situazione della donna in manus, che d’altronde subiva lo stesso ius vitae et necis proprio del filius (in alcuni casi, come l’adulterio o la consumazione di vino, la morte era comminata, ma sempre con la consultazione dei consiglieri domestici). Inoltre, in caso di danno a scapito di terzi, il pater familias aveva il diritto di dare in compenso del sinistro, la persona stessa del filius o della donna (cd. ius noxae dandi, o noxae deditio). 20 Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 79. 21 È forse questo l’aspetto che più ha caratterizzato questo istituto così come vissuto nel popolo romano a differenza che tra gli altri popoli: il fatto che il filius, per il suo stato giuridico di libero (e soprattutto per questo essenzialmente diverso dagli schiavi), non poteva essere venduto, dal momento che il cittadino romano non può vendersi. Cfr. BONFANTI, Diritto romano, vol. I, 80. 19

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Con l’andare del tempo e con l’influenza della cultura ellenica e dello spirito cristiano, la patria potestas andò via via sempre più scemando nei suoi caratteri più incisivi, fino a che non scomparì pure la noxae deditio. Nel diritto giustinianeo, la patria potestà non fu più esercitata come una giurisdizione piena sui figli, quanto piuttosto come un potere domestico che poteva emendare o castigare i giovani: si profilava, cioè, la cd. medicina correctionis, che peraltro si rivolgeva solamente ad un ambito privato: per i delitti più turpi, ci si sarebbe rivolti al giudice in foro civile.22 Perciò ci si comincia a spostare dall’ambito familiare all’ambito civile pubblico. Esporre i figli era vietato e punito. Venderli era considerato un crimen e perciò vietato e punito. La libertà si dichiarava inalienabile e imprescrittibile. In Giustiniano, il figlio poteva rivendicare la propria libertà da solo, o farsi riscattare da un terzo, se non lo faceva già il padre.23 I neonati esposti non potevano essere venduti come schiavi, né potevano in verità essere esposti o uccisi, a pena di severe sanzioni. Per quanto riguarda poi il matrimonio, il pater familias non teneva più alcuna autorità circa la possibilità di assentire o rifiutare ad essi, né tanto meno poteva rompere il matrimonio della filia familias con la sua semplice volontà.24 Nel diritto giustinianeo rimanevano, comunque, diverse categorie storiche: così è, ad es., del figlio che non poteva querelare il pater per ingiuria, ma avrebbe potuto querelare il padre naturale; il figlio, inoltre, rimaneva esente Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 83-84; ARANGIO-RUIZ, Istituzioni, 478. 23 Cfr. A RANGIO -R UIZ , Istituzioni, 476. Cfr. anche R ONGA , Istituzioni, 117: “… mediante una dichiarazione fatta dal padre annuente il figlio, dinanzi al magistrato che ne prende atto”. 24 Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 86. 22

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per certi aspetti dalla responsabilità per aver obbedito ai comandi del pater, qualora questi fossero anche stati infamanti; il pater poteva nominare un tutore ed anche un erede al filius familias impubere. Infine, dall’iniziale incapacità del filius ad assumere obbligazioni e ad obbligare il pater familias, si vengono a sostituire diverse eccezioni, tra cui la titolarità completa del peculium, patrimonio ora distinto da quello paterno.25 1.1.2. La dominica potestas La potestà che si esercitava sugli schiavi era una forma della stessa potestà26 di cui erano investiti i pater familias nei riguardi dei filii e che, per alterne vicende, venne a prendere una connotazione familiare-patrimoniale27 che, 25 VOLTERRA, Corso di istituzioni, 89. Vigeva infatti il principio “filius nihil suum habere potest”, D. 41, 1, 10, 1. Fino al periodo classico compreso, fu il pater familias a detenere il patrimonio familiare in via assoluta, per quanto potesse non amministrarlo direttamente; ARANGIO-RUIZ-GUARINO-PUGLIESE, Il diritto romano, 200; BIONDI, Istituzioni, 569-570; BETTI, Istituzioni, 57, sottolinea che una certa capacità patrimoniale fu riconosciuta dal diritto classico solo ai filii familias, ossia ai “liberi in potestate di sesso maschile”. 26 “In potestate itaque sunt servi dominorum. Quae quidem potestas iuris gentium est: nam apud omnes pereaque gentes animadvertere possumus dominis in servos vitae necisque potestatem esse, et quodcumque per servum adquiritur, id domino adquiritur”, GAIO, Institutiones, 1, 52. Questa potestà, però, non era definita patria bensì dominica, pur essendo diversa dal dominium, in quanto di carattere personale. Allo schiavo inoltre era riconosciuto il possesso di fatto di un peculium, una quantità di beni guadagnati con il lavoro proprio; cfr. BETTI, Istituzioni, 61-62. Osserva comunque il BIONDI, Istituzioni, 115, che “non è lo stato effettivo di servizio, il trovarsi cioè effettivamente sotto la proprietà di alcuno che denota lo schiavo, ma la sua destinazione permanente a servire”. 27 Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 140. Lo schiavo, in quanto oggetto di mera proprietà, era completamente soggetto al padrone cui “erano concesse tutte le facoltà che il dominio conferisce, non

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se nel filius poteva avere un certo carattere di temporalità, nel servus riveste invece un carattere di perpetuità, che può solo eventualmente (per volontà del dominus tramite manumissio) cessare.28 La costituzione di Costantino del 312, che riforma – in seguito all’arrivo in massa del cristianesimo – il diritto sugli schiavi, informa sulla situazione degli stessi in epoca imperiale: Ciascun padrone usi con moderazione del suo diritto; sia egli considerato omicida, se uccide volontariamente il suo schiavo a colpi di bastone o di pietra; se gli arreca con un dardo una ferita mortale; se lo sospende ad un laccio; se per un ordine crudele lo mette a morte; se lo avvelena; se gli fa straziare il corpo dalle unghie di belve feroci; se gli solca le membra con carboni accesi, ...29

Il servus era soggetto al pater familias, come il filius familias, e di questo condivideva la stessa potestas o manus cui era sottoposto in qualità di proprietà della famiglia, ma da questo si differenziava notevolmente, tant’è che il filius era chiamato liberus. Lo schiavo era tutelato dalle norme del fas e dai mores,30 ma non era membro né della società statale (diritto pubblico), né della società familiare (diritto privato), cui tuttavia era tenuto a prestare i servigi. esclusa quella di distruggere la cosa”, RONGA, Istituzioni, 46. Tra l’altro, non era necessario avere un padrone per essere schiavi, almeno fino in epoca giustinianea, cfr. BIONDI, Istituzioni, 115. Così pure VOLTERRA, Corso di istituzioni, 59. 28 Cfr. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni, 480. 29 MERCANTI, Compendio di diritto canonico, l. 3, 464. 30 Peraltro, fas e mores maiorum tutelavano e limitavano la libertà del pater pure verso la moglie, i figli e, via via riducendosi sempre più, verso i clienti ed infine gli schiavi. Cfr. KASER, La famiglia romana arcaica, 58.

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Uno statuto giuridico dello schiavo si può ricavare in via negativa: egli non aveva diritto né di commercium né di connubium (il matrimonio, o meglio, l’unione cui gli schiavi potevano usufruire, era chiamata contubernium); era pertanto ‘oggetto’ di diritti, mai soggetto: tutto ciò che fosse stato posto in capo a lui, sarebbe automaticamente passato nella sfera dei diritti del padrone, anche l’eventuale danno, offesa, lesione.31 Egli non aveva né capo né persona giuridica: «servus iuris civilis communionem non habet in totum».32 Era investito dello ius vitae et necis, della noxae deditio, proprio come il filius. Lo schiavo poteva migliorare la condizione economicopatrimoniale del padrone, mai peggiorarla; avrebbe potuto ricevere in donazione, in eredità, ma solo con lo iussus del padrone.33 Egli non aveva perciò capacità patrimoniale e, se fosse stato un libero che subiva la capitis deminutio maxima, il suo patrimonio sarebbe andato in capo a chi lo avesse acquistato come schiavo.34 Come il filius familias, egli non ha alcuna autonomia testamentaria né proprietaria; cfr. D. 28, 1, 6; D. 39, 5, 7; RONGA, Istituzioni, 46. BETTI, Istituzioni, 61, afferma che in quanto cosa egli non aveva capacità patrimoniale né attiva né passiva, ma in quanto “centro di volontà e a natura e dignità umana, egli è persona (caput) non certo nel senso tecnico giuridico […] ma in senso naturale”. Inoltre, dello schiavo in quanto persona naturale era tutelato l’onore, in quanto il padrone poteva esercitare l’actio iniuriarum servi nomine; così BIONDI, Istituzioni, 116. Tuttavia allo schiavo come al filius familias era riconosciuta capacità di agire per quei negozi che non presupponeva capacità patrimoniale; cfr. BETTI, Istituzioni, 63. 32 BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 141. 33 “Cum autem quaeritur, quantum in peculio sit, ante deducitur, quod patri dominove quique in eius potestate sit a filio servove debetur, et quod super est, hoc solum peculium esse intellegitur”, in GAIO Institutiones, 4, 73. Ma, fa notare il VOLTERRA, Corso di istituzioni, 63, sempre a vantaggio del dominus. 34 Cfr. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni, 483. 31

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Questa particolare posizione dello schiavo rende il suo stato giuridico ambiguo: in parte, infatti, è considerato persona (anche se alieno iuri subiectae), in parte è considerato res. Tuttavia, in questa posizione bivalente si è potuta riscontrare l’evoluzione di questo istituto giuridico verso una rivalutazione dello status e della dignità della figura dello schiavo stesso.35 Infatti, lo schiavo veniva veramente trattato come un uomo intelligente, soprattutto quando fosse stato una persona colta, che poteva far fruttare in capo al dominus (la vera persona capace di diritti e di doveri) molti guadagni. Alcune differenze con la condizione del filius familias sono da notare. Innanzitutto, il servus è sottomesso alla potestas del dominus egualmente al filius, ma a questo non possono venire in capo beni materiali; inoltre, quella potestà non è esercitata in quanto impero domestico, quanto piuttosto come possibilità materialistica di usufruire di ciò che è proprio. Oltre a ciò, lo schiavo subisce i cosiddetti iura in re: può non solo essere venduto – come il filius – ma pure dato in pegno, in usufrutto, in opera.36 35 Ma si tenga a questo riguardo presente che il termine persona, nel periodo pre-ellenico, non era sinonimo di soggetto avente una propria sfera di diritti, quanto piuttosto sinonimo di essere umano (persona era la maschera che usavano gli attori in teatro), di essere intelligente. Per questo possiamo affermare che esso veniva considerato res in senso giuridico, non fisico. Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 143. Le maggiori limitazioni alla potestà del dominus sullo schiavo furono portate dall’influsso dello stoicismo sostenuto dalla religione cristiana, quando oramai il numero degli schiavi presenti nell’impero portava ad un degrado morale verso gli stessi; cfr. BIONDI, Istituzioni, 117. 36 In campo religioso, lo schiavo godeva di molti diritti, in quanto prendeva parte al culto domestico e al culto pubblico e poteva compiere sacrifici. Il suo giuramento era valido, come pure il voto che fosse stato emesso con l’autorità del padrone. Poteva perfino prendere parte a corporazioni religiose e diventarne capo. In campo amministrativo egli poteva tessere rapporti di fatto, dare ed avere, che non ricadevano però nell’ambito giuridico; BETTI, Istituzioni, 62.

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Comunque, nell’età arcaica, la condizione del servo era migliore e più dignitosa rispetto a quella in cui si venne a trovare con la successiva espansione di Roma. Se prima la schiavitù era come una servitù, ora lo schiavo veniva raramente visto in faccia dal padrone.37 La pena di morte per lo schiavo venne comminata sempre più sovente e solo con Giustiniano si tornò ad uno stato onorevole e dignitoso per il servus. Infine, possiamo notare che lo schiavo non era abile per stare in giudizio, ma tutto veniva imputato in capo al padrone. Solo in età post classica esso potrà apparire in giudizio per la cosiddetta liberalis causa, anche se a questo riguardo le fonti non sono unanimi.38

1.2. Il Decretum Gratiani Il Decretum Gratiani viene alla luce nel 1140 ca., per opera del monaco Graziano che operava presso l’allora nascente università di Bologna, e si sviluppa e modifica sino alla morte del monaco, nel 1152 ca. Nei suoi canoni, che raccolgono tutta la scienza canonistica di allora, possiamo riscontrare la primitiva dottrina sulla potestà dominativa (che tuttavia non viene mai chiamata in questo modo) dei Superiori religiosi; nella fattispecie, sui monaci e l’abate, in particolare di monasteri sui iuris. Questa, infatti, fu per tutto l’Alto Medioevo l’unica forma di vita religiosa gerarchicamente organizzata. Le abbazie usufruivano spesso dell’istituto della esenzione, cioè di una autonomia che permetteva loro di restare al di fuori dell’ambito di giurisdizione del vescovo nel cui ter-

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Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 147. Cfr. BONFANTE, Diritto romano, vol. I, 155-156.

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ritorio si trovavano. Altre volte, i monasteri non erano esenti ed in tal caso poteva succedere che il vescovo esercitasse parte del suo potere sul monastero ed i suoi monaci.39 Il Decretum afferma che la potestà dell’abate «illam esse generalem et exerceri vice Dei», come pure Pelagio II scriveva «potestas totam ad abbatem pertinere convenit».40 L’abate tiene i monaci in qualità di vicario di Dio ed il monaco deve perciò sempre rimanere sotto la diretta autorità e potestà sua.41 E, più oltre, «il monaco milita sotto il comando dell’abate per Cristo re».42 Naturalmente, questa potestà presuppone l’esclusione di ogni tipo di potestà ed autorità da parte dei sudditi sull’abate. Le fonti precedenti al Decretum, alle quali Graziano attinge e di cui arricchisce la sua opera, parlano della condizione del monaco come servus Dei, come colui che sta «sub iugo regulae monasticae servitutis»,43 come uno La potestà dell’abate non veniva chiamata dominativa, in nessun caso, ma in altri modi. Gelasio I (492-496) ed il concilio di Tarragona (516) al c. 11, la chiamano imperium. Il concilio Agathense (506) al c. 27, si limita ad affermare che il monaco dipende dalla volontà dell’abate e dalla sua potestà; il concilio di Altheim (916), al c. 36, pone l’arbitrio del monaco come sottomesso a quello del proprio abate. 40 Tuttavia in un contesto in cui “non licet monachis abbates pro suo arbitrio expellere, aut alios ordinare”, C. 9, Nullam, C. XVIII, q. 2. 41 Cfr. DESDOUITS, Potestà dominativa, in DIP, vol. VII, col. 144. 42 “Si quis monachus fuerit, qui venerabilis vitae merito, sacerdotio dignus videatur, et abbas, sub cuius imperio regi Christo militat, illum fieri presbyterum petierit, ab episcopo debet eligi, et in loco, quo iudicaverit, ordinari, omnia quae ad sacerdotis officium pertinent, vel populi, vel episcopi electione, provide ac iuste acturus”, C. 28, Si quis monachus, C. XVI, q. 1. 43 “Statutum est, et rationabiliter secundum sanctos patres a Synodo confirmatum, ut monachus, quem canonica electio a iugo regulae monasticae professionis absolvit, et sacra ordinatio de monacho episcopum facit”, Concilio presso Altheim, al c. 36. Cfr. C. 1, Statutum, C. XVIII, q. 1. 39

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cui piaccia “subire” per amore di Dio.44 Ne consegue che esso è detto morto al mondo e, seguendo il senso di questa stessa affermazione, il diritto dello stesso all’eredità o alla dote viene meno. In ogni dove, nel Decretum Gratiani, emerge la speciale dipendenza dei monaci dall’abate, dalla sua autorità, dalla sua potestà.45 Questa dipendenza è tale da escludere anche il potere del vescovo all’interno del monastero – nè con cose, nè con persone – se non gli sia stato espressamente richiesto dall’abate. Questa dipendenza del monaco dall’abate è totale e si estende alla persona tutta. «Ex quo semel se Abbati subiecit, absque eius permissione monachus nihil agere potest»,46 scrive lo stesso Graziano. Tuttavia, il monaco – diceva Gregorio I – non può essere obbligato ad una vita troppo dura se non la accetta spontaneamente.47 Facendo uso di questi scarni princìpi, Graziano applica il diritto potestativo degli abati sui monaci loro sudditi in vari casi, risolvendoli o chiarificandoli. Inoltre afferma che al monaco non è concesso di accedere agli uffici clericali, se non per espressa volontà e autorizzazione del suo stesso abate. Ciò è espresso a più riprese nel Decretum, che cita più volte la lettera apocrifa di Gelasio I, il concilio Agathense al c. 27, il concilio Ilerdense al c. 3.48

Dal Concilio romano (595). Cfr. C. 23, Multos, D. 54. “Monachus nihil omnino facere potest independenter ab Abbate cui obedientiam debet praestare” possiamo dire sia il principio generale che regge i rapporti nel monastero. Così il KINDT, De potestate dominativa, 8. 46 C. XVII, q. 3, Dictum Gratiani. 47 Cfr. DESDOUITS, Potestà dominativa, in DIP, vol. VII, col. 145. 48 C. 5, Quam sit, C. XVIII, q. 2. Gelasio I scrisse per questo motivo a tutti i vescovi, che “nullus monachum sine testimonio et concessione Abbatis in ecclesia aliqua teneat, vel aliquem ad honorem promoveat”. 44

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A riguardo poi della celebrazione ministeriale, il Decretum afferma che ci deve essere il comando dell’abate perchè i monaci possano amministrare e celebrare i sacramenti.49 Circa la possibilità di essere testimoni in processo, essi sono pure considerati inabili; in foro giuridico non possono operare. Tuttavia, alla potestà dell’abate sono pure aggiunte alcune limitazioni da parte del Decretum. Egli, infatti, non può imporre ai monaci una vita più severa, più rigida di quella che già hanno abbracciato. Il monaco non è mai chiamato servo, quanto piuttosto filius o più spesso frater, ad indicare lo speciale legame spirituale che stringe i convenuti al banchetto eucaristico. Egli è pure liberato dalla sottomissione all’abate nel caso in cui venga nominato vescovo.50 Ma ciò che più segnerà il pensiero dei glossatori e commentatori del tempo, sarà la C. 11, Non dicatis, C. XII, q. 1, che Graziano scriverà rifacendosi ad Agostino: Non dicatis aliquid proprium, sed sint vobis omnia communia. Quicumque autem in tam progressus fuerit malum, ut occulte ab aliquo litteras, vel quodlibet munus accipiat, si hoc ultro confitetur, parcatur illi et oretur pro illo. Si aut depreheditur, atque; cunvincitur, secundum arbitrium presbyteri, vel praepositi gravius emendetur. Cum huius nostrae congregationis fratres non solum facultatibus sed voluntatibus propriis in ipsa ordinationis susceptione renunciaverunt, et se per promissam obedientiam penitus aliorum potestati, et imperiis in Christo et pro Christo subdiderint; certum est eos nihil habere, possidere, dare vel accipere debere sine superioris licentia [...].

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C. 35, Monachi, C. XVI, q. 1. Cfr. KINDT G., De potestate dominativa, 9-10.

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1.3. La dottrina della potestà dominativa negli autori medievali Per delineare la potestà dominativa dei Superiori, così come veniva intesa nel Medioevo, sarà di notevole utilità valutare la condizione giuridica dei monaci. Di questa si evince indirettamente dai ragionamenti e dagli argomenti degli stessi autori citati per risolvere vari casi riguardanti la vita giuridica dei monaci.51 I principi enunciati da questi stessi autori possono essere così sommariamente esposti: – al monaco, dopo la propria professione, non è dato di volere né di non volere ed è sotto il potere dell’Abate. Egli viene così comparato alle proprietà del monastero, le quali non possono essere alienate. Infatti, egli figura come civilmente morto;52 – la condizione del monaco viene assimilata alla stessa del servo e, in alcune specie, del filius familias. Tale parificazione viene espressa molte volte dagli autori medievali, dal momento che il monaco, come un servo, non ha volontà propria, perché sottostà al comando dell’abate e si è spogliato delle cose del mondo. Va tenuto presente che già molte regole monastiche prescrivevano la rinuncia ai propri beni (o a favore dei parenti o a favore del monastero stesso) da parte del candidato prima dell’entrata in monastero, al fine di favorirne il distacco dalle cose terrene.53 Così troviamo che nel riCfr. KINDT G., De potestate dominativa, 28. Così si esprime infatti Graziano nel Decretum, in C. 8, Placuit, C. XVI, q. 1: “… Sedeat itaque solitarius et taceat: quia mundo mortuus est, Deo autem vivit...”. Vd. ZAGANO E., Teoria della morte civile del monaco, in VitRel 2(1966), 425. 53 ZAGANO, Teoria, 425. D’altro canto, dalla professione in poi il monaco non avrebbe più potuto tenere qualcosa per sé, beni a nome proprio, per poter essere liberi di impegnarsi a favore di Dio e del prossimo: tutto sarebbe stato dato al monastero di appartenenza. 51

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solvere vari casi dei monaci, si ricorreva all’applicazione del diritto romano sul servo. Sarà con Pietro di Anchara54 (1330-1416 ca.) che si inizierà a citare la fonte civilista, nel suo caso, Bartolo da Sassoferrato (†1357; è da notarsi tuttavia che lo stesso Ancharano è sulla scia di Baldo degli Ubaldi, suo maestro in campo canonico). Quest’ultimo giurista, esponente della scuola brocardica, faceva ampio uso di sentenze riguardo ai servi in diritto romano: è a questa che l’Ancharano si rifà per descrivere i monaci. Tuttavia è da notare come la soggezione monacale si avvicinasse più a quella dei figli che alla servile, giacché il servo poteva essere venduto, il monaco in nessun caso.55 Per questo possiamo equiparare il monaco al servo e al filius familias, anche se si deve notare con Pietro di Anchara che equiparare il monaco al servo non è cosa buona in tutto.56 Lo stesso autore insegna che quanto detto sopra risulta valido in quanto possa tornare di utilità al monastero. Accade sovente che l’applicazione della legislazione romana circa i servi possa trovare corrispondenza sulla legi-

PIETRO DI ANCHARA, c. 16, Cum deputati, X, II, 1, n. 5. È lo stesso Pietro di Anchara, infatti, ad affermare che il principio del “nec velle nec nolle” ha dei limiti oggettivi inprorogabili: tali sarebbero l’elevazione del monaco a Romano Pontefice, per cui la soggezione all’abate cesserebbe (da notarsi che la necessità di una licenza dell’abate permarrebbe anche per essere consacrati vescovi) ed in secondo luogo, gli interessi e l’utilità del monastero. PIETRO DI ANCHARA, c. 6, Cum concessa, in Clem., I, 3, nn. 1-2, citato alla nota 20 nell’articolo di ZAGANO E., Un famoso assioma monastico, in VitRel 2(1966), 227-236. Cfr. anche KINDT G., De potestate dominativa, 29. 56 PIETRO DI ANCHARA, c. 2, Religiosus, De testamenti set ultimis voluntatibus, III, 11, in VI°. Lo stesso autore scrive che si può andare contro la volontà dell’abate «propter interesse loci, quia forte ex tali revocatione enormiter lederetur locus et administratio. Quia pro se non habet velle vel nolle, sed pro utilitate monasterii bene habet contra abbatem etiam», in c. 32, Cum singola, in VI, III, 4, n. 4. 54 55

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slazione circa i filii familias, anche se negli atti giuridici il monaco viene generalmente nominato come servus. Analizziamo ora alcuni principi particolari57 circa lo stato giuridico del monaco, così come espressi nel commentario al c. 5 di Giovanni di Andrea, Ad nostram, X, De confirmatione utili vel inutili, II, 30, v° personaliter. 1.3.1. Monachus non habet velle vel nolle È un principio che Huguccio così spiega: Sed numquid monachus non habet voluntatem? Habet quidem sed non liberam. Idem est et de servo qui dicitur non habere voluntatem non quia non habet, sed quia non habet liberam. Sed numquid servus non habet voluntatem. Habet quidem sed non liberam, ut C. XXXII q. III. Patrem (c. l.). Similiter et monachus habet voluntatem sed non liberam quia imposuit hominem vice Dei super caput suum, ut XIX q. 3. statuimus (c. 3). Unde non potest velle cum effectu contra praeceptum sui Abbatis ut XX q. 4, monacho, monachum (cc. 2 et 3), sed in his quae non sunt contra Deum. 58

Lo stesso principio viene ripreso da più autori, a cominciare da Sinibaldo Fieschi e da Enrico da Susa, quando si tratta di parlare circa quei monaci che abbiano rinunciato al primo monastero, cominciando a condurre vita di girovaghi, chiedendosi come possa rinunciare a qualcosa chi Per massima parte desunti da KINDT, De potestate dominativa, 30 ss. HUGUCCIO, Summa super Decreto, ad c. 11, Non dicatis, C. XII, q. 1; lo stesso principio viene enunciato al c. 5, Quam sit, C. XVIII, q. 2 et ad c. 3, Statuimus, C. XX, q. 3. Viene qui espressa l’analogia tra servo e monaco, in quanto entrambi non hanno l’uso della propria volontà, ma hanno rimesso tutto se stessi nella volontà del loro abate. Sulla stessa scia pure la Glossa Palatina, commentando c. 11, Non dicatis, C. XII, q. 1, la quale a sua volta riprende D. 50, 17, 4: «velle non creditur, qui obsequitur imperio patris vel domini». 57

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non ha volere in sé. Anzi, chi non ha né volere né non volere.59 Nello stesso verso, egli afferma che i monaci devono confessarsi dal proprio abate, in quanto hanno rimesso completamente la loro volontà ad esso, che è divenuto per loro ‘vicarium Dei’. Tale completa soggezione è direttamente conseguente al voto di obbedienza professato nelle mani dell’abate stesso, tanto da arrivare a dover chiedere licenza presso l’abate per poter essere consacrati vescovi in caso di elezione.60 Da questi autori viene più volte affermato come il monaco abbia rinunziato alla propria volontà, quasi da potersi dire che il monaco non ha più neppure il libero arbitrio. Tuttavia, è proprio Baldo degli Ubaldi a smentire l’assolutezza dell’assioma, affermando che, come l’abate non può impedire al monaco di rifiutare l’eredità perché ciò è parte integrale dei diritti della persona, così esso non può impedire al monaco di rifiutare di alienare la propria stessa persona, il proprio stesso corpo. I limiti del principio, perciò, sono individuabili nei diritti inerenti la stessa natura umana.61 1.3.2. Monachi sunt in potestate; monachum possidet monasterium Si tratta qui di capire il significato dell’espressione «tota potestas pertinet ad Abbatem», così come è espressa nella Glossa ordinaria, al c. 9, «Si qua mulier», C. XX, q. 3, v° non exstantibus. Ora, ciò si spiega perchè i monaci non hanno il potere sopra l’abate stesso. Così infatti Huguccio, così pure Guillaume Durant che esprimono la necessità che il monaco sia sottomesso poiché non tiene in sé volontà alcuna.62 Cfr. HOSTIENSIS, Summa aurea, De poenitentiis et remissionibus, n. 22. Cfr. ZAGANO, Un famoso assioma monastico, 230. 61 Cfr. ZAGANO, Un famoso assioma monastico, 233. 62 Cfr. GULIELMUS DURANTIS, Speculum iuris, lib. I, part. I, De iudice delegato, § 8, Excipi, n. 4. 59

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Il monaco era pure ritenuto come un ‘possedimento’ del monastero al quale apparteneva: persona quam possidet monasterium. Il Decretum Gratiani afferma che il monaco non può allontanarsi dal monastero senza il consenso «patris et totius congregationis», argomentando che, come per l’alienazione delle proprietà e delle cose degli ecclesiastici occorre il consenso dei chierici stessi, così pure per l’alienazione delle persone.63 1.3.3. Monachus mortuus fingitur Il monaco si considera come morto.64 E questa morte viene assimilata alla morte naturale, così almeno da Sinibaldo Fieschi, da Enrico da Susa e da Giovanni di Andrea, a riguardo delle materie riguardanti l’eredità. Interessante è notare l’argomento utilizzato da Tommaso d’Aquino, così come ci è riportato da Nicolao di Ausmo: Postquam iam aliquis est in Religione professus: mortuus est mundo. Unde per spiritualem mortem deobligatur a cura impendenda parentibus: sicut deobligaretur per mortem corporalem. Et ideo non peccat nec contra praeceptum Dei agit: si in claustro remaneat sub praecepto Praelati parentum ministratione praetermissa. Etenim factus est impotens ad reddendum debitum ministerium absque propria culpa.65 Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 33. Glossa ordinaria, ad c. Si qua mulier, C. XIX, q. 3, v° non exstantibus; ad c. 8, Placuit, C. XVI, q. 1, v° mortuus: “Placuit communi nostro consilio ut nullus monachorum pro lucro terreno de monastero exire nefandissimo abusu praesumat, neque pecuniam dare, neque aliis quibuscumque negotiis sese applicare [...]. Sedeat itaque solitarius et taceat: quia mundo mortuus est, Deo autem vivit...”. 65 NICOLAUS DE AUSMO, Supplementum Summae Pisanae, v° religiosus. Afferma PIETRO DA ANCHARA, c. 8, Cum concessa, in Clem., I, 3, nn. 1-2: “[…] naturalis consensus proveniens a natura non potest dici sublatus. Sicut dicitur quod habetur pro morto, non tamen quoad comendendum”. 63

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Per questo motivo il monaco non può neppure essere qualificato come arbitro, come giudice, come testimone, essendo appunto come un morto. Da questa prospettiva di morte quasi assoluta si discosta l’Arcidiacono (rifacendosi alla trattazione sul matrimonio tenuta da Goffredo), che introduce la distinzione tra morte civile e morte naturale, così come in uno che sia stato sciolto dal vincolo matrimoniale non avviene una morte naturale, bensì civile. Di qui la relatività dell’espressione di morte civile o di morte spirituale, che poteva essere applicata ai vari casi nell’uno o nell’altro significato: infatti, così come riportata da Graziano, essa voleva indicare una morte spirituale che doveva rendere il monaco sempre più distaccato da affari temporali. È con Bartolomeo da Brescia († 1235) che questo principio spirituale diviene civilistico: egli afferma che il monaco è morto al secolo e non può uscire dal monastero, né può provare di essere stato derubato, perché tanto meno può provare di possedere qualcosa.66 Tuttavia, tale assioma trovò difficoltà notevoli tra i canonisti, i quali affermarono che il monaco non può certo acquistare o possedere beni per sé, ma senza dubbio può acquistarli per il monastero. A questo riguardo, lo stesso Sinibaldo Fieschi ebbe a scrivere che nel subentrare in successione ereditaria, al monaco non è neppure richiesto di presentarsi, perché il diritto alla successione passa direttamente al monastero.67 Questa teoria della morte civile del monaco fu poi portata alle estreme conseguenze con il sorgere degli Ordini 66 Cfr. BARTOLOMEO DA BRESCIA, Quaestio domenicalis 123, f. 18v, col. 2: “monachus vel canonicus regularis in saeculo mortuus est, nec potest de monasterio exire: non enim sufficit provare spoliationem nisi probetur possessio”. 67 Cfr. ZAGANO, Teoria, 428-429.

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mendicanti, che non possedevano beni né singolarmente né in comune. Di qui il passo fu breve per equiparare la professione religiosa ad una morte naturale: Cino da Pistoia arrivò con un’elucubrazione mentale a dimostrare tale assimilazione, soprattutto per quanto riguardava gli Ordini mendicanti.68 Ben presto, queste estremizzazioni arrivarono a posizioni assurde (legalizzate da diversi statuti comunali) che furono riequilibrate a fatica e solo in minima parte da alcuni civilisti.69 1.3.4. Monachus est servus; monachus est filiusfamilias; monachus est filius Abbatis Come asserito dal Kindt, il monaco, anche se per amore di Dio, è un vero e proprio servo.70 Questo, d’altronde, è il logico risultato dei principi sopra enunciati. CINO DA PISTOIA, ad auth. Deo nobis, C. de episc. et cler., nn. 12: “inter alia notanda collige unum, scilicet quod ingreditur monasterium reputatur mortuus. Et sic colligitur quod mors civilis aequipollet naturali, vel sufficit quod civiliter accidit. E contra, sufficit civiliter fieri, ut par. In insulam. Ista est via brocardi quam Petrus de Bellapertica expedit in duobus verbis sic dicendo, cum quaeritur an id quod civiliter contingit aequipolleat naturali casui: aut post civilem casum potest naturaliter evenire aliquid, aut non. Primo casu, non sufficit civiliter fieri, ut in par. In insulam (D. 45, 1, 121, 2): ibi enim potest evenire mors naturalis, unde ipsa expectatur. Aut non potest post civilem casum aliquid naturaliter evenire, et tunc non expectatur naturalis casus, ut est videre in matrimonio dissoluto per casum civilem, ubi postea non potest naturalis casus evenire qui aliquid operetur: nam quod solutum est amplius solvi non potest. Dynus de Mugello solvit sic: aut civilis casus operatur eumdem effectum quem operatur naturalis, et tunc aequipollet [...]; aut non operatur eumdem effectum, et tunc non aequipollet [...]. Haec solutio est eadem in effectu cum prima”. 69 Lo stesso Giustiniano, in C. 1, 3, 35; C. 1, 3, 54; Nov. 5, c. 5; Nov. 123, c. 38 disponeva la piena capacità del monaco a succedere nei beni testamentari e ad acquistarne a nome del monastero. 70 Cfr. KINDT, De potestate, 35. 68

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Il servo non possiede volontà propria, non ha nulla di suo, proprio come il monaco. Nel Decretum Gratiani, la vita religiosa è definita più spesso come servitù che come servizio all’uomo (così in c. 23, Multos, D. 54). Ma questo semplice enunciato non è solamente una affermazione di tipo spirituale, teologico; essa comincia da una vera e propria concezione giuridica dello stato del monaco, che porta necessariamente con sé molte conseguenze pratiche di vita. Secondo il Kindt, sarebbe proprio da questo principio che nacque il concetto di potestas dominativa.71 Tuttavia tale enunciato non può essere disgiunto dall’altrettanto importante prospettiva di origine romana del monaco come filiusfamilias. Non sono rari infatti i casi in cui la legislazione romana circa il figlio di familia viene applicata al monaco.72 Uno di questi è il caso del monaco che accusi l’abate. In questa circostanza l’Arcidiacono ammoniva il giudice a prestare attenzione e cautela, perchè non si trovasse ad accusarlo per frivolezze, come accadeva spesso all’epoca dei romani tra padri e figli. In alcuni passi il monaco viene pure chiamato filius Abbatis, che perciò stesso è chiamato pater. È naturale che i monaci vengano dunque definiti fratres. Nella Glossa ordinaria si porta l’esempio di un monaco che viene fatto vescovo e che viene quindi sciolto dal vincolo di obbedienza all’abate, come se fosse diventato egli stesso da figlio a padre.73 Il Decretum Gratiani74 definisce l’abate come il patrem monasterii – che, solo, può dare il consenso perchè i monaci possano spostarsi in un altro monastero – e monaci come fratres. Enrico da Susa parla di una monachali fraternitate e il Nicolao da Ausmo afferCfr. KINDT, De potestate, 35 ss. Cfr. KINDT, De potestate, 46-47. 73 Cfr. Glossa ordinaria, ad c. 1, Statutum, C. XVIII, q. 1, v° absolvit. 74 Cfr. Decretum Gratiani, ad c. 3, Statuimus, C. XIX, q. 3. 71 72

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ma che «monachos communicare posse Abbati excommunicato quia quasi de familia sunt».75

1.4. La prospettiva del Suàrez Il Suàrez espone il suo pensiero parlando della potestà dominativa come di un dono che il religioso fa di se stesso nelle mani del Superiore con l’ingresso stesso in Religione. Egli così si esprime: Ex traditione quae fit ex parte religiosi, sequitur dicta potestas in Religione a qua in Superiore transfertur.76 Potestas dominativa manat ab ipsomet religioso voluntarie se tradente.77

Nella stessa opera, egli parla di potestà dominativa proveniente non dal dono di sé fatto dallo stesso religioso, bensì dalla stessa professione religiosa, pur mantenendo fondamentalmente il suo pensiero rivolto all’offerta totale e volontaria del religioso.78 Per Suàrez, tale potestà sarebbe stretta tra religioso e superiore quasi come un contratto; essa darebbe ai superiori stessi il diritto di comandare ai sudditi e di promuovere la loro attività in modo conforme alla regola del proprio Istituto.79 NICOLAUS DE AUSMO, Supplementum Summae Pisanae, v° excommunicatio, VI°. 76 SUÀREZ F., Opus de virtute et statu religionis, in Opera omnia. Editio nova iuxta editionem venetianam recognita a D. M. André, Pariis 18561878, vol. XVI, tr. VIII, l. II, c. I, n. 2, 78. 77 SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. X, c. XI, n. 7, 926. 78 RAGAZZINI S., La potestà nella Chiesa, Bologna 1963, 255. 79 “[...] religiosum non teneri obedire Praelato contra regulam praecipienti, nisi in eo casu, in quo ipse potest in regula dispensare. At vero potestas dominativa manat ab ipsomet religioso voluntarie se tra75

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Sembra, peraltro, che il Suàrez sia stato il primo ad elaborare il concetto, il termine potestas dominativa, in una sua diatriba contro il Vasquez, il quale affermava che il potere giurisdizionale è molto ampio, ed arriva la potestà dominativa – nel caso dei Superiori religiosi – ad essere esercitata in forza della professione da questi emessa.80 Il Vasquez identificava potestà di governo con potestà di giurisdizione, ponendo tutti i gradi della potestà di governo all’interno di quest’ultima. Ciò comportò il rifiuto di Suàrez, il quale affermava che esiste una potestà dominativa, in campo religioso, che si deve per forza di cose distinguere nettamente da quella di giurisdizione, soprattutto di giurisdizione in senso stretto.81 Fu a partire da questa distinzione apportata dal Suàrez che nella manualistica e nella dottrina canonistica si cominciò ad usare il termine potestas dominativa e a distinguere tra potestà di giurisdizione e potestà di governo.82 dente, et promittente obedientiam, et ideo dependentia et subordinatio Praelatorum, quoad hanc potestatem, ex modo traditionis et promissionis sumenda est...”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. X, c. XI, n. 7, 926. Vd. anche DESDOUITS M., Potestà dominativa, in DIP, vol. VII, 145. 80 RAGAZZINI S., La potestà nella Chiesa, 245. 81 “In statu religioso necessaria est Praelato potestas gubernativa monasterii et suo modo dominativa singolorum religiosorum, distincta a potestate iurisdictionis et ab ea separabilis. Haec assertio videtur clara ex omnibus supradictis de traditione quam professio religiosa includit, quamque omnes admittunt; quia per illam traditionem aliquod ius transfertur in religionem; ergo illud ius distinctum est a iurisdictione quam Christus dedit vel eius vicarii conferre possunt. [...]. Ergo illud ius est quaedam potestas gubernativa religiosi distincta a propria iurisdictione”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, C. XVIII, n. 6, 218. 82 Tuttavia, la determinazione dell’ambito di applicazione di tale potestà, unitamente all’uso del termine stesso, non furono condivisi all’unanimità dai giuristi successivi. Per alcuni di essi, infatti, vi sarebbe una terza ulteriore classificazione da fare circa la potestà: la distin-

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Il Suàrez affermava che la potestà dominativa è quella stessa che autorizza, per diritto acquisito, i Superiori degli Istituti religiosi a comandare ai sudditi e a far loro fare ciò che ritengano più opportuno; tuttavia, questa non discenderebbe da Cristo, nè dal potere dato alla Chiesa e da questa trasmesso alle Religioni, ma sorgerebbe per la radicale volontà del religioso di professare tale regola e per il dono che di sé egli fa, promettendo di obbedire a tale regola secondo il voto di obbedienza che ha professato.83 Dunque, la potestà dominativa non nasce nel voto di obbedienza, giacché questo è una promessa: il dominium che il Superiore acquisisce non può essere in forza di un giuramento. Essa trae invece origine dal dono di sé che il religioso fa: per Suàrez, fondamento della potestà dominativa è la consegna di sé del religioso, che include pure la professione religiosa, ma è comunque distinto dal voto di obbedienza. Occorre qui fare un breve excursus su quella che è la dottrina del Suàrez circa lo stato religioso. Egli trova a fondamento della vita religiosa una duplice donazione: una fatta a Dio attraverso l’emissione dei voti, l’altra fatta all’Istituto religioso. La potestà dominativa riguarda quella fatta all’Istituto religioso.

zione tra potestà dominativa e potestà di voto o sociale. Questa ulteriore classificazione fu portata avanti e discussa fino al CIC 17 ed arrivò a farsi sentire alle soglie del Concilio Vaticano II. 83 “Per potestatem autem dominativam intelligi oportet ius acquisitum religioni et Praelatis eius, ad imperandum religiosis, et utendum operibus eorum prout conveniens iudicaverint. Quae potestas, si in religione reperitur, non pertinet ad claves, nec a Christo descendit per specialem donationem Ecclesiae factam, sed orta est radicaliter a voluntate profitentium talem regulam, et se donantium religioni cum promissione et obligatione obediendi secundum illam”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, cap. XVIII, n. 5, 218.

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Questa offerta di sé non si realizza nella professione del voto di obbedienza, in primo luogo perchè lo stesso voto di obbedienza esclude una donazione oblativa; in secondo luogo perché la solennità del voto di obbedienza non include questa offerta di sé.84 Perciò Suàrez distingueva decisamente la potestà dominativa da un legame con il voto di obbedienza. Natura di questa offerta di sé, per il Suàrez, è un contratto sinallagmatico che obbliga, come precetto, la coscienza del religioso. Vediamo ora la posizione dell’autore più da vicino. 1.4.1. Lo stato giuridico del religioso Lo stato religioso, proprio di chi vuole giungere alla perfezione evangelica seguendo la via dei consigli evangelici, può essere costituito in due modi: venendo a far parte giuridicamente di una comunità religiosa oppure da solo, abbracciando un particolare stile di vita.85 La trattazione del Suàrez segue, per natura delle cose, la prima forma di vita religiosa, comunitaria (o anche cenobitica), dal momento che la costituzione della Chiesa per lungo tempo non aveva previsto altre forme di vita di ‘perfezione’. Di questa forma di consacrazione, possiamo distinguere due modi di donarsi a Dio: uno che si offre a Dio direttamente, l’altro che si offre alla comunità attraverso Dio.86 KINDT G., De potestate dominativa, 135. “... unus modus est in communitate religiosa, alius est in vita solitaria, seu in particolari vivendi modo”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, lib. II, cap. IV, 1, 127. 86 “... per vota religiosa ita homo traditur Deo, ut speciali modo dominium sui in Deum transferat; id autem non fit nisi quando talia vota nomine Dei per Ecclesiam acceptantur”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, lib. II, cap. IV, 5, 128. “... ad proprium vinculum religiosi status, quando in communitate religiosa assumitur, praeter tria vota supradicta, immediate Deo facta, quibus religiosus ipsi obligatur, necces84

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1. Nella tradizione della Chiesa, attraverso i voti religiosi, l’uomo si dona a Dio riponendo in lui ogni sua sete di potere: il religioso è colui che si consacra «totalmente al totale» servizio di Dio. E questa consacrazione totale dell’uomo non può avvenire in nessun altro modo se non attraverso l’accettazione da parte di Dio del religioso attraverso la Chiesa.87 Questa donazione che il religioso fa, è una vera e propria donatio in cui il donante trasferisce al ricevente il dominium su di sé ed in cui è necessario il consenso di entrambe le parti perché il contratto si perfezioni. L’offerente, inoltre, rimane obbligato ad osservare e a mantenere quanto promesso. 2. Nella seconda accezione dell’offerta di sé nella consacrazione, si analizza lo stato religioso così come viene assunto nella comunità religiosa. La donazione del religioso che entra in una comunità è una obbligazione peculiare necessaria che si crea attraverso un patto reciproco, perché egli stesso si dona anche all’Istituto religioso e in esso si obbliga e, parimenti, l’Istituto, la comunità, accetta la sua donazione e ne assume gli obblighi e i doveri.88 saria est peculiaris obligatio humana per modum pacti reciproci, quo et ipse religioni se donat, et obligatur religioni; ...”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, lib. II, cap. IV, 9, 130. Cfr. Anche KINDT G., De potestate dominativa, 136. 87 “Traditio non habet valorem nec efficaciam ad trasferendum dominium in alterum, nisi ab eo acceptetur; ergo etiam in praesenti traditione necessaria est acceptatio Dei. [...]. Necessitas acceptationis ex natura rei provenit, quia donatio est quidam contractus qui sine donantis et donatarii consensu non perficitur”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, c. IV, n. 6, 129. 88 “... et religio eius traditionem acceptat, eique vicissim obligatur ad illum tanquam membrum suum alendum, conservandum, et iuxta suum institutum gubernandum”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, c. IV, n. 9, 130.

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Il Suàrez così spiega tale donazione: la Religione è in certo senso il corpo mistico al quale il religioso viene incorporato e del quale, reciprocamente, si assumono gli obblighi ed i diritti. Di conseguenza, l’obbligazione non può essere totalmente umana e proporzionata agli uomini, a meno che qualcuno non obblighi il religioso in nome di Dio, come se quello stesso si obbligasse verso Dio nel rispetto di tale uomo o del corpo mistico; è dunque necessario che, oltre al religioso che si offre, un altro faccia da intermediario nell’accettare, in nome di Dio e di tutto l’Istituto, tale offerta di sé e che, contemporaneamente, accettando tale oblazione, obblighi il religioso nell’Istituto.89 Questi, poi, perché agiscano rettamente come vicarii di Dio, devono accogliere in nome di Dio e della Chiesa la donazione totale di sé a Dio fatta attraverso i voti e, al contempo, per governare in nome di Dio il religioso e averne cura, accogliere la donazione come se fatta a loro stessi. Il religioso viene poi accolto nell’Istituto e come membro di questo viene governato e curato. Ora, risulta chiaro come per Suàrez fondamento della potestas dominativa sia il dono di sé che fa il religioso nelIl Kindt riassume egregiamente la concezione del Suàrez: “Homo qui tendere vult ad perfectionem se tradere debet Deo. Hoc facit per emissionem votorum qua dominium sui Deo tradit. Fit res Dei. Cum haec traditio sit vera donatio acceptari debet a Deo. Absolute loquendo, Deus posset personam religiosi per seipsum acceptare, et in se suscipere curam spiritualem et temporalem simul ac gubernationem religiosi se tradentis. Haec autem non sunt secundum Dei providentiam. Deus enim directe non agit sed per causas secundas. Proinde haec acceptatio donationis religiosi simul ac sequelae exinde defluentes, fiet per personam humanam. Haec autem secundum consuetudinem Ecclesiae, est corpus quoddam morale, scilicet Religio. Proinde, ut efficax sit sua donatio, directe Deo facta, religiosus se tradere debet illi personae morali quae Dei vices gerit”, KINDT, De potestate dominativa, 138-139. 89

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l’atto stesso di entrare nell’Istituto e che promette di osservare secondo la regola di quella stessa Religione. Tuttavia, è da notare che molti prima e dopo di lui sono convinti che fondamento di tale potestà sia il voto di obbedienza. Egli, invece, ribadisce che nel voto di obbedienza non può essere contenuta la donazione di sé che, in vero, è il fondamento della potestà del Superiore. Il voto, invece, sarebbe il meccanismo posto dalla Chiesa per meglio tutelare, maturare e portare a compimento la donazione radicale. Se è fondamento, lo è in senso giuridico; il fondamento ontico e teologico, invece, non può che essere la donatio. 1.4.2. L’essenza del voto non si fonda sull’offerta del religioso Circa questo tema, Suàrez modula la propria dottrina sulle orme del Dottore scolastico. Come quest’ultimo, infatti, afferma che l’essenza del voto non ha in sé inclusa la donazione dell’individuo, anzi, la esclude. Egli afferma che il voto solenne in sé include il voto semplice e che, per questo, si sofferma a trattare solo di quello, tanto che l’essenza stessa del voto può essere vista solo nell’uno e non nell’altro. Il voto è perfezionato solo dalla valida promessa fatta a Dio e non c’è voto semplice che nella sua specifica motivazione essenziale possa includere l’offerta gratuita di sé.90 Questo si può spiegare, come afferma il Kindt, in due modi. In primo luogo, perché vi sono alcune materie nei voti che suppongono, necessitano questa stessa offerta (come può essere, per esempio, il dono di sé che nell’obbeDi contro, c’erano autori che ponevano l’accento sul perfezionamento che – pure nel voto semplice – veniva apportato dalla stessa promessa fatta a Dio e pure dall’offerta fatta di sé a Dio. Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 140. 90

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dienza fa un religioso che venga spostato di convento in convento e che, per questo, suppone di avere qualcosa da offrire); ciò significa che il voto di cui si parla è concesso in previsione di atti futuri e include la promessa che si realizza comunemente attraverso la parola e include una certa offerta di sé e, veramente, della cosa che in futuro si donerà.91 Ciò è tanto più naturale quanto più si capisca che sulla cosa che si sta vivendo o che si possiede nel presente non c’è promessa bensì offerta, donazione. L’uomo ha a disposizione due sole azioni figliali: la promessa e il dono. Con questi stessi modi intende servire Dio e con entrambi può dirsi di rendere a Lui culto nel voto. Il Suàrez si oppone a queste posizioni con varie conclusioni. Innanzitutto afferma che «votum, ut votum est, sola promissione valida ad Deum facta perficitur, neque ullum est votum simplex quod in sua ratione essentiali traditionem includat».92 Già in questa prima asserzione l’autore parla di un’essenza del voto, rifacendosi alla Scolastica, che richiede soltanto la promessa fatta a Dio e la materia e contenuto di tale promessa. Qualsiasi cosa vi si aggiunga, è fuori di questa natura e della specifica ragione del voto. La promessa e la natura del voto non si distinguono tra loro per le materie sulle quali versano, quanto piuttosto per le proprie ragioni o per gli effetti formali in ordine alle quali si realizzano.93

Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 141. SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XIV, tr. VI, l. I, c. XIV, n. 7, 806. 93 “Nam per promissionem puram nihil donatur promissario: per traditionem autem donatur res tradita, in quam acquiritur ius per traditionem, quod non acquiritur per solam promissionem. Haec ergo secundum se distincta sunt, et circa omnes et singulas materias versari possunt”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XIV, tr. VI, l. I, c. XIV, n. 9, 807. Offerta di sé e promessa si dividono tra di loro nonostante la ma91 92

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In secondo luogo, potrebbe pure succedere che alla volontà e all’azione del religioso con voto semplice, venga collegata un’altra traditio, quasi che si dica – circa l’essenza del voto – che avviene la consegna attraverso la volontà e l’azione del religioso, o che la consegna stessa sia la promessa o viceversa.94 Perché ben si capisca la sua dottrina, il nostro autore fa notare che queste due istanze riguardano cose diverse e diversi argomenti: la promessa è ordinata all’offerta di sé, ma non può essere basata su cose già fatte, come lo è invece la donazione. Perciò, solo questo può riunire la promissio e la traditio: la promessa di servire e di porsi al servizio di Dio e degli altri e la consegna della persona.95 teria comune cui fanno riferimento sia il voto. La promessa viene prima dell’offerta ed anche per questo è da essa separabile. Tuttavia entrambe dipendono dalla stessa volontà dell’offerente: infatti, dal momento che la promessa di sé avviene prima ed è separabile dalla donazione che è posteriore, dalla volontà del promettente dipende forse che si faccia la sola promessa o la promessa che si trasformi in offerta. 94 Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 142. Così argomenta il SUÀREZ: “Qui donat alteri arborem, consequenter tradit illi fructus in radice, seu ius ad illos, et nihilominus potest addere promissionem numquam percipiendi fructus ex tali arbore. Item qui alteri donat rem aliquam, tradit illam, et nihilominus potest addere promissionem numquam iterum petendi illam. Sic ergo in rebus divinis potest quis tradere Deo res suas, donando illas Ecclesiae, et votum Deo facere numquam iterum petendi illas, vel aliquem fructum temporalem ex illis, quod votum simplex est coniunctum cum traditione”, Opus de virtute, vol. XIV, tr. VI, l. I, c. XIV, n. 12, 808. 95 SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XIV, tr. VI, l. I, c. XIV, n. 15, 810. Questa unione, questa “congiunzione”, tuttavia, non deve mai portare a confondere le due azioni, che tra loro sono distinte e quasi opposte in quanto a motivi: l’offerta di sé riguarda il presente, la promessa invece il futuro. Invero, ciò che ora prometto non diviene formalmente ed immediatamente offerta. Quindi, non posso affermare che la promessa divenga offerta, né che in questa si possa vedere in sé automaticamente quella. Il voto semplice, in conclusione, non può che di-

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A questo punto, Suàrez si chiede come possano coesistere al contempo voto semplice e offerta, se l’uno significa promessa mentre l’altra formalmente esclude la promessa. È a partire da questa distinzione che egli afferma come l’obbligazione sorta dall’offerta comporti in sé un maggiore legame con la giustizia e che perciò sia più rigorosa; ciò avviene con l’offerta sacra e reale di sé a Dio, piuttosto che attraverso la semplice offerta promessa. Nell’essenza del voto, concludendo, non è compresa la traditio; tuttavia, per l’intenzione di colui che si dona, a volte il voto può avvenire con l’offerta di sé, nonostante promissio e traditio siano atti distinti per motivo e per oggetto: le obbligazioni, che da esse promanano, sono di specie diverse.96 1.4.3. L’offerta del religioso non è parte del voto solenne di obbedienza Fondamento della potestas dominativa è la traditio che però non può essere contemplata – come sopra dimostrato – nel voto semplice di obbedienza. Ciò vale pure per il voto solenne di obbedienza. Il voto, perché sia solenne, deve essere visibile, pubblico. Il voto solenne di obbedienza, che si emette tramite atto pubblico manifesto, presuppone la traditio, ma non è la fonte stessa di tale donazione.97 pendere solamente dalla volontà di colui che lo emette (e con ciò non si vuole escludere la Chiesa-istituzione che può imporre limitazioni, forme e momenti per emetterlo, quanto piuttosto affermare che de facto l’esercizio di tale promessa sta nel consenso e nell’intenzione del professo stesso). 96 KINDT, De potestate dominativa, 144. 97 “[...] Supponimus in professione religiosa, praeter traditionem, verum ac formale votum obedientiae fieri... Votum autem, cum essentialiter sit promisio, non potest esse traditio, nec illam essentialiter includere, licet cum illa fiat, [...]. Et rationes ibi allatae aeque in voto

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Il Suàrez non identifica la traditio con il voto di obbedienza, ma dice che si manifesta attraverso di esso nella professione religiosa. Le due cose vanno quindi distinte, tanto che si può parlare di un peccato che si commetta contro l’obbligazione sorta dall’offerta fatta all’Istituto religioso ed uno contro l’offerta fatta a Dio tramite il voto.98 L’autore, infatti, distingue l’offerta fatta a Dio nel voto dall’offerta fatta all’uomo, anche se le due sono in così stretta relazione da poter sembrare coincidenti. L’una viene dalla negazione della propria volontà, l’altra dalla sottomissione alla volontà del Superiore; per cui la seconda è una forma di sottomissione, peraltro non necessaria.99 L’offerta che il religioso fa di sé al Superiore toglie in lui ogni diritto su di sé, allo stesso modo che nel caso di un servo nel diritto romano. Il voto è donazione fatta direttamente a Dio, la traditio è offerta che il religioso fa direttamente all’Istituto cui egli voglia donare se stesso. È attraverso quest’ultima che l’Isti-

obedientiae procedunt. Nec superflue additur votum obedientiae traditioni religiose, etiamsi ex vi traditionis religiosus iam non sit sui iuris, et illi, cui se tradit, parere teneatur. Nam imprimis traditio facta religioni specialius consecratur Deo per obedientiae votum: nam cum traditio immediate fiat homini propter Deum et ad obsequium Dei, per votum quasi elevatur, ut sit quasi spirituale holocaustum ipsi Deo oblatum. Deinde traditio firmatur per votum: nam addit illi specialem obligationem fidelitatis Deo debitae, quam traditio per se non inducit”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, c. XIII, n. 12, 177. 98 Ciò potrebbe essere visto come quanto mai riduttivo dei voti e dell’offerta di sé. D’altro canto, se ben inquadrato nel proprio contesto (che non sempre distingueva foro interno da foro esterno), risulta per certi versi in linea con i principi vigenti allora. 99 “… duo sunt de ratione obedientiae religiose, scilicet abnegatio propriae voluntatis, et subiecto ad voluntatem superioris. Utrumque autem fit seu exhibetur ex vi traditionis religiosae...”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. X, c. V, n. 2, 888.

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tuto ‘acquista’ sul religioso il potere in ogni diritto e che, parimenti, esso acquista diritti verso l’Istituto (mutuus contractus).100 La relazione esistente tra voto di obbedienza e traditio è quella che si instaura per la perfecta abnegatio evangelica di cui si parla nei vangeli e che rende il religioso un culto vivente a Dio, un holocaustum spirituale. Egli afferma che è l’offerta a rendere presente tale abnegazione di sé, mentre il voto di obbedienza la perfeziona formalmente nella pienezza dello stato religioso.101 1.4.4. La natura della professione religiosa Secondo gli autori medievali, la professione religiosa sarebbe un contratto di incorporazione all’Istituto. Così si esprime in certo senso pure il Suàrez, il quale afferma che «[…] per traditionem a religione acceptatam incorporatur homo religioni, et unum corpus cum ea efficitur [...]»102 per cui si forma una sorta di relazione di identità e una mutua obbligazione. La professione religiosa è «[…] actum illum, quo is, qui vult religiosus fieri, statum illum publice, solemniter ac firmiter assumit [...]»,103 e consiste principalmente di due elementi: la professione dei voti ed il dono di sé. Questa traditio è la sostanza stessa della professione religiosa, come pure gli autori scolastici affermavano. Non sono sufficienti le parole della formula di professione, ma si esige che a “... per traditionem a religione acceptatam incorporatur homo religioni, et unum corpus cum ea efficitur, et inde nascitur quaedam relatio identitatis (ut sic dicam) et mutua obligatio religiosi ad religionem, et e contrario, propter quod dicun communiter auctores, ut in superioribus saepe citatum est, inter religionem et religiosum fieri mutuum contractum; ...”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. X, c. V, n. 5, 890. Cfr. anche KINDT, De potestate dominativa, 149. 101 SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. X, c. V, n. 6, 890. 102 SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. X, c. V, n. 5, 890. 103 SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. VI, c. I, n. 1, 381. 100

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tale promessa corrisponda una donazione reale di sé e di tutti i diritti che sono propri del professo, sia reali che umani. La traditio risulta perciò essere una offerta di sé fatta all’uomo, un patto umano tra uomini attraverso il quale si trasferiscono diritto e dominium a qualcuno: non può esserci una donazione che si faccia direttamente a Dio stesso, come gli autori medievali affermano.104 E questa professione religiosa consiste di una promessa unita e congiunta alla donazione di sé che necessariamente si fa nelle mani del Superiore e senza la quale non ci sarebbe una rinuncia perfetta.105 Perciò, si può a buona ragione dire che ciò che caratterizza l’essenza della professione religiosa è maggiormente la traditio piuttosto che la promissio.106 Possiamo così riassumere quanto fin qui asserito: – l’uomo che voglia diventare religioso, deve emettere i voti a Dio in una comunità religiosa che accetta la sua “... haec traditio, per quam, ut ostendi, vere transfertur aliquod ius et dominium, necesse est ut immediate fiat alicui homini vel religioni”, SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. VI, c. II, n. 14, 391. 105 Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 152; SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. VI, c. II, n. 14, 391. 106 Tuttavia – nota il Suàrez – proprio la natura “religiosa” della professione fa sì che questa non si fermi ad uno stadio meramente umano, ma sia bensì caratterizzata da una aurea di religiosità e di sacralità: ciò è tanto più evidente quanto più si tenga presente che la traditio che si fa di sé al Superiore non è motivata da nessun’altra virtù o voto che non sia la Religione stessa. Cosa questa che denota l’essenziale divinità della destinazione del dono fatto, nonostante poi Dio non possa acquistare questa potestà se non attraverso l’uomo. In altre parole, non è l’uomo che acquista tale dominium in veste di “curatore di Dio”, quanto piuttosto Dio stesso il quale poi lo esercita tramite un suo vicario attraverso il quale passa l’obbligazione e l’effetto del contratto. Ecco anche perché, questa stessa traditio si può ben dire che sia al contempo un patto umano e religioso. Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 153. 104

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offerta in nome di Dio; il religioso, poi, si dona all’Istituto attraverso una donazione umana; – il voto di obbedienza non è caratterizzato da questa donazione che si realizza nel tempo presente, ma, in quanto voto, è connotato dalla promessa, che si riferisce essenzialmente al futuro; – la traditio all’Istituto è quindi un elemento distinto dal voto (attraverso il quale il religioso trasmette il dominium in capo al Superiore). È un patto umano generato nella professione religiosa e che crea un vincolo di giustizia. È un patto religioso stretto tra il religioso e Dio e che crea una obbligazione da osservare in base al voto emesso. 107 1.4.5. La potestà dominativa: fondamento e natura «Per potestatem autem dominativa intelligi oportet ius acquisitum Religioni et Praelatis suis, ad imperandum religiosis, et utendum operibus eorum prout conveniens iudicaverint».108 Così definisce Suàrez la potestà dominativa. Essa riguarda più la potestà precettiva, di ordine generico, che la potestà legislativa, di ordine particolare. Ed, invero, la potestà dominativa fa parte di quel più ampio campo della potestà precettiva che comprende al suo interno pure la potestà economica, la potestà politica, la potestà di giurisdizione.109 La potestà dominativa è diretta alle singole persone o a parti di comunità non perfette: essa ha perciò meno forza coercitiva rispetto alla potestà di giurisdizione, in quanto si esercita all’interno di una casa privata e tra persone private.110 107 108

Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 153-154. SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, c. XVIII, n. 5,

218. Cfr. anche MOLINA L., De iustitia et iure, tract. II, disp. 3. È questo un punto in cui il SUÀREZ si avvicina molto a posizioni posteriori al CIC 17 (come quella del card. Larraona): egli afferma 109

110

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Perciò, essa trova origine proprio nella potestà del padre verso il figlio come era nel diritto romano. Oppure, per quanto riguarda il patto umano, si può assimilare alla potestà che l’uomo esercita sulla donna nei riguardi della casa e della sua persona. È simile alla potestà che, per ius gentium, il vincitore acquista sul vinto come schiavo di guerra. O, ancora, al contratto umano del dominium del servo che si sia venduto.111 Questo potere è di ordine privato e si estende soltanto alle parti non perfette della comunità. Ne consegue che la potestà dominativa incombe su cose o persone che si possiedono ed ‘in quanto’ si possiedono: dalla proprietà acquisita sulla persona del religioso da parte dei Superiori, che si può dire potestas utendi.112 Il religioso è tenuto alla soggezione verso il Superiore, quasi come fosse un figlio o un servo. Ma, se lo stato di soggezione cui è investito il religioso viene posto in relainfatti che “haec potestas quasi dominativa et domestica, ut sic dicam, seu oeconomica, sine alia propria spirituali iurisdictione, quae sit in Abbate, Priori, vel alio simili praelato proprio et immediato religiosi conventus, sufficiens est ad verum statum religiosum constituendum”,[il corsivo è mio], Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, c. XVIII, n. 8, 219. L’autore stesso afferma proseguendo nel suo ragionamento che le stesse abbadesse, che certamente non hanno potestà giurisdizionale, né civile, né temporale, tuttavia hanno potestà sufficiente a costituire un vero Istituto. 111 Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 157-158. 112 Il religioso che si offre alla comunità non lega la sua traditio al voto di obbedienza verso i Superiori o alla promessa che in esso è contenuta, quanto alla sua donatio che, pur distinta dal voto di obbedienza, da esso viene consacrata a Dio. Questa donatio può essere assimilata ad un patto attraverso il quale il religioso diviene proprietà, cosa dell’Istituto e, di conseguenza, il Superiore – che sta a capo dell’Istituto – acquista su di lui, che non è più un soggetto sui iuris, lo ius dominii e lo ius praecipiendi con i limiti impostigli dalla Regola e dalle Costituzioni. Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 159.

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zione con Dio, allora possiamo dire che questa è come ‘schiavitù’, perché tutto è per rendere culto e servizio a Dio, attraverso la sottomissione a colui che di Dio fa le veci.113 E, al contempo, tutto deve essere svolto nella più piena relazione di amore, quasi ci fosse una filiazione adottiva: la sottomissione si perfeziona tanto più questa è ben accetta a Dio, quanto più essa prende la forma di filiazione e non di servitù.114 La sottomissione che viene dalla potestà dominativa e quindi dalla traditio che di sé fa il religioso nella Religione, non può essere servitù, giacché […] ex eo quod servitus mancipii respectu alterius hominis est vilissima conditio, per se loquendo, involuntaria, et in gravissimam poenam introducta, utpote multum repugnans naturali dignitati hominis; subiectio autem religiosa nobilissima est, non elevans, sed extollens potius ac perficiens naturalem hominis dignitatem.115

Inoltre, se nella legislazione del servus, questo poteva essere liberamente venduto o comprato dal suo padrone, il religioso, invece, nella sua sottomissione al Superiore, non incorre mai in questo pericolo; in questo modo anche la potestà cui è sottoposto differisce da quella dello schiavo. Ulteriore divergenza sta nell’impossibilità che trova il servo per passare da un padrone ad un altro (anche se da quest’ultimo sarebbe magari trattato meglio); cosa che in-

113

Cfr. SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. VI, c. II, n. 19,

393. Questa soggezione filiale non si può propriamente dire naturale (poiché è chiaro che tale non è), ma neppure adottiva. SUÀREZ, infatti, propone di chiamarla in un modo nuovo: spirituale. Cfr. Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. VI, c. II, n. 20, 394. 115 SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. VI, c. II, n. 20, 394. 114

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vece il religioso potrà eseguire con (relativa) facilità, se il diritto proprio glielo permetta, qualora veda per lui un maggior beneficio spirituale in un altro Istituto o in soggezione ad un altro Superiore.116 Soprattutto si deve notare come questa stessa sottomissione non è volta – come era per la servitù ‘secolare’ – alla soddisfazione e utilità del signore che domina, ma al bene stesso di coloro verso i quali è esercitata. Perciò, da questo punto di vista, non può nemmeno essere propriamente chiamata schiavitù ma, piuttosto, una possibilità di vivere in condizioni migliori la propria scelta di vita, il proprio status (ciò nonostante il Superiore possa vedere questa stessa potestà come un modo per giovare al bene della Religione, non certo del singolo).117 Da tutto quanto è stato detto, risulta che la soggezione del religioso è maggiormente assimilabile a quella del padre verso il figlio piuttosto che a quella del padrone verso il servo. Ora, dal momento che pure Aristotele (Politicorum, l. 3, c. 4) afferma che esiste una duplice potestà privata: o domestica (dominativa), come quella del padrone verso il servo, o economica, come quella del padre verso il figlio; Suàrez preferisce indubbiamente il sintagma potestà economica per descrivere il rapporto che intercorre tra Superiore e religioso. E più avanti dice che, in forza di questa potestà dominativa e della potestà economica, possiamo dire che il Superiore gode di potestà governativa nei confronti dei sudditi.118 116

Cfr. SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. VI, c. II, n. 21,

394. Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 160-161. Cfr. SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. VI, c. II, n. 25, 395-396, e passim, dove usa indifferentemente potestas dominativa, potestas gubernativa, potestas oeconomica, potestas domestica. 117 118

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Il nostro autore intende la potestà dominativa, che viene chiamata così impropriamente (meglio economica o governativa), come quella potestà che «acquirunt Superiores ex traditione religiosi in professione religiosa peracta ad modum contractus, et qua religiosis imperare possunt et eorum operibus uti, prout conveniens iudicaverit».119 Perciò, questa stessa potestà è normalmente di ordine privato, viene amministrata in comunità non giuridicamente perfette e si può farne risalire gli attributi alla potestà esercitata dal padre nei confronti del figlio piuttosto che a quella esercitata dal padrone verso i servi. 1.4.6. Ambito di applicazione ed estensione Si deve distinguere anzitutto la potestà che sorge dalla consegna o dominativa dalla potestà o titolo che si ingenera in seguito al voto di obbedienza. Infatti, il voto di obbedienza trova espressione nel precetto del Superiore, che per essere valido deve avere un contenuto legittimo emesso da un soggetto abile; di questa possiamo distinguere tre fattispecie: la potestà di giurisdizione partecipata dal Sommo Pontefice al Superiore religioso, la potestà dominativa esercitata in forza della traditio e la potestà sorta dal voto stesso. Se il voto di obbedienza è la promessa fatta a Dio di obbedire al Superiore prestata in maniera assoluta e senza distinzione, comunque in essa cade l’obbligazione dello stesso voto.120 L’autore afferma che la traditio fatta all’uomo è la materia della promessa rivolta a Dio, cioè il voto di obbedienza. Ma riguardo al voto di obbedienza è difficile trovare una natura nel trattato dell’autore. KINDT, De potestate dominativa, 162-163. È da notare che qui il Suàrez fa confusione tra le tre fattispecie di potestà, soprattutto quando le analizza dal punto di vista della materia. Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 163. 119 120

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Ciò premesso, vediamo brevemente quale sia per Suàrez l’oggetto della potestà dominativa. Per potestatem… dominativam intelligi oportet ius acquisitum Religioni et Praelatis, ad imperandum religiosi, et utendum operibus eorum prout conveniens iudicaverit.[...]. Usus autem illius iuris est gubernatio personae religiosi, seu applicatio illius ad haec vel illa opera, cum efficacia moraliter requisita ad bonum Religionis et religiosi.121

In forza della loro potestà, i Superiori potrebbero direttamente toccare i voti dei religiosi. Tuttavia, questa loro potestà è limitata alle ‘cose oneste’, cioè finalizzata al bene della comunità e non al male del singolo cui viene comandato. Che, però, se dovesse essere in dubbio circa l’onestà dell’azione che gli fu imposta, deve obbedirvi comunque. Limitazione ulteriore alla potestà dei Superiori risiede nella Regola. Infatti, se la potestà dominativa «orta est radicaliter a voluntate profitentium talem Regulam, et se donantium Religioni cum promissione et obligatione obediendi secundum illam»,122 il religioso non può certamente eseguire qualcosa che ecceda o che non sia contemplato nell’oggetto dello stesso voto di obbedienza, cioè nella Regola che ha professato. Il religioso è tenuto ad obbedire al Superiore tanto quanto quello che gli viene prescritto sia in armonia con la Regola che ha abbracciato: questo principio esclude tutto ciò che stia fuori di questa o che sia ad essa superiore.123

SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, c. XVIII, n. 5, 218. SUÀREZ, Opus de virtute, vol. XV, tr. VII, l. II, c. XVIII, n. 5, 218. 123 Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 165.

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1.5. L’origine secondo le varie dottrine La potestà in genere viene così definita da s. Tommaso: Naturale est homini ut sit animal sociale et politicus in multitudine vivens, magis etiam quam alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat. [...] Unde homini opus est in societate vivere; et idem ostendit ex loquela, ex necessitate sese communicandi. Si ergo naturale est homini quod in societate vivat, necesse in hominibus esse per quod multitudo regatur.[...] In uno homine anima regit corpus, atque inter animae partes irascibilis et concupiscibilis ratione reguntur. Itemque inter membra corporis unum est principale quod omnia movet, cor aut caput. Oportet igitur esse in omni multitudine aliquod regitivum,124

dicendo in tal modo che ogni tipo di potestà è di diritto naturale. Lo stesso Tommaso afferma che nella Chiesa non vi è solo una potestà sacramentale affidata a chi amministra i cinque sacramenti legati esclusivamente agli ordinati in sacris, ma vi è pure una potestà non sacramentale; essa ex simplici iniunctione hominis confertur,125 la quale non immobiliter adhaeret, e che perciò non può essere sacramentale, nel qual caso sarebbe indelebile. Per questa potestà non sacramentale, che chiamiamo potestas iurisdictionis, «non è logicamente pensabile una distinzione tra la sua essenza ed il suo esercizio, proprio perché la sua essenza consiste nel suo esercizio».126 Essa è il potere non sacramentale di goTOMMASO D’AQUINO, De regimine Principum, l. I, c. I. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II II, q. 39, a. 3. 126 DE BERTOLIS O., Origine ed esercizio della potestà ecclesiastica di governo in San Tommaso, Roma 2005, 147. Cfr. anche GHIRLANDA G., Hierarchica communio. Significato della formula nella Lumen gentium, Roma 1980, 312. 124

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vernare la Chiesa dato anche ai laici con la missio canonica: vi può quindi essere soggetto che non abbia potestà di ordine, ma solo di giurisdizione. Quindi ci può pure essere (e storicamente ciò è avvenuto moltissime volte) un laico o un religioso laico che eserciti potestà di giurisdizione per il tempo in cui è investito di tale ufficio. D’altro canto sono noti i casi in cui anche il Romano Pontefice esercitava il proprio ministero petrino, non essendo stato ancora ordinato vescovo (e in alcuni casi essendo ‘solo’ laico). Ecco perché Duplex est spiritualis potestas: una quidem sacramentalis; alia iurisdictionalis. Sacramentalis quidem potestas est quae per aliquam consecrationem confertur. Omnes autem consecrationes Ecclesiae sunt immobiles, manente re quae consecratur. [...]. Et ideo talis potestas secundum suam essentiam remanet in homine qui per consacrationem eam est adeptus quamdiu vivit, sive in schisma sive in haeresim labatur [...]. Potestas autem iurisdictionalis est quae ex simplici iniunctione hominis confertur. Et talis potestas non immobiliter adhaeret. Unde in schismatis et haereticis non manet.127

Se due erano considerate dall’Aquinate le potestà nella Chiesa, al fine di una chiara trattazione del tema della potestas dominativa in specie, risulterà utile verificare quale sia stata la concezione del fondamento di tale potestà, dove cioè – secondo la posizione delle dottrine prevalenti – questa traesse la propria origine. Dopo la promulgazione del CIC 17, ci si accorse dei problemi sorti per l’intendimento del c. 501 §1: con il tempo, infatti, tale potestà divenne un concetto che serviva ad indicare quell’alia publica ecclesiastica potestas che 127

TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II II, q. 39, a. 3.

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spettava ai Superiori e Moderatori delle Religioni o Ordini di voti semplici e di Istituti secolari. Questa, pur essendo una potestà, non poteva in alcun modo essere ricompresa nella potestà di giurisdizione strettamente giuridica, anche se di essa manteneva il carattere pubblico. Infatti, non è la sola potestà di giurisdizione a venir esercitata mediante provvedimenti (perciò definita come un potere pubblico), ma si deve distinguere da altri poteri di comandare che non sono esercitati da organi della Chiesa, né a nome della Chiesa: tali sono quelli che i canonisti chiamano potestà dominativa, domestica, etc. Di questi, è bene rilevare che la nota distinzione tra potestà di giurisdizione e potestà dominativa è sostanziale, dato che questa non è una potestà pubblica; e che quindi la cosiddetta potestà dominativa pubblica è, nonostante il can. 501 §1, una vera e propria potestà di giurisdizione, sia pure non estesa come quella potestà di giurisdizione che viene chiamata vescovile o quasi vescovile: la differenza non è di natura, ma soltanto di quantità.128

Ed inoltre dobbiamo notare come il motivo per cui quasi nessun canonista riesce a far rientrare questa potestà dominativa pubblica nel concetto di potestà di giurisdizione è puramente storico: ciò avviene infatti perchè, fino al Codice, le Religioni non esenti venivano considerate fuori dell’organizzazione gerarchica della chiesa, non essendo riconosciuto ad esse carattere pubblico.129

128 CIPROTTI P., Sulle potestà della chiesa, in Archivio di Diritto Ecclesiastico 3(1941), 54. 129 Ivi, p. 54, nota a piè di pagina.

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Possiamo fin d’ora arguire che in base al modo di erezione, essa si distingue in pubblica, semipubblica e privata. Tuttavia, sia ben chiaro che riguardo al suo fine e contenuto, essa rimane pur sempre pubblica, perché volta al perseguimento del bene della collettività e al bonum commune ecclesiae proprio degli istituti ecclesiastici. Per questi stessi motivi, la potestà dominativa spetta non solo a coloro che sono insigniti dell’ordine sacro, ma a tutti coloro che sono chiamati a reggere l’Istituto, l’associazione, la comunità, sia uomini che donne, sia chierici che laici.130 Circa poi il fondamento di questa stessa potestà, le correnti sono le più svariate. Secondo alcuni, la potestas dominativa trarrebbe origine dalla professione religiosa e, perciò, sarebbe analoga a quella di un paterfamilias nella propria casa; di conseguenza, deriverebbe dalla sottomissione del soggetto ai diritti e doveri abbracciati con la professione e presenti nella regola.131 Per altri, tale potestà nascerebbe dal voto di obbedienza, che si esplica nella professione religiosa e tramite la quale si viene a far parte della Religione. Fondamento ne è lo stesso carattere sociale dell’Istituto.132 Kindt afferma che la potestà dominativa è una potestà ecclesiastica d’ordine privato, che la chiesa, in ragione della donazione personale dei religiosi, attuata nel voto di obbedienza, conferisce ai superiori religiosi legittimi verso la persona dei loro sudditi, in conformità alle norme delle costituzioni e del diritto comune e che ob-

Cfr. COLELLA P., Potestà dominativa, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXIV, 816. 131 Sarebbe questa la posizione di Bargillat, Crnica, Fanfani, … 132 Di questo avviso molti autori medievali e Vermeersch. 130

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bliga per virtù di religione e talvolta di obbedienza speciale; il voto di obbedienza ci sembra essere il fondamento della potestà dominativa e della sua obbligazione. Si può quindi chiamare a buon diritto questa potestà potestas ex voto obedientiae.133

Infine, il card. Larraona affermava che la potestà dominativa non è se non una autorità vera e propria, non di origine privata, nata dalla volontà degli individui, ma oggettiva, autonoma: essa trarrebbe origine dalla volontà dell’autorità della Chiesa che ha dato origine agli Istituti (in quanto la Religione non è una società puramente amicale, ma trova un carattere peculiare nella propria giuridicità, cioè nell’agire in conformità e con l’approvazione della Chiesa). Ne consegue che il voto di obbedienza non è l’immediato responsabile di questo tipo di potestà, anche se certamente la rende più cogente. La potestà dominativa ha estensione maggiore del voto, in quanto agisce pure nelle società senza voti e può obbligare anche gruppi di persone.134 Infatti, il voto è emesso dal singolo e ad esso è rivolto; la potestà riguarda e il singolo e la comunità, nonché i beni di cui essa dispone. Vediamo ora queste posizioni più dettagliatamente. 1.5.1. La traditio Secondo alcuni autori, come in parte anche il Suàrez di cui già abbiamo esposto la dottrina ed i Salmanticensi, la potestas dominativa affonderebbe le sue radici nella offerta di sé che il religioso fa, nel momento di entrare nell’Istituto, nelle mani del Superiore. Presupposto di questa posizione è che le società, gli Istituti, siano di origine volontaria; ne consegue che pure la 133 134

KINDT, De potestate dominativa, 322. Cfr. DESDOUITS, Potestà dominativa, in DIP, vol. VII, col. 146.

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potestà di cui sono investiti trae origine dalla volontà di coloro che di essi vogliano far parte. È, in altre parole, la volontà dell’offerente che determina la potestà di colui che lo accoglie. Tuttavia, se di questo si trattasse, dovremmo altresì affermare che con il battesimo, tramite cui il cristiano entra a far parte della Chiesa e ad essa si sottomette, si dà a questa stessa la potestà cui il soggetto sarà sottomesso. Ciò risulta essere quanto mai erroneo: innanzitutto, perché la Chiesa è investita di un potere che preesiste al cristiano battezzato che in essa venga accolto; in secondo luogo, perché se la sua potestà dipendesse dalla volontà dei singoli, ciascuno potrebbe ‘dettare legge’ in essa.135 Parimenti si dica poi per quanto riguarda gli Istituti e la loro potestà. 1.5.2. La professione religiosa Vedono nella professione religiosa l’origine della potestà dominativa autori quali Wernz,136 Cocchi,137 Creusen,138 nonché Fanfani,139 Sipos,140 Laurentius.141 Per questi autori, la potestà presa in esame sarebbe analoga a quella di un padre di famiglia nella propria casa e deriverebbe dagli obblighi cui si è sottomesso il religioso, avendone in cambio diritti e favori. Tuttavia, si può far notare che la donazione che il religioso fa di sé nelle mani del Superiore e la professione, soCfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 263. Cfr. WERNZ F.X., Ius decretalium, III, n. 683, 762 e passim. 137 Cfr. COCCHI G., Commentarium in Codicem Iuris Canonici, Torino 1922, II, tit. X, c. I, 48. 138 Cfr. CREUSEN F., Religieux et Religieuses d’après le droit ecclésiastique, Parigi 1950, I, c. III, a. I, §1, n. 39, 1. 139 Cfr. FANFANI L., De iure religiosorum ad normam Codicis Iuris Canonici, Torino 1925, n. 51, 64. 140 Cfr. SIPOS S., Enchyridion Iuris Canonici, Roma 1954, 334. 141 Cfr. LAURENTIUS J., Institutiones Iuris Ecclesiastici, Friburgo 1903, 63. 135

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no praticamente la stessa cosa. Anche se ciò può non essere da un punto di vista meramente teorico, dal punto di vista pratico essi vengono a coincidere con il momento e atto stesso in cui il religioso emette la professione dei voti nelle mani del legittimo Superiore. Ciò è rilevato pure dal Gil, che afferma che tale distinzione risulta essere inadeguata, quasi una ripetizione.142 1.5.3. Il voto di obbedienza Affermano che il voto di obbedienza è l’origine di tale potestà, autori quali Balmès,143 Raus144 e altri. Con questi, anche il Vermeesch vede in questo voto il fondamento prossimo di questa potestà (fondamento remoto, invece, ne sarebbe la professione religiosa). Tuttavia, dobbiamo rilevare come con il voto di obbedienza si promette a Dio di obbedire ai legittimi Superiori che già sono Superiori, che già godono, cioè, di legittima potestà. Quindi, come i Superiori non vengono costituiti dal voto di obbedienza dei sudditi, così neppure la potestà, della quale sono insigniti, può trarre origine da tale voto.145

Però, può trarre aggancio con il voto del singolo in maniera tale che, se questi non emettesse il voto, la potestà del Superiore non lo toccherebbe. Ciò, d’altro canto, appare evidente se si tiene presente che vi sono società che non emettono voti ma che sono investite comunque di potestà verso i sudditi. Cfr. GIL N., De potestate dominativa, Roma 1932, 37. Cfr. BALMÈS H., Les Religieux à voeux simples d’après le Code, Paray-le-Monial 1921, c. V, 57. 144 Cfr. RAUS J. B., De virtute obedientiae, Parigi 1923, vol. I, 70. 145 RAGAZZINI S., Le potestà nella Chiesa, 264. 142 143

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È pur sempre vero che il voto di obbedienza contribuisce in qualche maniera a creare un certo tipo di potestà negli Istituti, non tanto nel senso che ne generi di nuovi tipi o ne faccia sorgere di maggiori (secondo alcuni, il voto di obbedienza è diretto a Dio, perciò non genera alcun tipo di potestà; secondo altri, da questo voto sorgerebbe la potestas voti, una nuova potestà diversa dalle altre), quanto piuttosto, perché rende maggiormente vincolante ciò cui si è già tenuti ad obbedire.146 Ci si potrebbe a questo punto chiedere donde tragga effettivamente origine la potestà dominativa da quanto emerso nel CIC 17, se ciò che normalmente veniva considerato come fondante risulta ora essere meramente marginale. Esclusi, dunque, questi tre tipi di fonte (che alcuni avevano considerato in coppia, o con altre cause efficienti), possiamo affermare che l’origine della potestas dominativa è uguale sia per gli Istituti di diritto pontificio sia per quelli di diritto diocesano e consiste nell’autorità ecclesiastica, sia essa il Romano Pontefice o il Vescovo. Potestas dominativa quae in Religionibus existit originem suam ducit ab auctoritate ecclesiastica, a Romano Pontifice nempe vel ab Episcopo; non vero a voluntate sociorum se tradentium Religioni, nec a voto obedientiae.147

In definitiva, dunque, la potestà dominativa nelle Religioni viene dal diritto, posto in essere dall’autorità competente che è la stessa che ha eretto la comunità religiosa.

146 147

Cfr. RAGAZZINI S., Le potestà nella Chiesa, 265. GIL N., De potestate dominativa, 59.

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1.6. Potestà pubblica e privata «Ubi societas ibi ius; ubi societas ibi auctoritas, ibi potestas»:148 origine di ogni potestà sta nel vivere in società. Ora, ci possono essere vari tipi di società (cfr. 2.2) e quindi di autorità e di potestà. Se da un lato, infatti, la maggior parte degli autori prima – ed alcuni anche successivamente – al CIC 17 ritenevano che la potestà dominativa fosse di ordine meramente privato; dall’altro notiamo una progressiva presa di coscienza che non vi può essere autorità e potestà nelle Religioni che non debba essere di carattere pubblico, in tutto o in parte. Così il Suàrez e la maggior parte degli autori dopo di lui, facendo derivare la potestà esercitata dal Superiore religioso direttamente dalla traditio del religioso stesso, coerentemente affermava il carattere privato di questa potestà, assimilabile a quella del padre sul figlio, del padrone sullo schiavo.149 Affermano il carattere privato della potestà dominativa anche autori quali Vermeersch,150 Pejska151 e Raus.152 Si discosta da questa posizione privatistica il Larraona, che inizialmente afferma che questa potestà «non potest dici supremo gradu et formaliter publica». In seguito sostiene che ‘praticamente’ essa è da considerarsi come potestà pubblica formalmente, anche in senso proprio, ed è

FUERTES J.B., De potestate dominativa in Religionibus non exemptis, in CpR 32(1953), 204. 149 Cfr. GIL, De potestate dominativa, 71. 150 Cfr. VERMEERSCH A.-CREUSEN F., E pitome Juris Canonici, Roma 1930, vol. I, 355. 151 Cfr. PEJSKA J., Ius Canonicum Religiosorum, Friburgo 1927, l. III, tit. IV, c. III, 229. 152 Cfr. RAUS J.B., De Sacrae Obedientiae virtute et voto, Parigi 1923, p. I, c. III, 65. 148

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perciò da assimilarsi alla potestà di giurisdizione in quanto è la stessa con cui si regge una società giuridica che venga costituita allo stato pubblico nella Chiesa.153 La posizione del Larraona ed il suo apporto allo sviluppo della distinzione tra stato pubblico e privato delle società giuridiche nella Chiesa,154 fu di notevole aiuto all’avanzamento degli studi e dell’approfondimento del concetto di potestà negli Istituti religiosi e soprattutto secolari, tanto da portare alla completa riforma, nel CIC 83, di tale classificazione. Usualmente si chiamava pubblica la sola potestà giurisdizionale, contrapposta perciò alla potestà dominativa che era universalmente riconosciuta come privata. Tuttavia, in seguito alla promulgazione del CIC 17, ci si accorse che tale carattere pubblico può dipendere da fattori diversi, non solo di carattere sostanziale, ma pure funzionale ed effettivo (cioè per gli effetti pubblici che conseguono all’esercizio di tale potestà). Fu da questa constatazione che prese il via la denominazione di potestà dominativa pubblica, da taluni chiamata ‘semipubblica’.155 Essa, tuttavia, non sarebbe pubblica in contrapposizione a quella giurisdizionale, quanto piuttosto una potestà privata con effetti giurisdizionali. Per poter procedere con chiarezza, sviluppiamo brevemente il concetto di potestà dominativa semipubblica che si venne a creare tra il CIC 17 ed il CIC 83. Con la dichiarazione della Commissione per l’Interpretazione del Codice del 25 marzo 1952, si affermò il sostanziale carattere pubblico della potestà dei Superiori religio-

Cfr. LARRAONA A., Commentum ad c. 501, CpR 7(1926), 31. Cfr. LARRAONA A., De potestate dominativa publica in Jure Canonico, in Acta Congressus Juridici Internationalis, IV, Roma 1937. 155 Così CABREROS DE ANTA, La potestad dominativa y su ejercicio, 68. 153

154

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si nelle religioni clericali non esenti ed anche in quelle non clericali.156 In questo modo si applicarono a questo tipo di potestà, gli stessi canoni riguardanti la potestà giurisdizionale nel CIC 17, e si riconosce che tra quelle e la potestà giurisdizionale esiste una particolare analogia, in ragione della sua funzione sociale e del suo esercizio. È in effetti evidente che lo stato delle Religioni come quello delle Società equiparate è uno stato e organismo pubblico, dentro la Chiesa, sebbene la sua pubblicità non sia uguale a quella che compete per istituzione divina alla Chiesa stessa; è uno stato riconosciuto e organizzato, nella sua struttura interna ed esterna, dal Diritto canonico.157

In tal caso, proprio per il principio che tale è la potestà del Superiore religioso quale è il tipo di società su cui esercita la stessa, appare logico come la potestà dominativa non possa che avere carattere pubblico. Allo stesso tempo, per Cabreros de Anta,158 la stessa potestà di cui godono le Religioni nel CIC 17 deve venire attribuita anche agli Istituti secolari, proprio per gli stessi effetti pubblici che vengono a creare gli atti di potestà interna ed esterna di questi Istituti. Tale potestà dominativa pubblica non sarebbe invece da attribuire alle associazioni di fedeli, in quanto non viene riconosciuta formalmente la loro organizzazione interna ed esterna attraverso la potestà giurisdizionale, né godono di una forma di organizzazione gerarchica stabile. 156 La fase di sviluppo dal CIC 17 al CIC 83 sarà trattata più diffusamente nel terzo capitolo. 157 CABREROS DE ANTA, La potestad dominativa y su ejercicio, 71 [nostra traduzione]. 158 Cfr. CABREROS DE ANTA, La potestad dominativa y su ejercicio, 72.

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1.6.1. Uno sguardo storico Se si guarda al diritto antico, fin dal primo nascere di forme di vita consacrata, mai si ebbe a confrontarsi con Istituti di carattere universale, dal punto di vista territoriale. Con il passare del tempo, tuttavia, si vennero a formare Istituti pluridiocesani o universali, caratterizzati da una struttura ben definita internamente ed esternamente, di chiaro ordine pubblico, sia in relazione al ministero svolto sia in ragione delle relazioni che intessevano con la società. Così troviamo che questi stessi rivendicarono l’esenzione dalla potestà dell’Ordinario (cfr. 1.7.), ma non la ottennero se non per singoli casi, per eccezioni.159 Tale situazione mutò con l’apparire di Istituti di carattere veramente universale, cui fu attribuita ben presto e «non quidem sine litibus» la potestas regiminis autonoma, ma solo per quelli clericali (e perciò maschili) o laicali maschili. La situazione delle congregazioni religiose non esenti maschili formatesi sul finire del Medioevo fu destinata a prolungarsi nel tempo, giacché non furono riconosciute come Religioni, nonostante le notevoli somiglianze, ma non si volle neppure porle in una posizione nuova, creando un nuovo stato di vita. Per questo furono ritenute congregazioni secolari, il che, se le rendeva scevre del peso delle legislazioni decretali proprie delle Religioni, le lasciava tuttavia in balìa di un diritto non consono al loro stato di perfezione evangelica.160 Sorse perciò una polemica notevole da parte degli Istituti femminili che, per quanto universali e con un governo centralizzato, non ottennero né esenzioni né un di-

159 160

Cfr. LARRAONA, De potestate dominativa publica, 154-155. Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 273.

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ritto più adatto nel periodo che va dal pontificato di Urbano VIII a quello di Benedetto XIV. A tale regime, allora, si doveva riconoscere carattere pubblico.161 È solo nella seconda metà del XIX sec. che si comincia a distinguere, tuttavia, la capacità di autoregolamentarsi rispetto alla potestà dell’Ordinario del luogo. Questa evoluzione fu il frutto soprattutto della Rivoluzione francese, che fece perdere vigore a diverse proibizioni, lasciando che emergessero, invece, posizioni più benevole nei loro confronti. Si giunse così ad una approvazione parziale dapprima delle costituzioni, ma non dell’Istituto; poi, ad una approvazione in toto sia delle costituzioni che dell’Istituto, arrivando a elevarle a Congregazioni di diritto pontificio e ad equipararle alle Religioni.162 Questi principi furono ripresi nella cost. Conditae a Christo, dell’8 dicembre 1900, in cui si stabiliscono criteri certi circa la potestà dei Superiori e quella dei Vescovi, che furono in parte codificati nel CIC 17, in parte innovati e si inquadra nel diritto pontificio tale genere di Congregazioni:163 – riconosce come vere Religioni, le Congregazioni di diritto diocesano e applica loro il diritto comune tranne in qualche eccezione; – riconosce come Religioni le Congregazioni di diritto pontificio applicando loro il diritto comune dei religiosi,

“[…] Necessaria pariter apparebat publica potestas, iurisdictionis potestati satis affinis; talis gradus ex necessitate rei haec potestas publica esse debebat ut quasi episcopalis censeri fere valeret, eo quod ad domos in diversis dioecesibus et regionibus constitutas independenter ab Episcopis regendas ordinaretur”, LARRAONA, De potestate dominativa publica, 155. 162 Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 273-274. 163 Cfr. LARRAONA, De potestate dominativa publica, 156-157. 161

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sia che siano di voti solenni che di voti semplici ordinati ai solenni o ancora che derivano dalla solennità giuridica dei voti; – riconosce potestà dominativa ad ogni Religione e la definisce per diverse categorie di Religioni come pienamente sufficiente al governo universale proprio di ciascuna Congregazione, quando prima della promulgazione del Codice piano-benedettino solo i regolari potevano essere definiti religiosi in senso canonico e, ancor più limitatamente, solo gli Ordini e Congregazioni esenti erano riconosciuti come società universali, che potevano agire con una potestà quasi episcopale e, in virtù dell’esenzione stessa derivata dalla Santa Sede, indipendentemente dall’Ordinario del luogo. Per quanto attiene le Religioni clericali, anche non esenti, queste possono essere equiparate alle diocesi in quanto alla incardinazione ed escardinazione dei chierici stessi, onde evitare l’esistenza di chierici acefali o girovaghi, come espresso già nel can. 111 §1 CIC 17: «Quemlibet clericum oportet esse vel alicui dioecesi vel alicui religioni adscriptum, ita ut clerici vagi nullatenus admittantur». Dunque, i religiosi, anche di voti semplici, vengono ascritti alla Religione in luogo della diocesi, e ad essa devono rimanere ascritti, in caso di escardinazione, fintantoché non trovino un vescovo disposto ad accoglierli. Così pure il chierico secolare che entri in Religione non è tenuto ad obbedire al suo Ordinario fino alla professione perpetua (quando il vincolo di obbedienza all’Ordinario sarà rotto definitivamente dal voto di obbedienza emesso nelle mani del Superiore religioso), bensì al proprio Superiore.164 Dal CIC 17 si evince, perciò, che “societatem iuridicam quae ex pontificia erectione et approbatione, statui sensu stricto publico et cardinali profitendo tota ordinatur; quae in suo regimine proprio, huic statui publico quem profitetur respondenti, ex regula ab Ordinariis lo164

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1.6.2. Carattere pubblico della potestà dominativa La svolta essenziale nel ritenere le Religioni, esenti e non esenti erette dalla suprema autorità della Chiesa, investite di potestà dominativa pubblica, non trova, tuttavia, tutta la dottrina concorde. Soprattutto per quanto riguarda gli elementi che determinano lo stato di pubblicità giuridica, non c’è unanimità. Individuiamo brevemente, perciò, quali siano gli elementi costitutivi dello stato canonico di diritto pubblico:165 – secondo la teologia: è quello stato in cui la persona diviene sacra e gode del «privilegium canonis»; – secondo la deputazione: quello in cui il soggetto rende a Dio culto pubblico come persona pubblica a nome della società pubblica; – secondo l’ammissione e dimissione: quello in cui ammissione e dimissione vadano fatte con atto pubblico (fa cambiare lo stato canonico della persona), cioè strettamente dipendente, nell’essere posto in atto e nell’essere annullato, dalla gerarchia; – secondo le obbligazioni ed i diritti: quello in cui questi siano di carattere pubblico; – secondo l’autorità che regge la società: quello in cui l’autorità sia pubblica;

corum independens est; quae ex sua natura est universalis, ita ut interno vere iuridico et uno regimine corpus ipsius per universum orbem extensum gubernetur a regimine territoriali ecclesiastico prorsus superato ac distincto; quae continet statum clericalem ipsumque regit ac moderatur ita ut pro suis clericis dioecesis loco habeatur... nullo modo comparari posse societatibus mere privatis, [...]: ex adverso hanc societatem vere et proprie publicam agnoscendam esse”. LARRAONA, De potestate dominativa publica, 160. 165 Ci rifacciamo allo studio di RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 271-272.

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– secondo il bene pubblico: quello in cui direttamente e principalmente si tenda al bene pubblico; – secondo la partecipazione ad una società perfetta: quello che è parte di una società perfetta; – secondo la costituzione della società: quello in cui si viene ad instaurare per mezzo di un atto formale e pubblico. Non è chiaro se debbano essere presenti contemporaneamente tutti questi elementi o se ne bastino alcuni. Gli autori in questo non sono concordi ed il CIC 17 non elimina il dubbio. Infatti, se per Coronata ciò che definisce la pubblicità di una società è che sia stata costituita da una autorità pubblica,166 per Rivet, invece, ciò che la rende tale è che tenda direttamente, principalmente ed immediatamente al bene pubblico e privato (giacché solo la società civile tende esclusivamente al bene pubblico, mentre la società ecclesiastica tende contemporaneamente all’uno e all’altro);167 se da una parte Ottaviani afferma che la società pubblica è tale in forza della sua natura, della sua istituzione, organizzazione, destinazione, che dirige e guida la vita privata dei fedeli con effetti pure nella vita pubblica, esterni e generali al contempo,168 dall’altra Postius riunisce molti degli elementi sopra elencati ed afferma che la società può ritenersi pubblica se sia eretta dall’autorità, se sia ordinata al bene pubblico, se sia parte di una società perfetta.169 D’altro canto, è pur vero che esistono diversi tipi di pubblicità. È importante notare, comunque, come tale pubblicità promani essenzialmente dallo stato religioso che investe coCfr. CORONATA M., Institutiones Juris Canonici, Torino 1928, vol. I, 147. 167 Cfr. RIVET L., Quaestiones Juris Ecclesiastici Publici, Roma 1912, 13-14. 168 Cfr. OTTAVIANI A., Institutiones Juris Publici Ecclesiastici, Roma 1925, 176. 169 Cfr. POSTIUS J., El Codigo canonico aplicado a España, Madrid 1926, 23. 166

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loro che sono incardinati in una Congregazione. Se da una parte, infatti, abbiamo lo stato di perfezione evangelica e lo stato giuridico ad esso conseguente (caratterizzato dall’abito, dalla vita comune, da una certa stabilità di vita, dalla stessa approvazione di una regola da parte della Chiesa) che ne connotano la pubblicità, dall’altra dobbiamo rilevare anche lo stato religioso che caratterizza tali Congregazioni.170 Infatti, i Superiori delle Congregazioni non esenti rientrano nell’ambito giuridico del can. 1308 §1: «Votum est publicum, si nomine Ecclesiae a legitimo Superiore ecclesiastico acceptetur; secus privatum». Nonché del can. 488, 1°: «Religionis, societas, a legitima ecclesiastica auctoritate approbata, in qua sodales, secundum proprias ipsius societatis leges, vota publica, perpetua vel temporaria, elapso tamen tempore renovanda, nuncupant, atque ita evangelicam perfectionem tendunt». Ne consegue che la loro potestà, dominativa che sia, è pubblica in conseguenza dello stato religioso che regge, pubblico in virtù dei voti emessi, che costituiscono una persona sacra. Si viene incardinati e dimessi da tali Congregazioni con atti pubblici che mutano lo stato canonico della persona. Se poi la Religione è clericale (esente e non), essa viene equiparata alla diocesi per la vita dei suoi ascritti. Comporta inoltre la vita comune e l’osservanza di regole e costituzioni proprie di ciascun Istituto. Queste Religioni sono ex natura rei universali, anche se possono essere di diritto diocesano o di diritto pontificio.171 Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 274. Per quanto riguarda poi la pubblicità dello stato canonico, ciò dipende sia dalla stessa costituzione pubblica della Chiesa, sia dall’aspetto giuridico-dottrinale, che però non trova concordi gli autori. La Chiesa è costituita tale per diritto divino. Ma l’autorità suprema di essa può ampliare gli stessi elementi costitutivi delle persone giuridi170 171

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Le Religioni sono sia di diritto divino che ecclesiastico; rivestono quindi appieno il carattere di pubblicità in seno alla Chiesa sia a livello costituzionale (mutano la natura della persona giuridica nella Chiesa), sia giuridico-dottrinale (garantiscono l’osservanza dei consigli evangelici). Tuttavia, non godono di piena pubblicità per quanto riguarda sia la divisione del popolo cristiano (non rientrano nell’ambito delle diocesi o delle parrocchie, né ad esse sono riconducibili), sia la costituzione gerarchica della Chiesa (infatti, la potestà da loro esercitata è vicaria del Papa, ma interna all’Istituto).172 Ora, la divisione delle persone, come appare nel libro secondo del CIC 17, in chierici religiosi laici, è di ordine pratico, poiché proviene dai differenti compiti, mansioni, diritti e doveri che a queste tre categorie sono legati (non a caso, non si distinguono categorie di persone per sesso, età, dignità, o altro). E tuttavia, questa stessa divisione legittima il carattere pubblico delle Religioni, la cui potestà è della stessa natura delle società stesse. Ne consegue che la potestà dominativa di cui godono le Religioni in esame, non è di carattere meramente privato, ma piuttosto pubblico. Questa non andava comunque confusa con la potestà giurisdizionale, che non era propria delle Religioni non esenti.173 Nel CIC 17 possiamo rilevare diversi canoni che suppongono il carattere pubblico della potestà dominativa anche nelle Religioni non esenti. Così troviamo:174

che pubbliche canoniche. Se poi si tiene presente che i consigli evangelici sono tali per volere di Cristo (anche se la Chiesa certamente li custodisce ed interpreta in ogni tempo), possiamo affermare che pure lo stato religioso è di diritto divino, giacché di questo essi sono caratteristica essenziale. Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 276. 172 Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 277. 173 Cfr. GIL, De potestate dominativa, Roma 1932, 82. 174 Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 278-279.

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– il c. 107: «Ex divina institutione sunt in Ecclesia clerici a laicis distincti, licet non omnes clerici sint divinae institutionis; utrique autem possunt esse religiosi». Lo stato canonico di vita religiosa è retto dai Superiori religiosi che a loro volta fanno capo al Romano Pontefice mediante la Congregazione dei religiosi, cui devono inviare ogni lustro una relazione circa lo stato della Religione; – il c. 543: «Ius admittendi ad novitiatum et subsequentem professionem religiosam tam temporariam quam perpetuam pertinet ad Superiores maiores cum suffragio Consilii seu Capituli, secundum peculiares cuiusque religionis constitutiones». I Superiori religiosi ammettono al noviziato, alla professione religiosa tanto temporanea che perpetua e ne ricevono i voti pubblici in nomine ecclesiae, atto giuridico pubblico che comporta il cambiamento di stato canonico giuridico del vovente; – il c. 585: «Professus a votis perpetuis sive solemnibus sive simplicibus amittit ipso iure propriam quam in saeculo habebat dioecesim» e per la stessa professione religiosa viene incardinato alla Religione; – il c. 514 §1: «In omni religione clericali ius et officium Superioribus est per se vel per alium aegrotis professis, novitiis, aliisve in religiosa domo diu noctuque degentibus causa famulatus aut educationis aut hospitii aut infirmae valetudinis, Eucharisticum Viaticum et extremam unctionem ministrandi». Se la cura pastorale-sacramentale dei religiosi spetta al Superiore, vigilare sul governo e la disciplina degli stessi spetta invece alla Congregazione per i religiosi. Spetta invece all’Ordinario del luogo la vigilanza sui costumi e la fede degli stessi delle Religioni non esenti. – il c. 531: «Non modo religio, sed etiam provincia et domus sunt capaces acquirendi et possidendi bona temporalia cum reditibus stabilibus seu fundatis, nisi earum capacitas in regulis et constitutionibus excludatur aut co-

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arctetur». Ciò significa che gli economi delle Religioni e delle loro sottodivisioni sono amministratori dei bona ecclesiastica a pieno titolo, essendo i beni temporali delle persone giuridiche pubbliche, beni ecclesiastici appunto. Al massimo grado, tale potestà pubblica viene attribuita nel CIC 17 alle Religioni clericali. Essa sussiste anteriormente alla volontà dei membri dell’Istituto e dei Superiori stessi e procede direttamente dalla stessa volontà cui trae origine la società: «inde venit auctoritas unde venit societas».175 Essendo queste Religioni di tipo necessariovolontarie, la potestà dominativa pubblica non può che provenire «ex lege praevalente Superioris Religionem constituentis»176 e non va perciò confusa in alcun modo con il voto di obbedienza. Se poi la Religione è di diritto pontificio, la potestà si dice pontificia, poichè il Superiore religioso di tale Istituto, in senso proprio, è il Romano Pontefice (a meno che il diritto non dica espressamente la competenza dell’Ordinario del luogo in casi speciali). Ne deriva pure che la potestà dominativa delle Religioni clericali di diritto pontificio è universale, cioè pluridiocesana e unica per tutto l’Istituto ovunque sia diffuso nel mondo. 1.6.3. Categorie della potestà dominativa pubblica La potestà dominativa nelle Religioni clericali riguarda la vita religiosa, la vita religiosa elevata alla dignità di stato pubblico, la vita religiosa intrinsecamente unita allo stato clericale.177 – Quanto alla vita religiosa, la potestà dominativa non va confusa con i voti, anche se da essi viene corroborata, e 175

OTTAVIANI A., Institutiones Juris Publici Ecclesiastici, Roma 1956,

n. 28. 176 177

LARRAONA, De potestate dominativa publica, 162. Cfr. LARRAONA, De potestate dominativa publica, 163-166.

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riguarda il diritto-dovere del Superiore di condurre i membri dell’Istituto alla santità come uomo, come cristiano, come religioso. – Quanto alla vita religiosa elevata alla dignità di stato pubblico canonico, rimandiamo alla trattazione di cui sopra. Solo ricordiamo che il Superiore religioso è superiore ecclesiastico (ex c. 1308 §1 CIC 17), che regge una società ecclesiastica conformata alla dignità di stato pubblico nella Chiesa. – Quanto alla vita religiosa unita intrinsecamente allo stato clericale, indichiamo che essa viene retta dalla potestà dominativa pubblica proprio perché concesso ex lege dall’autorità suprema della Chiesa. Infatti si tratta di una società veramente pubblica, per questo nel suo carattere sociale si avvicina alla potestà di giurisdizione, anche se imperfetta, e perciò gli sono riservate le funzioni legislativa, giudiziale, esecutiva. Circa la funzione legislativa, spetta alle Religioni clericali esenti, prese in toto o nella loro suddivisione in parti (provincie) sia a livello passivo che a livello attivo. Invece alle Religioni clericali non esenti, spetta solo a livello passivo.178 Circa la funzione giudiziale, le Religioni clericali non esenti non hanno tale potestà strettamente detta, anche se usavano – prima del CIC – la forma contenziosa per concessione nei casi di dimissione. Nelle Religioni maschili di diritto pontificio esenti tale potestà si esplica: nei casi di dimissione per diritto (grave scandalo esteriore o gravissimo danno all’Istituto) ed in ogni caso in cui il religioso sia esente per diritto dal tribunale dell’Ordinario del luogo e sia sottomesso direttamente al Superiore religioso.179 Circa la funzione esecutiva, i Superiori religiosi

178 179

Cfr. LARRAONA, De potestate dominativa publica, 170-171. Cfr. LARRAONA, De potestate dominativa publica, 172.

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habent plenam et ab Ordinariis locorum independentem administrationem bonorum Religionis (618 §2, 1°). Ipsorum facultates, si agatur de Superioribus supremis, aequiparantur saltem et qoad integra Religionis bona, illis quibus pro dioecesi loci Ordinarius fruitur.180

Per la potestà dominativa pubblica possono inoltre imporre pene che rispettino il diritto comune e proprio e hanno il diritto-dovere di imporre correzioni, penitenze e rimedi penali in vista della dimissione. La loro potestà di governo accentua il carattere di pubblicità della potestà dominativa, come nella loro possibilità di erigere o modificare le case religiose (con licenza dell’Ordinario del luogo, c. 497 § 3) riconoscendone la personalità morale e di sopprimerle (con il consenso dell’Ordinario del luogo, c. 498) o come la erezione modificazione soppressione di uffici religioso-ecclesiastici e la loro attribuzione ai religiosi, sempre secondo le norme delle costituzioni (cfr. cc. 506, 507, 147-160, 160-182,183-195), etc. Sempre più va delineandosi il carattere giurisdizionale della potestà dominativa pubblica, sia come forza che come attribuzione di funzioni, anche se ancora non si può confondere con essa. Nelle Religioni non esenti manca infatti la funzione giudiziaria, mentre quella legislativa è presente solo in parte (cioè nella capacità di imporre precetti, cfr. 2.2.2.).181 Tale confusione succede perché «in Codice ut docrina generalis deficit»182. È potestà di giurisdizione almeno neLARRAONA, De potestate dominativa publica, 173. Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 282. 182 “Imo, prout in iure constituto res ordinata existit, haec potestas dominativa, secus ac potestas stricte dicta iurisdictionis, ad societatem iuris pontificii regendam, quae statum religiosum publicum ac statum clericalem continet ac moderatur, necessaria prorsus repetatur”. LARRAONA, De potestate dominativa, 179-180. 180

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gli Istituti retti dal diritto pontificio (Ordini e Congregazioni) clericali. Infatti in essi si regge uno stato di vita pubblico in nome della Chiesa e direttamente sottomessi all’autorità papale. Cerchiamo perciò di stilare una graduatoria di giurisdizionalità, per poter infine verificare almeno quanti e quali tipi di grado vi siano in ordine alla potestà di giurisdizione, non solo per quanto riguarda le Religioni, ma pure per tutti i soggetti contemplati nel CIC 17:183 – la giurisdizione del Pontefice ne è certamente il grado più elevato, poiché la riveste in forma suprema, pubblica, piena, universale, episcopale, ordinaria, propria, immediata, indipendente, apostolica, indefettibile; – la giurisdizione dei Concili in quanto, assieme al Pontefice, esercitano potestà suprema, piena, pubblica, universale, ordinaria; tuttavia, diversamente da esso, è vicaria, canonica-ecclesiastica, collegiale; – la giurisdizione del Vescovo come per il Romano Pontefice è pubblica, piena, ordinaria, propria, immediata, apostolica, indefettibile; tuttavia, in loro è particolare e subordinata a quella del Pontefice; – la giurisdizione ‘quasi vescovile’, cioè dell’Ordinario nelle Religioni esenti, è pure pubblica, ordinaria, immediata, piena (anche se la funzione legislativa è lasciata ai Capitoli Generali); tuttavia è vicaria del Romano Pontefice stesso, ecclesiastica, universale ma personale; – la giurisdizione delle Religioni non esenti di diritto pontificio o diocesano promanante dalla potestà dominativa pubblica è quasi completamente diversa da quelle su elencate: universale ma personale, pubblica, integrale, ecclesiastica (pontificia, vescovile), giuridica, immedia-

183

mo.

Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 281-282, cui ci rifaccia-

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ta, ordinaria ma vicaria; ha solo la funzione esecutiva ed è subordinata alla potestà di giurisdizione vescovile tranne quando espressamente previsto dal diritto; – la giurisdizione delle Società di vita comune e degli Istituti secolari promanante dalla potestà dominativa semipubblica loro propria: è universale ma personale, immediata, ordinaria ma vicaria, semipubblica, giuridica, ecclesiastica (pontificia, vescovile), subordinata all’Ordinario del luogo e solo con funzione esecutiva. La diversa gradualità di giurisdizione che investe queste persone morali, pubbliche, giuridiche, non è tuttavia da rilevarsi in un ordine qualitativo quanto piuttosto quantitativo, in quanto si tratta sempre di potestà pubblica. Differenze qualitative emergono invece dopo l’ultimo grado (quello delle Società di vita comune e degli Istituti secolari), in quanto vi si trova solo una potestà dominativa di ordine meramente privato e non più pubblico o semipubblico. In questo salto da pubblico a privato possiamo affermare che muti la natura stessa della potestà.

1.7. Potestà negli Istituti esenti e non esenti Resta ora da trattare la differenza tra Religioni esenti e non esenti, tra la potestà che si esercita negli uni e negli altri Istituti, per capire se vi siano differenze soltanto quantitative o qualitative, o magari entrambe contemporaneamente. Già molto si è detto a questo riguardo nei paragrafi precedenti. Ora illustreremo perciò l’istituto dell’esenzione, anche se non abbiamo la pretesa di esaurirne la trattazione,184 quanto piuttosto di verificarne i legami e 184 La bibliografia che tratta sistematicamente l’istituto dell’esenzione è svariata. Si citano alcuni autori ed articoli solo a titolo esemplificativo: BONDINI A., De privilegio exemptionis seu de regularium im-

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le implicanze con la potestà dominativa pubblica o con la potestà di giurisdizione. L’esenzione consiste nel privilegio mediante il quale il superiore competente sottrae in maniera durevole, direttamente o indirettamente, certe persone dalla loro preesistente dipendenza obbligatoria dal superiore immediato; […], tante sono le esenzioni quante sono le autorità ecclesiastiche che hanno il potere di liberare i loro sudditi dal superiore subalterno.185

munitate ab Ordinariorum locorum iurisdictione prout in novo iuris canonici Codice sancitur, Roma 1919; D’ANGELO S., La esenzione dei religiosi nella vigente disciplina ecclesiastica, Torino 1929; FOGLIASSO E., De extensione iuridici istituti exemptionis religiosorum logice, historice ac positive considerati, Roma 1947; GOFFI T., L’esenzione dei religiosi e l’autorità dei Vescovi, in Divinitas 6(1962) 197-218; GUTIÉRREZ A., De gradibus libertatis et subiectionis religiosorum respectu Ordinarii loci, in CpR 22(1941) 28-37, 83-92, 133-143, 213-227, 305-313; 23(1942) 30-41, 113-124, 292-298; HUIZING P., Exemptio religiosorum et ius constitutionale Ecclesiae, in Per 53(1964) 553-583; KAY D.J., E xemption. Origin of exemption and Vatican Council II, Roma 1990; GARCÌA MARTÌN J., La exenciòn de los religiosos en el Concilio Vaticano II, Roma 1979 (prende in analisi quasi esclusivamente lo sviluppo avuto nel Concilio Vaticano II); O’BRIEN J., The exemption of Religious in Church Law, Milwaukee 1942. 185 RAVÀ A., Esenzione (diritto canonico), in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, 576-577. Lo HUIZING, E xemptio religiosorum, 553-554, definisce l’esenzione dei religiosi “libertas a iurisdictione Ordinarii loci, unde ipsi subduntur tantum propriis Superioribus internis et Romano Pontifici”; per GOFFI, L’esenzione, 197, essa è “privilegio di autonomia e indipendenza di fronte agli Ordinari locali (c. 615); oppure può significare una sudditanza al Sommo Pontefice attraverso una propria gerarchia, distinta da quella ordinaria ecclesiastica”; MELO A., De exemptione regularium, Washington 1921, 1, la definisce “privilegium quo corpus aliquod morale, vel persona aliqua, vel etiam locus subtrahitur a potestate inferioris ordinarii et immediate subiicitur superiori Praelato ecclesiastico”.

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Naturalmente, parlando di persona si deve intendere sia come persona fisica che giuridica (per es. Religioni, vicariato castrense) e può riguardare uffici ecclesiastici. Inoltre, l’esenzione può interessare non soltanto persone, ma pure luoghi, territori ed enti territoriali quali sono le diocesi stesse e i territori di missione (stationes missionis, prefettura apostolica, vicariato apostolico). Generalmente riguarda la sottrazione alla potestà dell’Ordinario del luogo con conseguente immediata soggezione alla potestà del Romano Pontefice. Nel CIC 17 viene presentata come un privilegio, in quanto si tratta di una sospensione nel caso concreto di una legge cogente (la soggezione all’Ordinario del luogo) ed, anzi, dello stesso ordinamento gerarchico della Chiesa, che vede al vertice della Chiesa locale il vescovo. Essa si comprende alla luce di ragioni primariamente di convenienza, come può essere per le Religioni pluridiocesane, le quali sarebbero notevolmente rallentate ed a volte impedite nella loro missione nel dover rendere conto a più Ordinari del luogo. Tuttavia, non sarà irrilevante notare che furono pure motivi disciplinari a rendere necessario questo istituto: ciò è tanto più evidente se si pensa ai frequenti casi di simonia, di concubinato, di vescovi conti e marchesi che nel Medioevo ed oltre formavano parte della gerarchia nella Chiesa (senza dimenticare tutto ciò che ha significato lo scisma occidentale e le continue ingerenze dell’ordine temporale negli affari meramente religiosi e monasteriali). Ne consegue che poteva anche essere dovuta a ragioni di interesse da parte dell’autorità superiore ad avere maggiormente a disposizione un ente o persona che potesse prestargli servigio. È comunque sempre concessa dall’autorità superiore a quella cui spetterebbe di diritto la soggezione. Vediamo ora di dare un rapido sguardo storico all’istituto, mettendo in risalto i passaggi chiave della sua evoluzione, per poter pure cogliere la direzione verso cui si sta-

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va andando dopo la promulgazione del CIC 17, soprattutto con lo sviluppo che ha dato il Concilio Ecumenico Vaticano II. 1.7.1. Uno sguardo storico Guardando all’istituto dell’esenzione, dobbiamo notare fin dagli inizi della vita consacrata una certa libertà delle prime forme monacali dalla potestà del vescovo, dovuta al fatto che i primi monaci (Antonio abate, Pacomio, Basilio, Benedetto) erano essenzialmente laici e perciò non tenuti a rapporti ufficiali particolari con il vescovo stesso, ma sottomessi a lui come tutti i fedeli.186 La situazione viene a mutare con l’epoca delle controversie cristologiche e dei grandi concili (Nicea, Efeso, Calcedonia), in cui alcuni gruppi di monaci (quelli bizantini in particolare) diventano elementi di spinta nella Chiesa, a volte sostenendo l’ortodossia, altre volte opponendosi ad essa.187 Fu così che si venne ad esigere sempre più una sottomissione alla giurisdizione e controllo del vescovo conseguente alle tensioni teologiche precedenti e alla natura territoriale dei primi Istituti di vita consacrata. Controllo che era finalizzato alla salvaguardia della fede e alla conseguente unità della Chiesa. Già il concilio di Calcedonia (451), al canone IV, pone sotto la soggezione del vescovo i monaci che si trovino entro i confini territoriali della sua diocesi.

Cfr. KAY, Exemption. Origin, 1. In effetti, “the organisation of religious life was structured, not yet by the principles of canon law, but by the rights and duties which emerged as exigencies of the charism”, 2. 187 Si venne a creare un notevole diverbio teologico perché alcune fazioni monacali conservatrici propugnavano la dottrina nicena dell’homoousion talmente rigidamente da non potersi affermare la doppia natura del Cristo così come proposta dal concilio di Calcedonia. Cfr. KAY D. J., Esenzione, in NDDC, Cinisello Balsamo, 1996. 186

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Quoniam autem nonnulli monachico praetextu utentes, et ecclesias, et negotia civilia perturbant, et temere, citra ullam discriminis rationem, in urbibus circumcursantes, quinetiam monasteria sibi constituere studentes, visum est, nullum usquam aedificare nec construere posse monasterium, vel oratoriam domum, praeter sententiam ipsius civitatis episcopi: monachos autem, qui sunt in unaquaque regione et civitate, episcopo subiectos esse, et quietem amplecti, et soli jejunio et orationi vacare, in quibus ordinati sunt locis fortiter perseverantes nec ecclesiasticis nec saecularibus negotiis se ingerere, vel communicare, propria reliquentes monasteria, nisi quandoque a civitatis episcopo eis permissum fuerit: nullum autem in monasteriis servum recipi, ad hoc ut fit monachus, praeter voluntatem sui domini.188

Questa sottomissione, d’altro canto, non toglieva ogni potestà all’Abate o al Superiore, quanto piuttosto aveva il merito di porre «la disciplina monastica nella legislazione canonica, senza però scendere a speciali determinazioni».189 Ora spetterà alla struttura gerarchica della Chiesa approvare canonicamente le forme della vita consacrata ed il suo carisma, in quanto chiamata ad armonizzare nel corpo di Cristo tutti i carismi per ministero proprio. Fu solo quando il numero dei chierici cominciò ad aumentare notevolmente tra i monaci che si cominciò a sentire l’esigenza di liberarsi della soggezione dell’Ordinario del luogo. Infatti, spesso i vescovi, in via eccezionale, permettevano che fossero gli abati regolarmente ordinati ad

MANSI J. D., Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, vol. VII, col. 359, IV. È da notare che fu questa la prima legislazione nella storia ecclesiastica sui monaci, che diede inizio ad una fruttuosa collaborazione tra monaci e vescovi e al loro riconoscimento nella Chiesa come personalità giuridica. In certo senso, questo fu l’inizio del diritto della vita consacrata. 189 FOGLIASSO E., Esenzione, in DIP, vol. III, col. 1289. 188

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amministrare i sacramenti e tutto ciò che riguardava la cura delle anime all’interno del monastero. Di qui, il passo fu breve per chiedere insistentemente la nativa indipendenza del monastero, che si sarebbe esplicata soprattutto nel diritto di eleggere il proprio abate e di poter regolamentare autonomamente la compagine interna. I vescovi difficilmente avrebbero potuto accettare un simile diritto; ed infatti i monaci furono costretti a chiedere la protezione del Romano Pontefice, quella che in seguito sarebbe stata chiamata ‘privilegium exemptionis’. Il Papa concesse a più monasteri tale ‘relaxactio legis’, che lentamente prese ad essere usata sempre più nella prassi della Chiesa.190 Il progressivo allontanamento semantico-culturale tra Chiesa orientale ed occidentale, inoltre, fecero sì che l’istituto si sviluppasse più velocemente in Oriente (già nel VI sec. troviamo diversi casi di esenzione), piuttosto che in Occidente, dove ancora tra VII ed VIII sec. i casi sono pochi: il primo monastero, cui fu accordato il privilegio, fu quello di Bobbio, in cui Onorio I nel 628 concesse all’abate Bertolfo l’esenzione dalla giurisdizione del vescovo Probo (seguito poi dai monasteri di Benevento, Cassino, Fulda, Farfa). Al privilegio di Bobbio, Teodoro I fece seguire la costituzione apostolica Quamprimum (642), che garantiva agli abati l’uso delle insegne pontificie e che avocava a sé il diritto di stabilire chi poteva consacrare l’abate e chi poteva esercitare le funzioni pontificali nel monastero.191 Tuttavia, una notevole svolta all’istituto doveva essere data dagli ordini mendicanti, per la loro caratteristica di essere centralizzati, cioè di possedere un Superiore generale residente in Roma. Se, infatti, già nell’XI sec. praticaCfr. RAVÀ, Esenzione, 578. KAY, Exemption. Origins, 11-12. La svolta di Bobbio fu solo la prima di tante forme di esenzione che portavano l’esentato (persona o luogo) in ius sancti Petri. 190 191

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mente tutti gli Istituti religiosi ottennero il privilegio dell’esenzione (essendo oramai divenuto inconsueto trovare una Religione che non ne godesse), dobbiamo notare che finora i religiosi in esame erano essenzialmente monaci e quindi persone residenti stabilmente in un luogo, in un monastero. La loro potestà sui soggetti facenti parte del monastero era andata notevolmente aumentando dai tempi di Calcedonia e delle prime esenzioni.192 Proprio per l’aumento della sfera di potere che si era venuta così a creare, nel XII sec. sorsero delle diatribe circa l’istituto dell’esenzione. Nel 1123, il concilio Lateranense I cercò di porre fine a queste dispute ponendo dei limiti chiari all’estensione di tale privilegio: «gli abati non potevano amministrare i sacramenti della penitenza e dell’estrema unzione, celebrare pubblicamente la messa, visitare i malati e procedere alla consacrazione dell’olio santo e degli altari».193 Inoltre, la più generale cura animarum era loro affidata ma sotto la speciale osservanza degli Ordinari del luogo, cui dovevano sempre rendere conto. Queste normative furono poi codificate nelle Decretali di Gregorio IX e nel Liber Sextus di Bonifacio VIII.194 Perciò, al vesco192 Di pari passo con l’aumento del potere giurisdizionale dello stesso Romano Pontefice. KAY, Exemption. Origins, 14, rileva 4 fasi di sviluppo dell’istituto: 1. da Bobbio a Cluny, 628-1027, per rendere pacifica la vita religiosa; 2. da Cluny ad Assisi, 1027-1200 ca., come perno della riforma gregoriana; 3. da Assisi al Concilio di Trento, 1200 ca.-1563, necessaria per gli ordini mendicanti centralizzati; dal Concilio di Trento al Concilio Vaticano I, 1563-1860, segna il declino dell’esenzione assieme a quello del papato. È Sisto IV con la const. ap. Regimini Universalis Ecclesiae a concedere ai Mendicanti l’esenzione nell’esercizio del loro apostolato; cfr. GOFFI, Esenzione, 199. 193 RAVÀ, E senzione, 579. 194 Vi leggiamo infatti: “Episcopus, petens ecclesiam quoad temporalia et spiritualia, obtinet in spiritualibus eo ipso, quod probat esse in sua dioecesi, si non appareat exempta; sed in temporalibus succumbit, nisi aliter doceat iure suo”. X. 3. 36. 7.

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vo era comunque preclusa qualunque intromissione riguardante l’amministrazione dei beni del monastero, salvo che non fosse stato previsto altro dal diritto.195 D’altro canto, se da un lato si poneva sotto speciale tutela quei privilegia exemptionis che erano stati concessi e che il Sommo Pontefice non voleva fossero giudicati dalle autorità inferiori,196 dall’altro si voleva fossero puniti coloro che non avendo privilegi mentivano per avere maggiore libertà.197 Con i Mendicanti, invece, si giunge a riconoscere anche la libertà necessaria dal ritrovarsi nel luogo esentato. Il privilegio dell’esenzione, cioè, non viene più dato al monastero, ad un luogo determinato, ma alle persone stesse costituenti l’Istituto.198 Questo perché i Mendicanti erano prinSimilmente si affermava che “monasterium subjectum est episcopo, in cuius dioecesi situm est, nisi probetur exceptum”: questo chiaramente manifesta che lo stato normale del diritto non era quello dell’esenzione, ma della sottomissione all’Ordinario, che si presumeva. X. 3. 36. 8. 196 “De privilegiis non est iudicandum, nisi eorum tenore inspecto, et secundum continentiam eorum ab omnibus subditis sunt servanda. Porro, quamvis Templarii et Hospitalarii multa sint libertatis praerogativa donati, [...]. Sic enim eos volumus privilegiorum suorum servare tenorem, quod eorum metas transgredi minime videantur”. X. 5. 33. 7. 197 “Quum personae ecclesiasticae tam religiosae quam saeculares plura praesumant, quae ipsis infamiam pariunt, et aliis inferunt laesionem, praetextu exemptionis vel libertatis, quam asserunt se habere, ordinariorum correctiones et ordinationes subterfugientes, ac eorum forum sive iudicium declinantes: nos, volentes super hoc de salubri remedio providere, statuimus, ut hi, qui se asserunt per privilegia seu indulgentias apostolicae sedis exemptos, a locorum ordinariis requisiti huiusmodi privilegia vel indulgentias, quibus se dicunt fore munitos, ipsis ordinariis in loco congruo et securo, [...], iusto impedimento cessante ostendere, ac ad legendum integraliter exhibere, nec non de articulis, de quibus controversia fuerit, transcriptum tradere teneantur”. VI. 5. 7. 7. 198 Cfr. FOGLIASSO, Esenzione, col. 1291. 195

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cipalmente dediti proprio a quella cura delle anime che il Lateranense I aveva vincolato ai regolari in relazione al loro vescovo. Si viene perciò a creare una espansione della sfera giuridica dell’esenzione, che vedrà il manifesto favore del Romano Pontefice: ottennero così la licenza di predicare e la facoltà di ricevere confessioni sacramentali. L’esenzione viene ora estesa non solo ai monasteri o conventi singolarmente presi, ma si allarga ad abbracciare l’intero Istituto, in tutti i suoi singoli componenti ed in tutti i suoi luoghi. Nacque così l’esenzione personale che si viene ad aggiungere all’esenzione dei luoghi propri dell’Istituto e che comprende, oltre l’autonomia per il regime interno, pure una serie ulteriore di privilegi legati alla notevole presenza di chierici regolari all’interno degli Istituti. Ciò comportò che il Superiore venisse ad avere pari diritti che spettavano normalmente al Superiore ecclesiastico nei confronti dei sudditi e dovuti al fatto che ogni chierico deve essere incardinato in una persona giuridica: non vi possono essere chierici acefali.199 Con il tempo, anche per i nuovi Ordini la sfera giuridica dell’esenzione prese ad espandersi sempre di più, non solo verticalmente (come concessione di autonomia rispetto al vescovo), ma pure orizzontalmente (come numero di Religioni che sempre più venivano esentate). Si verificava, cioè, la ‘communicatio privilegiorum’, che nuovamente fece sorgere diatribe e controversie ai concili di Costanza (1512) e Lateranense V (1517). Soltanto con il concilio di Trento (1545-1563) si riuscì a giungere ad una regolamentazione e limitazione dell’istituto dell’esenzione, con l’istituzione pure di vescovi delegati della Santa Sede alla vigilanza della sua applicazione.

199

Cfr. FOGLIASSO, Esenzione, col. 1292.

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Così, mentre da un lato si affermava una purificazione dell’Istituto da tutto ciò che non era legato alla pluridiocesanità delle Religioni o al carattere clericale dello stesso, dall’altro si verificava l’esenzione sistematica dei regolari dalla potestà del vescovo, salvo che il diritto non avesse espresso altro.200 Un altro passaggio chiave dell’istituto doveva essere intrapreso grazie alla nascita delle comunità religiose di voti semplici (di cui iniziatori furono i gesuiti). Queste dapprincipio furono investite solo di un’esenzione parziale, legata strettamente al loro carattere di pluridiocesanità e di clericalità; tuttavia, dopo un determinato periodo, potevano ottenere il privilegio dell’esenzione ‘piena’, così come riconosciuta agli Ordini ex iure, per speciale concessione della Santa Sede. Ciò significava l’indipendenza dalla giurisdizione dell’Ordinario del luogo per il regime interno e per gran parte degli atti esterni.201 Per quanto riguarda lo sviluppo negli Istituti femminili di voti semplici, la Santa Sede andava lentamente riconoscendone la giuridicità, almeno in quelli costituzionalmente centralizzati. Come per quelli maschili, il carattere della pluridiocesanità ne richiedeva e determinava una notevole sfera di autonomia, che fu sancita da Benedetto XIV con la costituzione Quamvis iusto (1749). Successivamente, si trasformava la condizione giuridica degli Istituti esenti centralizzati, maschili e femminili, ponendoli nell’ordine del diritto pontificio, anche se con diversi gradi di autonomia rispetto ai vescovi.202 Così, ad es., gli Istituti clericali godevano, naturalmente, di maggiore autonomia rispetto a quelli femminili verso il parroco o l’Ordinario del luogo, che manteneva potestà circa atti di regime interno, come l’ammissione delle novizie alla professione. Cfr. FOGLIASSO, Esenzione, col. 1292. 201 Cfr. RAVÀ, Esenzione, 579. 202 Cfr. FOGLIASSO, Esenzione, col. 1292. 200

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Infine, con la costituzione Conditae a Christo (1900), Leone XIII codificò i principi base che dovevano regolare le relazioni tra Ordinario del luogo ed Istituti di voti semplici maschili e femminili, con una maggiore distinzione rispetto al concetto di esenzione ed un significato più limitato; principi che sarebbero poi stati ripresi nel CIC 17 con aggiunte e che stabilivano i diritti degli Istituti di diritto pontificio e di diritto diocesano.203 1.7.2. Posizioni giuridiche Il CIC 17 cerca di stabilire i rapporti tra vescovo e religiosi in base alle norme del Codice stesso. Questo risulta essere quanto mai incoerente, giacché l’esenzione va presa in considerazione con il diritto proprio di ciascun Istituto, che potrà concedere più o meno ampie facoltà ai propri Superiori.204 Infatti, l’esenzione può essere totale (quando esime in toto dalla giurisdizione dell’Ordinario del luogo) o parziale (quando esime solo in parte da tale giurisdizione), secondo quanto viene stabilito dall’autorità competente. Quanto poi al soggetto passivo, essa può essere personale (concessa alla persona e ad essa legata), locale (concessa ad un luogo e quindi alle persone che vi dimorano), mista (quando sussistono entrambe contemporaneamente).205 Va notato, infine, che alla condizione di soggetto passivo, che trova riscontro nella semplice sottrazione dalla giurisdizione dell’Ordinario del luogo, corrisponde la condizione di soggetto attivo, perché generalmente le facoltà che spetterebbero al vescovo vengono trasferite in capo al Superiore religioso.206 Cfr. RAVÀ, Esenzione, 579. Cfr. KAY, Exemption. Origins, 16, “… the substantive laws granting exemptions exist outside the codes in the laws proper to the institutes themselves…”. 205 Cfr. MELO, De exemptione, 2. 206 Cfr. RAVÀ, Esenzione, 576; MELO, De exemptione, 3. 203

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Dal punto di vista temporale, l’esenzione può essere stabile oppure ad interim, secondo che sia stabilito dall’autorità. Essa va tenuta distinta dall’immunità, cioè dall’indipendenza di un soggetto rispetto ad un altro cui non deve lo stato di soggezione, mentre nell’esenzione la soggezione è dovuta per diritto; va distinta pure dalla riserva di benefici, cioè dall’autonomia di un ufficio – facente capo ad un soggetto attivo costituito tale tramite un atto amministrativo – rispetto all’autorità del Superiore subalterno, mentre l’esenzione si riferisce ad un soggetto passivo costituito tale per un atto legislativo; ancora, si deve distinguere dalla riserva di peccati, che non costituisce un privilegio, quanto una vera e propria limitazione di potestà in capo ad un soggetto attivo, cioè il confessore; va tenuta distinta pure dalla definizione di competenza, la quale non pone in situazione di favore il soggetto passivo rispetto a persone che siano della stessa categoria.207 La nuova distinzione apportata dalla cost. Conditae a Christo tra Istituti di diritto pontificio e di diritto diocesano non costituisce, di per sé, automaticamente una esenzione dell’Istituto di diritto pontificio dalla potestà dell’Ordinario del luogo. Esso risulta essere, piuttosto, un riconoscimento di quelle facoltà ad esso intrinseche che gli consentono di svolgere la propria missione ecclesiale e di conseguenza di dover essere rispettato nell’autonomia del proprio carisma conforme a ciò che è stato canonicamente e quindi pubblicamente approvato dalla Chiesa.208 Perciò il can. 500 §1 del CIC 17: «Subduntur quoque religiosi Ordinario loci, iis exceptis qui a Sede Apostolica exemptionis privilegium consecuti sunt, salva semper potestate quam ius etiam in eos locorum Ordinariis concedit», conferma la distinzione tra Istituti esenti e non esen207 208

Cfr. RAVÀ, Esenzione, 576. Cfr. FOGLIASSO, Esenzione, col. 1289.

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ti per cui, se eccezioni vi sono per gli Istituti esenti, per quelli non esenti non vi sono eccezioni di alcun tipo e la loro soggezione al vescovo è totale (salvo che non vi siano documenti pontifici che derogano in tal senso). Si può perciò concludere che vi siano tre classi di Istituti religiosi: esenti (possono essere tali per diritto o per concessione speciale del Romano Pontefice), di diritto pontificio (non esenti), di diritto diocesano (non esenti).209 Eccone un elenco: – Istituti religiosi esenti sono tutti gli Ordini clericali (per i quali l’esenzione costituisce una regola e non una eccezione, ai sensi del can. 615 CIC 17),210 le Congregazioni clericali esenti (per es., Dottrinari, Passionisti, Redentoristi, Mariani, Pii Operai Catechisti Rurali, Rosminiani, Missionari dei Sacri Cuori, Salesiani, Verbiti), gli Ordini laicali maschili, le monache dipendenti dai Regolari, le suore assimilate alle monache; – Istituti religiosi di diritto pontificio non esenti sono le Congregazioni clericali di diritto pontificio, le Congregazioni laicali maschili di diritto pontificio, le Congregazioni femminili di diritto pontificio, le monache soggette all’Ordinario del luogo o alla Santa Sede; – Istituti religiosi di diritto diocesano sono le Congregazioni clericali di diritto diocesano, le Congregazioni maschili laicali di diritto diocesano, le Congregazioni femminili di diritto diocesano. Cfr. GOFFI, L’esenzione, 206-207. Vd. anche FOGLIASSO, Esenzione, col. 1290, che si rifà al primo autore. HUIZING, Exemptio religiosorum, 579, parla invece di exemptio minima in riferimento agli Istituti diocesani, exemptio partialis in riferimento agli Istituti di diritto pontificio, exemptio sensu stricto per gli Istituti di diritto pontificio esenti. 210 “Regulares, novitiis non exclusis, sive viri sive mulieres, cum eorum domibus et ecclesiis, exceptis iis monialibus quae Superioribus regularibus non subsunt, ab Ordinarii loci iurisdictione exempti sunt, praeterquam in casibus a iure expressis”. 209

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Il privilegio dell’esenzione comporta perciò un’automatica sottomissione alle dipendenze del Romano Pontefice e contemporaneamente un trasferimento in capo ai Superiori religiosi della giurisdizione (potestà giurisdizionale) che è stata ‘sottratta’ al vescovo locale.211 Tuttavia è da notarsi come questo modo di intendere l’istituto dell’esenzione crea non poca confusione per quanto riguarda l’ordine gerarchico nella Chiesa particolare e nella stessa Chiesa universale. Infatti, se si tiene presente che spetta comunque al Romano Pontefice stabilire la sfera di potere facente capo ai vescovi, risulta problematico intendere l’esenzione come un privilegio, in quanto si tratta di una situazione che non va contro il diritto, ma che ne è piuttosto una manifestazione. Infatti, lo stesso Pio XII, nell’allocuzione Haud mediocri (1958), affermerà che è il Romano Pontefice a conferire ai Superiori religiosi tale potestà (che perciò non viene sottratta ai vescovi). Possiamo perciò affermare, anche se nel CIC 17 non se ne fa menzione, che la potestà propria degli Istituti esenti sia quella di giurisdizione, mentre la potestà degli altri Istituti, non esenti di diritto diocesano o di diritto pontificio, sia quella dominativa pubblica di cui già abbiamo trattato sopra. Il Superiore religioso degli Istituti esenti agisce autonomamente e con potestà pubblica, ordinaria, immediata, piena (per quanto riguarda il potere legislativo è lasciato ai Capitoli generali) che esercita nel nome del Romano Pontefice, perciò è pure ecclesiastica, universale e quindi non territoriale come quella dell’Ordinario del luogo, legata però ad una determinata categoria di perso211 GARCÌA MARTÌN J., Religioni esenti, in DIP, vol. VII, col. 1654. HUIZING, Exemptio religiosorum, afferma che “… Superiores scilicet maiores Instituti clericalis exempti possidere iurisdictionem ordinis episcopalis, supponit illam iurisdictionem ipsis provenire ex missione canonica, a Papa [...] data”.

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ne. Essa, almeno nei casi degli Ordini clericali, viene esercitata sia in foro interno che esterno e si esplica nella capacità di emanare leggi ecclesiastiche che vincolano i sudditi, nonché di esercitare potestà coercitiva e giudiziaria. Tale sfera di potere coinvolge pure coloro che risiedessero nelle case religiose notte giorno sia come personale di lavoro, sia come utente di servizi (sanitari, scolastici, spirituali) per quanto riguarda la cura animarum.212 Il Superiore religioso degli Istituti non esenti, invece, esercita potestà dominativa pubblica, cioè integrale, universale ma personale, ecclesiastica (tanto che sia pontificia o vescovile), giuridica, immediata, ordinaria ma vicaria; ha tuttavia solo funzione esecutiva che è subordinata comunque alla potestà di giurisdizione del vescovo tranne quando espressamente previsto dal diritto.213 È inferiore a quella degli Istituti esenti riguardo all’autonomia nei confronti dell’Ordinario del luogo e quindi, nel caso di Istituti di diritto diocesano, non vengono conferite in capo ai legittimi Superiori religiosi quelle facoltà di governo di regime interno che vengono invece date ai Superiori degli Istituti esenti; nel caso invece di Istituti di diritto pontificio, il vescovo non può intromettersi negli affari di regime interno, nella modifica delle costituzioni o in affari economici. Se si tratta invece di Istituti laicali (sia maschili che HUIZING, Exemptio religiosorum, 566, afferma che gli Istituti che godono di esenzione in senso stretto sono per la maggior parte clericali, con l’eccezione dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, che è invece laicale. GOFFI, L’esenzione, 206, a riguardo degli Ordini laicali maschili esenti dice che “hanno, come ordinario proprio, quello locale (al pari dei non-esenti)”. 213 GOFFI, L’esenzione, 207: “Non è, perciò, esatto affermare che i religiosi di diritto pontificio sono sottoposti, in quanto fedeli, all’Ordinario del luogo. Il regime esterno di questi religiosi è costituito da tutto ciò che il diritto positivo riserva all’Ordinario locale; tutto il resto appartiene al regime interno”. 212

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femminili), la potestà dell’Ordinario del luogo è maggiore, perché deve vigilare sulla regolare osservanza delle costituzioni, della clausura, della frequenza ai sacramenti e dell’ortodossia dei costumi e della fede (resta invece di competenza interna all’Istituto l’elezione del Superiore generale, l’ammissione o espulsione dei membri, l’amministrazione dei beni temporali). A quanto detto riguardo all’esenzione dei regolari ci sono tuttavia delle eccezioni, soprattutto per quanto riguarda la cura delle anime e la funzione pastorale dell’Ordinario. Infatti, al vescovo è concesso di vigilare sulla predicazione (can. 1343 §1), sui pontificali (can. 337 §1), sull’amministrare il sacramento della cresima (can. 792) sempre nelle chiese delle Religioni esenti. Così pure è compito dell’Ordinario del luogo consacrare i luoghi sacri (can. 1155), le campane (can. 1169 §5), l’altare immobile (can. 1199 §2). Gli Ordini clericali sono pure legati alla potestà dell’Ordinario del luogo per quanto riguarda la celebrazione di solennità e tutto ciò che concerne l’attività parrocchiale in caso sia loro stata data la cura di una parrocchia in quella particolare diocesi. All’Ordinario del luogo sono pure sottomessi riguardo all’erezione di una casa dell’Istituto, di una chiesa, di una pia associazione, per la ricezione delle confessioni sacramentali, per predicare ai religiosi, per la custodia dell’Eucaristia in un luogo non pubblico, in quanto serve loro l’autorizzazione dell’Ordinario del luogo.214 Oltre a ciò, si aggiunga che per il CIC 17 il privilegio dell’esenzione può cessare. Se si tratta di quella personale, essa cessa per il religioso che si trovi illegittimamente fuori della casa cui appartiene; nel caso in cui il religioso abbia compiuto un delitto al di fuori della sua casa ma il

214

Cfr. RAVÀ, Esenzione, 580.

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Superiore non voglia punirlo; nel caso si tratti di religiosi in extra claustra o allontanati dall’Istituto, anche se in attesa di dispensa. Se si tratta di esenzione locale, il vescovo può riferire alla Santa Sede gli abusi che siano stati compiuti nella casa religiosa ed a cui il Superiore non abbia provveduto; può inoltre esercitare la sua potestà per quanto concerne la cura e la vigilanza nei costumi e nella fede nelle domus non formatae, cioè in quelle case che a norma del can. 488 n. 5 non vi siano almeno sei religiosi professi di cui quattro siano sacerdoti se si tratta di una Religione clericale.215 Quanto fin qui espresso riguarda l’evoluzione dell’istituto fino alla promulgazione del CIC 17. Si tratta ora di vedere le novità apportate dal Concilio Ecumenico Vaticano II e dai documenti subito precedenti e susseguenti a tale evento per la vita della Chiesa, fino ad arrivare all’ultimo importantissimo documento frutto delle innovazioni del Concilio, il Codice di diritto canonico del 1983.

1.8. Conclusioni La potestà in ambito familiare nel diritto romano ebbe maggiori o minori diritti e doveri secondo le epoche in cui la si osserva: sempre è l’autorità comune, lo Stato, ad ampliarla e a darne più attribuzioni, come pure a restringerla solo a pochi ambiti della vita privata. Come si è osservato, quindi, è l’autorità superiore a regolamentare la sfera di diritti e doveri che la potestà del paterfamilias può esercitare, in quanto questa stessa autorità rimette ad una autorità inferiore certe competenze, in vista del bene comune e di una maggiore e migliore gestione degli affari privati.

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Cfr. RAVÀ, Esenzione, 581.

Cap. I - Potestà dominativa dalle origini al CIC 17: sviluppo ed essenza

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Da questa stessa prospettiva, il diritto della Chiesa – che attinge abbondantemente al diritto romano – regolamenta le autorità inferiori presenti al suo interno, a volte vedendole come inserite in strutture di ordine privato, altre volte e conformemente all’utilità che ne ricavi, inserendole invece in una struttura di ordine pubblico. Così si può rilevare in massima parte anche per le strutture monastiche e più in generale per le varie forme di vita consacrata che sono comparse nella Chiesa fin dai suoi primissimi tempi. In queste forme strutturate di vita consacrata si entra a far parte mediante la professione religiosa. Essa è dunque l’atto con cui il candidato assume lo stato pubblico di religioso e consiste nella professione dei voti e nel dono di sé. È per questo dono di sé fatto all’Istituto che il Superiore religioso esercita una certa potestà, una particolare attribuzione di doveri e diritti sul suddito. Quest’ultima, la cd. potestà dominativa, è intesa come il diritto acquisito dall’Istituto e dai suoi Superiori di governare i sudditi. Ma tale potestà trae origine dalla volontà dell’autorità della Chiesa che ha dato origine all’Istituto stesso, di qualunque tipo esso sia. Questo significa che la potestà dominativa ha estensione maggiore rispetto al voto di obbedienza, potendo obbligare anche gruppi di persone ed essendo esercitata anche nelle Società senza voti (poi SVA). Vanno perciò abbandonate le posizioni (passate e contemporanee) che vogliono il voto di obbedienza come origine della potestà dell’Istituto e che pongono nella volontà del religioso la potestà stessa dei Superiori e dell’Istituto. Non solo, ma essa è da considerarsi potestà pubblica in senso formale e sostanziale, assimilabile alla potestà di giurisdizione, essendo la stessa con cui si regge una società giuridica che sia costituita allo stato pubblico nella Chiesa, secondo il principio che tale è la potestà del Su-

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periore quale è il tipo di società su cui essa viene esercitata. Per questo motivo, spesso agli Istituti viene applicato l’istituto dell’esenzione (sospensione in un caso concreto dell’ordinamento della Chiesa), che viene sempre concessa dall’autorità superiore a quella cui spetterebbe il diritto di soggezione e che vede un progresso notevole (in quanto a dottrina ed applicazione) nella fase seguente la promulgazione del CIC 17. Essa, fin dal suo inizio con il concilio di Calcedonia (451), ha il merito di inserire il diritto della vita consacrata all’interno della legislazione canonica, ponendo in capo alla gerarchia della Chiesa l’esercizio al suo interno di diritti e doveri. Inoltre, la suddivisione tra gli Istituti di diritto pontificio e di diritto diocesano genera una ulteriore divisione tra Istituti esenti-con giurisdizione e non esenti-senza giurisdizione. Lentamente avanza la consapevolezza della necessità di un’autonomia comune a tutti gli Istituti, permettendo loro di svolgere la propria missione ecclesiale secondo il carisma proprio a ciascuno, secondo ciò che è stato pubblicamente approvato nella Chiesa. Questa viene perciò a sostituire quella che era l’esenzione in ambito pre-conciliare. Con la promulgazione del CIC 17 avanza sempre più anche l’analisi della potestà esercitata negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita comune, riconoscendone la sua pubblicità e, quindi, l’inadeguatezza del termine ‘potestà dominativa’ che sembra rimandare in qualche modo ad una sfera privata di diritti e doveri. Il riconoscimento della pubblicità di tale potestà, inoltre, consente di porla in relazione con quella esercitata dalla gerarchia, la potestà di giurisdizione, e di porla in stretto legame con l’autorità e potestà stessa del Romano Pontefice.

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Cap. II

Dal CIC 17 al Concilio Ecumenico Vaticano II Questo capitolo si propone di dare un quadro quanto più possibile completo del progresso che ebbe il concetto di potestà negli Istituti Religiosi, Società di Vita Comune e Istituti Secolari così come espressa dal CIC 17, potestà giurisdizionale e soprattutto dominativa, fino ai documenti emanati dal Concilio Vaticano II. Parte perciò da una analisi giuridica del can. 501 §1 CIC 17 per passare poi a definire la natura giuridica della potestà dominativa. Arriva quindi ad un’analisi delle principali fonti di modifica di tale potestà nel Concilio Ecumenico Vaticano II, partendo dal rescritto Cum admotae passando per la costituzione Lumen gentium ed il decreto Perfectae caritatis, arrivando infine al decreto Religionum laicalium, che si vede particolarmente legato al pensiero del Concilio stesso, pur non mancando modifiche successive e documenti che saranno ripresi nei capitoli successivi. 2.1. La tematizzazione del CIC 17: can. 501 §1 2.1.1. Le fonti Il Corpus Iuris Canonici. Le prime fonti magisteriali che trattano del tema dei religiosi in campo canonico sono le decretali pontificie. Nel Liber decretalium Gregorii IX, noto come Liber Extra, si raccolgono alcuni testi pontifici e non pontifici circa il tema «de statu monachorum et canonicorum regularium», dove troviamo riferimenti alla potestà cui è sottomesso il suddito

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(mutuato dal Corpus Iuris Civilis), che delineano lo status potestatis cui era sottoposto il religioso. […] Prohibemus quoque districte in virtute obedientiae sub obtestatione divini iudicii, ne quis de cetero monachorum proprium aliquo modo possideat; sed, si quis aliquid habeat proprii, totum in continenti resignet. Si vero post hoc proprietatem aliquam fuerit deprehensus habere, regulari monitione praemissa de monasterio expellatur, nec recipiatur ulterius, nisi poeniteat secundum monasticam disciplinam. [...]. Abbas tamen et prior frequenter inquirant et diligenter explorent, ne quis fratrum proprietatem possit habere.1

Se, dunque, il monaco non è tenuto ad avere alcuna proprietà, ma, anzi, ad essere privato di quella di cui fosse trovato in possesso, si può ben ritenere che esso sia parificabile ad un ‘servo’, che nulla poteva avere che non rientrasse nella sfera giuridica del dominus.2 Si noti che l’abate ed il priore di un monastero sono invitati a vigilare diligenter sull’uso che fanno i religiosi della proprietà, affinché non possano essere rimproverati del loro cattivo esempio.

C. VI, X, de statu monachorum et canonicorum regularium, III, 35, passim. 2 È questa la posizione del monachus est servus (cfr. par. 1.3.4), anche se essa avviene non per costrizione esterna (cfr. par. 1.1.2.) ma per libera sottomissione personale. Infatti, più oltre leggiamo: “[...] Prior autem prae ceteris post abbatem potens sit in opere et sermone, ut exemplo vitae verboque doctrinae fratres suos et instruere possit in bono, et a malo etiam revocare. Zelum religionis habens secundum conscientiam, ut delinquentes corripiat et castiget, obedientes vero foveat et confortet”. Il Superiore, come un paterfamilias, è tenuto a correggere e castigare i religiosi che abbia trovato inclini al male e ad incitare invece coloro che si siano comportati bene e che verso il bene abbiano teso. E con il suo esempio deve essere di stimolo ai monaci perché siano santi e si allontanino dal male. 1

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Ma il punto che maggiormente delinea il potere dei Superiori è il seguente: Abbas vero cui omnes in omnibus reverenter obediant, quanto frequentius poterit, sit cum fratribus in conventu, vigilem curam et diligentem sollicitudinem gerens de omnibus, ut de officio sibi commisso dignam Deo possit reddere rationem. Quodsi praevaricator ordinis fuerit aut contemptor, seu negligens aut remissus, pro certo se noverit non solum ab officio deponendum, sed et alio modo secundum regulam castigandum: quum offensa non solum propria, verum etiam aliena de suis manibus requiratur. Nec aestimet abbas, quod super habenda proprietate possit cum aliquo monacho dispensare; quia abdicatio proprietatis, sicut et custodia castitatis, adeo est annexa regulae monachali, ut contra eam nec summus Pontifex possit licentiam indulgere.

Viene qui descritta la natura del potere cui è investito il Superiore. Essa viene dall’ufficio che gli è stato affidato. La sua estensione è limitata dalla regola monacale e dalla custodia della castità cui l’abate non può in alcun modo dispensare (anzi, «nec summus Pontifex possit licentiam indulgere»). Il Superiore che venga trovato andare contro la Regola, che disturbi l’ordine o che vada in qualche modo contro l’incarico cui è stato preposto, deve essere castigato e può essere dimesso dal suo ufficio. Il che lascia supporre che egli stesso possa castigare e deporre dall’ufficio – sempre per giusta causa – i religiosi che siano trovati nella necessità di essere ripresi nel loro comportamento. Il Concilio di Trento. Nel Concilio di Trento, durante la sessione XXV, si presentò alla discussione il tema «De regularibus», in cui pure si diceva che tutti i religiosi regolari – che hanno cioè pro-

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fessato con la regola prescritta – iniziano quella vita di cui i Superiori sono tenuti curare. A riguardo, i Padri conciliari ebbero parole di lode verso le Religioni o Istituti religiosi, che vedevano come una presenza necessaria nell’economia ecclesiale e che perciò stesso cercarono di mantenere in vita ove fosse possibile. Essi affermarono la necessità che i Superiori maggiori, generali e provinciali, ponessero tanta più cura nei capitoli generali e provinciali, e pure nelle visite canoniche ai conventi, quanta più ne avessero tolta al loro tempo personale. Di ciò, vollero pure che si addivenisse ad un minor rilassamento da parte di religiosi e Superiori, andando alla sostanza, al nucleo della vita religiosa. È per questi motivi, per giungere ad una maggiore responsabilità di vita, che viene loro data la potestà sopra i sudditi e sopra le cose di cui sono in possesso. Quoniam non ignorat Sancta Synodus, quantum ex monasteriis pie institutis et recte administratis in Ecclesia Dei splendoris atque utilitatis oriatur, necessarium esse censuit, quo facilius ac maturius, ubi collapsa est, vetus et regularis disciplina instauretur, et constantius ubi conservata est perseveret, praecipere, prout hoc decreto praecipit, ut omnes regulares, tam viri quam mulieres, ad regulae, quam professi sunt, praescriptum vitam instituant et componant; atque in primis quae ad suae professionis perfectionem, ut obedientiae, paupertatis et castitatis, ac, si quae alia sunt alicuius regulae et ordinis peculiaria vota et praecepta; ad eorum respective essentiam, nec non ad communem vitam, victum, et vestitum conservanda, pertinentia, fideliter observent. Omnisque cura et diligentia a superioribus adhibeatur, tam in capitulis generalibus et provincialibus, quam in eorum visitationibus, quae suis temporibus facere non praetermittant, ut ab illis non recedatur; cum compertum sit, ab eis non posse ea quae ad substantiam regularis vitae pertinent, relaxari. Si enim illa, quae bases sunt et fondamenta totius regularis discipli-

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nae, exacte non fuerint conservata, totum corruat aedificium necesse est.3

Questa esortazione e – al contempo – disposizione del concilio Tridentino non dà definizioni circa la potestà descritta, né tanto meno dà ad essa un nome: sembra solo ammettere che vi sia o debba essere un certo livello di sottomissione da parte dei sudditi verso i Superiori, ma non per supremazia o per dispotismo, quanto per armonizzare e guidare i religiosi verso quelle stesse vette di santità cui sono destinati mediante l’emissione dei voti di obbedienza, povertà, castità. Non c’è descrizione della natura, dell’origine, dell’estensione di tale potestà. La costituzione “Conditae a Christo”. Ultima fonte – in ordine temporale – del canone 501 §1 del CIC 17 è la cost. Conditae a Christo di Leone XIII. Ivi il Pontefice dispone che, per quanto riguarda gli Istituti femminili di vita consacrata, il Vescovo indaghi4 circa la MANSI J.D., Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, vol. XXXIII. 4 Problema principale che doveva risolvere questa costituzione era la questione dei nuovi Istituti di voti semplici. Come fa notare SASTRE E.S., Una exposiciòn del arzobispo de Santiago de Compostela, José, cardenal Martìn de Herrera, origen de la Conditae a Christo, 8 diciembre 1900, in Hispania Sacra 54(2002), 256, articolo di notevole spessore: “el conflicto de gobierno: obispo diocesano – madre general supone el de mentalidad: entregar el poder a una mujer”. Infatti la novità dei nuovi Istituti doveva estendere geograficamente ciò che già i monasteri femminili avevano singolarmente, ponendo gli Istituti femminili sullo stesso piano di quelli maschili già centralizzati e con la loro autonomia. Il problema era già aperto da tempo e il Methodus del 1854 aveva cercato di dirimere la questione affermando che “el «nuevo instituto», aprobado por la Santa Sede, quedaba bajo la autoridad [non la giurisdizione] de la madre general salva Ordinariorum jurisdictione ad praescriptum Sacrorum Canonum, et Apostolicarum Constitutionum”, p. 257. 3

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retta intenzione e la vita religiosa delle consacrate «et ante suscipiendum habitum et ante professionem emittendam», così come è stato anche sollecitato dal concilio di Trento. Candidatos cooptare, eosdem ad sacrum habitum vel ad profitenda vota admittere, partes sunt Praesidum sodalitatum; integra tamen Episcopi facultate, a Synodo Tridentina tributa5, ut, quum de feminis agitur, eas et ante suscipiendum habitum et ante professionem emittendam ex officio exploret. Praesidum similiter est familias singulas ordinare, tirones ac professos dimittere, iis tamen servatis quaecumque ex instituti legibus pontificiisque decretis servari oportet. – Demanandi munera et procurationes, tum quae ad universam sodalitatem pertinent, tum quae in domibus singulis exercentur, Conventus seu Capitula, et Consilia propria ius habent. In muliebrium autem sodalitatum Conventibus ad munerum assignationem, Episcopus, cuius in dioecesis habentur, per se vel per alium praeerit, ut Sedis Apostolicae delegatus.6

Qui viene pure affermato che è diritto dei Capitoli nominare i religiosi in quegli incarichi rivolti all’Istituto universale, quando siano Istituti maschili. Nel caso, invece, di Istituti femminili, è il Vescovo della cui diocesi l’Istituto fa parte, come delegato della Santa Sede, ad essere supervisore per l’attribuzione e la nomina di religiose negli uffi5 Sess. XXV, cap. XVII, De regul. Et monial.: “libertati professionis virginum Deo dicandarum prospiciens Sancta Synodus, statuit atque decernit, ut si puella, quae habitum regularem suscipere voluerit, major duodecim annis sit, non ante suscipiat, nec postea ipsa, vel alia professionem emittat, quam exploraverit episcopus, vel eo absente vel impedito, eius vicarius, aut aliquis eorum sumptibus ab eis deputatus, virginis voluntatem diligenter, an coacta, an seducta sit, an sciat quid agat...”. 6 LEONE XIII, const. Conditae a Cristo, 8 dec. 1900, §2, n. I.

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ci di carattere universale o generale.7 Questa costituzione, perciò, risolve il problema giuridico ponendo ben separati da un lato Istituti di diritto diocesano e di diritto pontificio, dall’altro potestà di giurisdizione dell’Ordinario e potestà dominativa della Superiora. Per i diocesani, sotto il controllo dei Vescovi, sarà l’Ordinario a vigilare sulla condotta interna, spirituale, morale, economica; per i pontifici, a carattere centralizzato, direttamente sotto la potestà del Romano Pontefice mediata dal Superiore religioso, Vd. SASTRE E.S., La constituciòn apostolica Conditae a Cristo, 8 dicembre 1900: el trionfo de la Superiora general, in CpR 81(2000), 351, in cui cita la relazione del card. Gotti, prefetto della SCRIS: “Due sono pertanto le categorie di nuovi Istituti a voti semplici: Congregazioni approvate solamente dall’Autorità episcopale e dette comunemente diocesane; e Congregazioni nelle quali già è intervenuta la Santa Sede, sia esaminandone le Costituzioni, sia concedendo decreti di lode o di approvazione all’Istituto. […] Trattandosi dei primi, i quali hanno esistenza e statuti unicamente in forza di decreti di Vescovi, era più agevole il determinare la loro dipendenza dagli Ordinari; perché questa dipendenza è manifestamente più ampia ed è soggetta appena a qualche restrizione per ciò che riguarda le dispense dai voti perpetui. [… Riguardo ai secondi] 1° è riservata e sanzionata esplicitamente la potestà di giurisdizione di tutti i Vescovi, e ciò s’intende restrittivamente alle case che ciascuno ha in Diocesi; 2° la potestà però dominativa di governo e di amministrazione generale è invece conferita ad uno solo, cioè, al Superiore generale, a norma, ben inteso, delle Costituzioni dell’Istituto. Perciò il Superiore o la Superiora generale ha realmente potere governativo ed economico su tutto l’Istituto in genere e sulle singole case del medesimo in specie…”. Ma se, come afferma ancora SASTRE, Il posto della costituzione Conditae a Cristo, 8 dicembre 1900, nella storia giuridica dello stato religioso, in Informationes SCRIS 26/1(2000), 131, “l’Istituto di diritto pontificio rimane sotto l’autorità dell’ordinario come pastore diocesano, i suoi affari interni però cadono sotto la potestà dominativa della madre generale a tenore delle costituzioni approvate dalla Santa Sede”, allora non si capisce come possa una potestà di ordine meramente privato e inferiore prevalere su un ufficio che riveste potestà ben superiore nella Chiesa, quella di regime. 7

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l’Ordinario vigilerà esclusivamente circa la pastorale sia interna che esterna.8 2.1.2. La prospettiva del CIC 17 Con la promulgazione del Codex Juris Canonici del 1917 si stabilisce che nel sinallagma ‘Superiore maggiore’ siano compresi l’abate primate, l’abate superiore delle congregazioni monastiche, l’abate di un monastero sui iuris, il supremo Moderatore di una Religione, il Superiore di una provincia religiosa, i loro vicari.9 Il legislatore, che ha sempre tenuto in grande stima la legislazione circa i religiosi in considerazione della loro particolare posizione nella Chiesa, prendendo in esame il tema del governo degli stessi, delinea la stessa potestà dei Superiori religiosi nel c. 501 §1, sotto il titolo X, De Religionum regimine al cap. I, De Superioribus et de Capitulis: Superiores et Capitula, ad normam constitutionum et iuris communis, potestatem habent dominativam in subditos; in religione autem clericali exempta, habent iurisdictionem ecclesiasticam tam pro foro interno, quam pro externo.

È evidente che in questo canone non si descrive esplicitamente la natura della potestà dominativa; certamente, se ne afferma l’esistenza per argomento inverso, cioè provando i soggetti attivi e passivi di tale esercizio d’autorità, senza però anche minimamente addentrarsi nella estensione o nell’ambito di applicazione di questa stessa. Cfr. SASTRE, Il posto della costituzione, 132-133. Cfr. DEL GIUDICE V., Istituzioni di Diritto Canonico, 311. È il c. 488, n.8: “Superiorum maiorum, Abbas Primas, Abbas Superior Congregationis monasticae, Abbas monasterii sui iuris, licet ad monasticam Congregationem pertinentis, supremus religionis Moderator, Superior provincialis, eorundem vicarii aliique ad instar provincialium potestatem habentes”. 8

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Soggetto attivo risultano essere i Superiori ed i capitoli (generali e provinciali, nonché conventuali). Quella dominativa è la potestà che investe il religioso, il suo proprio stato religioso ed i Superiori religiosi. Ma ciò che il Codice omette di specificare è veramente considerevole: natura, origine e fondamento, coercibilità. D’altronde, quello che il CIC 17 stesso tralascia, non può essere distinto né arguito. Possiamo affermare che tale potestà è propria di tutti i Superiori religiosi, maggiori e minori, e che, perciò, tutti devono possederla, anche se in gradi diversi e secondo diversi livelli di superiorità, in base alla partecipazione che ne hanno in capo alla Chiesa e che viene loro concessa dalle costituzioni e dagli statuti dell’Istituto.10 In secondo luogo, il legislatore ha stabilito il soggetto che è tenuto alla soggezione a questa stessa potestà, cioè i sudditi. Questa determinazione esclude coloro che non sono sudditi in senso giuridico, ovvero coloro che non hanno emesso la professione dei voti (sia essa temporanea o perpetua) in una Religione, in un Istituto. Ciò riveste notevole valore in quanto al tempo della promulgazione del CIC 17 ancora era in vigore la figura dell’oblato, che fu successivamente abolita dal Concilio Vaticano II: su di essi, dunque, i Superiori religiosi non avevano potestà di tipo dominativo, anche se esercitavano in loro altre forme di potere. Circa l’ambito di esercizio di questa, può esservi vista una applicazione sia diretta che indiretta sulla stessa persona del suddito, in quanto un comando dato in vista del bene della comunità può essere visto, indirettamente, come bene pure per il singolo. Infatti, in tale atto di potestà

10 Cfr. TABERA ARAOZ A.-DE ANTOÑANA M.-ESCUDERO G., Derecho de los religiosos: manual teorico pratico, 72.

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si può includere la potestà dominativa, cui il suddito è sottoposto direttamente al Superiore.11 In linea generale, il Superiore poteva imporre precetti (anche comuni e perpetui) e fare ricorso a rimedi penali; poteva imporre penitenze; poteva concedere dispense riguardanti la regola e le costituzioni; poteva imporre pene in relazione al diritto proprio dell’Istituto, come, ad esempio, deporre da una carica, privare della voce attiva e passiva, richiamare da un incarico pubblico, …12 La potestà dominativa, perciò, compiva il suo fine proprio ogni momento in cui era volta a conseguire il bene comune direttamente, ma anche quando si volgeva verso il bene particolare del singolo, del religioso. In entrambe queste facce dello stesso potere, si realizzava, infatti, il fine stesso della società imperfetta, di qualsiasi categoria essa facesse parte.13 Restava dunque da capire in cosa traesse origine la potestà dominativa: se dai voti, dalla traditio, dalla società giuridica, da altre fonti. Questo avrebbe potuto chiarificare l’ambito di estensione della potestà stessa, se fosse cioè stata di carattere privato o pubblico. Cfr. KINDT, De potestate dominativa, 260. Esplicazione di tale potestà era l’esercizio di questa stessa verso i religiosi nel campo della vita sacramentale (ultimi sacramenti, funerali,…) e religiosa (santificazione personale, religiosa e, per chi lo era, sacerdotale). Fornendo ai Superiori i mezzi per governare socialmente l’Istituto, dava loro pure l’autorità per governare il corpo istituzionale, per l’amministrazione dei beni, … Si lasciava al diritto particolare la facoltà di armonizzare le disposizioni del diritto comune con le esigenze dell’Istituto. 12 Cfr. DESDOUITS, Potestà dominativa, in DIP, vol. VII. 13 Cfr. CABREROS DE ANTA, La potestad dominativa y su ejercicio, 59. Di pari passo, non possiamo affermare che questa condivisione di vita sia di carattere giuridico-volontario: non sono i soggetti facenti parte della società religiosa a stipulare un “contratto” di coesione e di coesistenza giuridicizzata. 11

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2.2. La natura giuridica della potestà dominativa La natura giuridica della potestà dominativa è emersa particolarmente nell’esposizione del pensiero del Suàrez, che abbiamo trattato al 1.4.3. Tale giuridicità si esplica particolarmente nella origine non amicale delle società religiose, Congregazioni, Istituti, Ordini. È una vera e propria espressione di autorità, che si esprime nel diritto di governare l’Istituto, parte di esso, il suddito. Questa potestà esiste anteriormente e indipendentemente dalla stessa volontà di ogni suddito, anche del Superiore stesso, e dell’insieme di tutte le volontà dell’Istituto.14 Al contempo, questa potestà è di carattere pubblico, anche se precedentemente al CIC 17 si usava definire pubblica la sola potestà proveniente da una società perfetta, e privata quella avente origine dalle società imperfette, quali erano appunto considerate gli Istituti religiosi. Generalmente, la potestà pubblica veniva anche definita potestà di giurisdizione, in quanto rendeva abili a governare la Chiesa in tutto o in parte (sia a livello territoriale che personale). Successivamente al CIC 17, la potestà dei Superiori religiosi fu parificata o – meglio – ritenuta prevalentemente di carattere pubblico, così come è pubblica la società che sono chiamati a reggere: infatti, gli Istituti o Congregazioni vengono costituite dall’autorità della Chiesa, perché vi si possa professare uno stato di vita religioso pubblico. Tale pubblicità fa sì che non possa esistere altra forma di consacrazione al di fuori di quella costituita dalla Chiesa stessa.15

14 Cfr. TABERA ARAOZ A.-DE ANTOÑANA M.-ESCUDERO G., Derecho de los religiosos: manual teorico pratico, 70. 15 Cfr. TABERA ARAOZ A.-DE ANTOÑANA M.-ESCUDERO G., Derecho de los religiosos: manual teorico pratico, 70.

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Ora, dopo aver osservato ciò che per san Tommaso è l’origine della potestà in genere, cioè, il diritto naturale, ed aver definito che la potestà risulta necessaria perché la società sussista e tenda al fine proprio, appare più evidente come ‘la causa giuridica della società e la causa giuridica della potestà coincidano’. Il diritto che origina la società non può che essere lo stesso che origina la potestà ad essa legata.16 In questo modo, ciò che contraddistingue le varie forme di potestà, non sarà più la loro ‘estensione dominativa’, il loro campo di azione, quanto piuttosto l’origine della società stessa. Seguendo perciò la logica del CIC 17, distinguiamo tra società perfetta (quella il cui fine è un bene completo raggiungibile tramite i mezzi legittimi della stessa) e società imperfetta (quella che tende verso un fine incompleto perché rimanda ad un altro fine superiore o è ad esso subordinata). La prima sarà dunque autosufficiente ed autonoma; la seconda, invece, dipendente da altra società ad essa superiore. La società imperfetta può essere amicale o giuridica; se giuridica, può essere ancora volontaria (se il vincolo che lega i suoi componenti è di origine privata) o necessaria (se il vincolo che lega i suoi componenti è stabilito secondo una legge superiore); se società imperfetta giuridica necessaria può ancora essere necessaria simpliciter (se si deve abbracciare necessariamente) o necessario-volontaria (se non si deve abbracciare necessariamente), atteso che in entrambi i casi essa trae origine dalla legge.17 16 “Inde fluit ius seu auctoritas, unde orta est societas”; OTTAVIANI A., Institutiones Juris Publici Ecclesiastici, Roma 1956, vol. I. 17 Generatim saltem si possono individuare tre tipi di società: 1. le società giuridiche volontarie: nascono unicamente dalla volontà dei soci e, in base a ciò che essi stessi hanno stabilito, sono rette da ob-

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A quest’ultimo tipo, necessario-volontaria, appartengono tutti gli Istituti e Religioni e proprio da questa categoria, il card. Larraona definisce la potestà dominativa come ius regendi societatem iuridicam necessario-volontariam et universalem ab Ecclesia Suprema Auctoritate erectam et approbatam, ut statum publicum religiosum plene, statum vero clericalem religioso adiunctum magna ex parte contineat ac moderetur, fideles qui religionem amplectuntur, singillatim et quatenus corpus constituunt, ad christianae caritatis perfectionem efficaciter dirigendo18.

Perciò questa potestà è caratterizzata dal fatto di essere di origine ecclesiastica, non divina; essa è propria in via primaria del Romano Pontefice e dei Vescovi, che la demandano poi con l’approvazione dell’Istituto ai Superiori religiosi, in via secondaria; è famigliare, però al contempo autoritativa (per la sua nota di sudditanza); per volere ecblighi e diritti; si sciolgono secondo l’intenzione dei membri ma sono comunque riconosciute dalla legge; 2. le società giuridiche necessarie simpliciter (sia perfette sia imperfette): dipendono dalla legge per quanto concerne gli obblighi ed i diritti, la costituzione e la potestà; perciò non possono essere soppresse dalla volontà dei soci e, in quanto necessarie, devono essere abbracciate da tutti, senza possibilità di cambiamenti volontaristici; 3. le società giuridiche necessario-volontarie: dipendono dalla legge circa gli obblighi ed i diritti (che non nascono dai sudditi); tuttavia, l’ingresso in esse è libero (condizione, questa, perché su chi entra a farvi parte si possa esercitare la potestà di cui sono investite), ma non la loro estinzione, che viene fatta solo tramite decreto abrogativo del legittimo Superiore; la potestà, che in queste società è esercitata, è di origine legale, perciò è più ampia della somma delle soggezioni dei soci (e gli statuti fondamentali che siano stati approvati dalla legge, vengono modificati con il consenso di questa) e può andare contro la volontà di questi stessi soci (i Superiori possono costringere i soci che si ribellino). 18 LARRAONA, De potestate dominativa publica, p. 161.

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clesiastico, è propria esclusivamente dell’Istituto religioso; è ipotetica, perché i membri volontariamente si sottomettono alla Religione; è integrale, perché rivolta all’uomo nella sua totalità e inoltre personale, perché non limitata al luogo di incardinazione, ma può essere rivolta solo verso i sudditi della famiglia religiosa; è svolta in relazione al fine e scopo dell’Istituto che è posto a servizio della Chiesa. Dobbiamo inoltre rilevare che tale potestà, in quanto proveniente dalla Chiesa stessa, è pubblica e giurisdizionale, a differenza di quanto affermavano gli autori presi in esame nel primo capitolo, dal Suàrez al Kindt.19 Della natura della potestà dominativa risulterà utile analizzare il soggetto attivo e passivo, nonché soprattutto l’oggetto, preso nella sua ampiezza e vincolatività. 2.2.1. Il soggetto della potestà dominativa Il soggetto attivo è definito come colui che regge i membri di una società imperfetta ecclesiastica in foro esterno (in quanto è volta al bene della società direttamente e della Chiesa indirettamente).20 Ma gode anche del potere sui beni della società stessa. Esercita la sua potestà finché la persona in soggezione appartiene come membro a quella società o fino a quando permanga nella posizione giuridica di potestà. In esso possono coesistere la potestà giurisdizionale e la potestà dominativa allo stesso tempo. Possiamo Cfr. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa, 266-268. La caratteristica di pubblicità è stata trattata nel par. 1.6.; quella di giurisdizionalità sarà ripresa più oltre, in quanto di fondamentale importanza per la trattazione della potestà. 20 Cfr. CABREROS DE ANTA M., La potestad dominativa y su ejercicio, 82. Afferma invece VERMEERSCH A., De religiosis Institutis et personis, Bruge 1902, 239-240, che «utraque potestas regit personas et res; verum jurisdictio est fori tam interni quam externi pubblici, dum potestas dominativa exercetur in foro privato sed non mere interno. [...] Potestas dominativa repeti potest ex jure naturali hypothetico”. 19

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individuare queste particolari figure che godono di potestà dominativa: il parroco ed equiparati, il vicario parrocchiale, i rettori di chiese, il rettore e il superiore del seminario, i Capitoli ed i Superiori degli Istituti religiosi e secolari; i maestri dei novizi (esercitano la potestà su soggetti che non hanno ancora emesso i voti), il direttore di una associazione ecclesiastica costituita legittimamente.21 Per quanto attiene, invece, al soggetto passivo, lo si definisce come colui che sta nella posizione giuridica di soggezione verso il soggetto attivo, sia esso presente o assente dal territorio (in quanto la potestà dominativa è di carattere personale). Infatti, la forza del precetto cui è sottomesso è indipendente dal territorio e segue il soggetto passivo «velut umbra corpus».22 Tuttavia, il soggetto passivo può pure essere una comunità: in tal caso il carattere della potestà dominativa sarà territoriale e non più personale. Perciò, nella categoria del soggetto passivo si trovano: i servi ed i familiari con quelli che dimorano in una casa, coloro che sono alle dipendenze del Superiore o direttore per ragioni di studio, di educazione, di malattia. Tra questi si colloca pure il pellegrino, fintantoché si trovi nel territorio del soggetto dominante e per quelle materie in cui detto soggetto possa esercitare su di lui potestà.23 2.2.2. L’oggetto della potestà dominativa Per quanto concerne l’oggetto, la potestà dominativa, che spieghiamo qui dal punto di vista precettivo, può inPer TABERA ARAOZ A.-DE ANTOÑANA M.-ESCUDERO G., Derecho de los religiosos: manual teorico pratico, Madrid 1962, 84: “compete esta potestad a todos los Superiores, mayores o menores, hombres o mujeres”. Cfr. CABREROS DE ANTA M., La potestad dominativa y su ejercicio, 83. 22 CABREROS DE ANTA M., La potestad dominativa y su ejercicio, 89. 23 Cfr. CABREROS DE ANTA M., La potestad dominativa y su ejercicio, 83-84. 21

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teressare sia atti interni riguardanti atti esterni, sia atti meramente esterni. Circa gli atti interni, il soggetto investito di potestà può emettere precetti che riguardano il foro interno ma che si esplicheranno in atti esterni (non invece atti che siano di carattere meramente interno). Tali atti possono essere di natura meramente accidentale (come può essere una penitenza imposta che il religioso adempia poi con un digiuno corporale) o invece di natura sostanziale e necessaria (come può essere l’imposizione di una confessione).24 Quanto poi ai precetti che il soggetto attivo può emanare, essi devono essere rivolti agli atti esterni o almeno a questi essere relazionati per poter avere quel carattere sociale di cui sono investiti.25 In tal modo, i precetti avran-

Taluni sembrano negare la possibilità assoluta di una imperatività per gli atti interni, ma ciò può essere riaffermato in quanto la Chiesa, godendo di potestà giurisdizionale vicaria, esercita potestà pure sugli atti interni quali possono essere l’assoluzione o la negazione di essa, le indulgenze, etc. Tale potestà è vicaria perché esercitata in nomine Christi; tuttavia, nel caso della potestà dominativa, non è più vicaria ma propria, perché esercitata per il bene stesso del soggetto passivo in vista del fine dell’Istituto, bene che si deve volere principalmente nell’ambito interno, per poi poterlo esplicare all’esterno. TABERA ARAOZ A.DE ANTOÑANA M.-ESCUDERO G., Derecho de los religiosos: manual teorico pratico, Madrid 1962, 84: “... la potestad afecta al religioso en lo que mira a la vida cristiana: ùltimos sacramentos, funerales, etc.; en lo que mira a la vida religiosa, todo lo que cae bajo el voto de obediencia y toda la actividad del Superior, ordenada inmediatamente a la santificaciòn personal religiosa y sacerdotal de sus subordinados”. 25 Cfr. CABREROS DE ANTA M., La potestad dominativa y su ejercicio, 86. Ciò non esclude, comunque, che il soggetto attivo possa dare consigli o esortazioni al soggetto passivo, le quali, se non hanno forza vincolante, godono tuttavia di un notevole influsso morale. GOYENECHE S., Quaestiones canonicae de iure religiosorum, vol. I, Napoli 1954, 118: “Superiores vi potestatis dominativae posse subditos deficientes in regulari observantia punire «modo paterno et iuxta regular»”. 24

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no come oggetto un atto a loro adeguato. A motivo dell’autorità da cui promanano, tali consigli sono definiti autoritativi e possono riguardare anche atti meramente interni; hanno origine da qualsiasi tipo di potestà e vincolano in forza del voto di obbedienza e della volontà del Superiore, perciò la loro osservanza è di origine volontaria, non necessaria (nelle Religioni sono di gran lunga più frequenti rispetto ai precetti).26 Per quanto riguarda gli atti passati, normalmente i precetti riguardano il presente o il futuro, perciò gli effetti degli stessi che siano avvenuti nel passato non si revocano. Tuttavia, possono essere modificati per quanto attiene il futuro nel rispetto del bene comune: i diritti acquisiti non intaccano la capacità giuridica se vengono modificati, in quanto da questa si differenziano perché gli uni nascono da un fatto proprio, l’altra nasce per volere della legge.27 Circa l’estensione temporale del precetto, dobbiamo distinguere tra precetti giurisdizionali e precetti dominativi. Quelli giurisdizionali (imposti ad una comunità) non si estinguono con il venir meno del Superiore che li ha posti (cfr. c. 24 del CIC 17); tuttavia, se sono imposti ad un Cfr. CABREROS DE ANTA M., La potestad dominativa y su ejercicio, 87. Oltre agli atti interni, la potestà dominativa può vincolare all’esecuzione di atti eroici (tali sono quelli che “exigen un esfuerzo extraordinario de la voluntad, superior al que los varones fuertes suele imponerse”). Così è quando l’autorità emana un precetto collettivo, che sia adempibile dalla maggior parte dei soggetti sia a livello fisico che morale, ma che per alcuni soggetti risulti particolarmente oneroso, straordinario (in questo caso, generalmente questi soggetti sarebbero esentati dall’osservare tale tipo di precetto, a meno che la forma di vita da loro abbracciata non imponga tale tipo di obbedienza e soggezione). In tal senso, è bene che il Superiore valuti sempre con cautela l’imposizione di simili atti, che siano veramente e solidamente motivati dal bene comune. 27 Cfr. CABREROS DE ANTA M., La potestad dominativa y su ejercicio, 88. 26

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singolo o a più singoli congiuntamente, anche questi precetti cessano per le cause di cessazione della potestà del Superiore. Quelli dominativi, a causa del loro fondamento nella relazione tra Superiore e suddito, cessano istantaneamente con il venir meno della potestà del Superiore che li ha imposti (sono di questo tipo i precetti dominativi privati).28

2.3. Il rescritto Cum admotae Il rescritto pontificio Cum admotae29 è uno dei primi frutti dei lavori e delle innovazioni apportate dal Concilio Cfr. CABREROS DE ANTA M., La potestad dominativa y su ejercicio, 92-94. Tuttavia, oltre a questi tipi di precetti, di origine privata, dobbiamo considerare pure quelli di origine semipubblica, che sopravvivono alla cessazione di potestà del Superiore e, perciò, cessano con un nuovo precetto o con una legge. 29 6 novembre 1964, AAS 59(1967), 374-378. La bibliografia circa il rescritto è ricca ed abbondante. Si citano in via esplicativa: GAMBARI E., Speciali facoltà dei Superiori generali, in VitRel 3(1965), 19-38; 4(1965), 3-23; 5(1965), 23-34; 6(1965), 26-44; 2(1966), 115-124; 211226; dello stesso autore, F acoltà speciali dei Superiori Generali, Milano 1965; PUGLIESE A., Commentarius ad rescriptum pontificium “Cum admotae”, 6 nov. 1964 et ad decretum “Religionum laicalium”, 31 maii 1966, in MonEccl 23(1968); FUERTES J., Commentarium in rescriptum pontificium «Cum admotae»,, in CpR 44(1965), 225-242; 313- 324; 45(1966), 4069; 171-177; GUTIÉRREZ A., Commentarium in rescriptum pontificium «Cum admotae», in CpR 44(1965), 8-26; 106-110; 210-224; LARRAONA A., Commentarium in rescriptum pontificium «Cum admotae», in CpR 44(1965), 302-312; LEE I., Commentarium in rescriptum pontificium «Cum admotae», in CpR 44(1965), 27-84, 115-229; OCHOA X., Commentarium in rescriptum pontificium «Cum admotae», in CpR 44(1965), 324-344; TORRES J., Commentarium in rescriptum pontificium «Cum admotae», in CpR 44(1965), 119-142, 243-247; DÌEZ A., Commentarium in rescriptum pontificium «Cum admotae», in CpR 45(1966), 364-372; 46(1967), 59-66. Inoltre, BUIJS L., Facultates religiosorum concessae re28

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Ecumenico Vaticano II circa i religiosi, che si inseriscono comunque nel contesto di sviluppo e progresso continuo della Chiesa. Presentato alla 127a congregazione generale dello stesso Concilio, il 6 novembre 1964, esso viene a delegare alcune facoltà ai Moderatori supremi degli Istituti clericali di diritto pontificio, nonché agli Abati presidenti delle Congregazioni monastiche, a partire dal giorno 21 dello stesso mese. Il rescritto è diviso in tre parti: introduzione, elenco delle facoltà concesse, soggetto ed estensione delle stesse facoltà e loro uso. Non vi è espresso un limite temporale circa queste facoltà, che perciò sono concesse fino ad una eventuale revoca espressa. Esse, generalmente, sono un potere conferito ad un soggetto determinato dall’autorità competente per compiere determinati atti che hanno conseguenze giuridiche; hanno perciò una notevole ampiezza di significato.30 In particolare, nel Cum admotae, danno il potere di dispensare dall’osservanza di certe leggi, di autorizzare atti per i quali normalmente si ricorre alla licenza scripto pontificio diei 6 novembris 1964, Roma 1965; BELLUCO B.I., Facultates Superiorum Religiosorum Rescr. Pont. d. 4 nov. 1964 concessae cum adnotationibus, Roma 1966. 30 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 19. In BUIJS, Facultates Religiosorum, 3, la facoltà è “quaelibet potestas aliquid valide, licite aut tuto agenda”. Essa è una posizione giuridica attiva che la libertà della persona opera per attuare un interesse; così CIPROTTI P. Lezioni di diritto canonico, Roma 1943. GUTIÉRREZ, Commentarium in Rescriptum, 46 (1965), 15, afferma invece che, in questo caso, facoltà va preso in senso ampio, inteso come “ius seu potestas aliquid agendi ex peculiari concessione vel legis vel superioris ecclesiastici per actum specialem, quod sine tali concessione peragi non posset vel valide vel licite vel tuto”. Certamente possono essere dette facoltà delegate (in quanto non concesse per diritto ma per un atto particolare del legislatore), abituali (concesse a tempo indeterminato), alcune giurisdizionali (quelle che dispensano da una legge), alcune non giurisdizionali; cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 10. Dello stesso avviso BELLUCO, Facultates Superiorum, 23-24.

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della Santa Sede o ad un suo intervento, di compiere atti che per il CIC 17 non rientrerebbero nella sfera di potestà del Moderatore. Sono perciò facoltà delegate, cioè date dall’autorità ad un soggetto che non ne avrebbe la competenza normalmente. Quanto poi al fatto che siano delegate e non ordinarie, la delega è fatta non ad un singolo atto, bensì ‘ad universitatem negotiorum’; tuttavia, non sono date all’ufficio del supremo Moderatore (nel qual caso non si tratterebbe di facoltà delegate, ma ordinarie), bensì direttamente alla sua persona (nota caratteristica della delega stessa): l’autorità, che permette ai Superiori generali di governare, viene loro dal Romano Pontefice o tramite il codice o tramite la volontà diretta, come è in questo caso. Queste facoltà vengono date in base all’ufficio che i Superiori ricoprono e per questo, non appena ne divenga titolare un altro soggetto, tutti coloro che ne sono investiti ne godono. È un’ulteriore prova dell’applicazione del principio di sussidiarietà che ha animato il Concilio Ecumenico Vaticano II.31 Il rescritto nella versione a noi pervenuta consta di 19 facoltà: infatti, la prima emissione era composta di 21 facoltà, ma successivamente ne furono tolte due che permettevano ai Moderatori di lasciar sostituire ad un suddito la recita dell’Ufficio divino con qualche altra pia pratica e di recitarlo in volgare se vi era il consenso del Consiglio.32 Queste facoltà, come si evince dall’introduzione al rescritto stesso, sono state concesse in seguito alle continue richieste dei Superiori generali. Segue perciò alcuni principi sostanziali: in primo luogo, le concessioni fatte dal Cfr. GAMBARI , Speciali facoltà, 3(1965), 28-29. Tale cambiamento fu dovuto semplicemente perché erano già state concesse tali facoltà dall’Istruzione (nn. 79, 86-87) che dava le disposizioni di attuazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla liturgia. Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 20. 31

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Romano Pontefice sono date in vista di un più agile esercizio dell’ufficio di Moderatore supremo e di Abate preside, dato che emerge dalla frequenza con cui tali casi erano già portati presso le Congregazioni; in secondo luogo, esse riguardano essenzialmente il regime interno dell’Istituto (a norma del can. 618 §2 CIC 17), senza toccare la sfera dei diritti-doveri degli Ordinari del luogo; terzo, in sintonia con il m.p. Pastorale munus [30 novembre 1963, AAS 56(1964), 5-12], non si intromette nella giurisdizione e nel campo di governo degli stessi Ordinari del luogo; da ultimo, ma non per importanza, è da notarsi la fiducia che il Romano Pontefice nutre nei confronti degli Istituti religiosi dando loro una maggiore responsabilità proprio perché agiscono in nomine ecclesiae.33 A riguardo del secondo punto, nel documento sono ben distinti i negozi di ordine interno ed esterno. A quelli interni si riferisce il rescritto e riguardano il Superiore religioso: circa la vita religiosa in quanto tale, circa la vita cristiana in generale e l’esercizio del ministero che non sia diretto ai fedeli secolari. Viene cioè irrobustita l’autorità del Superiore religioso, sotto triplice aspetto: cristiano, clericale, religioso.34 Se, dunque, da un punto di vista evolutivo, vi è stato progresso per quanto attiene l’esenzione in ordine interno, non così in ordine esterno dove si può notare un regresso (che comincia – ad eccezione che per i Regolari – dal con-

Dal testo del rescr. pontificio, nell’introduzione, emergono solo due motivazioni: “Religionum internum regimen promptius efficeret; [...] Religionibus ipsis meritum suae propensae voluntatis testimonium tribueret”. Le altre sono poste nell’articolo di GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 26-27, probabilmente guardando al simile m.p. Pastorale munus. Vd. GUTIÉRREZ, Commentarium in Rescriptum, 11. 34 Si osserva il principio “negotia interna reservantur Superioribus internis”; GUTIÉRREZ, Commentarium in Rescripto, 212. 33

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cilio di Trento e viene poi recepito nel CIC 17): anche il Concilio Ecumenico Vaticano II applica questo principio generale secondo cui tutti questi negozi di ordine ministeriale, culto e apostolato in genere dipendono strettamente dall’Ordinario del luogo. Resta comunque il problema dei negozi di ordine misto, dove si tratterà di individuare la parte leonina e quella minoritaria.35 È da notarsi che il rescritto Cum admotae viene a fare quasi da complemento al m.p. Pastorale Munus, dato che emerge dalla particolare somiglianza intercorrente tra i due documenti (specialmente perché formati entrambi principalmente da un elenco di facoltà concesse dal Romano Pontefice in entrambi i casi). 2.3.1. Soggetto attivo Il soggetto attivo si distingue in ordinario e straordinario, ma perché possa godere delle facoltà del rescritto deve possedere tre requisiti: avere l’ufficio di Moderatore supremo (o Preside di una congregazione monastica);36 essere a capo di una Religione clericale; si richiede inoltre che

Cfr. GUTIÉRREZ, Commentarium in rescripto, 212-213. È colui che “potestatem obtinet in omnes provincias, domos, sodales religionis, exercendam secundum constitutiones”, can. 502 CIC 17. Il rescritto è rivolto, perciò, ai Superiori generali delle Religioni clericali di diritto pontificio (can. 488, 1°, 4°) ed agli Abati presidi delle Congregazioni monastiche e canonicati (can. 488, 2°, 8°), nonché ai Superiori generali delle Società clericali senza voti pubblici di diritto pontificio, i cui membri vivano in comune (can. 683 §§1-2); tali facoltà sono pure concesse ai Superiori generali degli Istituti secolari clericali di diritto pontificio (can. 488, 3°). Non vi sono distinzioni circa il rito liturgico cui appartengano né si fa menzione della loro eventuale dipendenza dalla Congregazione per le Chiese Orientali o per l’Evangelizzazione dei Popoli o per i Vescovi o per i Religiosi ed Istituti secolari. 35

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tale Religione sia di diritto pontificio.37 L’essere o meno di diritto pontificio, invece, va inteso secondo il can. 488, 3° e verificando l’eventuale approvazione ottenuta da parte della Santa Sede (o eventualmente, il decreto di lode da parte della stessa; non sarebbe invece sufficiente il pro-decreto che non arriva a mutare lo stato giuridico dell’Istituto).38 Non sono da considerarsi soggetti attivi delle facoltà del rescritto i Superiori non generali o non presidi di una Congregazione monastica; i Superiori provinciali o i Superiori di organismi equiparati alle province religiose; gli abati dei monasteri sui iuris (abati locali); i Superiori locali; i Superiori, provinciali e generali, di Congregazioni clericali ma di diritto diocesano e, infine, i Superiori generali di Religioni e Congregazioni non clericali, anche se siano di diritto pontificio e siano sacerdoti. A costoro sono equiparati – e perciò non godono di tali facoltà – i Vicari generali in ‘sede plena’ (chiamato a sostituire il Superiore generale qualora sia impedito nell’esercizio del suo ufficio o sia assente per giusta ragione), anche se cause di una prolungata assenza nell’esercizio dell’ufficio possono portare alla delega (tuttavia questa non avviene ipso facto, ma necessita di una concessione espressa che risulti in forma esplicita e che perciò sia scritta) permanente o temporanea di determinate facoltà ed, in tal caso, sarà possibile anche la sudIl carattere della “clericalità” dell’Istituto sarà valutato secondo il can. 488, 4°: “religio cuius plerique sodales sacerdotio augentur; secus est laicalis”. GAMBARI , Speciali facoltà, 3(1965), 29, lo vorrebbe valutato soprattutto con la definizione della natura dello stesso Istituto così come si trova nelle costituzioni e non semplicemente secondo il numero dei chierici e dei laici. Ma ciò sarà attuato solo con il CIC 83. 38 Per quanto riguarda, invece, le Religioni, le Società, gli Istituti secolari che siano laicali, le facoltà concesse sono presenti nel decreto Religionum Laicalium, del 31 maggio 1966, che analizzeremo in seguito. 37

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delega di tutte o parte delle facoltà a seconda delle necessità; i delegati del Superiore generale per aree delimitate (province o conferenze di province); i visitatori generali, nonostante possano esercitare l’ufficio in maniera permanente; tutti coloro che esercitano la loro potestà per una delega e che perciò non sono Superiori stricto sensu; infine, coloro che esercitano la loro potestà ma non internamente all’Istituto e per il suo regime interno, quali sono gli Ordinari del luogo, vescovo ed equiparati.39 Sapendo che tali facoltà non vengono concesse all’ufficio ma direttamente alla persona che lo ricopre, notiamo che queste non richiedono nel delegato delle qualità specifiche, se non che sia stato costituito nel suo ufficio in maniera legittima, secondo il diritto universale e proprio. Ne consegue che non vi sia alcun impedimento perché tali facoltà passino in capo al successore nell’ufficio di Superiore generale, proprio perché non legate a caratteristiche proprie del soggetto precedente, ma esclusivamente al fatto di ricoprire un ufficio determinato. La suddelega è possibile solo con il consenso del Consiglio generale e solo verso i Superiori maggiori della stessa Religione.40 Vi possono essere anche altri soggetti attivi di queste stesse facoltà, ma solo in via transitoria. È il caso, infatti, di coloro che esercitino la potestà del supremo Moderatore e dell’abate preside in caso di sede vacante dello stesso.41 Cfr. GAMBARI , Speciali facoltà, 3(1965), 30. Eccetto quanto riguarda la facoltà 12, dove per motivi pastorali, per quando riguarda la facoltà di delegare la possibilità di ascoltare le confessioni dei novizi e dei membri di coloro che sono nella casa a sacerdoti anche esterni all’Istituto, secolari e non, si dice espressamente che questa può essere successivamente suddelegata anche ai Superiori locali dello stesso Istituto. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 429. 41 L’ufficio di Superiore generale può essere vacante per morte, per rinuncia accettata dalla competente autorità, per deposizione a norma del diritto universale o particolare del titolare dell’ufficio stesso. 39 40

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L’attribuzione delle facoltà avviene automaticamente quando sussista la legittimità della sostituzione o della provvisione dell’ufficio vacante, secondo il diritto proprio.42 Le facoltà che sono concesse a questi supremi Moderatori vengono esercitate in maniera cumulativa rispetto ad altri soggetti che potevano esercitarle precedentemente. Riguardo agli Ordinari del luogo, le facoltà concesse ai supremi Moderatori non diminuiscono quelle che il diritto universale (o le concessioni apportate dalla Pastorale munus) riserva ai Vescovi. Anche in questo caso, infatti, le facoltà vengono esercitate in maniera cumulativa, purché tali competenze dell’Ordinario del luogo siano provate.43 La delega di queste facoltà viene data osservando le norme riguardanti i rescritti. Al Vicario generale possono essere delegate tutte le facoltà solo se agisce in vece del Superiore impedito (II, 4), ma tale delega deve essere espressa con atto specifico e formale dal Moderatore supremo. Possono essere delegate ai Superiori maggiori solo le facoltà di cui ai nn. 1, 4, 11, 13, 15, 16, 17 previo consenso del Consiglio generale (anche se non si esclude che le altre facoltà possano essere concesse ai Superiori inferiori in grado, tramite forma commissoria volontaria). La delega, inoltre, non cessa con la cessazione dell’ufficio del soggetto attivo delegante.44 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 30; BELLUCO, Facultates Superiorum, 28-29. 43 Così è, ad esempio, per le Congregazioni della Santa Sede, con le quali la competenza viene esercitata cumulativamente (è possibile ricorrere indifferentemente alla Congregazione o al Superiore, salvo il fatto che per una maggiore rapidità di esecuzione sarà conveniente ricorrere all’autorità inferiore in grado) o per le facoltà che siano state concesse ai nunzi apostolici o, soprattutto, per quanto riguarda le facoltà e l’autorità degli Ordinari del luogo. Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 31. 44 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 36-37. 42

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Per quanto concerne la suddelega, invece, come già notato, solo il Vicario generale in caso di sede piena ma impedita nell’esercizio, può suddelegare nei singoli casi qualora sia stato a sua volta delegato dal Superiore generale, agendo secondo le limitazioni che sono state date al primo delegante. Anche la suddelega, quindi, è regolamentata dal rescritto stesso e ad esso non può eccedere, soprattutto nei casi in cui per dare forma ad un atto occorra il consenso del Consiglio generale. Per il Vicario generale, poi, la suddelega è possibile solo per singoli casi, non per universitatem negotiorum, né tanto meno per tutti i casi possibili: vale a dire che l’atto che si concede deve essere determinato e ben definito.45 2.3.2. Soggetto passivo Le facoltà concesse – come abbiamo visto in 2.3.1. – sono date ai supremi Moderatori per un governo più semplice e spedito nel regime interno dell’Istituto. Dunque, soggetto passivo stricto sensu sono tutti e soli i sudditi di quei Superiori a cui siano concesse tali facoltà, cioè coloro che sono incardinati tramite la professione nella Religione o Istituto (can. 502); lato sensu lo sono i novizi degli stessi (cann. 567 §1, 615), gli oblati e pure i postulanti (cann. 514 §1, 875 §1, 1221 §3, 1245 §3). Sono soggetti passivi in senso largo anche coloro che risiedono nelle case

45 Cfr. BUIJS, Facultates religiosorum, 22-23, per cui “religiosus hoc modo subdelegatus omnibus facultatibus ipse uti potest easque «aliis quoque, in singulis casibus, iterum subdelegare, iuxta limites et clausolas supra statutas» (r.p. II,4). Potestas igitur huiusmodi religiosi subdelegati est eadem ac ipsius Supremi Moderatoris”, e se necessitato perché impedito può nuovamente suddelegare tutte le sue facoltà. Cfr. anche GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 37-38. Di posizione diversa, invece, BELLUCO, Facultates Superiorum, 30, che afferma essere, la suddelega, fatta per tutti i casi.

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dell’Istituto per motivi spirituali, di studio, di salute (can. 514 §1).46 Inoltre, allo stesso tempo, se il Superiore generale di una Religione clericale fosse pure Superiore regolare di un monastero femminile affiliato alla stessa Religione o ad essa incorporato, il Moderatore supremo non avrebbe la facoltà di concedere la giurisdizione per ascoltare le confessioni di tali monache, in quanto la facoltà 12 non lo concede (fa riferimento, infatti, al can. 514 §1, non al §2). Potrebbe invece in linea teorica esercitare le altre facoltà, in quanto riguardanti comunque il regime interno e trattandosi pure in questo caso di un suddito in senso stretto di quei tipi di Superiori che riguardano le facoltà in esame (si dovrebbe verificare il tipo di potestà che esso esercita

Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 430-431. Per il can. 201, “Nisi aliud ex rerum natura aut ex iure constet, potestatem iurisdictionis voluntariam seu non-iudicialem quis exercere potest etiam in proprium commodum, aut extra territorium exsistens, aut in subditum e territorio absentem”, il supremo Moderatore può esercitare tali facoltà anche a proprio vantaggio. Tuttavia, bene distingue il BUIJS, Facultates Religiosorum, 25: “«subditi» Supremi Moderatoris sunt: a) Omnes religiosi propriae religionis, sive professi a votis perpetuis sive professi a votis temporaneis; b) Omnes novitii eiusdem religionis. Erga omnes subditos exercere potest fac. nn. 10, 13; usus vero nonnullarum facultatum ex ipso textu aut ex natura rei limitatur ad determinatam categoriam subditorum: ad sacerdos subditos: nn. 1, 2, 3, 4, 5; ad clericos subditos: nn. 6, 7; ad clericos in sacris subditos: n. 8; ad subditos clericos professos a votis perpetuis: n. 11; ad subditos professos: n. 15; ad subditos professos a votis temporariis: n. 14; ad subditos professos a votis simplicibus: n. 17”. Per lo stesso invece, p. 26, non sono sudditi coloro che vivono notte e giorno nella casa religiosa, sia per servizio, per l’educazione, per degenza; neppure i postulanti rientrerebbero tra i soggetti passivi del rescritto pontificio. Dello stesso parere BELLUCO, Facultates Superiorum, 32. Vd. anche SCHAEFER TH., De religiosis, Roma 19474, 459. 46

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sull’Istituto affiliato o aggregato nelle costituzioni stesse).47 Tuttavia, non basterebbe la semplice aggregazione o affiliazione, perché queste producono esclusivamente un legame di tipo spirituale e non strettamente giuridico (can. 492 §1), come sarebbe invece con la “commendatio apostolica”, che crea un vero e proprio rapporto di sudditanza. Perché la facoltà sia usata a favore del soggetto passivo, il Superiore dovrebbe informarsi anzitutto sul caso e verificarne l’effettiva coincidenza con le facoltà in suo possesso e con la possibilità di delega. La concessione dovrebbe essere fatta ordinariamente per iscritto, in modo da poter provare tale delega, almeno in quei casi che lo richiedono (cfr. nn. 9 e 14).48 Circa la consultazione del Consiglio generale e la ricezione del consenso per concedere la delega, dobbiamo distinguere tra liceità e validità. Infatti, la richiesta del consenso rende la concessione data senza esso per ciò stesso nulla.49 Quando poi la concessione è rimessa mediante deCfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 32. Di parere opposto il BUIJS, Facultates Religiosorum, 26: “… istae enim moniales et sorores non subsunt Ordinario loci nisi in casibus iure expressis, quare Supremus Moderator erga eas uti potest suis facultatibus”. Il BELLUCO, Facultates Superiorum, 36, si trova in diversa posizione, affermando che l’autorità sulle monache e suore è del tutto diversa che il Superiore di una Religione clericale ottiene sulla propria Religione. 48 Il tutto si dovrebbe svolgere in armonia con quella che è la prassi delle Congregazioni della Santa Sede, sia circa i criteri da seguire nell’approvare la concessione, sia quanto alle condizioni e riserve da imporre; sia circa il modo di concedere, in forma volontaria o commissoria. Meglio sarebbe se si seguissero i formulari usati dai Dicasteri della Curia romana; così GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 33. Cfr. anche GUTIÉRREZ, Commentarium in Rescriptum, 112-114. 49 Tuttavia, il Consiglio può aver espresso antecedentemente il proprio assenso sul fatto in merito, nel qual caso la concessione sarebbe valida comunque, giacché si suppone che esso sia ancora concorde anche nel concedere la dispensa mediante delega. 47

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lega ai Superiori maggiori, ciò è dato per rendere ancora più spedito il governo nel regime interno nei casi più semplici, là dove non sia richiesta una maggior cura ed attenzione nella concessione stessa (non potrebbero perciò essere fatte concessioni indeterminate, perché si tratterebbe dell’equivalente di una delega ad una autorità inferiore che è, appunto, vietata dalla Cum admotae). Dire che il caso deve essere determinato significa affermare che è attuale, determinato nell’ufficio del soggetto passivo, determinato nel momento in cui la persona beneficiata lo compia.50 Infine, il Superiore dovrà agire in conformità ed ottemperanza all’Ordinario del luogo, la cui autorità non è venuta meno con il rescritto. Le facoltà 9, 18, 19, impongono delle limitazioni nell’esercizio dell’autorità interna, quale può essere quella di avvisare il Vescovo nel caso di voler spostare la casa di noviziato o di essersi consigliati con esso nel caso di voler confermare per un terzo triennio un Superiore locale.51

2.4. Le singole facoltà in specie 1. L’ora della santa messa e della santa comunione. Permittendi, boni Religiosorum causa, Sacerdotibus subditis suis tantum, iusta de causa, ut Missam qualibet diei hora in suis domibus celebrent et sacram Communionem distribuant; servatis ceteris servandis, et salvis iuribus Ordinarii loci, quod spectat ad Missam per utilitatem fidelium celebrandam.

50 51

Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 3(1965), 34. Cfr. GUTIÉRREZ, Commentarium ad Rescriptum, 220-221.

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Quam facultatem, de consensu sui Consilii, ceteris Superioribus maioribus eiusdem Religionis subdelegare possunt.

È una facoltà che comporta la dispensa dal can. 821 §1 circa la celebrazione dell’Eucaristia in qualsiasi ora del giorno e della notte e dal can. 867 §453 circa la distribuzione della santa Comunione. È esclusa la celebrazione della Messa e la distribuzione della santa Eucaristia al di fuori dell’ambito delle proprie case.54 Soggetto passivo della concessione per la celebrazione della santa Messa sono solo i sacerdoti sudditi di una casa della Religione determinata: non può essere concesso per case di altre Religioni, chiese secolari, né per sacerdoti non sudditi che stiano nella casa religiosa della propria Religione. Per la distribuzione della santa Comunione possono essere solo i sacerdoti sudditi che la debbano amministrare ai religiosi che si trovano presso una casa della propria Religione.55 52

“Missae celebrandae initium ne fiat citius quam una hora auroram vel serius quam una hora post meridiem”. 53 “Sacra communio iis tantum horis distribuatur, quibus missae sacrificium offerri potest, nisi aliud rationabilis causa suadeat”. 54 “In suis domibus”, infatti, non significa necessariamente case religiose, quanto piuttosto “case dei religiosi”, intendendo con queste anche monasteri femminili affiliati, purché si celebri sempre in oratori o chiese; così LEE, Commentarium in Rescripto, 39; BUIJS, Facultates Religiosorum, 29; BELLUCO, Facultates Superiorum, 50. Al di fuori di questi confini, servirà il permesso dell’Ordinario del luogo o della Santa Sede. 55 In caso di necessità, la facoltà può essere data ad un diacono, ex can. 845 §2: “Extraordinarius est diaconus, de Ordinarii loci vel parochi licentia, gravi de causa concedenda, quae in casu necessitatis legitime praesumitur”; LEE, Commentarium in Rescriptum, 37. 52

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Tale facoltà è data per il bene dei religiosi, perciò non può essere concessa per l’uso ministeriale della stessa (che dovrà eventualmente essere richiesta al Vescovo). Deve però essere presente una giusta causa56 e la concessione deve essere osservata all’interno della casa della Religione. Sembra comunque possibile che tale permesso possa essere estendibile a tutta la Provincia religiosa o anche a tutta la Congregazione, tant’è che la facoltà è suddelegabile ai Superiori maggiori, se vi è il consenso del Consiglio generale. Nel m.p. Pastorale munus si attribuiva pure ai Vescovi tale facoltà, di poter concedere ai sacerdoti di celebrare l’Eucaristia in qualsiasi ora del giorno per giusta causa; concessione che poteva essere data sia ai propri sudditi fuori del proprio territorio, sia ai non sudditi nel proprio territorio.57 2. Messa votiva per sacerdoti ciechi ed infermi. Concedendi sacerdotibus subditis suis vel visivae potentiae debilitate affectis, vel alia infirmitate laborantibus, cotidie celebrandi Missam votivam Deiparae Virginis Mariae, aut Missam Defunctorum: assistente, si opus sit, alio sacerdote vel diacono, servatisque normis liturgicis et praescriptis hac super re a Sancta Sedis latis.

Le condizioni per la concessione di questa dispensa è che vi sia un’infermità da parte del sacerdote suddito, sia riguardante la vista, sia di qualsiasi altro tipo, sia transito“Causa iusta in iure est quaelibet causa quae non sit evidenter iniusta, quaeque obiectivam rerum ac personarum entitatem exprimit, peculiari legi seu negotio proportionatam”; PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 434. 57 Questa ricopriva maggiore giurisdizione rispetto a quella del Cum admotae. Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 28. 56

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ria che permanente, avendo riguardo di quanto disposto nell’Istruzione della Congregazione dei Riti del 15 aprile 1961;58 vi deve essere quindi l’osservanza delle norme liturgiche e, se il caso lo richiede, l’assistenza di altro sacerdote o diacono.59 In questa Istruzione si afferma che il sacerdote infermo o tendente alla cecità può chiedere dispensa alla Santa Sede per potere celebrare messe votive e dei defunti. Le messe votive possono essere celebrate in tutti i singoli giorni in cui non è permessa la messa dei defunti. Ancora, vi si dice che «in Triduo sacro, sacerdos omnino a celebrando abstinebit», n. 6, e che «in festo Nativitatis Domini, tres Missas dicere potest», n. 7. Ma si afferma pure che «si, durante privilegio, sacerdos caecutiens, plane caecus evadat, novum indultum a S. Congregatione de disciplina Sacramentorum obtinere debet; eoque ostento, sub gravi tenetur uti absistentia alterius sacerdotis vel diaconi», n. 3. In questo caso la facoltà non è delegabile e coincide con la facoltà concessa agli Ordinari del luogo nel m.p. Pastorale munus, n. 5: Concedendi facultatem sacerdotibus visivae potentiae debilitate laborantibus, vel alia infirmitate detentis, Missam votivam Deiparae Virginis aut defunctorum cotidie celebrandi, adhibita, quoties ea indigeat, alterius sacerdotis vel diaconi assistentia, atque de cetero servata Instructione a S. Rituum Congregatione edita die 15 Aprilis 1961. L’istruzione non fu pubblicata negli AAS; può essere trovata in Leges Ecclesiae, vol. III, lex n. 2980. Vi sono poi norme liturgiche circa il colore da usare in privato ed in pubblico, i formulari ed il canto sia della messa votiva, sia della messa dei defunti che può essere celebrata quotidianamente. 59 Cfr. BELLUCO, Facultates Superiorum, 56-57; per BUIJS, Facultates religiosorum, 34, essa può essere applicata a qualsiasi sacerdote cui celebrare messe diverse ogni giorno comporti oneri non comuni. 58

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Similmente si applica la facoltà successiva, n. 3, circa la Messa votiva della Madonna o dei defunti nel caso di sacerdoti completamente ciechi, anche se in questo caso l’assistenza di un sacerdote o diacono è obbligatoria («Concedendi eamdem facultatem sacerdotibus subditis suis omnino caecis, dummodo tamen hisce celebrantibus alius sacerdos vel diaconus assistat»).60 4. Messa fuori del luogo sacro. Concedendi sacerdotibus subditis suis facultatem Missam celebrandi in domo religiosa extra locum sacrum, sed loco honesto et decenti, excepto cubicolo, supra petram sacram, aut, si de Orientalibus agatur, supra “antimension”: quod concedi tantum potest per modum actus, et iusta de causa; si vero de constanti eiusdem celebratione agatur, causa gravior requiritur. Quam facultatem, de consensu sui Consilii, ceteris Superioribus maioribus eiusdem Religionis subdelegare possunt.

È una facoltà concessa come dispensa del can. 822 §1,61 circa l’obbligo di celebrare la Messa su di un altare consacrato di una chiesa od oratorio consacrato o al più benedetto. La Messa, comunque, se può essere celebrata fuori dei luoghi prescritti dal diritto universale, non può essere celebrata al di fuori dell’ambito della casa religiosa;62 il 60 Egli può ottenere la facoltà per ogni luogo dal proprio Moderatore supremo; BUIJS, Facultates Religiosorum, 38. 61 “Missa celebranda est super altare consecratum et in ecclesia vel oratorio consecrato aut benedicto ad normam iuris”. 62 Cfr. LEE, Commentarium in Rescriptum, 59, afferma che si deve intendere come qualsiasi casa dove i religiosi vivano (formata o non formata, secondo il CIC 17), purché si stia entro i limiti giurisdizionali dell’Ordinario che l’ha concessa. Così pure BUIJS, Facultates Religiosorum, 42; BELLUCO, Facultates Superiorum, 63.

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luogo scelto deve essere conveniente («honestus dicitur locus in quo nihil turpitudinis est, nihil immundi») e decente («decens insuper, qui et ornamentis apte decoratus. Etiam cubiculum potest esse locus honestus et decens si lectulus separatione aliqua sive ex ligno sive textrino opere occultatur et remoto quovis irreverentiae periculo»).63 La concessione che venga fatta per un solo atto deve avere una giusta causa, mentre quella data ad universitatem casum deve avere ragioni più gravi, come potrebbero essere l’età o l’infermità. Essa può essere data solo ai sacerdoti sudditi,64 anche nel caso possa esserci presenza di fedeli laici, sempre in osservanza delle norme liturgiche. È una facoltà suddelegabile ai Superiori maggiori. Nel m.p. Pastorale munus, n. 9, si dispone ugualmente, anche se ai Vescovi è pure concesso di lasciar sostituire l’antimension alla pietra sacra o all’altare portatile.65 5. Celebrazione della Messa rimanendo seduti. Concedendi sacerdotibus subditis suis infirmis aut affecta aetate provectis ut, si stare nequeunt, sedentes Missam celebrent: legibus liturgicis servatis.

Questa facoltà è data in favore dei sacerdoti sudditi infermi o anziani. Unica condizione: che si osservino comunque le norme liturgiche.66 Al contrario del Pastorale munus, n. 10, qui non si fa accenno al divieto di celebraPUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 435-436. Per BELLUCO, Facultates Superiorum, può essere concessa anche a sacerdoti che vivano nella propria casa notte e giorno. 65 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 11-12. 66 Così PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 436-437: “crescit autem imbecillitas si infirmitas et aetas in eadem persona coniungantur” e si dovrà allora valutare l’opportunità di lasciar celebrare la Messa al soggetto. 63

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re la Messa nella propria stanza da letto, quindi è una facoltà più estesa di quella concessa ai Vescovi, tant’è che non vi sono casi espressi, dando libertà di applicazione ai Superiori generali (la facoltà non è infatti delegabile).67 6. Dispensa dall’età per gli Ordini sacri. De consensu sui Consilii, dispensandi subditos suos ad sacros Ordines promovendos a defectu aetatis, qui sex integros menses non excedat.

Le facoltà di cui ai numeri 6, 7, 8, trattano dell’ammissione ai sacri Ordini. Al can. 975 si stabilisce che il suddiaconato non sia conferito prima del 21° anno compiuto, il diaconato prima del 22° compiuto, il presbiterato prima del 24° compiuto. Questa facoltà autorizza il Moderatore supremo a dispensare dal suddetto canone, però non oltre i sei mesi. Era dispensa riservata alla Congregazione per i Religiosi, che resta competente per concessioni superiori ai sei mesi.68 Devono essere osservate alcune condizioni, anche se non espresse. In quanto dispensa, vi deve essere una giusta causa,69 come si può intendere anche dalla lettura di Pastorale munus, n. 15, dove viene concessa ai Vescovi la stessa facoltà (però per i Vescovi, a differenza dei Superiori generali, la facoltà non è limitata ai propri sudditi, giacché vi può essere necessità di dispensare un religioso, restando

Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 13. Tuttavia è da notare che la precedente facoltà, n. 4, disponendo che la celebrazione sia fatta “loco honesto et decenti, excepto cubicolo”, lascia qualche dubbio sulla liceità della celebrazione in camera da letto, come vorrebbe l’Autore. 68 Cfr. LEE, Commentario in Rescriptum, 115. 69 Cfr. LEE, Commentario in Rescriptum, 117; BELLUCO, Facultates Superiorum, 70. 67

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comunque suo Ordinario del luogo). Vi deve inoltre essere il consenso del Consiglio generale. La facoltà non è delegabile.70 7. Dispensa da alcuni impedimenti. Dispensandi, de consensu sui Consilii, suos subditos ad impedimento ad sacros Ordines, quo filii acatholicorum afficiuntur quamdiu parentes in suo errore permanent. Pariter dispensandi super impedimento quo detinentur admittendos in Religionem qui sectae acatholicae adhaeserunt et dispensandi super illegitimitate natalium admittendos in Religionem, etiamsi sint Sacerdotio destinati, dummodo ne sint sacrilegi vel adulterini. Si tamen conflictus hac de re oriatur inter Episcoporum et supremum Moderatorem Religionis, prioris sententia praevaleat.

Vi è contenuta la facoltà di dispensare anzitutto dall’impedimento di cui al can. 987, 1° agli Ordini Sacri per i figli degli acattolici71 (se almeno uno dei genitori vive ancora e permane nell’errore); in secondo luogo, di dispensare coloro che abbiano aderito ad una setta acattolica a norma del can. 542, 1° o che siano nati illegittimamente (purché non sacrileghi o adulterini) per l’ammissione alla Religione, ex can. 984, 1°.72 Si tratta di impediCfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 4 (1965), 15-16. “Sunt simpliciter impediti: I° Filii acatholicorum, quamdiu parentes in suo errore permanent”. L’impedimento sussisteva non solo per ricevere i sacri ordini, ma pure per gli ordini minori. Per acattolici si devono intendere coloro che sono battezzati, ma permangono nell’eresia, nello scisma, nell’apostasia; BUIJS, Facultates Religiosorum, 56; BELLUCO, Facultates Superiorum, 72. 72 Can 542, 1°: “Invalide ad novitiatum admittuntur: qui sectae acatholicae adhaeserunt”. Can. 984, 1°: “Sunt irregulares ex defectu: 1° Illegitimi, sive illegitimitas sit publica, sive occulta, nisi fuerint legitimati vel vota solemnia professi”. 70

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mento di ordine temporale, nel primo caso, esclusivamente legato ai figli e non ai discendenti, nel secondo caso. Per essere nel caso del sectae adhaerere si deve essere iscritti alla setta stessa, o almeno avervi fatto professione pubblica di appartenenza; non basta infatti la semplice simpatia o l’aver partecipato a qualche incontro o riunione (era questa una dispensa riservata alla Congregazione della Dottrina della Fede).73 Soggetto passivo della dispensa sono: per il primo caso, i sudditi che si vogliano ammettere al diaconato, per i quali non sono previste particolari condizioni (se ne ricavano alcune dalla prassi dei dicasteri competenti della Curia romana, quali l’integrità morale, la disciplina, …); per il secondo caso, coloro che siano candidati all’ammissione in Religione, per i quali si suppone una sana prudenza per evitare scandali spiacevoli. Aver aderito ad una setta acattolica comporta una irregolarità sia per l’ammissione alla Religione sia per l’ammissione agli Ordini (can. 985, 1°): pare perciò naturale che la dispensa per il primo comporti automaticamente la dispensa per il secondo, a meno che non sia detto espressamente altro (nonostante nella facoltà non venga dato un senso così ampio).74 Tuttavia, è da notare che in Pastorale munus non viene concessa ai Vescovi la facoltà di dispensare dall’irregolarità per adesione ad una setta acattolica.75 Si parla di figli illegittimi. I figli legittimi sono quelli concepiti da matrimonio valido o putativo o nati almeno sei mesi dopo la celebrazione del matrimonio o entro i dieCfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 439; TORRES, Commentarium in Rescriptum, 127; BELLUCO, Facultates Superiorum, 76. Per BUIJS, Facultates Religiosorum, 60, per aderire alle sette è sufficiente frequentarne abitualmente le riunioni. 74 Cfr. TORRES, Commentarium in Rescriptum, 131. 75 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 4(1965), 17-19. 73

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ci mesi dallo scioglimento della vita coniugale. Sono perciò illegittimi i figli avuti non da matrimonio valido (o che provengano da un padre diverso dal marito); questi sono incestuosi se nati per un rapporto tra parenti o affini, spuri se nascono senza un giusto padre, adulterini se nascono per adulterio semplice o duplice, sacrileghi se si hanno da una persona che ne sarebbe impedita, o per voto di castità, o per il sacro Ordine.76 Nel secondo capoverso viene data la precedenza al Vescovo circa la dispensa in caso di conflitto tra questo ed il supremo Moderatore.77 Anche in Pastorale munus, fac. n. 16, viene data facoltà agli Ordinari del luogo di dispensare dall’impedimento circa gli Ordini sacri per i figli di acattolici: Ex iure communi (can. 990 §1) Ordinarius loci pollet facultate delegabili dispensandi ab irregularitatibus omnibus ex delicto occulto provenientibus, ea excepta quae enascitur ex homicidio volontario et ex procurato abortu effecto secuto (can. 985, 4°), aliave deducta ad forum iudiciale.

Ora, se l’ammissione è un atto proprio del regime interno dell’Istituto, riservato perciò al Superiore interno, è veCfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 440. Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 4(1965), 21, dice che se il Vescovo ritiene inopportuna la dispensa, il Superiore non può concederla (sarebbe il Superiore a fare domanda al Vescovo per la dispensa, cfr. Pastorale munus, 35-36); tuttavia, non potrà verificarsi il caso inverso in cui il Superiore la neghi ed il Vescovo voglia concederla, perché non può obbligare ad ammettere un candidato. Permangono molti dubbi su queste affermazioni e sulla stessa affermazione del m.p., espresse da BUIJS, Facultates Religiosorum, 67, su quale sia il Vescovo cui chiedere la dispensa, dispensa dalla prima o seconda parte della facoltà, da chiedere obbligatoriamente al Vescovo da parte del supremo Moderatore,… Così pure BELLUCO, Facultates Superiorum, 79-80. 76

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ro che ci sono atti riservati all’intervento del Vescovo (cfr. can. 544 circa le testimoniali che vari Vescovi devono dare per l’ammissione) in cui potrebbe essere espresso il suo dissenso verso l’ammissione. Se il Superiore vi si oppone, il conflitto riguardante la facoltà n. 7 dovrà risolversi con il prevalere della volontà del Vescovo, in quanto il secondo caso previsto da questa facoltà è cumulativo tra Superiore ed Ordinario del luogo. Ma tale conflitto sarà maggiormente fondato nei casi in cui la concessione riguardi sia l’ammissione nell’Istituto che l’accesso ai sacri Ordini.78 Per concedere queste dispense da parte del Superiore generale si richiede il previo consensus sui Consilii. La facoltà inoltre non è suddelegabile. Ponendo a confronto la facoltà 7 concessa ai Moderatori supremi e le facoltà date ai nn. 16, 35, 36 ai Vescovi diocesani, notiamo come il punto 16 sia ripreso letteralmente nel Cum admotae al primo paragrafo. Ma se nel caso degli Istituti di diritto diocesano, la facoltà spetta esclusivamente al Vescovo diocesano, nel caso degli Istituti di diritto pontificio la facoltà è cumulativa tra Superiore generale ed Ordinario del luogo. Ai nn. 35-36 del m.p. il parallelo è con il secondo paragrafo del rescritto. Anche qui la facoltà è cumulativa negli Istituti di diritto pontificio.79 8. Dispensa dalle irregolarità. Dispensandi, de consensu sui Consilii, subditos suos ad sacros Ordines iam promotos, eam tantum ob causam ut Missam celebrare possint, a quibuslibet irregularitatibus tum ex delicto, tum ex defectu provenientibus: ea condicione ut altaris ministerium rite expleatur, neve scandalum exinde oriatur: exceptis tamen casibus de quibus agi-

78 79

Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 4(1965), 20-21. Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 4(1965), 22.

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tur in can. 985, nn. 3 et 4 CJC, et previa abiuratione in manibus absolventis, quando agitur de crimine haeresis vel schismatis.

Si tratta di una dispensa che non riguarda l’avanzamento nell’Ordine sacro, quanto l’effettivo esercizio del sacerdozio che già si è ricevuto in vista esclusivamente della celebrazione della santa Messa.80 Nella fattispecie, il Superiore generale può dispensare i propri sudditi sacerdoti (novizi o professi) da ogni tipo di irregolarità, sia ex defectu (can. 984) sia ex delicto (can. 985), tranne i casi di cui al can. 985, 3° (irregolarità contratte per attentato matrimonio) e 4° (irregolarità contratte per omicidio volontario o aborto procurato, effectu secuto).81 Si può perciò ritenere che la dispensa non autorizzi all’esercizio del ministero penitenziale, per il quale permane l’irregolarità.82 È quindi un’ulteriore facoltà che viene ad aggiungersi a quanto già i Superiori maggiori potevano fare in forza del can. 890 §1,83 cioè di dispensare dalle irregolarità sorte per delitto occulto, escluso quello proveniente dall’omicidio volontario. Per la valida concessione si devono osservare alcune condizioni. Infatti, la celebrazione deve comunque essere Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 71: l’irregolarità è “impedimentum perpetuum prohibens ordinum susceptionem et susceptorum exercitium”. 81 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 5(1965), 23, ripreso puntualmente da BELLUCO, Facultates Superiorum, 85. Vd. anche TORRES, Commentarium in Rescriptum, 136. 82 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 73; permarrebbe quindi anche l’irregolarità ed illiceità a celebrare il battesimo, amministrare l’estrema unzione… 83 “Omnino prohibitus est confessario usus scientiae ex confessione acquisitae cum gravamine poenitentis, excluso etiam quovis revelationis periculo”. 80

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compiuta in un modo corretto, soprattutto nei casi di difetto del corpo (per es.: coloro che abbiano qualche deformazione fisica o che siano epilettici), come affermato nel can. 984, 2° e 3°. Inoltre, si deve evitare ogni rischio di scandalo, magari con il trasferimento del sacerdote in altro luogo, soprattutto nei casi in cui il delitto sia di dominio pubblico. Trattandosi poi di eresia o scisma, si deve assolvere il delitto e la scomunica solo dopo che sia stata compiuta la necessaria abiura da parte del soggetto passivo. Infine, la concessione è vincolata al previo consensus sui Consilii, non è delegabile.84 Si può inoltre notare un parallelo di questa facoltà in Pastorale munus alla n. 17, anche se ivi sono menzionati la capacità di conseguire e ritenere dei benefici che sono invece omessi nel rescritto Cum admotae.85 Tuttavia, così troviamo nel decreto sull’ufficio pastorale dei Vescovi nella Chiesa , Christus Dominus, al n. 34: Religiosi sacerdotes, qui in presbyteratus officium consecrantur ut sint et ipsi providi cooperatores Ordinis episcopalis, hodie adhuc maiori auxilio Episcopis esse valent, pro ingravescente animarum necessitate. Ideo vera quadam ratione ad clerum dioecesis pertinere dicendi sunt, quatenus in cura animarum atque apostolatus operibus exercendis partem habent sub sacrorum Praesulum auctoritate. Etiam alii sodales, sive viri sint sive mulieres, qui et ipsi peculiari ratione ad familiam dioecesanam pertinent, magnum auxilium sacrae Hierarchiae afferunt, atque in dies, auctis apostolatus necessitatibus, magis magisque afferre possunt ac debent.

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Cfr. BELLUCO, Facultates Superiorum, 86. Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 5(1965), 24.

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Si può ritenere da quanto affermato in questo documento conciliare che l’Ordinario del luogo, nel caso in cui i religiosi coadiuvino maggiormente il Vescovo in campo pastorale tramite l’animazione di una parrocchia, possa loro concedere la dispensa contemplata in Pastorale munus con i conseguenti benefici ecclesiastici, qualora ve ne sia bisogno.86 9. Permesso per alienazioni e mutui. De consensu sui Consilii, concedendi iusta de causa, ut bona propriae Religionis alienari, oppignorari, hypothecae nomine obligari, locari, emphyteusi redimi possint, utque personis moralibus propriae Religionis aes alienum contrahere liceat, usque ad eam pecuniae summam, quam vel Nationalis vel Regionalis Episcoporum Coetus proposuerit et Apostolica Sedes probaverit.

Nella facoltà in esame, si tratta della competenza a permettere alienazioni, mutui, obbligazioni, ipoteche, contratti di locazione, affrancamento da enfiteusi, fino al limite massimo fissato dalla Conferenza Episcopale ed approvato dalla Santa Sede. Sono bona propriae Religionis quelli che appartengono a tutto l’Istituto che, in quanto persona giuridica pubblica nella Chiesa, può acquisire e possedere beni temporali propri, sempre che il diritto particolare non preveda diversamente.87 Per alienare, altresì, è da intendersi il diritto di togliere dal proprio patrimonio i propri beni, che può essere realizzato in molti modi, ma sempre avviene tramite il trasferimento del dominio sul bene stesso.88 86 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 74-75. Cfr. anche PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 443. 87 Cfr. BELLUCO, Facultates Superiorum, 92. Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 77. TORRES, Commentarium in Rescriptum, 232 ss. 88 Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 444.

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È la stessa facoltà che era stata accordata ai Vescovi in Pastorale munus, n. 32 e delega al Moderatore supremo la possibilità di rilasciare la licenza (precedentemente di competenza della Santa Sede) prevista nei cann. 534, 15311533, fino al tetto massimo stabilito dalla Conferenza Episcopale, e la licenza per le condizioni di peggioramento della situazione patrimoniale (debiti).89 Non rientrano nell’ambito della facoltà le alienazioni di oggetti preziosi o artistici, di reliquie preziose o di doni votivi, i quali continuano ad essere regolati dal diritto comune ai cann. 1532, 1281 §1.90 Si tratta, perciò di una facoltà che non dispensa dall’osservanza della legge, come le precedenti, ma che ne modifica l’attuazione. È concessa pure ai Superiori generali degli Istituti secolari clericali di pari grado. Potrà sorgere il problema, per gli Istituti presenti in più Conferenze Episcopali, su quale dovrà essere la norma da osservare per rilasciare il permesso: se quella della Conferenza della casa generalizia, quella del territorio dove ha sede la persona giuridica che aliena, o le altre che si riferiscono al bene da alienare. Si può affermare con sufficiente sicurezza che il Moderatore supremo potrà concedere alienazioni e altri atti alle persone giuridiche dell’Istituto secondo i limiti fissati dalle Conferenze dove tali persone siano situate. In caso di dubbio, sarà sufficiente applicare il principio giuridico locus regit actus.91

Come fa notare FUERTES, Commentarium in Rescriptum, 231, “beneplacitum seu licentia non significat quod Superior assumat responsabilitatem negotii, sed est actus auctorizationis ad validitatem necessarius”. 90 Sono questi infatti bona ecclesiastica, la cui alienazione è proibita e regolata dalla Santa Sede. Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 76-77. 91 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 5(1965), 25-27; BUIJS, Facultates Religiosorum, 84. 89

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Altro problema riguarda se il limite circa i debiti contratti riguardi i singoli debiti presi indipendentemente o se si debba considerare la somma complessiva dei debiti. La facoltà sembra fare riferimento ai singoli debiti contratti e non si tratterà allora di cumulo di debiti. Ma i debiti contratti dalla singola persona giuridica simultaneamente devono essere considerati come una unità che, se può ricevere licenza unica, parimenti viene considerata come una somma globale ed un unico atto giuridico.92 Circa il soggetto passivo, il Moderatore supremo potrà rilasciare licenze per tutto l’Istituto, per le Province, per ogni casa dell’Istituto e ogni persona giuridica dello stesso capace economicamente, ma non per persone fisiche. La licenza sarà comunque vincolata al consensus sui Consilii, anche quando si tratti di un atto effettuato dal Superiore stesso.93 Nel caso dei monasteri, in cui vi è maggiore autonomia economica, l’Abate primate o il Preside potranno richiedere una relazione sullo stato economico della casa a cui vincolare la licenza.94 Si è inoltre soggetti ancora alle altre norme in materia economica, che prescrivono l’osservanza del diritto civile se non è contrario al diritto divino e canonico (can. 1529), la cooperazione nel caso di alienazioni di beni mobili ed immobili da parte di periti provati (can. 1530 §1, 1°), la giusta causa di urgente necessità o di evidente utilità per la Chiesa o la pietà (can. 1530 §1, 2°), l’alienazione ad un prezzo non inferiore a quello estimato (can. 1531 §1).95

Cfr. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, 231; GAMBARI, Speciali facoltà, 5(1965), 28. 93 Cfr. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, 236-237. 94 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 5(1965), 29. 95 Cfr. BUIJS, F acultates Religiosorum, 80; BELLUCO, Facultates Superiorum, 91-93; GAMBARI, Speciali facoltà, 5(1965), 30. 92

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È necessario che la concessione sia fatta per iscritto, in modo da poterla provare. Tale concessione può essere fatta in forma graziosa o commissoria. L’usanza che era vigente presso la Congregazione per i Religiosi era quella della forma commissoria; doveva essere sempre presente una causa giustificante; inoltre non si doveva alienare ad un prezzo inferiore a quello proposto da persone competenti; il ricavato doveva essere devoluto ai fini della Chiesa, cercando sempre di non diminuire il patrimonio della stessa; si imponeva per la validità di non alienare a persone che avrebbero usato i beni contro la Chiesa o per fini illeciti (anzi, di alienare preferibilmente all’Ordinario del luogo se il bene potesse essere stato di suo interesse, privilegiandolo nell’acquisto stesso).96 I mutui, invece, sarebbero consentiti a norma del can. 534, purché (dummodo, è per la validità) vi sia la fondata speranza di poterli pagare con gli interessi in un periodo non eccessivo.97 Inoltre, la Santa Sede si esclude da ogni responsabilità per l’eventuale inadempimento, in quanto la licenza accordata non corrisponde ad una garanzia di pagamento (ciò vale anche da parte del supremo Moderatore).98 La facoltà non è delegabile e non può essere data licenza ad una sola persona giuridica in una sola volta per cui la somma dei debiti consentiti superi la somma limite fissata dalla Conferenza Episcopale.99 Parimenti, in Pastorale munus n. 32 si fa riferimento alla facoltà del Vescovo di concedere tale licenza con gli stessi limiti, anche se egli non ha bisogno del consenso di Cfr. BELLUCO, Facultates Superiorum, 90. Cosa poi significhi eccessivo, la dottrina non specifica. 98 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 5(1965), 32. 99 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 84; BELLUCO, Facultates Superiorum, 90. 96 97

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alcun organismo collegiale. Ciò è dovuto al fatto che il ruolo del Consiglio generale è molto maggiore rispetto a quello che può avere qualsiasi consiglio del Vescovo. Quindi, Superiore generale e Vescovo si trovano nella stessa posizione giuridica, avendo potestà delegata di concedere tale licenza ai propri sudditi. Si può inoltre affermare che chi trascurasse di chiedere permesso alla Santa Sede oltre la somma fissata dalla Conferenza Episcopale, andrebbe contro il disposto del can. 534 §1 e ne subirebbe la pena nonché la nullità dell’atto stesso.100 10. Permesso per i libri proibiti. Concedendi suis subditis veniam legendi et retinendi, ita tamen seposita ne ad aliorum manus perveniant, libros et ephemerides prohibita, iis non exceptis quae haeresim vel schisma ex professo propugnent, aut ipsa religionis fundamenta evertere conentur. Haec autem venia iis dumtaxat concedi potest, quibus opus sit libros vel ephemerides prohibita legere, ut aut eadem impugnent, aut fructuosius munere suo fungantur, aut studiorum curriculum cumulatius peragant.

È una facoltà che, dopo la soppressione dell’Indice dei libri proibiti, avvenuta il 7 dicembre 1965 (solo un anno dopo la concessione del rescritto Cum admotae) con il m.p. Integrae servandae,101 perde il proprio originario valore giuridico e rimanda ad una indole più pastorale.

Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 5(1965), 34. AAS 57(1965), 952-955; cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 446. BELLUCO, Facultates Superiorum, 94, cita la notificatio della Congregazione per la Dottrina della Fede del 14 giugno 1966, AAS 58(1966), 445, tralasciando il ben precedente Integrae Servandae che già aveva dato disposizioni in merito all’Indice dei libri proibiti. 100

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Essa accordava al supremo Moderatore la possibilità di dare ai propri sudditi la concessione di fare uso di quei libri o riviste che fossero state proibite, cioè che fossero state elencate nell’Indice dei libri proibiti, a norma dei cann. 1399 e 2318. Era una facoltà riguardante la Congregazione del Sant’Uffizio. Vi era pure l’obbligo di custodire i libri in modo che non finissero in mano di terzi.102 Da un confronto con Pastorale munus, 40, notiamo come la facoltà data ai Superiori generali non fosse delegabile (anche se si potevano servire dei Superiori maggiori o locali per mandare ad esecuzione la loro concessione), mentre quella data ai Vescovi non solo era delegabile, ma era più propriamente rivolta ai singoli casi, più che alla loro generalità. Invece, non sembrano essere presenti differenze circa l’oggetto e le ragioni che giustificherebbero la concessione.103 11. Facoltà di dare le lettere dimissorie. Dandi suis subditis litteras dimissorias ad sacros Ordines recipiendos, servatis de iure servandis: cum nempe de Religionibus agitur, quae huiusmodi facultate ex iure (can. 964, 2°) non fruuntur. Quam facultatem, de consensu sui Consilii, subdelegare possunt ceteris Superioribus maioribus eiusdem Religionis.

Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 91; TORRES, Commentarium in Rescriptum, 245. Soggetto passivo erano i sudditi che ne avessero avuto bisogno per impugnarli o per adempiere più utilmente il proprio ufficio o per compiere più proficuamente il corso degli studi. Era perciò escluso il semplice studio personale o la curiosità; ciò faceva presupporre un regolare mandato da parte del Superiore per quel particolare uso che ne sarebbe stato fatto. Si poteva dare anche ad un religioso in quanto ricoprente un particolare ufficio, come poteva essere quello di bibliotecario. 103 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 27-28. 102

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È la facoltà di concedere le lettere dimissorie per tutti gli ordini ai propri sudditi. Per lettere dimissorie si intendono quei «documenta quibus legitimus Superior religiosus concedit subdito professo facultatem recipiendi ordines, simulque testatur eundem praeditum esse omnibus iis quae a sacris canonibus postulantur ad licitam ordinationem».104 Vi è perciò attestata la loro qualità ed idoneità. Vengono solitamente date all’Ordinario del luogo in cui è situata la casa religiosa dell’ordinando. 105 Soggetto attivo per il can. 964, 2° sono tutti i Superiori maggiori delle Religioni maschili esenti, sia per diritto (can. 615) sia per privilegio speciale (can. 618 §1). La maggior parte delle Congregazioni clericali, non esenti, di diritto pontificio, godono di questa facoltà per speciale privilegio o per approvazione da parte della Santa Sede delle loro costituzioni. Tale facoltà è inoltre delegabile, con il consenso del Consiglio, ai Superiori maggiori. Ne vengono a godere, perciò, tutti gli Istituti clericali di diritto pontificio anche non esenti (se avevano già maggiori facoltà le conservano), le Società senza voti pubblici di diritto pontificio, gli Istituti secolari clericali di diritto pontificio.106 Soggetti passivi sono invece i sudditi che devono essere ammessi ai gradi dell’ordine, a condizione che non abbiano alcun impedimento e che soddisfino tutti i requisiti.107 Chiaramente questa facoltà non trova un parallelo in Pastorale munus, ma è la prova più evidente che «l’Istituto 104 CAPPELLO F., Tractatus canonico-moralis de Sacramentis. De Sacra Ordinatione, Vol. IV, Roma 19513, 344. 105 Cfr. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, 315; TABERA ARAOZ, Derecho de los Religiosos, 353; PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 447. 106 Cfr. par. 2.3.1; BUIJS, Facultates Religiosorum, 15-16. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, 321; BELLUCO, F acultates Superiorum, 100. 107 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 96.

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religioso clericale per i propri membri tiene il posto della diocesi».108 Dunque, anche agli Istituti non esenti è data la stessa potestà propria degli Istituti esenti non in virtù dell’esenzione stessa, quanto piuttosto della loro struttura clericale. 12. Facoltà di concedere la giurisdizione delegata per ascoltare le confessioni dei propri sudditi. Concedendi non modo sacerdotibus subditis suis, sed etiam ipsis cuiusvis ritus sacerdotibus vel e clero saeculari vel ex alia Religione, a suo Ordinario vel a suo Superiore Maiore approbatis, iurisdictionem delegatam ad audiendas confessiones religiosa vota professorum, novitiorum aliorumque, de quibus in can. 514 §1 CJC [17] et can. 46 §1 Litterarum Apostolicarum Postquam Apostolicis Litteris motu proprio datarum die IX februarii anno MCMLII; cum scilicet de Religionibus agitur, quae huiusmodi facultate ex iure (can. 875 §1 CJC [17]) non fruuntur. Quam facultatem, de consensu sui Consilii, subdelegare possunt non solum ceteris Superioribus maioribus, sed etiam Superioribus singolarum domorum eiusdem Religionis.

È una facoltà che compete per il diritto stesso ai Superiori delle Religioni clericali esenti109 e che per una speciale delega apostolica viene ora concessa mediante il rescritto Cum admotae anche ai Superiori generali delle Religioni, delle Società, degli Istituti clericali di diritto GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 30. Can. 875 §1: “In religione clericali exempta ad recipiendas confessiones professorum, novitiorum aliorumve de quibus in can. 514 §1, iurisdictionem delegatam confert quoque proprius eorundem Superior, ad normam constitutionum cui fas est eam concedere etiam sacerdotibus ex clero saeculari aut alio religionis”. 108 109

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pontificio non esenti.110 Infatti, secondo il CIC 17, i Moderatori supremi degli Istituti di diritto pontificio non esenti non potevano porre atti di giurisdizione di governo e di disciplina interna, concessione che è stata loro data con la facoltà n. 13 di questo rescritto, ponendoli sullo stesso piano dei Superiori maggiori delle Religioni (naturalmente in questa potestà viene pure inclusa la facoltà di ascoltare le confessioni dei sudditi, così come è attribuito per diritto nel can. 873 §2 ai «Superiores religiosi exempti pro suis subditis, ad normam constitutionum»).111 Tale giurisdizione può essere data sia ai sacerdoti del proprio Istituto sia ad altri esterni, secolari o consacrati, di qualsiasi rito cattolico. Lo stesso Superiore generale può attribuire questa giurisdizione sia a proprio favore che a se stesso.112 Egli può anche attribuirla a tutti i sacerdoti della propria Religione con una concessione generale. In alcuni Istituti di diritto pontificio non esenti, poi, tale facoltà era già stata concessa per indulto, anche se a volte era stata limitata ai soli sacerdoti della propria Congregazione. Tuttavia, nel caso di sacerdoti esterni all’Istituto, vi è la condizione che siano già stati approvati dal proprio Vescovo (se sono secolari) o dal proprio Superiore maggiore (se religiosi). Ciò significa che tali sacerdoti devono già pos-

Cfr. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, CpR 45(1966), 45; BUIJS, Facultates Religiosorum, 101; BELLUCO, F acultates Superiorum, 104. 111 Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 448-449. Appare perciò in certo senso superflua la fac. 12. Così anche GAMBARI, Speciali facoltà, 31: “il Superiore generale gode della giurisdizione per le confessioni in forza del n. 13 che include tale potere dato ai Superiori maggiori esenti in forza del can. 873 §2”. BUIJS, Facultates Religiosorum, 105, nota come il testo del rescr. pont. distribuito presso l’aula conciliare non concedesse giurisdizione suddelegabile, ma fosse propria solo del Moderatore supremo. 112 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 31. 110

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sedere la facoltà per ascoltare le confessioni, o per diritto o per concessione fatta dalla competente autorità.113 La giurisdizione viene data in favore delle persone che dimorano durante l’intero arco della giornata nella casa religiosa (anche se la confessione non deve necessariamente avvenire nella casa religiosa, perché segue il principio della personalità degli Istituti religiosi, non quello della territorialità), sia per motivi scolastici, sia per malattia, sia coloro che vi lavorano o chi vi cerchi ospitalità, a norma del can. 514 §1.114 Tra questi sono perciò esclusi coloro che facciano parte di associazioni legate all’Istituto e le religiose e novizie facenti capo allo stesso.115 Come emerge dalla clausola di suddelegabilità, la concessione è delegabile ai Superiori maggiori e pure ai Superiori locali (unico caso di suddelega ampia nel rescritto) entro i limiti della propria giurisdizione, avendo comunque il consenso del proprio Consiglio generale.116 Cfr. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, 46. “In omni religione clericali ius et officium Superioribus est per se vel per alium aegrotis professis, novitiis, aliisve in religiosa domo diu noctuque degentibus causa famulatus aut educationis aut hospitii aut infirmae valetudinis, Eucharisticum Viaticum et extremam unctionem ministrandi”. 115 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 31-33. L’autore fa anche notare come la facoltà debba essere data per iscritto, in maniera da poterne determinare il tempo e per quali persone sia stata data. 116 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 105; FUERTES, Commentarium in Rescriptum, CpR 45(1966), 49; BELLUCO, Facultates Superiorum, 104105. Come la facoltà n. 11, anche questa attribuisce ai Superiori generali degli Istituti clericali di diritto pontificio sempre maggiore giurisdizione, assimilando l’Istituto stesso ad una diocesi in tutto ciò che concerne il regime interno allo stesso (infatti, come la diocesi si estende in ambito territoriale, l’Istituto si estende in ambito personale mediante e sopra tutti i suoi sudditi). La potestà di giurisdizione, propria solo degli Ordinari, sta ora venendo estesa anche ad altri soggetti dell’ordinamento canonico che non sono investiti di tale potere così ampio e che devono perciò essere compresi sotto un altro punto di vista. 113

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13. Facoltà di porre atti di giurisdizione per il regime interno, a modo degli Istituti esenti. Ponendi actus iurisdictionis pro regimine et disciplina interna ad instar Superiorum Maiorum Regularium, salva semper dependentia ab Ordinariis locorum ad normam iuris canonici; cum scilicet de Religionibus agitur, quae huiusmodi facultate ex iure (cann. 501 §1, 198 §1) non fruuntur. Quam facultatem, de consensu sui Consilii, ceteris Superioribus maioribus suae Religionis subdelegare possunt.

È la facoltà più importante per l’oggetto del nostro studio. Viene richiamato espressamente il can. 501 §1 che afferma che i Superiori ed i capitoli delle Religioni esenti hanno potestà di giurisdizione.117 Ad essere rigorosi, la potestà di giurisdizione (regolata appunto dal can. 501 §1) non si identifica con il privilegio della esenzione (che viene invece regolamentato al can. 615 nel capitolo dei privilegi): vi sono infatti Istituti che non godono dell’esenzione ma che hanno potestà di giurisdizione. Tale giurisdizione è pure delegabile ai Superiori maggiori e vale tanto per il foro interno118 che per il foro esterno. Come abbiamo notato nei capitoli precedenti, la potestà con cui i Superiori reggono gli Istituti si dice dominativa; negli Istituti clericali esenti però vi è anche potestà di giurisdizione per diritto che permette di usare forme autonome di governo interno rispetto agli Istituti non esenti, costretti a ricorrere all’Ordinario del luogo per numerosi atti di potestà.119 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 34. Si rimanda alla facoltà n. 12. 119 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 34-35. Occorre spiegare brevemente cosa si intenda per regime interno. Esso infatti si caratteriz117

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Con la facoltà n. 13 viene assimilata la potestà degli Istituti non esenti a quella degli Istituti esenti e quindi dei Superiori maggiori Regolari, con il relativo diritto di porre in essere quegli atti di giurisdizione che sono a questi ultimi riservati. Il diritto particolare potrà poi limitare questa potestà subordinata al consenso del Consiglio o ad esclusivo esercizio del Superiore generale. Circa la potestà legislativa, è da escludere che il rescritto conceda ai supremi Moderatori degli Istituti non esenti la facoltà di prescrivere norme permanenti, in quanto il diritto dà questa potestà solo ai Capitoli. Invece possono esercitare la potestà giudiziaria per quanto è di loro competenza in prima istanza (cann. 1579, 1571).120 za per il particolare fine che l’Istituto possiede e per il modo che ha di portarlo nel mondo, cioè formando (non è un caso che il Concilio Ecumenico Vaticano II abbia insistito molto sulla formazione dei religiosi, vd. Renovationis Causam) e mandando i suoi membri ad operare nel “campo della messe”. Però, per quanto riguarda l’azione nel mondo, l’Istituto è sempre inserito in una diocesi e quindi in una Chiesa locale. Ecco perché il regime interno è normalmente regolato dal Superiore interno, sia per quanto riguarda il governo dell’Istituto, sia per lo svolgimento della vita religiosa, sia per le persone fisiche che per le persone morali; l’azione esterna, invece, è regolata insieme con l’autorità cui la diocesi fa capo, cioè l’Ordinario del luogo, il Vescovo diocesano. I due ambiti sono molto uniti e spesso possono confondersi i limiti dell’uno e quelli dell’altro. Se è regime interno tutto ciò che non compete alla sfera di giurisdizione del Vescovo, tutto ciò che non vi fa parte è esterno e da esso regolato a norma dei cann. 355 e seguenti. Il regime e la disciplina interna sono regolati dalle Costituzioni (cui il Concilio ha fatto seguire una riforma secondo le norme emanate in ossequio al decreto Perfectae Caritatis) degli Istituti e il religioso vive secondo la vita che in esse è proposta, essendo incorporato all’Istituto stesso. 120 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 107; FUERTES, Commentarium in Rescriptum, CpR 45(1966), 63. GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 37: Perciò, “i Superiori generali, di cui nel rescritto, vengono assimilati a quelli per il godimento della potestà di giurisdizione nei casi riferentisi al regime e alla disciplina interna. Per detti casi la potestà di giurisdizione è una necessità e non un privilegio” .

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Ciò non toglie che il Vescovo mantenga le sue competenze e le sue facoltà. Infatti, la potestà deve essere esercitata «salva semper dependentia ab Ordinariis locorum ad normam iuris canonici», vale a dire che i Vescovi esercitano ancora la loro potestà sui religiosi per quanto riguarda il loro ufficio, cioè il regime e la disciplina della diocesi e dei fedeli nel suo territorio. È il caso del can. 618 §2 (soprattutto il 2°), in cui viene definito dove il Vescovo non può esercitare giurisdizione per le Religioni clericali o laicali di diritto pontificio.121 Ma già nell’Istruzione circa la sacra Liturgia (26 settembre 1963, artt. 63, 86) i Superiori Maggiori delle Religioni e delle Società di vita comune clericali erano stati equiparati agli Ordinari per la facoltà di dispensare dalla recita del Breviario e di permettere di recitarlo in volgare. Oltre a ciò, erano equiparati agli Ordinari perché veniva loro concesso giudicare l’opportunità della concelebrazione (se clericali) nei proenotanda del messale. Anche questo è espressione della sempre maggiore assimilazione degli Istituti clericali alla diocesi per quanto riguarda i membri dell’Istituto stesso. La potestà di giurisdizione data dal rescritto Cum admotae si va a sovrapporre alla potestà dominativa dei Mode“In religionibus tamen iuris pontificii Ordinario loci non licet: 1° Constitutiones ullatenus immutare aut de re oeconomica cognoscere, salvo praescripto can. 533-535; 2° Sese ingerere in regimen internum ac disciplinam, exceptis casibus in iure expressis; nihilominus in religionibus laicalibus ipse potest ac debet inquirere num disciplina ad constitutionum normam vigeat,num quid sana doctrina morumve probitas detrimenti ceperit, num contra clausuram peccatum sit, num Sacramenta aequa stataque frequentia suscipiantur; et, si Superiores de gravibus forte abusibus admoniti opportune non providerint, ipse per se consulat; si qua tamen maioris momenti occurrant, quae moram non patiantur, decernat statim; decretum vero ad Sanctam Sedem deferat”. 121

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ratori non esenti, abbracciando governo, ordinamento e svolgimento della vita religiosa dei membri e delle persone giuridiche. Essa rafforza ed, anzi, estende la potestà dei Moderatori supremi nel regime interno e la disciplina ma non diminuisce l’autorità ed i diritti del Vescovo diocesano.122 Tale giurisdizione può essere esercitata solo sui sudditi (come emerge chiaramente dall’espressione «pro regimine et disciplina interna») secondo tutte le materie che riguardano l’autorità del Moderatore supremo. Non vi sono condizioni, se non quelle poste dal diritto comune circa la giurisdizione delegata, secondo i cann. 196-209. Essa inoltre è suddelegabile a tutti i Superiori maggiori del proprio Istituto con il consenso del proprio Consiglio, rendendo così anche la potestà dei Superiori maggiori più estesa. Essa può essere delegata totalmente o parzialmente (potendo quindi riservarsi certi atti che ritenga più importanti).123 Tale estensione concerne: l’uso di sanzioni canoniche (cann. 2220 §1, 2306); la remissione delle pene canoniche pubbliche secondo le limitazioni del can. 2237 §1, 2°; dichiarare pene latae sententiae (can. 2223 §4) e rimettere pene da loro stessi applicate (can. 2236 §1) o pene nei casi occulti non riservati alla Santa Sede (can. 2237 §2); la dispensa dalle irregolarità per un delitto occulto, secondo le limitazioni del can. 990 §1;124 la dispensa dalle leggi ecclesiastiche in caso di dubbio (can. 81); dare precetti a norma del can. 24 e concedere rescritti ai sudditi (can. 36); la dispensa da leggi irritanti e inabilitanti in dubio facCfr. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, in CpR 45(1966), 65-66; BUIJS, Facultates Religiosorum, 108; BELLUCO, Facultates Superiorum, 109; GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 39. 123 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 108. 124 Vd. per quanto riguarda la potestas punitiva, F UERTES , Commentarium in Rescriptum, in CpR 45(1966), 68-69. 122

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ti (can. 15); la dispensa dalle leggi generali della Chiesa in caso urgente, secondo le limitazioni del can. 81;125 istituire un tribunale per dirimere questioni tra persone fisiche o morali dell’Istituto;126 il permesso di leggere libri proibiti nei casi urgenti (cann. 1402 §1; facoltà concessa ex. n. 10 e successivamente dal m.p. Integrae Servandae); la giurisdizione per le confessioni (cann. 873, 875); la dispensa dai giorni festivi (can. 1245 §3), dall’astinenza e dal digiuno (can. 1313), dai voti non riservati e dal giuramento (can. 1370); il permesso di erigere oratori semipubblici (can. 1192); la facoltà di predicare (can. 1338).127 È questa facoltà che ha dato vita alla riforma del diritto dei religiosi. Il Romano Pontefice vi ha affermato il carattere pratico della potestà di giurisdizione accordata agli Istituti clericali di diritto pontificio per un governo più diretto. Ecco perché i Moderatori supremi degli Istituti a voti semplici vengono equiparati ai Superiori maggiori Regolari, almeno per quanto riguarda la disciplina ed il regime interno, l’incorporazione dei soggetti, le lettere dimissorie, l’amministrazione dei beni. Questo era in parte già stato concesso nella Postquam Apostolicis Litteris (9 febbraio 1952) con il Codice per le Chiese orientali al can. 26 §2, 2° dove si attribuiva giurisdizione ecclesiastica in entrambi i fori per gli Istituti non esenti.128 Viene alla luce una nuova forma di potestà di giurisdizione, senza esenzione. Se in passato potestà di giurisdizione ed esenzione venivano attribuite nello stesso momen125 Vd. per quanto riguarda la potestas circa leges Ecclesiae, FUERTES, Commentarium in Rescriptum, in CpR 45(1966), 66-67. 126 Cfr. BELLUCO, Facultates Superiorum, 111. 127 Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 39-40. 128 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 108-109; GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 41.

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to, quasi che fossero due facce di un’unica medaglia, ora non più. Infatti, con il rescritto si vuole rendere più rapido il governo interno dell’Istituto, non togliere facoltà ai Vescovi diocesani; quindi le due figure giuridiche vengono scisse. Ciò apre pure la via ad una nuova interpretazione dell’istituto dell’esenzione, non più vista come un privilegio, ma come una necessità di regime interno della Congregazione, la quale esiste per la Chiesa intera e per questo dipende dai Superiori interni e dal Romano Pontefice. Continua ad essere competenza del Vescovo l’azione pastorale dei religiosi sui fedeli del posto e sulla Chiesa locale; non così invece quando si tratti della vita interna e dell’apostolato universale. Secondo il CIC 17, can. 198 §1: In iure nomine Ordinarii intelliguntur, nisi quis expresse excipiatur, praeter Romanum Pontificem, pro suo quisque territorio Episcopus residentialis, Abbas vel Praelatus nullius eorumque Vicarius Generalis, Administrator, Vicarius et Praefectus Apostolicus, itemque ii qui praedictis deficientibus interim ex iuris praescripto aut ex probatis constitutionibus succedunt in regimine, pro suis vero subditis Superiores maiores in Religionibus clericalis exemptis.

Non sono Ordinari a norma del diritto i Moderatori supremi delle Congregazioni clericali non esenti, né delle Congregazioni laicali esenti e non esenti, o delle Società clericali senza voti pubblici di diritto pontificio i cui membri vivano in comune né degli Istituti secolari clericali di diritto pontificio. Anche con il rescritto e le facoltà da esso concesse permane la difficoltà a chiamarli Ordinari perché la potestà che viene loro conferita è delegata. Tuttavia, qui importa il fatto che la potestà che viene loro concessa è quella di cui mancano e che normalmente è data ai Moderatori supremi delle Religioni esenti. Si potrebbe paragonare la loro potestà a quella di un Ordinario

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del luogo che però non abbia l’ordine episcopale e che per gli atti che richiedono tale ordine dovesse ricorrere quindi ad un Vescovo.129 In questa facoltà sono contenute pure le facoltà nn. 11 e 12, che perciò spettavano per diritto ai Superiori maggiori delle Religioni clericali esenti. È la maggiore concretizzazione riguardo ai religiosi di quel principio di sussidiarietà affermato da Giovanni XXIII e ribadito nel Concilio Ecumenico Vaticano II dai padri conciliari che sa cogliere i ‘segni dei tempi’ (è pur vero che in passato con l’erezione di una Religione veniva automaticamente conferita pure la potestà di giurisdizione ad essa necessaria).130 14. Facoltà di dispensare dai voti temporanei. Restituendi, de consensu sui Consilii, subditos suos temporaria vota professos in saecularem condicionem, ita ut hi ad saeculum, quod vocant, redire libere et licite possint, ad normam sive can. 640 §1, 1° et 2° CJC [17], sive can. 191 §1 Litterarum Apostolicarum Postquam Apostolicis Litteris.

Si tratta di una facoltà (assieme alla n. 9) concessa anche ai Moderatori supremi degli Istituti secolari clericali di diritto pontificio. La potestà di dispensare dai voti temporanei dei religiosi era riconosciuta agli Ordinari del luogo.131 È ora concessa anche a tutti i Superiori generali clericali di diritto pontificio di secolarizzare i propri sudditi

129

Cfr. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, in CpR 45(1966),

64. Cfr. GAMBARI, Speciali facoltà, 6(1965), 43. Secolarizzazione è “solutio vinculi quod religiosum ligabat cum Religione, et subsequens cessatio votorum”; FUERTES, Commentarium in Rescriptum, 171. 130

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professi temporanei: a norma del can. 647 §1,132 è un’estensione del diritto dei Superiori di dimettere i propri sudditi. I Superiori generali possono secolarizzare i membri professi temporanei dell’Istituto procedendo per via amministrativa o disciplinare se il professo non voglia andarsene,133 oppure con la semplice accettazione della richiesta del professo (in questo caso si suppone che la dispensa dai voti temporanei sia richiesta volontariamente e liberamente dal religioso professo temporaneo e che sia da lui accettata liberamente). Sono modi diversi per sciogliere ipso iure i voti temporanei.134 La facoltà è condizionata dal consenso del Consiglio generale e non è suddelegabile.135

“Professum a votis temporariis sive in Ordinibus sive in Congregationibus iuris pontificii dimittere potest supremus religionis Moderator vel Abbas monasterii sui iuris cum consensu sui cuiusque Consilii per secreta suffragia manifestato, vel, si agatur de monialibus, Ordinarius loci et, si monasterium sit regularibus obnoxium, Superior regularis, postquam monasterii Antistita cum suo Consilio fidem de causis scripto fecerit; in Congregationibus vero iuris dioecesani, Ordinarius loci in quo religiosa domus sita est, qui tamen iure suo ne utatur Moderatoribus insciis vel iuste dissentientibus”. 133 Cfr. FUERTES, Commentarium in Rescriptum, 174, afferma che la secolarizzazione è solo volontaria, perciò non si può far rientrare in questa facoltà la dimissione coatta. Tuttavia, sembra valida l’opinione di altri autori (BUIJS, Facultates Religiosorum, 111; BELLUCO, Facultates Superiorum, 115; PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 452) secondo cui in questa facoltà si parla di saecularem condicionem, non del mondo in cui i religiosi vi arrivino. 134 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 111; BELLUCO, Facultates Superiorum, 115-116. 135 Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 452-453. 132

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15. L’assenza dalla casa religiosa. Permittendi, de consensu sui Consilii, propriis subditis, ut iusta de causa a domo religiosa non ultra annum absint. Quae venia, si infirmitatis gratia detur, usquedum necessitas perdurabit dari potest; si vero obeundi opera apostolatus gratia, etiam ultra annum, iusta de causa, dare potest; dummodo et obeunda apostolatus opera cum finibus Religionis coniungantur, et normae sive iuris communis, sive iuris particularis serventur. Quam facultatem, de consensu sui Consilii, subdelegare possunt ceteris Superioribus maioribus, qui tamen ea uti nequeunt, nisi suo ipsorum Consilio consentiente.

Afferma Graziano, «sicut piscis sine aqua caret vita, ita sine Monasterio monachus».136 È perciò compito del Superiore vigilare perché il religioso viva nella casa religiosa e vi faccia vita comune. A norma del can. 606 §2, i Superiori possono permettere ai propri sudditi di vivere un determinato periodo di tempo al di fuori della casa religiosa ma solo per una giusta e grave causa, come può essere per motivi di salute, di apostolato o altro. Ma per periodi superiori ai sei mesi, occorre sempre la licenza della Sede Apostolica, a meno che non sia per motivi di studio. L’assenza dalla casa religiosa non si deve confondere con l’esclaustrazione a tempo determinato o indeterminato, poiché in quest’ultima il religioso si separa temporaneamente dal proprio Istituto, anche se rimane obbligato all’osservanza dei voti e delle obbligazioni assunte con la professione. Con l’extra claustra, il religioso deve deporre l’abito e, se sacerdote, potrà tenere l’abito di sacerdote secolare; inoltre, perde il diritto di

136

C. 16, q. 1, c. 8.

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voce attiva e passiva nel proprio Istituto durante l’indulto.137 Con l’assenza dalla casa religiosa, invece, il religioso dovrà osservare i voti e le obbligazioni sorte con la professione religiosa, ma pure dovrà continuare ad indossare l’abito (salvo che l’utilità pastorale non suggerisca altro), e gli permangono i diritti di voce attiva e passiva nell’Istituto. Il Superiore durante l’assenza è tenuto a vigilare sul religioso ed, eventualmente, a richiamarlo per punirlo in eventuali colpe gravi, giacché rimane sempre sottomesso all’autorità del Superiore. Inoltre, il Vescovo della diocesi in cui risieda il religioso può proibire allo stesso soggetto di celebrare i sacramenti.138 La facoltà in esame aumenta la potestà del Superiore generale per concedere il periodo di assenza da sei mesi ad un anno, permanendo tuttavia le condizioni che vi sia una giusta causa. Nel caso che si tratti di assenza per cure mediche, può essere data fintantoché perdurino le stesse, a giudizio dei medici. Per assenza a motivo di apostolato, si può concedere la stessa per oltre un anno, purché i fini dell’apostolato siano legati ai fini dell’Istituto.139 Condizione generale per tutte le cause è che vi sia il consenso del Consiglio del Superiore. La facoltà è suddelegabile agli altri Superiori maggiori. Può essere loro data integralmente o con restrizioni ed essi, nel concederla, dovranno sempre avere il consenso del proprio Consiglio.140 Cfr. OCHOA, Commentarium in Rescriptum, 329. Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 454-455; OCHOA, Commentarium in Rescriptum, 341-342. 139 BUIJS, Facultates Religiosorum, 117-118, afferma che se i motivi sono diversi dall’apostolato, dalla malattia, dallo studio, il Superiore può concedere periodi più lunghi purché interrotti al dodicesimo mese. 140 Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 456; BELLUCO, Facultates Superiorum, 122. 137 138

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16. Facoltà di rinunciare ai propri beni volontariamente. De consensu sui Consilii, concedendi suis subditis vota simplicia professis, id rationabiliter petentibus, facultatem cedendi sua bona patrimonialia, iusta de causa, exceptis bonis necessariis ad sustentationem religiosi in casu discessus a Religione. Quam facultatem, de consensu sui Consilii, subdelegare possunt ceteris Superioribus maioribus, qui tamen ea uti nequeunt, nisi suo ipsorum Consilio consentiente.

A norma del can. 581 §1, il professo di voti semplici di un Ordine non può rinunciare validamente ai propri beni patrimoniali, se non sessanta giorni prima della professione solenne (salvo particolari indulti della Santa Sede) e certamente sub conditione secuturae professionis. Lo stesso principio è affermato per i professi di voti semplici nelle Congregazioni al can. 583, 1°. Cedere bona sta ad indicare la volontà di essere diseredati dei propri beni e di cedere la proprietà degli stessi in capo ad altri; vale a dire, traslare in capo ad altri soggetti i diritti e le azioni circa quegli stessi beni. Perciò le restrizioni che sono poste in questa facoltà rispondono all’eventualità che il religioso esca dall’Istituto, venga dispensato dai voti e sia costretto a cercare un lavoro, una casa, magari senza possedere inizialmente niente e, anzi, dovendo ridursi a mendicare.141 Per questo, «deficientiae legis charitas supplere debet».142 Nel caso in cui il soggetto passivo sia una religiosa, si pone il grave obbligo della restituzione della dote (in caso vi fosse stata) e di un eventuale sussidio caritativo da consegnare come aiuto economico. 141 142

Cfr. DIEZ, Commentarium in Rescriptum, 371. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 458.

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La facoltà di rinunciare ai propri beni volontariamente può essere eventualmente seguita da una clausola che permetta la restituzione dei beni del professo di voti semplici, in modo che sia sempre la carità a guidare le azioni dei Superiori. Inoltre, il Superiore generale è vincolato al consenso del suo Consiglio che deve valutare se la giusta causa persista o sia fittizia. Giusta causa sta ad indicare il desiderio di maggior perfezione nel cedere i propri beni e la testimonianza di amore nell’essere assimilati a Cristo povero, confidenti solo nella Provvidenza divina. 143 La facoltà è inoltre suddelegabile da parte del Moderatore supremo con il consenso del Consiglio generale agli altri Superiori maggiori, i quali rimangono comunque vincolati al consenso del loro Consiglio. 17. Facoltà di mutare il testamento prima della professione. Concedenti suis subditis vota simplicia professis, ut testamentum suum mutare possint. Quam facultatem, de consensu sui Consilii, subdelegare possunt ceteris Superioribus maioribus eiusdem Religionis.

È concesso ai professi di voti semplici di emettere testamento e pure di cambiarlo prima della professione in caso di necessità. La prassi abituale della Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari è quella di concedere prima della professione di cambiare qualche parte del testamento nel caso si fosse omesso qualcosa o anche subito dopo la stessa. Dopo la professione, al religioso non è più con-

143 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 128; DIEZ, Commentarium in Rescriptum, in CpR 45(1966), 369; PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 459.

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cesso di mutare il testamento, se non con il consenso della Santa Sede o, in caso di urgente necessità, del Superiore maggiore o anche locale (cfr. can. 583, 2°).144 Con questa facoltà viene evitato il dubbio circa la validità o meno della causa che spinge a mutare il testamento, in caso di necessità.145 Inoltre, non vi è più distinzione tra professo temporaneo o perpetuo. Non ne usufruiscono i professi delle Società di vita comune e gli Istituti secolari, perché in essi fare o mutare il testamento è un atto privato. Si estende invece ai professi di voti semplici, sia perpetui che definitivi, negli Ordini.146 A condizione che vi sia il consenso del Consiglio generale, la facoltà può essere suddelegata ai Superiori maggiori della stessa Religione.147 18. Facoltà di trasferire la sede del noviziato. Transferendi, de consensu sui Consilii, vel in perpetuum vel ad tempus, sedem novitiatus, ad normam iuris iam erectam, in aliam domum eiusdem Religionis: praemonito Ordinario loci, ubi sita est domus novitiatus, et servatis de iure servandis.

Il testamento deve essere valido anche secondo il diritto civile; questa facoltà riguarda le Congregazioni religiose e non gli Ordini, in cui i voti solenni non permettono di possedere alcunché; BUIJS, Facultates Religiosorum, 129. Tuttavia i novizi potrebbero fare testamento, in quanto nessuno glielo impedirebbe; DIEZ, Commentarium in Rescriptum, in CpR 46(1967), 60. 145 La vera causa che sottostà a questa facoltà, sarebbe limitare il potere del Superiore per equità e carità; BUIJS, Facultates Religiosorum, 131. 146 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 131. La stessa facoltà non riguarda gli Ordini di rito orientale, in quanto la stessa è già concessa per diritto. 147 Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 459- 460. 144

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A norma del can. 554 §1, l’erezione della casa di noviziato in una Religione di diritto pontificio necessita della licenza della Sede Apostolica. Allo stesso tempo non si possono designare più case di noviziato nella stessa Provincia, se non per grave causa e con indulto della stessa Sede Apostolica (can. 554 §2). La prassi della Congregazione per i Religiosi, poi, richiede la licenza pure per lo spostamento della sede del noviziato.148 Ora tale licenza non è più richiesta e viene estesa agli stessi Moderatori supremi la facoltà di spostare la sede della casa di noviziato. Tuttavia tale facoltà è vincolata ad alcune condizioni. Prima di tutte, che vi sia il consenso del proprio Consiglio generale. In secondo luogo, che si avvisi l’Ordinario del luogo in cui si trova la casa di noviziato;149 non è per sé necessario avvisare l’Ordinario del luogo dove la casa sarà spostata (anche se non sarà sconveniente farlo). In terzo luogo, si richiede di osservare le norme stabilite dal diritto, siano esse di diritto comune (cann. 554, 564), siano di diritto particolare (Costituzioni, Statuti, …).150 Viene compresa in questa facoltà pure la concessione di passare un tempo determinato fuori della casa di noviziato da parte del maestro con i suoi novizi (ad es. per una gita, una vacanza estiva, gli esercizi spirituali, …). Non è una facoltà suddelegabile, giacché il Moderatore supremo Cfr. BELLUCO, Facultates Superiorum, 130; BUIJS, Facultates Religiosorum, 131; PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 460. 149 Trattandosi di un avviso, l’eventuale opposizione del Vescovo non sarà vincolante, anche se sarà conveniente porre attenzione alle ragioni dello stesso e giungere ad una soluzione pacifica. BUIJS, Facultates Religiosorum, 134, afferma la necessità della licenza scritta dell’Ordinario del luogo nel caso in cui la casa in cui stava il noviziato venga convertita ad altri usi implicanti la sua giurisdizione (per es., scuole, case di cura, …). 150 Cfr. BELLUCO, Facultates Superiorum, 132. 148

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deve sempre intervenire nell’erezione, trasferimento, soppressione delle case di formazione del proprio Istituto.151 19. Facoltà di confermare per un terzo triennio i Superiori locali. Confirmandi, de consensu sui Consilii, ad tertium triennium, Superiores locales, collatis antea consiliis cum Ordinario loci.

Questa facoltà deroga al can. 505,152 che vale pure per le Società di vita comune senza voti pubblici, anche se non hanno case religiose o così definite, essendo formate da pochi soggetti. Riguarda inoltre i Superiori di case di formazione scolastica, di ospedali o altre attività apostoliche (che naturalmente siano allo stesso tempo Superiori di un certo numero di religiosi).153 La ratio della normativa canonica è quella di disporre di un meccanismo che eviti l’abuso d’ufficio da parte di coloro che sono chiamati a reggere i religiosi, di evitare danni e di essere il più possibile vicino alla sensibilità odierna. La ratio della facoltà, invece, è più prettamente pratica, riguardante una causa proporzionata quale può essere quella di gestire una situazione difficile o di mancanza di soggetti adatti a succedere nell’esercizio dell’ufficio. Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 461. “Superiores autem minores locales ne constituantur ad tempus ultra triennium; quo exacto possunt ad idem munus iterum assumi, si constitutiones ita ferant, sed non tertio immediate in eadem religiosa domo”. 153 Cfr. BELLUCO, Facultates Superiorum, 133. Non rientrano come soggetti passivi di questa facoltà i Priori dei monasteri benedettini, dal momento che non sono Superiori locali secondo il senso del can. 505, né i loro Priori conventuali dei monasteri sui iuris, perché rientrano nella categoria di Superiori maggiori; BUIJS, Facultates Religiosorum, 137. 151

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La concessione dell’ulteriore mandato a ricoprire l’ufficio (con il relativo nuovo documento di assunzione) è vincolata ad alcune condizioni. Anzitutto, che se ne tratti con l’Ordinario del luogo.154 Questa prima condizione, come per la facoltà n. 18, non esige il consenso, ma la sensibilità pastorale esorta a giungere ad una soluzione che possa essere condivisa sia dal Vescovo che dal Superiore generale. In secondo luogo, che vi sia il consenso del proprio Consiglio.155 Anche se non è espresso nel rescritto, si richiede inoltre che il Superiore generale proceda nella concessione secondo il diritto particolare, cioè osservando eventuali elezioni o conferme che le Costituzioni o gli Statuti richiedano.156 Questa facoltà non è suddelegabile agli altri Superiori maggiori. 2.5. La costituzione dogmatica Lumen gentium, cap. VI La cost. dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium (21 novembre 1964) viene a collocare una trattazione sui religiosi al cap. VI, subito dopo il capitolo circa l’universale vocazione alla santità nella Chiesa. Essa afferma l’importanza dello stato religioso all’interno della sua compagine e ne ribadisce la non appartenenza alla struttura gerarchica.157 L’Ordinario del luogo del Superiore locale; BUIJS, Facultates Religiosorum, 138. 155 PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 461-462. 156 Cfr. BUIJS, Facultates Religiosorum, 139. Citato anche da BELLUCO, Facultates Superiorum, 134. 157 Cfr. LG 44d: “Status, ergo, qui professione consiliorum evangelicorum constituitur, licet ad Ecclesiae structuram hierarchicam non spectet, ad eius tamen vitam et sanctitatem inconcusse pertinet”. 154

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È infatti quest’ultima a regolare la pratica dei consigli evangelici e a tutelarne la crescita in seno alla Chiesa in conformità con lo spirito dei fondatori. Ecco perché «quodcumque perfectionis Institutum ac sodales singuli a Summo Pontifice, ratione ipsius in universam Ecclesiam primatus, intuitu utilitatis communis, ab Ordinariorum loci iurisdictione eximi et ei soli subiici possunt».158 Ne risulta di conseguenza che essi possono essere governati dalle proprie autorità interne, non tralasciando comunque il debito rispetto ed obbedienza ai vescovi stessi.159 Tuttavia, dall’esame del cap. VI non emergono altri riferimenti diretti od indiretti alla potestà nella vita consacrata.160 Per trattare di essa si deve andare anzitutto al cap. III De constitutione hierarchica Ecclesiae et in specie de Episcopatu, dove si parla di sacra potestas nel definire la natura dell’episcopato individualmente e collegialmente. Essa viene vista come potestà della Chiesa, perché discende da Cristo stesso, capo della Chiesa che è suo corpo.161 Ma nella Chiesa si distingue tra sacerdozio comune dei fedeli e sacerdozio ministeriale o gerarchico, che «essentia et

LG 45b. Cfr. VAN DEN BROECK G., Il capo VI della Costituzione sulla Chiesa, in VitRel 1(1966), 48. 160 A ben guardare, il termine “potestas iurisdictionis” o “iurisdictio” appare solo nove volte in tutti i documenti conciliari, di cui due nella LG ed uno nella Nota Explicativa Praevia; maggiore invece l’uso del termine “potestas”, anche se con significati diversi (potere civile, divino, diabolico, …), Cfr. OCHOA X., Index verborum cum documentis Concilii Vaticani Secondi, Roma 1967, 387-388. 161 Cfr. LG 7d. In seguito si parlerà di sacerdote e sacerdozio in senso giuridico, intendendo sia il presbitero che il vescovo, pur non essendo completamente uguali i due ordini; infatti, afferma Presbyterorum Ordinis 2: “Officium Presbyterorum, utpote Ordini episcopali coniunctum, participat auctoritatem qua Christus Ipse Corpus suum exstruit, sanctificat et regit”. 158 159

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non gradu tantum differant»:162 comune è l’impegno missionario della Chiesa tutta, diversificata l’attività dei suoi membri. La Chiesa può quindi essere vista in relazione all’annuncio del Vangelo e all’incorporazione di tutti i fedeli in Cristo. La parola di Dio diviene dunque il limite oggettivo, non funzionale, dell’esercizio della potestà nella Chiesa.163 Circa il sacerdozio ministeriale, si dice che esso è investito di una potestà sacra, ma non si afferma che essa venga conferita con il sacramento dell’ordine.164 Si dice invece che con la consacrazione episcopale ai vescovi «cum munere sanctificandi, munera quoque confert docendi et regendi, quae tamen natura sua nonnisi in hierarchica communione cum Collegii Capite et membris exerceri

LG 10b. Cfr. a riguardo BERTRAMS W., De subiecto supremae potestatis Ecclesiae, in Per 54(1965), 173-232; ID., De subiecto supremae potestatis Ecclesiae: respondetur obiicenti, in Per 54(1965), 490-499; ID., Il soggetto del potere supremo nella Chiesa, in Civiltà Cattolica 2(1965), 571, sintesi dei lavori precedenti. Lo stesso Autore afferma che il carattere ecclesiologico della potestà vescovile consiste nel suo essere non tanto potestà della Chiesa quanto potestà da esercitarsi nella Chiesa; cfr. anche BERTRAMS W., Papst und Bischofskollegium als Träger der kirclichen Hirtengewalt, Paderborn 1965, 12. 164 Cfr. LG 10b; 27. Ciò trova poi conferma anche nella Nota Explicativa Praevia 2, dove si dice che “in consecratione datur ontologica participatio sacrorum munerum, ut indubie constat ex Traditione, etiam liturgica. Consulto adhibetur vocabulum munerum, non vero potestatum, quia haec ultima vox de potestate ad actum expedita intelligi posset. Ut vero talis expedita potestas habeatur, accedere debet canonica seu iuridica determinatio per auctoritatem hierarchicam. Quae determinatio potestatis consistere potest in concessione particularis officii vel in assignatione subditorum...”. Già nel 1965 verrà perciò alla luce un articolo che espone quali possano essere le figure giuridiche comprese sotto il nome di “vescovo”: FELICI A., Utrum nomine Episcopi comprehendi potuerint etiam alii Praelati, in Apollinaris 38(1965), 19-47. 162 163

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possunt».165 In tal modo si distingue la ‘funzione’ (munera) dalla ‘potestà’ (potestas) e dall’ ‘ufficio’ (officium):166 il laico può quindi essere investito di uffici ad utilità della Chiesa e partecipare dell’unica potestà di Cristo data alla sua Chiesa.167 In LG 31, tuttavia, si scopre che «nomine laicorum hic intelleguntur omnes christifideles praeter membra ordinis sacri et status religiosi in Ecclesia sanciti, christifideles scilicet qui, utpote baptismate Christo concorporati, in Populum Dei constituti, et de munere Christi sacerdotali, prophetico et regali suo modo participer facti...”.168 LG 21b. Ma è importante notare come soltanto a riguardo della funzione di santificare il vescovo sia “plenitudine sacramenti Ordinis insignitus”, LG 26. Della funzione di insegnare e di governare non si fa riferimento alla pienezza dell’ordine; cfr. LG 25, 27. 166 Cfr. STICKLER A.M., Le pouvoir de gouvernement, pouvoir ordinaire et pouvoir délégué, in L’Anné Canonique 24(1980), 77 ss., in cui afferma non solo la distinzione tra matrice ecclesiologica (ordine) e giuridica (giurisdizione), ma ne rintraccia pure i riferimenti nel Nuovo Testamento: quando Pietro riceve da Cristo il primato, destinato a lui e non agli altri apostoli; quando Mattia viene prima designato e in un secondo tempo consacrato; quando i sette diaconi vengono prima eletti e poi consacrati. Vd. anche, dello stesso Autore, Die Zweigliedrigkeit der Kirchengewalt bei Laurentius Hispanus, in Ius Sacrum. K. Mörsdorf zum 60.Geburtstag (Hrsg. A. Scheuermann, G. May), München-Paderborn-Wien 1969, 187; Il diritto nella storia della Chiesa. Visione d’insieme, in Seminarium 27(1975), 750. 167 “Sacri vero Pastores laicorum dignitatem et responsabilitatem in Ecclesia agnoscant et promoveant; libenter eorum prudenti consilio utantur, cum confidentia eis in servitium Ecclesiae officia committant et eis agendi libertatem et spatium relinquant [...]”; LG 37c. Cfr. STICKLER, Le pouvoir de gouvernement, 82-83; La «potestas regiminis»: visione teologica, in Apollinaris 56(1983), 72. È da notare che la dottrina dei tria munera è relativamente recente nella teologia cattolica, in quanto ripresa da quella protestante; cfr. FUCHS J., Magisterium, Ministerium, Regimen. Vom Ursprung einer ekklesiologischen Trilogie, Bonn 1941. 168 Il laico è incorporato a Cristo e al popolo di Dio mediante il battesimo, come sacerdoti e religiosi, ma è colui che né è stato ordinato 165

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I religiosi non fanno parte né della gerarchia né dello stato laicale, in quanto essi costituiscono uno stato a sé, riconosciuto nella Chiesa.169 Tuttavia, in LG 43b si afferma che «status huiusmodi [...] non est intermedius inter clericalem et laicalem conditionem, sed ex utraque parte quidam christifideles a Deo vocantur, ut in vita Ecclesiae peculiari dono fruantur et, suo quisque modo, eiusdem missioni salvificae prosint». Se ne deduce che, al di là dell’apparente contraddizione, parlare di potestà riguardo ai religiosi significa andare al suo fattore comune sia riguardo ai chierici che ai laici, cioè in quegli officia che sono espletati per incarico e non per potestas ordinis, il tutto valutato nell’ottica di quell’«ab Ordinariorum loci iurisdictione eximi et ei soli [del Romano Pontefice] subiici possunt».170 né si è consacrato al Signore. Perciò né sacerdote né religioso, ma comunque gruppo di persone cui demandare uffici ed incarichi che “se ne risultano abusi od urti, il male sarà senz’altro imputabile alle forme di esercizio del potere: ma di queste forme anche la gerarchia è responsabile”; così PHILIPS G., La Chiesa e il suo mistero, Milano 19822, 385. 169 Cfr. LG 44d; 45c. Secondo DANIÉLOU J., The Place of Religious in the Structure of the Church, in RevRel 24(1965), 518, i religiosi sono stati inseriti tra gerarchia e laicato per ragioni pastorali: in un mondo che cerca di costruire se stesso fuori di Dio, persone che si consacrino a Lui totalmente appare più che necessario. “But these reasons would not be absolutely decisive if religious life did not constitute an essential part of the structure of the Church”. Lo stesso autore afferma che, proprio per questo, “the religious state is no more separated from the tasks of the Church than the priestly state or the lay state. In this sense religious participate in numerous cases in the priesthood and in the episcopacy and hence are introduced into the hierarchical ministery; furthermore, women religious carry a large part of the responsability for building up the universal Church in their work of the apostolate, [...]”, 525. GAMBARI E., La Costituzione «Lumen gentium» e la vita religiosa, in VitRel 1(1966), 38, ha voluto perciò affermare lo “stato religioso come genere di vita che prepara alle funzioni gerarchiche e le inquadra in modo degno ed efficiente. La missione della gerarchia comporta una vita di consacrazione”.

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Ciò comporterà la necessità di capire cosa si intenda per officium, definizione peraltro modificata proprio dal Concilio Vaticano II in Presbyterorum Ordinis 20, dove lo si definisce «quodlibet munus stabiliter collatum in finem spiritualem exercendum».171 Nel dibattito acceso circa la potestà così come espressa in LG e nel Concilio, non mancano posizioni diverse e a volte opposte.172 Si trovano così coloro che sostengono la consacrazione come elemento fondante la giurisdizione (rendendo in tal caso inverosimile ed insostenibile quanto poc’anzi affermato)173 e vi sono coloro che sostengono che la potestà venga partecipata sia per mezzo di sacramento che LG 45b. Non si capisce come KAISER M., Affermazioni del Concilio Vaticano II sulla potestà della Chiesa, in KAISER M.-FISCHER E.NASILOWSKI K., Potere di ordine e di giurisdizione: nuove prospettive nella dottrina del potere di giurisdizione, Roma 1971, 19, possa affermare che “si è evitato di usare [riguardo a NEP 2] per la determinazione giuridica l’espressione «iurisdictio», perché quest’ultima, in seguito alla tradizionale dottrina sulla potestà ecclesiastica, ha finito con il significare un potere contrapposto (per non dire opposto) alla determinazione sacramentale”. In effetti, la tradizione della Chiesa ha disgiunto sacramentalità e giuridicità della potestà proprio per meglio descrivere ciò che avviene nella realtà: la potestas ordinis non può essere revocata, ciò che invece succede con la potestas iurisdictionis che, essendo di carattere umano, può venire revocata, ampliata, diminuita e, in alcuni casi, data a persone non rivestite di ordine sacro. 171 Ora, proprio questa definizione creò non pochi problemi, allorché se ne trovò la difficoltà di farla coincidere con una persona giuridica. Cfr. ROBLEDA O., Quaestio de personalitate officii ecclesiastici non soluta, in Per 56(1967), 384-427. Della potestà legata all’ufficio si parlerà in seguito. 172 Per una visione completa degli autori, vd. CELEGHIN A., Origine e natura della potestà sacra: posizioni postconciliari, Brescia 1987, dove l’Autore tratta delle scuole di pensiero principali in maniera esaustiva. 173 È questa la posizione anzitutto di MOERSDORF K., De sacra potestate, in Apollinaris 40(1967), 41-57, e di tutta la sua scuola. Questa linea di pensiero non sembra essere fondata su solide basi storiche, 170

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di missione ecclesiale.174 Non è qui il luogo per trattare tale questione che ci porterebbe lontano; tuttavia preme notare come la seconda scuola sia la più rispondente alla tradizione della Chiesa e al magistero del Concilio Vaticano II.

2.6. Il Decretum de accomodata renovatione vitae religiosae Perfectae Caritatis (28 ottobre 1965) Come già affermato (cfr. 2.3.), uno dei primi frutti che ha portato il Concilio Ecumenico Vaticano II sul rinnovamento della vita religiosa fu certamente il rescritto Cum admotae. Tuttavia, anche quel documento si inseriva in un contesto di ripensamento della vita della Chiesa ed in particolare – nel nostro caso – dei religiosi che affondava le sue radici ben più in là nel tempo (il nome De accommodata renovationae vitae religiosae non è del Concilio, ma risale al Primo Congresso Internazionale degli ‘stati di perfezione’, svoltosi a Roma nel 1950, che già voleva promuovere il rinnovamento negli Istituti). Quando papa Giovanni XXIII indisse il Concilio per rinnovare la Chiesa secondo i ‘segni dei tempi’, voleva darle un nuovo slancio per far sì che seguisse con maggior impegno la sua missione evangelizzatrice e salvifica sulle orme di Cristo. Non si poteva perciò non rivedere anche la forma teologico-giuridica di quella cospicua frangia di quanto piuttosto su una lettura massimalista del CIC 17. Stupisce a questo riguardo trovare anche DE PAOLIS V., De natura sacramentali potestatis sacrae, in Per 65(1976), 59-106, che parte da concetti indimostrabili quanto infondati. 174 A questa “scuola” la storia ha legato numerosi Autori, anche illustri (si pensi a Tommaso d’Aquino). Recentemente si veda soprattutto STICKLER, Le pouvoir de gouvernement, 69-84, e BEYER J., La nouvelle définition de la «Potestas Regiminis», in L’Année Canonique 24(1980), 53-67.

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persone che, mediante la professione dei consigli evangelici, seguono Cristo pressius. Così, dopo una prima fase preparatoria (1960-1962), si costituì una Commissione preparatoria dei Religiosi, a cui fece seguito la Commissione conciliare dei Religiosi, che lavorò proprio durante il Concilio.175 Nella quarta sessione del Concilio fu presentato lo schema del Decretum de accommodata renovatione vitae religiosae, approvato e promulgato con il nome di Perfectae caritatis da papa Paolo VI con il collegio dei Vescovi nella sessione pubblica del 28 ottobre 1965, entrato in vigore il 29 giugno 1966.176 Soggetto del rinnovamento che vuole portare il decreto e le norme postconciliari relative sono i consacrati che È da notare che nell’ultima votazione avuta, dal 6 all’8 ottobre 1965, prima di quella finale generale dell’11 ottobre, i Padri Conciliari, pur avendo sempre la maggioranza assoluta a favore delle mozioni, a riguardo della vita religiosa laicale e del voto di obbedienza ebbero alcuni voti contrari. Difficoltà a questo riguardo si riscontreranno successivamente anche in fase preparatoria del Codice. Cfr. BEYER J., Decretum «Perfectae Caritatis» Concilii Vaticani II, in Per 55(1966), 442. 176 Cfr. ROUSSEAU G., Il decreto “Perfectae caritatis”, in VitRel 1(1966), 49; l’Autore ne faceva parte come segretario della Commissione preparatoria. Il lavoro della Commissione non fu senza difficoltà; cfr. GUTIÉRREZ L., Processus Historico-Doctrinalis Decreti conciliaris De accomodata renovatione vitae religiosae, in CpR 45(1966), 18. Già la costituzione dogmatica Lumen gentium, come abbiamo potuto vedere, aveva esposto al cap. VI la natura teologica dei consigli evangelici che i religiosi liberamente professano nei tre voti, per nutrirli di maggior carità e legarli stabilmente alla Chiesa e al suo mistero. Allo stesso tempo, il decreto Christus Dominus del 28 ottobre 1965 sull’ufficio pastorale dei Vescovi, affermava al n. 34 che “religiosi sacerdotes, qui in presbyteratus officium consecrantur ut sint et ipsi providi cooperatores Ordinis episcopalis, hodie adhuc maiori auxilio Episcopi esse valent”. E più oltre continuava: “etiam alii sodales, sive viri sive mulieres, qui et ipsi peculiari ratione ad familiam dioecesanam pertinent, magnum auxilium sacrae hierarchiae afferunt”. 175

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professano i voti o altri vincoli sacri di castità, povertà, obbedienza (secondo i cann. 487, 488, 7° CIC 17), ovvero ogni “stato di perfezione” nella Chiesa universale, latina ed orientale, oggi esistente (gli Istituti i cui membri facciano professione di castità, povertà, obbedienza).177 Vi rientrano perciò: Religioni (Ordini e Congregazioni, latine ed orientali, di diritto pontificio o diocesano, a qualsiasi Congregazione appartengano), Società senza voti pubblici (di diritto pontificio o diocesano, viventi in comune senza voti, da qualsiasi Congregazione siano rette), Istituti secolari (di diritto pontificio o diocesano, mantenendo sempre la propria indole secolare). Tuttavia, non tutte le norme riguardano ugualmente tutti; sarà il testo a rendere evidente quando si debbano intendere rivolti a tutti o ad alcuni in particolare. 178 Non vi sono particolari riferimenti alla potestà dei Superiori religiosi, ma il rinnovamento viene fatto in vista di un miglior adattamento ai tempi moderni.179 Gli Istituti sono tenuti ad osservare le disposizioni del decreto e a riformarsi secondo la mente e lo spirito dei fondatori nonché dei segni dei tempi e delle attività apostoliche.180 Cfr. OCHOA X., Prima principia accomodatae renovationis vitae religiosae, in CpR 3(1966), 266. 178 Cfr. OCHOA, Prima principia, 268. Il decreto non è una esortazione, ma – come i principi generali del diritto suggeriscono – una vera legge, un obbligo: ha carattere disciplinare e pastorale al contempo; perciò il rinnovamento di cui si parla urge come obbligo. 179 Nello schema del decreto del 1963, in realtà, subito dopo il n. 26 De oboedientia, vi erano due punti, De Superiorum auctoritatis exercitio e De duratione Superiorum in munere, che avrebbero potuto indicare qualcosa riguardo alla potestà nella vita consacrata. Ma nello schema successivo dello stesso anno furono rimossi assieme anche alla trattazione sull’obbedienza (!). Cfr. BEYER, Decretum «Perfectae Caritatis», 449-450. 180 Riguardo agli Istituti apostolici, tra gli schemi iniziali si diceva che “ut apostolatui plene aptatum sit institutum, gubernium quod cen177

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Ciò spetta in special luogo ai Superiori maggiori ed ai Capitoli generali, senza dimenticare il contributo di ciascun membro. Così PC, 1: [...] Haec sacra Synodus sequentia statuit, quae nonnisi principia generalia respiciunt accommodatae renovationis vitae ac disciplinae religionum atque, propria indole servata, societatum vitae communis sine votis et institutorum saecularium. Normae vero particulares pro eorumdem congrua espositione et applicatione post Concilium a competenti auctoritate statuendae sunt.

L’indole disciplinare di tali provvedimenti è tanto più evidente nelle Norme181 in applicazione al Decreto che danno agli Istituti la speciale facoltà di cambiare la disciplina interna ad experimentum.182 In particolare, il decreto e più in generale la riforma della vita religiosa si estende su due direzioni: da un lato trale vocant, retinendum videtur ne deperdat ipsum institutum suam unitatem. Ei per necessariae sunt stabilitas et adaptatio. Quae stabilitas regiminis habetur, ubi ipse Moderator generalis ad vitam vel ad tempus indefinitum sit electus, qui ipse munus dimittere possit ad hoc ampliato, qui ei demissionem suadet. Alii autem contrariam sustinet sententiant pro qua solide etiam militant rationes”. 181 M.p. Ecclesiae Sanctae, in AAS 58(1966), 757-787. In PC 4d si afferma la speranza di non moltiplicare le leggi inutilmente e di eliminare quelle che già siano inutili; cfr. BEYER, Decretum «Perfectae Caritatis», 430. 182 Il carattere disciplinare del decreto, perciò, non dà principi di natura dogmatica o dottrinale, perché sono legati alle mutate necessità dei tempi; non hanno quindi natura stabile. Tali principi di natura dogmatica e dottrinale sono invece presenti nella LG, al cap. VI, dove emerge che lo stato di perfezione riconosciuto dalla Chiesa è di diritto divino, perché si fonda sui consigli evangelici che Gesù stesso ha vissuto ed insegnato; essa non si inserisce nella gerarchia ecclesiastica, ma è un elemento del popolo di Dio voluto da Cristo. Cfr. ROUSSEAU, Il decreto “Perfectae caritatis”, 50.

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la restaurazione del passato (che scaturisce dallo studio delle fonti proprie e comuni; cfr. PC 2, 5, 6), dall’altro il rinnovamento come segno di adattamento ai tempi (pur non mutando la propria natura; cfr. PC 2, 20). Sia l’uno che l’altro devono compiersi motivatamente e con attenzione a non creare lacerazioni e discontinuità con il passato e con l’indole propria dell’Istituto.183 Per quanto attiene il rinnovamento secondo le mutate condizioni dei tempi, si sottolinea che non si deve agire in astratto, secondo principi teorici, perché il rinnovamento non è fine a se stesso, ma volto a meglio rendere un certo adattamento alle condizioni della società in cui viviamo. Il rinnovamento scaturisce da necessità di apostolato, di edificazione del Corpo di Cristo: questa è una necessità intrinseca dello stesso stato religioso.184 2.6.1. Norme del rinnovamento 1. Ai numeri 2-4 del PC si enucleano quelle che sono le norme fondamentali del rinnovamento: i principi generali, i criteri pratici, gli agenti. I principi generali (descritti in PC 2) sono due: seguire Cristo sulla via indicata nel Vangelo e l’ordine tra i diversi valori ed orientamenti degli Istituti. Il primo si riallacCfr. OCHOA, Prima principia, 271-272. A livello storico si richiede di andare alle origini dell’Istituto stesso. Richiede inoltre che ciascun Istituto custodisca il proprio patrimonio spirituale (formato dallo spirito del fondatore, dai propositi dello stesso, dalle tradizioni di ciascun Istituto) e che lo conservi fedelmente. 184 L’adattamento dunque richiede anzitutto di capire la società odierna (sia civile che ecclesiale) e le necessità dei tempi (sia apostoliche che culturali, sia sociali che economiche) ed inoltre di scegliere ed applicare i mezzi che rispondano più efficacemente alle necessità odierne (mezzi che devono essere valutati in relazione alla regione in cui ci si trova, alla Chiesa particolare di cui si è parte); cfr. OCHOA, Prima principia, 273. 183

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cia al cuore della vita religiosa, la sequela Christi mediante i consigli evangelici. Al contempo si rifà al particolare modo che il fondatore dell’Istituto abbia voluto scegliere per seguire Cristo. Per l’Istituto è molto importante armonizzarsi con la vita e le attività della Chiesa, di cui è parte e senza cui non sarebbe. Riguardo all’ordine dei valori e degli orientamenti, anzitutto è da considerare la vita religiosa come un progressivo avvicinamento del professo a Cristo e all’unione spirituale con Dio. Questo seguire Cristo più da vicino (pressius) si tramuta in amore per il prossimo ed in fervido apostolato. È in questo senso che il rinnovamento spirituale viene ad essere il pilastro del rinnovamento della vita religiosa (cfr. PC 2e), senza il quale pure il rinnovamento della legislazione canonica ‘perderebbe sapore’.185 2. Il decreto prosegue con le norme particolari relative alle persone nei nn. 5-18. Esse prendono in considerazione gli elementi comuni a tutti i consacrati (cfr. PC 5): la professione dei consigli evangelici come frutto della consacrazione battesimale per giungere alla contemplazione in qualunque Istituto si sia incardinati. Ancora una volta vi è il primato della vita spirituale sulle altre dimensioni umane.186 Si suggerisce che l’obbedienza è anzitutto imitazione di Gesù obbediente al Padre sino al sacrificio della croce,

Cfr. ROUSSEAU, Il decreto “Perfectae caritatis”, 53-54. Si guarda successivamente al rinnovamento secondo l’indole degli Istituti che può essere contemplativa (il religioso vi testimonia i valori spirituali che si elevano rispetto ai beni temporali e la trascendenza di Dio; cfr. PC 7), attiva (può essere attiva stricte sensu o mista ed unisce vita spirituale ed azione apostolica in un unicum inscindibile; cfr. PC 8), monastica (la prima forma di vita religiosa organizzata; cfr. PC 9), secolare (hanno il carattere della secolarità sia come professione che come apostolato; cfr. PC 11). 185

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esempio della più ampia e perfetta maturità (si invitano i Superiori a governare con spirito di servizio, sapendo le attitudini dei membri ma decidendo sulle stesse).187 3. Anche se il decreto è principalmente rivolto alle persone consacrate, esso dà un rapido sguardo pure agli Istituti. Innanzitutto tratta il problema del numero elevato di Istituti, spesse volte dovuto al loro carattere locale, avvertendo che nella erezione di nuovi Istituti si stia attenti alle condizioni particolari dei luoghi e delle popolazioni (cfr. PC 19). D’altra parte si nota anche la necessità della soppressione di alcuni Istituti invecchiati ed oramai ridotti a pochi membri, azione peraltro da condursi con molta carità ed attenzione, sia che si tratti di estinzione completa, sia che si tratti di aggregazione. Si invitano perciò gli Istituti ad unire le forze mediante quattro forme particolari di aggregazione (cfr. PC 22): la ‘federazione’ (impone un governo comune che offre l’interscambio di aiuti lasciando comunque i singoli Istituti nella loro autonomia), l’ ‘unione’ (l’accorpamento di più Istituti in un Istituto solo); l’ ‘associazione’ (un coordinamento centrale delle opere simili dando assistenza nel proseguire o sostenere le stesse finalità); le conferenze dei Circa i consigli evangelici, si auspica che non si abbracci il voto di castità senza essere provati dovutamente circa la maturità affettiva e psicologica; si esorta a non scindere la povertà interiore da quella esteriore, essendo dipendenti dei Superiori circa i beni ed escludendo il superfluo (cfr. PC 13: gli Istituti evitino il lusso e ogni esagerazione nel cumulo di beni); cfr. ROUSSEAU, Il decreto “Perfectae caritatis”, 56-58. Al n. 15 si richiama la vita comune come luogo per scoprire la santità e salvaguardare la castità. Il n. 17 mantiene l’uso dell’abito religioso come testimonianza della vita religiosa nel mondo, consigliando un armonioso aggiornamento. Il n. 18 auspica il prolungamento della formazione religiosa anche per gli Istituti laicali, maschili e femminili, non solo a materie teologiche ma pure umane e sociali. 187

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Superiori maggiori (in cooperazione con le Conferenze Episcopali riguardo all’apostolato. Cfr. PC 23; Christus Dominus 35).188 4. Si deve infine rilevare che il rinnovamento procede sotto l’impulso dello Spirito Santo e sotto la guida della Chiesa (cfr. LG 45). Perciò, se da un lato è necessario leggere i segni di Dio nel mondo con saggezza e con gli occhi della fede, secondo una visione soprannaturale del mondo e con uno spirito permeato di zelo apostolico, dall’altro occorre che ogni azione interna all’Istituto, soprattutto nel caso che ne modifichi la struttura, sia formata in conformità con quanto insegna la Chiesa. Il rinnovamento deve avvenire secondo i principi che sono stabiliti negli statuti del Concilio, nel decreto PC, nelle Norme di attuazione dello stesso.189 Perciò, nel procedere al rinnovamento dell’Istituto, non si dovrà tenere presente solo dei documenti conciliari che riguardano lo stato dei religiosi, sia direttamente che indirettamente, ma anche di tutte le altre disposizioni, decreti, dichiarazioni, che riguardano la vita ecclesiale ed il suo governo.190 In PC 2c, infatti, si auspica che:

Cfr. ROUSSEAU, Il decreto “Perfectae caritatis”, 59-60. Si invitano inoltre gli Istituti ad abbandonare opere che non siano conformi al loro particolare apostolato nella Chiesa ed a coltivare, invece, lo slancio missionario che è loro proprio e che nella Chiesa è particolarmente importante. 189 Oltre a ciò, l’adattamento ed il rinnovamento ed i documenti o norme giuridiche interne che si arriveranno a produrre devono essere approvati dalla Sede Apostolica, perché tutto ciò avviene nella Chiesa e per la Chiesa stessa. Infatti, anche la professione fatta a Dio nelle mani del legittimo Superiore procede dalla Chiesa ed è ad essa ordinata. 190 Cfr. OCHOA, Prima principia, 274-275. 188

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Omnia instituta vitam Ecclesiae participent, eiusque incoepta et proposita ut in re biblica, liturgica, dogmatica, pastorali, oecumenica, missionali et sociali, iuxta propriam suam indolem, sua faciant et pro viribus foveant.

2.7. Il decreto Religionum laicalium Con il decreto Religionum laicalium191 termina l’ultima grande modifica al diritto della vita consacrata apportato nell’immediato periodo del Concilio Vaticano II. Esso va a completare ciò che era stato iniziato con il rescritto Cum admotae e, in certo qual senso, già con il m.p. Pastorale munus sui vescovi. Viene applicato infatti il principio di sussidiarietà ed, in questo modo, molte competenze proprie della Curia Romana vengono demandate ad autorità inferiori, rendendo più agevole il governo di alcune persone giuridiche.192 Il decreto consta di una breve introduzione dove viene spiegato il fine dello stesso, cioè «meritum suae propensae voluntatis [del Sommo Pontefice] testimonium tribueret et pariter internum regimen promptius efficeret». Se questo è uguale a quello già trattato nel rescritto, ciò rende la somiglianza di non piccola importanza, considerato pure l’ambito in cui le facoltà vengono concesse, ovverosia la 31 maggio 1966, in AAS 59(1967), 362-366. Sul decreto non sono stati fatti molti commenti, anche se si trova spesso citato come un documento importante. Ciò rende una sua analisi difficoltosa, anche se di notevole importanza per capire la portata del canone 596 CIC 83. Per una breve introduzione, si veda: RAVASI L., Speciali facoltà per i Superiori e le Superiore, in VitRel 6(1966), 496-503; 5(1967), 417-422, dove peraltro l’articolo si interrompe appena alla prima facoltà. Inoltre PUGLIESE A., Commentarius ad rescriptum pontificium «Cum admotae», 6 nov. 1964 et ad decretum «Religionum laicalium», 31 maii 1966, in MonEccl 23(1968), 423-464. 191

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potestà del Superiore maggiore. Vi è poi la prima parte che tratta delle singole facoltà in specie ed una seconda parte che indica l’estensione, il soggetto e l’uso cui le facoltà spettano. 2.7.1. Soggetto attivo ed applicazione Come già il titolo esprime chiaramente, il decreto viene applicato per le Religioni laicali, maschili e femminili, purché di diritto pontificio, lo siano esse divenute per decreto di lode o per approvazione dalla Curia romana.193 Alle Religioni laicali andavano poi aggiunte le Società di vita apostolica di diritto pontificio laicali, «in communi viventium sine votis publicis» (II, 2). Per le facoltà di cui ai numeri 2 e 3, pure i supremi Moderatori degli Istituti secolari di diritto pontificio laicali, pur non essendo religiosi in senso stretto, ma facendo certamente parte della vita consacrata della Chiesa. Non vi è alcuna distinzione circa il rito liturgico cui appartengano né a quale Congregazione della Sede Apostolica facciano capo.194 Soggetti attivi di tali facoltà risultano perciò essere anzitutto i Moderatori supremi delle Religioni laicali di diritto pontificio maschili e femminili. Ad essi vanno aggiunA norma del can. 488, 1° del CIC 17, si intendeva Religione come una «societas, a legitima ecclesiastica auctoritate approbata, in qua sodales, secundum proprium ipsius societatis leges, vota publica, perpetua vel temporaria, elapso tamen tempore renovanda, nuncupant, atque ita evangelicam perfectionem tendunt». Si intendeva invece la sua costituzione laicale, a norma dello stesso can. 488, 4°, l’essere composta per la maggior parte di membri laici, cioè non costituiti nel sacro ordine. 194 Non prendono parte ai soggetti di questo decreto tutti gli Istituti di vita consacrata – religiosi, secolari, società di vita apostolica – che siano di diritto diocesano, in quanto sotto diretta competenza dell’Ordinario del luogo e perciò di più semplice governo ed accesso per quanto riguarda il regime interno. 193

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ti, nei casi previsti dal diritto, coloro che vi succedano nell’ufficio in caso di impedimento temporaneo dovuto a cause gravi. Inoltre, essendo concesse tali facoltà ai Superiori generali nell’esercizio del loro ufficio, passano al successore in carica al momento della nuova elezione.195 Soggetti attivi di tali facoltà sono pure i Moderatori supremi delle Società laicali di vita apostolica di diritto pontificio maschili e femminili.196 Per le facoltà nn. 2 e 3 si aggiungono i Superiori generali degli Istituti secolari laicali di diritto pontificio, maschili e femminili. Per la sola facoltà n. 9 vanno ad aggiungersi la abbadessa di monastero sui iuris di monache.197 Le facoltà del decreto possono inoltre essere suddelegate.198 Infatti vi si scrive che «si Supremus Moderator vel Suprema Moderatrix sint in suo munere impediti, easdem facultates possunt vel ex toto vel ex parte alicui sodali proprii Instituti subdelegare, qui ipsorum vice fungitur» (II, 4). Non viene detto che la causa dell’impedimento deve essere grave né in questo caso vi deve essere il consenso del consiglio ed inoltre, se anche vi sia stata la suddelega,

“Hoy dìa resulta ya raro el caso de que el moderator supremo en los Institutos dedicados al apostolado sea vitalicio; la norma es que la duración de su gobierno tenga lìmites fijados por le derecho particular, salvo el caso de que el carisma exija otra cosa y el derecho particular lo haya reconocido en virtud de larga costumbre como ley propia”; BEYER J., Los Institutos de vida consagrada, Madrid 1978, 43. 196 Cfr. Religionum laicalium II, 2-3; TABERA-DE ANTOÑANAESCUDERO, Derecho de los religiosos, 83. 197 Cfr. TABERA-DE ANTOÑANA-ESCUDERO, Derecho de los religiosos, 505. 198 In alcuni casi inoltre è richiesto il consenso del proprio consiglio per l’uso delle facoltà, per suddelegarle alle autorità inferiori e perché gli stessi Superiori maggiori ne possano fare uso. Il consenso è un requisito ad validitatem. Cfr. RAVASI, Speciali facoltà per i Superiori e le Superiore, 503. 195

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il supremo Moderatore stesso non perde il diritto di esercitare queste stesse facoltà.199 La suddelega può essere fatta ai Superiori maggiori, cioè ai provinciali, ai loro vicari, alle persone che coprono uffici con potestà come quella dei provinciali appunto. Si possono delegare loro le facoltà nn. 4, 5, 6.200 Può essere inoltre fatta la suddelega della facoltà 9 alle Superiore di case di Ordini monacali. In caso di impedimento del Moderatore supremo, le facoltà possono essere suddelegate «vel ex toto vel ex parte» (II, 4).201 2.7.2. Le singole facoltà in specie Le facoltà concesse nel decreto,202 intese come potestà di agire lecitamente e validamente, sono apostoliche (in quanto provenienti dalla Curia romana per volere del Sommo Pontefice), delegate (in quanto concesse al supremo Moderatore ratio ufficii), abituali (perché non legate a casi particolari, ma alla generalità degli stessi).203 Allo stesCome pure la Congregazione per i Religiosi non le ha perse nel concederle ai Superiori generali, anche se l’applicazione del principio di sussidiarietà ne impone il non ricorso. 200 La suddelega non è limitata nel tempo, ma può essere limitata per un certo numero di casi o per un certo numero di Superiori maggiori. Vi è in questo un ampio spazio per la discrezionalità del supremo Moderatore. 201 Soggetto passivo di queste stesse facoltà sono invece tutti e solamente i sudditi, in senso ampio, dei Superiori cui tali facoltà sono concesse. Tra questi vanno ascritti non solo i religiosi dopo la professione solenne, ma pure i novizi, gli oblati e i postulanti nonché coloro che risiedono per tutto l’arco della giornata nella casa religiosa, sia per motivi di ospitalità che di educazione scolastica. Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum..., 430. 202 In questo paragrafo ci limiteremo ad un’analisi delle facoltà nel decreto in maniera piuttosto generale. 203 Cfr. RAVASI, Speciali facoltà per i Superiori e le Superiore, 499. Esse risultano essere cumulative, perché sono esercitate cumulativamente con la stessa Curia romana che le ha concesse, cui non sono mai sta199

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so Superiore spetterà poi di interpretarle e di applicarle secondo un uso corretto, non tralasciando di confrontare la prassi della Curia romana. 1. Facoltà di dispensare dalle illegittimità al noviziato. Dispensandi, de consensu sui Consilii, admittendos in Religionem super illegitimitate natalium, dummodo ne sint sacrilegi vel adulterini.

È una facoltà presente, mutando mutandis, già nel m.p. Pastorale munus e nel rescritto Cum admotae. Si tratta di dispensare coloro che siano nati al di fuori di un matrimonio valido o putativo, o coloro che siano stati concepiti da chi non poteva legarsi matrimonialmente perché impedito dall’impedimento di voto o di ordine sacro, per l’ammissione al noviziato.204 Con questa facoltà, che ha bisogno del consenso del consiglio e non è delegabile, si amplia quindi la giurisdizione del Superiore di un Istituto laicale maschile nel cate revocate; personali, perché sono date alla persona stessa del Moderatore supremo, il quale le può esercitare quando ne voglia o lo ritenga più opportuno. 204 Cfr. TABERA-DE ANTOÑANA-ESCUDERO, Derecho de los religiosos, 225; RAVASI, Speciali facoltà per i Superiori e le Superiore, in VitRel 5(1967), 418. Non interessa qui dare un esame della normativa a riguardo della illegittimità dei natali e di come non potessero accedere alla vita consacrata o al sacro ordine i figli illegittimi secondo il CIC 17. Ciò che rileva è che l’impedimento degli illegittimi sussisteva nel Codice per chi aspirava al sacerdozio (non per chi entrava in Religione) e la dispensa era riservata alla Santa Sede. Di fatto, ciò era già normalmente concesso dalle costituzioni di numerosi Istituti religiosi clericali; non succedeva invece per gli Istituti laicali, dove chiaramente le esigenze erano diverse ed il numero degli aspiranti al sacerdozio di gran lunga minore, ed in alcuni casi le costituzioni stesse ne vietavano l’ingresso.

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so in cui un aspirante al sacerdozio voglia entrarvi ed abbia bisogno perciò della dispensa dall’impedimento di cui al can. 542, 2° CIC 17.205 Tale facoltà era stata concessa pure ai Vescovi nel m.p. Pastorale munus, ma la sua utilità fu molto breve, perché vi fece seguito in poco tempo il rescritto Cum admotae ed il decreto che stiamo esaminando. 2. Facoltà di alienare i beni dell’Istituto. De consensu sui Consilii, concedendi, iusta de causa, ut bona propriae Religionis alienari, oppignorari, hypothecae nomine obligari, locari, emphyteusi redimi possint, utque personis moralibus propriae Religionis aes alienum contrahere liceat usque ad eam pecuniae summam quam vel Nationalis vel Regionalis Episcoporum coetus proposuerit et Apostolica Sedes probaverit.

Corrispondente alla parallela facoltà n. 9 del rescritto ed alla n. 32 del motu proprio, concede al Moderatore supremo di disporre dei beni del proprio Istituto mediante vendita,

Cfr. RAVASI, Speciali facoltà per i Superiori e le Superiore, in VitRel 5(1967), 421-422. Si noti, tuttavia, che per l’Autore tale facoltà non dispensa dall’impedimento sorto per ricevere il sacerdozio; inoltre non toglie l’inabilità, a norma del can. 504, per accedere all’ufficio di Superiore maggiore. Di diverso avviso, invece, Pugliese che afferma «tum ex fine concessionis, tum ex contextu, tum ex praxi Apostolica, tum ex colligatione irregularitate impedimenti, extensivae videtur facultatis interpretationi favendum, ita ut, dispensato impedimento, dispensata quoque censeatur irregularitas, nisi in casu particulari aliud constet», PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum..., 441. Ora, la dispensa riguarda l’ammissione al noviziato, quindi non va estesa ad altri gradi e situazioni; ma nel caso in cui l’impedimento riguardi pure l’ammissione agli ordini, non se ne vede come, una volta dispensato, debba essere reiterata la procedura di dispensa. 205

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mutuo, locazione, enfiteusi, nel rispetto della somma di denaro fissata dalla Conferenza episcopale nazionale o regionale, così come approvata dalla Santa Sede (si dovrà essere chiari nello stabilire quale Conferenza sia competente, se quella dove ha sede la persona morale dell’Istituto o quella dove avviene la disposizione del bene. Applicando il principio locus regit actus si dovrà usare la somma stabilita dalla Conferenza del luogo dove avviene l’alienazione). Questa facoltà riguarda non solo la possibilità di migliorare il proprio patrimonio, ma anche quella di contrarre debiti e di peggiorare in qualsiasi modo la condizione dell’Istituto, secondo il disposto del can. 534.206 Essa è vincolata al consenso del consiglio, nonché ad una giusta causa, sempre soppesate le possibilità e le condizioni dell’Istituto stesso. Qualora si dovessero superare i limiti stabiliti dalla Conferenza episcopale, si dovrà ricorrere alla Curia romana (alla Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari o, a seconda dell’origine dell’Istituto stesso, alla Congregazione per le Chiese orientali o alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli).207 3. Facoltà di secolarizzazione dei professi temporanei. Obtinendi pro suis subditis, id petentibus, ut a votis temporariis dispensentur ab Ordinario loci domus cui orator adscriptus est.

Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 445. Cfr. TABERA-DE ANTOÑANA-ESCUDERO, Derecho de los religiosos, 186. È questa una facoltà che viene data anche ai supremi Moderatori degli Istituti secolari maschili e femminili di diritto pontificio e che, se da un lato dimostra la profonda fiducia della Curia romana e del Romano Pontefice verso gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, dall’altro ne dà una profonda responsabilità, rendendo alto il rischio economico per l’Istituto stesso. 206

207

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Pur essendo una facoltà presente anche nel rescritto, comune per fine ed oggetto, tuttavia nel decreto viene trattata con estensione diversa. Viene concessa, oltre che ai supremi Moderatori degli Istituti di vita consacrata e alle Società di vita apostolica laicali e di diritto pontificio anche a quelli degli Istituti secolari dello stesso tipo. Essa sospende la riserva fatta alla Santa Sede per la dispensa dai voti temporanei, così come disposto nel can. 638 CIC 17, permettendo al supremo Moderatore di richiedere tale decreto all’Ordinario del luogo.208 Ma, se il supremo Moderatore del rescritto Cum admotae può esercitare tale facoltà solo avendo il consenso del proprio consiglio, il supremo Moderatore degli Istituti laicali può agire di propria iniziativa ed il decreto non richiede particolari clausole, salvo che sia una richiesta del professo stesso. Ciò richiede che essa sia posta liberamente, di iniziativa del professo temporaneo e quindi dimostrabile in foro esterno: un eventuale conflitto tra Superiore e suddito, infatti, non sarebbe demandabile all’Ordinario del luo-

Cfr. GUTIÉRREZ A., Facultas Superiorum laicorum dispensandi vota subditorum, in CpR 51(1970), 7. È il caso in cui sia il professo stesso a chiedere la secolarizzazione, non che ciò avvenga con il decreto di espulsione o di secolarizzazione imposto dal Superiore dell’Istituto. A differenza quindi del rescritto, il decreto non permette di eseguire tutto il negozio giuridico, ma solo di richiederne l’esecuzione all’Ordinario del luogo, che sarà quello dove si trova la casa in cui il religioso stesso sia ascritto, anche se questo non vi risieda. Ora, sembra logico affermare con Gutiérrez che “sicut professio cum omnibus suis elementis a Superioribus internis acceptatur nomine Ecclesiae, et vi talis acceptationis statum publicum et canonicum mutat, ita non secus poterunt Superiores saecularizationem concedere. Immo vero logica iuridica hoc postulat, cum «res per quascumque causas nascitur per easdem dissolvitur»”, 15. Vd. anche PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 453. 208

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go, ma esclusivamente alla Congregazione della Curia romana competente.209 4. Facoltà di concedere l’assenza dalla casa religiosa. Permittendi, de consensu sui Consilii, propriis subditis ut iusta de causa a domo religiosa non ultra annum absint. Quae venia, si infirmitatis gratia detur, donec necessitas perduraverit dari potest; si vero obeundi opera apostolatus gratia, etiam ultra annum, iusta de causa, dari potest, dummodo et obeunda apostolatus opera cum finibus Religionis coniungantur et normae sive iuris communis sive iuris peculiaris serventur. Qua facultatem, de consensu sui Consilii, subdelegare possunt ceteris Superioribus Maioribus, qui tamen ea uti nequeunt nisi suo ipsorum Consilio consentiente.

Come già espresso per la parallela facoltà 15 del rescritto, questa nostra concede ai Superiori generali di emettere decreti per l’assenza dalla casa religiosa dei sudditi, qualora ve ne ricorrano le valide motivazioni. Se anche i membri degli Istituti sono tenuti all’obbligo di risiedere nella casa religiosa e di condurvi vita comune e di preghiera, tuttavia vi possono essere delle giuste ragioni per cui tale obbligo viene dispensato, quali sono l’infermità e l’apostolato. Ad esse, si danno scadenze temporali diverse: «ob causam iustam: non ultra annum; ob infirmitatem curandam: donec necessitas perduraverit; ob apostolatum exercendum: ultra annum».210 Cfr. TABERA-DE ANTOÑANA-ESCUDERO, Derecho de los religiosos, 505-506. È facoltà concessa per ridurre i tempi di attesa delle Congregazioni per la dimissione di un membro, tempi che presso la Santa Sede erano legati ad una “procédure trop longue et d’éviter un grave scandale”; BEYER J., Vers un nouveau Droit des instituts de vie consacrée, Paris 1978, 92. 210 PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 454. 209

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Tra le cause giuste si può notare pure lo studio, che generalmente comporta tempi lunghi e per questo quindi il permesso andrà rinnovato. Per quanto riguarda l’apostolato, il permesso viene concesso «dummodo et obeunda apostolatus opera cum finibus Religionis coniungantur», nonché secondo il diritto comune e proprio, anche attese le esigenze dell’Ordinario del luogo nel quale il religioso si troverà ad esercitare il proprio apostolato.211 Oltre alla clausola della giusta causa, il permesso viene concesso con il consenso del proprio consiglio, e con lo stesso la facoltà può anche essere suddelegata ai Superiori maggiori, i quali a loro volta potranno usarla con il consenso del proprio consiglio. 5. Facoltà di cedere i beni patrimoniali. De consensu sui Consilii, concedendi suis subditis vota simplicia perpetua professis, id petentibus, facultatem cedendi sua bona patrimonialia, iusta de causa et salvis normis prudentiae. Il caso della malattia giustamente non comporta limiti di tempo, ma perdura fintantoché la malattia persista; ciò risulta essere di notevole utilità, liberando il Superiore da rallentamenti inutili nel governo stesso dei membri dell’Istituto, soprattutto per il caso di anziani che versino in uno stato continuo di degenza, magari in case di riposo esterne all’Istituto stesso. La fattispecie dell’assenza va invece distinta da quella dell’esclaustrazione, per la quale il CIC prevedeva (e prevede) diversamente. Infatti, anche sotto il profilo della voce attiva o passiva, il membro che sia assente dalla casa religiosa mantiene entrambe le voci, mentre l’esclaustrato le perde entrambe per tutto il tempo dell’indulto. L’assente dalla casa religiosa mantiene tutti gli obblighi ed i diritti propri del suo Istituto e del diritto comune, giacché il consacrato resta comunque ascritto alla casa religiosa e non se ne separa giuridicamente finché perdura la giusta causa per mancarvi e rientra nei limiti temporali stabiliti. 211

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Quam facultatem, de consensu sui Consilii, subdelegare possunt ceteris Superioribus Maioribus, qui tamen ea uti nequeunt nisi suo ipsorum Consilio consentiente.

È una facoltà concessa in forza della rivalutazione della professione come donazione totale di sé in povertà. Essa è in conformità con quanto il decr. Perfectae caritatis, al n. 13, afferma, cioè che le Costituzioni delle Congregazioni possano permettere ai membri di rinunziare ai beni patrimoniali acquisiti o in procinto di acquisizione. La renovatio del diritto proprio degli Istituti avrebbe dovuto andare proprio in questa direzione.212 Vincolo per il lecito uso della facoltà è che vi sia il consenso del proprio consiglio. La stessa è suddelegabile anche agli altri Superiori maggiori se vi è il consenso del consiglio del supremo Moderatore, i quali a loro volta necessitano del consenso del proprio consiglio. 6. Facoltà di cambiare il proprio testamento. Concedendi suis subditis ut testamentum mutare possint. Quam facultatem, de consensu sui Consilii, ceteris Superioribus Maioribus eiusdem Religionis subdelegare possunt. Si tratta comunque di situazioni delicate e da valutare «salvis normis prudentiae», in quanto un consacrato o soprattutto una consacrata che siano ancora professi temporanei e che abbiano ad essere dimessi dall’Istituto potrebbero trovarsi in gravi difficoltà economiche, maggiormente nel caso in cui risiedessero in un Paese straniero, lontano dai propri familiari. La giusta causa di cui si parla nella norma per la concessione non ha particolari limiti e, probabilmente, è in riferimento alla conformazione a Cristo povero e umile, supremo ideale di ogni consacrato. È allora opportuno che i Superiori siano animati soprattutto dalla carità, che in questo caso si manifesta quando, in seguito alla dimissione dall’Istituto, si abbia ad aiutare non solo con dei sussidi economici ma anche con mezzi pratici gli stessi membri uscenti. 212

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A norma del can. 583, 2° CIC 17, «Professis a votis simplicibus in Congregationibus religiosis non licet testamentum conditum ad normam can. 569 §3 mutare sine licentia Sanctae Sedis, vel, si res urgeat nec tempus suppetat ad eam recurrendi, sine licentia Superioris maioris aut, si nec ille adiri possit, localis». Ciò era forse dovuto alla particolare gravità dell’atto, cui i membri dell’Istituto potevano essere addotti con il plagio o con malizia. A questo riguardo si doveva ricorrere alla Congregazione per i Religiosi. Tuttavia, nel canone il soggetto passivo è il professo temporaneo, mentre nella facoltà non vi è distinzione alcuna tra temporaneo o perpetuo.213 Non vi è necessità di avere il consenso del proprio consiglio per concedere il cambiamento e la facoltà è suddelegabile con il consenso dello stesso. Per la materia trattata, questa facoltà riguarda i Superiori degli Istituti religiosi, non di quelli secolari né delle Società di vita apostolica, dove gli atti patrimoniali non rientrano nelle disposizioni di vita comune, ma sono relegate alla vita privata dei membri.214 7. Facoltà di trasferire la sede del noviziato. Transferendi, de consensu sui Consilii, vel in perpetuum vel ad tempus, sedem novitiatus, ad normam iuris iam erectam, in aliam domum eiusdem Religionis: praemonito Ordinario loci ubi sita est domus novitiatus, et servatis de iure servandis.

Come già per il rescritto, si tratta qui di trasferire la sede del noviziato in una casa dell’Istituto che già esisteva. 213 Cfr. TABERA-DE ANTOÑANA-ESCUDERO, Derecho de los religiosos, 373-374, in cui si sottolinea che “esta facultad no quita la que en caso urgente, compete incluso a los superiores locales, [...]”. 214 Cfr. PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 460.

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La prassi della Curia romana aveva tuttavia dato luogo alla richiesta della licenza apostolica per potere spostare la sede stessa del noviziato. Ora questa facoltà viene concessa agli stessi Moderatori supremi di Istituti maschili o femminili i quali, avuto il consenso del proprio consiglio ed avvisato l’Ordinario del luogo dove stava il noviziato, possono liberamente concedere la traslazione. Non è una facoltà suddelegabile, anche dal momento che ora tutto l’iter delle case di formazione, dall’erezione alla soppressione, passando per il trasferimento, dipende dal Superiore generale.215 8. Facoltà di riconfermare i Superiori locali ad un terzo triennio. Confirmandi, de consensu sui Consilii, ad tertium triennium Superiores locales, collatis antea consiliis cum Ordinario loci.

È una facoltà concessa in deroga al disposto del can. 505, secondo il quale i Superiori locali non possono essere costituiti per un tempo maggiore al triennio, a meno che le costituzioni non prevedano un secondo mandato, tuttavia mai per un terzo triennio.216 Anche se non è detCfr. TABERA-DE ANTOÑANA-ESCUDERO, Derecho de los religiosos, 245, in cui nota che per le Congregazioni di diritto diocesano, la licenza dell’Ordinario del luogo si richiede solo per la liceità dell’atto. Cfr. anche PUGLIESE, Commentarius ad rescriptum, 461. 216 Immediato; dopo che un nuovo Superiore locale sia stato nominato ed abbia espletato il proprio mandato, può subentrare nuovamente il precedente Superiore. Cfr. TABERA-DE ANTOÑANA-ESCUDERO, Derecho de los religiosos, 88. Se la norma codiciale era volta ad evitare ogni abuso verso l’ufficio ed ogni danno verso gli ascritti a quella determinata casa religiosa, la revisione attuale mira invece a rendere più continuo e quindi pure più stabile l’ufficio stesso. 215

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to esplicitamente, tuttavia si deve ritenere che la conferma ad un terzo mandato debba essere motivata da giuste cause, che saranno anzitutto vagliate con l’Ordinario del luogo, condizione indispensabile per la valida riconferma. Non è una facoltà suddelegabile, ma resta vincolata al consenso da parte del consiglio del supremo Moderatore. Essa riguarda pure le Società di vita apostolica, le quali conducono pure vita comune. 9. Facoltà di dispensare dall’obbligo di recitare l’ufficio divino. Moderatricibus supremis Ordinum monialium dispensandi, iusta de causa, singulas moniales ab obligatione recitandi Officium divinum – si ad hoc vi iuris communis teneantur – cum a choro abfuerint, vel hanc obligationem commutandi in alias preces. Haec facultas subdelegari potest, de consensu Consilii, Superiorissis singularum domorum. Eadem facultas pariter conceditur omnibus Antistitis Monasteriorum monialium sui iuris.

L’ultima facoltà è propria ed esclusiva del decreto, ma ristretta solamente alle monache e consacrate che siano tenute alla recita comunitaria dell’ufficio o, quanto meno, privata. Nella fattispecie, la dispensa è concessa dalla recita dell’ufficio in privato, giacché è questo che sono tenute se non possono parteciparvi in coro. La dispensa può essere anche sostituita da altre preghiere debitamente suggerite. Vi deve sempre essere una giusta causa per la concessione della dispensa, quale potrebbe essere la malattia, la cecità, un impegno sopravvenuto, … Certamente non potrà esserlo la pigrizia e la cattiva volontà della religiosa. La concessione non richiede per la validità il consenso del consiglio (il che potrebbe risultare esagerato e gravoso).

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È una facoltà suddelegabile con il consenso del proprio consiglio, e può essere concessa alle Superiore delle singole case.217

2.8. Conclusioni Giunti al termine di questo secondo capitolo, riassumiamo brevemente i maggiori punti trattati e ne cogliamo delle conseguenze, cercando di mettere in risalto quella che è pure la nostra stessa posizione. Le fonti del can. 501 CIC 17 ci hanno mostrato come nel canone stesso siano confluite prospettive diverse che avevano l’intento di dare uno sguardo il più possibile completo al carattere della potestà con cui i Superiori religiosi dirigevano gli Istituti ed i loro membri, di qualsiasi tipo fossero (Istituti religiosi, Istituti secolari, Società di vita comune). Per fare ciò si erano usati i concetti di potestas dominativa per tutti gli Istituti, iurisdictio ecclesiastica per le Religioni clericali esenti. Ben presto gli studiosi hanno notato che il concetto di potestas dominativa non poteva bastare per qualificare la potestà negli Istituti di vita consacrata non esenti, giacché essa non poteva essere di natura privata ma pubblica, non poteva venire da un principio interno all’Istituto, ma doveva comunque essere concessa da un’autorità esterna; si realizzava ciò che il principio latino afferma: «inde venit auctoritas unde venit societas». Questi sviluppi dottrinali furono confermati da alcuni documenti pontifici in epoca conciliare che ampliavano la sfera di giurisdizione dei Superiori religiosi avvalorando il principio che la potestà viene dall’autorità che ha fonda-

217

418.

Cfr. TABERA-DE ANTOÑANA-ESCUDERO, Derecho de los religiosos,

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to l’Istituto e non può quindi essere di carattere privato. Il rescritto pontificio Cum admotae ed il decreto Religionum laicalium, infatti, erano rivolti ai Superiori degli Istituti di diritto pontificio rispettivamente clericali e laicali e ne ampliavano le facoltà. Allo stesso tempo, il Concilio Ecumenico Vaticano II affermava, nella costituzione Lumen gentium, che alcuni Istituti possono essere esentati dalla giurisdizione dell’Ordinario del luogo, ma non stabiliva in alcun modo che tipo di potestà essi esercitassero. In tale costituzione, infatti, si parla della potestas sacra che nella Chiesa ha un’unica fonte, Gesù Cristo, ma lascia aperti molti spazi all’interpretazione se sia legata alla potestas sacramentalis o alla potestas non sacramentalis. Ciò che importa rilevare, invece, è che essa è l’unica potestà affidata da Cristo alla Chiesa, che si manifesta in vari modi per la sua missione. In linea con la tradizione della Chiesa e con numerosi studiosi, si può affermare che la potestà sacramentale o di ordine (che riguarda i cinque sacramenti amministrati esclusivamente da chi è ordinato in sacris) non è l’unica nella Chiesa, ma vi è pure una potestà non sacramentale o di giurisdizione che, pur essendo proveniente dall’unica potestas sacra della Chiesa, può venire trasmessa anche ai laici e perciò da essi esercitata. Essa è comunque potestà di governo: questo si nota in particolare nelle facoltà 13 del Cum admotae e 3 del Religionum laicalium, dove atti tipicamente propri della gerarchia ecclesiastica (perciò legati alla potestà sacra) vengono attribuiti agli Istituti clericali non esenti e agli Istituti laicali. Una nota non irrilevante, prima di passare al cap. III sulla formazione del can. 596 del CIC 83, riguarda il gioco che la dottrina ebbe a svolgere nell’approfondimento del tema della potestà dominativa: fu infatti grazie all’opera di insigni giuristi che anche a livello istituzionale si poté notare l’approccio sbagliato che si aveva nei confronti

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degli Istituti religiosi, secolari, Società di vita comune. E misconoscendo il ruolo degli Istituti e Società nella Chiesa e la loro posizione giuridica, se ne travisava pure l’attribuzione dei diritti e doveri, a volte lasciando troppa autonomia negli stessi e non vigilando sugli abusi che i Superiori correvano il rischio di esercitarvi.

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Cap. III

La fase di codificazione del can. 596 In questo capitolo si prendono in esame le tappe principali che hanno portato alla redazione del can. 596 CIC 83, prendendo spunto dai principi che hanno fatto da sfondo alla riformulazione di un Codice nella Chiesa latina, proposti a ridosso del Concilio Vaticano II, e arrivando alla loro redazione in forma canonica. Dopo aver visto l’evoluzione del concetto di potestà negli Istituti di vita consacrata dalle origini di questa stessa all’interno della Chiesa fin quasi ai giorni nostri, ci troviamo di fronte ad una sua nuova visione che porta con sé la necessità anche di una riformulazione del diritto che la riguarda, così da poterle dare nuovo slancio e armonia in sé ed in rapporto con la gerarchia. Nonostante questo, difficoltà nell’armonizzare una visione unitaria si sono avute all’interno dei gruppi che dovevano porne in norme la dottrina e la teologia. 3.1. Principi ispiratori della riforma codiciale La Commissione De revisendo Codice Iuris Canonici fu costituita formalmente il 28 marzo 1963, ma cominciò i propri lavori soltanto con la chiusura del Concilio,1 per Cfr. FAGIOLO V., Dal Concilio Vaticano II al nuovo Codice di Diritto Canonico, in Vivarium (4/1980-1983), 25-26. I Gruppi di studio cominciarono a riunirsi dal maggio 1966; cfr. Communicationes 28 (1996), 195 ss. Tuttavia, un Coetus centralis che ripartiva e coordinava le competenze tra i diversi Gruppi fu attivo fin dal maggio 1965; cfr. Communicationes 1(1969), 44-45. 1

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poter tener conto di tutte le proposte in esso emerse. Essa doveva porre un ritocco al CIC 17 che era stato redatto senza alcun principio direttivo, in quanto esso era un corpo organico di norme vigenti atto a togliere l’incertezza del diritto circa le norme cadute in disuso. Da principio la discussione ruotò attorno a tre questioni: se doveva esserci un solo Codice o due (per la Chiesa Latina e Orientale); il regolamento interno; la distribuzione del lavoro fra i Gruppi.2 Ben presto, però, si capì la necessità di dare delle direttive, dei principi generali riguardanti la codificazione e il 30 novembre 1966 il p. Bidagor (allora segretario della Commissione) chiese ai Consultori di inviare pareri circa i principi direttivi che si sarebbero dovuti seguire per la revisione del CIC 17.3 Questi stessi furono presentati all’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (settembre-ottobre 1967) nella bozza raccolta dal segretario del Coetus e dallo stesso Sinodo approvati, dando loro maggior autorevolezza. Con i Principia directiva generalia non si volle risolvere questioni dottrinali, quanto offrire uno strumento di carattere pratico.4 Essi si collocano nell’orizzonte del diritto caCfr. Communicationes 1(1969), 37. Le proposte conciliari bisognose di un quadro normativo erano numerose, se si contano anche tutte quelle che non furono neppure presentate ai Padri conciliari. In linea di massima possono essere divise in due settori: ab intra (come rapporti nella Chiesa e tra le Chiese), ab extra (come missione di tutti i fedeli). 3 Le proposte raccolte costituirono un «foglio d’ufficio» di ben 36 pagine dal titolo Principia directiva generalia pro Codicis Iuris Canonici recognitione. Cfr. GUTIÉRREZ J.L., La formazione dei principi per la riforma del «Codex Iuris Canonici», in CANOSA J. (a cura di), I principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano 2000, 14. 4 Infatti, fu sollevato anche l’interrogativo (che non passò nei Principia) se la potestà di giurisdizione sia posta come fondamento del carattere giuridico delle norme ecclesiastiche; cfr. Principio I; verbale della sessione, II, 5-6. 2

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nonico, cogliendolo «nel suo senso più radicale (e, cioè, in quanto res iusta o id quod est alteri debitum)»,5 così come il diritto si trova in ogni tipo di società. Infatti, «la Chiesa e le società civili coincidono nel loro carattere di società e sono dotate allo stesso tempo di “peculiarità”».6 Più che a riformare delle leggi, miravano a porre in forma normativa gli insegnamenti conciliari. I dieci Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant sono i seguenti:7 – de indole iuridica Codicis; – de fori externi et interni positione in iure canonico; – de quibusdam mediis fovendi curam pastoralem in Codice; – de incorporatione facultatum specialium in ipso Codice; – de applicando principio subsidiarietatis in Ecclesia; – de tutela iurium personarum; – de ordinanda procedura ad tuenda iura subiectiva; – de ordinatione territoriali in Ecclesia; – de recognoscendo iure poenali; – de nova dispositione systematica Codicis Iuris Canonici. Essi sono appunto di carattere generale, tanto che alcuni Gruppi, come il Coetus de Institutis perfectionis (poi rinominato Coetus de Institutis vitae consecratae), si diedero alcuni principi specifici per il lavoro interno alla Commissione.8 Il IV principio, «de incorporatione facultatum specialium in ipso Codice», chiedeva l’incorporazione delle faGUTIÉRREZ, La formazione dei principi, 24. GUTIÉRREZ, La formazione dei principi, 25. Il diritto canonico è perciò stesso strettamente unito alla struttura della Chiesa come società terrena organizzata che presuppone l’uguaglianza di tutti i fedeli (cui conseguono diritti e doveri) ed i mezzi perché questa sia tutelata giuridicamente; cfr. LOMBARDÌA P., Nuevo Derecho Canonico, La Florida 1983, 21-23. 7 Si trovano in Communicationes 1(1969), 77-85. 8 Cfr. Communicationes 2(1970), 170-173. 5 6

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coltà concesse agli Istituti di vita consacrata e Società di vita comune così come trattate nel cap. II e, di conseguenza, una chiara segnalazione delle autorità che avessero potuto dispensare. In questo modo furono incorporate, tra tante facoltà, quella di elaborare e promulgare i cambi e l’approvazione di tutti i codici e libri propri inferiori alle Costituzioni; l’elezione capitolare del supremo Moderatore dell’Istituto religioso senza necessità di conferma della Santa Sede; la concessione di assenze dalla casa religiosa per periodi non superiori all’anno (per studio, infermità, apostolato nel nome dell’Istituto, anche superiore all’anno). Così pure fu definito che gli Istituti di diritto pontificio sono, per quanto riguarda la disciplina ed il regime interni, immediatamente sottoposti alla Santa Sede.9 Per il nostro tema sarà rilevante il numero V, circa il principio di sussidiarietà. Esso può risultare incompleto,10 ma come tutti gli altri, svolse una funzione di carattere generale che fu specificata dalle varie Commissioni. Daremo infine un rapido sguardo anche al VI principio, sulla ‘tutela dei diritti della persona’, per completare il quadro della potestà nell’ambito della riforma del diritto della vita consacrata. Come osserva URRU A.G., Principio di sussidiarietà e diritto dei religiosi nel nuovo Codice di Diritto canonico, in VitCons 19(1983), 501511, il IV principio può già essere visto come una applicazione del V. 10 Cfr. Communicationes 1(1969), 80-82, dove si parla di tale principio solo in relazione ai rapporti fra Santa Sede e Chiese particolari. In realtà era stato proposto di estendere tale principio anche ad altri contesti della vita sociale della Chiesa già nel Coetus dell’aprile ’67, ma il testo dei Principia era già stato mandato alla stampa per il Sinodo dei Vescovi. Cfr. GUTIÉRREZ J.L., El principio de subsidiariedad y la igualdad radical de los fieles, in IusCan 1(1971), 413-444; ID., I diritti dei «christifideles» e il principio di sussidiarietà, in Atti del Congresso Internazionale di Diritto Canonico. La Chiesa dopo il Concilio, vol. II/2, Milano 1972, 785-796. 9

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3.1.2. Il principio di sussidiarietà Il principio di sussidiarietà è stato utilizzato per giustificare le posizioni più disparate: per sostenere la decentralizzazione dei poteri, per appoggiare un pensiero personalista, per ridurre il campo dell’autorità e dell’obbedienza, per insistere sull’autonomia delle funzioni gerarchiche.11 Nel suo significato latino, subsidium indicava un gruppo di soldati che stavano dietro l’armata cui portavano soccorso ai combattenti affaticati o feriti;12 di qui il passo fu breve per intenderlo come auxilium, aiuto. Ma va subito notato che se auxilium indica un aiuto che viene dall’esterno, subsidium indica invece un aiuto che viene dall’interno, che serve a fortificare un mezzo principale. Quindi, la sussidiarietà si differenzia pure dalla complementarietà che è un appoggio utilizzato dall’agente principale per perfezionare la sua attività conformemente alla sua natura. Il principio di sussidiarietà non è quasi mai utilizzato nel CIC 17 (appare il termine subsidium nei cann. 671 e 981 con il significato di aiuto economico e parcella), ma emerge piuttosto in campo teologico-pastorale e nella dottrina sociale della Chiesa parlando dello Stato, a partire da Cfr. LESAGE G., Le principe de subsidiarité et l’état religieux, in Studia Canonica 2(1968), 99. Una critica all’identificazione della sussidiarietà con il concetto di decentramento viene fatta da BEYER J., Le principe de subsidiarité: son application en Eglise, in Gregorianum 69(1988), 442-443, il quale afferma che “le principe de subsidiarité n’est pas un principe de décentralisation, mais plutôt un principe de stabilisation entre deux pouvoirs, celui des citoyens et celui des gouvernants. Il favorise une décentralisation équilibrée ; bien plus, il établit entre diverse autorités une hiérarchie entre pouvoir central, régional, provincial et communal […]. Cette décentralisation équilibrée n’est cependant pas son premier but”. 12 “Subsidium proprie dicitur de militibus qui, instante pugna, post aciem locantur, ut laborantibus aut fessis subsidio sint”; FORCELLINI A., Lexicon totius latinitatis, t. 4, Padova 1940, 553-554. 11

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Leone XIII,13 Pio XI,14 Pio XII,15 arrivando a Giovanni XXIII16 e al Concilio Vaticano II.17 Esso indica che il fine della società è la persona e che tutta la società è sussidiaria in rapporto ai suoi membri; parimenti esprime il ruolo suppletivo della società nei riguardi della vita economica dell’individuo. Se vi è pure una accezione di ausiliarietà, essa va intesa nel senso che lo Stato sorregge gli individui in vista del bene comune e della giustizia distributiva18

Cfr. LEONE XIII, Enciclica Rerum novarum del 15 maggio 1891, in ASS 23(1890/91), 643-652. 14 Cfr. PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, in AAS 23(1931), 190-216. Al n. 203 afferma che “[...]socialis quaevis opera vi naturaque sua subsidium afferre membris corporis socialis debeat, numquam vero eadem destruere et absorbere [...]. Quare sibi animo persuasum habeant, qui rerum potiuntur: quo perfectius, servato hoc «subsidiarii» officii principio, hierarchicus inter diversas consociationes ordo viguerit, eo praestantiorem fore socialem et auctoritatem et efficientiam eoque feliciorem laetioremque rei publicae statum”. 15 Cfr. PIO XII, Allocution aux nouveaux Cardinaux, 20 febbraio 1946, in AAS 38(1946), 145, in cui afferma che “tutta l’attività sociale è per sua natura sussidiaria”. 16 Cfr. GIOVANNI XXIII, Enciclica Mater et magistra, 15 maggio 1961, in AAS 53(1961), 405-447, dove un intero paragrafo è dedicato al “principio subsidiarii officii”. 17 Nel Concilio se ne parlò solamente nella dichiarazione Gravissimum educationis, al n. 3, riguardo all’educazione e alla cultura. Tuttavia lo si applica solo in maniera imprecisa e senza riferimento agli interventi pontifici precedenti. Cfr. KARRER O., Le Principe de subsidiarité dans l’Eglise, in L’Eglise de Vatican II. Etudes autour de la Constitution conciliaire sur l’Eglise, Parigi 1966, 575. 18 Con TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 29, 3, possiamo affermare che la persona è il principio, il soggetto e il fine di tutte le istituzioni. Proprio nel campo della giustizia “le principe de subsidiarité n’è pas simplement sociologique; il appartient à la philosophie du droit”; BEYER J., Principe de subsidiarité ou juste autonomie dans l’Eglise, in Nouvelle Revue Theologique 108(1986), 803. 13

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(dando quindi diritto di intervento allo Stato, ma contemporaneamente limitandone il campo d’azione): si crea in questo modo una gerarchia tra società, per così dire, maggiori e minori, primarie e secondarie. Ciò non andrebbe a scapito della natura dell’autorità, resa indispensabile per il bene comune e quindi per garantire il primato della libertà personale: si può dire che è di una «competenza fondata sul bene comune e anteriormente all’autorità interna della società, che si occupa il principio di sussidiarietà».19 Nel riconoscere la Chiesa come società, pur con le proprie caratteristiche, si può cogliere l’attuabilità del principio anche ad essa, tramite una applicazione analogica «ad quamlibet (materialem consideratam) activitatem socialem, necnon indifferens est quoad naturam boni habendi per activitatem socialem».20 Il principio di sussidiarietà è applicato anche nel m.p. Ecclesiae Sanctae di Paolo VI, lì dove si accorda a qualsiasi livello di autorità, quella libertà necessaria per esercitare efficacemente.21 Autonomia delle funzioni diviene allora non ingerenza di un rango gerarchico superiore in uno inferiore,22 favorendo la decentralizzazione del governo ed un miglior esercizio dell’autorità e dell’obbedienza. Applicando il principio al governo dell’Istituto religioso, notiamo alcuni punti rilevanti: il ruolo ausiliario dell’Istituto; la garanzia della libertà; il rispetto della persona-

19 UTZ A., Ethique sociale, t. 2, Philosophie du droit, Friburgo 1967, 177 [nostra traduzione]. 20 BERTRAMS W., De principio subsidiaritatis in iure canonico, in Per 46(1957), 15. 21 Cfr. PAOLO VI, m.p. Ecclesiae Sanctae, in AAS 58(1966), 778. 22 “Un organe supérieur ne devrait jamais s’emparer de la fonction d’un organe inférieur, mais ne devrait agir qu’en second lieu, pour le fortifier quand c’est nécessaire”; ORSY L., L’autorité dans la vie religieuse, in Vie consacrée 39(1967), 224.

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lità; la ripartizione gerarchica dell’autorità; la specificità delle funzioni.23 Quanto al primo punto, si nota come l’Istituto rivesta al pari della società in generale (e, in quanto società, della Chiesa stessa), un ruolo ausiliario rispetto ai membri dell’Istituto stesso. Se il ruolo della società in generale e del potere pubblico in particolare è quello di salvaguardare il carattere intangibile dei diritti della persona umana e di facilitare il compimento dei suoi propri doveri,24 ne consegue che essa deve osservare la non ingerenza nei diritti di ogni singolo individuo, ma pure prestargli il proprio aiuto complementare. In questo senso la Chiesa, agendo in nome di Cristo, interviene in diverse maniere nella vita personale dei cristiani. Allo stesso modo, l’Istituto fornisce un ruolo complementare di motivazione ed orientamento, di liberazione e compimento della propria vocazione al membro che vi prenda parte. Sarà perciò necessario riconoscergli una giusta autonomia di vita, nel campo del governo e della disciplina propria, soprattutto per quanto riguarda l’approvazione di regolamenti e statuti interni.25 In quanto garanzia di libertà, il principio è difficilmente rilevabile nello stato religioso. Tuttavia, se si osserva Cfr. LESAGE, Le principe de subsidiarité, 117 ss. BEYER J., Verso un nuovo diritto degli Istituti di vita consacrata, Milano 1976, 21, nota come “il principio di sussidiarietà in questa parte del diritto sembra doversi applicare più che nelle altre parti della legislazione della Chiesa, poiché la varietà degli Istituti di vita consacrata, per la multiforme ricchezza dei doni dello Spirito Santo, risulta grande e mirabile; […]”. 24 Cfr. PIO XII, Messaggio nel 50° anniversario della Rerum novarum, 1° giugno 1941, in AAS 33(1941), 102. 25 Cfr. ANDRÉS D.J., El estatuto codicial sobre la vida religiosa (can. 573-709) en la formalizaciòn jurìdica de los «principia quae CIC recognitionem dirigant» del Sìnodo episcopal de 1967, in CANOSA J. (a cura di), I principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano 2000, 440-442. 23

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che colui che entra in un Istituto pone la propria obbedienza in un Superiore che è mandatario della Chiesa e rappresentante di Dio, si nota come tale obbedienza divenga segno dell’offerta della propria libertà che si trova proprio nel fare la volontà del Padre. In questo senso, il principio di sussidiarietà non può che essere la miglior garanzia di libertà, tenendo ben presente che i Superiori, in quanto rivestono un ruolo profetico e pastorale, sono responsabili davanti a Dio dei loro sudditi e sono servitori della comunità.26 Circa la ripartizione gerarchica dell’autorità, la Chiesa, come notato nel cap. II, riceve da Gesù Cristo la propria struttura gerarchica che è formata dal Romano Pontefice e dai Vescovi. Questa autorità della Chiesa è comunicata ai Superiori religiosi dal Romano Pontefice stesso:27 infatti, se è vero che il potere nella Chiesa deriva da Dio, altrettanto deve considerarsi che esso non risiede tutto nella gerarchia.28 In questo senso non si vede come possa esCfr. ANDRÉS H., Ejercicio de la autoridad (Decreto «Perfectae Caritatis»), in Estudio Augustiniano 3(1968), 18; VACA C., La vida religiosa en San Agustìn, IV, Madrid 1964, 169. 27 PIO XII, Esortazione ai Superiori generali, 11 febbraio 1958, in AAS 50(1958), 153, afferma che questa autorità passa dal Papa ai Superiori con la delega della suprema giurisdizione, sia tramite il Codice, sia tramite l’approvazione delle Regole e degli Istituti. CARDIA C., La rilevanza costituzionale del principio di sussidiarietà nella Chiesa, in CANOSA J. (a cura di), I principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano 2000, 256, nota che “il principio primaziale ecclesiastico viene interpretato come ontologicamente contrapposto e impeditivo per l’esplicarsi della sussidiarietà”. Questa posizione può essere accolta solo se il principio primaziale viene inteso in maniera verticistica-assoluta e non piuttosto come elemento fondante la stessa potestà nella Chiesa, sia nel collegio episcopale in forma ordinaria, sia a chi venga delegata da chi la detiene, in forma straordinaria. 28 Cfr. GUTIÉRREZ, El principio de subsidiariedad, 425. 26

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serci altra potestà all’interno dell’Istituto stesso, sia esso di indole clericale, che di indole laicale. Poco importa poi per il nostro studio se, nella varietà dei carismi che animano gli Istituti, la forma di governo presente in questi a volte sia più di tipo monarchico-verticistico, altre volte più di tipo democratico-esteso.29 Ciò che rileva, invece, è che il potere nella Chiesa è sempre visto nell’ottica del servizio, in quanto finalizzata ai mezzi sacramentali di salvezza e alla tutela del depositum fidei. Decentralizzazione dei poteri (ben fissati nei loro limiti nelle costituzioni e nei regolamenti sia a livello locale che provinciale e generale) e autonomia degli Istituti divengono mezzi utili per rendere più spedito e aderente alle necessità dei religiosi il governo degli stessi. Per questo «Superiores cuiusque gradus opportunis facultatibus muniantur, ne inutiles vel nimis frequentes recursus ad altiores auctoritates multiplicentur».30 I Superiori, a completamento del principio, devono avere requisiti fissati dal diritto per essere eletti, senza bisogno di conferme o altro da parte della Santa Sede.31 Da quanto esposto si può dedurre che «il principio di sussidiarietà dà i suoi migliori frutti se riferito ed applicato ‘ai grandi equilibri costituzionali’ che caratterizzano un determinato ordinamento, se riferito cioè agli essenziali e precipui fondamenti di un determinato assetto sociale e giuridico».32 Se da un lato esso denota il bisogno di com-

29 Anche se è da notare che il Concilio (PC 4) e Paolo VI (m.p. Ecclesiae sanctae, 2; 18) hanno auspicato una maggior partecipazione nel governo degli Istituti di tutti i religiosi sia come capitolari che come consiglieri. 30 M.p. Ecclesiae sanctae, 18. 31 Cfr. ANDRÉS, El estatuto codicial sobre la vida, 443. 32 CARDIA, La rilevanza costituzionale del principio di sussidiarietà nella Chiesa, 240.

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plementarietà nella capacità decisionale, dall’altro evidenzia che tale bisogno può avere risposte diverse sia in campo temporale che spaziale, nelle strutture sociali differenti in cui si manifesta: di fatto, nel principio di sussidiarietà vi è una connotazione di storicità e di relatività legata alla società cui è applicato. Ma, allo stesso tempo, il principio di sussidiarietà denota il carattere di universalità che è sempre stato proprio della Chiesa cattolica, nella sua capacità di farsi guida in ogni dove con unità e attenzione al mondo. 3.1.2. La tutela dei diritti della persona Il sesto principio va contro l’arbitrarietà dell’uso della potestà nella Chiesa: l’autorità gerarchica e il fedele cristiano, incorporato alla Chiesa mediante il battesimo e perciò soggetto di diritti e doveri, si incontrano in un ambito di legittimità che garantisce la libertà e l’autonomia di ciascuno, essendo la potestà «pro pastorali cura subditorum».33 Essa rientra nell’ambito relazionale personale tra il Superiore e i soggetti destinatari della stessa, relazione che muterà a seconda della competenza dell’autorità e della condizione del soggetto destinatario in quanto ad ampiezza giuridica, ma che resterà intatta in quanto alla finalità di edificazione del Regno di Dio.34 Questa connotazione pastorale della potestà comporta uno stile dialogico-comunicativo che tende a cercare la li33 Principio VI, Communicationes 1(1969), 82. Cfr. ARRIETA J.I., I diritti dei soggetti nell’ordinamento canonico, in Fidelium Iura 1(1991), 15 ss.; HERRANZ J., Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, Milano 1990, 117-120. 34 Cfr. PREE H., Esercizio della potestà e diritti dei fedeli, in CANOSA J. (a cura di), I principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano 2000, 308; DEL PORTILLO A., Fieles y laicos en la Iglesia. Bases de sus respectivos estatutos juridicos, Pamplona 19812, 70-72.

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bera accettazione delle decisioni e la fiducia nell’autorità, favorendo in questo modo anche la sua credibilità: il concetto di potestà dominativa si allontana per lasciar spazio al concetto di ufficio pubblico, esercitato per il bene della comunità.35 Acquista particolare valore perciò il ‘principio di legalità’, ad ogni livello giuridico (gli atti giuridici devono essere previamente disciplinati dalla fonte superiore), nonché il riconoscimento dei ‘diritti soggettivi’ e della loro tutela nel diritto della Chiesa e, infine, una struttura di ‘partecipazione corresponsabile’ nell’esercizio della potestà (nei suoi tre livelli legislativo, esecutivo, giudiziale).36 Di pari passo con l’aspetto partecipativo dei fedeli all’esercizio della potestà, la revisione del Codice avrebbe dovuto porre attenzione alla trasparenza e pubblicità delle decisioni, favorendo che «usus huius potestatis in Ecclesia arbitrarius esse non potest, idque iure naturali proibente atque iure divino positivo et ipso iure ecclesiastico».37 La responsabilità dell’autorità gerarchica avrebbe dovuto essere non soltanto morale, ma anche giuridica (in questo senso, infatti, era stata prevista la formazione di tribunali amministrativi). Il principio di legalità, quindi, doveva far risaltare la legalità sostanziale, «rispettando l’origine diviCfr. HERRANZ, Studi sulla nuova legislazione, 121-122. ZUANNAZZI I., Il principio di legalità nella funzione amministrativa canonica, in Ius Ecclesiae 8(1996), 38, afferma che vi è “il passaggio dall’idea soggettiva e paternalistica di potestà, assoluta ed illimitata nei contenuti, all’idea oggettiva e garantistica di funzione, condizionata al rispetto di determinati valori”. Non c’è più dominio in senso unilaterale, quanto piuttosto relazione giuridica bilaterale. 36 Cfr. VELA SANCHEZ L., Christifidelium officia et iura fundamentalia descripta in legis fundamentalis Schematis textu emendato, in Per 61(1972), 611-615; MONETA P., La tutela dei diritti dei fedeli di fronte all’autorità amministrativa, in Fidelium Iura 3(1993), 290-294. 37 Communicationes 1(1969), 82. 35

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na di tutta la potestà nella Chiesa e di tutti i valori fondamentali per la vita e la missione della Chiesa al servizio della salus del fedele ed essendo più ampio rispetto agli ordinamenti statali […] e svolgendosi in un rapporto che non è soltanto giuridico, ma anche ‘pastorale’ e ‘personale’».38 Il principio di legalità andava comunque letto in correlazione con il principio III di revisione del Codice, dove si afferma che «in iure condendo Codex non tantum iustitiam sed etiam sapientem aequitatem colat, quae fructus est benignitatis et caritatis, ad quas virtutes exercendas Codex discretionem atque scientiam Pastorum et iudicum excitare satagat».39 Questa discrezione e scienza doveva essere lasciata alla libertà dei Pastori lì dove la soluzione da adottare potesse essere stata diversa per il bene e per il fine stesso della norma. Questo è ciò che avviene, per altro verso, già in campo giudiziario, quando verità e giustizia si incontrano.40 In questo modo si affermano l’uguaglianza radicale di tutti in quanto ai diritti fondamentali; la realizzazione dei diritti fondamentali come esercizio dell’essere cristiano; la prevalenza dei diritti fondamentali sul diritto meramente ecclesiastico.41 Il principio di tutela dei diritti della persona, se dal punto di vista soggettivo garantisce lo stesso trattamento di fronte al potere pubblico nell’applicazione della legge, dal punto di vista oggettivo impone l’uguaglianza della legge stessa, ovverosia la necessità di evitare ogni genere di PREE, Esercizio della potestà, 321. Communicationes 1(1969), 79. 40 Ciò significa pure che la legge che lascia spazio alla discrezionalità deve stabilire i criteri a cui l’autorità deve rifarsi per esercitare questa stessa discrezionalità, secondo il principio di legalità stesso. 41 Cfr. HERVADA J., Los derechos fundamentales del fiel a examen, in Fidelium Iura 1(1991), 226-228. 38 39

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arbitrarietà per essere il più possibile aderenti all’oggettività dei fatti (ciò impone il rispetto anche del criterio di proporzionalità, se vi sia in gioco una limitazione dei diritti soggettivi, soprattutto se fondamentali). Va perciò sottolineato come l’esercizio della potestà sia da legare inscindibilmente al concetto di relazione giuridico-pastorale. Esso avrà un carattere strumentale di servizio, ma pure di responsabilità reciproca in vista della salus animarum.42 Tali diritti, nella codificazione del diritto degli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica, mettono in risalto anzitutto la comunione del religioso (in senso ampio) con la Chiesa, subordinata al Romano Pontefice, alla Santa Sede, ai Vescovi diocesani. Propriamente con lo stato di vita che abbracciano, i religiosi avranno il dovere-diritto di proclamare il Vangelo e di condurre la propria vita di apostolato, secondo il carisma del proprio Istituto. Sarà pure loro diritto il manifestare necessità ed opinioni ai Pastori, sia interni (Superiori religiosi) sia esterni (Ordinari del luogo, Romano Pontefice), permanendo comunque vivo il dovere e rispetto della relazione di obbedienza; senza poi dimenticare il diritto di manifestare tali necessità ed opinioni al proprio organo legislativo interno supremo, il Capitolo generale.43 Il diritto di associazione e di riunione, nella vita consacrata, troverà la propria forma massima di espressione, pur rimanendo una differenza notevole tra Istituti e associazioni di fedeli simpliciter dictae. Il diritto fondamentale alla buona fama e alla intimità propria troverà parimenti una tutela notevole nel diritto della vita consacrata, nei momenti più delicati per la vita di un consacrato (ammissio-

42 43

Cfr. PREE, Esercizio della potestà, 345. Cfr. ANDRÉS, El estatuto codicial sobre la vida, 445-447.

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ne del candidato, direzione di coscienza e confessione sacramentale, partecipazione agli altri sacramenti). Legato a questi due, si troverà il processo amministrativo di espulsione, nel rispetto di tali diritti fondamentali e alla possibilità del contraddittorio.44 Infine, la normativa riguardante il Superiore religioso dovrà fare in modo che esso eserciti la propria autorità nel rispetto della persona umana, in modo da poter suscitare in essa la propria adesione volontaria alle necessità dell’Istituto.

3.2. Il coetus de iure religiosorum La Pontificia Commissione per la revisione del Codice fu divisa in gruppi (coetus) che trattavano le diverse aree del Codice. Il gruppo di studio De Religiosis (che prendeva il nome a partire da LG e PC) ben presto mutò il proprio nome in De Institutis Perfectionis, per volontà del gruppo che curava lo schema generale del Codice, De ordinatione systematica Novi Codicis, al fine di comprendere sotto quel nuovo titolo sia i consacrati religiosi che i non religiosi, così come era espresso in PC 11. Dal diritto degli Istituti di perfezione, si passò poi al titolo De Institutis vitae consecratae per professionem consiliorum evangelicorum, in quanto il termine Istituti di perfezione sembrava escludere dalla perfezione cristiana gli altri ordini esistenti nella Chiesa, sacerdotale secolare e laicale.45

Cfr. ANDRÉS, El estatuto codicial sobre la vida, 450. Cfr. Communicationes 6(1974), 50. Vd. anche BEYER J., Il progetto del Nuovo Diritto per gli Istituti di vita consacrata, in VitCons 13(1977), 405-406. 44 45

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Questo coetus studiorum sostenne un ritmo notevole di sessioni nella prima redazione del titolo: I, dal 21 al 26 novembre 1966; II, dall’8 al 12 maggio 1967; III, dal 22 al 26 gennaio 1968; IV, dal 22 al 26 aprile 1968; V, dal 9 al 14 dicembre 1968; VI, dal 24 al 29 marzo 1969; VII, dal 29 settembre a l4 ottobre 1969;46 VIII, dal 19 al 24 gennaio 1970; IX, dal 25 al 30 maggio 1970; X, dal 7 al 12 dicembre 1970;47 XI, dal 3 all’8 maggio 1971;48 XII, dal 22 al 27 novembre 1971; XIII, dal 24 al 29 aprile 1972; XIV, dal 4 al 9 dicembre 1972;49 XV, dal 30 aprile al 5 maggio 1973;50 XVI, dal 6 al 10 maggio 1974.51 Nel gennaio del 1975 fu inoltre tenuta una commissione mista tra il coetus degli Istituti di vita consacrata e il coetus sulla Sacra Gerarchia, per trattare punti in comune tra i due. Il 2 febbraio 1977 fu inviato il testo del progetto ai Vescovi, alle Conferenze episcopali, ai Dicasteri romani e agli altri organi consultivi (facoltà ed istituti di diritto canonico, tutti i Superiori e le Superiore generali, nonché le Conferenze dei Superiori maggiori), che avrebbero dovuto rispondere con le osservazioni entro il mese di dicembre. Fu il p. Bidagor a presiedere le prime sessioni, mentre relatore iniziale fu p. Amaral, poi sostituito dal p. Said.52 Ben Cfr. Communicationes 1(1969), 48 ss. Cfr. Communicationes 2(1970), 79 ss. Lo stesso coetus è stato interpellato a riguardo anche del diritto patrimoniale nella Chiesa; cfr. Communicationes 2(1970), 180; 5(1973), 97-101. 48 Cfr. Communicationes 3(1971), 49. 49 Cfr. Communicationes 4(1972), 32 ss. 50 Cfr. Communicationes 5(1973), 41 ss. 51 Cfr. Communicationes 6(1974), 72 ss. 52 Cfr. Communicationes 2(1970), 170, n. 3. Altri consultori furono: Philippe P., Mauro A., Bézac R., Bank G., Maggioni F., Moeller C., Paventi S., Muttukumaru M.G., Urtasun C., Augier A., Lanne E., Wojnar M., Gallagher T., A SS. Rosario A., Leite A., Beyer J., Rousseau G., Fogliasso E., Lazzati G. Purtroppo vi è la completa assen46 47

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presto le complicate questioni riguardanti il diritto della vita consacrata generarono tra i consultori un senso di smarrimento che si dileguò quando, dalla terza sessione, si cominciò a trattare di tutti gli Istituti, religiosi, secolari, Società di vita comune. Si cominciò, allo stesso tempo, a sentire la necessità di una codificazione interamente nuova, nel contenuto e nello stile, secondo il modo seguito da PC. Per consentire uno sviluppo più spedito del nuovo diritto, il coetus si diede quattro principi che dovevano aggiungersi a quelli già trattati nel primo paragrafo:53 – esprimere canonicamente il dono della vita consacrata: «in recognitione iure religiosorum, canones ita redigantur ut appareat normas iuridicas, etsi thesauros gratiae vitae religiosae nec plene contineant nec multo minus exhauriant, [...]». Secondo questo principio, si dovevano demandare molte norme al diritto particolare, intrecciando elementi teologici e giuridici in maniera chiara e precisa nel Codice;54 – proteggere l’indole propria di ogni Istituto: «canones qui disciplinam religiosam statuunt fovere debent agnitionem in quolibet instituto spiritus Fundatoris eiusque conservationem [...]». Per sviluppare la fedeltà al proprio carisma e mantenere vive le proprie tradizioni, il diritto comune avrebbe dovuto contenere solo i principi più generali (evitando un certo uniformismo) e permettere una legislazione propria ad ogni Istituto;

za di membri di Istituti e Società di vita comune femminili (la qual cosa può sembrare strana, visto l’elevata percentuale di membri nella vita consacrata femminile). 53 Cfr. Communicationes 2(1970), 170-173. 54 Cfr. SAID M., Influsso del diritto particolare degli Istituti nel rinnovamento della vita consacrata, in VitCons 12(1976), 385: “il diritto comune in corso di revisione deve esercitare un influsso molto meno importante e intensivo di quello che esercitò il Codice di Diritto Canonico”.

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– codificare un nuovo diritto flessibile per poterlo adattare ad ogni situazione: «dum principia constitutiva vitae religiosae clarae indicari et firmiter sanciri debent, in normis disciplinaribus statuendis congrua flexibilitas in tuto ponatur […]». È l’applicazione del principio ‘lex speciale derogat legi generali’ e del principio di sussidiarietà; – sviluppare il nuovo diritto a partire dai principi posti dal Concilio Vaticano II: «canones, quibus regimen et regiminis exercitium in religiosis institutis ordinantur, ita redigantur ut principia a Concilio statuta de repraesentatione et cooperatione sodalium efficaciter ad praxim deducantur». Riguarda la cooperazione nel governo dell’Istituto per quanto concerne il tempo del mandato, i Capitoli ed i Consigli del Superiore, la partecipazione di tutti nello sviluppo del bene dell’Istituto e nel voto ai Capitoli, l’obbedienza responsabile; riforma da fare soprattutto negli Istituti di vita consacrata femminile.55 Si sarebbe inoltre cercato di non uniformare tutti i religiosi allo stile conventuale, ma a coglierne gli elementi caratteristici: voti pubblici, vita comune e riconoscere eventualmente gli stessi elementi nelle Società di vita comune e Istituti secolari. Ciò avrebbe comportato anche la ricerca di uguaglianza e di non discriminazione tra Istituti maschili ed Istituti femminili,56 come l’assenza di parteciCfr. BEYER, Verso un nuovo diritto, 22; GHIRLANDA G., Ecclesialità della vita consacrata, in VitCons 12(1976), 598; O’ROURKE K.D., The New Law for Religious: Principles, Content, Evaluation, in RevRel 34(1975), 26. Quest’ultimo accusava a p. 49 dell’articolo una scarsa partecipazione degli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica nella formulazione del nuovo diritto, sì da rendere difficile una comprensione di questo diritto come “proprio”; due anni dopo, infatti, esso sarebbe stato trasmesso a diversi Superiori maggiori ed Istituti. 56 Così come espresso nello stesso Concilio; cfr. BEYER J., De statuto iuridico christifidelium iuxta vota Synodi Episcoporum in novo Codice iuris condendo, in Per 57(1968), 650-681. 55

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pazione alla giurisdizione ecclesiastica, nonostante la storia insegnasse che monache ed abbadesse ebbero nel proprio territorio piena giurisdizione su abitanti laici e sacerdoti,57 o la mancanza di autonomia di governo presso gli Istituti monacali del secondo Ordine.58 La tutela dei diritti fondamentali dei fedeli non doveva restare materia scritta, ma divenire fatto concreto.

3.3. Alcuni documenti redatti durante la codificazione Nel corso della redazione del nuovo diritto della vita consacrata, furono promulgati alcuni documenti che influirono nell’iter stesso di codificazione. Essi sono i decreti Cum Superiores, Clericalia Instituta, Ad instituenda experimenta, Experimenta circa regiminis, il m.p. Causas matrimoniales e le note direttive Mutuae relationes. Ad essi si rivolge ora la nostra attenzione, cogliendone i punti essenziali. – Cum Superiores.59 estende ai Superiori di un Istituto laicale, maschile o femminile, la facoltà di secolarizzazione dei professi di voti temporanei, «id libere petentes», con il consenso del loro consiglio. Nel qual caso, «votis ipso facto solutis». Ci possono essere due modi di interpretarlo: uno che nega la natura giurisdizionale dell’atto di secolarizzazione; l’altro che ne ammette il carattere giurisdizionale, andando a derogare al can. 118 stesso. Nel primo caso, vede il Cfr. SZENTIRMAI A., Jurisdiktion für Laïen?, in Theologische Quartalschrift 140(1960), 420-426. 58 Cfr. BEYER J., Le gouvernement des moniales cisterciennes, in Collectanea cisterciensia 32(1970), 334-341. 59 AAS 61(1969), 738-739. 57

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decreto come facoltà di ritornare allo stato laicale, ma non di dispensa dai voti, che è concessa per il fatto stesso dal decreto.60 Questo significherebbe che il concetto di secolarizzazione implica in sé un atto di giurisdizione che non è concesso al Superiore laico, ex can. 118 CIC 17 (nel Cum admotae la dispensa è concessa dal Superiore clericale con il consenso del consiglio, in Religionum laicalium la dispensa era concessa dall’Ordinario del luogo su richiesta del Superiore laicale), ma che sarebbe in certo senso a lui partecipato perché è il Superiore laico a decidere se e quando il professo debba andarsene.61 Oppure potrebbe essere visto come atto di semplice potestà dominativa, come altri emanati da Superiori di Istituti laicali. Nel secondo caso, il carattere giurisdizionale sarebbe dovuto a una delega di facoltà abituale da parte del Romano Pontefice (che normalmente era esercitata dalla Sede Apostolica). Va notato che …quando Cum admotae fu rivolto ai Superiori generali di istituti religiosi clericali pontifici e Abati presidenti di congregazioni monastiche, non si sollevò alcuna questione circa la possibilità data dalla facoltà n. 14 […] di non essere una concessione di giurisdizione. Inoltre, quando Religionum laicalium fu rivolto ai Superiori di istituti laicali pontifici di uomini e donne, la restrizione della facoltà n. 3 […] all’Ordinario del luogo fu intesa come ad indicare che questa azione [la dispensa dai voti temporanei] fosse connessa al «carattere clericale» per lo meno in relazione alla sua natura giurisdizionale. Tuttavia, quando Cum Superiores estese ai Superiori generali laici di istitu-

60 Cfr. GUTIÉRREZ A., Facultas Superiorum laicorum dispensandi vota subditorum, in CpR 51(1970), 12. 61 Cfr. CAPARROS E.-THÉRIAULT M-THORN J., Code of canon law annotated, Montreal 1993, p. 468.

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ti religiosi la stessa facoltà del Cum admotae n. 14 e di Religionum laicalium n. 3 con la sola piccola differenza rispetto alle parole usate nel Cum admotae – in saecularem condicionem restituendi – la natura giurisdizionale della concessione fu immediatamente chiamata in questione.62

– Clericalia Instituta:63 ricorda ai Capitoli generali che i membri non chierici hanno gli stessi diritti ed obblighi conformi al carattere dell’Istituto (eccetto quelli che comportano l’ordine sacro) e devono ottenere voto attivo e in alcuni uffici anche passivo (in conformità ad Ecclesiae Sanctae II, 27). Possono quindi essere ammessi «ad munera exercenda mere administrativa», come gli economi. Può essere loro concessa voce attiva e passiva nei Capitoli in qualunque grado e possono svolgere l’ufficio di consultore a qualsiasi livello. Tuttavia, «sodales non clerici vero non poterunt munus Superioris vel Vicarii gerere sive generalis, sive provincialis, sive localis». Questo decreto sollevò non poche approvazioni da parte della dottrina.64 Gutiérrez affermava al riguardo: Non possumus arguere ex incapacitate laicorum obtinendi iurisdictionem uti singuli, ad eorum incapacitatem eam obtinendi in collegio: quia iurisdictio collegii non est

MCDONOUGH E., The potestas of canon 596, in Antonianum 63(1988), 571 [nostra traduzione]. 63 AAS 61(1969), 739-740. 64 Cfr. DEHUYLER D.H., De sodalibus laicis in congregationibus clericalium, in CpR 51(1970), 115 ss.; LARRAINZAR C., Los laicos, in IusCan 13(1973) 473-474; DANEELS F., De participiatione laicorum in Ecclesiae muneribus iuxta «schema emendatum Legis Ecclesiae Fundamentalis», in Per 62(1973), 96-116; GUTIÉRREZ A., Participatio laicorum in regimine Religionibus clericalis, in CpR 51(1970), 97-114, che idealmente si ricollegava all’articolo dallo stesso titolo apparso due anni prima in CpR 46(1967) 377-387. 62

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summa potestatis quam singuli habeant. [...] Ergo ex natura rei non clare apparet quod laici excludi debeant a partecipatione in aliquo actu iurisdictionali ponendo in Capitulis, puta ad dandam aliquam legem, ad sententiam iudicialem ferendam, ad poenam canonicam alicui imponendam...65

E concludeva con la speranza che in futuro si potesse arrivare a determinare maggiori diritti per i laici, rimanendo comunque l’indole clericale degli Istituti. Affermava, infatti, che la potestà dominativa che era concessa ai Superiori laici, altro non era se non partecipazione a quella stessa potestà con cui la Chiesa gerarchica conduce i fedeli alla salus animarum, vera potestà giurisdizionale.66 Una dichiarazione veniva rilasciata dalla SCRIS e distribuita ai Superiori maggiori di Istituti clericali negli Stati Uniti il 17 aprile 1970.67 Essa spiegava che il decreto Clericalia Instituta non era dovuto né a discriminazione né a clericalismo né al concetto che un membro presbitero non possa essere soggetto a un membro laico per quanto riguarda la vita religiosa dell’Istituto. La ragione risiedeva nella direzione e supervisione di ministri sacerdoti e si notava che

GUTIÉRREZ, Participatio laicorum in regimine, 108. Cfr. GUTIÉRREZ, Participatio laicorum in regimine, 107. Un altro autore, KASIRYE K.A., Authority and the power of governance in Institutes of Consacrated Life and Societes of Apostolic life: a juridical-theological study of c. 596, Roma 2002, 83-84, afferma che bisogna distinguere tra Istituti di diritto diocesano e di diritto pontificio. Nella fattispecie di Istituti di diritto diocesano clericali, i membri laici potrebbero assumere l’incarico di Superiori locali, restando inviolata la struttura clericale dello stesso che non partecipa alla potestà di giurisdizione a nessun livello. 67 Cfr. Canon Law Digest 7, 469-471. 65 66

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A motivo degli obblighi particolari richiesti dall’amministrazione dei sacramenti, specialmente la celebrazione dell’Eucaristica, la predicazione ufficiale della parola di Dio, etc., il ministero sacerdotale comporta una speciale competenza e preparazione, oltre alla particolare grazia ministeriale che è uno dei frutti principali del sacramento dell’Ordine. […] Individui religiosi laici possono essere uomini di eccezionali talenti, perfino oltrepassando quelli di individui sacerdoti. Ma per il ministero sacerdotale il religioso laico non ha né la speciale preparazione né la particolare grazia «sociale» o il carisma richiesto per ministeri sacerdotali.68

Né il decreto né la dichiarazione menzionavano il problema della giurisdizione in quanto tale, anche se il decreto parlava di funzioni dei membri laici compatibili con la natura e l’indole clericali dell’Istituto.69 – Ad instituenda experimenta:70 sospende alcune norme del diritto comune ed estende ai Superiori la potestà per sperimentare il rinnovamento interno promosso dal m.p. Ecclesiae Sanctae. Tra queste norme, l’erezione e soppressione di regioni dell’Istituto senza bisogno di chiedere alla Santa Sede; la determinazione dell’età per essere Superiori. – Causas matrimoniales:71 dopo che il 28 dicembre 1970 la Segnatura Apostolica aveva emanato una norma che voleva nei tribunali interdiocesani, regionali e interregionali che gli officiali, giudici, promotori di giustizia e difensori del vincolo «sint ordinarie dignitate sacerdotale aucti»72, il 28 marzo 1971 Paolo VI emise questo m.p. 68 69 70 71 72

Canon Law Digest 7, 471 [nostra traduzione]. Cfr. MCDONOUGH, The potestas of canon 596, 572. AAS 62(1970), 549-550. AAS 63(1971), 441-446. AAS 63(1971), 488.

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per velocizzare le procedure nei casi matrimoniali. Quivi affermava che un giudice dei tre poteva essere laico, cioè esercitare potestà giurisdizionale. Questo era stato proibito dalla Sacra Congregazione del Concilio nel primo XX secolo. – Experimenta circa regiminis:73 nella riforma del diritto particolare, alcuni Istituti hanno cercato di instaurare forme di governo ‘democratiche’, ovverosia governi di gruppo dove l’autorità era un collegio ed il Superiore si riduceva ad essere un mero esecutore delle decisioni prese dal collegio. Altri Istituti avevano provato ad esercitare un mandato a livello locale ‘in solidum’, sì che la carica era ricoperta a turno da tutti. Queste modalità avevano creato non pochi problemi di ordine amministrativo ed anche morale.74 Si è notato come il Superiore debba essere unico, eletto stabilmente anche se per un tempo determinato, con un Consiglio che lo aiuta, pur non governando affatto. Il Consiglio deve restare, il più delle volte, un organo consultivo, lasciando al Superiore il compito di guida spirituale dell’Istituto.75 Questo decreto vuole perciò ristabilire il Superiore personale come esercente la potestà sull’Istituto e sui membri, riponendo il collegio come forma straordinaria di governo: «Superiores auctoritate frui debent personali». In questo modo l’autorità personale e quella collegiale vengono mostrate come complementari.76 SCRIS, 2 febbraio 1972, in AAS 64(1972), 393-394. Cfr. BEYER, Il progetto del Nuovo Diritto, 472. 75 Cfr. LOBINA G., Note esplicative sulla conservazione del can. 516 e sospensione del can. 642 del 1917, in Apollinaris 45(1972), 619. 76 Cfr. LINSCOTT M., The service of religious authority: reflections on government in the revision of constitutions, in AA.VV., Paths of renewal for religious, St. Louis 1986, 177. 73 74

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In secondo luogo, il decreto sospende il disposto del can. 642 CIC 17, riguardante il ricorso alla Santa Sede per continuare a svolgere qualsiasi ufficio, ministero o godere di un beneficio una volta che il membro di un Istituto sia stato dispensato dai voti o da altri vincoli sacri. – Mutuae relationes:77 tratta della cooperazione tra religiosi e Vescovi, facendo riferimento ai rispettivi ambiti di competenza e di governo. Mette in risalto la natura pubblica della potestà dei Superiori, in quanto l’Istituto è persona pubblica nella Chiesa; potestà esercitata in nome della Chiesa, ma non assimilabile alla potestà pubblica di giurisdizione, «accostandola per analogia alla triplice funzione del ministero pastorale, cioè d’insegnare, santificare e governare, senza per altro confondere o equiparare l’una e l’altra autorità».78 È il carisma iniziale, del fondatore, che esige un diritto particolare e fonda l’autonomia dell’Istituto.

3.4. L’iter redazionale del canone L’iter redazionale del can. 596 ha una storia lunga e travagliata, che non può essere vista isolatamente, ma va contestualizzata nel più ampio progetto di riforma del diritto della vita consacrata. A partire dal Concilio Vaticano II (abbiamo notato, infatti, come la redazione del nuovo Codice abbia cominciato solo dopo il Sinodo Ecumenico), i principi che hanno ispirato il coetus studiorum SCRIS ET SACRA CONGREGATIO PRO EPISCOPIS, Notae directivae Mutuae relationes, 14 maggio 1978, in AAS 70(1978), 473-506. 78 Mutuae relationes, 13. Cfr. anche D’AURIA A., I laici nel munus regendi, in AA.VV., I laici nella ministerilità della Chiesa, Milano 2000, 150. 77

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sono stati quelli che hanno avuto maggiore intesa, pur avendo riscontrato non poche difficoltà nella redazione dello stesso.79 La prima elaborazione della nuova codificazione, che doveva contenere una parte generale applicabile a tutti gli Istituti, fu preparata tra la sessione III e la XII. Si approvarono in questo periodo: il titolo sulla distinzione tra Istituti di diritto pontificio e di diritto diocesano; il titolo sugli Istituti diocesani e la loro dipendenza dall’autorità ecclesiastica; l’ammissione nell’Istituto; obblighi degli Istituti e dei membri; separazione dall’Istituto; i beni temporali dell’Istituto e loro amministrazione. Solo alla XII sessione si approvarono i canoni preliminari di questa parte generale.80 Questo primo schema del diritto dei religiosi era così formulato nella parte generale comune a tutti gli Istituti di perfezione: canoni preliminari; tit. I: Erezione, fusione, soppressione degli Istituti, Province e Case; tit. II: Dipendenza degli Istituti dall’Autorità ecclesiastica; tit. III: Governo degli Istituti; tit. IV: Beni temporali degli Istituti e loro amministrazione; tit. V: Ammissione all’Istituto; tit. VI: Obblighi degli Istituti e dei loro membri; tit. VII: Separazione dall’Istituto. La parte speciale, invece, classificava i consacrati in: Istituti monastici; Istituti religiosi dediti ad opere di apostolato; Società di vita comune; Istituti secolari; Istituti esenti.81 79 “Recognitio illius partis Libri II Codicis Iuris Canonici quae praescripta legum continet religiosos respicientia non parvam praesefert difficultatem”; Communicationes 2(1970), 168. La maggior parte di tali difficoltà, ma non tutte, fu nell’accostamento teologico ai vari tipi di Istituto e nella loro classificazione. 80 Cfr. BEYER, Verso un nuovo diritto, 12. 81 Cfr. Communicationes 2(1970), 175-176. Modifiche allo schema della parte speciale si avranno successivamente, ma non vengono da noi prese in considerazione. Soltanto merita di essere notato che nel-

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Come si può facilmente notare, il tit. II trattava della gerarchia esterna (che si esplica anzitutto nell’obbedienza al Sommo Pontefice e all’Ordinario del luogo), il tit. III della gerarchia interna. L’obbedienza al Romano Pontefice si sarebbe estesa quanto le costituzioni stesse, da lui approvate, avrebbero stabilito. In questo titolo fu successivamente inserita la trattazione dell’esenzione, vertice della giurisdizione papale; la quale comunque non avrebbe pregiudicato l’autonomia di ogni Istituto, anche diocesano,82 che si sarebbe esplicata nel diritto alla protezione da illegittime ingerenze esterne. Gli Istituti di diritto pontificio sarebbero rimasti sotto l’autorità dell’Ordinario del luogo per quanto riguardava il culto pubblico e le opere esterne e pubbliche di apostolato.83 3.4.1. Lo Schema del 1977 La prima trattazione del governo degli Istituti fu molto superficiale e mirò piuttosto a trattare come i Superiori dovessero governare: In normis statuendis inculcatum est ut superiores officium proprium acceptent et adimpleant in spiritu servitii erga

la seconda formulazione, Communicationes 5(1973), 63-65, non si trova più il titolo degli Istituti esenti, in quanto si osservò che l’esenzione è un tipo di relazione tra Istituti di vita consacrata e autorità gerarchica. Fu per questo inserita nella parte generale al tit. II: dipendenza degli Istituti dall’Autorità ecclesiastica. 82 Nel caso di Istituti diocesani, la vicinanza dell’autorità ecclesiastica avrebbe potuto favorire un continuo intervento nella vita dell’Istituto stesso. 83 L’esenzione fu trattata solo alla fine dei lavori della Commissione; cfr. Communicationes 7(1975), 85-89. Argomento delicato, essa fu riconosciuta a tutti i religiosi, che mantenevano i voti solenni proprio per questo. Ma la norma comune era comunque che gli Istituti dipendessero dalla gerarchia.

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communitatem et ut magis gubernent stimulando et promovendo actionem concordem inter sodales quam per impositionem praeceptorum. Habent tamen auctoritatem sufficientem gubernandi, quam sapienter et prudenter exercere debent pro bono communi et individuorum. Principium subsidiarietatis in hac parte extensa applicatum est ut subveniatur necessitatibus institutorum tam inter se diversorum.84

Si nota fin dall’inizio una certa confusione terminologica: si afferma, infatti, che gli Istituti hanno autorità sufficiente per governare. Ma se l’autorità può essere definita come «la verità socialmente riconosciuta», mentre la potestà come «la volontà di potere socialmente riconosciuta»85, allora riconoscere l’autorità sufficiente per governare significa non attribuire loro alcuna potestà, lasciando alla mera adesione della coscienza più o meno consapevole i membri dell’Istituto. Ciò sembra essere quanto mai incoerente se si tiene presente che si è detto di aver applicato il principio di sussidiarietà nella redazione di tutta questa materia.86 È invece da notare che la partecipazione alla potestà della Chiesa, potestà di governo o di giurisdizione, «sembra aver luogo, anche se implicitamente e tacitamente, nell’atto stesso dell’erezione canonica dell’Istituto»87. Communicationes 2(1970), 179-180. Cfr. D’ORS A., Autoridad y potestad, in Lecturas juridicas 21(1948), 27-29. 86 Nella stessa confusione incappa BEYER, Verso un nuovo diritto, 53, lì dove trattando della potestà dei Moderatori e dei Capitoli, la definisce come “autorità propria sui membri e sull’Istituto”. Tuttavia, egli stesso fa notare che tale autorità è una potestà che non ha altro nome adatto a significarla se non quello di giurisdizione. 87 BEYER, Verso un nuovo diritto, 54. Ci si dovrà interrogare se si parli di ogni Istituto, di diritto pontificio e diocesano, o solo di diritto pontificio. 84 85

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Senza distinzione tra Istituti clericali o laicali, maschili o femminili, fermo restando sempre la norma del diritto particolare.88 Durante la V sessione, il coetus si trovò a discutere del can. 501 CIC 17: §1. Superiores et Capitula, ad normam constitutionum et iuris communis, potestatem habent dominativam in subditos; in religione autem clericali exempta, habent iurisdictionem ecclesiasticam tam pro foro interno, quam pro foro externo. §2. Superioribus quibuslibet districte prohibetur quominus in causis ad S. Officium spectantibus se intromittant. §3. Abbas Primas et Superior Congregationis monasticae non habent omnem potestatem et iurisdictionem quam ius commune tribuit Superioribus maioribus, sed eorum potestas et iurisdictio desumenda est ex propriis constitutionibus et ex peculiaribus Sanctae Sedis decretis, firmo preaescripto can. 655, 1594, §4.

La discussione si fermò sul §1. In un primo tempo, molti consultori proposero l’estensione della potestà di giurisdizioSi può così affermare che Cristo “ha demandato [la strutturazione della Chiesa] alla gerarchia insieme con la potestas gubernandi che ha dato agli Apostoli e ai loro successori. Significa che sono le circostanze storiche a determinare la demarcazione tra «gerarchico» e «non gerarchico», per quello che riguarda gli uffici che non sono legati per diritto divino al sacramento dell’ordine”; GHIRLANDA, Ecclesialità della vita consacrata, p. 289. KOSER C., Cooperazione dei laici nell’apostolato, in BARAUNA G. (a cura di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, 10001010, osserva che questo è solo un modo per iniziare un processo di modifica delle frontiere nell’assunzione di uffici ecclesiastici. O’ROURKE, The New Law for Religious, 48, nota che ancora sussistono differenze tra uomini e donne riguardo alla giurisdizione, ma spera che tali differenze siano in futuro colmate. Tuttavia, egli arriva ad ammettere anche il sacerdozio alle donne, tradendo la tradizione della Chiesa. 88

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ne a tutti gli Istituti clericali. Ma si riconosceva anche che la giurisdizione era argomento proprio di un altro coetus, che meritava maggior approfondimento e che comunque non si era chiuso il dibattito teologico su tale questione.89 Intanto un consultore proponeva che il termine ‘potestà dominativa pubblica’ (come chiamata dalla dottrina) venisse soppresso, pur interrogandosi se la potestà di giurisdizione potesse essere estesa ai laici, anche alle donne (questa infatti era vista in relazione con la potestà dei Capitoli generali e la partecipazione dei laici in essi). A questo si ribatteva che, pur non avendo i laici potestà per il foro interno sacramentale, potevano tuttavia averla per quello non sacramentale. Si decise perciò di mantenere la questione sospesa, togliendo tuttavia al paragrafo, nella seconda parte, il termine ‘iuris pontificii’.90 Nella VI sessione il perno della discussione fu la potestas dominativa. Un consultore infatti affermava che estendere la potestà di giurisdizione a tutti gli Istituti clericali avrebbe risolto molti problemi, mentre un altro proponeva che «verbum adhibeat “potestas”, sine ulla specificatione, quamvis subintelligatur esse potestatem dominativam».91 Il paragrafo del canone risultava così modificato: Institutorum Moderatores et Capitula ad normam iuris particularis et communis sua in sodales gaudent propria potestate; in Institutis autem clericalibus gaudent insuper iurisdictione ecclesiastica tam pro foro interno quam pro foro externo. Cfr. Communicationes 1(1969), 31. Gli Istituti clericali comprendevano sia quelli religiosi che quelli secolari e, in ultima analisi, pure le Società di vita comune; cfr. DE PAOLIS V., La vita consacrata nella Chiesa, Bologna 1992, 430; KASIRYE, Authority and the power of governance, 89. 90 Cfr. Communicationes 1(1969), 31. 91 Relatio, Coetus Studiorum, Sessio VI, 24-29 marzo 1969. 89

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Un consultore notò che il rescr. pont. Cum admotae concedeva iurisdictio solo agli Istituti clericali di diritto pontificio, ma ciò non modificò la nuova formulazione del canone. La VII sessione continuò con la discussione circa l’origine della potestà negli Istituti religiosi, escludendo che tale potestà risieda nella comunità la quale poi la trasmetterebbe al membro eletto Superiore ed affermando, infine, che è compito della dottrina determinare il fondamento e l’origine di tale potestà, che comunque rientrava nelle competenze di un altro coetus.92 Infatti, negli stessi giorni della VII sessione del nostro gruppo, si riuniva pure il coetus De normis generalibus, che trattava dei precetti singolari. Si poneva di fondamentale importanza la domanda: «an laici subiectum esse possint ecclesiasticae iurisdictionis».93 Le conclusioni cui si arrivava erano che il Codice costantemente aveva ritenuto l’inabilità dei laici a ricevere potestà di giurisdizione, ma questo certamente per diritto ecclesiastico, non divino. Infatti, il Concilio Vaticano II aveva persuaso a «iurisdictionis potestatem quoque illis laici concedere» e a «vigentem disciplinam aliquantulum mitigare» nel nuovo Codice.94 Per questo fu richiesto di dare chiaramente una definizione di potestas iurisdictionis. Il 27-28 gennaio 1975 si riunì una commissione mista, il Coetus mixtus de Sacra Hierarchia-De Institutis vitae consecratae che cooperarono per chiarificare la natura della potestà in questione, del paragrafo primo del canone, soprattutto quella attribuita ai Superiori laici. Si notò che essa è in qualche modo potestà ecclesiastica pubblica, pa-

92 93 94

Cfr. anche decr. Experimenta circa regiminis. Communicationes 19(1987), 182. Communicationes 19(1987), 203.

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rallela a quella di giurisdizione o per lo meno ‘quasi giurisdizionale’ come si poteva vedere sicuramente per alcuni suoi effetti.95 Anche il coetus della Lex Ecclesiae Fundamentalis, nella sessione del 23-27 febbraio 1976, sollevò la questione «utrum potestas legislativa vel iudicialis committi possit necne christifidelibus laicis».96 Un membro osservò che spettava al Supremo Legislatore dirimere la questione, perché la dottrina poteva sia affermare che negare tale possibilità. Perciò si formulò un dubium alla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il 12 marzo, in cui si chiedeva se i laici, in forza del battesimo, potessero sotto la guida dei Vescovi essere assunti in qualche ufficio che comportasse potestà di giurisdizione.97 La risposta al dubium non servì a togliere i dubbi, ma a ricavare tre principi da seguire nel formulare i canoni: 1) Dogmaticamente, i laici sono esclusi soltanto dagli uffici intrinsecamente gerarchici, la cui capacità è legata alla recezione del sacramento dell’Ordine. Determinare concretamente tali uffici ad normam iuris spetta agli organismi istituiti ad hoc dalla Santa Sede. 2) Si proceda con la massima cautela per evitare che si crei un ministero pastorale laico in concorrenza con il ministero dei chierici. 3) Si raccomanda che l’assunzione di laici a uffici ecclesiastici sia contenuta nei limiti del diritto vigente senza nuova estensione.98 Cfr. Communicationes 7(1975), 25, 89-90. Communictiones 9(1977), 288. 97 Cfr. BETTI U., In margine al nuovo Codice di Diritto Canonico, in Antonianum 58(1983), 641, nota 36. 98 Folium ex officio, citato in PROVOST J., The participation of the Laity in the Governance of the Church, in Studia Canonica 17(1983), 419, nota 7. 95 96

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Si arrivava così alla nuova versione del nostro can. 596 che, nel diritto della vita consacrata, si trovava al n. 25: §1. Institutorum Moderatores et Capitula sua in sodales gaudent potestate ad normam iuris particularis et communis; in institutis autem clericalibus pollent insuper iurisdictione ecclesiastica tam pro foro interno quam pro foro externo. §2. Moderatores omnes erga sodales suae curae commissos suam adimpleant missionem et suam potestatem exerceant ad normam iuris particularis et communis. §3. In institutis exemptis ad normam can. 17, moderatores pleniorem obtinent potestatis ecclesiasticae participationem et eiusdem liberum usum ad normam etiam iuris particularis exercendum. Qui autem moderatores maiores si clerici sunt nomine Ordinarii veniunt.99

Si dice qui che godono della potestà a norma del diritto particolare e comune, senza specificare che tipo di potestà (si omette il termine dominativa del can. 501 §1 CIC 17, che non poche difficoltà aveva suscitato nella dottrina).100 In primo luogo si deve notare che per superare un problema interpretativo creato da una parola (in questo furono ascoltati il card. Larraona e il p. Creusen101 che affermavano la pubblicità della potestà dominativa trattata nel can. del Codice del ’17), se ne genera un altro: infatti, di che tipo di potestà si tratta? Si potrebbe dire che sia in parte privata («ad normam iuris particularis»), in parte pubblica («ad normam iuris communis»); ma è sempre il Communicationes 11(1979), 305-306. Cfr. BEYER J., Dal Concilio al Codice. Il nuovo codice e le istanze del Concilio Vaticano II, Bologna 1984, 63. 101 LARRAONA A., De potestate dominativa publica in iure canonico, in Acta Congressus Juridici Internationalis IV, Roma 1937, 147-180; CREUSEN T., Pouvoir dominatif et erreur commune, ibidem, 181-192. 99

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diritto canonico a dare carattere pubblico alle costituzioni degli Istituti. Ogni potestà nella Chiesa, infatti, viene dall’alto, da Cristo stesso, e trova la propria fonte nel Romano Pontefice.102 Perciò qui non si può vedere una potestà di carattere privato, ritornando all’errore del CIC 17. In secondo luogo, la potestà di giurisdizione viene concessa agli Istituti clericali, tanto di diritto pontificio che diocesano. Non si possono quindi ridurre gli Istituti ad associazioni di diritto privato, perché viene loro attribuita potestà pubblica; la quale a sua volta viene tolta agli Ordinari del luogo. Nel caso in cui non sussista questa potestà, i Vescovi controllano l’ordine esterno e pubblico degli Istituti.103 In terzo luogo, si parla al §3 di esenzione che va intesa come quella che il Romano Pontefice abbia intenzione di accordare in futuro a qualsiasi Istituto: in tal caso, sarà proprio il documento che la concede a qualificare la potestà del Superiore e la libertà dalla giurisdizione del Vescovo; tale il senso dell’espressione ‘pleniorem participationem potestatis’. I Moderatori di questi Istituti clericali esenti vengono sotto il nome di Ordinari, in quanto la dottrina li definiva con la stessa giurisdizione dei Vescovi in rapporto ai loro fedeli e sul proprio territorio. Non si capisce perché non siano chiamati Ordinari anche i Superiori maggiori di Istituti clericali di diritto pontificio, i quali sono pure liberi dalla giurisdizione dell’Ordinario del luoEra quanto già aveva affermato PIO XII (cfr. AAS 50[1958], 154) e quanto viene ripreso successivamente anche da Paolo VI. Anche BEYER, Dal Concilio al Codice, 63, sostiene che sicuramente questa potestà indefinita è pubblica, in quanto partecipazione a quella di Cristo. 103 Vi fu certamente la soppressione della figura del commissario episcopale, che tanta parte ebbe nel CIC 17 contro l’autonomia soprattutto negli Istituti religiosi femminili. Le Moderatrici dell’Istituto diocesano possono ora trattare gli affari dell’Istituto direttamente con il Vescovo diocesano. Cfr. BEYER J., Il nuovo diritto degli Istituti di vita consacrata, in VitCons 12(1976), 78. 102

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go, ai sensi del resc. pont. Cum admotae, 13.104 I Superiori degli Istituti esenti hanno, infatti, la stessa giurisdizione che l’Ordinario del luogo ha sui propri sudditi (perciò risulta superfluo l’uso del termine ‘pleniorem’). Il diritto proprio dell’Istituto diviene pubblico grazie all’autonomia di cui tutti gli Istituti godono: esso entra a far parte del diritto pubblico della Chiesa, così come «gli Istituti approvati dalla Santa Sede parlano del loro diritto come di “diritto pontificio”».105 I consigli evangelici, vissuti in gruppo ed abbracciati mediante impegni privati o pubblici, espliciti od impliciti, sono regolamentati dalla gerarchia della Chiesa. 3.4.2. Lo Schema del 1980 Col passare del tempo, si sentiva sempre di più la necessità di un diritto chiaro ed univoco, che avesse tolto le incertezze di tanti decreti e norme nuove emanate dai tempi del Concilio alla fine degli anni ’70. Tuttavia, «quello che si concepì come un rinnovamento non sempre si è rivelato come fedeltà al Concilio e vero progresso».106 Cfr. GUTIÉRREZ A., Schema canonum de Institutis vitae consecratae per professionem consiliorum evangelicorum, in CpR 58(1977), 29-30. Va notato che fu lo stesso Said, relatore del coetus, ad affermare: “nelle norme del Diritto comune si dovrebbero ammettere tra le varie categorie di Istituti soltanto quelle distinzioni che sono assolutamente necessarie per la natura degli Istituti stessi, per il loro carattere specifico e la loro missione nella Chiesa; tutto il resto dovrebbe essere lasciato alla determinazione del diritto particolare degli Istituti. … il principio di sussidiarietà dovrebbe essere largamente applicato nella stesura di questa parte del Diritto canonico, precisamente perché essa è destinata a un gruppo speciale di persone che hanno le qualità necessarie per assumersi la responsabilità di applicare sensatamente la legge, …”; SAID, Influsso del diritto particolare, 386. 105 BEYER, Il progetto del Nuovo Diritto, 470-471. 106 BEYER J., El segundo proyecto de Derecho para la vida consagrada, in Universitas Canonica 1(1980), 143. 104

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In questo secondo Schema vi erano 27 cann. comuni (dal 6 al 32) a tutti gli Istituti, religiosi e secolari. Al cap. II vi si diceva che il Capitolo generale o provinciale erano la suprema autorità dell’Istituto (cosa peraltro discutibile, essendo il potere esecutivo di competenza del Superiore generale o provinciale).107 Il gruppo di studio aveva previsto che la potestà di governo spettasse a tutti gli Istituti clericali, sia di diritto pontificio sia di diritto diocesano. Ma il testo che fu passato ai Vescovi e ai Moderatori supremi degli Istituti e Società di vita apostolica fu ritoccato limitando la concessione ai soli Istituti di diritto pontificio. Ben presto, il coetus De institutis vitae consecratae si trovò ad applicare anche i principi del Folio ex officio, durante la sessione dal 26 febbraio al 3 marzo 1979, riguardo agli Istituti clericali. Un membro fece notare che la definizione di Istituto clericale108 riguardava la potestà di governo interna all’Istituto. Ma la discussione successiva affermò che la risposta al dubium della Congregazione non poteva escludere la frase «quae sub moderamine sunt clericorum», dalla definizione di Istituti clericali, pur non essendo mai fatto riferimento al decreto Clericalia Instituta.109 Il coetus quindi non considerava contro il Folio ex officio affermare che negli Istituti clericali il sacramento dell’ordine è necessario per l’esercizio del governo.110 Cfr. BEYER, El segundo proyecto, 153. “Institutum autem clericale dicitur quod ab Ecclesiae auctoritate uti tale agnoscitur, attenta assumptione exercitii ordinis sacri a fondatore definitiva vel legitima traditione comprobata”; Communicationes 11(1979), 57. 109 Cfr. Communicationes 11(1979), 59. 110 D’altra parte, una applicazione letterale di quanto voleva la Congregazione per la Dottrina della Fede avviene nella SCRIS quando, in singoli casi e mediante un indulto, un membro laico può divenire Superiore locale. 107 108

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Nella sessione del 25-26 aprile 1979, la discussione riprese vita sullo schema del 1977, con la modifica apportata prima dell’invio per la consultazione. Il §1 così recitava: Institutorum Superiores et Capitula in sodales gaudent potestate ad normam iuris universalis et Constitutionum; in Institutis autem clericalibus iuris pontificii pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno, firmo praescripto canonis...111

Un membro subito notò che negli Istituti laicali la potestà esercitata deriva in qualche modo dalla potestà ecclesiastica: non meramente privata o dominativa ma, in quanto laicale, partecipava della potestà di regime. Meglio sarebbe stato perciò usare la locuzione «ea potestate ecclesiastica gaudent». Ma un altro propose di omettere ‘ecclesiastica’ per non specificare la natura di questa potestà né la sua relazione con la potestà di governo.112 Si osservò pure che gli Istituti secolari clericali di diritto pontificio godono della stessa potestà giurisdizionale perché hanno la facoltà di incardinare i membri chierici nell’Istituto. Dunque, la potestas regiminis sarebbe stata correlata con la capacità di incardinare nell’Istituto e questo non avrebbe negato i principi della Congregazione per la Dottrina della Fede circa la possibilità per i laici di partecipare nella potestà di giurisdizione nei casi concessi dalla suprema autorità della Chiesa.113 Nello Schema del 1980 questo era il can. 523, così formulato:

111 112 113

Communicationes 11(1979), 305. Cfr. Communicationes 11(1979), 306. Cfr. MCDONOUGH, The potestas of canon 596, 579.

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Institutorum Superiores et Capitula in sodales ea gaudent potestate quae iure universali et Constitutionibus definitur; in Institutis autem religiosis clericalibus iuris pontificii pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno.

La problematica dell’incardinazione ritornava a farsi sentire anche nella Relatio114 che doveva preparare la Plenaria della Commissione per il Codice dell’ottobre 1981, affermando che avevano potestà di regime solo gli Istituti (religiosi e secolari) clericali e di diritto pontificio che possedevano la facoltà di incardinare.115 Inoltre, si proponeva di eliminare il termine ‘insuper’ perché la potestas regiminis non era propria solo degli Istituti religiosi clericali di diritto pontificio;116 ma la Commissione osservò che questa parola non escludeva che potessero essere anche altri a possedere potestà di regime.117 Un altro cardinale proponeva di inserire un riferimento al can. 131 §1 nell’ultimo paragrafo, che allora indicava coloro che erano qualificati come Ordinari. Qualche membro notò che ciò non era necessario; tuttavia si divise il canone in due paragrafi, aggiungendone un terzo mo-

Cfr. PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI RECORelatio complectens synthesim animadversionum ab em.mis atque exc.mis Patribus Commissionis ad novissimum schema Codicis Iuris Canonici exhibitarum, cum responsionibus a secretaria et consultoribus datis (Patribus Commissionis stricte reservata), Roma 1981, 139-140. 115 “Sed huiusmodi Instituta saecularia paucissima sunt”, quindi non aveva senso inserirli nel §2 del canone: si sarebbe provveduto di volta in volta; PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Relatio complectens, 139. 116 Ad essi il card. Pironio equiparava gli Istituti clericali diocesani e le Società clericali di vita apostolica. 117 Cfr. Communicationes 15(1983), 64-65; PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Relatio complectens, 139. 114

GNOSCENDO,

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tivando che alla potestà generica di cui non si descriveva la natura, «quae non est potestas regiminis, etsi quamdam potestatem ecclesiasticam publicam constituat», dovevano comunque applicarsi dei canoni della potestà di regime.118 Questi erano il 128,119 130,120 134-141121 dello Schema del Cfr. PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI RECOGNORelatio complectens, 140; Communicationes 15(1983), 64. 119 §1. Potestas regiminis ordinaria ea est quae ipso iure alicui officio adnectitur; delegata quae ipsi personae non mediante officio conceditur. §2. Potestas regiminis odinaria potest esse sive propria sive vicaria. §3. Ei qui delegatum se asserit, onus probandae delegationis incumbit. 120 §1. Delegatus qui sive circa res sive circa personas mandati sui fines excedit, nihil agit. §2. Fines sui mandati excedere non intelligitur delegatus qui alio modo ac in mandato determinatur ea ad quae delegatus est peragit, nisi modus ab ipso delegante ad validitatem fuerit praescriptus. 121 Can. 134 – §1. Potestas exsecutiva ordinaria delegari potest tum ad actum tum ad universitatem casuum, nisi aliud iure expresse caveatur. §2. Potestas exsecutiva ab Apostolica Sede delegata subdelegari potest sive ad actum sive ad universitatem casuum, nisi electa fuerit industria personae aut subdelegatio fuerit expresse prohibita. §3. Potestas exsecutiva delegata ab alia auctoritate potestatem ordinariam habente, si ad universitatem casuum delegata sit, in singulis tantum casibus subdelegari potest; si vero ad actum aut ad actus determinatos delegata sit, subdelegari nequit, nisi de expressa delegantis concessione. §4. Nulla potestas subdelegata iterum subdelegari valet, nisi id expresse a delegante concessum fuerit. Can. 135 – Potestas exsecutiva ordinaria necnoc potestas ad universitates casuum delegata, late interpretanda est, alia vero quaelibet stricte; cui tamen delegata potestas est, ea quoque intelliguntur concessa sine quibus eadem potestas exerceri nequit. Can. 136 – §1. Nis [sic!] aliud iure statuatur, eo quod quis aliquam auctoritatem, etiam superiorem, competentem adeat, non suspenditur alius auctoritatis competentis exsecutiva potestas, sive haec ordinaria sit sive delegata. §2. Causae tamen ad superiorem auctoritatem delatae ne se immisceat inferior, nisi ex gravi urgentique causa; quo in casu statim superiorem de re moneat. 118

SCENDO,

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1980,122 che si riferivano all’Ordinario (proprio o vicario) delegandogli potestà, ed erano in parallelo con i cann. del CIC 17 applicati al can. 501 dal voto della Commissione per l’interpretazione autentica del Codice del 26 marzo 1952.123 Can. 137 – §1. Pluribus in solidum ad idem negotium agendum delegatis, qui prius negotium tractare inchoaverit alios ab eodem agendo excludit, nisi posthac impeditus fuerit aut in negotio peragendo ulterius procedere noluerit. §2. Pluribus collegialiter ad negotium agendum delegatis, omnes procedere debent secundum praescripta de actibus collegialibus statuta in can. 115, nisi mandato aliud cautum sit. §3. Potestas exsecutiva pluribus delegata, praesumitur iisdem delegata in solidum. Can. 138 – Pluribus successive delegatis, ille negotium expediat cuius mandatum anterius concessum, nec postea revocatum fuerit. Can. 139 – §1. Potestas delegata extinguitur expleto mandato; elapso tempore vel exhausto numero casuum pro quibus concessa fuerit; cessante causa finali delegationis; revocatione delegantis delegato directe intimata necnon renuntiatione delegati deleganti significata et ab eo acceptata; non autem resoluto iure delegantis, nisi ex appositis clausolis appareat. §2. Actus tamen, ex potestate delegata quae exercetur pro solo foro interno, per inadvertentiam positus, elapso concessionis tempore, validus est. Can. 140 – §1. Potestas ordinaria extinguitur amisso officio cui adnectitur. §2. Nisi aliud iure caveatur, suspenditur potestas ordinaria, si contra privationem vel amotio0nem ab officio legitime appellatur vel recursus interponitur. Can. 141 – In errore communi de facto aut de iure, itemque in dubio positivo et probabili, sive iuris sive facti, supplet Ecclesia, pro foro tam externo quam interno, potestatem regiminis exsecutivam. 122 PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Schema Codicis Iuris Canonici iuxta animadversiones S.R.E. Cardinalium, Episcoporum, Conferentiarum, Dicasteriorum Curiae Romanae, Universitatum Facultatumque ecclesiasticarum necnon Superiorum Institutorum vitae consecratae recognitum (Patribus Commissionis reservatum), Roma 1980. 123 Cfr. AAS 44(1952), 497. Questa interpretazione autentica era stata vista dalla dottrina come una conferma della teoria di Larraona, che considerava la potestà dominativa come una forma imperfetta di potestà giurisdizionale.

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Il nuovo can. 523 risultava così modificato: §1. Institutorum Superiores et Capitula in sodales ea gaudent potestate quae iure universali et Constitutionibus definiuntur. §2. In Institutis autem religiosis clericalibus iuris pontificii pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno. §3. Potestati de qua in §1 applicantur praescripta cann. 128, 130 et 134-141.

Tranne che per i cambiamenti numerici dei cann. citati al §3, questa è la versione che fu promulgata ed è attualmente in vigore del can. 596. Ci furono nuovi sviluppi nel coetus dopo la Relatio del 1981 relativa al nostro canone? Sembrerebbe di no; trarre perciò delle conclusioni al riguardo potrebbe essere utile. Anzitutto va notato che tutti i Superiori ed i Capitoli degli Istituti godono di una potestà indefinita dal diritto, sulla cui natura non si è voluto entrare nel merito,124 ma che potrebbe sottintendersi essere la stessa potestà dominativa del CIC 17 per gli Istituti non clericali125 e che, pur non essendo potestas regiminis, tuttavia è costituita come una certa potestas ecclesiastica publica,126 a volte con gli stessi effetti della giurisdizione,127 sebbene non riportata come ecclesiastica128 (perché dire così sarebbe come equipararla alla potestà ecclesiastica di regime).129 Ai Superiori e Capitoli degli Istituti religiosi clericali di diritto pontificio è data inoltre potestà di governo. 124 125 126 127 128 129

Cfr. Cfr. Cfr. Cfr. Cfr. Cfr.

Communicationes 11(1979), 306. Relatio coetus studiorum, Sessio V, 24-29 marzo 1969. Communicationes 15(1983), 64; 19(1987), 216. Communicationes 19(1987), 204. MCDONOUGH, The potestas of canon 596, 582-583. Communicationes 11(1979), 306.

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La potestà di governo nella vita consacrata

Tuttavia, si usa qui il termine ‘insuper’, non per escludere che anche altri possano avere questa stessa potestà, com’è il caso degli Istituti secolari clericali di diritto pontificio, delle Società di vita apostolica, degli Istituti diocesani clericali che abbiano tutti la facoltà di incardinare.130 Il canone termina con un riferimento alla potestà ordinaria e delegata applicate al §1. Se letto congiuntamente al can. 516 §2131 che definisce gli Istituti clericali, esso combacia con i principi del Folio ex officio della Congregazione per la Dottrina della Fede di cui già parlato, mantenendo i sacramenti che richiedono l’ordine solo ai chierici. Ciò che andrebbe specificato ulteriormente è sapere se l’esercizio di uffici che includono potestas iurisdictionis può essere concesso ad hoc ai Superiori laici negli Istituti religiosi sia ad normam iuris sia, come indicato nel diritto e nel Folio, dalla Autorità Suprema della Chiesa. Nella Plenaria della Commissione del Codice del 20-28 ottobre 1981, una delle questioni trattate riguardava la necessità o meno della conferma da parte della Santa Sede del decreto di dimissione di un membro di un Istituto pontificio (sia clericale che laicale). Una corrente all’interno della Commissione affermò che la conferma doveva essere fatta perché alcuni Istituti (specialmente femminili) non hanno donne particolarmente preparate per portare avanti la procedura e perché questa conferma fa da deterrente all’elevato numero di dispense da voti perpetui della Santa Sede. Ciò, si diceva, non avrebbe violato il principio di sussidiarietà, perché la conferma era un atto di controllo formale che accetta o rifiuta l’azione dell’Istituto valutanCfr. Communicationes 15(1983), 64. Institutum clericale dicitur quod, ratione finis seu propositi a Fundatore intenti vel vi legitimae traditionis, sub moderamine est clericorum, exercitium ordinis sacri assumit et uti tale ab Ecclesiae auctoritate agnoscitur. 130 131

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dolo sul rito o sul merito. Questo avrebbe pure reso più grave il ricorso alla dimissione proprio per il bisogno di conferma della Santa Sede. Queste alcune difficoltà sollevate a favore del ricorso: il piccolo numero di membri di alcuni Istituti femminili; la mancanza di responsabilità da parte dei Superiori femminili.132 Un’altra corrente, invece, non voleva la conferma del decreto di dimissione da parte della Santa Sede; questo avrebbe favorito il ricorso gerarchico ad ogni livello per i membri di voti perpetui che fossero stati dimessi, rendendo la procedura uniforme per tutti gli Istituti, clericali e laicali. Questa sarebbe stata una concessione di facoltà operata dal diritto stesso concesso dal Romano Pontefice. Infatti, alle difficoltà sollevate dalla prima corrente si ribatteva che all’esiguo numero di membri di alcuni Istituti sia maschili che femminili aveva già provveduto il Concilio raccomandando la fusione o l’unione con altri Istituti. Inoltre, la cosiddetta mancanza di responsabilità delle Superiore avrebbe piuttosto dovuto dare un nuovo impegno alla SCRIS di rimozione degli abusi grazie alla relazione quinquennale che gli Istituti avrebbero mandato alla Santa Sede.133 I suggerimenti furono inseriti nello Schema del 1982 che richiedeva la conferma della Santa Sede per il decreto di dimissione emesso dal Moderatore supremo di un Istituto di diritto pontificio, clericale e laicale, perché potesse entrare in vigore.134 Tale conferma non avrebbe reso Cfr. MCDONOUGH, The potestas of canon 596, 588. Cfr. MCDONOUGH, The potestas of canon 596, 588. 134 Cfr. Relatio del 1981 al can. 626 §1, in Communicationes 15(1983), 79; PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Codex Iuris Canonici. Schema novissimum iuxta placita Patrum Commissionis emendatum atque Summo Pontifici praesentatum, Roma 1982, can. 700. 132 133

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La potestà di governo nella vita consacrata

il decreto di dimissione come un atto pontificio, ma solo avrebbe dato alla Santa Sede la possibilità di conoscere i fatti e di controllare il rito della dimissione. Questo significa che il decreto emanato dal Moderatore supremo, sia laico che chierico, è decreto in senso tecnico, perciò atto di potestà esecutiva, concessa dal Romano Pontefice ai Moderatori stessi.

3.5. Conclusioni e prospettive Terminando questo sguardo d’insieme sulla genesi del can. 596, osserviamo quali siano state le principali tappe che esso ha avuto nell’arco dei vent’anni che lo hanno portato dal Concilio Ecumenico Vaticano II al CIC 83. Nel pieno del Concilio fu costituita la Commissione De revisendo Codice iuris Canonici che, terminato il Concilio stesso, cominciò a radunarsi e a trattare della riforma del Codice, ispirandosi a dei Principia directiva generalia che avrebbero dovuto omogeneizzare l’opera di tutta la Commissione, sulla scia degli insegnamenti conciliari. La Commissione fu divisa in vari coetus, gruppi di studio specializzati nella trattazione di settori specifici del Codice stesso. Il coetus de Religiosis (poi de Institutis Perfectionis, infine de Institutis vitae consecratae per professionem consiliorum evangelicorum), nella prima redazione del nostro canone, si ritrovò in diverse sessioni a redigere un diritto della vita consacrata conforme in particolare a due principi ispiratori: de applicando principio subsidiarietatis in Ecclesia e de tutela iurium personarum. Il primo, il principio di sussidiarietà, si basava sul m.p. Ecclesiae Sanctae, ed accordava a qualsiasi livello di autorità quella libertà necessaria per esercitare efficacemente la propria potestà. Si garantiva la non ingerenza di un rango gerarchico superiore in uno inferiore e se ne favoriva la de-

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centralizzazione delle competenze e del governo. Ciò significava ripartire gerarchicamente la potestà, garantire la libertà individuale (applicando il principio di legalità) e valorizzare il ruolo ausiliario dell’Istituto rispetto ai suoi membri e alla gerarchia della Chiesa. L’Istituto doveva aiutare i singoli membri a portare a compimento la propria vocazione e, per far questo, si sarebbe vista riconosciuta una giusta autonomia, sia nel governo che nella disciplina propria. Il Romano Pontefice, che riceve la propria potestà da Gesù Cristo, comunica ai Superiori religiosi tale potestà ed autorità, i quali la esercitano nell’ottica del servizio. Il secondo, la tutela dei diritti della persona, si pone all’opposto della arbitrarietà dell’uso della potestà nella Chiesa. Esso andava a fondare la legittimità come garanzia di libertà e autonomia di ciascun membro dell’Istituto. Il riconoscimento di diritti soggettivi e la partecipazione corresponsabile nell’esercizio della potestà avrebbero dovuto essere riconosciuti dal principio di legalità, che comportava una responsabilità nelle decisioni non solo morale, ma anche giuridica: parità di trattamenti nell’applicazione della legge, unitamente all’applicazione del criterio di proporzionalità e dell’equità canonica. Ne sarebbe risultato un legame stretto tra esercizio della potestà e relazione giuridico-pastorale, ponendo qualsiasi consacrato in comunione con il proprio Superiore, con i Vescovi, con la Santa Sede, con il Romano Pontefice. Oltre a questi due principi generali, il coetus si diede altri quattro principi speciali: esprimere canonicamente il dono della vita consacrata; proteggere l’indole propria di ogni Istituto; codificare un nuovo diritto flessibile per poterlo adattare ad ogni situazione; sviluppare il nuovo diritto a partire dai principi posti dal Concilio. Con il procedere delle sessioni del gruppo, la Santa Sede emanò alcuni documenti riguardanti il governo degli Istituti o rilevanti per esso. Essi sono i decreti Cum Supe-

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La potestà di governo nella vita consacrata

riores (estendeva ai Superiori di Istituto laicale, maschile o femminile, la facoltà di secolarizzazione dei professi di voti temporanei, con atto che ha carattere giurisdizionale), Clericalia Instituta (ricorda che i membri non chierici di Istituti clericali hanno stessi diritti ed obblighi dei chierici che non comportino ordine sacro; inoltre, essi devono avere voto attivo e in alcuni uffici anche passivo), Ad instituenda experimenta (estende a tutti i Superiori la potestà per sperimentare il rinnovamento interno promosso dal m.p. Ecclesiae Sanctae), Experimenta circa regiminis (pone dei limiti alle riforme nel diritto particolare, ribadendo che il Superiore deve essere unico, eletto stabilmente a tempo determinato e con un Consiglio che lo aiuta, ma non governa), il m.p. Causas matrimoniales (attribuisce potestà di governo giudiziale ai laici che possono divenire giudici nelle procedure dei casi matrimoniali) e le note direttive Mutuae relationes (mette in risalto la natura pubblica della potestà dei Superiori, in quanto l’Istituto è persona pubblica nella Chiesa). La prima parte del nuovo diritto della vita consacrata prese forma tra la III e XII sessione, nel triennio 19681971. Il tit. II doveva trattare della gerarchia esterna, il tit. III della gerarchia interna. Ma la prima stesura circa il governo degli Istituti fu molto generica, trattando di come il Superiore avesse dovuto comportarsi. Dalla V sessione si cominciò ad affrontare il tema della potestà riconosciuta ai Superiori degli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica. Il canone 501 del CIC 17 seguì questo iter fino a divenire il 596 del CIC 83.

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can. 501 CIC 17 sessione V

can. 25 sessione VI

can. 25 Schema 1977

can. 523 Schema 1980

can. 523 Schema novissimum

§1. Superiores et Capitula, ad normam constitutionum et iuris communis, potestatem habent dominativam in subditos; in religione autem clericali exempta, habent iurisdictionem ecclesiasticam tam pro foro interno, quam pro foro externo.

Institutorum Moderatores et Capitula ad normam iuris particularis et communis sua in sodales gaudent propria potestate; in Institutis autem clericalibus gaudent insuper iurisdictione ecclesiastica tam pro foro interno quam pro foro externo.

§1. Institutorum Moderatores et Capitula sua in sodales gaudent potestate ad normam iuris particularis et communis; in institutis autem clericalibus pollent insuper iurisdictione ecclesiastica tam pro foro interno quam pro foro externo.

Institutorum Superiores et Capitula in sodales ea gaudent potestate quae iure universali et Constitutionibus definitur; in Institutis autem religiosis clericalibus iuris pontificii pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno.

§1. Institutorum Superiores et Capitula in sodales ea gaudent potestate quae iure universali et Constitutionibus definiuntur.

§2. Superioribus quibuslibet districte prohibetur quominus in causis ad S. Officium spectantibus se intromittant.

§2. Moderatores omnes erga sodales suae curae commissos suam adimpleant missionem et suam potestatem exerceant ad normam iuris particularis et communis.

§2. In Institutis autem religiosis clericalibus iuris pontificii pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno.

§3. Abbas Primas et Superior Congregationis monasticae non habent omnem potestatem et iurisdictionem quam ius commune tribuit Superioribus maioribus, sed eorum potestas et iurisdictio desumenda est ex propriis constitutionibus et ex peculiaribus Sanctae Sedis decretis, firmo preaescripto can. 655, 1594, §4.

§3. In institutis exemptis ad normam can. 17, moderatores pleniorem obtinent potestatis ecclesiasticae participationem et eiusdem liberum usum ad normam etiam iuris particularis exercendum. Qui autem moderatores maiores si clerici sunt nomine Ordinarii veniunt.

§3. Potestati de qua in §1 applicantur praescripta cann. 128, 130 et 134141.

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Come si può notare dai corsivi, i cambiamenti da una versione all’altra del canone sono notevoli, tanto da risultare difficile riconoscerlo nella sua forma del CIC 17 alla sua attuale del CIC 83. Il §1 ha nuove modifiche ad ogni sessio, arrivando ad essere diviso in due nell’ultimo Schema. Il §2 e §3 scompaiono per ritornare nello Schema del 1977 completamente modificati; scompaiono nuovamente nello Schema del 1980 per ricomparire nello Schema novissimum del 1982 completamente nuovi rispetto ai precedenti. Scompare fin dall’inizio l’uso del termine ‘dominativa’ per qualificare la potestà propria di tutti gli Istituti e la discussione tra i consultori si protrae a lungo proprio sulla natura di questa potestà che non è definita esplicitamente. Se da un lato, infatti, essa comporta l’emissione di atti di governo esecutivo, dall’altro non si vuole identificarla come potestas regiminis exsecutiva, in quanto verrebbe riconosciuta a consacrati che dal punto di vista gerarchico sono dei laici. Inizialmente e coerentemente la potestà di governo viene attribuita agli Istituti clericali, siano essi di diritto pontificio o di diritto diocesano. Viene inoltre formulato un dubium alla Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale afferma che se i laici sono «esclusi solo dagli uffici intrinsecamente gerarchici», tuttavia si deve evitare di creare un ministero pastorale laico concorrente a quello clericale. Per evitare il problema di una formulazione non solo canonica, ma anche dottrinale, si afferma che i Superiori ed i Capitoli godono di quella potestà definita sia dal diritto universale che particolare. Tale diritto particolare è comunque pubblico, in forza del carattere pubblico degli Istituti, soprattutto di quelli approvati dalla Santa Sede, ma la potestà è di governo – viene notato – in rapporto al fatto che l’Istituto abbia capacità di incardinare i chierici o meno, non tanto per la qualità degli atti che i Superiori ed i Capitoli possano emanare. Di conseguenza, il can. 596

Cap. III - La fase di codificazione del can. 596

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nel nuovo Codice di Diritto Canonico viene così formulato: §1. Institutorum Superiores et Capitula in sodales ea gaudent potestate quae iure universali et Constitutionibus definiuntur. §2. In Institutis autem religiosis clericalibus iuris pontificii pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno. §3. Potestati de qua in §1 applicantur praescripta cann. 131, 133 et 137-144.

La natura della potestà di cui godono i Superiori e Capitoli degli Istituti non è definita e non può più essere intesa come potestà dominativa, di carattere privato, come qualche consultore avrebbe voluto. Essa ha gli stessi effetti della potestà esecutiva, come ci ricorda lo stesso §3 del canone, tuttavia non viene riconosciuta da alcuni consultori come ecclesiastica. Per questo si analizzeranno ora alcuni atti di governo propri dell’Ordinario, ponendoli a confronto con quelli del Superiore di un Istituto.

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Cap. IV

L’ufficio di Ordinario Nel tit. VIII del primo libro del Codice di Diritto Canonico, sotto il nome De potestate regiminis, si tratta della potestà di governo e di coloro che sono chiamati ad esercitarla nel servizio della Chiesa universale, particolare, o di determinate porzioni e categorie del popolo di Dio. Tra questi, risulta avere un ruolo preminente l’Ordinario. Questa è una parola tecnica che viene usata nel Codice per una sorta di economia giuridica che permette di non ripetere tutta una serie di uffici che rientrano sotto questo concetto ogniqualvolta venga loro attribuita una qualche competenza.1 Il capitolo presente si propone di rilevarne caratteristiche e competenze, in relazione con quanto viene attribuito ai Superiori maggiori di Istituti religiosi clericali e laicali e con le loro competenze specifiche, notandone tutto l’ammontare di doveri e diritti, le somiglianze e le differenze nel governo del popolo o dei sudditi loro affidati. Dopo un primo paragrafo sulla potestà ordinaria e sull’Ordinario in quanto tale, sulla potestà delegata e sui limiti di potestà di colui che ne è investito, il secondo paragrafo elenca i numerosi doveri e diritti propri di ogni Ordinario, affiancandosi poi un terzo paragrafo con i doveri e diritti di ogni Superiore maggiore. Infine, il capitolo si chiude con alcune considerazioni sul Superiore maggiore degli Istituti religiosi e su alcuni at-

1 Cfr. VERA VELASCO A., El concepto de Ordinario en el Còdigo de Derecho Canònico de 1983, Roma 2001, 3.

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ti particolari che il CIC 83 gli attribuisce la potestà di produrre, parallelamente a quelli che l’Ordinario può produrre a sua volta.

4.1. L’Ordinario secondo il can. 134 §1 L’Ordinario è colui che esercita potestà ordinaria a norma del diritto. Questa è potestà di governo ordinaria, annessa ad un ufficio dal diritto stesso2 e perciò non legata alle caratteristiche della persona. Essa è contraddistinta quindi dall’annessione all’ufficio e dall’annessione fatta dal diritto (elementi essenziali per distinguerla dalla potestà delegata, che manca di uno dei due o di entrambi), è stabilmente costituita, permane con il permanere dell’ufficio e rimane invariata con l’immutabilità dell’ufficio, anche se l’autorità competente può mutarne contenuti e competenze.3 In generale, la potestà nella Chiesa può essere ritenuta necessaria in quanto la Chiesa stessa è società visibile; la potestà, allora, e non l’ordine sacro, diviene principio di unità nella Chiesa, unitamente all’ufficio sacro cui essa è annessa.4 L’ufficio è «qualunque incarico, costituito stabilmente per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale».5 Oltre a essere costituito per dispo-

Cfr. can. 131 §1: “Potestas regiminis ordinaria ea est, quae ipso iure alicui officio adnectitur; delegata, quae ipsi personae non mediante officio conceditur”. 3 Cfr. MAROTO F., Instituciones de Derecho Canonico en conformidad con el nuevo Còdigo, Madrid 1919, vol. I, 463-468. 4 Cfr. can. 204 §1: “Haec Ecclesia, in hoc mundo ut societas constituta et ordinata, subsistit in Ecclesia catholica, a successore Petri et Episcopis in eius communione gubernata”. 5 Can. 145 §1. 2

Cap. IV - L’ufficio di Ordinario

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sizione sia divina (Romano Pontefice e Episcopato subordinato) sia ecclesiastica (tutti gli altri uffici), può essere costituito anche per diritto sia universale che particolare. Esso esiste prima di essere concesso o al più viene costituito al momento stesso della concessione dell’ufficio. La potestà che si esercita tramite di esso è strettamente dipendente da questo stesso e non può sussistere in se stessa, separatamente dall’ufficio. Quindi, come l’ufficio preesiste a chi ne diviene titolare, così la potestà ordinaria, e cioè annessa all’ufficio, preesiste alla concessione, non venendo ottenuta tramite un atto successivo del Superiore.6 Preesistendo alla concessione dell’ufficio, non è concessa alle persone, ma all’ufficio e tramite questo alle persone, che la esercitano fintantoché rimangono titolari dello stesso. La potestà annessa all’ufficio denota che quest’ultimo comporta doveri e diritti stabiliti per legge e che colui al quale tale ufficio venga concesso deve adempierli,7 delineando in tal modo la potestà annessa all’ufficio che può essere propria o vicaria ma in nessun modo delegata, in quanto comunque ordinaria. La distinzione della potestà ordinaria in propria o vicaria8 era già esistente nel CIC 17 e, allora come adesso, la differenza consiste quando si eserciti a nome proprio oltre che per diritto proprio e in forza dell’ufficio e quando invece, nel caso della potestà ordinaria vicaria, si eserciti a nome di un altro. La potestà cui partecipano entrambe è la stessa, ma quella vicaria ha funzione sostitutiva di quelCfr. GARCÌA MARTÌN J., Le norme generali del Codex Iuris Canonici, Roma 20024, 520. 7 Cfr. can. 145 §2: “Obligationes et iura singulis officiis ecclesiasticis propria definiuntur sive ipso iure quo officium constituitur, sive decreto auctoritatis competentis quo constituitur simul et confertur”. 8 Cfr. can. 131 §2: “Potestas regiminis ordinaria potest esse sive propria sive vicaria”. 6

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la propria, quando cioè colui che la esercita sia assente o non possa esercitarla. In questo caso, gli uffici configurabili come potestà vicaria si devono distinguere in due categorie: quelli in cui si ha identità giuridica tra vicario e principale (per es. nel caso del Vicario generale ed episcopale), quelli in cui non vi è identità giuridica (nel qual caso non decadono dall’ufficio quando cessa il principale). Vi sono perciò uffici con potestà vicaria che hanno maggiore autonomia, altri che ne hanno meno: forse per questo alcuni commentatori del CIC 17 avevano classificato la potestà vicaria non come ordinaria, ma delegata,9 oppure configurandola in una classe intermedia tra le due.10 4.1.1. La potestà di governo ordinaria La potestà di governo può definirsi come il «potere pubblico della Chiesa di dirigere autoritativamente i fedeli verso il fine soprannaturale a essa proprio, per volontà del suo fondatore Gesù Cristo».11 È pubblica e pertanto distinta da quella privata.12 Deriva direttamente dal munus 9 Cfr., ad es., WERNZ F., Ius Decretalium. II. Ius constitutionis Ecclesiae catholicae, Roma 1889, 626-627. 10 La cosiddetta potestà quasi-ordinaria. Cfr. FALCO M., Corso di diritto ecclesiastico, Padova 19352, 104. 11 MARCUZZI P.G., Potestà di giurisdizione, in DIP, 1983, vol. VII, 150. 12 HERVADA J., Elementos de Derecho Constitucional Canonico, Pamplona 1987, 247, afferma che i Moderatori supremi degli Istituti clericali di diritto pontificio sono considerati Ordinari “exclusivamente para sus sùbditos por un fenomeno juridico mixto de potestad dominativa unida a una linea de potestad de jurisdicciòn en virtud del Sacramento del Orden y la incardinaciòn”. Se i Superiori maggiori degli Istituti clericali di diritto pontificio sono riconosciuti come Ordinari, ciò non è certo per la potestà dominativa che era loro attribuita nel CIC 17, di cui godevano assieme a molti altri nella normativa precedente, ma per la potestà esecutiva di governo, così come specificato nel can. 134 §1 stesso.

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docendi e munus regendi, ma non dal munus sanctificandi, per esercitare alcuni tratti del quale è necessaria l’ordinazione sacramentale. La potestà di governo è perciò nella Chiesa per volontà del suo fondatore, Gesù Cristo, come anche il can. 129 §1 ricorda.13 Per lo stesso diritto divino positivo si trasmise tale potestà agli Apostoli e tramite loro ai successori, a Pietro e ai suoi successori, nonché ai Vescovi in comunione con il successore di Pietro. Tale potestà, detta sacra potestas, si espleta nelle funzioni di santificare, insegnare, governare. Tuttavia il can 129 §1, affermando che l’ordine sacro rende abile alla potestà di governo, sottolinea pure che tale potestà è ben distinta da quella di ordine; inoltre, chi riceve la potestà di ordine non è automaticamente insignito della potestas regiminis. Infatti, la potestà di ordine si riceve con il sacramento dell’ordine, la potestà di governo con la missio canonica, cioè con il conferimento di un ufficio cui sia annessa o con la delega fatta dal Superiore che ne ha competenza. Ciò significa che «non… tutta la potestà di governo ha origine sacramentale»:14 già il Concilio affermava che il sacramento dell’ordine conferisce le tre funzioni di insegnare, santificare, governare, ma non ne dà la potestà per esercitarle.15 Avere la potestà significa avere dei sudditi, avere qualcuno su cui far ricadere le proprie decisioni e certamente il sacramento dell’ordine non ne assegna, pur essendo una condizione essenziale perché l’atto giuridico abbia validità che sia posto ai propri sudditi. “Potestatis regiminis, quae quidem ex divina institutione est in Ecclesia et etiam potestas iurisdictionis vocatur, ad normam praescriptorum iuris, habilis sunt qui ordine sacro sunt insigniti”. 14 GARCÌA MARTÌN, Le norme generali, 501. 15 Cfr. NEP 2. 13

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Parafrasando la NEP 2, la potestà non viene dall’ordine ma dalla missio canonica che non è un sacramento (ecco perché ci sono presbiteri e vescovi senza potestà di governo, o presbiteri che hanno potestà di governo episcopale senza avere ricevuto la consacrazione episcopale, o persone giuridiche che hanno potestà di governo per disposizione del diritto, mancando chiaramente del sacramento dell’ordine). Va distinta tra potestà di governo in foro esterno ed in foro interno, che consiste sempre nella stessa potestà ma esercitata in ambiti diversi, con fini diversi e in modi diversi. In foro esterno è caratterizzata dalla pubblicità di esercizio e quindi da prove giuridicamente valide; raggiunge tutte le persone ed è l’ambito principale di esercizio, riguardante la disciplina ecclesiastica, l’ordine pubblico, le formalità richieste dal diritto, la celebrazione pubblica del culto divino. Essa può essere amministrativa o giudiziale.16 In foro interno, invece, essa è limitata all’ambito della coscienza (pur non identificandosi con il foro della coscienza)17 e dell’occulto, distinguendosi ulteriormente in foro interno sacramentale (nel sacramento della penitenza) e foro interno extrasacramentale (al di fuori del sacramento della penitenza). In questo ambito gli effetti giuridici non sono riscontrabili nel foro esterno, anche perché l’uomo è fondamentalmente libero in ambito occulto e di coscienza. Riguardo alla validità o liceità dell’attività ministeriale e sacerdotale, essa ne ha il controllo.18 Quanto alle funzioCfr. GARCÌA MARTÌN, Le norme generali, 517. Cfr. Communicationes 9(1977), 235. 18 “… Abbiamo molto presto delle prove sicure dell’esistenza concreta e cosciente di un potere di governo differente da quello dell’ordine. […] La necessità di distinguere teoricamente questi due poteri si affacciava solo da quando, a causa di eresie, scismi, rivalità o compor16 17

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ni la potestà di governo si divide in legislativa, esecutiva, giudiziale.19 La divisione delle funzioni dell’unica potestà di governo è dovuta al fatto che non tutti i Superiori ecclesiastici godono delle tre funzioni contemporaneamente. La potestà legislativa20 è la funzione da cui dipendono le altre due, per cui la più eminente. Essa compete a coloro che possono emanare leggi e viene esercitata a norma del diritto per i legislatori inferiori (Vescovo diocesano, Concili particolari, Conferenze episcopali, Capitoli generali degli Istituti clericali di diritto pontificio) a pena della invalidità delle disposizioni stabilite o liberamente dai legislatori supremi (Romano Pontefice, Collegio dei Vescovi). I legislatori inferiori non possono delegare tale funzione tranne nei casi espressamente stabiliti dal diritto, né possono emanare norme contrarie a quelle emanate dai legislatori supremi. La potestà giudiziale21 è quella che vuole risolvere conflitti e questioni controverse mediante l’applicazione della legge. È perciò subordinata alla funzione legislativa ed esercitata da chi detiene potestà legislativa in forma personale. Viene pure esercitata a norma del diritto e, come la potestà legislativa, non può essere delegata perché legatamento indegno dei ministri sacri, si poneva il problema della validità o meno dei loro atti d’ufficio”; STICKLER A.M., Origine e natura della Sacra Potestas, in GHERRO S. (a cura di), Studi sul primo libro del Codex Iuris Canonici, Padova 1993, 78. 19 Can. 135 §1: “Potestas regiminis distinguitur in legislativam, exsecutivam et iudicialem”. 20 Can. 135 §2: “Potestas legislativa exercenda est modo iure praescripto, et ea qua in Ecclesia gaudet legislator infra auctoritatem supremam, valide delegari nequit, nisi aliud iure explicite caveatur; a legislatore inferiore lex iuri superiori contraria valide ferri nequit”. 21 Can. 135 §3: “Potestas iudicialis, qua gaudent iudices aut collegia iudicialia, exercenda est modo iure praescripto, et delegari nequit, nisi ad actus cuivis decreto aut sententia praeparatorios perficiendos”.

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ta all’ufficio (possono tuttavia essere delegati gli atti preparatori del decreto o sentenza). La potestà esecutiva riguarda l’esecuzione della legge. Essa è annessa all’ufficio e perciò è potestà esecutiva ordinaria. Può essere esercitata validamente sui propri sudditi22 anche assenti dal territorio, che abbiano il domicilio o quasi-domicilio nel territorio dell’Ordinario; ma può essere esercitata anche sui forestieri che si trovano nel territorio dell’Ordinario. La funzione esecutiva, al contrario delle altre due funzioni, può essere delegata, sia per un atto che per un insieme di casi.23 Quanto ai soggetti abili ad esercitarla, il già citato can. 129 §1 sembra affermare in maniera esclusiva che la potestà di governo risieda solamente in coloro che hanno l’ordine sacro: diaconi, presbiteri, vescovi. La potestà di ordine è infatti il fondamento della potestà di governo, ma questa non viene conferita automaticamente con il sacramento dell’ordine: essa è legata all’ufficio, ma non tutti sono abili a ricevere determinati uffici. Questi poi sono in alcuni casi di istituzione divina (Romano Pontefice mediante elezione legittima da lui accettata; Vescovi come singoli successori degli Apostoli e riuniti nel Collegio Episcopale), in tutti gli altri di istituzione ecclesiastica. Tra quelli di istituzione ecclesiastica figurano non solo persone fisiche, ma pure giuridiche, che ricevono potestà per disposizione del diritto stesso. Cfr. can. 136: “Potestatem exsecutivam aliquis, licet extra territorium exsistens, exercere valet in subditos, etiam a territorio absentes, nisi aliud ex rei natura aut ex iuris praescripto constet; in peregrinos in territorio actu degentes, si agatur de favoribus concedendis aut de exsecutioni mandandis sive legibus universalibus sive legibus particularibus […]”. 23 Can. 137 §1: “Potestas exsecutiva ordinaria delegari potest tum ad actum tum ad universitatem casuum, nisi aliud iure expresse caveatur”. 22

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Il can. 129 §2 stabilisce invece la capacità dei laici nella cooperazione alla sacra potestas.24 Per giungere alla formulazione di questo canone, la Plenaria del 1981 ebbe una lunga discussione in cui molti vedevano come un pericolo contro la tradizione della Chiesa e la sua costituzione tale partecipazione (negli Schema si affermava che i laici «partem habere possunt» alla potestà sacra).25 Il can. 129 §2 sembra risolvere la questione: nonostante il cambiamento di formulazione dello stesso da partem habere a cohoperatio, la cooperazione, cioè l’operare con un altro, sembra implicare la stessa potestà esercitata da colui con il quale si è chiamati a cooperare. Ne viene che ‘cooperare’ ha lo stesso significato e valore di ‘avere parte’,26 pur essendoci il limite che tale cooperazione deve avvenire a norma del diritto.27 Dunque, se i laici possono cooperare all’esercizio di tale potestà, ciò significa che essi hanno potestà di governo e sono abili ad esercitarla: i ministri sacri sono la causa principale della potestà di governo, ma non assoluta.28

“In exercitio eiusdem potestatis, christifideles laici ad normam iuris cooperari possunt”. 25 Cfr. Communicationes 14(1982), 146-149. 26 Cfr. GUTIÉRREZ A., Canones circa Instituta vitae consecratae et Societates vitae apostolicae vagantes extra partem eorum propriam, in CpR 64(1983), 90. 27 Il can. 274 §1 afferma che “soli clerici obtinere possunt officia ad quorum exercitium requiritur potestas ordinis aut potestas regiminis”. Ciò significa che l’esercizio della potestà di governo da parte dei laici è limitato ad uffici che non richiedano né potestà di ordine né potestà di governo ecclesiastico, cioè potestà di governo ordinaria; cfr. GARCÌA MARTÌN, Le norme generali, 508. 28 Cfr. GANGOITI B., De la potestad de régimen, in BENLLOCH POVEDA A. (a cura di), Còdigo de Derecho Canonico. Ediciòn bilingüe, fuentes y comentarios de todos los cànones, Valencia 1993, 84. 24

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4.1.2. I soggetti che ricadono sotto il nome di Ordinario La figura giuridica dell’Ordinario, descritta al can. 134 §1,29 si distingue da quella di Ordinario del luogo e di Vescovo diocesano per la sua ampiezza. Esso appare ben più di cento volte nel Codice, ma non ogni qualvolta si tratti di un ufficio che esercita potestà ordinaria. Infatti al termine di ‘Ordinari’ sono legati degli uffici ben precisi: il Romano Pontefice, i Vescovi diocesani ed equiparati, i Vicari generali e i Vicari episcopali, i Superiori maggiori degli Istituti religiosi di diritto pontificio clericali e delle Società di vita apostolica di diritto pontificio clericali. Essi possiedono potestà ordinaria, ma ciò non basta per essere qualificati come Ordinari, perché essa deve essere «ordinaria saltem potestate exsecutiva».30 Dunque, se de“Nomine Ordinarii in iure intelleguntur, praeter Romanum Pontificem, Episcopi dioecesani aliique qui, etsi ad interim tantum, praepositi sunt alicui Ecclesiae particulari vel communitati eidem aequiparatae ad normam can. 368, necnon qui in iisdem generali gaudent potestate exsecutiva ordinaria, nempe Vicarii generales et episcopales; itemque, pro suis sodalibus, Superiores maiores clericalium institutorum religiosorum iuris pontificii et clericalium societatum vitae apostolicae iuris pontificii, qui ordinaria saltem potestate exsecutiva pollent”. 30 La potestà esecutiva è necessaria perché chi ha potestà legislativa ne ha pure esecutiva, entrambe destinate alla comunità. Tale principio era in uso anche nella legislazione precedente; cfr. can. 198 §1: “In iure nomine Ordinarii intelliguntur, nisi quis expresse excipiatur, praeter Romanum Pontificem, pro suo quisque territorio Episcopus residentialis, Abbas vel Praelatus nullius eorumque Vicarius Generalis, Administrator, Vicarius et Praefectus Apostolicus, itemque ii qui praedictis deficientibus interim ex iuris praescripto aut ex probatis constitutionibus succedunt in regimine, pro suis vero subditis Superiores maiores in religionibus clericalibus exemptis”. Và perciò respinta la tesi secondo cui “se trata, pues, de un fenómeno jurídico mixto de potestad de jurisdicción que se conjuga con la potestad dominativa”, come pure l’opinione che la potestà dominativa fosse dovuta all’unione dei consigli evangelici con l’esenzione; così VERA VELASCO, El concepto de Ordinario, 38. Al contrario, proprio l’esenzione unitamente ai 29

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vono possedere potestà ordinaria ‘episcopale’ o ‘quasi-episcopale’, non si capisce perchè non rientrino nell’elenco anche i Vicari castrensi e i Prelati di Prelatura personale.31 Il canone sembra fare una divisione su base territoriale o personale, cioè sulla potestà territoriale o personale e, proprio per questo, dovevano figurare anche queste due categorie, senza demandarle ad altre normative particolari o ad altre parti del Codice. Nel CIC 17 non figuravano completamente come Ordinari i Prelati di Prelatura personale, il Vicario episcopale,32 i Superiori maggiori di Istituti di vita consacrata non esenti. Nella prima parte di esso rientrano coloro che sono preposti alla Chiesa universale e ad una Chiesa particolare di carattere territoriale, demandando al can. 368 il compito di indicarne gli equiparati.33 Nella seconda parte si parla di quelli che hanno carattere personale, cioè gli Istituti religiosi e le Società di vita apostolica clericali di diritto pontificio (che hanno la funzione della diocesi in quanto ad incardinazione dei propri chierici): si deve tenere preconsigli evangelici ha portato alla comprensione della potestà dominativa come vera e propria potestà di giurisdizione. 31 Cfr. URRUTIA F.J., De normis generalibus C.I.C. Schemata pro lectionibus, Roma 1986-1989, vol. II, 49-50. Lo stesso Autore si chiede come mai non risultino tra gli Ordinari anche i Vicari giudiziali. Ma essi hanno solo potestà giudiziale che è indirizzata a destinatari particolari, non alla comunità, e che quindi non pone il giudice nella categoria degli Ordinari. Al contrario, la potestà dell’Ordinario può essere senz’altro considerata potestà episcopale; cfr. SERRANO J.M., El ejercicio de la potestad en el Ordinario, in REDC 37(1981), 230. 32 Trova la propria ragione nel decreto conciliare Christus Dominus, 27. 33 “Ecclesiae particulares, in quibus una et unica Ecclesia catholica exsistit, sunt imprimis dioeceses, quibus nisi aliud constet, assimilantur praelatura territorialis et abbatia territorialis, vicariatus apostolicus et praefectura apostolica necnon administratio apostolica stabiliter erecta”.

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sente che nel Codice attuale il Superiore maggiore è colui che governa sia l’intero Istituto che una sua parte, sia essa una sua provincia o una parte ad essa equiparata, o una casa sui iuris, senza dimenticare i rispettivi vicari.34 Ad essi vanno perciò aggiunti gli Ordinariati militari35 e le Prelature personali.36 In questo modo si distinguono gli Ordinari dagli Ordinari del luogo sulla base di coloro che hanno potestà ordinaria e potestà ordinaria esecutiva generale.37 34 Cfr. can. 620: “Superiores maiores sunt, qui totum regunt institutum, vel eius provinciam, vel partem eidem aequiparatam, vel domum sui iuris, itemque eorum vicarii. His accedunt Abbas Primas et Superior congregationis monasticae, qui tamen non habent omnem potestatem, quam ius universale Superioribus maioribus tribuit”. 35 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, cost. ap. Spirituali militum curae, 21 aprile 1986, in AAS 78(1986), II §1, 482: “Ordinariatui militari, ut proprius, praeficitur Ordinarius dignitate episcopali pro norma insignitus, qui omnibus gaudet iuribus Episcoporum dioecesanorum eorundemque obligationibus tenetur, nisi aliud ex rei natura vel statutis particularibus constet”. L’Ordinario castrense, perciò, non è necessariamente insignito dell’episcopato, ma è equiparato in iure ai vescovi e appartiene a iure alla conferenza episcopale nazionale in quanto l’Ordinariato è equiparato alla diocesi. Cfr. ARRIETA J.I., El Ordinariato castrense. (Notas en torno a la Cost. Apost. «Spirituali militum curae»), in IusCan 26(1986), 731 ss. 36 Can. 295 §1: “Praelatura personalis regitur statutis ab Apostolica Sede conditis eique praeficitur Praelatus ut Ordinarius proprius, cui ius est nationale vel internationale seminarium erigere necnon alumnos incardinare, eosque titulo servitii praelaturae ad ordines promovere”. La Prelatura personale è equiparata agli Istituti missionari clericali. Cfr. GUTIÉRREZ J.L., La Costituzione apostolica “Ut sit” e la figura giuridica della prelatura personale, in Apollinaris 57(1984), 335-340; LO CASTRO G., Un’istituzione giurisdizionale gerarchica della Chiesa. La prelatura personale Opus Dei, in DirEccl 96(1985), 547-579; CELEGHIN A., Prelatura personale: problemi e dubbi, in Per 82(1993), 95-138; 231-256; GARCÌA MARTÌN J., El Ordinario propio de la Prelatura personal, in CpR 77(1996), 377. 37 Si escludono così i parroci; cfr. Communicationes 23(1991), 49.

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– Il Romano Pontefice è l’Ordinario di tutte le Chiese particolari38 e il Superiore supremo di tutti gli IR e le SVA,39 avendo potestà ordinaria, propria, universale ed immediata. – I Vescovi diocesani sono coloro cui è affidata una Chiesa particolare durante sede piena, impedita, vacante, e coloro cui è affidata una Chiesa particolare equiparata alla diocesi, cioè la prelatura territoriale, l’abbazia territoriale, il vicariato apostolico, la prefettura apostolica, la prefettura apostolica stabilmente eretta; per disposizioni particolari anche la missione sui iuris40 e l’Ordinariato castrense. Con sede piena, il Vescovo diocesano di una diocesi si equipara al Prelato territoriale, all’Abate territoriale, al Vicario apostolico, al Prefetto apostolico, all’Amministratore apostolico stabilmente costituito, al Superiore di missione sui iuris, al Vicario castrense, all’Amministratore apostolico ad nutum Sanctae Sedis. Con sede impedita, la Chiesa particolare viene affidata al Vescovo coadiutore, al Vescovo ausiliare, al Vicario generale ed episcopale, al Superiore interino (presbitero) secondo l’ordine stabilito nell’elenco che il Vescovo diocesano ha compilato o eletto dal collegio dei consultori, l’Amministratore apostolico ad nutum Sanctae Sedis.

38 Cfr. can. 333 §1: “Pontifex, vi sui muneris, non modo in universam Ecclesiam potestate gaudet, sed et super omnes Ecclesias particulares earumque coetus ordinariae potestatis obtinet principatum […]”. 39 Cfr. can. 590 §2: “Singuli sodales Summo Pontifici, tamquam supremo eorum Superiori, etiam ratione sacri vinculi oboedientiae parere tenentur”. 40 Pro Audientia Santissimi, 7 novembre 1929: Sylloge praecipuorum documentorum recentium Summorum Pontificum et S. Congregationis de Propaganda Fide necnon aliarum SS. Congregationum Romanarum, Roma 1939, n. 146, 349-350.

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Con sede vacante, la Chiesa particolare è affidata all’Amministratore diocesano, al Pro-vicario apostolico, al Proprefetto apostolico, al Pro-superiore apostolico o all’Amministratore apostolico ad nutum Sanctae Sedis. – I Vicari generali ed episcopali nelle medesime Chiese particolari, perché hanno potestà esecutiva ordinaria generale. Vi possono essere compresi in questa categoria anche i Vescovi coadiutori e quelli ausiliari.41 – I Superiori maggiori di IR e SVA clericali di diritto pontificio (tra questi rientrano sia i Moderatori supremi che coloro che sono posti a capo di una parte dell’Istituto o di una casa sui iuris), ai quali si equiparano, per disposizioni esterne al can. 134 §1, gli Abati primati e i Superiori di congregazioni monastiche, pur non avendo tutta la potestà che il diritto universale attribuisce ai Superiori maggiori. – A questi si aggiungono i Vicari dei Superiori maggiori.42 – Il Prelato di Prelatura personale.43 – Il Vicario del Prelato personale, a norma degli statuti approvati dalla Sede Apostolica.44 Avendo questi potestà annessa all’ufficio e non legata direttamente alla persona, essa viene a cessare nel momenCfr. GARCÌA MARTÌN, Le norme generali, 527. Cfr. can. 620. 43 Cfr. il già citato can. 295 §1. 44 A titolo puramente esemplificativo, accenniamo all’Ordinario del luogo. Cfr. can. 134 §2: “Nomine Ordinarii loci intelleguntur omnes qui in §1 recensentur, exceptis Superioribus institutorum religiosorum et societatum vitae apostolicae”. Esso viene definito per via negativa, dicendo che vi corrispondono tutti gli Ordinari del 134 §1, tranne i Superiori degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica, cioè tranne coloro che non hanno carattere territoriale ma personale (e solo per i propri membri), anche il Prelato di Prelatura personale e l’Ordinario di Vicariato castrense. Tuttavia, gli Ordinari del luogo hanno potestà sul territorio, sulle persone, sulle cose che sono in quel luogo e con essi si comprendono anche i loro vicari. 41 42

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to stesso in cui il titolare perde l’ufficio o ne viene sospeso. Si tratta allora di estinzione (quando non esiste più) o di sospensione (quando non si può esercitare),45 «nisi aliud iure caveatur», cioè a meno che non vi sia stato un decreto di rimozione che non abbia avuto forma scritta46 o sia mancata la dichiarazione della rimozione da parte dell’autorità competente.47 Ciò è conforme con quanto affermato già nel can. 131 §1, dove si dice che la potestà ordinaria è quella annessa dal diritto stesso all’ufficio: non si può perdere l’ufficio e conservare tale potestà. Al contrario, quindi, chi non perde l’ufficio dovrebbe mantenere la potestà ordinaria, ma nel caso di appello legittimo o ricorso contro la privazione o rimozione dall’ufficio, essa viene sospesa. Ne consegue che il titolare non può esercitare la potestà annessa all’ufficio e gli atti che ponesse in tale contesto sarebbero nulli. Il Moderatore supremo esercita potestà su ogni singola provincia, casa e membro dell’Istituto, secondo il diritto universale e particolare. La parte dell’Istituto equiparata alla provincia è quella in cui vi sia «previsto l’ufficio di un superiore con una potestà ordinaria anche se vicaria sull’insieme delle case», sì che ci sia «sufficiente autonomia per equiparare tale realtà a una provincia».48 In caso di appello pendente legittimamente posto o di ricorso contro la privazione o rimozione dall’ufficio; cfr. can. 143 §2. 46 Can. 193 §4: “Decretum amotionis, ut effectum sortiatur, scripto intimandum est”. 47 Can. 194 §2: “Amotio […] urgeri tantum potest, si de eadem auctoritatis competentis declaratione constet”. Cfr. URRUTIA, De normis generalibus, vol. II, 63. 48 DE PAOLIS V., La vita consacrata nella Chiesa, Bologna 1992, 202. Di diverso avviso BEYER J., Il diritto della vita consacrata, Milano 1989, 231, secondo cui il diritto proprio “non può tuttavia conferire a questo superiore intermedio le competenze che il diritto della Chiesa riconosce ai superiori provinciali come superiori maggiori […] questi su45

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Perciò si può osservare che l’Ordinario religioso o l’Ordinario moderatore di una SVA non ha regime pieno sulla Chiesa né generale né particolare, distinguendosi in questo dagli Ordinari del luogo, pur avendo potestà esecutiva propria o vicaria.49 È sempre Superiore maggiore di un IR o SVA di indole clericale e di carattere pontificio, distinguendosi dai Superiori maggiori di IR o SVA di indole laicale anche se di carattere pontificio. 4.1.3. La potestà di governo delegata La potestà di governo delegata è quella che non è connessa all’ufficio stesso, ma viene concessa «a persona ad personam»,50 così come descritto al can. 131 §1. Perciò è potestà propria della persona che fa la delega, che la concede. Richiede quindi due agenti: uno titolare della potestà, l’altro che la riceve non dall’ufficio (ma potrebbe essere ‘per’ l’ufficio). Ma non tutti possono delegare tutte le funzioni: è il diritto stesso a stabilire le competenze del delegante e quali funzioni sono delegabili. Tale concessione può essere fatta dal diritto o direttamente dal titolare della potestà. La potestà delegata concessa dal diritto è differente da quella ordinaria perché non è annessa all’ufficio ma al delegato in quanto tale: per questo si può ritenere che l’esecutore non abbia potestà periori intermedi non sono superiori maggiori; non si può neppure nel diritto proprio, conferire loro poteri che il Codice affida ai superiori provinciali come superiori maggiori e soprattutto come ‘ordinari’ (c. 134)”. 49 Il can. 134 §1, dicendo che tali Ordinari devono avere “ordinaria saltem potestas exsecutiva”, ammette che possano averne altre, come effettivamente avviene, esercitando anche potestà legislativa e giudiziale. Tali potestà esercitano soltanto per i loro sudditi, senza relazione al territorio, con meno doveri e diritti degli Ordinari del luogo, ma secondo il diritto universale ed anche proprio. 50 URRUTIA, De normis generalibus, vol. II, 49.

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propriamente detta e che spetti al delegante originario autorizzare all’eventuale delega della suddelega.51 La delega, oltre che per il modo che ha di essere fatta, può essere distinta in base alla sua ampiezza: quando sia speciale (e perciò indirizzata ad un atto particolare) ovvero generale (per un insieme di casi), cioè universale in quanto concessa per una generalità di casi; può essere distinta in base al motivo per cui viene fatta: quando sia cioè personale (fatta in ragione delle qualità della persona, nel qual caso è intrasferibile) ovvero reale (a motivo dell’ufficio che svolge la persona, nel qual caso è trasferibile, delegabile).52 Nel contesto della potestà delegata vengono anche considerate le facoltà abituali, ritenute nel CIC 17 un privilegio fuori del diritto, ora rette dalle disposizioni sulla potestà delegata. Possono essere definite «concessio per actum peculiarem ad aliquid agendum, non ad casum in individuo determinatum»53 e, come visto nel cap. II, possono concedere potestà giurisdizionale: in quanto tali presuppongono mancanza di potestà, ma presenza dei requisiti o delle circostanze perchè tale potestà venga concessa (sono fatte in ragione dell’ufficio, ma posteriori al conferimento dello stesso; necessitano di sudditi per cui siano esercitate e hanno come finalità la risoluzione di casi urgenti, difficili o non previsti dal Codice). Pur essendo rette dalle disposizioni sulla potestà delegata, esse passano al successore dell’Ordinario nel momento in cui questi cessi dall’ufficio (se sono concesse in base al51 RIVELLA M., Titolo VIII. La potestà di governo, in AA.VV., Codice di diritto canonico commentato, (a cura della Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale), Milano 2001, 183. Inoltre, per questo stesso motivo al delegato spetta l’onere della prova, ex can. 131 §3. 52 Cfr. URRUTIA, De normis generalibus, vol. II, 57-58. 53 URRUTIA, De normis generalibus, vol. II, 59.

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l’ufficio esercitato; nel caso in cui esse siano concesse in base alle qualità personali, cessano con la persona stessa); vengono esercitate nei limiti stabiliti dal delegante (dal diritto o dall’autorità), siano essi di tipo temporale, territoriale, personale. Queste le possibilità di delegare alcune funzioni: – circa la potestà legislativa, il can. 135 §254 pone una distinzione chiara tra l’autorità suprema da una parte e quella inferiore dall’altra. Elencando i soggetti di autorità inferiore (Vescovi diocesani ed equiparati, Concili particolari, Conferenze Episcopali, Capitoli degli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica) che non possono delegare validamente tale funzione se non sia stabilito espressamente dal diritto, si capisce che l’autorità suprema ha invece piena capacità di delegarla;55 – circa la potestà giudiziale, solo il Romano Pontefice può delegarla, salvo per quanto riguarda gli atti preparatori dei decreti e delle sentenze, per cui anche il Vescovo o i giudici possono delegare;56 – circa la potestà esecutiva, le disposizioni del diritto sono più complesse e si articolano nei cann. 137-142. Il can. 137 stabilisce le norme generali per la potestà esecutiva delegata:

54 “Potestas legislativa exercenda est modo iure praescripto, et ea qua in Ecclesia gaudet legislator infra auctoritatem supremam, valide delegari nequit, nisi aliud iure explicite caveatur; a legislatore inferiore lex iuri superiori contraria valide ferri nequit”. 55 Cfr. URRUTIA, De normis generalibus, vol. II, 55; GARCÌA MARTÌN, Le norme generali, 542. 56 Can. 135 §3: “Potestas iudicialis, qua gaudent iudices aut collegia iudicialia, exercenda est modo iure praescripto, et delegari nequit, nisi ad actus cuivis decreto aut sententia praeparatorios perficiendos”.

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§1. Potestas exsecutiva ordinaria delegari potest tum ad actum tum ad universitatem casuum, nisi aliud iure expresse caveatur. §2. Potestas exsecutiva ab Apostolica Sede delegata subdelegari potest sive ad actum sive ad universitatem casuum, nisi electa fuerit industria personae aut subdelegatio fuerit expresse prohibita. §3. Potestas exsecutiva delegata ab alia auctoritate potestatem ordinariam habente, si ad universitatem casuum delegata sit, in singulis tantum casibus subdelegari potest; si vero ad actum aut ad actus determinatos delegata sit, subdelegari nequit, nisi de expressa delegantis concessione. §4. Nulla potestas subdelegata iterum subdelegari potest, nisi id expresse a delegante concessum fuerit.

La norma stabilisce che colui che possiede potestà esecutiva ordinaria, anche se vicaria, può delegarla per un atto o per un insieme di casi. Il canone non specifica se la causa debba essere per la liceità o per la gravità della situazione. Non solo l’Ordinario può delegare, ma anche chi ha potestà esecutiva ordinaria, cioè annessa all’ufficio: ciò è importante in relazione proprio al can. 596 §3, dove si rimanda espressamente a questi canoni. In via eccezionale, il diritto può stabilire diversamente, cioè vietare l’uso della delega.57 I §§2-4 stabiliscono le condizioni per la suddelega: – nel caso di delega da parte della Sede Apostolica, la suddelega è sempre possibile, «sive ad actum sive ad universitatem casuum», ad eccezione dei casi proibiti dal diritto e della delega fatta per le qualità specifiche della persona; – nel caso di delega da parte di un’altra autorità, si distinguono le possibilità 1) in cui la delega sia fatta «ad uni57

Cfr. URRUTIA, De normis generalibus, vol. II, 57-58.

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versitatem casuum», nella qual ipotesi la suddelega può avvenire solo per singoli casi, 2) o in cui la delega sia fatta «ad actum aut ad actus determinatos», nella cui ipotesi la suddelega è generalmente proibita, a meno che il delegante non lo conceda espressamente; – nel caso di ulteriore suddelega, la norma generale ne proibisce l’applicazione, salvo il diritto del delegante di permettere tale suddelega, che dovrà essere fatto espressamente ed in maniera chiara. Al can. 14058 si tratta della delega di potestà esecutiva fatta «pluribus in solidum», al fine di dirimere conflitti di competenza.59 Se da un lato potremmo arguire che la delega di potestà venga fatta validamente a coloro che sono insigniti dell’ordine sacro a norma del can. 129 §1, dall’altro dobbiamo riconoscere che tale delega può essere fatta da tutti i Superiori maggiori di Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica a norma del can. 596 §3, che possono essere anche laici: può dunque un laico dare potestà di governo, per quanto delegata, ad un ministro sacro? La delega a parecchi delegati stabilisce che la potestà delegata possa essere fatta a una persona fisica o a una persona giuridica, come già avviene per certe funzioni nella potestà di governo ordinaria. Essa si ripartisce in delega in solido, collegiale, successiva. §1. Pluribus in solidum ad idem negotium agendum delegatis, qui prius negotium tractare inchoaverit alios ab eodem agendo excludit, nisi postea impeditus fuerit aut in negotio peragendo ulterius procedere noluerit. §2. Pluribus collegialiter ad negotium agendum delegatis, omnes procedere debent ad normam can. 119, nisi in mandato aliud cautum sit. §3. Potestas exsecutiva pluribus delegata, praesumitur iisdem delegata in solidum. 59 Cfr. ARRIETA J.I., Titulus VIII. De potestate regiminis, in ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, 151. 58

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La delega fatta a parecchi soggetti in solido, can. 140 §1, concede potestà a tutti indistintamente ma non simultaneamente: infatti il primo che abbia iniziato a svolgere l’affare, esclude gli altri dal trattarlo. E se questi venga impedito o non possa procedere nel condurlo a termine, sarà un altro delegato in solido a subentrare nell’esercizio. Diversamente, nella delega fatta a parecchi soggetti collegialmente, la potestà non è concessa a tutti indistintamente, ma a tutti come collegio. Si procede a norma del can. 119,60 sotto pena di nullità degli atti posti, con l’intervento di tutti i delegati o, secondo il can. 119, 2°, con la convocazione di tutti i delegati ma la presenza solo della maggioranza, permanendo la facoltà del delegante di disporre diversamente. La delega fatta a parecchi successivamente è trattata al can. 14161 e consiste nella situazione in cui la delega per trattare l’affare sia stata fatta a più soggetti separatamente e in tempi successivi. In tal caso il diritto dispone che sia competente colui che per primo ricevette la delega e che Ad actus collegiales quod attinet, nisi iure vel statutis aliud caveatur: 1° si agatur de electionibus, id vim habet iuris, quod, praesente quidem maiore parte eorum qui convocari debent, placuerit parti absolute maiori eorum qui sunt praesentes; post duo inefficacia scrutinia, suffragatio fiat super duobus candidatis qui maiorem suffragiorum partem obtinuerint, vel, si sunt plures, super duobus aetate senioribus; post tertium scrutinium, si paritas maneat, ille electus habeatur qui senior sit aetate; 2° si agatur de aliis negotiis, id vim habet iuris, quod, praesente quidem maiore parte eorum qui convocari debent, placuerit parti absolute maiori eorum qui sunt praesentes; quod si post duo scrutinia suffragia aequalia fuerint, praeses suo voto paritatem dirimere potest; 3° quod autem omnes uti singulos tangit, ab omnibus approbari debet. 61 Pluribus successive delegatis, ille negotium expediat, cuius mandatum anterius est, nec postea revocatum fuit. 60

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non gli sia stata revocata. Svolto l’affare dal primo, la delega dei successivi cessa.62 Quanto alla cessazione, le cause sono diverse.63 Con riguardo alla potestà e quindi alla delega, il can. 142 §1 cita sia il compimento del mandato sia la scadenza del tempo per il quale fu concessa la delega (tuttavia, il §2 pone come eccezione l’atto posto per inavvertenza dopo la scadenza del tempo di concessione nel solo foro interno anche non sacramentale); sia l’esaurimento del numero dei casi sia la cessazione della causa finale della delega (che deve perciò essere manifestata nella delega stessa).64 Con riguardo invece alla potestà del delegante, il §1 cita la revoca da parte del delegante (che deve essere intimata direttamente al delegato e che necessita di una causa per la liceità). Se il delegante ha condizionato la concessione alla sua potestà, la perdita di questa da parte del soggetto delegante può essere una ulteriore causa di cessazione (andando contro il principio generale che non prevede perdita della potestà delegata nel caso in cui venga meno il diritto del delegante).65

Cfr. BENDER L., Potestas iurisdictionis exercenda extra territorium, in Perfice Munus 34(1959), 349-354; SAUCEDO P.R., Exercitium iurisdictionis ecclesiasticae et Superiores Laici ex Ordine Hospitalario S. Joannis de Deo, in CpR 13(1932), 51-61. 63 Can. 142: §1. Potestas delegata extinguitur: expleto mandato; elapso tempore vel exhausto numero casuum pro quibus concessa fuit; cessante causa finali delegationis; revocatione delegantis delegato directe intimata necnon renuntiatione delegati deleganti significata et eo acceptata; non autem resoluto iure delegantis, nisi id ex appositis clausulis appareat. §2. Actus tamen ex potestate delegat, quae exercetur pro solo foro interno, per inadvertentiam positus, elapso concessionis tempore, validus est. 64 Cfr. URRUTIA, De normis generalibus, vol. II, 63-64. 65 Cfr. GARCÌA MARTÌN, Le norme generali, 552. 62

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Con riguardo al delegato stesso, le cause possono essere due: la rinuncia accettata dal delegante e la morte del delegato stesso. Pur non figurando nel can. 142, a queste va aggiunta, nel caso di concessione fatta a parecchi collegialmente, l’estinzione del collegio a motivo della mancanza di uno dei suoi membri.66 Secondo il can. 139,67 la potestà esecutiva di un Superiore gerarchico non viene sospesa per il ricorso ad un’altra autorità superiore o inferiore, ma permane immutata (rimanendo perciò valida l’eventuale decisione presa dall’autorità precedente). Tale è il caso di religioso che ricorra alla Sede Apostolica per un indulto di esclautrazione, omettendo l’iter gerarchico inferiore ed interno all’Istituto stesso di cui sia membro. È quindi una norma che «mira a dirimere conflitti di competenza che possono insorgere in ipotesi sia di potestà ordinaria che di potestà delegata», riferendosi «ad ogni autorità esecutiva titolare di una competenza concorrente per una data materia, qualunque sia il suo grado gerarchico».68 È il suddito stesso che ha in questo caso ampia possibilità discrezionale sulla scelta dell’autorità competente.

Cfr. URRUTIA, De normis generalibus, vol. II, 64. §1. Nisi aliud iure statuatur, eo quod quis aliquam auctoritatem, etiam superiorem, competentem adeat, non suspenditur alius auctoritatis competentis exsecutiva potestas, sive haec ordinaria est sive delegata. §2. Causae tamen ad superiorem auctoritatem delatae ne se immisceat inferior, nisi ex gravi urgetique causa; quo in casu statim superiorem de re moneat. 68 Cfr. ARRIETA J.I., Titulus VIII. De potestate regiminis, 150. Nel caso in cui l’autorità gerarchica diversa cui il suddito ha fatto ricorso sia di grado superiore, quella inferiore non deve intromettersi, salvo il caso in cui vi siano contemporaneamente motivi gravi e urgenti e sempre avvisando quella superiore della cosa. 66 67

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Infine, il can. 14469 tratta della supplenza della potestà esecutiva e delle facoltà abituali da parte della Chiesa, sia nell’errore comune di fatto o di diritto70 sia nel dubbio positivo e probabile di diritto e di fatto.71 Essa avviene per impedire che l’atto, posto da una persona carente della dovuta potestà, sia nullo; perciò ha finalità pastorale, non di supplire la negligenza dei ministri sacri o dell’autorità gerarchica. Ne risulta che i Superiori maggiori, rivestendo un ufficio e quindi avendo potestà ordinaria, si situano nella prima categoria e perciò anche a loro vengono attribuite quelle disposizioni dei cann. 139-144 che abbiamo appena analizzato e che sono proprie di coloro che esercitano potestà esecutiva o che posseggono perlomeno particolari facoltà abituali. Tale potestà esecutiva sembra non dover essere di natura privata, in quanto negli atti di natura privata è lo stesso diritto particolare a stabilire i modi per sopperire errori di diritto o di fatto, così come indica il disposto del can. 144. 69 §1. In errore communi de facto aut de iure, itemque in dubio positivo et probabili sive iuris sive facti, supplet Ecclesia, pro foro tam externo quam interno, potestatem regiminis exsecutivam. §2. Eadem norma applicatur facultatibus de quibus in cann. 882, 883, 966, et 1111, §1. 70 L’errore comune consiste nella valutazione inesatta, da parte di chi deve soggiacere ad una potestà, del fatto che un soggetto determinato ne sia investito. È di diritto quando riguarda l’interpretazione delle norme giuridiche che regolano l’esercizio della potestà; di fatto quando riguarda l’errata valutazione di un insieme di circostanze di fatto che portano a considerare che un soggetto abbia potestà conforme al diritto stesso. Questo fatto non deve essere necessariamente pubblico, ma certo, stabile e la supplenza deve nascere dall’interesse e dal beneficio generale della comunità. 71 Il dubbio positivo e probabile di diritto e di fatto riguarda il soggetto che esercita la potestà ed è tale quando colui che esercita tale potestà ha motivi solidi di giudizio per ritenere di esserne investito. Non è tale pertanto il caso in cui chi agisce lo faccia per negligenza.

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Tuttavia, per procedere con ordine, analizziamo gli atti di governo, doveri e diritti propri sia dei Superiori maggiori in quanto Ordinari sia dei Superiori maggiori in generale.

4.2. Atti di governo dell’Ordinario Il Codice annette all’ufficio di Ordinario la potestà e quindi l’insieme di doveri-diritti suoi propri. Ciò vale naturalmente anche per quei Superiori maggiori che rientrano nella fattispecie dell’Ordinario, cioè quelli di Istituti religiosi clericali di diritto pontificio e di Società di vita apostolica clericali di diritto pontificio che godano almeno di potestà di governo esecutiva. Questo insieme di doveri-diritti comprende, oltre al munus regendi, che riguarda specificamente il campo della potestà esecutiva ordinaria e legislativa-giudiziale, anche il munus docendi e il munus sanctificandi, sia per il foro esterno che per quello interno, sacramentale ed extrasacramentale.72 Ne richiamiamo perciò il corrispettivo elenco che possa poi essere messo a confronto con quello comune a tutti i Superiori maggiori degli IVC e delle SVA, sia clericali che laicali. Naturalmente il nostro studio si ferma ad un livello di ius comune e perciò non scende ad analizzare la miriade di possibilità che possono esserci nel campo del diritto proprio di ciascun Istituto o Società e che possono

72 A tutto l’insieme di doveri e diritti che troviamo riferiti all’Ordinario si deve notare che vi fu un ampliamento notevole a partire dallo Schema del 1980 a riguardo della formazione dei chierici, della predicazione, degli stipendi, della ricezione del sacramento dell’Ordine. Cfr. VERA VELASCO, El concepto de Ordinario, 155.

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apportare particolari doveri-diritti al già cospicuo elenco previsto dal Codice.73 4.2.1. Doveri specifici dell’Ordinario a) Doveri riguardanti il munus docendi: – determinare le ‘opportune esperienze’ nella prassi pastorale per i membri che si preparano al sacerdozio, da aversi nel periodo degli studi o delle vacanze (can. 258); – comunicare le motivazioni all’autore di un eventuale diniego nel concedere la licenza (che ha valore solo per il testo originale, can. 829) di pubblicare (can. 830 §3); – emettere personalmente la professione di fede prima di cominciare ad esercitare la potestà propria dell’ufficio (can. 833, 8°).74 b) Doveri riguardanti il munus sanctificandi: – stabilire le finalità delle offerte delle ss. Messe binate (can. 951 §1);75

Nell’elencazione dei doveri-diritti, pur descrivendo sommariamente il contenuto degli stessi, facciamo solo riferimento al canone corrispettivo, senza citarlo per intero. La bibliografia usata per questo elenco, con qualche ritocco personale, è la seguente: ANDRÉS D.J., Los Superiores religiosos de los religiosos segun el Codigo: (IV) Estatuto especìfico de los Superiores mayores ordinarios, in CpR 79(1998), 159-191; IDEM, Los Superiores religiosos segun el Codigo. Guia de subditos y de superiores, Madrid 1985, 187-202; D’OSTILIO F., L’esercizio della Sacra Potestà negli Istituti Religiosi, Città del Vaticano 2000, 135-146; ESPOSITO B., Alcune riflessioni sul Superiore maggiore in quanto Ordinario e sulla valenza ecclesiologica e canonica della qualifica, in Angelicum 78(2001), 700-709. 74 Norma comune a tutti gli IVC ed SVA clericali, sia di diritto pontificio che di diritto diocesano. 75 Cfr. anche PCCICAI, Responsio I, 23 aprile 1987, in AAS 79(1987), 1132. Il can. 111 §2 dello Schema de Sacramentis del 1975 dava questa competenza all’Ordinario del luogo. 73

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– definire le modalità di consegna, da parte degli amministratori di cause pie o di obblighi a provvedere alla celebrazione di Messe, degli oneri di Messe che non siano stati soddisfatti entro l’anno (can. 956); – prendere visione ogni anno, personalmente o tramite altri, dei registri delle ss. Messe (can. 958 §2); – stabilire il luogo e il modo dello svolgimento degli esercizi spirituali di coloro che sono promossi a qualche ordine (can. 1039);76 – annotare l’avvenuta ordinazione dei propri sudditi sul registro che si conserva nell’archivio (can. 1053 §2); – consultare dei periti prima di concedere la licenza scritta per il restauro di immagini preziose e insigni esposte alla venerazione dei fedeli nella chiese e negli oratori (can. 1189); – visitare il luogo destinato alla costituzione di un oratorio personalmente o per mezzo di altri prima di concedere la licenza richiesta se sia trovato allestito in modo conveniente (can. 1224 §1). Un Autore poneva a questo punto, tra i doveri specifici dei Superiori maggiori Ordinari, anche la possibilità di “non … ammettere al diaconato coloro che non hanno emesso professione definitiva; la medesima deve constare dalle lettere dimissorie (cfr. cann. 1037; 1052 §2)”; ESPOSITO B., Alcune riflessioni sul Superiore maggiore in quanto Ordinario e sulla valenza ecclesiologica e canonica della qualifica, in Angelicum 78(2001), 701. Va notato che nei canoni indicati dallo stesso non si fa alcun riferimento all’Ordinario, quanto piuttosto al Superiore maggiore del candidato, anche perché tutti compresi nel Libro II Parte III sugli IVC e SVA. Ciò, d’altro canto, è naturale se si tiene presente che vi sono IVC che non sono clericali ma hanno o potrebbero avere chierici o, ancora, IVC di diritto diocesano clericali i cui Superiori, pur non essendo Ordinari, hanno piena responsabilità sui loro sudditi. Cfr. ANDRÉS D.J., Los Superiores religiosos segùn el Còdigo: (III) Estatuto especifico de los Superiores Mayores, in CpR 79(1998), 1920; D’OSTILIO F., L’esercizio della Sacra Potestà negli Istituti Religiosi, Città del Vaticano 2000, 162. 76

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c) Doveri riguardanti il munus regendi, divisi nella funzione legislativa, esecutiva, penale e giudiziale: Funzione legislativa – privare chi gravemente abusa del privilegio concessogli dallo stesso Ordinario (o da altro; se esso fu concesso dalla Sede Apostolica è tenuto ad informarla dell’avvenuta privazione), ma solo dopo che sia stato ammonito invano (can. 84). Nello stesso modo l’Ordinario procede in caso di abuso di una deroga fatta ab homine della norma privilegiata singolare. Funzione esecutiva – rispettare i limiti della propria competenza riguardo agli atti amministrativi singolari (can. 35);77 – ricercare le notizie e le prove necessarie e, per quanto possibile, ascoltare coloro i cui diritti possono essere lesi prima di emettere un decreto singolare (can. 50); – dare sempre per iscritto il decreto, esponendo almeno sommariamente le motivazioni quando si tratti di una decisione (can. 51); – intimare con un documento legittimo a norma del diritto il decreto singolare, per poterne urgere l’osservanza (can. 54 §2);

77 Dovere proprio degli IVC clericali di diritto pontificio, secondo ANDRÉS, Los Superiores religiosos se los Religiosos: (I) Estatuto comun a todos los Superiores, in CpR 78 (1997), 134, ed altri, ma che in realtà è meglio collocato nella parte comune a tutti i Superiori maggiori, in quanto tutti emettono atti amministrativi singolari; cfr. GARCÌA MARTÌN J., Actos administrativos singulares de los Superiores de Institutos religiosos laicales de derecho pontificio, in CpR 84(2003), 108-109. Sull’argomento si tornerà in seguito.

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– provvedere entro tre mesi per l’emissione di un decreto singolare ogni volta che la legge lo impone o che da parte dell’interessato viene legittimamente proposta una petizione o un ricorso per ottenerne uno, a meno che la legge non disponga un termine diverso (can. 57 §1); – non concedere la grazia che sia stata negata già da un altro Ordinario, se non (saputo del diniego) dopo aver conosciuti i motivi del diniego dall’Ordinario precedente (can. 65 §1); – esigere la presentazione del rescritto concesso dalla Sede Apostolica in cui non venga assegnato alcun esecutore solo nei casi in cui ciò sia richiesto nella lettera medesima, oppure si tratti di cose pubbliche, o si renda necessario comprovarne le condizioni (can. 68); – conferire personalità giuridica agli insiemi di persone o cose che perseguono un fine effettivamente utile e che siano forniti dei mezzi atti a conseguire il fine stesso che si prefiggono (can. 114 §3);78 – non ritardare la provvisione di un ufficio che comporti la cura delle anime, se non per grave causa (can. 151); – non conferire alla stessa persona due o più uffici incompatibili tra loro (can. 152); – consegnare per iscritto la provvisione di qualsiasi ufficio (can. 156); – istituire legittimamente colui che avrà riconosciuto idoneo e che avrà accettato se gli compete a norma del diritto istituire il presentato (can. 163);79 – accettare una rinuncia ad un ufficio ecclesiastico solo se fondata su causa giusta e motivata (can. 189 §2);

78 Anche questo can. andrebbe collocato nella parte comune a tutti i Superiori maggiori di IR. 79 Trattandosi di parecchi presentati e ritenuti legittimamente idonei, il Superiore maggiore deve istituirne uno dei medesimi.

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– avere una causa grave per il trasferimento posto secondo le disposizioni del diritto ma contro la volontà del titolare dell’ufficio, facendo salva la possibilità di esporre le ragioni contrarie (can. 190 §2);80 – avere cause gravi per rimuovere dall’ufficio che sia stato conferito a tempo indeterminato (can. 193 §1) o a tempo determinato nel caso di rimozione prima dello scadere del tempo stabilito (can. 193 §2), sempre osservando il modo di procedere definito dal diritto;81 – sottoscrivere gli atti con effetti giuridici che si inviano alla curia diocesana (can. 474); – ordinare l’intero affare dell’amministrazione dei beni dando istruzioni secondo i limiti stabiliti dal diritto universale e particolare, tenendo in debito conto i diritti, le legittime consuetudini e le circostanze delle persone giuridiche pubbliche a lui soggette (can. 1276 §2);82 – assumere per un triennio (che può essere riconfermato dall’Ordinario) delle persone idonee all’amministrazione dei beni di una persona giuridica pubblica che, per diritto o per le tavole di fondazione o per i propri statuti, manchi di amministratori propri (can. 1279 §2); – vigilare anche con la visita perché le pie volontà siano adempiute e curare che gli sia reso conto del compito terminato da parte dei «ceteri exsecutores» (can. 1301 Il diritto proprio può stabilire altre cause per il trasferimento: can. 624 §3. 81 Anche nella rimozione, il diritto proprio può stabilire diversamente: can. 624 §3. 82 L’intero affare dell’amministrazione, che ora si concede a tutti gli Ordinari in senso personale, prima era competenza del Vescovo in senso reale: tutti i beni ecclesiastici dentro il territorio della diocesi erano sotto la cura del medesimo; ora solo quelli che appartengono a persone giuridiche pubbliche soggette al Vescovo. Cfr. LOPEZ ALARCON M., Commentario al can. 1276, in ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, 845-846. 80

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§2), essendo egli l’esecutore di tutte le pie volontà, «tam mortis causa quam inter vivos» (can. 1301 §1); che, se vi fossero delle clausole contrarie a questo diritto dell’Ordinario annesse alle ultime volontà, si considererebbero come non apposte (can. 1301 §3); – essere informato circa la consistenza dei beni sia mobili che immobili e gli eventuali oneri annessi (can. 1302 §1); – esigere che i beni fiduciari siano collocati al sicuro e vigilare sull’esecuzione della pia volontà a norma del can. 1301 (can. 1302 §2); – accertare che la persona giuridica possa accettare una fondazione potendo soddisfare sia al nuovo onere sia a quelli precedentemente assunti, ponendo particolare attenzione nell’accertare che i redditi corrispondano appieno agli oneri aggiunti, secondo gli usi del luogo o della regione; solo allora può rilasciare la licenza scritta necessaria per la valida accettazione della nuova fondazione (can. 1304 §1); – porre immediatamente al sicuro il denaro ed i beni mobili assegnati a titolo di dote (in luogo da approvarsi dall’Ordinario); investire tali beni e denaro a vantaggio della stessa fondazione secondo il prudente giudizio dell’Ordinario che deve udire gli interessati ed il proprio consiglio per gli affari economici e fare espressa e distinta menzione dell’onere (can. 1305). Funzione penale – attestare l’ammonizione o la riprensione di colui che si trovi nell’occasione prossima di delinquere (o sul quale dall’indagine fatta cada il sospetto grave d’aver commesso il delitto) con qualche documento da conservarsi nell’archivio segreto della curia (can. 1339 §3); – constatato che non si può riparare lo scandalo, ristabilire la giustizia, emendare il reo né con l’ammonizione fra-

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terna, né con la riprensione né per altre vie, avviare la procedura giudiziaria o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene (can. 1341);83 – infliggere o dichiarare in giudizio una pena per decreto extragiudiziale secondo quanto la legge dice a riguardo del giudice, a meno che non consti altrimenti né si tratti di disposizioni attinenti soltanto la procedura (can. 1342 §3); – nel caso sia stata inflitta una pena ad un chierico, provvedere che non gli manchi il necessario per un onesto sostentamento, eccetto il caso di dimissione dallo stato clericale (can. 1350 §1); – provvedere nel miglior modo possibile a chi è stato dimesso dallo stato clericale e che ne sia veramente bisognoso (can. 1350 §2);84 – punire con una giusta pena coloro che, oltre a quanto disposto dal can. 1364 §1, insegnano dottrine condannate e, ammoniti dalla Sede Apostolica o dall’Ordinario stesso, non ritrattano (cann. 1371, 1°; 750 §2;85 752); – punire con giusta pena coloro che in altro modo disobbediscono alla Sede Apostolica, all’Ordinario o al Superiore, quando legittimamente comandano o proibiscono e, dopo l’ammonizione, persistono nella disobbedienza (can. 1371, 2°); – punire con l’interdetto o con altre giuste pene chi pubblicamente suscita rivalità e odi da parte dei sudditi contro la Sede Apostolica o l’Ordinario per un atto di potestà o di ministero ecclesiastico, o eccita i sudditi alla disobbedienza nei loro confronti (can. 1373). 83 Cfr. il can. 697, simmetrico a questo, che ha per soggetti attivi i Superiori maggiori di IR. 84 Cfr. il can. 702 §2 riguardante l’equità e la carità fraterna che l’IR deve mostrare verso chi si separa dall’Istituto stesso. 85 GIOVANNI PAOLO II, m.p. Ad tuendam fidem, 18 maggio 1998, in AAS 90(1998), 457-461.

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Funzione giudiziale – indagare con prudenza sui fatti, le circostanze, l’imputabilità, personalmente o tramite persona idonea, quando si abbia notizia almeno probabile di un delitto, sempre che tale indagine non sembri del tutto superflua (can. 1717 §1) ed evitando di ledere la buona fama di alcuno (can. 1717 §2);86 – avviare la procedura giudiziale o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene, solo quando si constati l’inutilità dell’ammonizione fraterna, della riprensione e degli altri mezzi fraterni (can. 1341);87 – conservare gli atti dell’indagine e i decreti dell’Ordinario, se non sono necessari al processo penale, nell’archivio segreto della curia (can. 1719); – se l’Ordinario ha deciso di procedere per via extragiudiziale: a) rendere note all’imputato l’accusa e le prove, dandogli possibilità di difendersi; b) valutare tutte le prove e gli argomenti con l’aiuto di due assessori; c) quando consti con certezza del delitto e l’azione criminale non sia estinta, emanare un decreto a norma dei cann. 1342-1350, esponendo le ragioni in diritto e in fatto (can. 1720); – se l’Ordinario ha avviato un processo penale giudiziario, trasmettere gli atti dell’indagine al promotore di giustizia (can. 1721 §1); 86 Sarebbe solo l’Ordinario a poter dare impulso a detto processo, non solo il Vescovo ma tutti coloro che godano di potestà giudiziale propria. LOZA F., Pars IV libri VII. De processu poenali, in ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, 1139. 87 Si procede allora per via giudiziale o per decreto extragiudiziale e, in presenza di nuovi elementi, si procede con nuovo decreto per revocare o modificare la decisione precedente, udendo degli esperti e valutando l’ipotesi che questi stessi dirimano la questione, con il consenso delle parti (can. 1718 §§1-4).

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– se l’Ordinario ha avviato uno o alcuni dei procedimenti elencati nel can. 1722 ed il processo penale viene meno per il venir meno della causa, revocare quegli stessi procedimenti (can. 1722). 4.2.2. Diritti specifici dell’Ordinario a) Diritti riguardanti il munus docendi: – restringere o togliere la facoltà di predicare nelle proprie chiese o richiedere la licenza espressa per legge particolare (can. 764);88 b) Diritti riguardanti il munus sanctificandi: – rilasciare le lettere commendatizie per essere ammessi a celebrare la santissima Eucaristia in qualsiasi chiesa (can. 903); – concedere la licenza perché qualsiasi sacerdote o altro ministro della sacra comunione possa portare il Viatico ad un proprio suddito infermo (can. 911 §1); – permettere per una giusta causa che la santissima Eucaristia venga conservata, oltre che nella chiesa o nell’oratorio, anche in un altro oratorio della medesima casa (can. 936); – ricevere le confessioni dei propri sudditi e di tutti coloro che vivono giorno e notte nella casa dell’Istituto o della Società e conferire tale facoltà a chi voglia per tutto l’Istituto, a meno che qualche Superiore maggiore non ne abbia fatto divieto per i propri sudditi in un caso particolare (can. 967 §3); – ricevere le confessioni dei propri sudditi e degli altri che vivono diu noctuque nella casa (can. 968 §2); 88 È facoltà concessa dal rescr. Cum admotae I, 13. È facoltà dapprima riservata all’Ordinario del luogo, poi ampliata agli Ordinari in genere e anche a tutti i Superiori maggiori (can. 719 dello Schema del 1980).

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– conferire a qualunque presbitero la facoltà di ricevere le confessioni dei propri sudditi e di coloro che vivono giorno e notte nella casa (can. 969 §2); – dare la licenza affinché un proprio presbitero possa avere dall’Ordinario del luogo la facoltà di ricevere abitualmente le confessioni (can. 971); – conferire la facoltà di ricevere le confessioni dei propri sudditi per un tempo indeterminato o determinato (can. 972);89 – amministrare l’unzione degli infermi ai religiosi sotto la propria cura pastorale personalmente o tramite un altro sacerdote, con il suo consenso almeno presunto (can. 1003 §§1-2); – provare il neofita affinché possa ricevere gli ordini sacri (can. 1042, 3°); – consentire l’esercizio degli ordini sacri a chi è affetto da pazzia o da altre infermità psichiche di cui al can. 1041, 1°, dopo aver consultato un perito (can. 1044 §2, 2°); – dispensare dalle irregolarità e dagli impedimenti non riservati alla Santa Sede (can. 1047 §4); – concedere le lettere dimissorie che attestino la presenza dei documenti richiesti per l’ordinazione, che lo scrutinio è stato compiuto a norma del diritto, che consta dell’idoneità del candidato e che esso è stato cooptato definitivamente nell’IVCR o SVA e che è suddito del Superiore che dà le lettere (can. 1052 §2); – sospendere l’obbligazione del voto fintantoché il suo adempimento arrechi pregiudizio a chi lo ha emesso (can. 1195); – dispensare dai voti privati dei sudditi, dei novizi e di coloro che vivono diu noctuque nelle case dell’Istituto o

89 Ma se tale facoltà è abituale, deve essere concessa per iscritto, ex can. 973.

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della Società, per una giusta causa e purché la dispensa non leda l’altrui diritto acquisito (can. 1196, 2°);90 – commutare con un bene maggiore o uguale (può essere fatto anche da chi l’ha emesso) o con un bene minore la promessa del voto privato (can. 1197); – sospendere, dispensare, commutare il giuramento promissorio, a meno che ciò non torni a pregiudizio di terzi, nel qual caso la dispensa è riservata alla Sede Apostolica (can. 1203); – benedire i luoghi sacri (can. 1207); – permettere altri usi dell’oratorio o luogo sacro, purché non contrari alla santità del luogo (can. 1210); – decretare che un luogo sacro è stato destinato permanentemente ad usi profani (cann. 1212; 1224 §2); – concedere la licenza per la costituzione di un oratorio, dopo aver visitato personalmente o tramite altri il luogo destinato allo stesso (can. 1224 §1); – concedere la dispensa per una giusta causa dall’obbligo di osservare il giorno festivo o di penitenza, oppure commutarlo in altre opere pie relativamente ai propri sudditi e agli altri che vivono diu noctuque nella loro casa (can. 1245).91 c) Diritti riguardanti il munus regendi, distinti nella funzione legislativa, esecutiva, penale e giudiziale:

90 Facoltà già concessa nel rescr. Cum admotae, I, 14 ai Superiori degli IVCR e delle SVA clericali di diritto pontificio ed ora estesa agli Abati che presiedono congregazioni monastiche. 91 Nel caso in cui a dispensare sia un Superiore locale di un IVCR o di una SVA clericali di diritto pontificio, resta salvo il diritto del Vescovo diocesano e le prescrizioni che siano state emanate dallo stesso a norma del can. 87 §1.

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Funzione legislativa – giudicare se le consuetudini universali o particolari, vigenti al presente e che non vanno contro le disposizioni del CIC 83 o che sono centenarie o immemorabili, non possano essere rimosse a causa di circostanze di luoghi e di persone e perciò vadano tollerate (can. 5 §1);92 – promulgare le Costituzioni e gli Statuti che contengono le norme fondamentali dell’Istituto (cann. 94 §3; 587 §1). Funzione esecutiva – dispensare dalle leggi irritanti ed inabilitanti nel dubbio di fatto purché, se si tratta di dispensa riservata, venga solitamente concessa dall’autorità cui è riservata (can. 14); – dare decreti generali esecutivi, entro i limiti della loro competenza, per determinare più precisamente i modi da osservarsi nell’applicare una legge o per urgere l’osservanza delle leggi (can. 31);93 – dare istruzioni per rendere chiare le disposizioni delle leggi e determinare i procedimenti nell’eseguirle (can. 34 §1);94

Riguarda la efficacia normativa della consuetudine, pur rimanendo valido il principio che la consuetudine, per divenire fonte innovativa del diritto, deve essere approvata dal legislatore (e quindi dal Capitolo per gli IVCR). Cfr. LOMBARDIA P., Estructura del Ordinamento Canonico, in Derecho Canonico, Vol. I, Pamplona 1974, 203 ss. 93 Questi stessi decreti generali esecutivi non cessano venuto meno il diritto di colui che li stabilisce, eccetto che non sia disposto espressamente il contrario (can. 33 §2). 94 Anche per le istruzioni, la cessazione avviene con la revoca di chi le ha emanate o del suo superiore (can. 34 §3). A questo punto, ANDRÉS D.J., Los Superiores religiosos de los religiosos: (I) Estatuto comun a todos los Superiores, in CpR 78(1997), 150, poneva la possibilità, per i Superiori maggiori Ordinari, di emanare atti amministrativi singola92

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– dispensare i sudditi da tutte le leggi disciplinari, purché consti che ciò giovi al bene spirituale del suddito e, nel caso di dispensa riservata alla Santa Sede, questa sia solita concederla nelle medesime circostanze, salvo il caso di dispensa dal celibato, can. 291 (cann. 85; 87 §2);95 – ritenere valido un rescritto, viziato da errori materiali, nella misura in cui non vi è dubbio circa l’identità della persona, dell’oggetto e del luogo (can. 66); – concedere privilegi sia a persone fisiche che giuridiche se il legislatore abbia conferito all’Ordinario tale potestà (can. 76 §1);96

ri, la qual cosa è pur vera, ma non completa. È infatti prerogativa anche degli Istituti religiosi (non secolari) laicali di diritto pontificio di produrre atti amministrativi singolari, tanto come decreti, tanto come precetti o rescritti. Tale argomento verrà trattato in seguito. 95 URRUTIA, De normis generalibus, vol. I, 95, afferma che, secondo il can. 85, la potestà di dispensare compete anche ai Superiori religiosi, nonostante nella parte propria degli IVC ed SVA non si dica alcunché: è una lacuna iuris del diritto universale? Tale sembrerebbe, tanto che gli Autori antichi (per es.: SUÀREZ, De Religiosis, VIII, II,12.27-43) affermavano che non soltanto potevano (mancante una proibizione espressa), ma che tale era pure il diritto dei Superiori locali e dei Superiori degli Istituti laicali. Certamente risulta essere già un notevole ampliamento rispetto alla precedente normativa (can. 81 CIC 17) che stabiliva che solo il Romano Pontefice, e colui al quale ne fosse data la facoltà, poteva dispensare dalle leggi disciplinari. Cfr. BERTRAMS W., De Episcopis quoad universalem Ecclesiam, in Quaestiones Fundamentales Iuris Canonici, Roma 1969, 416. 96 Il privilegio può essere considerato come un “atto del legislatore destinato ad un soggetto concreto – norma singolare – che, avendo il valore di regola di diritto oggettivo, attribuisce situazioni giuridiche attive, delle quali chi beneficia del privilegio non sarebbe titolare, se il legislatore non avesse provveduto a modificare in tal senso l’ordinamento giuridico”; così LOMBARDIA P., Liber I. De normis generalibus, in ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, 113.

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– una facoltà concessa ad un Ordinario non è annullata venendo meno il diritto dell’Ordinario cui è concessa, sebbene egli stesso abbia iniziato ad eseguirla, ma passa al suo successore (can. 132 §2); – definire ulteriormente obblighi e diritti propri dei singoli uffici ecclesiastici sia nel decreto di costituzione sia in quello di conferimento (can. 145 §2);97 – dare il proprio assenso affinché l’autorità competente possa conferire un ufficio od incarico ad un proprio suddito (can. 162); – avere il rispetto e l’obbedienza da parte dei propri chierici (can. 273) che comportano l’accettazione degli incarichi loro affidati dallo stesso Ordinario, tranne nel caso di impedimento legittimo (can. 274 §2); – concedere la licenza per accettare l’amministrazione di beni riguardanti i laici o per esercitare uffici secolari che comportino l’onere del rendiconto; essere consultato per la fideiussione (cann. 285 §4; 672);98 – concedere la licenza per togliere la proibizione di prestare servizio militare volontario (cann. 289 §1; 672); – disporre che un religioso non usufruisca della esenzione di esercitare uffici ed incarichi civili estranei allo stato clericale (cann. 289 §2; 672); – concedere la licenza scritta che, assieme a quella dell’Ordinario del luogo, permette alle persone private, sia fisiche che giuridiche, di raccogliere denaro per qualunque fine o istituto pio o ecclesiastico (can. 1265 §1); Anche i Superiori maggiori di Istituti laicali di diritto pontificio godono di questo diritto. Ad essi spetta anche la provvisione degli stessi uffici, come si vedrà in seguito. 98 Diritto comune ai Superiori maggiori degli IR di diritto pontificio in generale ed a quelli Ordinari. Secondo le disposizioni del can. 672, i Superiori degli Istituti laicali di diritto pontificio possono concedere questo rescritto per i propri sudditi, senza dover ricorre all’Ordinario del luogo. 97

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– vigilare ed avere cura dei beni appartenenti alle persone giuridiche pubbliche soggette ad egli stesso (can. 1276 §1); – intervenire in caso di negligenza dell’amministratore dei beni ecclesiastici di una persona giuridica pubblica o privata, salvo sempre il diritto particolare, gli statuti o la legittima consuetudine (can. 1279 §1); – dare il permesso scritto di compiere atti che oltrepassano i limiti dell’ordinaria amministrazione agli amministratori (can. 1281 §1); – ricevere il giuramento degli amministratori, personalmente o tramite altri, di svolgere onestamente e fedelmente le funzioni amministrative (can. 1283, 1°); – dare il loro consenso affinché gli amministratori possano impiegare utilmente il denaro eccedente le spese per le finalità della persona giuridica (can. 1284 §2, 6°); – dare la licenza scritta perché gli amministratori possano introdurre una lite presso un tribunale civile in nome di una persona giuridica pubblica (can. 1288); – dare la licenza scritta per accettare validamente una pia fondazione (can. 1304 §1); – se espressamente previsto nelle tavole di fondazione, ridurre gli oneri delle Messe se vi sia diminuzione dei redditi (can. 1308 §2). Funzione penale – ammonire direttamente o tramite altri colui che si trovi nell’occasione prossima di delinquere o sul quale cada il sospetto grave di aver commesso il delitto (ammonizione che deve constare da documento scritto conservato nell’archivio segreto; can. 1339 §§1-2); – provvedere ad avviare la procedura giudiziale o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene, una volta constatato che né l’ammonizione né altri solleciti richiami abbiano ottenuto gli effetti previsti (can. 1341);

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– rimettere la pena ferendae sententiae o latae sententiae stabilita per precetto che non sia stato dato dalla Sede Apostolica, ma che sia stato inflitto o dichiarato dall’Ordinario stesso con decreto personale o tramite altri (can. 1356 §1, 2°). Funzione giudiziale – stare in giudizio personalmente o tramite altri a nome delle persone giuridiche soggette alla potestà propria nel caso i legittimi rappresentanti non si siano presentati o siano trovati negligenti (can. 1480 §2); – accusare la validità della sacra ordinazione di un proprio chierico (can. 1708); – avere gli stessi poteri ed obblighi che ha l’uditore nel processo nel caso di un delitto probabile previsto al can. 1717 §1 (can. 1717 §§1; 3); – decidere se gli elementi raccolti bastino per procedere in conformità a quanto prescritto nei cann. 1718-1731 per avviare un processo penale (can. 1718 §§1-4); – udito il promotore di giustizia e citato l’accusato stesso, allontanare l’imputato dal ministero sacro o da un ufficio o compito ecclesiastico, imporgli o proibirgli la dimora in qualche luogo o territorio, vietargli di partecipare pubblicamente alla santissima Eucaristia al fine di prevenire gli scandali, tutelare la libertà dei testimoni e garantire il corso della giustizia (can. 1722); – dare il mandato o il consenso perché il promotore di giustizia possa rinunciare alla causa, in qualunque grado di giudizio (can. 1724 §1); – ordinare che venga sospesa l’esecuzione del decreto nel caso in cui il ricorso non lo sospenda per il diritto stesso, purché ciò avvenga per causa grave ed evitando che la salus animarum ne tragga danno (can. 1737 §3); – ordinare che il ricorrente si presenti personalmente per essere interrogato, per evitare inutili ritardi nel ca-

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so in cui si sia presentato senza un patrono (can. 1738); – confermare o dichiarare invalido il decreto di cui si sta giudicando il ricorso, oppure rescinderlo, revocarlo, correggerlo, subrogarlo, abrogarlo (can. 1739). Tutti questi doveri e diritti degli Ordinari e quindi dei Superiori maggiori Ordinari sono esercitati a norma del diritto sui propri sudditi che, per gli IVC e SVA, sono coloro che abbiano emesso la prima professione, temporanea, nello stesso Istituto. 4.3. Atti di governo comuni a tutti i Superiori maggiori Alla numerosa elencazione dei doveri-diritti specifici dei Superiori maggiori Ordinari, si aggiunge quella propria e comune a tutti i Superiori maggiori, che ha quindi una base più ampia di quella precedente, ma che viene esercitata sempre per il bene comune e dei singoli, oltre che dell’Istituto stesso.99 4.3.1. Doveri specifici dei Superiori maggiori a) Doveri riguardanti il munus sanctificandi: – curare l’osservanza dei documenti della Santa Sede riguardanti i membri dell’Istituto (can. 592 §2); – non ammettere nel noviziato acattolici o cattolici mancanti di retta intenzione, delle qualità richieste dal dirit99 Anche per questa elencazione ci avvalliamo di: ANDRÉS D.J., Los Superiores religiosos de los religiosos segùn el Còdigo: (III) Estatuto especìfico de los Superiores mayores, in CpR 79(1998), 19-34; D’OSTILIO, L’esercizio della Sacra Potestà, 128-134; GARCÌA MARTÌN J., Atti amministrativi singolari: norme comuni, Roma 2003; IDEM, Actos administrativos singulares de los Superiores de Institutos religiosos laicales de derecho pontificio, in CpR 84(2003), 107-134.

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to universale e proprio, o vincolati da qualche impedimento (can. 597 §1);100 – reggere i membri dell’Istituto come figli di Dio, essendo docili alla volontà di Dio nell’adempimento del loro incarico e suscitando la loro volontaria obbedienza (can. 618); – riconoscere la dovuta libertà ai religiosi circa il sacramento della penitenza e la direzione di coscienza, salva la disciplina dell’Istituto (can. 630 §1); – provvedere con premura alla disponibilità di confessori idonei per i religiosi (can. 630 §2); – curare che vi siano confessori ordinari approvati dall’ordinario del luogo nei monasteri di monache, nelle case di formazione e nelle comunità più numerose degli Istituti laicali, lasciando la libertà di presentarsi a loro o ad altri (can. 630 §3); – non ascoltare le confessioni dei propri sudditi, a meno che non lo abbiano richiesto spontaneamente (can. 630 §4); – non indurre in qualunque modo i religiosi a manifestare loro la propria coscienza (can. 630 §5); – non ammettere nel noviziato coloro che non abbiano ancora compiuto 17 anni di età, siano sposati (perdurante il matrimonio),101 siano legati con un vincolo sacro ad un altro IVC o incorporato ad una SVA (a meno che ci sia la concessione del Moderatore supremo secondo il disposto del can. 684); parimenti, non possono ammettere al noviziato coloro che vi siano costretti da violenza, timore grave o inganno (can. 643 §1);102 Condizioni richieste per la validità dell’ammissione. Salvo dispensa dalla norma concessa dalla Congregazione per gli IVC e SVA. 102 Viceversa, il Superiore maggiore che fosse costretto ad ammettere al noviziato qualcuno per gli stessi motivi, violenza, timore grave o inganno, porrebbe un atto ugualmente invalido. 100 101

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– procurare i mezzi e il tempo perché i religiosi possano proseguire assiduamente la propria formazione spirituale, dottrinale e pratica (can. 661);103 – ammettere a celebrare la messa nella propria chiesa o oratorio un sacerdote anche se sconosciuto, purché esibisca le lettere commendatizie del suo Superiore (can. 903); – vigilare sull’adempimento degli oneri delle Messe nelle chiese del proprio Istituto o Società (can. 957); – provvedere in tempo opportuno l’amministrazione dell’unzione degli infermi ai religiosi malati (can. 1001); – proibire ai diaconi propri sudditi, nel caso di una causa canonica prevista anche se occulta, la ricezione dell’ordine del presbiterato, restando salvo il diritto al ricorso a norma del diritto (can. 1030);104 – determinare un periodo di tempo adeguato in cui i diaconi, dopo aver terminato gli studi, debbano esercitare il ministero pastorale del diaconato (can. 1032 §2); – non proibire l’esercizio dell’ordine diaconale da parte del diacono che rifiuti di ricevere l’ordine del presbiterato, a meno che non vi sia trattenuto da un impedimento canonico o da altra grave causa, da valutarsi a giudizio del Superiore maggiore competente (can. 1038); – comunicare la ordinazione ricevuta di ogni suddito al parroco del luogo del battesimo dello stesso (cann. 1054; 535 §2);

103 Riguarda i Superiori a qualsiasi livello, anche locale e viene comunemente indicata come “formazione permanente”. 104 La norma ha carattere proibitivo, pur lasciando la libertà di esercitare tale diritto, perché “no existe derecho subjetivo alguno a la recepciòn de las òrdenes sagradas”; ANDRÉS, Los Superiores religiosos (III), 27. Era di competenza del Vescovo diocesano nello Schema del 1980, al can. 229. Ora è divenuto del Superiore competente. Cfr. VERA VELASCO, El concepto de Ordinario, 144.

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– celebrare le esequie dei membri dell’Istituto o Società clericali nella propria chiesa od oratorio (can. 1179). b) Doveri riguardanti il munus docendi: – far conoscere i documenti della Santa Sede riguardanti i membri dell’Istituto e curarne l’osservanza (can. 592 §2);105 – suscitare la volontaria obbedienza dei sudditi nel rispetto della persona umana e ascoltando volentieri gli stessi, favorendo la comune partecipazione per il bene dell’Istituto e della Chiesa (can. 618);106 – dare con frequenza ai religiosi il nutrimento della parola di Dio ed indirizzarli alla celebrazione della sacra liturgia; essere di esempio nell’osservare le leggi e le tradizioni dell’Istituto (can. 619); – provvedere in modo conveniente a quanto occorre personalmente ai membri, favorendo in questo modo anche la fedeltà alla vocazione e al fine della stessa, secondo il can. 670 (can. 619); – procurare i mezzi e il tempo perché i religiosi proseguano assiduamente alla loro formazione spirituale, dottrinale e pratica (la formazione permanente; can. 661); – mantenere con fedeltà la missione e le opere proprie dell’Istituto assieme ai membri, adattandole con prudenza alle necessità dei tempi e dei luoghi (can. 677 §1); – curare che nelle proprie chiese, scuole o altre opere in qualunque modo loro affidate, venga impartita diligentemente (per forma e contenuto) l’istruzione catechetica, in comunione con il Vescovo (can. 778);

105 Documenti è parola generica che vuole indicare non solo decreti ed istruzioni, ma anche lettere encicliche e documenti dottrinali, che possono essere valutati dal Superiore stesso. 106 Cfr. par. 3.1.2. sulla tutela dei diritti della persona.

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– favorire che ogni consacrato presti la propria opera in modo speciale nell’azione missionaria, con lo stile proprio dell’Istituto, in forza della propria consacrazione (can. 783); – adoperarsi efficacemente all’educazione cattolica anche attraverso proprie scuole, lì dove sia previsto dal carisma dell’Istituto, con il consenso del Vescovo diocesano per fondare scuole (can. 801); – curare che l’istruzione impartita nelle loro scuole si distingua dal punto di vista scientifico almeno a pari grado che nelle altre scuole della regione (can. 806 §2); – inviare nelle università o facoltà ecclesiastiche religiosi che si segnalino per indole, virtù e ingegno nella misura in cui lo richieda il bene dell’Istituto o della Chiesa universale (can. 819); – provvedere che i candidati, prima di essere promossi a qualche ordine, vengano istruiti su ciò che riguarda l’ordine e i suoi obblighi (can. 1028). c) Doveri riguardanti il munus regendi, distinti nella funzione legislativa, esecutiva, penale e giudiziale: – avvertire l’autorità superiore nel caso in cui, per causa grave e urgente, si sia intromesso in una questione deferita alla stessa autorità superiore da un ricorrente (can. 139 §2); – confermare il risultato di una elezione (se prescritto) nel caso in cui l’eletto risulti idoneo ai sensi del can. 149 §1 e l’elezione sia stata compiuta a norma del diritto (can. 179 §2), rilasciando la conferma sempre per iscritto (can. 179 §3);107

107 Per la carica di Superiore maggiore, da parte del Moderatore supremo, possono passare otto giorni dall’elezione alla conferma, cfr. cann. 177 §1; 179 §1.

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– stipulare una convenzione scritta con il Vescovo diocesano in cui si determini la durata, l’attività da svolgere, le persone da impiegare e le questioni economiche della parrocchia assegnata ad un IR o SVA clericali (can. 520 §2); – osservare le norme del diritto universale e del diritto proprio nel conferire uffici e nelle elezioni, evitando di favorire alcuno direttamente o indirettamente (can. 626); – costituire il proprio consiglio di cui devono avere il consenso o il consiglio per procedere validamente nei casi stabiliti dal diritto universale e da quello proprio, a norma del can. 127 (can. 627); – visitare le case e i religiosi affidati secondo le disposizioni del diritto proprio e con la frequenza stabilita (can. 628 §1);108 – risiedere nella propria casa ed allontanarsene a norma del diritto proprio (can. 629); – astenersi dall’autorizzare a contrarre debiti, a meno che ci sia sufficiente certezza che si potrà in un tempo non troppo lungo coprire lo stesso debito (can. 639 §5);109 – ammettere al noviziato solo coloro che, oltre all’età richiesta, posseggano salute, indole adatta, maturità sufficiente per abbracciare lo stile di vita proprio dell’Istituto, da valutarsi anche con l’aiuto di esperti (can. 642);110 – ammettere al noviziato chierici secolari solo dopo aver consultato l’Ordinario del luogo (can. 644);111 108 I Superiori incaricati della visita delle case e dei membri dell’Istituto possono essere diversi. 109 L’eventuale autorizzazione viene data mediante rescritto, che è un atto amministrativo singolare; cfr. par. 4.4. 110 Curando di mantenere integro il diritto alla buona fama e alla proprio intimità, ex can. 220. 111 A causa dell’obbedienza che i chierici secolari devono al proprio Ordinario (can. 273), questo è un obbligo importante che comporta pure una appropriata relazione tra religiosi e Vescovi e che si innesta nella collaborazione tra vita consacrata e gerarchia della Chiesa.

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– non ammettere al noviziato persone che siano gravate da debiti e che siano incapaci di estinguerli (can. 644);112 – richiedere l’attestato rilasciato rispettivamente dall’Ordinario del luogo, dal Superiore dell’IVC o SVA, dal rettore del seminario di un candidato (chierico o laico) che provenga da altro IVC, SVA, o seminario (can. 645 §2); – governare il maestro nella direzione dei novizi, prescindendo dal Superiore della casa in cui il noviziato risieda (can. 650 §2); – ricercare e aiutare sollecitamente il religioso che si allontani illegittimamente dalla casa religiosa per sottrarsi alla potestà dei Superiori, al fine di farlo tornare e perseverare nella propria vocazione (can. 665 §2); – procedere in reciproca intesa con i Vescovi diocesani nell’organizzare le attività apostoliche dei religiosi (can. 678 §3); – stendere una convenzione scritta tra il Vescovo diocesano e il Superiore competente dell’Istituto circa le opere affidate ai religiosi per definirvi espressamente e con chiarezza lo svolgimento dell’opera, i religiosi da impegnarvi e l’aspetto economico (can. 681 §2); – mostrare vigilanza ed attenzione con gli esclaustrati (can. 687); – non dimettere il religioso che durante i voti temporanei sia divenuto demente, anche se è incapace di emettere la nuova professione (can. 689 §3); – assieme al proprio consiglio, raccogliere le prove nel caso che un religioso abbia in modo notorio abbandonato la fede cattolica o abbia contratto matrimonio, anche solo civilmente, e senza indugio emettere la dichiarazione del fatto perché la dimissione consti giuridicamente (can. 694); 112 Ciò infatti porterebbe non pochi rischi all’Istituto verso i creditori, pur rimanendo possibile l’estinzione del debito da parte dell’Istituto stesso, decadendo in tal modo la medesima proibizione.

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– dimettere il religioso che abbia commesso i delitti di cui ai cann. 1397, 1398, 1395,113 raccogliendo le prove relative ai fatti e alla imputabilità, e rendendo poi note al religioso e l’accusa e le prove, con la possibilità che questo si difenda. Il Superiore maggiore deve firmare tutti gli atti che devono essere controfirmati da un notaio ed inviati al Moderatore supremo (can. 695); – nei casi di dimissione non obbligatoria, può procedere alla dimissione del religioso; nel qual caso deve, prima di avviare la procedura giudiziaria o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene, richiamare ed ammonire il reo (can. 697, 2°);114 quindi, è tenuto ad osservare le seguenti formalità processuali: raccogliere o integrare le prove; ammonire il religioso, per iscritto o davanti a due testimoni, avvertendolo che se non si correggerà si procederà alla sua espulsione, indicandogli chiaramente la causa di dimissione e lasciando il diritto alla difesa, procedendo ad una seconda ammonizione dopo un intervallo di quindici giorni nel caso in cui la prima sia stata inutile; assieme al proprio consiglio, nel caso in cui giudicassero il religioso incorreggibile, dopo quindici giorni dalla seconda ammonizione, il Superiore maggiore deve trasmettere gli atti, controfirmati da un notaio, al Moderatore supremo dell’Istituto (can. 697);115 Si tratta dei delitti contro la vita (omicidio, aborto effectu secuto, mutilazione, ferimento grave, …), contro la libertà della persona (rapimento, detenzione, …), contro il voto di castità (concubinato, permanenza scandalosa in altro peccato esterno contro il sesto precetto del Decalogo o commessi con violenza, minacce, pubblicamente, con minore di anni 16, …). 114 Cfr. can. 1341 riguardante la comminazione delle pene da parte dell’Ordinario e la previa ammonizione fraterna che questo deve compiere, evitando di procedere per vie giudiziarie o amministrative se la sollecitudine pastorale possa provvedere in altro modo. 115 Le risposte date dal religioso devono essere firmate dal religioso stesso, dal Superiore maggiore e dal notaio. 113

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– osservare la carità e l’equità verso coloro che si separano dall’Istituto (can. 702 §2); – curare che si istruisca il processo di dimissione di un religioso (oppure che l’affare sia deferito alla Sede Apostolica) che sia stato espulso dalla casa a causa di un grave scandalo esterno o per un pericolo imminente di gravissimo danno per l’Istituto, sia che la decisione sia stata presa dal Superiore maggiore sia dal Superiore locale con il consenso del proprio consiglio (can. 703); – esortare il ricorrente e l’autore del decreto (contro il quale si voglia interporre ricorso), ogniqualvolta si intraveda una speranza di buon esito, a ricercare e suggerire eque soluzioni (can. 1733 §3); – trasmettere un ricorso contro un decreto amministrativo al Superiore gerarchico competente, quando risultano essere autori di questo stesso decreto o quando il ricorso sia stato interposto a loro stessi (1737 §1); – partecipare al Concilio particolare di una Chiesa locale nel caso in cui vi sia stato eletto o, se trattenuto da giusto impedimento, informare il presidente del Concilio (can. 444 §1); – non mandare un procuratore al Concilio particolare, nel caso in cui sia impedito a parteciparvi; a meno che non abbia voto deliberativo, nel qual caso il procuratore avrà voto solo consultivo (can. 444 §2). 4.3.2. Diritti specifici dei Superiori maggiori a) Diritti riguardanti il munus docendi: – concedere la licenza per la predicazione nelle chiese o oratori dell’IR a norma delle costituzioni (can. 765);116 116 Inizialmente diritto proprio dell’Ordinario del luogo, diviene competenza dapprima degli Ordinari in genere, nel can. 719 dello Schema del 1980. Successivamente anche dei Superiori maggiori, come conferma l’attuale disposizione.

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– stipulare opportune convenzioni con i Vescovi diocesani per promuovere, guidare e coordinare, nei territori di missione, le iniziative e le opere che tendono all’azione missionaria (can. 790 §1); – fondare scuole per dedicarsi all’educazione cattolica con il consenso del Vescovo diocesano e secondo la propria specifica missione (can. 801); – concedere la licenza perché un membro dell’IVCR possa pubblicare scritti che trattano questioni di religione o di costumi, a norma delle costituzioni (can. 832). b) Diritti riguardanti il munus sanctificandi: – concedere la licenza (a norma del diritto) per celebrare l’Eucaristia, amministrare i sacramenti o compiere altre funzioni sacre nelle chiese proprie dell’IVC o SVA (can. 561); – ammettere liberamente con il voto del proprio consiglio a norma del diritto alla professione temporanea di un novizio (can. 656, 3°); – ricevere la prima professione dei novizi personalmente o per mezzo di altri (can. 656, 5°) e anche quella definitiva (can. 658); – prolungare fino ad un massimo di nove anni il tempo della professione temporanea del religioso, secondo il diritto proprio (can. 657 §2); – accettare la professione definitiva di un proprio suddito a norma del diritto proprio e delle condizioni di cui al can. 656, nn. 3-5, e che abbia compiuto almeno 21 anni e tre di professione temporanea (can. 658);117 117 Rientra in questa facoltà anche l’accettazione della professione definitiva con il voto del proprio consiglio anche di religiosi provenienti da un altro IVC o SVA e passati al proprio (can. 684 §2) e quella, da parte del Moderatore supremo con il consenso del proprio consiglio, di coloro che siano stati riammessi nel proprio Istituto o Società dopo esservi usciti legittimamente (can. 690 §1).

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– ammettere e ricevere la professione perpetua o definitiva (can. 658); – vigilare sull’adempimento degli oneri delle Messe nelle chiese del proprio IVC o SVA (can. 957); – vietare, in casi concreti e rispetto ai propri sudditi (i membri e coloro che vivono notte e giorno nella casa dell’Istituto o della Società) dotati della facoltà relativa, di ricevere le confessioni sacramentali (can. 967 §3). In questo caso, revocata la facoltà dal proprio Superiore maggiore, il presbitero la perde ovunque verso i sudditi dell’Istituto; revocata invece da un altro Superiore competente, la perde verso i soli sudditi della sua circoscrizione (can. 974 §4); – concedere ai propri sudditi (che abbiano già emesso la professione perpetua o definitiva) le lettere dimissoriali per il diaconato e per il presbiterato negli IVCR clericali di diritto pontificio o nelle SVA clericali di diritto pontificio (can. 1019 §1);118 – esprimere il proprio giudizio circa la lecita ordinazione dei propri diaconi e presbiteri, secondo quanto richiesto ai cann. 1033-1039, e circa il non essere trattenuti da alcuna irregolarità e da nessun impedimento, con il possesso dei documenti richiesti al can. 1050 ed avendo già fatto lo scrutinio di cui al can. 1051 (can. 1025); – avvalersi dei mezzi che sembrino utili perché lo scrutinio circa le qualità richieste nell’ordinando sia fatto nel modo dovuto, quali lettere testimoniali, pubblicazioni o altre informazioni (can. 1051, 2°);

118 Facoltà già concessa con il rescr. Cum admotae (I, 11) ed ora confermata dal diritto ampliata rispetto al rescritto (dove era concessa ai Superiori generali con possibilità di suddelega, qui è già attribuita a tutti i Superiori maggiori).

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– dare il consenso perché altri fedeli oltre ai membri dell’Istituto o Società possano accedere all’oratorio o cappella privata della comunità (can. 1223). c) Diritti riguardanti il munus regendi, distinti nella funzione legislativa, esecutiva, penale e giudiziale: – emanare atti amministrativi singolari entro i limiti della propria competenza, sia decreti sia precetti o rescritti (can. 35);119 – emanare decreti singolari a norma del diritto per una decisione particolare o per la provvisione di un ufficio, senza che vi sia una petizione fatta da alcuno (can. 48); – emanare precetti singolari per imporre direttamente e a norma del diritto a una o a più persone (determinate) di fare o non fare qualcosa ed urgere l’osservanza della legge (can. 49); – dare rescritti per iscritto per concedere privilegi, dispense o altre grazie su petizione di qualcuno (can. 59 §1);120 – costituire persone giuridiche che abbiano fini effettivamente utili attinenti ad opere di pietà, di apostolato, di carità sia spirituale sia temporale e che siano fornite di mezzi sufficienti a conseguire il fine prestabilito; tali persone giuridiche, corporazioni o fondazioni, vengono costituite mediante decreto dal Superiore competente (can. 114);121

Il can. 35 dice che tali atti possono essere emanati “ab eo qui potestate exsecutiva gaudet”. Tali atti possono essere emanati dai Superiori maggiori di Istituti religiosi laicali di diritto pontificio che non godono di potestà esecutiva in maniera esplicita secondo il can. 596 §1. 120 Se il legislatore lo ha concesso, possono anche concedere privilegi o grazie tanto a persone fisiche che giuridiche (can. 76 §1). 121 Si tratta dei decreti di cui ai cann. 48-58 e di costituzione di persona giuridica pubblica. 119

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– approvare gli statuti degli insiemi di persone o cose che vogliano ottenere la personalità giuridica, prima di costituirli tali (can. 117); – sopprimere legittimamente una persona giuridica pubblica di cui sia competente o una persona giuridica privata che a suo giudizio abbia cessato di esistere a norma degli statuti (can. 120 §1); – accedere o meno al voto espresso dalle persone tenute ad esprimere il proprio consiglio al Superiore stesso per emettere determinati atti giuridici (can. 127 §2, 2°); – sollecitare l’obbligo del segreto da parte del consiglio che abbia espresso il proprio voto su affari gravi (can. 127 §3); – definire ulteriormente obblighi e diritti propri dei singoli uffici ecclesiastici sia nel decreto di costituzione sia in quello di conferimento di un ufficio (can. 145 §2); – assegnare la provvisione dell’ufficio che sia stato eretto o innovato dallo stesso Superiore maggiore o cui spetti la sua soppressione, a meno che non sia stabilito altro dal diritto (can. 148); – dare il proprio assenso affinché l’autorità competente possa conferire un ufficio od incarico ad un proprio suddito (can. 162);122 – ammettere o meno la postulazione fintantoché il postulato non acquisisce alcun diritto dalla postulazione (can. 182 §3); – dare il consenso per la revoca della postulazione fatta dagli elettori (can. 182 §4); – effettuare il trasferimento da un ufficio ad un altro se vi è il diritto alla provvisione sia dell’uno che dell’altro (can. 190 §1);

122

Diritto che pure gli Ordinari possono esercitare.

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– rimuovere dall’ufficio per giusta causa e secondo le disposizioni del diritto (can. 193 §3); – condurre la vita apostolica e far tendere alla perfezione cristiana dei membri delle associazioni aggregate agli Istituti religiosi (can. 303); – vigilare sulle associazioni di fedeli a lui soggette perché vi si conservi l’integrità della fede e dei costumi, visitando tali associazioni a norma del diritto e degli statuti (can. 305 §1);123 – dare il proprio consenso perché i membri dell’IR possano aderire a tali associazioni a norma del diritto (can. 307 §3); – curare che i membri degli IVC che presiedono o assistono tali associazioni unite al proprio Istituto prestino aiuto alle attività di apostolato presenti in diocesi, operando con le associazioni esistenti nella diocesi (can. 311); – erigere associazioni pubbliche di fedeli quando sussista il privilegio apostolico (can. 312 §1, 3°);124 – approvare, rivedere e cambiare gli statuti dell’associazione pubblica che hanno eretto (can. 314); – nominare o confermare il moderatore o il cappellano delle associazioni erette presso la propria casa o chiesa a norma degli statuti; spetta all’autorità ecclesiastica competente invece per quelle erette al di fuori della propria casa o chiesa (can. 317 §2); – rimuovere il moderatore di una associazione pubblica per giusta causa dopo aver sentito sia il moderatore stesso sia

123 È un diritto in quanto alla forma di esercizio, un dovere in quanto alla necessità di vigilare. 124 Spetta al Superiore maggiore erigere una associazione pubblica di fedeli nella diocesi; a tal fine, occorre il consenso scritto del Vescovo diocesano (consenso già implicito nel consenso dato per l’erezione di una casa di un IR); cfr. can. 312 §2. Vd. anche par. 4.4.1.

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gli officiali maggiori dell’associazione, a norma degli statuti (can. 318 §2); – dirigere l’amministrazione dei beni posseduti dall’associazione pubblica eretta legittimamente, ricevendo ogni anno il rendiconto dell’amministrazione, a norma degli statuti (can. 319 §1); – sopprimere le proprie associazioni pubbliche, ma dopo aver sentito il suo moderatore e gli altri officiali maggiori (can. 320 §3); – dotare di personalità giuridica una associazione privata di fedeli mediante decreto formale, dopo aver approvato i suoi statuti (can. 322 §§2-3);125 – come per le associazioni pubbliche, dirigere e vigilare sulle associazioni private, evitando la dispersione di forze e ordinando al bene comune l’esercizio dell’apostolato (can. 323); – come per le associazioni pubbliche, vigilare perché i beni della associazione privata siano usati per i fini stessi dell’associazione (can. 325 §1); – come per le associazioni pubbliche, sopprimere le associazioni private se la loro attività è causa di grave danno per la dottrina o la disciplina ecclesiastica oppure di scandalo per i fedeli (can. 326); – dare il proprio consenso per l’affidamento di una parrocchia ad un IR clericale o ad una SVA clericale, che può essere eretta anche presso la chiesa dell’Istituto o Società, in perpetuo o a tempo determinato, a condizione che un solo sacerdote sia il parroco della parrocchia (can. 520); – dare il proprio consenso o fare la propria presentazione per la provvisione dell’ufficio di parroco da parte del

125

zione.

Tale approvazione non cambia la natura privata dell’associa-

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Vescovo diocesano alle parrocchie affidate all’Istituto (can. 523); – presentare il religioso che il Vescovo diocesano istituirà rettore di una chiesa, anche se questa sia annessa all’IR e questo sia clericale di diritto pontificio (ca. 557 §2); – proporre qualche sacerdote, udita la comunità, per la nomina del cappellano di una casa di un IR laicale da parte dell’Ordinario del luogo (can. 567 §1); – aggregare al proprio IVC un altro, salva sempre l’autonomia dell’Istituto aggregato (can. 580);126 – dividere il proprio Istituto in parti designate con qualunque nome, erigerne di nuove, fondere quelle già costituite o circoscriverle in modo diverso (can. 581);127 – compilare opportunamente delle raccolte con le norme stabilite dall’autorità competente dell’Istituto, rivedute ed adattate convenientemente secondo le esigenze dei luoghi e dei tempi (can. 587 §4); – ammettere i candidati al noviziato, a norma del diritto proprio (can. 641) e di quello universale (can. 597);128 – erigere case dell’IVCR, salvo che le costituzioni non prevedano altra autorità competente ed avendo il consenso scritto del Vescovo diocesano (can. 609 §1), o della Sede Apostolica per un monastero di monache (can. 609 §2); – decidere e comandare ai sudditi ciò che va fatto (can. 618); – stabilire nel diritto proprio altre cause per il trasferimento di un religioso da un ufficio ecclesiastico (can. 624 §3);129 È competenza del Moderatore supremo con il proprio consiglio. Anche in questo caso la competenza è del Moderatore supremo con il proprio consiglio. 128 Per sua natura, questa ammissione avviene tramite rescritto, cioè un atto amministrativo singolare. 129 È disposizione parallela al can. 190 circa il trasferimento, effettuato anche contro la volontà, da un ufficio ad un altro la cui provvisione spetti allo stesso Superiore. 126 127

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– presiedere ai capitoli ed esercitare quelle funzioni espresse nel diritto proprio per lo svolgimento degli stessi (can. 632); – dirigere gli economi della loro giurisdizione costituiti secondo il diritto proprio con norme direttive per l’amministrazione dei beni e per un controllo della loro gestione (can. 636); – porre atti giuridici di amministrazione ordinaria (can. 638 §2); – dare la licenza scritta per la valida alienazione (e per qualunque negozio da cui la situazione patrimoniale della persona giuridica possa subire detrimento) con il consenso del proprio consiglio (can. 638 §3);130 – dare la licenza per la contrazione di debiti e oneri di una persona giuridica (can. 639 §1);131 – servirsi di esperti per valutare la salute, l’indole e la maturità sufficiente dei candidati al noviziato, salvo il diritto alla buona fama ed alla propria intimità di cui al can. 220 (can. 642); – chiedere informazioni circa i candidati al noviziato, oltre all’attestato di battesimo, confermazione e stato libero, anche sotto segreto (can. 645 §4); – concedere la licenza di anticipare la prima professione, non oltre quindici giorni (can. 649 §2); – dimettere i novizi (can. 653 §1);132 Si richiede inoltre la licenza della Santa Sede per i negozi che superano la somma fissata dalla Santa Sede nelle singole regioni o per le donazioni votive fatte alla Chiesa o per cose preziose di valore storico o artistico; cfr. can. 638 §3. 131 Nel caso in cui un religioso abbia contratto debiti e oneri su beni propri è tenuto a risponderne personalmente; se invece ha concluso affari dell’Istituto per mandato del Superiore è l’Istituto che ne risponde (can. 639 §2). 132 Se da un lato c’è la libertà di abbandono da parte del novizio, dall’altra c’è quella dell’Istituto a non ammetterlo alla prima professione, temporanea: non essendo ancora ascritto all’IVC, non richiede alcun processo. Cfr. ANDRÉS, Estatuto especifico de los Superiores mayores, 32-33. 130

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– prolungare il periodo di prova del novizio se rimane qualche dubbio circa la sua idoneità, non oltre i sei mesi ed a norma del diritto proprio (can. 653 §2); – ammettere liberamente alla prima professione, con il voto del suo consiglio e a norma del diritto comune e proprio (can. 656, 3°);133 – concedere la licenza per anticipare la professione perpetua o definitiva per giusta causa ma non oltre un trimestre (can. 657 §3); – elaborare e promulgare il regolamento e la durata della formazione secondo le esigenze ed il carisma dell’Istituto e le necessità della Chiesa (can. 659 §2); – concedere ad un professo, con il consenso del proprio consiglio e per giusta causa, una assenza dalla propria casa religiosa prolungata per non più di un anno, a meno che ciò non sia per motivi di salute, di studio o di apostolato da svolgere in nome dell’Istituto (can. 665 §1); – dare la licenza relativa a norma del diritto proprio per modificare le disposizioni testamentarie o circa l’amministrazione dei propri beni da parte di un professo, così come per porre qualunque atto relativo ai beni temporali (can. 668 §2);134 – concedere la licenza per l’assunzione di incarichi o uffici fuori del proprio Istituto (can. 671);135 – negli Istituti laicali di diritto pontificio, concedere la licenza per amministrare beni riguardanti i laici e per esercitare uffici secolari che comportino l’onere del rendiconto; essere consultato per la fideiussione, anche di beni propri del religioso; inoltre, dare la licenza per la ne133 Il diritto proprio può riservare tale ammissione al Moderatore supremo. 134 Si tratta di un rescritto, atto amministrativo singolare, retto dalle disposizioni del can. 59 §2. 135 È una facoltà propria anche del munus docendi.

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goziazione o il commercio e per esercitare attività affaristica e commerciale personalmente o tramite altri, salvo sempre il diritto particolare (can. 672);136 – emettere il proprio giudizio di opportunità circa la partecipazione attiva dei propri sudditi nell’attività di partiti politici o nella direzione di sindacati (can. 672; 287 §2); – proibire ad un proprio suddito di dimorare in una diocesi, nel caso in cui il Vescovo diocesano ne abbia riscontrato una causa molto grave e urgente (can. 679);137 – dirigere l’attività apostolica-pastorale dei religiosi in collaborazione con la direzione dell’Ordinario del luogo (can. 681 §1); – presentare o almeno prestare il consenso per il conferimento di un ufficio ecclesiastico a un religioso da parte del Vescovo diocesano (can. 682 §1); – rimuovere dall’ufficio ecclesiastico il religioso, informando l’autorità committente ma senza necessità del consenso dell’altra autorità (can. 682 §2);138 – prendere provvedimenti nel caso in cui il Vescovo diocesano, durante la visita pastorale, abbia scoperto qualche abuso nell’Istituto e richiamato il Superiore stesso (can. 683 §2);139 Diritto comune ai Superiori maggiori in generale ed a quelli Ordinari: cfr. cann. 285 §4; 286. Infatti, a entrambi è data la potestà di emettere questo genere di decreti singolari. Cfr. GARCÌA MARTÌN, Actos administrativos singulares, 120. 137 In tal caso, il Vescovo diocesano deve avvisare il Superiore maggiore e, se questo non prende provvedimenti, può agire di conseguenza, deferendo al più presto la questione alla Santa Sede. 138 Parallelamente, colui che ha conferito l’ufficio (sia Vescovo diocesano o equiparato, o qualunque altra autorità), può rimuovere il religioso dall’ufficio informandone il Superiore religioso. 139 I Superiori locali hanno pure questo diritto. Esso può anche non essere esercitato, nel qual caso il Vescovo procederà d’autorità prendendo i provvedimenti del caso. 136

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– escludere un religioso allo scadere della professione temporanea dalla successiva professione, sussistendo giuste cause ed avendo udito il proprio consiglio (can. 689 §1); – non procedere alla dimissione obbligatoria nel caso in cui ritenga che la correzione del religioso, la reintegrazione della giustizia e la riparazione dello scandalo possano essere soddisfatti in altro modo nei delitti de sexto (can. 695 §1; 1395 §2); – espellere immediatamente dalla casa religiosa un religioso colpevole di grave scandalo esterno o di pericolo imminente di un gravissimo danno per l’Istituto (se il ritardo dell’espulsione risultasse pericoloso, lo stesso Superiore locale con il consenso del suo consiglio può procedere all’espulsione). In tal caso, lo stesso Superiore maggiore può istruire il processo di dimissione a norma del diritto o deferire la cosa alla Sede Apostolica (can. 703); – associarsi in Conferenze o Consigli per conseguire più agevolmente, nell’unione delle forze, il fine proprio dei singoli Istituti, sia per trattare affari di comune interesse, sia per instaurare un opportuno coordinamento e cooperazione con le Conferenze episcopali e con singoli Vescovi (can. 708); – eleggere ed essere eletti per i Concili particolari, plenari o provinciali, secondo il numero fissato tanto per gli uomini quanto per le donne dalle Conferenze episcopali o dai Vescovi della Provincia ecclesiastica. Una volta eletti, devono essere convocati e nei Concili tengono diritto di voto consultivo (can. 443 §3, 2°); – rifiutare per giusta causa le offerte fatte ai superiori di una persona giuridica ecclesiastica o anche privata (can. 1267 §2); – prescrivere ulteriori cautele per l’alienazione dei beni il cui valore ecceda la somma stabilita, oltre a quelle stesse già prescritte dal diritto universale e particolare (can. 1293 §2);

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– stabilire se si debba intentare una azione qualora i beni ecclesiastici siano stati alienati con le debite formalità civili ma non canoniche (can. 1296); – negli Istituti religiosi clericali di diritto pontificio, essere giudici di prima istanza (per il Superiore provinciale o, nel caso di monasteri sui iuris, l’Abate locale) nelle controversie tra religiosi e case dello stesso IVCR, salvo disposizioni diverse del diritto proprio (can. 1427 §1). 4.4. Considerazioni sul Superiore maggiore di un Istituto religioso L’Ordinario esercita potestà di governo ordinaria, cioè connessa con il proprio ufficio, non invece delegata da un’autorità superiore. Come visto nel par. 4.2., esso esercita la potestà conformemente al diritto, secondo una lunga lista di doveri e diritti che ne qualificano l’ufficio. Questo si espleta prevalentemente (ma non esclusivamente, sia ben chiaro) nella funzione di mandare ad esecuzione la legge e di far sì che il popolo di Dio (nella fattispecie, quella porzione di popolo di Dio a lui affidata, i suoi sudditi) tenda alla santità di vita e quindi giunga alla salus animarum, suprema legge nella Chiesa. È dunque la potestà di governo esecutiva ordinaria ciò che viene richiesto come requisito fondamentale per poter eventualmente rientrare nella categoria giuridica di Ordinario. Come notano gli Autori, tale potestà esecutiva (che è una specie di potestà di governo, cfr. can. 135 §1), «è da intendersi come il potere di applicare la legge, normalmente attraverso atti amministrativi singolari».140 140 ESPOSITO B., Alcune riflessioni sul Superiore maggiore in quanto Ordinario e sulla valenza ecclesiologica e canonica della qualifica, in Angelicum 78(2001), 699. Cfr. LOMBARDIA P., Liber I. De normis generalibus,

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Si dice, infatti, ‘normalmente’, perché l’eccezione sarebbe di applicare la legge attraverso altri atti giuridici,141 non invece perché gli atti amministrativi singolari possano essere emanati anche da chi potestà esecutiva in nessun modo può possedere o possiede di fatto. Affermare che gli atti amministrativi singolari possano essere prodotti da chi gode anche solo di una potestà meramente privata, creerebbe fraintendimenti e usurpazioni di ufficio che mal si conciliano con le disposizioni più elementari del diritto, secondo cui chi agisce oltre i limiti delle proprie capacità (giuridiche), agisce invalidamente o illecitamente rispettivamente, secondo che ponga atti invalidi o solamente illeciti. Quanto poi a una definizione di atto amministrativo singolare, anche se il Codice non ne dà alcuna, può essere quella che lo descrive come «un atto di governo posto dall’autorità competente nell’esercizio delle sue funzioni, e diretto a persone singole o anche a comunità, in casi concreti e particolari».142 Tale autorità competente, secondo lo stesso can. 35,143 è specificamente l’autorità esecutiva, ma può essere anche l’autorità legislativa che

in ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, 96-97. 141 Disciplinati nei cann. 124-128, essi possono essere qualsiasi atto della persona, libero e volontario, al quale la legge riconosca determinati effetti giuridici; cfr. CHIAPPETTA L., Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico-pastorale, Napoli 1988, vol. I, 156. È quindi una categoria giuridica ampia che rientra in maniera generica nell’attività delle persone fisiche e giuridiche all’interno della Chiesa e che si distingue dal fatto giuridico per l’elemento della volontarietà. 142 CHIAPPETTA, Il Codice di Diritto Canonico, vol. I, 60. 143 Actus administrativus singularis, sive est decretum aut praeceptum sive est rescriptum, elici potest, intra fines suae competentiae, ab eo qui potestate exsecutiva gaudet, firmo praescripto can. 76, §1.

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dispone in maniera particolare della legge e della sua applicazione.144 Il Codice dice chiaramente che l’autorità, che può produrre nei limiti della propria competenza atti amministrativi, è quella che gode della potestà esecutiva. L’attività amministrativa o esecutiva, infatti, è «nella Chiesa quella più di continuo svolta, quindi l’esercizio della potestà amministrativa o esecutiva è della più grande importanza».145 Tra le autorità che la esercitano rientrano: il Romano Pontefice per la Chiesa universale unitamente ai Dicasteri della Curia Romana; il Vescovo diocesano, il Vicario episcopale e il Vicario generale, le Conferenze episcopali nei limiti della loro competenza; i Superiori maggiori degli IVC e delle SVA clericali di diritto pontificio che godono di potestà esecutiva ordinaria assieme ai loro Vicari.146 Non vanno poi escluse autorità quali il Vicario Castrense e il Prelato di Prelatura personale, che pure godono di potestà esecutiva ordinaria relativamente ai loro sudditi. Tuttavia, la posizione degli Autori deve essere ripresa e, non senza una certa forza, ampliata e perciò corretta nella sua portata: «plus semper in se continet quod est minus», dicevano gli antichi. Ma il contrario non può sussistere, Cfr. MAZZONI G., Le norme generali, in CAPPELLINI E. (a cura di), La normativa del nuovo Codice, Brescia 1983, 41; CHIAPPETTA, Il Codice di Diritto Canonico, vol. I, 60-61; CAPARROS E.-THÉRIAULT M.-THORN J., Code of canon law annotated, Montreal 1993, 101-102; LOMBARDÌA P.-ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di Diritto Canonico. Edizione bilingue commentata, Roma 1986, vol. I, 78. 145 GHIRLANDA G., Il diritto nella Chiesa mistero di comunione. Compendio di diritto ecclesiale, Roma-Cinisello Balsamo 20003, 486. 146 Cfr. CHIAPPETTA L., Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico-pastorale, Napoli 1988, vol. I, 62. L’Autore sembra porre l’elenco in maniera esaustiva, escludendo dalla lista anche i Vicari Castrensi e i Prelati di Prelatura personale, che pure rientrano nel concetto di Ordinario come già trattato in 4.1.2. 144

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giacché il meno non è sufficiente per contenere il più; anzi, è omissione del vero, surrezione che può portare a dire il falso.147 Infatti, a chi gode di potestà esecutiva compete produrre atti amministrativi singolari. Questa potestà può essere ordinaria o delegata per un insieme di casi e quindi ad essa si applicano i canoni di cui abbiamo trattato al par. 4.1.3. A maggior ragione, la potestà può essere definita come «la situazione giuridica soggettiva che comporta la capacità di produrre unilateralmente effetti nella sfera giuridicocanonica di altri»,148 che sostanzialmente significa quell’insieme di facoltà, obblighi e diritti di cui colui che esercita tale potestà è investito. Ciò dimostra che se da un lato l’origine ed il fine stesso della potestà nella Chiesa sono divini (la potestà proviene da Cristo e a lui stesso vuole tendere o portare), il modo per determinarla in senso ‘giuridico’ consiste nel verificare chi può emettere lecitamente e validamente determinati atti, chi può produrre effetti e mutamenti nella sfera giuridico-canonica della persona a norma del diritto. Vi è un dualismo dall’alto al basso o, a voler essere precisi, una ‘circolarità ermeneutica’ che abbraccia e comprende tutta una porzione del popolo di Dio, giustificata dal fatto che i Superiori sono chiamati ad esercitare in spirito di servizio quella potestà che hanno ricevuto da Dio mediante il ministero della Chiesa (cfr. can. 618) e non solo per l’atto volontario di un singolo fedele che professi il voto di obbedienza nelle mani di un altro fedele a ciò destinato. Vd. can. 63 §1. ARRIETA J.I., Titulus VIII. De potestate regiminis, in ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, 142. 147 148

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Infatti, a questo riguardo, si deve notare che gli atti amministrativi sono imputabili all’organizzazione ufficiale della Chiesa, nel cui nome i primi hanno agito. Se così non fosse, non ci troveremmo affatto in presenza di un atto amministrativo, bensì di un negozio giuridico privato. Se qualsiasi persona giuridica pubblica esercita la sua funzione guardando al bene pubblico nel nome della Chiesa per quanto attiene al perseguimento dei propri fini (can. 116 §1), a fortiori agisce in nome della Chiesa il titolare di un ufficio con potestà esecutiva o quanti assumono giuridicamente l’incarico di collaborare con detto ufficio nell’esercizio delle loro funzioni.149

Tali atti amministrativi singolari, decreti (precetti e decreti propriamente detti, cann. 48-49) e rescritti (privilegi, dispense e licenze, can. 59) sono prodotti anche dai Superiori maggiori degli Istituti religiosi laicali di diritto pontificio150 e, secondo quanto appena affermato, sono atti posti dal titolare di un ufficio pubblico nella Chiesa, in forza di una potestà pubblica e non privata, in quanto posti a capo di una persona giuridica pubblica nella Chiesa, in nessun modo dominativa.151 LOMBARDIA, Liber I. De normis generalibus, 99-100. In maniera specifica si tratta di Istituti religiosi, non di Società di vita apostolica (che, secondo il can. 573 §2, non professano di osservare i consigli evangelici mediante i voti), né di Istituti secolari (che, pur emettendo voti o altri sacri vincoli, non tengono una vita separata dal mondo né vita fraterna in comune, secondo il can. 607 §§2-3). È importante anche notare la distinzione tra IR di diritto pontificio e di diritto diocesano, che segna la differenza sostanziale tra la potestà che si può esercitare ai due diversi livelli. 151 Affermazioni che pongono la potestà negli IVC o SVA su due piani diversi, due nature diverse, secondo cui “l’una scaturisce dalla dipendenza giuridica che, in considerazione degli obblighi nascenti dal 149 150

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4.4.1. Atti amministrativi singolari: decreti Al can. 609 §1,152 ogni Superiore maggiore di IR di diritto pontificio, sia clericale che laicale, può procedere all’erezione di una casa religiosa e, parallelamente, alla sua soppressione al can. 616 §1153 (normalmente consentita al Moderatore supremo). Vale a dire che sono i Superiori interni dell’IR ad essere competenti per l’erezione di persone giuridiche nello stesso, mediante il legittimo decreto singolare. Se da un lato ciò è dovuto ad un risparmio di lavoro e di tempo,154 dall’altro questo decreto permette di affermare che tutti i Superiori maggiori di IR di diritto pontificio

Battesimo, si stabilisce con l’autorità gerarchica della Chiesa (potestà gerarchica o di giurisdizione sensu stricto); l’altra, invece, si basa sull’impegno d’obbedienza al superiore giuridicamente assunto con il vincolo sacro (potestà che il CIC 17 chiamava ‘dominativa’)”, vanno specificate. Infatti, il can. 596 non specifica di che tipo di potestà si tratti e lascia al diritto universale e particolare lo specificarne i contenuti: generalizzazioni di questo tipo inducono il lettore, anche avveduto, ad erronee conclusioni (che insinuano non esserci stato progresso normativo nel CIC 83, ritornando a formule sorpassate quali “potestà dominativa”. Ora, se da un lato non si può dire di essere giunti alla perfezione [!], dall’altro non si può nemmeno affermare che nulla sia cambiato). Vd. ARRIETA, Titulus VIII. De potestate regiminis, 143. 152 Instituti religiosi domus eriguntur ab auctoritate competenti iuxta constitutiones, praevio Episcopi dioecesani consensu in scripti dato. 153 Domus religiosa legitime erecta supprimi potest a supremo Moderatore ad normam constitutionum, consulto Episcopo dioecesano. De bonis domus suppressae provideat ius proprium instituti, salvis fundatorum vel offerentium voluntatibus et iuribus legitime quaesitis. 154 “Ratio regiminis talis sit, ut ‘Capitula et Consilia... suo quaeque modo sodalium omnium pro bono totius communitatis participationem et curam exprimant’ (PC 14), [...]. Ideo Superiores cuiusque gradus opportunis facultatibus muniantur, ne inutiles vel nimis frequentes recursus ad altiores auctoritates multiplicentur”; PAOLO VI, m.p. Ecclesiae sanctae, 778.

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esercitano potestà di governo esecutiva.155 Il Codice usa due termini per la formazione di una persona giuridica: constituere156 ed erigere,157 indicanti entrambi l’esistenza di una persona giuridica pubblica o privata nella Chiesa. Elemento materiale sarebbe il gruppo umano o corporazione, mentre elemento formale sarebbe l’intervento dell’autorità esecutiva o legislativa. Tuttavia, constituere si riferisce in alcuni casi all’elemento formale, in altri a quello materiale; così pure per erigere. Generalmente il primo si riferisce all’elemento formale, quando l’autorità legislativa stabilisce i casi in cui il diritto concede la personalità giuridica; il secondo si riferisce alla formazione dell’elemento materiale. Quando avviene il contrario, constituere si riferisce all’elemento materiale, cioè l’autorità con potestà esecutiva concede la personalità giuridica per mezzo di un decreto e non del diritto.158

Cfr. GARCÌA MARTÌN, Actos administrativos singulares, 113. Non mancano naturalmente voci contrarie che, per sostenere i propri assiomi, ritornano ad affermare l’esistenza di una potestà dominativa di origine privata proveniente dal voto di obbedienza. Ciò sarà ripreso nel prossimo capitolo. 156 Can. 114 §1: “Personae iuridicae constituuntur aut ex ipso iuris praescripto aut ex speciali competentis auctoritatis concessione per decretum data, universitates sive personarum sive rerum in finem missioni Ecclesiae congruentem, qui singulorum finem transcendit, ordinatae”. 157 Can. 122: “Si universitas, quae gaudet personalitate iuridica publica, ita dividatur ut aut illius pars alii personae iuridicae uniatur aut ex parte dismembrata distincta persona iuridica publica erigatur, auctoritas ecclesiastica, cui divisio competat, curare debet per se vel per exsecutorem, […]”. 158 Can. 116 §2: “Personae iuridicae publicae hac personalitate donantur sive ipso iure sive speciali competentis auctoritatis decreto eandem expresse concedenti; personae iuridicae privatae hac personalitate donantur tantum per speciale competentis auctoritatis decretum eandem personalitatem expresse concedens”. 155

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In entrambi i casi, i due elementi si danno contemporaneamente e sono formati dall’autorità competente per le persone giuridiche di carattere territoriale. Nel caso delle case e province religiose degli IR, il termine erigere indica l’azione del Superiore maggiore che prepara l’elemento materiale, cui la personalità giuridica viene concessa dal diritto stesso, quindi dal legislatore. Ma il decreto è un elemento richiesto per la validità dell’erezione: mancando questo, la casa religiosa o la provincia religiosa non viene ‘constituita’ dal diritto.159 Anche se il Superiore religioso deve avere il consenso del Vescovo diocesano per erigere una casa religiosa nella sua diocesi, questo non è elemento per stabilire che l’erezione della casa avviene per volere del Vescovo, quanto per dire che il Vescovo è pastore della porzione di popolo a lui affidata e del suo territorio. Inoltre tale decreto di erezione deve essere dato per iscritto, requisito necessario per la validità dell’atto stesso.160 Requisiti diversi si richiedono invece per il decreto di soppressione di una casa religiosa. Il can. 616 §1 richiede, infatti, la sola consultazione del Vescovo diocesano: non sarà necessario seguire il suo parere per la validità del decreto, ma lo sarà l’averne richiesto il parere. Inoltre, non sarà qualsiasi Superiore maggiore a procedere alla soppressione, ma il Moderatore supremo a norma del diritto proprio, attendendo fino a tre mesi per la risposta o parere del Vescovo diocesano, trascorsi i quali il decreto può essere Il can. 647 §1 stabilisce che “domus novitiatus erectio, translatio et suppressio fiant per decretum scripto datum supremi Moderatoris instituti de consensu sui consilii”. 160 Can. 609 §1: “Instituti religiosi domus eriguntur ab auctoritate competenti iuxta constitutiones, praevio Episcopi dioecesani consensu in scripti dato”. Cfr. GARCÌA MARTÌN, Actos administrativos singulares, 116-117. 159

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emesso validamente. Anche in questo caso la forma del decreto deve essere scritta e la soppressione avviene per mano del legislatore.161 Per quanto attiene la erezione o soppressione di una provincia religiosa, persona giuridica secondo il can. 634 §1,162 spetta alla competente autorità interna all’IR (generalmente il Moderatore supremo), mediante decreto dato per iscritto conforme alle norme del diritto comune.163 Discorso diverso va fatto invece per la provvisione di uffici. I Superiori maggiori di IR emanano decreti per la loro provvisione, per confermare coloro che sono stati eletti legittimamente o per nominare Superiori locali interni all’Istituto stesso. Invece per gli uffici ecclesiastici diocesani o secolari, essi non possono conferirli, ma hanno il diritto o talvolta il dovere di dare la licenza o il consenso per la provvisione. Circa la rimozione dall’ufficio, quando si tratta di uffici interni all’IR, essi possono rimuovere i propri sudditi o trasferirli. Quando si tratta di uffici diocesani, essi possono Risulta invece diversa la situazione in cui si tratti dell’unica casa dell’IR, la cui competenza cade sotto la giurisdizione della Santa Sede, in quanto la sua soppressione corrisponde alla soppressione stessa dell’IR. Così can. 616 §2: “Suppressio unicae domus instituti ad Sanctam Sedem pertinet, cui etiam reservatur de bonis in casu statuere”. 162 Instituta, provinciae et domus, utpote personae iuridicae ipso iure, capaces sunt acquirendi, possidendi, administrandi et alienandi bona temporalia, nisi haec capacitas in constitutionibus excludatur vel coarctetur. 163 Così can. 621: “Plurium domorum coniunctio quae sub eodem Superiore partem immediatam eiusdem instituti constituat et ab auctoritate legitima canonice erecta sit, nomine venit provinciae”. Nel CIC 17 tale autorità legittima era esterna all’IR, in quanto competente per l’erezione di una provincia religiosa era la Santa Sede stessa. Il cambio di competenza è stato fatto con il decr. Ad instituenda experimenta della SCRIS di cui già si è trattato nel capitolo III. 161

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procedere alla rimozione dall’ufficio come lo potrebbe il Vescovo diocesano, avendolo solamente avvisato, a norma del diritto e secondo la convenzione stipulata con il Vescovo stesso.164 Come visto per i Superiori maggiori Ordinari, il can. 151 dispone che non si ostacoli la provvisione di un ufficio che comporta la cura delle anime se non per grave causa. Ma tutti i Superiori maggiori, di Istituti clericali o laicali che siano, sono tenuti a tale disposizione, tanto per uffici ecclesiastici diocesani che secolari. Infatti, se da un lato essi non possono conferire tale genere di uffici, dall’altro hanno il diritto e l’obbligo di dare la licenza od il consenso per la loro accettazione (cann. 682 §1; 672).165 Parimenti, essi possono rimuovere i religiosi loro sudditi sia da incarichi conferiti all’interno del proprio Istituto (can. 624 §3) sia da uffici ecclesiastici diocesani nel rispetto delle norme canoniche, con la stessa efficacia giuridica di una rimozione posta da un Ordinario del luogo (can. 682 §2). Il Superiore maggiore che proceda alla rimozione di un suddito da un ufficio ecclesiastico diocesano non è neppure tenuto a consultare il Vescovo diocesano, ma solamente ad informarlo secondo quanto stabilito nell’accordo scritto previo concordato dalle parti (can. 681 §1). Tale documento, atto amministrativo singolare a tenore del can. 35 che deve venire notificato all’interessato per produrre effetto giuridico secondo il can. 47, pone in essere la

164 Can. 682 §2: “Religiosus ab officio commisso amoveri potest ad nutum sive auctoritatis committentis, monito Superiore religioso, sive Superioris, monito committente, non requisito alterius consensu”. Il documento di rimozione ha la stessa natura di quello prodotto dal Vescovo diocesano per la sua provvisione. Cfr. GARCÌA MARTÌN, Actos administrativos singulares, 121. 165 Cfr. GARCÌA MARTÌN, Actos administrativos singulares, 120.

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medesima potestà che esercita il Vescovo diocesano nel provvedere all’ufficio.166 Il Superiore maggiore di IR può anche procedere all’ammonizione di un suo suddito con la minaccia di espulsione dall’Istituto stesso. L’ammonizione può essere fatta in forma scritta (in tal caso questo è un decreto decisorio che deve indicare anche la causa della possibile espulsione) o in forma orale (in tal caso serve la presenza di due testimoni che ne attestino l’avvenuta intimazione).167 Allo stesso tempo può imporre precetti penali a norma del can. 1319 §1.168 Il Moderatore supremo può procedere ad emanare il decreto di espulsione ma prendendo la decisione collegialmente con il suo consiglio, formato da quattro membri ed indicando le cause di diritto e di fatto dell’espulsione stessa. Anche in questo caso si tratta di un decreto decisorio.169

Cfr. GARCÌA MARTÌN, Actos administrativos singulares, 120-121. Can. 697, 2°: “In casibus de quibus in can. 696, si Superior maior, audito suo consilio, censuerit processum dimissionis esse inchoandum: [...] sodalem scripto vel coram duobus testibus moneat cum explicita comminatione subsecuturae dimissionis nisi resipiscat, clare significata causa dimissionis et data sodali plena facultate sese defendendi quod si monitio incassum cedat, ad alteram monitionem, spatio saltem quindecim dierum interposito, procedat”. 168 Quatenus quis potest vi potestatis regiminis in foro externo praecepta imponere, eatenus potest etiam poenas determinatas, exceptis expiatoriis perpetuis, per praeceptum comminari. 169 Can. 699 §1: “Supremus Moderator cum suo consilio, quod ad validitatem saltem quattuor membris constare debet, collegialiter procedat ad probationes, argumenta et defensiones accurate perpendenda, et si per secretam suffragationem id decisum fuerit, decretum dimissionis ferat, expressis ad validitatem saltem summarie motivis in iure et in facto”. 166 167

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Un’importanza particolare riveste l’erezione di associazioni di fedeli con personalità giuridica pubblica. Questi, se associati agli IR, sono generalmente detti ‘terzi ordini secolari’ ed in passato la loro situazione giuridica non era chiara, tanto che venivano quasi equiparati alle SVA.170 Oggi la legislazione nuova li pone certamente sul piano delle associazioni pubbliche di fedeli e concede loro personalità giuridica. Il can. 303 afferma che i terzi ordini sono associazioni di fedeli, ma non dice chi sia l’autorità competente per erigerli.171 Parimenti, il can. 677 §2 afferma che tutti gli IR possono avere associazioni di fedeli a loro aggregate,172 le quali partecipano dello spirito stesso dell’Istituto o della SVA e ne sono dirette nell’apostolato, pur rimanendo diverse dagli IVC, dal momento che non professano i consigli evangelici (e quindi non sono equiparabili agli Istituti secolari).173 Il can. 702 §1 del CIC 17 così disponeva: “Tertiarii saeculares sunt qui in saeculo, sub moderatione alicuius Ordinis, secundum eiusdem spiritum, ad christianam perfectionem contendere nituntur, modo saeculari vitae consentaneo, secundum regulas ab Apostolica Sede pro ipsis approbatas”. Forse anche per questo esse dipendevano dalla stessa Congregazione per gli IVC e SVA, come affermava il can. 703 §1: “Firmo privilegio nonnullis Ordinibus concesso, nulla religio potest tertium Ordinem sibi adiungere”. 171 Consociationes, quarum sodales, in saeculo spiritum alicuius instituti religiosi participantes, sub altiore eiusdem instituti moderamine, vitam apostolicam ducunt et ad perfectionem christianam contendunt, tertii ordines dicuntur aliove congruenti nomine vocantur. 172 Instituta autem, si quas habeant associationes christifidelium sibi coniunctas, speciali cura adiuvent, ut genuino spiritu suae familiae imbuantur. 173 Come affermano i can. 303 e 677 §2, non è più necessario il privilegio apostolico per l’erezione di questi terzi ordini, come avveniva invece nel CIC 17. Cfr. GARCÌA MARTÌN, Actos administrativos singulares, 125. 170

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La const. ap. Pastor bonus, all’art. 111, afferma che per loro natura i terzi ordini non dipendono dalla Congregazione per gli IVC e SVA quanto alla loro erezione, regime, disciplina e, all’art. 134, afferma che dipendono dal Pontificio Consiglio per i Laici per quanto riguarda l’apostolato. Ciò significa che non hanno carattere diocesano e non dipendono dall’Ordinario del luogo.174 L’autorità competente per l’erezione dei terzi ordini non è quindi esplicitamente espressa nella PB, né è riservata agli Ordini esenti o agli IR con privilegio apostolico. Questo vuoto giuridico viene colmato dalle molte competenze che il nuovo diritto della Chiesa ha affidato ai Superiori religiosi. Infatti, le associazioni internazionali o universali sono erette dal Pontificio Consiglio per i Laici (can. 312 §1, 1°);175 le associazioni nazionali sono erette dalla Conferenza Episcopale (can. 312 §1, 2°);176 le associazioni diocesane sono erette dal Vescovo diocesano e da chi possiede il relativo privilegio apostolico, non dall’Amministratore diocesano (can. 312 §1, 3°);177 le associazioni particolari, di carattere personale come i terzi ordini secolari o al-

Mentre, ad es., le associazioni internazionali di fedeli dipendono dallo stesso Pontificio Consiglio per i Laici, PB art. 134, o per quanto riguarda le organizzazioni cattoliche internazionali dalla Segreteria di Stato, PB artt. 41 §2 e 134. Quindi, i terzi ordini non sono associazioni né internazionali né universali. 175 Ad erigendas consociationes publicas auctoritas competens est: pro consociationibus universalibus atque internationalibus Sancta Sedes. 176 Pro consociationibus nationalibus, quae scilicet ex ipsa erectione destinantur ad actionem in tota natione exercendam, Episcoporum Conferentia in suo territorio. 177 Pro consociationibus dioecesanis, Episcopus dioecesanus in suo territorio, non vero Administrator dioecesanus, iis tamen consociationibus exceptis quarum erigendarum ius ex apostolico privilegio aliis reservatum est. 174

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tre associazioni unite agli IR, sono erette dal Superiore maggiore quando erige la casa religiosa, per cui il Vescovo diocesano ha già dato il suo consenso, assieme al consenso per l’erezione della casa religiosa (can. 312 §2).178 È dunque il Moderatore supremo competente ad erigere una casa religiosa che è pure competente ad erigere terzi ordini regolari, sia negli IR clericali che laicali. Infatti, il can. 317 §2179 concede al Superiore religioso la stessa competenza del Vescovo diocesano per nominare o confermare il presidente di una associazione ed, essendo questo un conferimento di un ufficio ecclesiastico in una associazione pubblica, se ne deduce che il Superiore religioso è pure competente ad erigere l’associazione o terzo ordine in forza del can. 148180 secondo cui chi conferisce uffici ecclesiastici è pure chi è competente ad erigerli, innovarli o sopprimerli. È interessante notare che i terzi ordini possono avere personalità giuridica pubblica se il Superiore maggiore che li erige lo ritiene opportuno,181 allo stesso modo come possono essere soppressi dallo stesso Superiore che li ha eretti.

[…] Consensus tamen ab Episcopo dioecesano praestitus pro erectione domus instituti religiosi valet etiam ad erigendam in eadem domo vel ecclesia ei adnexa consociationem quae illius instituti sit propria. 179 In consociationibus vero a sodalibus institutorum religiosorum in propria ecclesia vel domo erectis, nominatio aut confirmatio moderatoris et cappellani pertinet ad Superiorem instituti, ad normam statutorum. 180 Auctoritati, cuius est officia erigere, innovare et supprimere, eorundem provisio quoque competit, nisi aliud iure statuatur. 181 Cfr. GARCÌA MARTÌN J., Caracteristicas de las personas juridicas publicas segun el canon 116 §1, in CpR 82(2001), 89-105; IDEM, Actos administrativos singulares, 130. 178

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4.4.2. Atti amministrativi singolari: rescritti Essendo il rescritto un «actus administrativus a competenti auctoritate exsecutiva in scriptis elicitus, quo suapte natura, ad petitionem alicuius, conceditur privilegium, dispensatio aliave gratia» (can. 59 §1), esso è un atto che riguarda la potestà esecutiva che viene esercitata su richiesta di qualcuno. Tra questi rientra il rescritto di ammissione al noviziato, a norma del can. 641,182 fatto su petizione del candidato e concesso se si hanno rispettato le condizioni richieste sia al candidato stesso (quali sono l’età minima, la libertà da impedimenti giuridici o da costrizioni morali, etc.) che all’autorità competente (la consultazione dell’Ordinario proprio del candidato, la raccolta di informazioni dal suo Superiore, etc.). Vi è poi il rescritto di ammissione alla professione religiosa temporanea, a norma del can. 656, 3°, che è pure vincolato a determinati requisiti e condizioni per la validità dell’atto stesso. Per produrre questo rescritto, il Superiore maggiore deve avere il voto del proprio consiglio. Il Moderatore supremo può anche concedere il rescritto di passaggio ad un altro Istituto, vincolato al consenso del proprio consiglio e al rescritto di ammissione dell’altro Moderatore supremo emesso pure con il consenso del suo consiglio.183 È una norma nuova che pone ulteriori facoltà in capo al Superiore di un IR. È pure il Moderatore supremo a concedere l’indulto di esclaustrazione non oltre i tre anni, sussistendo cause gravi ed avendo il consenso sia del proprio consiglio sia Ius candidatos admittendi ad novitiatum pertinet ad Superiores maiores ad normam iuris proprii. 183 Can. 684 §1: “Sodalis a votis perpetuis nequit a proprio ad aliud institutum religiosum transire, nisi ex concessione supremi Moderatoris utriusque instituti et de consensu sui cuiusque consilii”. 182

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dell’Ordinario del luogo dove andrà a risiedere l’esclaustrato se è un chierico.184 Di notevole importanza il rescritto per concedere la secolarizzazione del membro professo temporaneo dell’IR. Il Moderatore supremo è competente per concedere l’indulto di secolarizzazione durante la professione temporanea, con il consenso del proprio consiglio e per una grave causa.185 Ciò significa che, come già notato, il Superiore religioso con la propria potestà produce unilateralmente effetti nella sfera giuridico-canonica del suddito, vuoi per ammetterlo come religioso nel proprio Istituto (e questo è uno stato nella Chiesa), vuoi per dimetterlo e quindi farlo passare allo stato laicale secolare. Questo atto amministrativo singolare, oltre ad essere emesso da chi è titolare di potestà esecutiva, comporta una modifica nello stato giuridico della persona a favore della quale viene esercitato. Oltre a questi rescritti, i Superiori maggiori possono dare licenze ai membri dell’IR per assenze dalla casa religiosa di un anno o anche più (se è per motivi di studio, apostolato secondo il carisma e il diritto particolare dell’Istituto, in184 Can. 686 §1: “Supremus Moderator, de consensu sui consilii, sodali a votis perpetuis professo, gravi de causa concedere potest indultum exclaustrationis, non tamen ultra triennium, praevio consensu Ordinarii loci in quo commorari debet, si agitur de clerico. Indultum prorogare vel illud ultra triennium concedere Sanctae Sedi vel, si de institutis iuris dioecesani agitur, Episcopo dioecesano reservatur”. È un cambio introdotto, rispetto alla legislazione precedente, dal rescr. pont. Cum admotae I, 15 e che quindi va a portare una profonda innovazione rispetto al diritto precedente il CIC 83. 185 Can. 688 §2: “Qui perdurante professione temporaria, gravi de causa, petit ut institutum derelinquat, indultum discendi consequi potest in instituto iuris pontificii a supremo Moderatore de consensu sui consilii; in institutis autem iuris dioecesani et in monasteriis de quibus in can. 615, indultum, ut valeat, confirmari debet ab Episcopo domus assignationis”. Si tratta anche in questo caso di una recezione del rescr. pont. Cum admotae I, 14.

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fermità), sempre con il consenso del proprio consiglio, a tenore del can. 665 §1; per accettare incarichi ed uffici fuori dell’IR, sia ecclesiastici (diocesani o nella Curia Romana) sia civili, a norma del can. 671; per predicare ai propri sudditi, can. 765, e quindi anche proibendo di predicare ai propri sudditi, can. 764;186 per modificare le disposizioni testamentarie sui propri beni e sulla loro amministrazione, uso o usufrutto, can. 668 §2; per amministrare beni appartenenti a laici o per esercitare uffici secolari che comportino l’onere del rendiconto o che siano di governo in amministrazioni civili, can. 672 (come già notato al par. 4.3., è una facoltà concessa sia agli Ordinari che ai Superiori maggiori in genere);187 per realizzare atti di amministrazione straordinaria (con una petizione che deve essere valida, non viziata da occultamento di documenti o della situazione patrimoniale della persona giuridica; cfr. can. 1292), avendo il consenso del proprio consiglio dato per iscritto, can. 638 §2. In ogni caso, la licenza va sempre data in forma scritta ad validitatem, proprio per la sua natura stessa di rescritto.

4.5. Brevi conclusioni Le osservazioni che si potrebbero fare in merito alla potestà esercitata dai Superiori maggiori tutti, sia di Istituti

Cfr. rescr. pont. Cum admotae, I, 13. GARCÌA MARTÌN, Actos administrativos singulares, 133, afferma che “esta competencia no les era reconocida por los esquemas del Còdigo, incluido el del 1982, pero fue introducida por el Còdigo a pesar del cambio realizado en el can. 129. Esta equiparacion al Ordinario del lugar y al Superior mayor religioso clerical de derecho pontificio, también Ordinario, demuestra que estos Superiores laicales tiene potestad eclesiastica ejecutiva de la misma naturaleza que los anteriores en virtud del oficio”. 186 187

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religiosi laicali che clericali, sono molte, ma tutte ci porterebbero alla stessa conclusione ed affermazione: essi esercitano potestà di governo esecutiva, perché tali sono gli atti che possono produrre per lo stesso diritto. Nell’elencare i doveri e diritti degli Ordinari e dei Superiori maggiori in generale, abbiamo notato come in più casi il diritto attribuisca facoltà uguali a entrambi, pur non richiamando la voce Ordinario per i Superiori maggiori, perché si tratta di canoni inseriti nella terza parte del libro secondo sul popolo di Dio (per es., i cann. 672, 797, 702 §2). Molti di tali doveri e diritti vengono espletati mediante l’esercizio della potestà esecutiva, cioè mediante la produzione di atti amministrativi singolari in favore di determinate persone, fisiche o anche giuridiche, per una migliore e più equa applicazione della legge ai singoli casi. Il diritto perciò concede a tali Superiori religiosi di Istituti di diritto pontificio potestà esecutiva, vale a dire potestà ecclesiastica di governo. Questo, come già notato, è un ambito limitato, in quanto si tratta solo degli Istituti religiosi, non degli Istituti secolari che, per loro propria natura, non conducono vita in comune e i cui membri sono incardinati nella diocesi in cui risiedono (salvo la Santa Sede abbia stabilito diversamente); lo stesso si dica delle Società di vita apostolica, i cui membri non professano voti o altri vincoli sacri, tranne alcune eccezioni. Questo limite, tuttavia, non riguarda il tipo di potestà esercitata, ma i soggetti attivi di questa stessa potestà, che il can. 596 combina indistintamente e sbrigativamente assieme, lasciando alla dottrina il farne le dovute distinzioni. Non riguarda neppure la potestà dal punto di vista qualitativo, in quanto appunto si tratta della stessa potestà di governo ecclesiastica, quanto piuttosto dal punto di vista quantitativo (ed anche qui, si tratta di una quantità non tanto di atti, di doveri e diritti, che non mancano in entrambi i casi, quanto di soggetti passivi, di sudditi per cui

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questa stessa potestà viene esercitata: il popolo di Dio affidato ad un Vescovo diocesano, Ordinario, è ben di più di quello incardinato in un IR). Sarà perciò il prossimo capitolo ad osservare come la dottrina stessa abbia affrontato il problema, che pure si pone e che il canone che stiamo esaminando sembra non aver affrontato con dovuta serietà (cioè aderenza alle cose, alla realtà), e come questa stessa dottrina abbia cercato di risolvere questo silenzio giuridico da parte del Codice.

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Cap. V

Dottrina sulla potestà dei Superiori maggiori 5.1. Le principali posizioni dottrinali Addentrarsi nelle varie scuole di tendenza che approvano o disapprovano la potestà di governo attribuita ai Superiori maggiori e alla possibilità per laici in genere di esercitarla è al contempo arduo e laborioso. Si tratta, infatti, di affrontare una confusione terminologica che abbina a parole uguali concetti diversi, a volte pure nelle opere di uno stesso autore. Non solo, ma a volte ci si trova di fronte a lavori basati su di una prospettiva ecclesiologica di parte, che tralasciano altre tipologie pure presenti nella Chiesa e soprattutto la sua visione d’insieme.1 Stupisce a maggior ragione se si pensa al dibattito notevole che ebbe in fase codificatoria l’elaborazione di questo canone, 596. Vi sono autori che citano alcuni documenti pontifici e poi ne dimenticano altri che porrebbero la loro dottrina su altre e ben diverse strade. Tale è risultata essere, a volte, anche la posizione della Commissione per la revisione del Codice che, come abbiamo visto (cfr. cap. III), ha dovuto interpellare la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede.2 La confusione è aggravata dal fatto che il can. 596, Ciò d’altronde sarebbe conforme a LG 1, 6-7, che propone a titolo esemplificativo una ampia carrellata di prospettive ecclesiologiche. 2 La risposta, pervenuta nel Folio ex officio (cfr. par. 3.4.2.), ribadiva che l’inabilità dei laici all’esercizio della potestà sacra non era mai stata affermata dal Concilio. 1

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di carattere generale, pone sullo stesso piano Superiori generali, provinciali, locali, rimandando al diritto proprio lo stabilire quale tipo di potestà essi esercitino. Per qualcuno questo è un’applicazione del principio di sussidiarietà nella vita consacrata.3 5.1.1. Partecipazione della potestà di governo Questa scuola afferma generalmente la distinzione tra potestà di ordine e di giurisdizione, che hanno due fonti prossime diverse. In alcuni casi afferma la stessa origine, con differente esercizio. Gutiérrez A., analizzando il §1 del canone, non trova «alcuna differenza qualitativa tra la potestà di governo che compete ai Superiori di un Istituto clericale di diritto pontificio e la potestà che il can. 596 §1 attribuisce a tutti i Superiori chierici, compresi i sacerdoti di un Istituto clericale diocesano o secolare».4 Inoltre, come altri in seguito, afferma che la Chiesa non ha altra potestà che quella conferitagli da Cristo, cioè di giurisdizione, nonostante in questo caso – prosegue l’Autore – sia imperfetta perché solo esecutiva.5 Dunque i Superiori di tutti gli Istituti di vita Cfr. LESAGE G., Renouveau de la vie religieuse, Montréal 1985, 114. GUTIÉRREZ A., I canoni riguardanti gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica collocati fuori della parte ad essi riservata, in VitCons 20(1984), 73. Infatti il primo Schema del Coetus per la Vita consacrata dava a tutti gli IVC clericali, sia di diritto pontificio che diocesano, la potestà ecclesiastica di governo. Questo perchè l’ufficio è pubblico e questi sacerdoti sono a capo di una persona giuridica pubblica nella Chiesa. 5 Cfr. GUTIÉRREZ A., Potestà. I. Potestà dominativa. 5. Il CIC2, in DIP, vol. VIII, 149-150. Ma in tal caso, si potrebbe osservare, è imperfetta anche quella di ogni Ordinario che gode solo di potestà esecutiva di governo? Cfr. cann. 134 ss. L’autore, alla colonna 149, afferma che “agli istituti clericali di diritto diocesano, a quelli laicali di diritto pontificio, come pure a tutti gli istituti secolari sia clericali sia 3 4

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consacrata godono di potestà ecclesiastica di governo esecutiva. Andrés afferma che «è praticamente impossibile che la potestà comune, chiamata prima dominativa, abbia natura, fini e divisioni radicalmente differenti da quella ecclesiastica di regime».6 Sostiene quindi la radicale uguaglianza tra la potestà definita dal diritto universale e dalle costituzioni descritta al can. 596 §1 e la potestà di governo di cui godono gli Istituti religiosi clericali di diritto pontificio secondo il can. 596 §27 per natura e fini, ma diversità per

laicali, il CIC2 [cioè il CIC 83] concede una potestà che qualitativamente è di regime ecclesiastico per governare la vita cristiana […]; una potestà, però, limitata (quantitativamente) alla sola funzione esecutiva, limitatamente ancora a quanto definito nel diritto universale per loro e nelle costituzioni e, in quanto al modo dell’esercizio, secondo i c. 131, 133, 137-44, oltre che nel diritto proprio”. Cfr. anche GUTIÉRREZ A., El nuevo Codigo de Derecho Canonico y el derecho interno de los Institutos de vida consagrada, in Informationes SCRIS 9(1983), 104-106. 6 ANDRÉS D.J., Il diritto dei religiosi. Commento esegetico al codice, Roma 19992, 41. IDEM, cc. 330-746, in BENLLOCH POVEDA A. (a cura di), Còdigo de Derecho Canonico. Ediciòn bilingüe, fuentes y comentarios de todos los cànones, Valencia 19932, 289. Tuttavia in altro luogo sostiene diversamente: “la potestad comun, [...], que se entiende como el poder doméstico, o gubernativo, o econòmico de gobernar a los sùbditos en orden a los fines del instituto, [...]; esta potestad tiene el doble origen de la naturaleza de la vida religiosa y del acuerdo libre de sujeciòn de parte del profeso, asumido mediante la profesiòn del consejo de obediencia mediante voto pùblico”; ANDRÉS D.J., Art. 1 De los Superiores y de los consejos. Cc. 617-630, in MARZOA A. – MIRAS J. – RODRÌGUEZ-OCAÑA R. (a cura di), Comentario exegético al Còdigo de Derecho Canònico, Pamplona 19963, 1540. 7 In un’opera è della stessa posizione anche Gambari, che la vede appartenente alla stessa conferita da Cristo alla sua Chiesa. Cfr. GAMBARI E., Vita religiosa secondo il concilio e il nuovo diritto canonico, Roma 1985, 512-513. Ma successivamente lo stesso autore cambierà posizione.

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applicazione ed estensione.8 Ed effettivamente nota che «la norma lascia molto più in chiaro ed esplicito questo livello di differenziazione, mentre appare più implicita e remissiva nella presentazione del primo livello sostanziale o essenziale»,9 riferito alla natura della potestà. Gutiérrez J.L. considera la ex potestà dominativa come vera potestà di giurisdizione concessa dall’autorità ecclesiastica in virtù della sua intrinseca natura, che vede per questo ad essa applicati i canoni riguardanti la potestà esecutiva.10 Già commentando le innovazioni11 apportate dalla Commissione pontificia per l’interpretazione autentica del CIC 17 nel 1952, afferma che «sarebbe stato assai più semplice affermare schiettamente che la potestà dominativa altro non è che una partecipazione all’unica potestà pubblica di regime che esiste nella Chiesa, vale a dire alla giurisdizione».12 Questa è finalizzata al retto ordine interno di ogni Istituto, cioè al bene comune: essa è quindi «vera giurisdizione concessa dall’Autorità ecclesiastica, e non un tertium genus per il quale non si trova posto nell’ordinamento canonico».13 Cfr. anche ANDRÉS D.J., Innovazioni del Codice all’esterno degli Istituti di vita consacrata. Apertura e dialogo con la Chiesa con il mondo, in VitCons 20(1984), 51-53; IDEM, Istituti religiosi clericali e laicali: nuove nozioni e differenze, in FCan 2(1999), 323-324, 327. 9 ANDRÉS D.J., Le forme di vita consacrata. Commentario teologicogiuridico al Codice di Diritto Canonico, Roma 20055, 80. 10 Cfr. GUTIÉRREZ J.L., Dalla potestà dominativa alla giurisdizione (Appunti per uno studio), in EICan 39(1983), 84. 11 Cfr. PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI AUTHENTICAE INTERPRETANDO, Responsio, 26 marzo 1952, in AAS 44(1952), 497. 12 GUTIÉRREZ, Dalla potestà dominativa alla giurisdizione, 89-90. 13 GUTIÉRREZ, Dalla potestà dominativa alla giurisdizione, 103. Questa potestà viene perciò trasmessa nella misura in cui gli Istituti ne abbiano bisogno e, se sono laicali, non può venir loro trasmessa la potestà di regime unita inseparabilmente all’ordine sacro. 8

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Da parte sua Betti,14 nella sua riflessione circa i laici e la potestà di giurisdizione, analizza il can. 129 §2. Egli nota che la parola cooperatio, certamente non coincidente con la precedente espressione partem habere dello Schema 82 precedente il CIC 83, implica comunque una certa partecipazione alla potestà sacra nella Chiesa, «a meno che non vi siano esplicite valenze riduttive». Ma «queste di fatto non ci sono».15 Se infatti la cooperazione si fosse intesa come un semplice aiuto, si sarebbe avvallata la proposta per un’altra formulazione16 e, forse, anche per la intera soppressione del can. 129 §2. Ciò significa che la cooperazione dei laici all’esercizio della potestà di giurisdizione è esercitabile ed attiva, e l’affermazione del can. 274 §1,17 può riferirsi ad «una potestà di giurisdizione non derivante dal sacramento dell’Ordine, della quale sono partecipi anche i laici».18 Una posizione intermedia è presa da Soullard, secondo cui «è normale che l’autorità interna all’Istituto possa diQuesto autore gode di una posizione privilegiata. Egli è infatti uno degli esperti che aiutarono il Santo Padre, Giovanni Paolo II, nell’esame personale del nuovo Codice poco prima della sua promulgazione. Tra questi rientravano anche: Mons. Edward Egan, Mons. Istvàn Mester, Mons. Zenon Grocholewski, P. Javier Ochoa, sac. Eugenio Corecco, P. Luis Dìez Garcìa. Tra i vescovi rientravano invece: card. Agostino Casaroli, card. Joseph Ratzinger, card. Narciso Jubany Arnau, Mons. Vincenzo Fagiolo. 15 BETTI U., In margine al nuovo Codice di Diritto Canonico, in Antonianum 58(1983), 636. 16 Vd. BETTI, In margine al nuovo Codice, 636, nota 20, in cui ricorda che questa proposta, del card. J. Ratzinger, “presentava il §2 in questi termini: «In exercitio eiusdem potestatis ii, qui ordine sacro non sunt insigniti, suo modo ad normam iuris adiuvare et cooperari possunt»”. 17 Soli clerici obtinere possunt officia ad quorum exercitium requiritur potestas ordinis aut potestas regiminis ecclesiastici. 18 BETTI, In margine al nuovo Codice, 637. 14

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sporre di certe prerogative attribuite alla potestà ecclesiastica di governo»,19 ma sembra non affermare esplicitamente che queste disposizioni siano dovute ad un effettivo esercizio di potestà ecclesiastica di governo. Tuttavia ammette che «un’analisi minuziosa potrebbe trovare delle tracce negli Istituti non clericali»,20 per cui appare chiaramente che tale posizione di prerogative della potestà ecclesiastica di governo concesse ai Superiori in genere esistono, ma vanno studiate. Ghirlanda afferma che «la potestà è una, perché è la potestà di Cristo, ed è sacra sia per questa ragione sia per il fatto che è conferita ed è esercitata nella Chiesa sempre per fini spirituali in ordine alla salvezza»,21 sia che si usi per atti sacramentali o di santificazione in generale o di governo. Già prima sosteneva che «per il fatto che almeno in parte a tale potestà si applicano i canoni sulla potestà ordinaria e delegata di governo ecclesiastico o di giurisdizione (cann. 131, 133 e 137-144) si deve ammettere che è radicalmente della stessa natura di quest’ultima».22

SOULLARD R., La vie religieuse, les Instituts religieux (c. 607-709), in AA.VV., Directoire canonique. Vie consacrée et sociétés de vie apostolique, Parigi 1986, 189 [nostra traduzione]. 20 SOULLARD, La vie religieuse, 189. 21 GHIRLANDA G., Il diritto nella Chiesa mistero di comunione. Compendio di diritto ecclesiale, Roma-Cinisello Balsamo 20003, 266. 22 GHIRLANDA, Il diritto nella Chiesa, 193. Cfr. anche GHIRLANDA G., De natura, origine et exercitio potestatis regiminis iuxta novum Codicem, in Per 74(1985), 148-149, dove nota che questa potestà è conferita dal Codice stesso, ovvero tramite questo dalla suprema autorità ecclesiastica. In “Istituti misti” e nuove aggregazioni, in QDE 9(1996), 491, l’autore si chiede “se i laici possono esercitare, in base al can. 129 §2, la potestà di giurisdizione, ricoprendo vari uffici ecclesiastici, non si vede perché non lo possano i superiori laici negli istituti laicali o misti, anche se non nella stessa misura che i superiori degli istituti clericali di diritto pontificio”. 19

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Beyer, maestro di Ghirlanda, aveva già sostenuto questa teoria.23 Ciò d’altronde non contrasterebbe con la suddivisione dell’unica potestà nei tre munera di insegnare, santificare e governare, che non negano la sua unità, come afferma Bertrams.24 Lo stesso Beyer ha modo di definire carismatica la potestà di cui al can. 596 §1, in quanto al modo di esercitarsi, ma per natura esecutiva:25 «la potestà di governare comporta sempre una potestà di insegnamento e di santificazione. […] Chi insegna, santifica; chi santifica, insegna, e chi dirige insegna e santifica: tre aspetti essenziali di ogni atto di autorità responsabile […]».26 Più oltre, l’autore la definisce potestà di superiorato correlata a quella di ordinariato, ritenendo le due più unite di quanto fa il Codice adesso.27 Infine afferma la partecipazione Cfr. BEYER J., La nouvelle définition de la “Potestas Regiminis”, in L’Anné Canonique 24(1980), 66-67; IDEM, De natura potestatis regiminis seu iurisdictionis recte in Codice renovato enuntianda, in Per 71(1982), 105-107; 131. Posteriormente: IDEM, Teologia e diritto della potestà sacra nella Chiesa, in AA.VV., Teologia e Diritto Canonico, Città del Vaticano 1987, 68. 24 Cfr. BERTRAMS W., De natura potestatis Supremi Ecclesiae Pastoris, in Per 58(1969), 10. Ritroveremo questo autore tra coloro che non ammettono potestà sacra in tutti gli IVC o SVA. Questa unità, comunque, è stata osservata anche da GIOVANNI PAOLO II, epistula Novo incipiente ad universos Ecclesiae sacerdotes, adveniente Feria V in Cena Domini, 8 aprile 1979, in AAS 71(1979), n. 3: “si loci conciliares accurate inspiciantur, patet loquendum potius esse de triplici ratione ministerii ac muneris Christi quam de tribus diversis officiis”. 25 Cfr. BEYER J., Il diritto nella vita consacrata, Milano 1989, 127. Nella pagina successiva, l’autore afferma che “un gruppo ecclesiale è diretto da un responsabile che gode per il fatto stesso di una potestà ecclesiale”. Questo “comporta per sua natura una partecipazione alla potestà nella Chiesa: non solo governo, ma insegnamento e santificazione”. Cfr. anche DE ROSA G., Istituzione e carisma nella Chiesa, in Civiltà Cattolica 137(1986), 357. 26 BEYER, Il diritto nella vita consacrata, 129. 27 Cfr. BEYER J., Il diritto nella vita consacrata, 133. 23

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dei laici alla potestas sacra nel Codice, quando è detto che essa proviene da Dio ed è concessa ai Superiori religiosi «per ministerium Ecclesiae».28 Stickler, analizzando in prospettiva storica e conciliare la potestà di governo, sottolinea che essa per essere ordinaria deve essere annessa all’ufficio.29 Perciò essa può essere distinta nella misura in cui Cristo ha voluto una gerarchia di governo e una di santificazione; correlata in quanto proviene dall’unione di poteri dalla stessa persona; differenziata, perché «è possibile mantenere la loro natura distinta, la loro origine distinta, le loro proprietà distinte, e anche le loro finalità distinte».30 Urrutia tratta invece della potestà di governo delegata ai laici.31 Egli nota, parlando di uffici diocesani, che «non c’è motivo per negare che questi casi comportano qualche potestà esecutiva di governo o giurisdizione, una potestà inoltre che può essere esercitata da persone laiche».32 TutCfr. BEYER, Teologia e diritto della potestà sacra nella Chiesa, 77. In altro luogo, BEYER J., La Chiesa si interroga sulla vita consacrata. Verso il IX Sinodo ordinario dei Vescovi, in Quaderni di diritto ecclesiale 6(1993), 377, afferma che la vita consacrata appartiene alla struttura gerarchica della Chiesa e perciò esercita il potere che gli viene trasmesso dal Sommo Pontefice. Cfr. Anche BEYER J., Dal Concilio al Codice. Il nuovo codice e le istanze del Concilio Vaticano II, Bologna 1984, 63-65, dove distingue tra potestà sacramentale e potestà di missione. 29 Cfr. STICKLER A.M., Le pouvoir de gouvernement, pouvoir ordinaire et pouvoir délégué, in L’Anné Canonique 24(1980), 83. 30 STICKLER, Le pouvoir de gouvernement, 84 [nostra traduzione]. Cfr. IDEM, La «potestas regiminis»: visione teologica, in Apollinaris 56(1983), 407-408; IDEM, Origine e natura della Sacra Potestas, in GHERRO S. (a cura di), Studi sul primo libro del Codex Iuris Canonici, Padova 1993, 87-88. 31 Cfr. URRUTIA F.J., Delegation of the executive power of governance, in StuCan 19(1985), 339-355. 32 URRUTIA, Delegation of the executive power, 343 [nostra traduzione]. Da notare che arriva a queste conclusioni non senza affermare che ai laici, anche se religiosi, non può essere delegata ogni tipo di pote28

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tavia, il limite principale a questa trattazione è che la potestà delegata è tale perché non annessa all’ufficio e, quindi, non appartiene alla stessa persona delegata. Nel caso invece dei Superiori maggiori, la potestà di cui godono è annessa all’ufficio e, perciò, ordinaria in senso stretto. Dal canto suo, McDonough unisce l’analisi della potestà di governo con il carisma dell’Istituto. L’autrice afferma che «ai Superiori e membri di istituti è data la responsabilità per conservare fedelmente e adattare prudentemente le opere, nel rispetto del ‘carisma’ dell’istituto, alle differenti circostanze e bisogni».33 Arriva così a concludere che «il principio base della legge ecclesiastica è che chiunque abbia la responsabilità per certe questioni abbia pure l’autorità su di esse e sia competente ad agire nei loro riguardi».34 Non si deduce in questo lavoro a quali conclusioni arrivi,35 che si faranno sentire solo qualche anno dopo, nell’analisi giuridica del Codice che la stessa autrice farà. Potrà così affermare che «la potestas attribuita ai superiori di istituti di vita consacrata dal can. 596 §1 ed esercitata secondo altri canoni del Codice rivisto è – per lo meno in alcuni casi – un esempio di una concessione de lege a non-ordinati fatta dalla suprema autorità della Chiesa per la partecipazione alla potestas regiminis nella forma esecutiva in un caso particolare».36 stà: così, ad es., non potrà essere nominata una religiosa nell’ufficio di vicario episcopale per la vita consacrata; cfr. p. 350. 33 MCDONOUGH E., Religious in the 1983 Code. New Approaches to the New Law, Chicago 1985, 69 [nostra traduzione]. 34 MCDONOUGH, Religious in the 1983 Code, 70. 35 Così è pure per altri Autori che, nei primissimi anni dopo la promulgazione del nuovo Codice, non si interessano del problema della potestà riconosciuta ai Superiori degli IVC. Cfr. MORLOT F., Gli Istituti secolari: breve commento del nuovo Codice, in OBERTI A. (a cura di), Gli Istituti secolari nel nuovo Codice di Diritto Canonico, Milano 1984, 25, 9-59. 36 MCDONOUGH E., The potestas of can. 596, in Antonianum 63(1988), 605 [nostra traduzione]. Cfr. anche: MCDONOUGH E., Juridical decon-

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Nel suo studio riguardo al capitolo generale negli IR, Iannone prende posizione riguardo al nostro tema e «vede nella potestà di cui nel §1 del can. 596 la potestà di regime, in forma ‘quantitativamente’ minore».37 Afferma che i capitoli e Superiori degli IVC ed SVA, tranne quelli clericali di diritto pontificio, non hanno potestà giudiziale e quindi nel seguire qualche procedimento particolare, il capitolo generale lo farà sempre in via amministrativa.38 Valutando la potestà di regime nello sviluppo che ebbe all’interno della riforma codiciale, Malumbres afferma che l’espressione generica riguardante il governo sembra porre a confronto due livelli distinti di uffici, difficilmente delimitabili.39 Da una parte, infatti, «un livello fondamentale, costituzionale, ‘intrinsecamente gerarchico’ cui possono struction of Religious institutes, in StuCan 26(1992), 312; IDEM, Jurisdiction exercised by non-ordained members in religious institutes, in Canon Law Society of America Proceedings 58(1996), 305-307; IDEM, The Potestas of Religious Superiors according to canon 596, in RevRel 55(1996), 90-91; IDEM, Authority in Institutes of Consacrated Life, in RevRel 55(1996), 206; IDEM, Secular Institutes, in RevRel 51(1992), 932; IDEM, Clerical Institutes, in RevRel 51(1992), 148; IDEM, Canonical considerations of autonomy and hierarchical structure, in RevRel 45(1986), 685-686; IDEM, The Potestas of Religious Superiors: Background for canon 596, in RevRel 54(1995), 939. Vd. Anche ciò che affermava CUNEO J.J., The Power of Jurisdiction: Empowerment for the Church functioning and mission distinct from the Power of Orders, in The Jurist 39(1979), 211; 217-219. 37 IANNONE F., Il Capitolo generale. Saggio storico-giuridico, Roma 1988, 141. 38 Cfr. IANNONE, Il Capitolo generale, 143. Ivi sostiene che il procedimento processuale amministrativo non è propriamente giudiziale perché in questo caso si richiede la potestà giudiziale, cioè la giurisdizione; ma in questo caso sembra usare il termine in senso stretto di potere decisionale. Vd. anche IANNONE F., Potestà del Capitolo Generale (cann. 596; 631 §1), in CpR 68(1987), 77-97; 223-244. 39 Cfr. MALUMBRES E., Los laicos y la potestad de régimen en los trabajos de reforma codicial: una cuestiòn controvertida, in IusCan 26(1986), 619-620.

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accedere solo gli ordinati. Dall’altra, un livello di carattere più tecnico e sempre di cooperazione, nel quale rientra, senza problemi teologici, il proprio impegno da parte del laico».40 L’autore arriva così a notare che la potestas regiminis trattata nei cann. 129 §1 e 274 §1 faccia riferimento proprio a quel livello fondamentale di governo intrinsecamente gerarchico legato agli ordinati. Nei cann. 129 §2 e 1421 §2 si tratterebbe invece del secondo livello di cooperazione aperto ai laici.41 Completamente affermativa la posizione di Boni, il quale si ritiene «fermamente convinto che la distinzione tra il paragrafo primo ed il paragrafo secondo del can. 596 si deve ricondurre ad una distinzione semplicemente di ordine “quantitativo”. Tutti gli istituti religiosi sono retti dalla stessa potestà che regge tutta la Chiesa: gli istituti religiosi sono retti dalla potestà soprannaturale che Cristo partecipa sacramentalmente al “corpo sociale” della Chiesa».42 Ed arriva a queste conclusioni dopo un lavoro che ha abbracciato ben duemila anni di storia.43 Parlando del capitolo generale, Codorniu afferma che i capitoli hanno potestà pubblica. Essi hanno potestà di governo che viene espletata generalmente in accordo con il Moderatore supremo (nel caso del capitolo generale), che MALUMBRES, Los laicos y la potestad de régimen, 620 [nostra traduzione]. 41 Cfr. MALUMBRES, Los laicos y la potestad de régimen, 621. 42 BONI A., Gli istituti religiosi e la loro potestà di governo (cc. 607/596), Roma 1989, 499. Il singolare in corsivo è mio. 43 Cfr. anche BONI A., La vita religiosa nella struttura concettuale del nuovo Codice di Diritto Canonico, in Antonianum 58(1983), 610-611, dove sostiene che “in quanto i superiori di tutti gli istituti religiosi esercitano una potestà di giurisdizione (potestà pubblica di governo) che è annessa al loro ufficio (potestà ordinaria, can. 596 §§1 e 3, confr. can. 131), la distinzione tra istituti clericali e istituti laicali si rivela sempre più labile”. 40

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comunque continua a governare normalmente l’Istituto.44 Afferma che essi hanno potestà di regime esecutiva anche perché emanano decreti generali esecutivi a norma dei cann. 29 e 31 §1.45 Nel dare la propria definizione di potestà ordinaria, Olivares D’Angelo dice che «nell’essere nominato un laico per un ufficio ecclesiale e partecipare così alla potestà esecutiva ecclesiale, gli si concede la missione canonica perché possa esercitare lecitamente e validamente la potestà, ricevuta nel battesimo, di poter cooperare nell’esercizio della potestà di regime».46 Dunque, secondo questo autore, il sacramento del battesimo abilita a cooperare nell’esercizio della potestà di regime, secondo il can. 129 §2.47 Piñero Carrion, chiedendosi se tutti i Superiori degli IVC ed SVA esercitino potestà di regime, arriva alla conclusione che «i cc. 129, e quelli che lo illuminano, ci lasciano aperta la questione e a quella noi rispondiamo affermativamente. […] Ammesso che il laico possa prendere parte alla potestà di regime, l’applicazione del tema alla vita consacrata e alle società risulta facile».48 Infatti Cfr. CODORNIU M., El regolamento del capitulo general, Roma 1987, 16-19. 45 Cfr. CODORNIU, El regolamento del capitulo general, 320-321. 46 OLIVARES D’ANGELO E., Potestad ordinaria (potestas ordinaria), in CORRAL SALVADOR C. (a cura di), Diccionario de Derecho Canonico, Madrid 1989, 485 [nostra traduzione]. 47 Cfr. anche OLIVARES D’ANGELO E., Potestad de regimen (potestas regiminis), in CORRAL SALVADOR C. (a cura di), Diccionario de Derecho Canonico, Madrid 1989, 485, in cui l’autore afferma che i laici “pueden recibir esta mision para ejercer la funcion de regir, como cooperadores. Porque el bautismo capacita a todos los cristianos no solo para el ejercicio privado de la funcion de evangelizar y dar culto a Dios, sino tambien para cooperar en esas mismas funciones en nombre de la jerarquia eclesial, en cuanto publicas: basta que le conceda la mision canonica”. 48 PIÑERO CARRION J.M., La ley de la Iglesia. Instituciones Canonicas, vol. 1, Madrid 19932, 572 [nostra traduzione]. 44

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la parola latina insuper = ‘inoltre’ ha questo senso espresso; non determina se gli altri la possiedono o meno, ma si accontenta di affermare che questi sì la posseggono […]. Hanno, secondo la nostra opinione, potestà di regime i superiori ed i capitoli di tutti gli altri IR, IS e SVA, anche quelli laicali, quelli femminili e diocesani; questa opinione è più comune nel caso degli IS e SVA clericali pontifici con la facoltà di incardinare.49

Commentando il can. 129, lo stesso autore affermava che la legge data dal legislatore supremo può concedere potestà ecclesiastica di regime anche ai laici; in questo senso, cooperare è sinonimo di essere abili.50 Dando un approccio ermeneutico alle posizioni di interpretazione della potestà nella Chiesa, del Concilio e del Codice, Beal afferma che anche i Superiori religiosi degli Istituti laicali partecipano della potestà sacra a norma del diritto.51 Essi lo fanno assieme ad una serie di altri uffici che possono essere esercitati da fedeli laici, pur comportando l’esercizio di potestà sacra. Tuttavia l’autore afferma che una conclusione nel dibattito sulla potestà sacra nella Chiesa non è prossima a delinearsi nella dottrina. E mentre la disputa procede sul campo concettuale, i Vescovi dal canto loro procedono con la cura delle loro Chiese parti-

PIÑERO CARRION, La ley de la Iglesia, vol. 1, 573. Il pensiero dell’autore ha avuto un notevole approfontimento e cambiamento dalla sua prima opera a commento del CIC 83, dove affermava che la potestà di cui al §1 non era strettamente di regime, se non negli IR clericali di diritto pontificio, negli IS clericali di diritto pontificio con facoltà di incardinare, nelle SVA di diritto pontificio con facoltà di incardinare. Cfr. PIÑERO CARRION J.M., Nuevo Derecho Canonico. Manual practico, Madrid 1983, 283. 50 Cfr. PIÑERO CARRION, La ley de la Iglesia, vol. 1, 263. 51 Cfr. BEAL J.P., The Exercise of the Power of Governance by Lay People: State of the Question, in The Jurist 55(1995), 90. 49

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colari con i mezzi a loro disposizione, tra cui la cooperatio in potestate sacra.52 Riferendosi alla formazione ed emissione degli atti amministrativi singolari, Bodzon afferma che chi ha la capacità di produrre questi atti «deve essere una persona fisica o giuridica che abbia ricevuto potestà pubblica di governo, di cui si parla nei cc. 129 e ss.».53 Perciò, continua lo stesso autore, «si tratta pertanto dell’Amministrazione attiva in qualche organo, qualsiasi esso sia, della Chiesa particolare o universale, organo centrale o periferico, di un istituto di vita consacrata o di una società di vita apostolica».54 Tiongco, nella sua tesi dottorale, ammette che la potestà comune riconosciuta a tutti i Superiori religiosi è di carattere pubblico.55 Conclude poi affermando che «nella Chiesa, esiste solo una potestà: la potestas sacra regiminis seu jurisdictionis. Per questo, la potestà propria e specifica dei superiori religiosi degli IVC, di origine associativa, è una potestà partecipativa della potestas sacra, che concede loro la Chiesa».56

Cfr. BEAL, The Exercise of the Power of Governance, 92. L’autore auspica pure una interpretazione autentica da parte della Santa Sede del can. 129, per poter togliere quel dubium iuris che il dibattito sulla natura della potestà sacra ha creato lasciando un vuoto a livello pratico. 53 BODZON J.K., El procedimiento de formacion y emision de los actos administrativos singulares en el Codigo y segun las normas comunes de la Curia Romana, in Cuadernos Doctorales 15(1998), 228 [nostra traduzione]. 54 BODZON, El procedimiento de formacion y emision de los actos administrativos singulares, 228. 55 Cfr. TIONGCO I.A.D., La naturaleza de la potestad en los Institutos religiosos a la luz de las codificaciones de 1917 y de 1983, in Cuadernos doctorales 18(2001), 359. 56 TIONGCO, La naturaleza de la potestad en los Institutos religiosos, 359 [nostra traduzione]. 52

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Analizzando la struttura meramente giuridica della potestà di governo nel Codice, Huels espone vari modi giuridici e quindi de facto in cui i laici esercitano la detta potestà nella Chiesa.57 Così questo autore nota che, anche se il Codice non lo dice espressamente, «chi ha potestà esecutiva per legge sono i superiori ed i corpi collegiali negli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica, sia clericali sia laicali».58 Egli trova il fondamento di questa negli atti che i Superiori sia chierici che laici producono, concessi loro dal diritto stesso e quindi dalla suprema autorità nella Chiesa, così come dimostrato dallo stesso autore negli stessi atti amministrativi singolari che vengono posti dai Superiori.59 Garcìa Martìn, in uno studio riguardante gli atti amministrativi singolari, afferma che i Superiori degli Istituti religiosi laicali di diritto pontificio esercitano potestà esecutiva di governo nella Chiesa.60 Infatti, «tutti gli atti amministrativi […] hanno carattere pubblico, con effetti giuridici pubblici. Per produrre tali atti amministrativi è necessario che siano posti da persone che godono di potestà di governo esecutiva».61 Perciò «i Superiori supremi e, in alcuni casi, secondo le costituzioni, anche i Superiori maggiori, cioè i provinciali, godono di potestà esecutiva come Cfr. HUELS J., The power of governance and its exercise by lay persons: a juridical approach, in StuCan 35(2001), 59-96. 58 HUELS, The power of governance and its exercise by lay persons, 75 [nostra traduzione]. 59 Cfr. HUELS, The power of governance and its exercise by lay persons, 78: “If an act is acknowledged as the power of governance when it is performed by a cleric, it follows that the same act, when lawfully performed by a lay person, is also an act of governance”. Vd. anche HUELS J., Another look at lay jurisdiction, in The Jurist 41(1981), 59-80. 60 Cfr. GARCÌA MARTÌN J., Actos administrativos singulares de los Institutos religiosos laicales de derecho pontificio, in CpR 84(2003), 134. 61 GARCÌA MARTÌN J., Atti amministrativi singolari, Roma 2003, 141. 57

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i Superiori clericali di diritto pontificio, in tutto quello che si riferisce al regime interno, eccettuati i limiti che provengono dall’ordine sacro».62 Con chiarezza concettuale ed espositiva, il pensiero di Torres indica che la potestà definita nel diritto universale e nelle costituzioni propria degli IVC «consiste sostanzialmente in una partecipazione alla potestà della Chiesa stessa».63 Infatti essa è di natura ecclesiale e pubblica e trae origine da Cristo stesso per il ministero della Chiesa. L’autore afferma che essa viene partecipata in maniera propria in ogni Istituto ed in maniera diversificata ai Superiori ed ai capitoli, che sono la sede suprema, collegiale e legislativa, della potestà dell’Istituto stesso; mentre i Superiori sono l’autorità personale esecutiva dello stesso Istituto.64 Nel caso degli Istituti religiosi clericali di diritto pontificio, la potestà ecclesiastica di governo partecipata «è completa e quindi abbraccia ambedue i fori, quello interno sacramentale e non sacramentale, e quello esterno, per cui tali Superiori sono riconosciuti come Ordinari».65 Seppur indirettamente, anche Celeghin afferma la possibilità che i Superiori maggiori di Istituti laicali possano avere potestà di governo. Egli, infatti, parlando a riguardo della potestà di governo esercitata dai laici, così come viene vista dalla dottrina, afferma che non sia facile negare che i laici «possano esercitare potestà di regime e, da

62 GARCÌA MARTÌN, Atti amministrativi singolari, 143. Cfr. IDEM, La potestad de los Superiores Religiosos de los Institutos religiosos laicales de derecho pontificio, in CpR 85(2004), 74-75. 63 TORRES J., Norme comuni a tutti gli Istituti di vita consacrata. Cann. 586-606, Roma 2003-2004, pro manuscripto, 30. 64 Cfr. TORRES, Norme comuni, 31. 65 TORRES, Norme comuni, 32. Perciò il §3 confermerebbe la maggiore o minore partecipazione alla potestà ecclesiastica di governo esecutiva.

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quanto i membri della Commissione hanno detto, sembra che non si possa negare che l’ufficio di giudice implichi esercizio di potestà sacra».66 Pur facendo riferimento espresso alla potestà giudiziale dei laici, quindi consacrati e non, si deve tenere presente che i Superiori maggiori esercitano potestà giudiziale sui loro sudditi, di cui sono responsabili di fronte alla Chiesa e di fronte a Dio.67 Viana, nell’introdurre il tema della potestas regiminis, nota che la potestà di diritto divino nella Chiesa è quella esercitata negli uffici che rappresentano esternamente Cristo, cioè Sommo Pontefice e Vescovi.68 Da parte loro, invece, «tanto i chierici che gli altri fedeli possono cooperare nell’esercizio della potestà di giurisdizione che originariamente risiede negli uffici capitali».69 Questo permette, quindi, diversi tipi di cooperazione nell’esercizio della potestà di giurisdizione, sempre secondo ciò che stabilisce il diritto nella normativa corrispondente ai diversi uffici ecclesiastici e alla delegazione di potestà. Gli autori presi in considerazione in questo paragrafo, che considerano la potestà di governo partecipata a tutti gli IVC ed SVA, sono molti e compatti nel pensiero, oltre ad essere di notevole spessore giuridico. Ad essi va il merito di aver analizzato la potestà esercitata nella vita conCELEGHIN A., Origine e natura della potestà sacra. Posizioni postconciliari, Brescia 1987, 457. Cfr. anche CELEGHIN A., Il «potere di governo» dei laici nella Chiesa, in QDE 2(1989), 315-318. 67 Si pensi ai cann. 695, 697, che trattano della dimissione obbligatoria e non obbligatoria e in forza dei quali il consiglio del Superiore maggiore deve essere formato da almeno quattro membri, per poter permettere un tribunale di cinque persone. Cfr. par. 4.3.1. 68 Cfr. VIANA A., Titulus VIII. De potestate regiminis. Introducciòn, in MARZOA A.-MIRAS J.-RODRÌGUEZ-OCAÑA R. (a cura di), Comentario exegético al Còdigo de Derecho Canònico, Pamplona 19963, 842-843. 69 VIANA, Titulus VIII. De potestate regiminis, 844 [nostra traduzione]. 66

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sacrata dal punto di vista teologico, storico, ecclesiologico, giuridico, offrendo quindi un ampio ventaglio di punti di vista. Proprio per questo si può affermare che tale posizione complessiva sia ben fondata, corroborata dal Codice stesso e da diverse leggi prima e dopo di esso e difficilmente contestabile dal punto di vista dottrinale e positivo. Tuttavia, non mancano le voci contrarie prima del CIC 83 e dopo la sua promulgazione. 5.1.2. Mancanza della potestà di governo Questa scuola afferma che tutta la potestà sacra ha come fonte il sacramento dell’ordine: chi non ha ricevuto tale sacramento, non può neppure ricevere la potestà sacra.70 a) la potestas sacra si trasmette solo per via sacramentale A capo della scuola di coloro che vedono solo l’ordinato in sacris come soggetto della potestà nella Chiesa troviamo Bertrams. Egli sostiene, infatti, che la potestas sacra nella Chiesa è propria solo di chi abbia ricevuto la consacrazione episcopale o presbiterale almeno:71 i primi perché sono inseriti nella comunione gerarchica, i secondi perché ricevono la missio canonica. Quanto invece ai laici, essi possono esercitare uffici e ministeri nella Chiesa, ma non

Nella disamina dei vari autori non sono presi in considerazione coloro che riprendono la terminologia del CIC 17. Tra questi: SEDOTT R., Ordensrecht: Kommentar zu den Kanones 573-746 des Codex Juris Canonici, Frankfurt am Main 1995, 63; AYMANS W., Kanonisches Recht: Lehrbuch aufgrund des Codex Iuris Canonici, Paderborn 1991, vol. I, 404-406. Si prendono invece ad esame alcuni autori che, pur non trattando direttamente della potestà degli IVC ed SVA, tuttavia si interessano del tema della potestà sacra in generale, argomento importantissimo per capire anche quello inerente la vita consacrata. 71 Cfr. BERTRAMS W., De differentia inter sacerdotium Episcoporum et Presbyterorum, in Per 59(1970), 185 ss. 70

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partecipare alla potestà sacra.72 Infatti vi sarebbero potestà pubbliche nella Chiesa che non sono potestà di giurisdizione e, se anche talora i laici hanno ricoperto uffici in cui si esercitava una qualche giurisdizione, ciò avveniva per un abuso e non per una legittima attribuzione di potere.73 Sulle stesse posizioni di Bertrams si trova anche Mörsdorf, il quale tuttavia oltre a riconoscere un’unica potestà sacra nella Chiesa, nota che essa viene esercitata in due modi complementari ma inseparabili, entrambi con il proprio contenuto formale e materiale: ordine e giurisdizione.74 Però tale esercizio complementare non può essere disgiunto in due potestà separate nella Chiesa, ma deve restare unito, senza portare ad abusi in cui un vescovo eserciti la propria giurisdizione senza essere ordinato almeno diacono:75 conferire un ufficio ad un laico siCfr. BERTRAMS W., Communio, communitas et societas in Lege fondamentali Ecclesiae, in Per 61(1972), 587-588; 591. A p. 589 l’autore sostiene che il m.p. Causas Matrimoniales di Paolo VI va contro il can. 118 del CIC 17, pure “fondato teologicamente”. 73 Cfr. B ERTRAMS , C ommunio, communitas et societas, 592. Sostanzialmente della stessa posizione di Bertrams anche ROBLEDA O., Quaestio de personalitate offici ecclesiastici non soluta, in Per 56(1967), 384-427; IDEM, Officio exercetur potestas, in Per 57(1968), 482-493; IDEM, Innovationes Concilii Vaticani II in theoria et disciplina de officiis et beneficiis, in Per 58(1969), 155-179; IDEM, Iurisdictio-Officium ecclesiasticum, in Per 59(1970), 661-689; IDEM, La nocion canonica de officio, in Gregorianum 54(1973), 353-361; IDEM, Sobre la ‘Sacra Potestas’, in Gregorianum 57(1976), 147-159; NAVARRETE U., Potestas vicaria Ecclesiae. Evolutio historica conceptus atque observationes attenta doctrina Concilii Vaticani II, in Per 60(1971), 415-486; SCHWARZ R., De potestate propria Ecclesiae, in Per 63(1974), 429-445. 74 Cfr. MÖRSDORF K., Einheit in der Zweiheit. Der hierarchische Aufbau der Kirche, in Archiv für katholisches Kirchenrecht 134(1965), 94. 75 Cfr. MÖRSDORF K., Das konziliare Verständnis vom Wesen der Kirche in der nachkozinliaren Gestaltung der kirchlichen Rechtsordnung, in IDEM, Schriften zum kanonischen Recht, Paderborn 1989, 493. 72

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gnifica andare contro la legge e contro la natura della potestà sacra.76 Anche Bonnet si trova a sostenere che la potestà nella Chiesa è legata alla sacramentalità della sua trasmissione e alla possibilità di una sua ricezione: vi è una differenza fondamentale tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune, che porta a distinguere tra potestà gerarchica e potestà non gerarchica.77 Tale differenza è solo funzionale perché «est in Ecclesia diversitas ministerii sed unitas missionis». Per esercitare questa pluralità ministeriale è necessario un potere, e cioè una capacità, che si è voluto, fondazionalmente, che fosse variamente graduata tra i ‘christifideles’ in ordines o collegia di persone, tutti partecipi, singolarmente e alle volte anche insieme, dell’unico ‘potere sacro’ che è nella Chiesa, ma, secondo quanto si è detto, in modo talora anche essenzialmente diverso […].78

Ma secondo l’autore ciò non significa che i laici, in virtù del battesimo, non partecipino ai tria munera sanctificandi, regendi, docendi, non solo nel mondo ma anche nella Chiesa. Cfr. MÖRSDORF K., Das konziliare Verständnis vom Wesen der Kirche, 489-491. Vd. anche MÖRSDORF K., De conceptu officii ecclesiastici, in Apollinaris 33(1960), 75-87; IDEM, Die hierarchische Struktur der Kirchenverfassung, in Seminarium 18(1966), 403-416; IDEM, Ecclesiastical Authority, in Sacramentum Mundi, vol. 2, Brescia 1969, 133-139; IDEM, De sacra potestate, in Apollinaris 40(1967), 41-57; IDEM, Das eine Volk Gottes und der Teilhabe der Laien an der Sendung des Kirches, in Ecclesia et Ius: Festgabe für Audomar Scheuermann zum 60. Geburtstag, Munich 1968, 99-119. 77 Cfr. BONNET P.A., Una questione ancora aperta: l’origine del potere gerarchico nella Chiesa, in EICan 37(1981), 109-114; IDEM, Diritto e potere nel momento originario della «potestas hierarchica» nella chiesa. Stato della dottrina in una questione canonisticamente disputata, in IusCan 5(1975), 148-149; IDEM, «Est in Ecclesia diversitas ministerii sed unitas missionis», in Droits fondamentaux, Fribourg-Freiburg-Milano 1981, 297-298; 300-301. 78 BONNET, Una questione ancora aperta, 114. 76

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La potestà sarebbe quindi originata da una parte dall’ordine sacro, dall’altra dal battesimo unitamente alla cresima.79 Tuttavia, risulta difficile distinguere nell’autore la posizione dottrinale cui vuole giungere, per il fatto che egli ingenera confusione tra i concetti di sacramentalità e di ordine sacro, di diversi ministeri e di funzioni. Corecco affermava prima della promulgazione del CIC 83 che «il Vaticano II ha messo l’accento sull’unità della “sacra potestas”. […] il potere di giurisdizione può essere conferito solo ad una persona ordinata».80 E questo perché la potestà sacra non è solo realtà unitaria, ma pure unica: la divisione tra potestà di ordine e di giurisdizione sarebbe solo quella di due aspetti formali della medesima ‘potestas sacra’. L’autore conclude quindi che «l’ipotesi che la “potestas sacra” possa essere esercitata disgiuntamente da ministri diversi, nel potere di ordine e in quello di giurisdizione, sarebbe del resto contraria a tutta la tradizione teologica cattolica».81 79 80

Cfr. BONNET, Diritto e potere, 148-149. CORECCO E., La «sacra potestas» e i laici, in Studi parmensi 29(1981),

62. CORECCO, La «sacra potestas» e i laici, 89. È interessante notare che l’autore, a p. 63 dell’articolo, cita Tommaso D’Aquino, il teologo che nella Summa Theologiae, II II, q. 39, a. 3, constatò la distinzione tra potestà di ordine e di giurisdizione non in senso solo formale, ma anche materiale. Del resto, lo stesso autore ammise che la sua posizione riguardo alla sacra potestas non è stata recepita nel nuovo Codice. Vd. anche CORECCO E., Riflessioni giuridico-istituzionali su sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, in AA. VV., Popolo di Dio e sacerdozio. Prassi e linguaggio ecclesiali, Padova 1983, 80-129; IDEM, Nature et structure de la ‘sacra potestas’ dans le doctrine et dans le nouveau Code de Droit Canonique, in Revue de Droit Canonique 34(1984), 361-389; IDEM, Natura e struttura della «sacra potestas» nella dottrina e nel nuovo Codice di diritto canonico, in Communio 75(1984), 24-52; IDEM, Die ‘sacra potestas’ und die Laien, in Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie 27(1980), 120-154; IDEM, I laici nel Codice di Diritto Canonico, in La Scuola Cattolica 112(1984), 194-218. 81

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De Paolis tratta della questione della potestà sacra, prima e dopo la promulgazione del CIC 83. Egli afferma che solo nel sacramento dell’ordine c’è la potestà di Cristo: né le fonti dogmatiche né il Concilio indicano vie diverse per il conferimento di tale potestà.82 Di conseguenza, a commento della potestà negli IR e SVA, afferma che il Codice non qualifica più come dominativa la potestà dei Superiori e dei capitoli.83 Ma sembra indubbio che essa non sia potestà di giurisdizione in foro esterno, dal momento che di essa godono soltanto i superiori di cui al §2 dello stesso canone. D’altra parte la soppressione della qualifica di potestà dominativa è eloquente per se stessa; dal momento che la dottrina era orientata unanimemente a considerarla potestà dominativa pubblica equiparata alla potestà di giurisdizione esecutiva.84

L’autore ricorda inoltre che, al §3, i canoni riguardanti la potestà esecutiva si applicano agli IVC o SVA in forza della legge, come afferma anche il can. 145 §285 riguardo a qualsiasi ufficio ecclesiastico, e perciò la potestà che vi si esercita «propriamente non è di giurisdizione, neppure esecutiva, ma viene equiparata a essa».86 Cfr. DE PAOLIS V., De natura sacramentali potestatis sacrae, in Per 65(1976), 69. 83 Cfr. DE PAOLIS V., La vita consacrata nella chiesa, Bologna 1992, 112. 84 DE PAOLIS, La vita consacrata nella chiesa, 112. 85 Obligationes et iura singulis officiis ecclesiasticis propria definiuntur sive ipso iure quo officium constituitur, sive decreto auctoritatis competentis quo constituitur simul et confertur. 86 DE PAOLIS, La vita consacrata nella chiesa, 112. Vd. anche DE PAOLIS V., La potestà di governo nella Chiesa. Gli uffici ecclesiastici (libro I, cann. 129-196), in I religiosi e il nuovo Codice di Diritto Canonico. Atti della XXIII assemblea della Conferenza Italiana dei Superiori 82

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b) potestà comune Gambari nega che la potestà di regime sia attribuita «agli Istituti secolari clericali, anche se di diritto pontificio; agli Istituti religiosi clericali di diritto diocesano e, naturalmente, agli Istituti laicali di qualsiasi genere».87 Egli chiama ‘comune’ la potestà di tutti i Superiori e capitoli degli Istituti di vita consacrata. Tuttavia, subito dopo dichiara che i Superiori e i capitoli, al can. 596 §1, «hanno sui membri la potestà di regime definita dal diritto universale e nelle costituzioni».88 Infine attribuisce a tutti i Superiori non dotati della potestà di regime, una potestà in stretta analogia con il potere di regime, pubblica ed esercitata perché a capo di un ufficio ecclesiale; con tutte le funzioni analoghe a quella di regime: legislativa, giudiziaria, esecutiva. Questo ci sembra l’autore voglia con maggior insistenza sottolineare.89 Anche secondo Kasirye essa è potestà comune da non confondersi con la potestà di governo nelle sue diverse peMaggiori. Collevalenza 8-11.11.1983 (a cura della segreteria CISM), Roma 1984, 31-63; IDEM, De significatione verborum: iurisdictio «ordinaria», «delegata», «mandata», «vicaria», in Per 54(1965), 508-516. Posizione simile anche in ERDÖ P., Il senso della capacità dei laici agli uffici nella Chiesa, in Fidelium Iura 2(1992), 185, secondo cui la capacità generale dei laici ad assumere uffici ecclesiastici proviene dal loro dovere a partecipare alla missione della Chiesa, non invece a partecipare alla potestas sacra della stessa. 87 GAMBARI E., Vita religiosa oggi secondo il Concilio e il nuovo Diritto Canonico, Roma 1983, 514. Egli cita in nota l’Ordine Ospedaliero di S. Giovanni di Dio, IR laicale di diritto pontificio che gode per privilegio dell’esenzione ed esercita potestà di regime. Cfr. SAUCEDO R.M., Exercitium Iurisdictionis Ecclesiasticae et Superiores Laici ex Ordine Hospitalitario S. Joannis de Deo, Roma 1932, 35-54. 88 GAMBARI, Vita religiosa oggi secondo il Concilio, 515. 89 Cfr. GAMBARI, Vita religiosa oggi secondo il Concilio, 515; IDEM, I religiosi nel codice, Milano 1986, 77. La posizione dell’autore è comunque difficile da inquadrare.

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culiari funzioni, soprattutto perché essa è solo per il foro esterno, né tanto meno da confondersi con la potestà privata usata per alcune associazioni private di fedeli. Secondo l’autore essa sarebbe fondata sul voto di obbedienza, ma sarebbe pubblica.90 Ma – ed è interessante notarlo – «a riguardo della partecipazione dei religiosi laici nel governo degli istituti religiosi clericali, non ci dovrebbero essere ragioni per rifiutare membri laici per essere assunti nel governo di istituti diocesani clericali dal momento che questi non hanno potestà ecclesiastica di governo sia per il foro esterno che interno, come regolato dal c. 596 §2».91 Dammertz sottolinea che è la Chiesa ad erigere l’Istituto, a riconoscerne la missione e approvarne le costituzioni: «per questo ai superiori ed ai capitoli è dato un potere che esiste indipendentemente dalla volontà dei membri. La professione ed il voto di ubbidienza non sono la fonte costitutiva del potere dei superiori; il religioso piuttosto si sottomette attraverso la sua professione a questo già esistente potere dei superiori».92 In questo modo afferma che la potestà di cui gode il superiore è ordinaria e di natura pubblica ecclesiastica, non privata. Tuttavia, non si sbilanCfr. KASIRYE K.A., Authority and the power of governance in Institutes of Consacrated Life and Societes of Apostolic life: a juridicaltheological study of c. 596, Roma 2002, 116. Cfr. anche MONTAN A., Gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, in AA. VV., Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. II, Roma 1990, 233. 91 KASIRYE, Authority and the power of governance, 116 [nostra traduzione]. Ciò farebbe anche capire perché nei vari schemi di preparazione del Codice, il secondo paragrafo dell’attuale can. 596 veniva presentato senza la formula iuris pontifici, dando potestà ecclesiastica di regime a tutti gli Istituti religiosi clericali. Vd. già al riguardo GALLEN J.F., Canon law for religious after Vatican II, in RevRel 32(1973), 1286-1287. 92 DAMMERTZ V., La nuova figura del Superiore, in AA.VV., Il nuovo diritto dei religiosi, Roma 1984, 136. 90

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cia nel definirla ulteriormente, se non chiamandola ‘comune’ a tutti gli Istituti.93 Anche D’Ostilio chiama la potestà di cui al §1 comune, definendola come «la potestà domestica, socio-comunitaria, che compete ad ogni superiore religioso, per reggere i sudditi in ordine al conseguimento del fine proprio dell’IVC».94 Tuttavia, nel prosieguo dell’opera afferma che «gli elementi essenziali dell’atto amministrativo sono i seguenti: soggetto, volontà, oggetto, contenuto, causa, forma […] Il soggetto, ossia l’autore dell’atto amministrativo, è una persona fisica o giuridica che sia organo, ufficiale, della Pubblica Amministrazione: della Chiesa Universale, di una Chiesa Particolare, di uno IVCR o di una SVA, dotato della specifica competenza […]».95 Tale è la competenza anche degli IVC laicali di diritto pontificio e diocesano, tanto da dover sostenere che essi esercitano potestà ecclesiastica di governo, stando al dettato dei canoni. Esposito sostiene che non si può parlare di potestà di regime ecclesiastica per quanto riguarda il can. 596 §1.96 Infatti, esso «parla della potestà comune a tutti gli Istituti, quella che il Codice Piano-Benedettino al can. 501 §1 chiamava potestà dominativa che, come abbiamo già notato, deve essere anche essa considerata ecclesiastica perché data attraverso il ministero della Chiesa e collegata ad un Così pure DI SILVESTRI G.M., Life in common an integral part of religious life as exemplified in the Congregation of the Sisters of Saint John the Baptist, Roma 1986, 65. 94 D’OSTILIO F., Il diritto amministrativo della Chiesa, Città del Vaticano 1995, 244. 95 D’OSTILIO, Il diritto amministrativo, 301-302. Vd. anche D’OSTILIO F., Necessità e funzione della sacra potestà nella Chiesa, in MonEccl 118(1993), 299-316. 96 Cfr. ESPOSITO B., Alcune riflessioni sul Superiore maggiore in quanto Ordinario e sulla valenza ecclesiologica e canonica della qualifica, in Angelicum 78(2001), 713. 93

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ufficio ecclesiastico a norma del can. 145 §1. Pur tuttavia questa non deve essere confusa con la potestà di governo».97 c) potestà pubblica – ecclesiastica Montan dice che «tale potestà è propria di ‘tutti’ gli Istituti di vita consacrata ed è distinta dalla potestà ecclesiastica connessa al sacramento dell’ordine»,98 sottolineando le incertezze che derivano circa la terminologia da usare per indicare questa stessa potestà.99 Egli definisce la potestà di cui al can. 596 §1 come ‘potestà religiosa ordinaria’.100 In un’opera successiva, la indica invece come ‘potestà ecclesiastica pubblica’.101 L’autore specifica che la potestà ecclesiastica di governo per gli Istituti e le Società clericali di diritto pontificio è dovuta all’incardinazione dei ministri sacri in questi stessi Istituti e Società: si stabilisce così chi sia il loro Ordinario.102 97 ESPOSITO, Alcune riflessioni sul Superiore maggiore in quanto Ordinario, 712. Secondo l’autore, che riprende GAMBARI, I religiosi nel codice, 51, questa potestà ha una doppia componente: l’erezione dell’Istituto ed approvazione delle costituzioni da parte della Chiesa e l’Istituto stesso, cui la Chiesa attribuisce effetti giuridici nel proprio ordinamento. 98 MONTAN A., Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Normativa, in GHIRLANDA G.-DE PAOLIS V.-MONTAN A., La vita consacrata, Bologna 1983, 161. 99 Va notato che questo stesso autore fa riferimento all’esercizio della potestà esecutiva da esercitarsi secondo i cann. 31-33 per i decreti generali esecutivi e 48-58 per i decreti e precetti singolari. Cfr. MONTAN, Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, 161. 100 Cfr. MONTAN, Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, 167. 101 Cfr. MONTAN A., Il diritto nella vita e nella missione della Chiesa. 1. Introduzione. Norme generali. Il popolo di Dio (Libri I e II del Codice), Bologna 2000, 285. 102 Cfr. MONTAN A., Gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. II, Roma

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Lesage chiama la potestà di cui al §1 del can. 596 col nome di «pouvoir public de governement»,103 ‘potestà pubblica di governo’, riconoscendola ai Superiori laici di Istituti maschili e femminili, maggiori e locali. Allo stesso tempo distingue una potestà ecclesiastica di governo ‘maggiore’ per gli Ordinari o Superiori maggiori degli Istituti clericali di diritto pontificio, ‘minore’ per i Superiori anche locali degli Istituti religiosi clericali di diritto pontificio,104 creando delle distinzioni non presenti nel Codice esplicitamente e ricordando che la potestà ecclesiastica di governo esige il sacramento dell’ordine. Nel suo commento al can. 35 circa l’autorità competente ad emanare gli atti amministrativi singolari, Miras dichiara che non basta una qualsiasi potestà pubblica per emanare atti amministrativi singolari: «nemmeno lo sono gli atti giuridici realizzati in virtù di una potestà pubblica che non sia esecutiva: per dare un atto amministrativo singolare è necessaria la potestà esecutiva».105 Tuttavia, nota successivamente che gli atti di governo provenienti dagli IVC non provengono propriamente da potestà ecclesiastica di regime, perché «congrua congruis referendo […] sebbene non sia potestà esecutiva, le si applicano le norme sulla potestà esecutiva ».106 1990, 231. Tuttavia lo stesso autore contrappone la struttura gerarchica della Chiesa alla natura carismatica degli IVC (vd. p. 242) per affermare la fondamentale differenza con la potestà gerarchica. Ci chiediamo se non sia più rispettoso della natura pneumatologica della Chiesa, affermare che sia la gerarchia sia la vita consacrata sono doni dello Spirito Santo per l’utilità comune. 103 LESAGE G., Renouveau de la vie religieuse, 59. 104 Cfr. LESAGE, Renouveau de la vie religieuse, 59. 105 MIRAS J., Capitulo I Normas comunes. Cc. 35-47, in MARZOA A.-MIRAS J.-RODRÌGUEZ-OCAÑA R. (a cura di), Comentario exegético al Còdigo de Derecho Canònico, Pamplona 19963, 503-504 [nostra traduzione]. 106 MIRAS J., Capitulo I Normas comunes. Cc. 35-47, 504.

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È definita potestà dominativa pubblica da Pazhayampallil, il quale la distingue dalla potestà giurisdizionale e nota che è esercitata negli IVC ed SVA, in quanto «è una partecipazione imperfetta della potestà giurisdizionale della Chiesa».107 Essa verrebbe direttamente dal Papa agli Istituti e da questi ai loro Superiori, i quali quindi non eserciterebbero in forza del voto d’obbedienza (in quanto anche nelle SVA, pur non avendo voti, essa viene esercitata).108 Attenendosi alle sole espressioni del Codice e della Commissione preparatoria del Codice, Rincòn-Pérez afferma che potrebbe esistere un tertium quid in cui «la potestà pubblica nella Chiesa tenga anche manifestazioni differenti: quella di regime propriamente detta, molto vincolata al sacramento dell’Ordine, e quella pubblica di indole associativa».109 L’autore propone di trasporre questa potestà a tutte le associazioni pubbliche, sostenendo che questa potestà pubblica «alcune volte riveste natura di vera giurisdizione, e altre al contrario, ha solo carattere associativo, per quanto la sua finalità rimanga il governo dei fedeli che volontariamente si ascrivono a detta associazione, nel caso dei religiosi, mediante la professione religiosa e l’emissione dei voti sacri, tra questi, quello di obbedienza».110 RinPAZHAYAMPALLIL T., A Commentary on the new Code of Canon Law, Bangalore 1985, 425 [nostra traduzione]. 108 Cfr. PAZHAYAMPALLIL, A Commentary on the new Code of Canon Law, 426. 109 RINCÒN-PÉREZ T., Titulo I Normas comunes a todos los Institutos de vida consagrada. Cc. 573-606, in MARZOA A.-MIRAS J.-RODRÌGUEZOCAÑA R. (a cura di), Comentario exegético al Còdigo de Derecho Canònico, Pamplona 19963, 1472 [nostra traduzione]. 110 RINCÒN-PÉREZ, Titulo I Normas comunes, 1472; IDEM, La aplicacion del nuevo Codigo de Derecho Canonico en el ambito de los Institutos de vida consagrada (Comentarios de los decretos de las SCRIS de 2.II.1984), in IusCan 25(1985), 272. 107

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còn-Pérez, ancora, afferma che «sebbene gli Istituti secolari clericali e quelli di diritto pontificio non sono, in linea di principio, titolari della potestà ecclesiastica di regime, pure possono ottenerla con lo stesso atto di concessione della facoltà di incardinare».111 Diversamente, Martinez Sastre afferma commentando il can. 129 §2 che i religiosi possono partecipare alla potestà di regime perché «in quella si afferma categoricamente che i non ordinati possono cooperare nel suo esercizio»,112 come nel caso dell’indulto di dimissione che una Superiora generale può concedere a una religiosa di voti temporali. Tuttavia, commentando il can. 596 §1, dimentica quanto appena affermato e sostiene che «gli istituti di religiose non posseggono alcuna potestà di regime che sempre va annessa alla potestà sacra di Ordine».113 Definisce questa potestà come ‘potestà ecclesiastica’ o semplicemente ‘potestà’. Così anche Senofonte considera che la potestà ecclesiastica di governo, già nel lavoro del Coetus di preparazione del Codice, sia affermata per gli Istituti religiosi laicali tutti e per quelli clericali di diritto diocesano e secolari, ma non esercitata in modo pieno.114 Infatti, solo negli IR e nelle SVA clericali di diritto pontificio essa è ricevuta ed RINCÒN-PÉREZ T., Pars III. De institutis vitae consecratae et de societatibus vitae apostolicae. Cc. 573-746, in ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, 447. Cfr. anche RINCÒN-PÉREZ T., Pars III. De institutis vitae consecratae et de societatibus vitae apostolicae, in LOMBARDÌA P.-ARRIETA J.I. (a cura di), Codigo de Derecho Canonico. Edicion anotada, Pamplona 1983, 400. 112 MARTINEZ SASTRE P., Las religiosas en el nuevo Codigo de Derecho Canonico, Murcia 1983, 22 [nostra traduzione]. 113 MARTINEZ SASTRE, Las religiosas en el nuevo Codigo, 55. 114 Cfr. SENOFONTE B., La potestas degli Istituti di vita consacrata (cann. 596, 617, 618), in MonEccl 117(1992), 313. 111

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esercitata in modo pieno. Secondo l’autore, «conferma pratica di questa dottrina sicura è data dal fatto che questi Istituti incardinano ministri sacri (chierici) i quali devono avere un loro proprio Ordinario».115 Tuttavia, l’autore conclude, dopo tali premesse, asserendo che «nei due paragrafi del can. 596 si tratti di due potestà distinte, di natura diversa», come potrebbe essere confermato dall’avverbio insuper.116 Recchi sottolinea che, sebbene la potestà di cui al §1 non possa essere considerata una delegazione di potere fatta dalla gerarchia, essa non va considerata una «potestà di giurisdizione di foro esterno, goduta solo dai superiori di cui al can. 596 §2».117 Tuttavia, la stessa autrice nota che questa potestà non può nascere dal voto e quindi essere di natura privata, perché il voto non conferisce ai Superiori tutte le competenze per svolgere la missione propria dell’Istituto.118 d) potestà indefinita Non dà alcuna denominazione a questa potestà Gallen, il quale ricorda che «superiori provinciali e locali devono possedere l’autorità necessaria almeno per il governo normale della provincia e delle case […]».119 Lo stesso autore nota che questi Superiori esercitano una ‘potestà giudiziale imperfetta’ sui membri dell’Istituto e una ‘potestà coercitiva’ di imporre pene conformi al diritto particolare.120 SENOFONTE, La potestas degli Istituti di vita consacrata, 313. SENOFONTE, La potestas degli Istituti di vita consacrata, 317. 117 RECCHI S., Commento ai cann. 573-709, in AA.VV., Codice di diritto canonico commentato, (a cura della Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale), Milano 2001, 519. 118 Cfr. RECCHI, Commento ai cann. 573-709, 519. 119 GALLEN J.F., Canon Law for Religious: an explanation, New York 1983, 34 [nostra traduzione]. 120 Cfr. GALLEN, Canon Law for Religious, 34-35. 115 116

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Valtorta afferma che la potestà negli Istituti femminili non è sacra e che i capitoli non hanno potestà esecutiva.121 Tuttavia, va notato che i capitoli emanano decreti generali esecutivi, quindi essi devono possedere anche potestà esecutiva generale ai sensi del can. 31 §1 (oltre a potestà legislativa), la quale sarà personale perché esercitata non su un territorio ma su un gruppo di persone determinato.122 Si limita solo a riportare il can. 596 §1 Arboleda Valencia che, nel commentare la parte comune a tutti gli IVC, rimanda al diritto proprio dell’Istituto, lasciando alla dottrina di altri l’approfondimento della potestà dei Superiori e dei capitoli.123 Nel suo commento al can. 596 §1, Williamson afferma che la potestà definita dal diritto universale e dalle costituzioni per i Superiori non va confusa con la potestà ecclesiastica di governo di cui al §2, pur essendo simile ad

Cfr. VALTORTA U., Le norme comuni agli Istituti di vita consacrata, in AA.VV., Gli Istituti religiosi nel nuovo Codice di Diritto Canonico, Milano 1984, 101. L’affermazione è rilevante, quanto meno perché non considera gli Istituti religiosi laicali maschili a priori, creando una differenza di trattamento indebita che va contro il disposto del can. 606. 122 Cfr. CONGREGATIO PRO RELIGIOSIS ET INSTITUTIS SAECULARIBUS, decr. Iuris Canonici Codice, 2 febbraio 1984, in AAS 76(1984), 499; GARCÌA MARTÌN J., Atti amministrativi generali, Roma 2004, 138142. Vd. anche MIRAS J.-CANOSA J.-BAURA E., Compendio de Derecho Administrativo Canònico, Pamplona 2001, 82. 123 Cfr. ARBOLEDA VALENCIA H.D., Le norme comuni agli Istituti di vita consacrata. Superiori, Consigli e Capitoli (L. II, P. III, Cann. 573633), in AA.VV., I religiosi e il nuovo Codice di Diritto Canonico. Atti della XXIII Assemblea CISM. Collevalenza (PG) 8-11 Novembre 1983, Roma 1984, 115; 122. Un altro autore, CORIDEN J.A., An introduction to Canon Law, New York 1991, 156, 96, afferma che il Codice resta volutamente ambiguo riguardo alla cooperazione dei laici al governo nella Chiesa, per lasciar spazio ad applicazioni diverse. 121

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essa in molti aspetti.124 Ma non viene indicato che tipo di potestà essa possa essere. Nel suo commento ai canoni comuni agli IVC, O’Hara afferma che tale potestà descritta al §1 è applicabile a tutti i livelli di Superiori e capitoli nell’Istituto, ma non ne dà alcuna specifica denominazione.125 Solo ricorda la proposta della Canon Law Society of America di cambiare le parole «gaudent ea potestate», per non lasciar adito a fraintendimenti, quasi che questa potestà provenisse dal voto di obbedienza.126 Nella stessa opera, Modde fa riferimento all’erezione e soppressione di case e di province religiose senza mai dire la potestà di cui deve godere l’autorità competente;127 tale è anche la sua posizione commentando il can. 617.128 In maniera limitativa e, per certi aspetti, negativa, Labandeira afferma essere soggetti della potestà esecutiva coloro che sono denominati Ordinari nel can. 134 §1, vale a dire il Romano Pontefice, i Vescovi diocesani ed equiparati, quelli che vi esercitano potestà esecutiva ordinaria generale, i Superiori maggiori degli IVC e SVA clericali di

Cfr. WILLIAMSON E., Commentary in can. 596, in AA.VV., The Canon Law. Letter & Spirit. A practical guide to the Code of Canon Law, Trowbridge, Wiltshire 1995, 328. Della stessa opinione, anche se trattando un argomento diverso, circa i Superiori non chierici negli IVC clericali, è WOESTMAN W.H., De Institutis clericalibus vitae consecratae et Superioribus non clericis, in MonEccl 110(1985), 416; 419. 125 Cfr. O’HARA E., Norms Common to All Institutes of Consecrated Life. Canons 573-606, in HITE J.-HOLLAND-S. WARD D. (a cura di), A Handbook on canons 573-746, Collegeville Minnesota 1985, 50-51. 126 Cfr. O’HARA E., Norms Common to All Institutes of Consecrated Life, 50. 127 Cfr. MODDE M.M., Religious Houses and Governance : Canons 607-633, in HITE J.-HOLLAND S.-WARD D. (a cura di), A Handbook on canons 573-746, Collegeville Minnesota 1985, 66-67. 128 Cfr. MODDE, Religious Houses and Governance, 74. 124

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diritto pontificio.129 Coloro che emettono atti amministrativi singolari sarebbero «sottomessi a fiscalizzazione tanto del superiore gerarchico (cc. 1400 §2 e 1732-1739) come del tribunale amministrativo (cc. 1400 §2 e 1445 §2)».130 Tuttavia, tra questi non rientrerebbero i Superiori di Istituti laicali, in quanto non elencati tra gli Ordinari al can. 134 §1. e) potestà laica – battesimale Aymanathil la definisce ‘potestà laica’, creando un’ulteriore categoria.131 Egli prosegue affermando che questa potestà laica ha il suo fondamento «nel diritto associativo ed anche nella concessione su parte della Chiesa. […] così in conclusione noi non possiamo che includere la potestà menzionata nel can. 596 §1 nella categoria di potestà concessa alle associazioni».132 Alla luce del Concilio Vaticano II, Marcuzzi afferma che la fonte della potestà del can. 596 §1 è il battesimo che conferisce a ciascun fedele il sacerdozio comune (LG 10). Infatti, c’è una differenza sostanziale, qualitativa, tra la potestà di cui al can. 596 §2 e quella di cui al §1, pur essendo la potestà di natura sacramentale.133 Dunque, essa è ‘potestà battesimale’, mentre quella del capitolo deriverebbe indirettamente dalla Chiesa stessa, il Vescovo diocesano per gli Istituti di diritto diocesano, la Santa Sede 129 Cfr. LABANDEIRA E., La distinction de poderes y la potestad ejecutiva, in IusCan 28(1988), 95. 130 LABANDEIRA, La distinction de poderes, 96 [nostra traduzione]. 131 Cfr. AYMANATHIL J., Personal Authority of the Religious Superiors in the Legislation of the Church, Roma 1989, 17. 132 AYMANATHIL, Personal Authority of the Religious Superiors, 22-23 [nostra traduzione]. 133 Cfr. MARCUZZI P.G., Natura della Potestà degli Istituti di Vita Consacrata, in AA.VV., Lo stato giuridico dei consacrati per la professione dei consigli evangelici, Città del Vaticano 1985, 115-118.

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per quelli di diritto pontificio. Entrambe dunque sono sostanzialmente, e non formalmente, diverse da quella descritta nel §2.134 Esponendo il tema della potestas regiminis, Arrieta afferma che «le prescrizioni generali di questo titolo, nella misura in cui la natura della questione o la stessa legge non vi osti, sono dirette a disciplinare il potere giuridico dei superiori ed i capitoli degli istituti di vita consacrata, sia maschili che femminili».135 Ma, continua, la natura della potestà giuridica che viene esercitata è diversa: mentre l’una scaturisce dalla dipendenza giuridica che, in considerazione degli obblighi nascenti dal Battesimo, si stabilisce con l’autorità gerarchica della Chiesa (potestà gerarchica o di giurisdizione sensu stricto); dall’altra invece, si basa sull’impegno d’obbedienza al superiore giuridicamente assunto con il vincolo sacro (potestà che il CIC 17 chiamava ‘dominativa’).136

Non è perciò possibile confondere le due potestà, né darne un significato di cooperazione da parte di laici alla seconda. f) potestà propria Ara osserva il tema della potestà nella Chiesa e negli IVC innanzitutto dal punto di vista del servizio: se la natura e caratteristiche della potestà negli IVC è conforme a 134 Cfr. MARCUZZI P.G., Natura della Potestà degli Istituti di Vita Consacrata, in MonEccl 110(1985), 114-115; 118. Lo stesso autore preferisce parlare di differenza qualitativa della potestà e insiste a questo riguardo sulla natura sacramentale delle potestà. 135 ARRIETA J.I., Titulus VIII. De potestate regiminis, in ARRIETA J.I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, 143. 136 ARRIETA, Titulus VIII. De potestate regiminis, 143.

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quelle della Chiesa stessa, ciò è dovuto all’insegnamento evangelico.137 Perciò, «sono gli istituti religiosi clericali di diritto pontificio quelli che godono di potestà di regime o di governo in senso pieno, mentre negli altri istituti si riconosce una certa abilità per l’esercizio di questa potestà, escluso sempre l’ordine sacro in coloro che non abbiano ricevuto il sacerdozio».138 Definisce questa la ‘potestà propria’ di ogni Istituto, di carattere pubblico anche se non autentica potestà di regime ecclesiale.139 Nella stessa posizione si trova anche Holland che, criticando le posizioni della Commissione per la Revisione del Codice, afferma che le costituzioni di ogni Istituto devono definire attentamente la potestà propria dei Superiori e dei capitoli.140 Non si spinge oltre nel definire quale tipo di potestà gli stessi IR o IVC in genere esercitino al loro interno.141 137 Cfr. ARA S., La potestad de gobierno en los Institutos de vita consagrada, in Laurentianum 32(1991), 371. Vd. anche SPITERIS J., “Potestas regendi” e sacerdozio in rapporto alla vita religiosa. Una retrospettiva storica, in Laurentianum 28(1987), 376. 138 ARA, La potestad de gobierno, 382 [nostra traduzione]. 139 Cfr. ARA, La potestad de gobierno, 386. 140 Cfr. HOLLAND S.L., Commentary on cann. 573-606, in CORIDEN J.A.-GREEN T.J.-HEINTSCHEL D.E. (a cura di), The Code of Canon Law. A text and commentary, Mahwah 1985, 463. Va notato che anche in questa traduzione anglofona del Codice, come in molte altre (per es., The Code of Canon Law in English translation. Prepared by The Canon Law Society of Great Britain and Ireland in association with The Canon Law Society of Australia and New Zealand and The Canadian Canon Law Society, Bath 1983; The Canon Law. Letter & Spirit. A practical guide to the Code of Canon Law, Trowbridge, Wiltshire 1995), il termine potestas viene tradotto con il termine inglese authority. Questa traduzione sembra essere quanto mai erronea, perché incapace di attribuire al soggetto investito di tale autorità i rispettivi doveri, diritti e facoltà. 141 Cfr. HOLLAND, Commentary on cann. 573-606, 464. E questo nonostante nella stessa opera si evincano posizioni diverse, quali possono essere quelle di RISK J.E., Commentary on cann. 29-95, in

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g) potestà spirituale Nel commentare il can. 596 §1, Khoury traduce lo stesso con «i Superiori ed i capitoli degli istituti godono verso i soci di quella autorità, la quale è definita nel diritto universale e nelle costituzioni».142 Con questa traduzione errata, l’autore prosegue negando che tale potere provenga da una delega fatta dalla gerarchia o «dalla volontà dei membri che si danno un superiore per farsi governare».143 Perciò egli la qualifica come ‘potestà spirituale’, in quanto gli IVC ed SVA traggono origine dallo Spirito Santo. Tuttavia, l’autore nota che «negli istituti religiosi questo potere è, in più, ecclesiale e quindi aggregato al potere dei Vescovi, ha carattere giurisdizionale, in virtù del quale i superiori esercitano un potere in foro interno ed esterno».144 h) potestà religiosa Dal canto suo, Castaño indica che la potestà di governo negli Istituti religiosi è «una potestà ‘religiosa’ che compete ai superiori e capitoli di tutti gli istituti religiosi, anche agli istituti laicali».145 Quanto alle sue caratteristiCORIDEN J.A.-GREEN T.J.-HEINTSCHEL D.E. (a cura di), The Code of Canon Law. A text and commentary, Mahwah 1985, 49, a riguardo degli atti emanati dai Superiori di IR di diritto pontificio in generale. 142 KHOURY J., Commento ai cann. 573-661, in PINTO P.V. (a cura di), Commento al Codice di Diritto Canonico, Città del Vaticano 1985, 356. 143 KHOURY, Commento ai cann. 573-661, 356, tesi ampiamente confutata nei capp. I-II. 144 KHOURY, Commento ai cann. 573-661, 356. Sembra strana tale posizione, probabilmente dovuta ad un errore, nel dimenticarsi che anche gli IR possono essere clericali o laicali, a norma del can. 588. Lo stesso errore, come pure l’errata traduzione del canone, è stato fatto anche nella seconda edizione del testo; vd. PINTO P.V. (a cura di), Commento al Codice di Diritto Canonico, Città del Vaticano 20012, 361. 145 CASTAÑO J.F., La vita religiosa. Exposicion teologico-juridica, Salamanca 1998, 95 [nostra traduzione].

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che, essa è «di natura spirituale, tipica della Chiesa, ma, sebbene sia potestà di governo nella Chiesa, non si identifica con la potestà ‘ecclesiastica di governo’ [...]».146 Tuttavia, circa la potestà propria degli Istituti secolari, l’autore non trova espressioni adatte a descriverla.147 Sembra sicuro invece che essa «appartiene alla Chiesa, partecipa logicamente della natura della ‘potestà ecclesiastica’».148 Moreno, prendendo ad esame le norme generali, pone tra i soggetti attivi degli atti amministrativi singolari i soli Superiori degli Istituti di vita consacrata o apostolica clericali di diritto pontificio.149 Non entrando nel merito di una terminologia impropria per descrivere le Società di vita apostolica che emerge nel trattato dell’autore, tuttavia si deve notare l’incompletezza dell’elenco di coloro che possono esercitare potestà di regime esecutiva. i) potestà del governante Liguori Okure afferma con forza, in riferimento al can. 596 §1, che «i superiori partecipano a ‘quella stessa potestà’ di regime cosiddetta potestà di giurisdizione secondo la natura di ogni istituto».150 Infatti, l’autrice sostiene che CASTAÑO, La vita religiosa, 96. Cfr. CASTAÑO J.F., Gli Istituti di vita consacrata: cann. 573-730, Roma 1995, 144. L’autore sostiene che il fondamento prossimo di questa potestà è la professione dei consigli evangelici, soprattutto il voto d’obbedienza. 148 CASTAÑO, Gli Istituti di vita consacrata, 147; 150. A p. 148-149 sembra avvicinarsi molto all’affermare che i Superiori laici cooperano nell’esercizio della potestà di regime e, cioè, operano con quanti sono insigniti dell’ordine sacro nella Chiesa. 149 Cfr. MORENO J.M.D., Derecho canonico. Parte general y matrimonial, Madrid 20004, 58. 150 LIGUORI OKURE M., Church authority as service with particular attention to consecrated life, Roma 2003, 135 [nostra traduzione]. 146 147

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tutti i Superiori possiedono potestà ordinaria sia propria che vicaria, delegabile ed esercitabile secondo i limiti del mandato; inoltre, essi possiedono potestà esecutiva ordinaria legata a tutte le caratteristiche proprie della delega di potestà.151 Tuttavia, nel seguito del suo lavoro dottorale, chiama potestas gubernantis la potestà di cui al §1, sostenendo inadeguati tutti gli altri appellativi che gli sono stati dati e che essa, seppur molto simile alla potestà di regime, «non è interamente corrispondente alla potestà di governo della Chiesa».152

5.2. Diversità di vedute: prospettive ermeneutiche Come si è notato, è difficile trovare una linea comune tra i diversi autori nella trattazione del tema della potestà che il diritto universale e le costituzioni definiscono. Tra coloro che sostengono che tale potestà è la stessa potestà di regime della Chiesa e coloro che trovano altri titoli per definirla sembra esserci un divario incolmabile. A coloro che sostengono che la potestà di governo è inscindibilmente ‘unita al sacramento dell’ordine’, prima e dopo la promulgazione del CIC 83, si può rispondere non solo con una lettura dal punto di vista positivo dello stes151 Cfr. LIGUORI OKURE, Church authority as service, 134-135. Questo è comprensibile perché “la potestà del Superiore è servizio; egli deve governare come colui che serve, perché è obbligato per ufficio a servire comandando”; BOCCARDELLI B., La dignità del religioso e la potestà del superiore nel nuovo codice di Diritto Canonico, in DirEccl 97(1986), 345. 152 LIGUORI OKURE, Church authority as service, 165. A questo punto, per soddisfare le esigenze di tutti, si potrebbe provvedere mantenendo la locuzione stessa riportata nel canone, senza ulteriori specificazioni.

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so Codice, ma anche con una lettura dal punto di vista teologico-dogmatico della stessa posizione. Dal punto di vista giuridico, il Codice in più casi stabilisce che i laici possono cooperare all’esercizio della potestà di governo con la gerarchia. Gran parte della dottrina, infatti, afferma questo quando si osservano i canoni concreti in cui la potestà viene esercitata anche da laici. Si nota in particolare il can. 1421 §2 circa la nomina del giudice laico in un collegio di tre giudici. Dal punto di vista teologico, basti ricordare il già citato Folio ex officio della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede153 che non negava uffici ecclesiastici ai laici, se non quelli intrinsecamente legati al sacramento dell’ordine. Inoltre ci si pone di fronte il problema storico: come giustificare tutte le situazioni oggettive in cui i laici in passato154 hanno esercitato potestà di governo? Ciò và poi confrontato con la delegazione di potestà fatta dallo stesso Romano Pontefice o dalla gerarchia. La definizione di potestà ‘comune’ a tutti gli IVC ed SVA così come espressa da molti autori, sembra non potersi sostenere per diverse ragioni. Anzitutto, si noti che quegli stessi Superiori possono e in alcuni casi devono emettere decreti, indulti, rescritti, atti tutti appartenenti alla potestà esecutiva nella Chiesa. In secondo luogo, si osserva che i capitoli esercitano potestà legislativa. Inoltre, i Superiori ricoprono un ufficio cui è annessa potestà ordinaria. A rigor di logica, proseguendo con l’affermazione che quella che esercitano è potestà comune ma non di governo, si potrebbe osservare che tale potestà in realtà non può

153 154

Vd. paragrafo 3.4.1. Vd. cap. I.

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essere tanto comune: come sostenere che i Superiori hanno potestà comune con i capitoli? Se poi a definirla sono, oltre al diritto comune (che applica diversa legislazione per gli IR, gli IS e le SVA) anche le costituzioni e quindi il diritto particolare, come affermare che essa è comune a tutti gli IVC (e per combinato disposto anche alle SVA) se poi ogni Istituto può definirla in maniera diversa e darne diversi contenuti? Sembra potersi dire che tutto questo sia una contraddizione in termini. Il titolo di potestà ‘pubblica’ o ‘ecclesiale’ trova il proprio fondamento nel lavoro di formazione del Codice da parte della Commissione preparatoria. Esso definisce il carattere di questa potestà, ne dà una connotazione pubblica nella Chiesa e perciò la definisce ecclesiastica e, in questo, non sbaglia. Tuttavia ci si chiede se la Chiesa definisca nel libro I sulle norme generali qualche altro tipo di potestà pubblica al suo interno; o se lo stesso libro I non sbagli nel ritenere necessaria la potestà esecutiva per produrre atti amministrativi singolari: non potrebbe bastare la potestà pubblica? Sembra perciò una posizione limitativa e che non si spinge nel definire di che tipo di potestà pubblica si tratti questa dei Superiori e dei capitoli. Gli autori, invece, che non definiscono la potestà di cui al §1 del can. 596 sono diversi. A riguardo di questa posizione non sembra sconveniente dare la stessa risposta usata dagli autori stessi. Alcuni autori la definiscono potestà ‘laica’, trovando la sua fonte nel sacramento del battesimo. Essa non viene assimilata alla potestà del giudice laico che pure, se tale è il suo stato nella Chiesa, dovrebbe essere laica. Inoltre, afferma che tale potestà trova origine nel battesimo comune a tutti i fedeli e che li rende tutti sacerdoti, re e profeti, an-

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che se in diverso modo. Ma dai documenti conciliari non emerge in alcun luogo che il battesimo abiliti ad un qualche tipo di potestà, contrapposta alla potestà di governo della Chiesa. Essa sembra creare piuttosto due tipi diversi di potestà, quasi che il can. 129 §2 non parlasse di cooperazione nell’esercizio della stessa potestà sacra, quanto invece di esercizio di potestà laicale di origine battesimale. Tale posizione è perciò inaccettabile. La cosiddetta potestà ‘propria’ dei Superiori e dei capitoli non dice in realtà niente di nuovo. Infatti, ogni ufficio esercita la potestà che le è propria, ma ciò non significa definirla, quanto piuttosto sviare il problema circa il suo contenuto materiale e formale. Un autore usa per questa potestà il termine di potestà ‘spirituale’. Essa definisce l’origine della potestà in sé, non invece la sua qualità. Tuttavia, a tale posizione si potrebbe ribattere che anche la potestà sacra nella Chiesa ha origine spirituale ed è, certamente, il vertice di ogni potere spirituale nella Chiesa. Invece, questo autore non assimila tale potestà a quella sacra, pur riconoscendola come potestà ecclesiastica. Ciò che si può rilevare, tuttavia, è che l’idea di potestà spirituale sembra richiamare in qualche modo ad una potestà di ordine privato, nonostante si faccia espresso riferimento all’origine non umana della stessa. La potestà ‘religiosa’ definita da Castaño rimanda ad una potestà di ordine meramente privato, che fa riferimento alla precedente potestà dominativa del CIC 17 e al voto di obbedienza circa la sua origine. Essa inoltre non è potestà uguale in tutti gli IVC: secondo l’autore essa è qualitativamente diversa negli IS rispetto a quella negli IR. Questo sembra essere contraddittorio, in quanto anche le

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SVA non hanno membri religiosi, tuttavia esercitano gli stessi diritti e doveri degli IVC, e viene loro attribuita potestà religiosa. In realtà, l’autore definisce religiosa questa potestà, che si potrebbe meglio dire ‘potestà degli IVC ed SVA’, cioè dei religiosi in senso ampio, dei consacrati. L’ultimo autore la definisce potestas gubernantis, e certamente il termine non è inappropriato. Tuttavia, non definisce tanto la potestà in sé, quanto piuttosto chi la esercita, il suo soggetto attivo, in un modo piuttosto generico. Si dovrebbe in questo caso guardare alle varie categorie di ‘governanti’ presenti nella vita consacrata (interni ed esterni), creando così una gran quantità di classificazioni, di gruppi e tipi, dando ad ognuno attribuzioni diverse. Si ricadrebbe nella divisione quantitativa della potestà, ma non qualitativa. Tutte queste posizioni dottrinali sembrano affondare le proprie radici sul can. 129 §1 e in una lettura esclusiva del can. 274 §1, non prendendo in considerazione il can. 228 §1 e la natura degli Istituti e Società laicali, secondo il can. 588. A tali posizioni si cercherà ora di rispondere sul piano ecclesiologico per fondare secondo un modello conciliare il can. 129 §2 circa la cooperazione all’esercizio della potestà sacra da parte dei laici.

5.3. Linee personali Se da un lato si deve dunque affermare che anche i laici, conformemente alle disposizioni del CIC 83, esercitano potestà di regime, si può dall’altro notare che il Codice stesso non fa alcun riferimento alla dottrina, alla «potestas sacra ordini sacro innixa» o «non innixa». Con l’affermare che anche i laici possono esercitare – e di fatto lo fanno –

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potestà di governo, non arriva a sostenere che la dottrina che presenta il sacramento dell’ordine come fonte di tutta la potestà sacra sia stata rifiutata; o che si lasci strada proprio alla dottrina tradizionale sull’origine della potestà; o che ogni potestà derivi dall’ordinazione e tuttavia l’autorità suprema, una volta in possesso della pienezza della potestà, possa trasmetterla anche al di fuori della consacrazione. Però certamente afferma che a loro viene riconosciuta potestà di regime e che la dottrina della origine sacramentale della potestà sacra riconosce l’esercizio di essa anche da parte dei laici stessi. Per farlo, elimina la tradizionale distinzione tra Istituti esenti e non esenti, che aveva creato differenze a livello di rapporti con gli Ordinari del luogo, ma che non riusciva a dare sufficientemente ragione dell’autorità interna all’Istituto. A livello giuridico, il CIC 83 al can. 274 §1 afferma che «soli clerici obtinere possunt officia ad quorum exercitium requiritur potestas ordinis aut potestas regiminis ecclesiastici», irrigidendo la posizione di LG 20-21 e NEP 2 circa il legame tra potestà di regime e ordinazione sacerdotale. Dall’altro lato, il can. 228 in entrambi i suoi paragrafi sottolinea che i laici ritenuti idonei habiles sunt a ricevere uffici ecclesiastici o nel portare il proprio aiuto e consiglio ai Pastori della Chiesa.155 Questo rimanda direttamente al can. 129 §2 e a quel cooperari possunt nella potestà sacra della Chiesa, per quanto non sia legato direttamente con il sacramento del155 §1. Laici qui idonei reperiantur, sunt habiles ut a sacris Pastoribus ad illa officia ecclesiastica et munera assumantur, quibus ipsi secundum iuris praescripta fungi valent. §2. Laici debita scientia, prudentia et honestate praestantes, habiles sunt tamquam periti aut consiliarii, etiam in consiliis ad normam iuris, ad Ecclesiae Pastoribus adiutorium praebendum.

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l’ordine. Ciò d’altro canto è comprensibile se guardiamo ai par. 4.4.1 e 4.4.2. in cui abbiamo notato come Superiori laici esercitino come dovere o come diritto potestà ecclesiastica di governo nel campo esecutivo, conformemente ai cann. 35 e seguenti sugli atti amministrativi singolari. Tale novità certamente al CIC 83 va riconosciuta, perché «laicorum delectio ad praestandam operam secundum jus in potestate iurisdictionis»156 e tale è, secondo il diritto, l’opera nell’esercizio della potestà di giurisdizione. Se poi queste sono note caratteristiche dell’ufficio di Superiore maggiore, dobbiamo riconoscere a questi stessi Superiori anche la possibilità, già concessa anche ai laici secolari, di assistere ai matrimoni (can. 1112), di essere giudici in un tribunale collegiale (cann. 1421 §2; 1428 §2), di essere promotori di giustizia o difensori del vincolo (can. 1435) e altri ancora. Non solo, ma se guardiamo all’autorità competente ad erigere case e comunità presso le Società di vita apostolica, vi troviamo nuovamente i Superiori che esercitano tale diritto producendo un decreto a norma del diritto proprio e del diritto comune (cann. 114 §1; 116; 35; 48). Essi creano quindi degli uffici ecclesiastici, in quanto vi insediano un Superiore locale il quale sarà tenuto ad esercitare la potestà che gli viene conferita.157 Esercitano quindi, a livello generale, provinciale e locale, quella potestà propria degli uffici ecclesiastici, ordinaria e, secondo i cann. 617, 618, 619, in partecipazione con la potestà ecclesiastica di governo. Parafrasando il can. 596 §1, de potestate quae iure universali et constitutionibus definitur possiamo dire che essa è di natura pubblica ecclesiastica e di origine divina (can. 156 SERRAINO M., Epitome Juris Canonici ad mentem Codicis 1983, Trapani 1988, 37. 157 Cfr. ROBLEDA O., Officio exercetur potestas, in Per 57(1968), 483.

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129 §§1-2), annessa all’esercizio di un ufficio ecclesiastico conformemente al diritto (cann. 145 §1; 617; 618; 619). Pur non comportando il pieno esercizio della potestà di governo nel caso dei Superiori non chierici degli Istituti di diritto pontificio,158 tuttavia essa è la stessa potestà di governo (can. 129 §2) e può quindi essere delegata come afferma il can. 596 §3 nei suoi riferimenti. Gli Istituti e le Società sono divise in IVC e SVA di diritto pontificio o diocesano (can. 589), ma possono essere anche esenti o non esenti (se il Sommo Pontefice esercita il suo diritto di farlo; can. 591). Inoltre, mentre negli Istituti e Società clericali tale potestà viene esercitata sia in foro esterno che in quello interno, pur rimanendo sempre valido il disposto del can. 630 §4 secondo cui i Superiori devono evitare di ascoltare le confessioni dei loro sudditi, invece negli Istituti e Società laicali essa è esercitata sia in foro esterno che in quello interno ma non sacramentale. Va notato inoltre che negli Istituti di diritto pontificio la potestà di governo viene conferita ai Superiori dal Sommo Pontefice attraverso la mediazione del diritto universale e delle costituzioni di ogni singolo Istituto tramite approvazione della Sede Apostolica; di converso, negli Istituti di diritto diocesano la potestà di governo viene conferita ai Superiori attraverso la mediazione del diritto universale e dal vescovo diocesano mediante l’approvazione delle costituzioni di ogni singolo Istituto. Come può in questo senso venire chiamata potestà comune, se ad ogni Istituto viene data una diversa potestà, secondo il volere della legittima autorità? A meno che colui che approva le 158 Come già notato (cap. IV), si tratta di potestà di governo non piena in quanto si esprime nella sua attività amministrativa-esecutiva e giudiziale, non invece legislativa (lasciata ai capitoli, che pur sono parte dei soggetti attivi nel can. 596).

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costituzioni e sancisce il diritto universale, potendo delegare la propria potestà (che altra non può essere, sia a livello diocesano che pontificio, se non potestà sacra), la partecipi a tutti i Superiori degli IVC e delle SVA. Questa partecipazione non è però classificabile nell’ordine della potestà delegata, bensì in quello della potestà ordinaria, perché annessa ad un ufficio in maniera stabile e propria, essendo una concessione di una autorità che precede l’Istituto stesso, e in ordine temporale e in ordine morale. Dunque, l’espressione «potestate quae iure universali et constitutionibus definitur» rimanda direttamente a quella presente nel can. 129 §2, «ad normam iuris cooperari possunt» che descrive l’esercizio della potestas regiminis da parte dei laici. La locuzione del §2, «insuper […] pro foro tam externo quam interno» va ad aggiungere qualcosa che il diritto normalmente non ha bisogno di specificare, perché «potestas regiminis de se exercetur pro foro externo», can. 130. Ciò diventa maggiormente evidente negli atti amministrativi posti da un laico che sia cancelliere di curia, o da un giudice laico, o da un Superiore di un Istituto laicale: si tratta cioè di cooperazione all’esercizio della potestà di governo. Dunque la specificazione «sia per il foro esterno che interno» va ad aggiungere qualcosa di ulteriore, certamente, rispetto al §1, ma in quanto quella potestà è delimitata al solo foro esterno, dove la potestà di governo viene di per sé solitamente esercitata. Una potestà di governo, d’altronde, che anche se aperta all’esercizio nel foro interno,159 159 È nota la distinzione del foro interno sacramentale e non sacramentale: sembra che in questo caso, quindi, si parli esclusivamente del foro interno sacramentale, riservato a chi ha ricevuto il sacramento dell’ordine dal grado di presbiterato. Il problema sussiste nel fatto che tale potestà di governo esecutiva nel foro interno viene concessa anche ai capitoli: consiste in un eventuale segreto da mantenere all’in-

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viene comunque sconsigliata nella possibilità dell’amministrazione del sacramento della penitenza dallo stesso diritto, tranne il caso in cui i sudditi stessi lo richiedano. Il can. 968 §2, infatti, afferma che proprio in forza dell’ufficio i Superiori di un Istituto religioso o di una Società di vita apostolica clericali e di diritto pontificio hanno facoltà di ricevere le confessioni dei sudditi propri e di chi dimora diu noctuque nelle proprie case.160 D’altronde questa potestà di governo sarebbe comprensibile anche osservando l’evoluzione che ha subito l’istituto dell’esenzione: se prima, infatti, essa attribuiva la potestas iurisdictionis solo all’Istituto che avesse beneficiato dell’esenzione (cfr. can. 501 CIC 17), con il nuovo Codice essa esime gli Istituti di vita consacrata dal governo degli Ordinari del luogo e li sottopone soltanto all’autorità del Sommo Pontefice (can. 591), nulla mutando nel tipo di potestà che viene esercitata al loro interno. Infatti, ai singoli Istituti (cioè a tutti e a ciascuno) viene riconosciuta comunque una giusta autonomia di vita, ‘specialmente di governo’ (can. 586 §1).161 A quale titolo può essere allora possibile questa cooperatio nell’esercizio della sacra potestas? Una possibile risoluzione all’intero problema và ricercata in un nuovo modello ecclesiologico proposto dallo stesso Concilio Ecumenico Vaticano II: la Chiesa come sacraterno dei capitoli? È solo una attribuzione spirituale? O forse anche qui si attribuiscono potestà diverse a soggetti pure diversi: ai Superiori sia il foro esterno che quello interno, ai capitoli solo il foro esterno? Difficile capire il dettato del canone, che si rivela ancora una volta molto approssimativo. 160 Ad essi è pure consentito dispensare dai voti privati per una giusta causa; cfr. can. 1196, 2°. 161 Cfr. a questo riguardo MANTUANO G., Appunti sui limiti alla «sacra potestas» degli Ordinarii ex can 682 §2 del Codex, in DirEccl 99(1988), 440-441.

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mento universale della salvezza, «Ecclesia universali salutis sacramentum» (LG 48). È lo sviluppo dottrinale di secoli di lotte attorno all’assioma «extra Ecclesiam nulla salus» attribuito a san Cipriano (†258)162 e che tuttavia non è stato recepito dal Concilio stesso secondo quella che era l’interpretazione tradizionale. Infatti, la posizione attuale della Chiesa si pone nell’interpretare l’assioma con un significato nuovo, «sine Ecclesia nulla salus»,163 cambiando completamente la prospettiva di lettura riguardo la salvezza che viene portata dalla Chiesa nel mondo: Gesù Cristo è l’unico mediatore e via alla salvezza attraverso le sue disposizioni alla fede e al battesimo.164 E proprio Cristo e la sua Chiesa formano una mystica persona: essa è suo corpo e perciò lo rappresenta. Ne deriva che essa è sacramento, strumento dell’azione di Cristo: senza di essa la salvezza non sarebbe presente nel mondo e nella storia. Cristo ed il deposito della fede, di conseguenza, divengono parametro per valutare le vie di salvezza che storicamente possono presentarsi all’umanità e che, lontani dal cadere nel relativismo, propongono a volte elementi positivi verso la salvezza. Proprio alla difesa e al servizio di questo popolo, il popolo di Dio, Cristo pone la sacra gerarchia, Romano Pontefice per la Chiesa universale e Vescovi CIPRIANO, Epistola ad Iubaianum, 73,21, cit. in QUASTEN J., Patrologia, Casale Monferrato 1983, vol. I, 603. Fu poi ripresa da moltissimi Padri della Chiesa ed autori della cristianità; basti per tutti AGOSTINO D’IPPONA, De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, III, 11,19, in MIGNE J.P., Patrologiae cursus completus. Series latina, Parigi 1844-1864, vol. 44. 163 Cfr. CANOBBIO G., «Extra Ecclesiam nulla salus», in Rivista del clero italiano 6(1990), 442. 164 In 1Tim 2,4-5 leggiamo: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo infatti è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù”. 162

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per le Chiese particolari. La sacra potestas è consegnata a loro originariamente e sommamente. Perciò, se da un lato osserviamo che «sine Ecclesia nulla salus», dall’altro possiamo pure notare che «sine hierarchia nulla potestas»: non vi potrebbe essere, infatti, alcun principio di governo, di magistero, di santificazione nella Chiesa se non vi fossero i sacri Pastori – maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo – in successione apostolica ed in comunione gerarchica con il Capo e le membra del Collegio.165 Romano Pontefice e Collegio dei Vescovi sono la suprema autorità della Chiesa cui viene affidata la potestà per guidare alla salus animarum per conto ed in nome di Cristo stesso. È la stessa gerarchia perciò che può affiancare a sé altri nell’esercizio della sacra potestà: così è con la costituzione dei presbiteri fin dal principio della Chiesa stessa, in epoca neotestamentaria.166 E nell’esercizio della potestà, anche partecipata, si sono creati con il tempo diversi altri uffici, istituti, collegi che coadiuvavano i sacri Pastori verso l’espletamento del loro incarico supremo, teso al bene di tutti. Lo stesso Codice dice che «Romano Pontifici praesto sunt Episcopi, qui eidem cooperatricem operam navare valent variis rationibus».167 Si parla di cooperazione anche del presbiterio verso il proprio Vescovo nella cura pastorale della diocesi168 e di cooperazione che vi deve essere anche tra i presbiteri stessi (cosa che presuppone una condiCfr. can. 375. Cfr. At 14,23; 20,17; Tt 1,5-7; 1Pt 5,1. Anche se gli inizi di questa prassi sono dubbi, sicuramente è consolidata già dagli inizi del II sec. 167 Can. 334. Il corsivo è mio. 168 Can. 369: “Dioecesis est populi Dei portio, quae Episcopo cum cooperatione presbyterii pascenda concreditur…” 165 166

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visione degli stessi fini, doveri, diritti e per molti aspetti anche potestà).169 A questa cooperazione sono chiamati anche i fedeli laici, a norma del diritto, non perché ne siano abili ontologicamente, ma perché chiamati dalla stessa gerarchia a tale esercizio attraverso la missio canonica. Una cooperazione che sembra essere ben al di là della semplice formale attribuzione, come nell’uso di potestà esecutiva qualcuno ha voluto dire.170 Un ‘operare con’ la sacra gerarchia, Romano Pontefice e Vescovi riuniti in collegio, unici capaci di partecipare la propria potestà ad altri fedeli. Secondo quanto da noi riscontrato, ciò avviene tramite il diritto, cioè tramite l’attribuzione di diritti e doveri fatta dal Codice stesso, promulgato ed approvato dal Romano Pontefice, approvato dai Vescovi tutti sparsi in tutta la Terra ma in comunione gerarchica tra loro e con il Papa. Esso è segno eloquente della ministerialità della Chiesa, di quel servizio teso alla salus animarum che si espleta in svariate forme e che si estende ad ogni fedele capace di annunciare il Vangelo. In quest’ottica sembra potersi risolvere la dicotomia dottrinale tra potestà sacra inscindibilmente legata al saCan. 275 §1: “Clerici, quippe qui omnes ad unum conspirent opus, ad aedificationem nempe Corporis Christi, vinculo fraternitatis et orationis inter se uniti sint, et cooperationem inter se prosequantur, iuxta iuris particularis praescripta”. Purtroppo la traduzione italiana del testo usa il verbo collaborare, che svia dalla ricerca circa la cooperazione, ma che forse fa meglio trasparire l’uguaglianza intercorrente tra i chierici stessi. Si parla di cooperazione anche in diversi altri canoni, tra cui ricordiamo il can. 759 sulla cooperazione del fedele laico (battezzato e cresimato) con il Vescovo e presbiteri nell’esercizio del ministero della Parola; il can. 296 circa la cooperazione dei laici nelle opere apostoliche di una prelatura personale; il can. 434 circa la cooperazione che vi deve essere tra i Vescovi di una stessa regione. 170 Cfr. ARRIETA, Titulus VIII. De potestate regiminis, 143. 169

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cramento dell’ordine e potestà sacra partecipata attraverso la missio canonica. È, infatti, dal proprio essere «sacramento universale di salvezza» che la Chiesa attinge la potestà che gli è necessaria per svolgere il suo mandato. Tale sacramento va ben al di là del suo essere compagine visibile, società perfetta, istituzione, ma si inserisce nel corpo mistico di Cristo, prolungamento dell’azione iniziata da Gesù e che si protrae nei secoli. «Gli uomini si salvano mediante la Chiesa, si salvano nella Chiesa, ma sempre si salvano per la grazia di Cristo» affermava Giovanni Paolo II in una sua opera171, cioè la ministerialità della Chiesa si manifesta nel suo essere sacramento di Cristo. D’altronde, i tre uffici della Chiesa, come quelli di Cristo profeta, sacerdote e re, si compenetrano qualificandosi reciprocamente: l’azione profetica della Chiesa è sacerdotale e regale; la sua attività sacerdotale è profetica e regale; le sue funzioni regali sono profetiche e sacerdotali.172 Tutto questo si manifesta in modo particolare nell’azione redentrice di Cristo presente nell’eucaristia e nella missione regale della Chiesa. Qui essa fa avanzare l’opera di Cristo sottomettendo la creazione a Dio, anelando al giorno in cui Dio sarà tutto in tutti. È mediante la sua ministerialità e sacramentalità che la Chiesa partecipa alla funzione regale di Cristo che venne non per essere servito, ma per servire (RH 21).173

171 GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, Milano 1994, 154. 172 Cfr. WOJTYLA K., Sources of Renewal: The Implementation of Vatican II, San Francisco 1979, 221. 173 Cfr. WOJTYLA, Sources of Renewal, 264.

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5.4. Applicazioni e strade aperte Da quanto fin qui detto, sembra potersi affermare che il canone 596 non dà maggiori chiarimenti di quelli che riesce in realtà a confondere: il compromesso cui si è giunti per la versione attuale del canone (cfr. cap. III) ha prodotto una norma che nel §1 è priva di contenuto essenziale e nel §2 è incompleta nella sua espressione. Infatti, il §1 rimanda la definizione della potestà al diritto proprio ed universale, ma questo dice chiaramente che essa è potestà esecutiva di governo, che si esplica sia nel §3 con le norme generali circa la potestà esecutiva, ordinaria o delegata, sia con il rimando nel Libro II parte III a tutti i decreti, licenze, indulti, che un Superiore di IVC (IR ed IS) deve emettere a norma dei canoni relativi nel Libro I del Codice. Perché allora escluderla dal canone? Invece il §2, pur facendo direttamente riferimento al can. 129 §1 circa coloro che sono abili alla potestà di governo, esclude da essa coloro che ricoprano un ufficio di Superiore ma ‘solo’ in un Istituto di diritto diocesano. Tale posizione sembra essere del tutto arbitraria, in quanto l’ufficio di Superiore, di diritto pontificio o di diritto diocesano che sia l’Istituto, comunque è costituito in maniera stabile, ordinaria e non delegata. Ciò significa che i sacerdoti che ne siano titolari sono abili alla potestà di governo. Perché questa omissione? Non si consideri perciò avventata una nuova formulazione del canone o forse la formulazione di un nuovo canone, che renda ragione, pur esprimendosi in maniera non dissimile dal precedente circa la forma, della potestà che viene esercitata negli IVC (e conseguentemente, per mezzo del can. 732, anche nelle SVA). Và notato anzitutto che la dottrina, per quanto ci si sia avventurati nell’analisi di circa sessanta autori tra le diverse scuole dottrinali, non si è espressa in alcun modo a riguardo, quin-

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di non si è avuto modo alcuno di confrontarsi con altri pensieri.174 L’intento del prossimo paragrafo sarà perciò di sintesi e di proposta giuridica. 5.4.1. La formulazione di un nuovo canone? Il testo del can. 596 è: §1. Institutorum Superiores et capitula in sodales ea gaudent potestate, quae iure universali et constitutionibus definitur. §2. In institutis autem religiosis clericalibus iuris pontificii pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno. §3. Potestati de qua in §1 applicantur praescripta cann. 131, 133 et 137-144.

Secondo quanto detto, la divisione più conforme alla teologia sottostante le norme generali, ed in particolare il tit. VIII circa la potestà di governo, è quella che distingue tra Istituti laicali ed Istituti clericali. Tuttavia, tale distinzione, come notato al cap. II, non vuole creare due classi distinte di potestà, quanto piuttosto due modi distinti di essere chiamati ad esercitarla: chi rivestito dell’ordine sacro perché abile, chi è laico perché chiamato a cooperarvi. Perciò, circa il §1 si noti subito che i Superiori ed i capitoli degli Istituti laicali esercitano potestà di governo 174 Solo Andrés, nell’evoluzione del suo pensiero, si è spinto a riformulare in questo modo il canone: “i superiori di tutte le forme di vita consacrata hanno quel grado di cooperazione all’esercizio della potestà ecclesiastica di regime che, secondo il diritto, è consentito loro per il carattere laicale o diocesano di alcuni di essi, o per la mancanza del sacramento dell’ordine nei titolari degli uffici”. Cfr. ANDRÉS, Le forme di vita consacrata, 81. Tale formula, pur lodevole, ci pare possa essere ulteriormente migliorata.

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cooperando con la sacra gerarchia. Ciò significa che cooperari possunt sia a livello universale, cioè con gli Istituti di diritto pontificio in relazione al Romano Pontefice, sia a livello locale, cioè con gli Istituti di diritto diocesano in relazione al Vescovo diocesano. Non sembra necessaria una distinzione tra le due categorie – diritto pontificio e diritto diocesano – poiché anche in questi ultimi, secondo il diritto universale, viene esercitata potestà esecutiva conformemente a quanto concesso dal diritto comune (per esempio per l’erezione e la soppressione di case dell’Istituto, cann. 609; 616) e dal Vescovo del luogo nel quale risieda la casa principale in accordo con gli altri Vescovi (can. 595 §1). Non avrebbe invece senso includere in questo primo paragrafo gli Istituti secolari clericali o gli Istituti clericali di diritto diocesano, giacché la potestà che vi viene esercitata è legata pure all’ufficio e all’ordine sacro che ad esercitarla li rende abili. Dunque, partendo da questi presupposti, si potrebbe così formulare una parte del canone 596: In Institutis laicalibus Superiores et capitula in exercitio potestatis regiminis cooperantur ad normam iuris universalis et particularis pro foro tam externo quam interno, sed non sacramentale.

Questo rispetterebbe la suddivisione del can. 588 §3, aggiungendo tuttavia una specificazione invece presente nel §2 riguardo agli Istituti clericali: l’Istituto laicale è quello che è governato da laici. Riguardo invece ad una seconda parte del canone, si dovrebbe specificare la potestà propria negli Istituti clericali. Conformemente a quanto già espresso nell’attuale §2, gli Istituti religiosi clericali di diritto pontificio godono di potestà ecclesiastica di governo. Ma lo stesso vale per gli

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Istituti religiosi clericali di diritto diocesano, i quali pure la esercitano sia per il foro esterno che interno. Tale posizione è avvalorata dalle stesse disposizioni del Codice riguardo alla potestà esecutiva e da quelle circa il sacramento della penitenza (cfr. can. 974). Si può dunque riformulare questo paragrafo in maniera più ampia e, in certo qual modo, anche più conforme al libro I che dispone tutto l’ordinamento del Codice: In Institutis clericalibus tam iuris pontificii quam iuris dioecesani Superiores et capitula pollent potestate regiminis ad normam iuris universalis et particularis.

Le differenze tra Istituti di diritto pontificio e diocesano constano nei canoni del Codice espressamente, lasciando a volte al diritto particolare, alle costituzioni, di determinare l’autorità competente per determinati atti (per es.: cann. 609; 618). Non si parla più di potestà di governo «pro foro tam externo quam interno», perché il diritto universale cui si rimanda fa esplicito riferimento al foro interno anche sacramentale in più luoghi (per es. can. 630 §4-5). Inoltre, non si usa il termine ecclesiastica per indicare la potestà di governo, in quanto nel can. 129 §1 si parla solamente di potestas regiminis, senza ulteriori specificazioni. È, infatti, nella Chiesa ed in una sua persona giuridica pubblica che viene esercitata tale potestà: non si vede il bisogno di appesantire ulteriormente il canone. Infine, per riprendere proprio la forma usata dal can. 129, risulta più agevole porre prima la seconda parte riguardo gli Istituti clericali, in secondo luogo quella riguardo gli Istituti laicali, ponendo il tutto in due paragrafi: §1. In Institutis clericalibus tam iuris pontificii quam iuris dioecesani Superiores et capitula pollent potesta-

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te regiminis ad normam iuris universalis et particularis. §2. In Institutis laicalibus Superiores et capitula in exercitio potestatis regiminis cooperantur ad normam iuris universalis et particularis pro foro tam externo quam interno, sed non sacramentale.

In questo modo si rende ragione dell’esercizio della potestà esecutiva che avviene in entrambi i tipi di Istituti, gli uni perché abili ad esercitarla, gli altri perché chiamati a cooperare dal diritto stesso nel suo esercizio. Si evitano inoltre elucubrazioni atte a giustificare la possibilità per Superiori laici di produrre atti che propriamente appartengono solo a chi gode di potestà sacra o, più verosimilmente, a negare che gli atti che questi producono siano veramente tali. 5.4.2. Strade aperte La nuova impostazione dell’esercizio della potestà negli IVC ed SVA trova una nuova prospettiva che parte dalle discussioni fatte dal Coetus de Religiosis: se cioè la potestà esercitata negli Istituti e nelle Società è di indole pubblica, perché non regolamentarla come ogni potestà pubblica nella Chiesa? Tale prospettiva apre nuovi orizzonti nello studio e nell’approfondimento della stessa. Infatti, se coloro che governano un gruppo di persone e le guidano nel vivere comune o nel secolo verso la salus animarum esercita su di loro una potestà pubblica, affidata loro dalla Chiesa e non di indole privata, allora essi esercitano potestà sacra per il fatto di essere riconosciute dalla Chiesa stessa a livello universale o locale. Questo potrebbe significare, in primo luogo, una maggior competenza per quanto riguarda il governo anche degli Istituti e Società di diritto diocesano, permettendo il ri-

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corso presso il Vescovo competente o presso gli organi centrali da parte dei membri. In secondo luogo, significherebbe dare ulteriore attuazione, pur nel rispetto di un legittimo controllo del superiore competente, del principio di sussidiarietà, che ha retto la formulazione del Codice vigente e che può venire considerato una innovazione notevole nel diritto della Chiesa. In ultima analisi, significa attuare anche quella valorizzazione e riconoscimento dell’operato del fedele laico, senza il rischio di clericalizzazione del laicato, da parte di qualche autore avvertito come un pericolo nella Chiesa post-conciliare. Il riconoscimento di compiti prettamente di governo, non riguardanti il foro interno e l’ambito della potestà di ordine, sembra invece lasciare un ampio spazio all’iniziativa laicale, sia negli Istituti maschili che femminili. Tale posizione sarebbe inoltre conforme alle disposizioni del can. 606 che non vuole differenze, quanto piuttosto «pari iure de utroque sexu», considerato che «status vitae consecratae, suapte natura, non est nec clericalis nec laicalis», can. 588 §1.

5.5. Conclusioni In questo capitolo si sono analizzate le principali posizioni dottrinali riguardo al can. 596 da noi trattato. Gli autori descrivono la «potestas quae iure universali et constitutionibus definitur», chi affermando la sua fondamentale uguaglianza con la potestas sacra della Chiesa, chi negandola. Coloro che la assimilano alla potestà sacra nella Chiesa, vi vedono un frutto del Concilio Vaticano II ed un riconoscimento del posto che la vita consacrata ha nella

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Chiesa. Quest’ultima, infatti, non ha altra potestà di indole pubblica se non quella sacra, e tale è quella esercitata negli IVC ed SVA. Essa viene partecipata dalla gerarchia della Chiesa agli stessi Superiori e capitoli per mezzo del diritto. Coloro che negano agli Istituti e alle Società un qualche esercizio di potestà sacra non sono unanimi nel definire la potestà che il diritto concede a tutti coloro che fanno parte della vita consacrata. Essa, con particolare riferimento al §1 del can. 596, viene descritta a volte come potestà comune, altre come pubblica – ecclesiastica, altre ancora non gli viene dato alcun nome o descrizione. Vi è chi poi afferma che la potestà sacra è nella Chiesa solo per chi ha ricevuto il sacramento dell’ordine e, perciò, è inscindibilmente unita ad essa e chi, avvallando questa teoria, afferma che la potestà di cui godono gli altri Istituti e Società non clericali di diritto pontificio sia di origine battesimale, quindi propriamente laicale. Vi è chi la definisce propria e chi la ritiene spirituale perché scaturente dallo Spirito che ispira i carismi e la vita consacrata stessa. Qualche autore la definisce religiosa, seppur applicata anche alle SVA e IS che non hanno membri religiosi. Infine, vi è chi la definisce come la potestà dei governanti, di coloro che governano l’Istituto. Tutte queste posizioni che negano la potestà di governo agli IR o alle SVA che non siano clericali e di diritto pontificio (can. 596 §2), risultano di fatto come posizioni parziali, che non guardano cioè all’insieme dei fattori che compongono la potestà: soggetti attivi e passivi, doveri e diritti, ecclesiologia e fini sottostanti. Essi piuttosto accentuano ora l’uno ora l’altro elemento, perdendo la visione d’insieme e quindi anche una valutazione equilibrata della potestà stessa. Il capitolo prosegue affermando che la potestà definita dal diritto universale e dalle costituzioni è, di fatto, pote-

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stà sacra della Chiesa e nella Chiesa che viene partecipata a tutti gli IVC e SVA, sia clericali che laicali. Agli Istituti clericali, perché i loro Superiori ne sono abili in base al can. 129 §1 e all’ufficio che devono esercitare in base al can. 145. Agli Istituti laicali, perché i loro Superiori cooperano al suo esercizio in base al can. 129 §2 e all’ufficio che devono espletare in base al can. 145. Il fondamento di quanto affermato si trova nella nuova ecclesiologia del Vaticano II che, staccandosi in certo senso dal passato recente, non vede più se stessa solo come societas perfecta, ma si ritrova anche in altri modelli ecclesiologici che, nel loro insieme, mostrano la complessità della struttura della Chiesa. In particolare, è la Chiesa come sacramento universale di salvezza (LG 48) e, quindi, la sua dimensione sacramentale (in senso ampio) a divenire fondamento per la diffusione della potestà sacra al suo interno. Infatti, se da un lato il Concilio propone che «sine Ecclesia nulla salus», dall’altro circa la potestà si può osservare che «sine hierarchia nulla potestas», cioè senza la gerarchia, a cui soltanto spetta per disposizione divina la potestà sacra della Chiesa, non vi sarebbe neppure alcun servizio di governo in essa. La gerarchia, Romano Pontefice e Vescovi tutti, propriamente detiene questa potestà e la partecipa a coloro che sono ordinati sacerdoti, perché abili ad esercitarla, e ai laici che possono essere chiamati a cooperare nel suo esercizio per disposizione singolare della competente autorità (potestà delegata), o in maniera stabile per disposizione dello stesso diritto (potestà ordinaria). Nel caso dei Superiori degli IVC ed SVA tutti, essi vi partecipano e ne esercitano i doveri e diritti in base alla loro abilità o alla cooperazione che possono farne. Si nota perciò la sostanziale inesattezza dell’attuale can. 596 e se ne propone una nuova formulazione, più rispondente al dettato del can. 129 e, più ampiamente, alle disposizioni del libro I sulle norme generali.

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§1. In Institutis clericalibus tam iuris pontificii quam iuris dioecesani Superiores et capitula pollent potestate regiminis ad normam iuris universalis et particularis. §2. In Institutis laicalibus Superiores et capitula in exercitio potestatis regiminis cooperantur ad normam iuris universalis et particularis pro foro tam externo quam interno, sed non sacramentale.

Questa nuova formulazione rende ragione dell’esercizio della potestà sacra in tutti gli Istituti e le Società e ne indica la fonte unica per tutti: la partecipazione voluta dalla gerarchia all’unica potestà di Cristo nel guidare il popolo di Dio verso la sua meta ultima, la salus animarum.

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Conclusione Giunti alla fine del nostro studio ed esposte le ragioni del nostro argomentare, poniamo in sintesi i tratti del percorso svolto. Anche se si sa e si sperimenta che a volte le analisi sono aride e stancano, tuttavia si riconosce che esse sono il prezzo da pagare per il valore di certe conclusioni valide e credibili. Ogni uomo è chiamato a percorrerne la strada per arrivare ad una sintesi personale. Così a partire da una panoramica sulla potestà nel diritto romano (patria potestas e dominica potestas, doveri e diritti propri del paterfamilias che il legislatore ampliava o diminuiva a seconda dell’opportunità, riconoscendo il loro carattere pubblico all’interno dello Stato), il primo capitolo ha preso ad esame la nascita del concetto di potestas dominativa fino alla sua fissazione definitiva nel Codice Piano-Benedettino: un ampio ventaglio storico (molto vasto certamente), con l’intento di rilevare i punti sicuri che nel tempo si sono consolidati per arrivare fino ai nostri giorni. Non è mancata anche un’analisi di ciò che i maggiori autori passati, medievali e moderni, pensavano riguardo alla potestà negli Istituti religiosi (allora unica categoria giuridica rilevante di vita consacrata associata) e alla sua relazione con l’istituto dell’esenzione, che aveva un ruolo chiave nell’inserire la potestà degli Istituti nel campo della sacra potestas della Chiesa. Si è notato che alcuni di essi la pensavano correlata al voto di obbedienza, altri alla traditio nelle mani del Superiore, altri alla professione religiosa; ma sembra più appropriato ritenere che essa trovi origine nella volontà dell’autorità della Chiesa che ha dato origine all’Istituto: affermare diversamente significa

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porla in un ambito privato-volontaristico. È questo un capitolo importante anche per capire il grande cambiamento che la Chiesa intera fece nei riguardi della vita consacrata associata, a partire dal monachesimo fino alla nascita delle Società di vita comune senza voti, poi Società di vita apostolica, arrivando successivamente anche agli Istituti secolari. Si è proseguito poi, nel capitolo secondo, con le modifiche che, dal Codice del ’17 al Concilio Ecumenico Vaticano II incluso, sono state apportate dal magistero grazie soprattutto alle analisi e alle proposte degli studiosi. Infatti, esaminando la natura giuridica della potestà dominativa, gli autori hanno rilevato il carattere pubblico di tale potestà, che prese allora il nome nella dottrina di potestà dominativa pubblica. Tale posizione fu corroborata nel 1952 da una risposta autentica della Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica del Codice, che applicava alla potestà dominativa i canoni riguardanti la potestà giurisdizionale del Codice del ’17, sia per gli Istituti clericali che laicali. Veniva così riconosciuto il legame stretto (se non la sostanziale coincidenza) tra potestà dominativa pubblica e potestà giurisdizionale. E in seguito, con il rescritto Cum admotae e il decreto Religionum laicalium in particolare, veniva riconosciuto de facto, anche in fase conciliare, tale carattere. Questi due documenti, infatti, hanno attribuito ai Superiori di Istituti di diritto pontificio laicali e clericali un ampio ventaglio di facoltà, legate precedentemente solo agli Istituti esenti (che avevano, appunto, potestà di giurisdizione). Anche il decreto Perfectae Caritatis e la costituzione dogmatica Lumen Gentium inseriscono a pieno titolo la vita consacrata nella vita stessa della Chiesa, riconoscendo il suo insostituibile valore e la sua costituzione all’interno di essa. Alla presa di coscienza di tale nuova concezione della vita consacrata, comincia la fase di elaborazione di un

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nuovo diritto per gli Istituti e le Società, esposto nel capitolo terzo. Esso venne alla luce solo dopo un ventennio di lavoro da parte delle varie Commissioni che ne preparavano la stesura. Il lavoro dei vari coetus – e del nostro in particolare, de Institutis vitae consecratae per professionem consiliorum evangelicorum –, fu indirizzato da alcuni ‘principi ispiratori’ che, approvati dall’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi del 1967, diedero alle Commissioni le linee guida per una riforma voluta da tutta la Chiesa. Ciò che in particolare segnò il coetus per gli Istituti di vita consacrata fu il principio IV (circa l’incorporazione delle facoltà speciali concesse agli Istituti e alle Società nel Codice stesso), il principio V (sull’applicazione del principio di sussidiarietà nella Chiesa), il principio VI (sulla tutela dei diritti della persona). Durante la fase di codificazione del can. 596, furono redatti alcuni documenti da parte di Congregazioni e dicasteri della Curia romana che diedero conferma dei lavori della Commissione (in particolare ricordiamo, circa il governo negli Istituti laicali e la collaborazione dei laici in quelli clericali, Cum Superiores, Clericalia Instituta e, circa l’istituzione del giudice laico e quindi con potestà giurisdizionale, Causas matrimoniales). Si giunse così alla bozza di due versioni del canone, lo Schema 1977 e lo Schema 1980. Nel frattempo, un Folium ex officio della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel 1976, affermava che i laici sono dogmaticamente esclusi solo dagli uffici intrinsecamente gerarchici, lasciando al diritto stabilire concretamente quali questi fossero. Comunque, solo con lo Schema novissimum del 1982 si arrivò sostanzialmente al can. 596 presente nel Codice del 1983, dopo un lavoro di verifica e di revisione che non fu facile per i consultori del gruppo, viste le diverse posizioni che si dovevano conciliare al suo interno e che venivano continuamente smentite o avvallate dagli uni e dagli altri; eccone il testo:

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§1. Institutorum Superiores et capitula in sodales ea gaudent potestate, quae iure universali et constitutionibus definitur. §2. In institutis autem religiosis clericalibus iuris pontificii pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno. §3. Potestati de qua in §1 applicantur praescripta cann. 131, 133 et 137-144.

Arrivati alla formulazione del canone e quindi avendo in certo senso esaurito il suo iter storico, la ricerca si sposta sul piano prettamente giuridico per individuare le caratteristiche della figura dell’Ordinario secondo l’attuale Codice – i soggetti, le facoltà, i doveri ed i diritti – e per porle in relazione con quella del Superiore maggiore degli Istituti e delle Società. Si espone perciò, nel corso del capitolo quarto, il nuovo concetto di Ordinario, ben più ampio rispetto al precedente del Codice del ’17, così come più ampio risulta essere quello di Superiore maggiore. Tale accostamento è risultato utile dal momento che le due figure sono state trattate da coetus diversi della Commissione preparatoria del nuovo Codice e non di rado, tra i diversi gruppi, il coordinamento è stato difficile per le diverse istanze che vi si accavallavano, se non addirittura lacunoso. Al contempo si è voluta osservare l’origine di tali doveri e diritti, cosicché si è dovuto fare continuo riferimento alle Norme generali del libro I del Codice: la potestà ordinaria, propria anche dei Superiori maggiori in generale in quanto ricoprono un ufficio pubblico nella Chiesa, è risultata essere quella stessa potestas exsecutiva che altro non è se non una forma (la più diffusa e necessaria) di potestà ecclesiastica di governo. Nello svolgimento dell’analisi della potestà propria degli Ordinari e di quella dei Superiori maggiori, quindi, si è dato prova della potestas regiminis che accomuna entrambi nel loro reciproco servizio al popolo di Dio o ad una sua

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porzione o comunità. Si tratta, infatti, della stessa potestà capace di produrre effetti nella sfera canonica di un altro da parte di un soggetto agente a ciò designato. Potestà di governo, dunque, direttamente connessa alla sacra potestas e quindi alla gerarchia. Potestà che trova il proprio fondamento in Cristo, ma che viene disciplinata dalla gerarchia della Chiesa nel suo ministero di guida del popolo di Dio. Essa viene esercitata nella Chiesa, ma non soltanto da chi di essa faccia parte (si pensi al battesimo conferito da un non credente, can. 861 §2). Parimenti la Chiesa può limitarne l’esercizio, se lo ritenga opportuno. È, infatti, importante notare che se da un lato l’ordinazione conferisce al sacerdote l’abilità per esercitare la potestà sacra, dall’altro è solo la missio canonica a regolarne ed autorizzarne l’esercizio, che avviene in tal caso non solo in persona Christi ma anche in nomine Ecclesiae, cioè in piena comunione con essa. Perciò, vi è uno stretto legame tra Cristo e la Chiesa per quanto riguarda la potestà sacra: la Chiesa, infatti, può ritirare la missio canonica al soggetto che l’aveva e privarlo quindi della sacra potestas. Ma allo stesso tempo, può succedere che sia il soggetto stesso investito della potestà che, agendo contro la legislazione canonica, si priva di tale potestà e quindi fa venire meno il suo esercizio della potestà sacra. Questo secondo aspetto diviene tanto più evidente quanto più il soggetto agisca oltre i limiti che gli sono concessi (si pensi al sacerdote che assolve il confessore che abbia violato direttamente il sigillo sacramentale, can. 1388 §1). Se la potestà sacra viene affidata da Cristo alla Chiesa in maniera unitaria, tuttavia quest’ultima la può conferire in varie maniere. Infatti, questo è ciò che avviene quando essa, la Chiesa, la conferisce attraverso l’ordinazione con l’aggiunta della missio canonica, o quando lo fa solo attraverso la missio canonica, che può manifestarsi in modi diversi.

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Diviene allora importante capire che la missione è un aspetto centrale della Chiesa e nella Chiesa, affidata al suo ministero per la salus animarum. Missione, ministero, ministerialità, sono termini profondamente legati tra loro all’interno del mandato che Gesù fa agli apostoli di andare e battezzare tutti gli uomini (cfr. Mt 28,18-20; Mc 16,1616; Lc 24,46-7). Tuttavia, consacrazione e missione possono esistere anche separatamente tra loro (si è osservato ad es., nel capitolo secondo, che il Romano Pontefice in passato ha più volte governato la Chiesa già prima di essere consacrato vescovo e, nel caso di Adriano V, anche senza ricevere completamente tale consacrazione) e se la Chiesa non avesse voluto questo, avrebbe potuto considerare nulle tutte le disposizioni o applicazioni contrarie. È la Chiesa, in particolare nella sua gerarchia, che stabilisce come regolare l’esercizio della potestà sacra conferita da Cristo, in forza della propria particolare ministerialità. Parimenti, la ministerialità può venire dalla Chiesa affidata a qualsiasi fedele attraverso il diritto stesso, cioè attraverso uffici stabilmente costituiti, ma anche attraverso deleghe e mandati, quando questi non siano legati intrinsecamente all’ordine sacro. Ma ciò, d’altro canto, è successo anche quando gli apostoli, guide della Chiesa assieme a Pietro, hanno partecipato direttamente e subordinatamente ad altri il loro compito di pastori, cioè ai presbiteri. È la gerarchia che assume la guida del popolo e quindi decide anche la partecipazione o meno alla sua potestà, l’affidamento di determinati compiti, il conferimento di uffici diversi, ubbidendo al principio di ministerialità affidatogli da Cristo. La missio canonica determina concretamente il grado di potestà sacra da esercitare e la concreta disposizione ad esercitarla (NEP 2). Essa significa quindi la giurisdizione concreta in cui sarà esercitata la potestà sacra e, al contempo, la non uguaglianza tra potestà di ordine e di giuri-

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sdizione: se in alcuni casi la missione canonica regola il potere, in altri essa lo conferisce del tutto. Se ne ricava che le due potestà, avendo un’unica fonte, la sacra potestas, vengono esercitate a volte in modo unitario, a volte in modo diviso, sì che la seconda – potestà di giurisdizione – può sussistere senza la prima – potestà di ordine –, cioè in un fedele laico. La potestas regiminis viene, dunque, esercitata anche da laici e può esserlo in quanto i laici ritenuti idonei sono abili a ricevere uffici ecclesiastici (can. 228). È ciò che avviene non solo con i giudici laici (cann. 1421 §2; 1428 §2), ma anche con i Superiori maggiori di IVC ed SVA laicali di diritto pontificio: i laici chiamati a governare tali Istituti e Società cooperano all’esercizio della potestà sacra, soprattutto della potestas regiminis exsecutiva, con l’emissione di atti amministrativi singolari, di cui si è trattato nel capitolo quarto. Tali atti sono quelli posti dall’autorità che gode di potestà esecutiva (cfr. can. 35), potestà esercitata di continuo nella Chiesa e perciò stesso molto importante. Si pone in evidenza, ancora una volta, che l’origine ed il fine della potestà nella Chiesa sono divini, ma il modo per determinarla in senso giuridico consiste nella missio canonica, che dà la facoltà di porre validamente e lecitamente determinati atti (i quali, poi, producono effetti nella sfera giuridica delle persone). Atti amministrativi singolari sono, per es., i decreti con i quali il Superiore maggiore di un IR o di una SVA erige una casa o la sopprime (cfr. cann. 609 §1; 616 §1); casa che, è bene ricordarlo, è persona giuridica nella Chiesa (cfr. cann. 114 §1; 122). Lo stesso vale anche per l’erezione o soppressione di una provincia religiosa (anche essa persona giuridica; cfr. can. 634 §1), di cui è competente il Moderatore supremo. Ancora, il Superiore maggiore può emanare decreti per la provvisione di uffici, per conferma-

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re coloro che sono stati eletti legittimamente o per nominare Superiori locali interni all’Istituto. Parimenti, atti amministrativi singolari sono i rescritti, per es. quello di ammissione al noviziato (cfr. can. 641); o di ammissione alla professione temporale (cfr. can. 656, 3°); o di secolarizzazione del membro professo temporaneo nell’IR (cfr. 688 §2). Molti degli atti indicati al capitolo quarto sono comuni sia agli Ordinari che ai Superiori maggiori. Questo, se da un lato indica il particolare e delicato ruolo di governo che entrambe le figure sono chiamate ad esercitare, dall’altro indica pure che la loro potestà è certamente della stessa specie, anche se più estesa negli uni rispetto agli altri. A differenza del CIC 17, che non dava chiaramente spiegazione degli atti amministrativi e non li distingueva come l’attuale Codice, l’odierna legislazione distingue chiaramente gli atti giuridici dagli atti amministrativi singolari che possono essere emessi solo da chi ha potestà esecutiva: è questo un progresso ed anche una svolta nella legislazione canonica. Dunque, la potestà che il diritto universale e le costituzioni definiscono è di natura pubblica ecclesiastica e di origine divina, annessa all’esercizio di un ufficio ecclesiastico conformemente al diritto. È potestas regiminis a pieno titolo (cfr. can. 129 §2) e per questo motivo può anche essere delegata (cfr. can 596 §3). Alcune considerazioni vanno, tuttavia, rilevate. Anzitutto, la potestà di governo viene conferita sempre attraverso la mediazione del diritto universale e quella delle costituzioni dell’Istituto stesso. Tuttavia, se negli Istituti di diritto pontificio le costituzioni vengono approvate dalla Sede Apostolica, in quelli di diritto diocesano tale approvazione avviene da parte del Vescovo diocesano. In secondo luogo, la potestà degli Istituti clericali viene esercitata anche per il foro interno sacramentale, come il §2 del

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can. 596 sottolinea, nonostante il Codice sconsigli ai Superiori l’esercizio di tale foro (cfr. can. 630 §4); invece gli Istituti laicali esercitano la potestà sacra nel foro esterno e nel foro interno ma non sacramentale, data la condizione laicale dei loro membri e quindi anche dei Superiori (cfr. can. 588 §3). La cooperatio dei Superiori degli IVC e SVA alla sacra potestas è resa possibile dal Concilio Ecumenico Vaticano II, che comprende la Chiesa – tra l’altro – come sacramento universale della salvezza (cfr. LG 48). È la Chiesa stessa che viene posta come base per la salvezza nel mondo: Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini, diviene via alla salvezza attraverso il battesimo e la fede in lui. Cristo e la sua Chiesa formano una mystica persona, strumento di salvezza per l’umanità, che è guidata in terra dalla gerarchia, Romano Pontefice per la Chiesa universale e Vescovi per le Chiese particolari: è a loro che viene consegnata, originariamente e in forma più alta, la potestà sacra, che, tramite il diritto universale e le costituzioni, la trasmettono ai Superiori. È per mezzo della gerarchia che continua ad esserci la potestà sacra nella Chiesa, in successione apostolica e in comunione gerarchica con il Capo e le membra del Collegio. È mediante la sacramentalità e ministerialità della Chiesa che la funzione regale di Cristo viene partecipata alla Chiesa stessa. Ma molti autori cercano soluzioni diverse per la potestà dei Superiori e dei capitoli negli IVC ed SVA. Come si è notato nel capitolo quinto, infatti, oltre a dare diversi appellativi a questa potestà, senza riuscire per questo ad armonizzarsi tra loro, essi in più casi giustificano l’esercizio di potestà esecutiva come una attribuzione fatta per mezzo di legge e, quindi, secondo alcuni, i Superiori ed i capitoli non possiedono potestà esecutiva. Tale posizione va contro il dettato di LG 24 e NEP 2 (vd. sopra), cioè il di-

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sposto circa la missio canonica che stabilisce quando e come viene esercitata la potestà sacra, sia tramite la consuetudine, sia tramite il Codice, sia tramite le disposizioni dirette del Romano Pontefice e dei Vescovi. Proseguendo in questa analisi e partendo da questi presupposti, si è notato come la formulazione del can. 596, così come a noi è pervenuta, sia poco corretta e, quanto meno, meriti delle correzioni o forse, meglio, una nuova forma che renda ragione delle posizioni conciliari e soprattutto delle sue concrete istanze che sono venute alla luce lungo tutto il Codice (in particolare, per il nostro argomento, nel libro I). Infatti, se da un lato i Superiori degli IVC e SVA laicali cooperano nell’esercizio della potestà di governo, dall’altro i Superiori di IVC e SVA clericali di diritto diocesano sembrerebbero essere stati esclusi da tale esercizio, quantunque il can. 129 §1 li reputi abili a tale potestà. Di fatto, il can. 596, così formulato, diviene occasione di equivoci e soprattutto non rende ragione della potestà che viene esercitata da coloro che rivestono gli uffici di Superiori provinciali o generali di Istituti e Società. Si è pensato, perciò, di proporre una nuova formulazione del canone, quantunque non si sia trovato, nella dottrina esaminata, alcun autore che ne abbia tentato una nuova versione e pur essendoci chi ha criticato il modo in cui è stato redatto e ne ha proposto una revisione. Partendo dalla divisione base tra Istituti laicali ed Istituti clericali, presente nel can. 588, che si può collegare a quella presente nel can. 129 circa l’esercizio della potestas regiminis da parte di chierici e laici, si formulerà anzitutto un canone diviso in due paragrafi (non più in tre), con una parte appunto per i Superiori di Istituti clericali, l’altra per quelli laicali. Non si tratterà di due classi diverse di potestà, ma di due fonti e due modi distinti di esercitare la stessa potestà: gli uni perché abili, gli altri perché coope-

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rano nel suo esercizio. Al contempo, non vi sarà distinzione tra Istituti di diritto pontificio o diocesano perché in entrambi si esercita potestà esecutiva, sia per disposizione del diritto comune, sia per disposizione del Romano Pontefice o del Vescovo diocesano. Da un lato, perciò, si faranno rientrare anche gli Istituti clericali di diritto diocesano tra quelli in cui vi si esercita potestà sacra perché i loro Superiori sono abili ad esercitarla, in quanto sono presbiteri. Dall’altro, tutti quelli laicali in quanto cooperano con la gerarchia all’esercizio di tale potestà. Da questi presupposti, il can. 596 risulterebbe così modificato: §1. In Institutis clericalibus tam iuris pontificii quam iuris dioecesani Superiores et capitula pollent potestate regiminis ad normam iuris universalis et particularis. §2. In Institutis laicalibus Superiores et capitula in exercitio potestatis regiminis cooperantur ad normam iuris universalis et particularis pro foro tam externo quam interno, sed non sacramentale.

Il canone non usa il termine ecclesiastica per indicare la potestà di governo, in quanto lo stesso can. 129 non ne parla: è la potestà della Chiesa e nella Chiesa, perciò è ecclesiastica senza bisogno che ciò venga specificato. Non si specifica il rimando ai canoni riguardanti la potestà delegata e le norme della delega, in quanto si fa direttamente riferimento a tutto il tit. VIII del libro I del Codice e, tramite esso, alle norme per gli atti amministrativi singolari e a tutti gli atti per l’esercizio della potestà esecutiva. Il canone modificato riconosce l’applicazione del principio di sussidiarietà. Inoltre, apre la possibilità ad ulteriori competenze per quanto riguarda il governo di Istituti e Società, permettendo sempre il ricorso presso il Superiore competente (interno od esterno). Dà pieno valore all’ope-

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rato del fedele laico, anche se in questo caso consacrato, senza il pericolo di clericalizzarlo, sia in Istituti maschili che femminili. Riconosce quel «pari iure de utroque sexu» di cui al can. 606, partendo dal principio consolidato nei secoli – e ne abbiamo dato rilievo nei primi due capitoli – che «status vitae consecratae, suapte natura, non est nec clericalis nec laicalis» (can. 588 §1). Dunque, tutto l’arco della vita consacrata associata e della potestà che vi si esercita si riscopre in un passaggio dal privato al pubblico, dal rapporto gestito autonomamente tra Superiore e suddito ad un rapporto regolato da norme universali e volute dalla Chiesa, custode ultima della giustizia, garante e dispensatrice della misericordia di Dio. In questo cammino si riscopre la difficoltà del governare, ma anche che «ars artium, gubernatio hominum», la fatica delle cose che valgono perché a servizio del prossimo. E a questa funzione di governo, funzione regale di Cristo per eccellenza nella Chiesa, partecipano i Superiori degli Istituti e delle Società mediante il loro servizio, che si vuole fedele all’insegnamento e alla vita stessa del Cristo, venuto per servire e non per essere servito. Consapevoli, paradossalmente, che proprio Cristo è quel re servire al quale è regnare.

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431

Indice delle abbreviazioni AAS ASS Ca. Can./cann. Cd. Cfr. CIC 17 CIC 83 CISM CIVCSVA Const. Const. Ap. CpR Decr. DIP DirEccl EICan Enc. FCan Greg IR IusCan IVC IVCR LG MonEccl M.p. NEP N./nn. P./pp. PB PC PCCICAI Per QDE RassTeol REDC Rescr. RevRel RH SCRIS

Acta Apostolicae Sedis. Acta Sanctae Sedis. circa. canone/canoni. cosiddetto. confronta. Codex Iuris Canonici Pii X Pontificis Maximi iussu digestus Benedicti Papae XV auctoritate promulgatus, in AAS 9/II(1917), 5-521. Codex Iuris Canonici auctoritate Ioannis Pauli pp. II promulgatus, 25 gennaio 1983, in AAS 75/II(1983), 1-317. Conferenza Italiana Superiori Maggiori. Congregatio pro Institutis Vitae Consecratae et Societatibus Vitae Apostolicae. costituzione. costituzione apostolica. Commentarium pro Religiosis et missionariis. decreto. Dizionario degli Istituti di Perfezione. Il Diritto Ecclesiastico. Ephemerides Iuris Canonici. lettera enciclica. Folia Canonica. Gregorianum. Istituto religioso. Ius Canonicum. Istituto di vita consacrata Istituto di vita consacrata religioso. Lumen Gentium. Monitor Ecclesiasticus. Littera apostolica motu proprio datae. Nota Explicativa Praevia. numero/i. pagina/e. const. ap. Pastor bonus. Perfectae Caritatis. Pontificia Commissio Codicis Iuris Canonici Authenticae Interpretandi. Periodica de re morali, canonica, liturgica. Quaderni di diritto ecclesiale. Rassegna di Teologia. Revista Española de Derecho Canonico. rescritto. Review for Religious. Redemptor hominis. Sacra Congregatio pro Religiosis et Institutis Saecularibus.

Indice delle abbreviazioni

432

Sec./secc. Secr. St. StuCan SVA USG Vd. VitCons VitRel Vol./voll. §/§§

secolo/i. Segreteria di Stato. Studia Canonica. Società di vita apostolica. Unione Superiori Generali. vedi. Vita consacrata (già Vita religiosa). Vita religiosa (poi Vita consacrata). volume/i. paragrafo/i.

433

Indice degli Autori citati nel testo (Il numero in grassetto si riferisce ad una citazione bibliografica)

Adriano imp.; 22; Adriano V; 394 Agostino D’Ippona; 31; 376; Amaral; 214; Andrés; 206; 207; 208; 212; 213; 274; 275; 276; 285; 289; 290; 292; 306; 331; 332; 381 Antonio abate; 85 Ara; 363 Arangio-Ruiz; 17; 18; 19; 20; 21; 23; 24; 25; 26; Arboleda Valencia; 359 Arcadio; 18 Arcidiacono; 37; 39 Arrieta; 209; 260; 268; 271; 278; 281; 286; 311-313; 315; 357; 362; 378 Augier; 214 Augusto; 18 Aymanathil; 361 Aymans; 346 Baldo Degli Ubaldi; 33; 35 Balmès; 65 Bank; 214 Barauna; 227 Bargillat; 62 Bartolo Da Sassoferrato; 33 Bartolomeo Da Brescia; 37 Basilio; 85 Baura; 359 Beal; 341; 342 Belluco; 119; 125-128; 130; 132-138; 140-142; 144-146; 148; 150-151; 155-156; 159; 161; 165-166

Bender; 270 Benedetto abate; 85 Benedetto XIV; 71; 91 Benlloch Poveda; 257; 331 Bertolfo; 87 Bertrams; 169; 205; 286; 335; 346-347 Betti E.; 19; 24; 26; 27 Betti U.; 230; 333 Beyer; 173-176; 183; 189; 203204; 206; 213-214; 216-217; 222; 224; 226; 231-234; 263; 335; 336 Bézac; 214 Bidagor; 200; 214 Biondi; 19; 24-27 Boccardelli; 366 Bodzon; 342 Bondini; 82 Bonfante; 17; 19-24; 26-28 Boni; 339 Bonifacio VIII; 88 Bonnet; 348; 349 Buijs; 118-119; 126-128; 130133; 136-138; 140; 142-145; 147-148; 150-151; 153; 155-156; 159; 161; 163-167 Cabreros De Anta; 16; 68; 69; 110; 114-118 Canobbio; 376 Canosa; 200; 206-207; 209; 359 Caparros; 218; 312 Cappellini; 312 Cappello; 148 Cardia; 208 Casaroli; 333 Castaño; 364; 365; 369 Celeghin; 172; 260; 344; 345 Chiappetta; 311-312 Cino Da Pistoia; 38 Cipriano; 376 Ciprotti; 61; 119 Cocchi; 64

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Codorniu; 339; 340 Colella; 62 Corecco; 333; 349 Coriden; 359; 363-364 Coronata; 74 Costantino; 18; 25 Creusen; 64; 67; 231 Crnica; 62 Cuneo; 338 D’Angelo O.; 340 D’Angelo S.; 83 D’Auria; 223 D’Ors; 226 D’Ostilio; 274-275; 290; 353 Dammertz; 352 Daneels; 219 Daniélou; 171 De Antoñana; 109; 111; 115116; 183; 185; 187; 189; 192-193; 195 De Bertolis; 59 De Paolis; 173; 228; 263; 350; 354 De Rosa; 335 Dehuyler; 219 Del Giudice; 108 Del Portillo; 209 Desdouits; 29-30; 41; 63; 110 Di Silvestri; 353 Diez; 162-164; 333 Egan; 333 Enrico Da Susa (Hostiensis); 34; 35; 36; 39 Erdö; 351 Escudero; 109; 111; 115-116; 183; 185; 187; 189; 192193; 195 Esposito; 275; 310; 353; 354 Fagiolo; 199; 333 Falco; 252 Fanfani; 62; 64

Indici degli autori citati nel testo

Felici; 169 Fischer; 172 Fogliasso; 83; 86; 89-91; 93-94; 214 Forcellini; 203 Franciosi; 16 Fuchs; 170 Fuertes; 67; 118; 143-144; 148; 150-151; 153; 155-156; 158-159 Gaio; 24; 26 Gallagher; 214 Gallen; 352; 358 Gambari; 118-121; 123-126; 128-129; 134-141; 143-147; 149-153; 155-156; 158; 171; 331; 351; 354 Gangoiti; 257 Garcìa Martìn; 83; 95; 251; 253254; 257; 260; 262; 270; 290; 308; 316-317; 319-321; 323; 326; 343; 344; 359 Gelasio I; 29; 30; Gherro; 255; 336 Ghirlanda; 59; 216; 227; 312; 334-335; 354 Gil; 65; 66-67; 76; Giovanni Di Andrea; 34; 36 Giovanni Paolo II; 260; 280; 333; 335; 379 Giovanni XXIII; 158; 173; 204 Giustiniano; 17; 23; 28; 38 Goffi; 83; 88; 94; 96 Goffredo; 37 Goyeneche; 116 Graziano; 18; 28; 30-31; 32; 37; 160 Green; 363-364 Gregorio I; 30 Gregorio IX; 88 Grocholewski; 333 Guarino; 24 Gulielmus Durantis; 35

Indici degli autori citati nel testo

Gutiérrez A.; 83; 118; 122; 188; 219; 220; 330 Gutiérrez J.L.; 332 Heintschel; 363; 364 Herranz; 209-210 Hervada; 211; 252 Hite; 360 Holland; 360; 363 Hostiensis (Enrico da Susa); 34; 35; 36; 39 Huels; 343 Huguccio; 34-35 Huizing; 83; 94-96 Iannone; 338 Jubany Arnau; 333 Kaiser; 172 Karrer; 204 Kaser; 17; 21; 25 Kasirye; 220; 228; 351; 352 Kay; 83; 85; 87-88; 92 Khoury; 364 Kindt; 30-34; 36; 38-39; 43-45; 46; 47-49; 51-54; 56-58; 62; 63; 110; 114 Koser; 227 Labandeira; 360; 361 Lanne; 214 Larrainzar; 219 Larraona; 53; 63; 67-68; 70-71; 73; 78-80; 113; 118; 231; 238 Laurentius; 64 Lazzati; 214 Lee; 118; 130; 133; 135 Leite; 214 Leone XIII; 92; 105; 106; 204 Lesage; 203; 206; 330; 355 Liguori Okure; 365; 366 Linscott; 222 Lo Castro; 260

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Lobina; 222 Lombardia; 201; 285-286; 310; 312; 314; 357 Lopez Alarcon; 278 Loza; 281 Luzzatto; 17 Maggioni; 214 Malumbres; 338; 339 Mansi; 86; 105 Mantuano; 375 Marcuzzi; 252; 361; 362 Maroto; 250 Marzoa; 331; 345; 355-356 Mauro; 214 Mazzoni; 312 Mcdonough; 219; 221; 235; 239; 241; 337 Melo; 83; 92 Mercanti; 18; 25 Mester; 333 Miras; 331; 345; 355; 356; 359 Modde; 360 Modestino; 19 Moeller; 214 Molina; 53 Mommsen; 18; 20 Moneta; 210 Montan; 352; 354 Moreno; 365 Morlot; 337 Mörsdorf; 170; 172; 347; 348 Muttukumaru; 214 Nasilowski; 172 Navarrete; 347 Nicolaus De Ausmo; 36; 40 O’Brien; 83 O’Hara; 360 O’Rourke; 216; 227 Oberti; 337 Ochoa; 118; 161; 168; 175; 177; 180; 333

436

Onorio imp.; 18 Onorio I (papa); 87 Orsy; 205 Ottaviani; 74; 78; 112 Pacomio; 85 Paolo VI; 174; 205; 208; 221; 232; 315; 347 Paventi; 214 Pazhayampallil; 356 Pejska; 67 Philippe; 214 Philips; 171 Pietro Da Anchara; 33; 36 Piñero Carrion; 340; 341 Pinto; 364 Pio XI; 204 Pio XII; 95; 204; 206-207; 232 Postius; 74 Pree; 209; 211-212 Probo; 87 Provost; 230 Pugliese G.; 24 Pugliese A.; 118; 124; 127; 131; 134; 137-138; 142; 146; 148; 150; 159; 161-167; 181; 184; 186-189; 192-193 Ragazzini; 40-41; 64-66; 70-71; 73; 75-76; 80-81; 114 Ratzinger; 333 Raus; 16; 65; 67 Ravà; 83; 87-88; 91-93; 97-98 Ravasi; 181; 183-186 Recchi; 358 Rincòn-Pérez; 356-357 Risk; 363 Rivella; 265 Rivet; 74 Robleda; 172; 347; 372 Rodrìguez-Ocaña; 331; 345; 355356 Ronga; 18-20; 23; 25-26 Rousseau; 174; 176; 178-180; 214

Indici degli autori citati nel testo

Said; 214; 215; 233 Sastre; 105; 107-108; 357 Saucedo; 270; 351 Schaefer; 127 Schwarz; 347 Sedott; 346 Senofonte; 357; 358 Serraino; 372 Serrano; 259 Sinibaldo Fieschi; 34; 36-37 Sipos; 64 Sisto IV; 88 Soullard; 333; 334 Stickler; 170; 173; 255; 336 Suàrez; 12; 40-43; 45-47; 49-51; 52; 53; 56; 57; 58; 63; 67; 111; 114; 286 Szentirmai; 217 Tabera Araoz; 109; 111; 115116; 183; 185; 187; 189; 192-193; 195 Teodoro I; 87 Thériault; 218; 312 Thorn; 218; 312 Tiongco; 342 Tommaso D’Aquino; 36; 59-60; 112; 173; 204; 349 Torres; 118; 137; 140; 142; 147; 344 Ulpiano; 16; 18 Urbano VIII; 71 Urru; 202 Urrutia; 259; 263-267; 270-271; 286; 336 Urtasun; 214 Utz; 205 Vaca; 207 Valentiniano III; 18 Valentiniano Il Giovane; 18 Valerio Massimo; 20 Valtorta; 359

Indici degli autori citati nel testo

Van Den Broeck; 168 Vasquez; 41 Vela Sanchez; 210 Vera Velasco; 249; 258; 273; 292 Vermeersch; 62; 67; 114 Viana; 345 Volterra; 18-19; 24-26 Ward; 360

437

Wernz; 64; 252 Williamson; 359-360 Woestman; 360 Wojnar; 214 Wojtyla; 379 Zagano; 32-33; 35; 37 Zuannazzi; 210

439

Sommario Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

5

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

7

CAP. I POTESTÀ DOMINATIVA DALLE ORIGINI AL CIC 17: SVILUPPO ED ESSENZA . . . . . . . . . .

15

1.1. La potestà nel diritto romano . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1.1. La patria potestas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1.2. La dominica potestas . . . . . . . . . . . . . . . . 1.2. Il Decretum Gratiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.3. La dottrina della potestà dominativa negli autori medievali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.3.1. Monachus non habet velle vel nolle . . . 1.3.2. Monachi sunt in potestate; monachum possidet monasterium . . . . . . . . . . . 1.3.3. Monachus mortuus fingitur . . . . . . . . . . . 1.3.4. Monachus est servus; monachus est filiusfamilias; monachus est filius Abbatis . . . . . 1.4. La prospettiva del Suàrez . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4.1. Lo stato giuridico del religioso . . . . . . . . 1.4.2. L’essenza del voto non si fonda sull’offerta del religioso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4.3. L’offerta del religioso non è parte del voto solenne di obbedienza . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4.4. La natura della professione religiosa . . . . 1.4.5. La potestà dominativa: fondamento e natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4.6. Ambito di applicazione ed estensione . . .

15 17 24 28 32 34 35 36 38 40 43 46 49 51 53 57

440

Sommario

1.5. L’origine secondo le varie dottrine . . . . . . . . . . . . . 1.5.1. La traditio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5.2. La professione religiosa . . . . . . . . . . . . . . 1.5.3. Il voto di obbedienza . . . . . . . . . . . . . . . . 1.6. Potestà pubblica e privata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.6.1. Uno sguardo storico . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.6.2. Carattere pubblico della potestà dominativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.6.3. Categorie della potestà dominativa pubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.7. Potestà negli Istituti esenti e non esenti . . . . . . . . . 1.7.1. Uno sguardo storico . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.7.2. Posizioni giuridiche . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.8. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CAP. II DAL CIC 17 AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1. La tematizzazione del CIC 17: can. 501 §1 . . . . . 2.1.1. Le fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1.2. La prospettiva del CIC 17 . . . . . . . . . . . . 2.2. La natura giuridica della potestà dominativa . . . . . 2.2.1. Il soggetto della potestà dominativa . . . . 2.2.2. L’oggetto della potestà dominativa . . . . . 2.3. Il rescritto Cum admotae . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3.1. Soggetto attivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3.2. Soggetto passivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.4. Le singole facoltà in specie . . . . . . . . . . . . . . . . . .

59 63 64 65 67 70 73 78 82 85 92 98

101 101 101 108 111 114 115 118 122 126 129

2.5. La costituzione dogmatica Lumen gentium, cap. VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 2.6. Decretum de accomodata renovatione vitae religiosae Perfectae Caritatis (28 ottobre 1965) . . 173

Sommario

441

2.6.1. Norme del rinnovamento . . . . . . . . . . . . 177 2.7. Il decreto Religionum laicalium . . . . . . . . . . . . . . . 181 2.7.1. Soggetto attivo ed applicazione . . . . . . . . 182 2.7.2. Le singole facoltà in specie . . . . . . . . . . . 184 2.8. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195 CAP. III LA FASE DI CODIFICAZIONE DEL CAN. 596 . . 3.1. Principi ispiratori della riforma codiciale . . . . . . . . . 3.1.1. Il principio di sussidiarietà . . . . . . . . . . . . 3.1.2. La tutela dei diritti della persona . . . . . . 3.2. Il coetus de iure religiosorum . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3. Alcuni documenti redatti durante la codificazione . 3.4. L’iter redazionale del canone . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.1. Lo Schema del 1977 . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.2. Lo Schema del 1980 . . . . . . . . . . . . . . . . 3.5. Conclusioni e prospettive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CAP. IV L’UFFICIO DI ORDINARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1. L’Ordinario secondo il can. 134 §1 . . . . . . . . . . . . 4.1.1. La potestà di governo ordinaria . . . . . . . . 4.1.2. I soggetti che ricadono sotto il nome di Ordinario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1.3. La potestà di governo delegata . . . . . . . . 4.2. Atti di governo dell’Ordinario . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.1. Doveri specifici dell’Ordinario . . . . . . . . 4.2.2. Diritti specifici dell’Ordinario . . . . . . . . . 4.3. Atti di governo comuni a tutti i Superiori maggiori 4.3.1. Doveri specifici dei Superiori maggiori . . 4.3.2. Diritti specifici dei Superiori maggiori . .

199 199 203 209 213 217 223 225 233 242

249 250 252 258 264 273 274 282 290 290 298

442

Sommario

4.4. Considerazioni sul Superiore maggiore di un Istituto religioso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.1. Atti amministrativi singolari: decreti . . . 4.4.2. Atti amministrativi singolari: rescritti . . 4.5. Brevi conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

310 315 324 326

CAP. V DOTTRINA SULLA POTESTÀ DEI SUPERIORI MAGGIORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.1. Le principali posizioni dottrinali . . . . . . . . . . . . . . . 5.1.1. Partecipazione della potestà di governo . 5.1.2. Mancanza della potestà di governo . . . . . 5.2. Diversità di vedute: prospettive ermeneutiche . . . . . 5.3. Linee personali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.4. Applicazioni e strade aperte . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.4.1. La formulazione di un nuovo canone? . . 5.4.2. Strade aperte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.5. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

329 329 330 346 366 370 380 381 384 385

Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 389 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A. Fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Pontificie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Curia romana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

401 401 401 402 403

B. Letteratura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 405 1. Studi monografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 405 2. Articoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 413 Indice delle abbreviazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 431 Indice degli Autori citati nel testo . . . . . . . . . . . . . . 433 Sommario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 439

MONOGRAFIE 1. Unità e varietà nella comunione della Chiesa locale. A cura di Arturo Cattaneo. 2. Pensieri di un canonista nell’ora presente. Javier Hervada. Traduzione, note e aggiornamento bibliografico di Lucia Graziano. 3. Fondamenti del Diritto Canonico. Klaus Mörsdorf. Edizione e traduzione a cura di Stefano Testa Bappenheim. 4. La potestà di governo nella vita consacrata. Linee di sviluppo storico-giuridico ed ecclesiologico. Francesco Panizzolo.

MARCIANUM PRESS s.r.l. Dorsoduro, 1 - 30123 Venezia Tel. +39-041-29.60.608 - Fax +39-041-24.19.658 e.mail: [email protected] www.marcianumpress.it Stampa: MEDIAGRAF SpA - Noventa Padovana (PD)