La logica del confine. Per un’antropologia dello spazio nel mondo romano 9788843072194


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La logica del confine. Per un’antropologia dello spazio nel mondo romano
 9788843072194

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Gianluca De Sanctis

La logica del confine Per un'antropologia dello spazio nel mondo romano

Carocci editore

Il presente volume è pubblicato con il contributo economico dell'unità di Roma del progetto FIRB Spazi sacri epercorsi identitari. Testi difondazione, iconografia, culto e tradizioni nei santuari cristiani italianifra Tarda antichita e Medioevo (coordinatore nazionale Laura Carnevale).

1"

©copyright

edizione, marzo 2.015 by Carocci editore S.p.A., Roma

2.015

Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop., Bari Finito di stampare nel marzo 2.015 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione

Il

Parte prima Terminus I.

Un «dio oggetto»

19

I. l.

1.3.

Turno, la Dira e il macigno Immobile saxum Tra Saturno e Giove

19 2.7 31

2..

Il culto

36

2..1. 2..2.. 2..3. 2..4. 2..5.

I Tenninalia Terminus, indice e icona Confini e passaggi Requisiti di un tenninus Il sacrificio come processo di animazione

36 39 42. 46



Attraversamenti e divinità della soglia

52.

3-1. 3-2..

3-3·

Soglie Terminus e Marte Dèi custodi della cultura

52. 56 58



Antropologia del confine

6o

1.2..

49

6o

Breve excursus arandologico 4-2.. Firma stabiliaque cuncta 4·3· Confini e giuramenti 4+ Terminus e Giove 4.1.

63 65 72.

s

INDICE



Qui terminum exarasset...

76

s.I.

Saceresto

76 8!

Terminus e Fides A proposito del confine tra religione e politica a Roma 5·3· S+ La profezia vegoica e la morte di Turno s.2.

83 87

Parte seconda Delimitare e punire 6.

Storia di un delitto e delle sue interpretazioni

93

Gli acerba fata del popolo romano 6.2. Il bello dei miti: interpretazioni di interpretazioni 6+ Ricostruzioni moderne 6.4. L'ipotesi Wiseman

99 105

Un sacrificio di fondazione alle origini della città?

109

Il "sacrificio di fondazione" nella letteratura etnografica 7.2. Talismani e reliquie 7·3· I "sacrifici di fondazione" nel mondo antico 7+ Il mito come "mascheramento"?

109 112

6.1.

7· ?.I.

93 97

115 119

8.

La posta in gioco

121

S.I.

Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea

121

La contesa augurale e la scelta del luogo L' inauguratio e la delimitazione del pomerium 8+ La natura del sulcus primigenius e il "primo comandamento" della città romulea s.s. Una morte necessaria 8.6. Da interdizione religiosa a norma giuridica 8.7. Sancire morte o abrogare impunitate 8.2.

123

8.3.

132 135 140 144 149



Ipotesi sulla natura S>

anche perché, in fin dei conti, Terminus è una pietra, un grosso masso piantato nel terreno, qualcosa insomma che esprime l' immobilitas in modo strutturale, mediante la materia di cui è fatto, attraverso il suo essere saxum.

1.3

Tra Saturno e Giove Secondo una parte della tradizione, il dio dei confini si era installato sull'antico mons Tarpeius quasi all'inizio della storia della città. Prima dell'arrivo di Giove, quel luogo, scrive Dionigi di Alicarnasso, era disseminato di «altari di dèi e divinità gli uni accanto agli altri, che era necessario trasferire altrove perché tutta l'area fosse dedicata al santuario che stava per essere innalzato» 37• Si tratta senza dubbio di quei Jana e sacel/a che, stando al racconto li viano, vennero offerti in voto da Tito Tazio al tempo della guerra romano-sabina, prima dello scontro risolutivo nella piana del foro, e che poi furono inaugurati e consacrati in seguito alla pacificazione con i Romanil 8• Varrone ci ha conservato una lista completa delle divinità sabine importate a Roma in quell'occasione: Con qualche piccola modifica provengono dai Sabini anche i seguenti nomi: Pale, Vesta, Salute, Fortuna, Fonte, Fede. E di Sabino hanno il sapore anche le are che furono innalzare a Roma per voto di Tiro Tazio. Negli Annali, si legge, infatti, che egli dedicò are a Opi, a Flora, a Vediove e Sarurno, al Sole e alla Luna, a Vulcano e a Summano, e a Larunda, a Terminus, a Quirino, a Verrumno, ai Lari, a Diana e a Lucina. Alcuni di questi nomi hanno radici in entrambe le lingue, come gli alberi che sorti in un campo spingono le loro radici in quello vicinol9.

Il culto di Terminus sarebbe stato, dunque, importato, insieme ad altri, dalla Sabina al tempo della guerra con i Romani, nell'ambito di un evento mitico che, come è stato più volte sottolineato, riveste un'importanza fondamentale nella costruzione dell'identità romana (Dumézil. 1941, pp. 161 ss.). La lista varroniana ci permette 37· Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae III, 69, 4· Per questo genere di «bonifiche sacre>>, cfr. Glinister (2.ooo) c Giardina (2.012., pp. 301-2.). 38. Livio,Ab Urbe condita libri l, 55, 1-2.. 39· Varronc, De lingua Latina v, 74: Pau/o a/iter ab eisdem dicimus hec: Palem, Vestam, Safutem, Fortunam, Fontem, Fidem. e are Sabinum linguam olent, quae Tati regis voto sunt Romae dedicatae: nam, ut anna/es dicunt, vovit Opi, Flore, Vedio[io}vi Saturnoque, Soli, Lunae, Volcano et Summano, itemque Larundae, Termino, Quirino, Vortumno, Laribus, Dianae Lucinaeque; e quis nonnulla nomina in utraque lingua habent radices, ut arbores quae in con.flnio natae in utroque agro serpunt. Su questo documento, i nomi e le funzioni delle divinità che vi compaiono, cfr. Terrosi Zanco (1961).

31

LA LOGICA DEL CONFINE

però di fare un ulteriore passo avanti nella nostra indagine su Terminus. Qui, infatti, tra gli altri teonimi compare anche quello di Saturno, il padre di Giove, considerato dai Romani come il dio "anteriore all'ordine". Visto il rapporto parentale e funzionale tra le due divinità non può essere privo di significato il fatto che il santuario di Saturno venga spostato alle pendici del colle capitolino, proprio quando sulla sua sommità viene innalzato il tempio di Giove Ottimo Massimo 40 • Si tratta invece di un trasferimento particolarmente indicativo dal punto di vista ideologico: «Ora», come ha sottolineato a suo tempo Angelo Brelich (1955, p. 12.0 ), «se il dio garante dell'ordine è in cima- e sul colle capitolino lo era anche prima della fondazione dell' aedes lovis O. M. (Iuppiter Feretrius) - difficilmente sarà senza significato il fatto che al dio calendarialmente e ritualmente contraddistinto quale rappresentante di uno stato "anteriore all'ordine" sia stato assegnato un posto ai piedi del colle da cui Iuppiter era destinato a dominare il mondo». All'arrivo di Giove, insommà, Saturno e Terminus si separano: mentre il primo scende ai piedi del Campidoglio, ad occupare una posizione che esprime anche topograficamente l'avvenuta sottomissione a Giove, l'altro resta invece al suo posto, sulla cima del colle, finendo addirittura per essere inglobato nel nuovo tempio. Questa dissociazione diventa ancor più significativa, se teniamo conto del fatto che nelle rappresentazioni dell'Età dell'oro, ossia di quel tempo mitico in cui il regno di Saturno precede quello di Giove 4 ', il segno di confine, il temJinus appunto, non esiste. Scrive Virgilio nel primo libro delle Georgiche: Il padre stesso [Giove] volle che non fosse facile l'arte della coltivazione, e per primo fece smuovere con arte i campi pungolando i cuori dei mortali con le preoccupazioni, poiché non sopportava che il suo regno restasse nell'antico grave torpore. Prima di Giove nessun colono lavorava la terra, segnare o dividere i campi con un confine non era lecito: i beni erano nel mezzo e la terra stessa offriva tutto generosamente senza che nessuno lo chiedesse 4 >.

40. Varrone, De lingua Latina v, 42.; Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae VI, 1; Feste, De verbo rum significatu, s. v. Saturnia, p. 430 Lindsay; Servi o, Ad Aeneidem Il, 116 e v m, 319. 41. Su Crono/Saturno, signore dell'Età dell'oro, in opposizione a Zeus/Giove, signore del presente, con riferimento alle oscillazioni di giudizio negli autori classici, cfr. Guastella (1992.); sulle rappresentazioni latine dell'Età dell'oro, Pianezzola (1979). 42.. Virgilio, Georgicon libri 1, ILI-8: Pater ipse colendi l baudfocilem esse via m voluit, primusque per artem l movit agros, curis acuens mortalia corda l nec torpere gravi passus sua regna veterno. l Ante lovem nulli subigebant arva coloni: l ne signa re quidem aut partiri limite campum l jàs erat; in medium quaerebant, ipsaque tel!us l omnia liberius nullo poscentejèrebat. Il mito d eli' Età del! 'oro viene ripreso

1.

UN «DIO OGGETTO»

A differenza di Lucrezio, che da buon epicureo riteneva che gli dèi non avessero avuto alcuna responsabilità nel liberare l'uomo dalla sua condizione ferina, Virgilio crede invece nella teodicea del lavoro, per cui la fatica e l'operosità sono considerate positivamente, in quanto stimoli all'intelligenza e all'intraprendenza dell'uomo4l. In altre parole, per Virgilio l'aurea aetas non costituisce affatto un modello culturale, come lo sarà per altri poeti dell'età augustea: prima dell'arrivo di Giove tutto era in comune e indiviso, non esiteva né l'agricoltura, né la proprietà privata, poiché la terra offriva tutto a tutti senza alcuna fatica (liberius nullo poscente); ma questo stato rendeva insipida la vita stessa degli uomini: non costretti ad agire, a sudare, a soffrire per procurarsi da vivere, essi vivevano in una sorta di torpida indolenza, afflitti da una specie di «malattia dello spirito» (Barchiesi, 1980, p. 144). È chiaro che in un mondo in cui non è necessario coltivare la terra per procurarsi da vivere, è inutile misurarla, dividerla o proteggerla contro l'invidia degli altri. Anzi, a pensarci bene, neppure l'invidia ha motivo di esistere in un mondo in cui non esistono differenze; per questo motivo era giudicato addirittura nefas segnare o dividere i campi con dei segni di confine. Di tutt'altro tenore è l'immagine dell'Età del!' oro che affiora nei versi di Tibullo: Quanto bene vivevano quando regnava Sa turno, prima che la terra fosse aperta in lunghe strade! Non ancora il pino sapeva sfidare le onde cerulee, né sapeva offrire ai venti le vele spiegate, né il mercante errante, desideroso di guadagno in terre ignote, aveva riempito la stiva con merci straniere. Allora il toro possente non si sottometteva al giogo, né il cavallo mordeva con la bocca domata i freni; le case non avevano porte, né fissa nei campi stava la pietra per reggere i terreni con confini sicuri. Le querce stillavano miele e spontaneamente le pecore offrivano sicure le mammelle colme di latte agli uomini. Non esistevano eserciti, né ira, né guerre, né il fabbro crudele aveva appreso con l'arte severa a forgiare la spada. Ora sotto il regno di Giove sempre massacri e dolori, ora i pericoli del mare e vie infinite e improvvise alla morte 44 •

da Virgilio anche inAeneis VI, 791-794 e Bucolica 4, 6-10, come modello di rappresemazione dell'età augustea. 43· Lucrezio, De rerum natura v, 9lS-IOIO; per un confromo fra Virgilio e Lucrezio sul tema dell'Età dell'oro, cfr. Barchiesi (1980, pp. 144-s); sul comrasto tra la lettura virgiliana di questo mito c quella degli altri poeti di età augustea, Viglietti (2011, pp. 99-ws). 44· Ti bullo, Carmina 1, 3, 3s-48: Quam bene Saturno vivebant rege, priusquam l tellus in longas

33

LA LOGICA DEL CONFINE

Siamo, evidentemente, agli antipodi della celebrazione virgiliana. Ma i tratti caratteristici di questa specie di paradiso terrestre restano immutati. L'umanità primordiale, priva delle grandi conquiste culturali, che vive senza strade e senza navi, che ignora la fatica e l'arte di piegare la natura ai propri scopi, che non conosce l'agricoltura, l'allevamento o la metallurgia, è necessariamente anche preservata dai grandi mali della storia (acies, ira, bella). In questo mondo contrassegnato dalla pace tra gli uomini e dalla prosperità delle risorse, in cui non hanno posto né desideri, né violenze, neppure la divisione dei campi e l'idea della proprietà privata sono concepibili. È vero, la successione di Giove a Saturno ha sostituito l'ordine al caos; ma l'ordine è divisione e la divisione comporta per sua natura la differenza, la sproporzione. Ecco allora che il segno di confine, personificazione dell'ordine e al tempo stesso della disuguaglianza, può essere assunto a simbolo di civiltà, ma anche dei mali che essa comporta. Non è un caso che, nel rievocare l' aetas in cui gli uomini vivevano mixti deis, l' Ippolito di Seneca ricordi, accanto ali' assenza dell'auri caecus cupido, proprio quella della «pietra sacra posta nel campo a dividere i territori fra i popoli» 41; o che Ovidio, nella sua nostalgica celebrazione dei regna Saturni, metta in relazione l'innocenza dell'uomo primitivo e il suo disinteresse per il guadagno e il possesso privato con l'assenza di limites, di confini tra i campi 46 . Vengono in mente le famose parole con cuiJean-Jacques Rousseau apre la seconda parte del suo Discours sur l'origine des jòndements de l'inégalité parmi les homes: Le premier qui, ayant enclos un terrain, s'avisa de dire: Ceci est à moi, et trouva des gens assez simples pour le croire, fut le vrai fondateur de la société civile. Que de crimes, de guerres, de meurtres, que de misères et d'horreurs n'eCu point épargnés au genre humain celui qui, arrachant les pieux ou comblant le fossé, eut crié à ses semblables: Gardez-vous d'écouter cet imposteur; vous etes perdus, si vous oubliez que les fruits sont à tous, et que la terre n'est à personne47.

est patejacta vias! l Nondum caeruleas pinus contempserat undas, l ejfusum ventù praebueratque sinum, l nec vagus ignotù repetem conpendia terrù l presserai externa navita merce ratem. l !Ilo non validus subiit iuga tempore taurus, l non domito ftenos ore momordit equus, l non domus ullafores habuit, non jìxus in agrù, l qui regeret certùjìnibus arva, lapis. l Ipsae mella dabant quercus, ultroqueferebant l obvia securù ubera lactù oves. l Non acies, non iraJuit, non bella, nec emem l inmiti saevm duxerat arte fober. l Nunc /o ve sub domino caedes et vulnera semper, l nunc mare, nunc feti mille repente viae. 4S· Seneca, Phaedra Sl7·Sl9: Nullus hù auri fuit l caecus cupido, nullus in campo sacer l diviJit agros arbiter populiJ lapis. Sulle rappresentazioni poetiche delle antiche frequentazioni fra uomini e dèi nell'Età dell'oro, cfr. Feeney (1998, pp. ISO ss.). 46. Ovidio, A mores III, 8, 41-42: Nec valido quisquam terram scindebat aratro, l signabat nullo limite memor humum. Ovidio descriva ancora l'Età dell'oro in Metamorphoseon libri l, 89-112, ma senza far riferimento questa volta all'assenza del segno di confine. 47.].- J. Rousseau, Dùcournur l'origine desfondements de l'inégalité parmi /es homes, I7SS. Parti e Il.

34

1. UN «DIO OGGETTO>>

Probabilmente Tibullo, Ovidio e Seneca avrebbero sottoscritto queste parole. È evidente, dunque, che il segno di confine, il terminus, non ha sempre goduto di una buona reputazione. Esso appartiene al regno di Giove, all' aetas dell'ordine, della divisione, delle disuguaglianze, e in quanto tale non può che essere assunto a simbolo di progresso, o di civilizzazione. Ma proprio per questo motivo, almeno nel pensiero dei poeti che rievocano con nostalgia il ricordo di una lontana e ormai perduta condizione edenica primordiale, il suo statuto, come quello di ogni altra invenzione umana, risulta essere quanto meno ambiguo. Non dimentichiamo però che il mito dell'Età dell'oro ha, per dirla con Jan Assmann ( 19 9 2, p. 51), una funzione "contrappresentistica": evoca cioè un "prima" migliore, l'Età dell'oro appunto, che, contrapposto all'" ora",l' età contemporanea in cui scrive l'autore, ha lo scopo di rilevare ciò di cui il presente è manchevole, di rendere consapevole la frattura qualitativa tra i due tempi, quello favoloso rievocato dal mito e quello reale e contestuale di chi racconta. Ben diversa è l'idea del segno di confine che affiora in testi di tutt'altra natura, meno ideologizzati e svincolati dalla preoccupazione di opporre ad un presente degradato un passato mitico fortemente idealizzato.

35

2

Il culto

2.1

I Terminalia Nei Fasti Ovidio dedica ben 46 versi all'elogio del dio Terminus. L'occasione è la descrizione dei Terminalia, la festa in suo onore, celebrata dai Romani il2.3 febbraio. Dal momento che il brano in questione è centrale ai fini del nostro discorso, sarà bene riportarlo per intero: Quando è trascorsa la notte, si celebra con il consueto onore il dio che con il proprio segno delimita i campi [separai indicio qui deus arva suo]. O Terminus, sia che tu sia una pietra, oppure un legno piantato nel campo, sin dai tempi antichi tu hai un numen. Due proprietari provenienti da parti opposte ti coronano e ti portano due ghirlande e due focacce. Si erige un altare: qui la rozza contadina porta in un piccolo vaso del fuoco che lei stessa ha preso dalle tiepide braci. Un vecchio spacca i legni e li accatasta spezzati con arte e combatte per piantare i rami nella solida terra; allora suscita con la secca corteccia le prime scintille; un ragazzo sta a guardare e tiene fra le mani un grande cesto. Quindi, dopo che ha gettato per tre volte grani nel fuoco, una bambina vi getta piccole fave a pezzetti. Altri tengono il vino: una parte di ciascuna offerta è libata nelle fiamme. La gente vestita di bianco osserva e tace. Il terminus comune viene cosparso del sangue di un agnello sacrificale, né si lamenta se gli si offre una scrofa da latte. Il vicinato si riunisce e frugale celebra il banchetto e cantano le tue lodi, santo Terminus: «Tu sei confine per i popoli, le città e i grandi regni; senza di te ogni campo sarebbe conteso. Nessun tipo di corruzione può agire su di te, né sei piegaro dall'oro, conservi i terreni a te affidati con la fedeltà che deriva dal diritto. Se tu avessi marcato un tempo i confini del paese di Tire,

l..

IL CULTO

trecento corpi non sarebbero stati inviati alla morte e il nome di Otriade non starebbe su un trofeo di armi». O quanto sangue questo guerriero ha donato alla patria! E cosa accadde quando fu costruito il nuovo Campidoglio? Tutta la folla di divinità cedette e lasciò il posto a Giove; Terminus, come ricordano gli antichi, trovato nel luogo, vi rimase [restitit] e dimora insieme con il grande Giove nel tempio. Anche oggi, perché non veda al di sopra di sé nient'altro che le stelle, il tetto del tempio conserva un piccolo foro. O Terminus, da quel giorno non hai più la libertà di muoverti: rimani di guardia, lì dove sei stato posto. Al vìcino che ti chiede non cedere nulla, affinché tu non sembri aver anteposto un uomo a Giove. E se ti capita di essere colpito da un vomere o da un rastrello, proclama: «Questo campo è tuo e quest'altro è tuo!». C 'è una strada che porta il popolo ai campi Laurenti, regno inseguito un tempo dal condottiero dardanio. Su quella via, la sesta pietra a partire dalla città, ti vede offrire in sacrificio una pecora lanosa. A tutte le altre genti è stata concessa una terra con limiti; per quella romana lo spazio della città e quello del mondo coincidono'.

Come altre festività romane, i Tenninalia, dunque, prevedevano un doppio binario cerimoniale: uno pubblico, di cui sappiamo molto poco, e uno privato, sul quale 1. Ovidio, Fasti II, 639-684: Nox ubi transierit, solito celebretur honore l separat indicio qui deus arva suo. l Termine, sive lapis sive es defossus in agro l stipes, ab antiquis tu quoque numen habes. l Te duo diversa domini de parte coronant, l binaque serta tibi binaque liba Jèrunt. l Ara fit: huc ignem mrto Jert rustica testo l sumptum de tepidis ipsa colona Jocis. l Ligna senex minuit concisaque construit arte, l et solida ramos figere pugnat humo; l tum sicco primas inritat cortice jlammas; l stat puer et manibus lata canistra tenet. lInde ubi ter.fruges medios immisit in ignes, l porrigit incisos filia parva jàvos. l Vina tenent a/ii: libantur singula jlammis; l spectant, et linguis candida turbaJavet. l Spargitur et ca eso communis Terminus agno, l nec queritur lactans cum sibi porca da tu r. l Conveniunt celebrantque dapes vicinia simplex l et cantant laudes, Termine sancte, tuas: l «tu populos urbesque et regna ingentia jìnis: l omnis erit sine te litigiosus ager. l Nulla ti bi ambitio est, nullo corrumperis auro, l legitima servas eredita rura fide. l Si tu signasses oli m Thyreatida terra m, l corpora non feto missa trecenta Jorent, l nec Jòret Othryades congestis lectus in armis». l O quantum patriae sanguinis il/e dedit! l Quid, nova cum jìerent Capitolia? Nempe deorum l cuncta lovi cessit turba locumque dedit;l Terminus, ut veteres memorant, inventus in aede l restitit et magno cum love tempia tenet. l Nunc quoque, se supra ne quid nisi sid era cernat, l exiguum templi tectaJoramen habent. l Termine, post illud levitas tibi libera non est: l qua positusJueris in statione, mane; l nec tu vicino quicquam concede roganti, l ne videare hominem praeposuisse lovi. l Et seu vomeribus seu tu pulsabere rastris, l e/amato «tuus est hic ager, il/e tuus». l Est via quae populum Laurentes ducit in agros l quondam Dardanio regna petita duci: l il/a lanigeri pecoris tibi, Termine, fibris l sacra videt fieri sextus ab Urbe lapis. l Gentibus est aliis tellus data limite certo: l Romanae spatium est Urbis et orbis idem. Per un commento puntuale al testo, si veda Frazer ( 192.9, pp. 481-99), e più recentemente Troucier (2.009, pp. 6o8-13).

37

LA LOGICA DEL CONFINE

Ovidio offre maggiori dettagli•. Per quel che riguarda la sfera privata sono i proprietari dei terreni confinanti, assistiti dalle rispettive famiglie, ad agire direttamente sul terminus communis. Non tutti i termini, infatti, erano oggetto di culto, ma solo i termini sacrifica/es che sorgevano lungo i perimetri delle proprietà, o anche al loro interno, e sui quali, come su degli altari, veniva compiuto il sacrificio 3• Questo terminus viene coronato con due ghirlande, che dobbiamo presumere siano state confezionate separatemente dai due gruppi familiari, così come pure le due focacce che gli vengono portate in offerta 4 • Poi, dopo che è stato acceso un fuoco sacrificale, la pietra viene cosparsa con il sangue di una scrofa o di un agnello da latte: è il momento più solenne della celebrazione 1. A questo punto i vicini si uniscono (conveniunt) per celebrare il banchetto e intonano al dio un canto di lode (cantant laudes). Quello che colpisce in questo testo, certamente «troppo raffinato e dotto per essere declamato da un coro di campagnoli» (Barchiesi, 1994, p. 204) 6 , è il fatto che non venga fatta alcuna distinzione tra l'oggetto terminus e il dio Terminus. In realtà Ovidio sembra considerare sia l'immobile saxum del Campidoglio, sia un qualunque altro segno di confine come manifestazioni, tra loro perfettamente omogenee, della stessa divinità. Mentre infatti i versi 673-674 fanno riferimento al grande terminus capitolino, che resistendo (restitit!) a Giove si è per così dire fossilizzato nella sua posizione originaria (Termine, post illud levitas tibi libera non

2.. Sulla celebrazione pubblica che si teneva presso il sesto miglio della Laurentina, si vedano le osservazioni di Zi6lkowski (2009, pp. 119-2.1). Colonna (1991, p. 2.12.), identifica questo santuario di Terminus con l'enigmatico ~O'TOL di cui parla Strabone, Geographica v, 3, 2., dove ogni anno gli lEpOf.LV~f.LOV€ç celebravano l'altrettanto misteriosa festa chiamata hf.L~!Xpou[IX (gli Ambravalia?). 3· Frontino, De controversiis agrorum 2., in Gromatici Veteres, p. 43 Lachmann; cfr. in proposito Piccaluga (1974a, pp. 12.0-1); secondo Woodard (2.oo6, pp. 59-96), il modello cultuale e funzionale del terminus sarebbe da rintracciare nello yupa vedico. 4· Si potrebbe forse supporre, anche se ce ne mancano le prove, che questo cippo, come le immagini di Giano, avesse due facce: trovandosi all'incrocio di due proprietà e segnalando, dunque, contemporaneamente la fine dell'una e l'inizio dell'altra, esso si configura, da un punto di vista semiotico, come un "segno bifronte", che veicola lo stesso significato da visuali opposte. s. Sui sacrifici offerti ai termini, Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae n, 74 e Plutarco, Numa 16 e Quaestiones Romanae 15, parlano di offerte incruente; e così anche gli autori latini: Giovenale, Saturae 16, 39; Tibullo, Carmina I, 1, 11-12.; Apuleio, FLorida 1, 1; Minucio Felice, Octavius 3, 1; Arnobio, Adversus natio n es II, 2.4. Offerte cruente sono invece testimoniate oltre che dai Fasti di Ovidio, da Prudenzio, Contra Symmachum n, 1008, e da un passo di Siculo Fiacco, De condicione agrorum, in Gromatici Veteres, p. 141 Lachmann, incentrato però sul rituale di fondazione dei termini. Non è il caso di tornare su questa divergenza, per cui si rinvia a Piccaluga (1974a, soprattutto pp. 17 ss.), la cui indagine sui segni di confine nella religione romana nasce dal tentativo di risolvere la "contraddizione". 6. Già Frazer (192.9, p. 490 ): «We are apparently intended to understand che following outburst of psalmody as a hymn to Terminus chanted by a tuneful choir of country bumpkins. Bue ir needs no Bentley to perceive that che psalmist is Ovid himself. The poet could not attune his sweet notes to rhe gruff voices of che groundlings».

l..

IL CULTO

est: l qua positusJueris in statione, mane), il referente dei due versi successivi è invece un terminus qualsiasi, al quale si chiede di non cedere alle richieste, evidentemente disoneste, di un vicino, poiché, sostiene il poeta, sarebbe disdicevole concedere qualcosa ad un uomo, quando non si è concesso nulla neppure a Giove (nec tu vicino quicquam concede roganti, l ne videare hominem praeposuisse lovi). Evidentemente, dal punto di vista del pensiero religioso, i due termini non sono distinguibili, e non lo sono neppure rispetto al dio Terminus che infatti si confonde, o si nasconde, sia nell'uno che nell'altro. Abbiamo a che fare in sostanza con un sistema di "identità multiple", in cui la divinità coincide con il suo simulacro, il simulacro con il segno di confine e quest'ultimo con la divinità.

l

Terminus dio

l

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~,, - - - - - ,

t ermi nus capitolino

terminus

Del resto, i Romani, non distinguendo tra lettere maiuscole e lettere minuscole, non erano portati a istituire confini troppo rigidi tra parole, concetti ed eventuali ipostasi divine 7• La differenza fra il terminus inteso come oggetto e Terminus inteso come divinità è, insomma, il prodotto di una lettura etica della religione romana, un problema, dunque, sostanzialmente dei moderni. Per Ovidio - e probabilmente per il suo pubblico -l'uno e l'altro erano semplicemente la stessa cosa.

2.2.

Terminus, indice e icona Del resto, Ovidio afferma chiaramente che qualunque pietra (o legno) utilizzata come segno di confine possiede un numen (ab antiquis tu quoque numen ha7. Feeney (1998, p. 12.8): «Da un punto di vista moderno, il problema degli ascracci sembra ero· vare una composizione nel fano che i Romani non facevano distinzioni era leccere maiuscole e minuscole. Pensare alla differenza era Pax e pax non è facile, ma è certamente più agevole che farlo craPAX e PAX. La chiarezza che si esprime attraverso le moderne regole tipografiche può tuttavia oscurare i vantaggi collegaci ad una mentalità che non imponeva demarcazioni rigide era parole, qualità e iposcasi e che poteva servirsi utilmente dell'indeterminatezza in uno spirito di improvvisazione>>.

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LA LOGICA DEL CONFINE

bes) 8• Come sanno bene gli storici della religione romana, il significato di questo termine oscilla a seconda delle epoche e dei contesti in cui viene utilizzato: «volontà divina», «potenza divina», «divinità». Le teorie animistiche in voga nella prima metà del secolo scorso si erano spinte, con HerbertJenkins Rose (192.6, pp. 44-5; 1951) e Hendrik Wagenvoort (1947 ), fino al punto di vedere nel numen dei Romani un corrispettivo del concetto melanesiano di mana9. Sulla base di questa presunta equipollenza, secondo i primitivisti della religione romana, Terminus doveva essere annoverato fra gli esseri divini più antichi, risalenti ad una età preistorica. Valga per tutti la definizione che ne diedeJames George Frazer (192.9, p. 481) nel suo commento ai Fasti: Thus rhe worship ofTerminus was ferishism pure and simple: ir was never elevared by myrhology imo a higher sphere: rhe god never conrrived, if we may say so, ro exrricare himselffrom his srone or stock. His rires rhus rouched rhe lowesr leve! in Roman religion: rhey would n or be our of piace in Wesr Africa ar rhe presenr.

In realtà il concetto di numen ha ben poco a che vedere con la nozione di mana (ammesso che si possa dare di mana una definizione univoca e precisa)' 0 • Per quel che riguarda poi il nostro caso specifico, sarà opportuno osservare che il numen di cui parla Ovidio sembra albergare in qualunque cosa, lapis o stipes, che sia chiamata a svolgere la funzione di un terminus. È, dunque, la funzione dell'oggetto, non l'oggetto in sé, a determinare la presenza del numen". Una volta attivato attraverso il dispositivo rituale, infatti, il segno di confine agisce come un rappresentante di Terminus, diventa una sua estensione, un suo indicium (Fasti n, 840 ). Il termine utilizzato qui da Ovidio è molto interessante e vale la pena esaminarlo nel dettaglio. L' indicium è una sorta di "traccia", un segno che conserva e, dunque, rivela qua/co8. Ovidio, Fasti II, 642.. 9· Sulla nozione di mana nella religione romana arcaica, cfr. le osservazioni critiche di Boyancé (1948) e Dumézil (1974, pp. 33·44). Quale che sia la sua accezione originaria è molto probabile che il termine numen abbia significato «presenza divina» soltanto nella letteratura tarda; si veda in proposito Beard, North, Price (1998, vol. II, pp. 3-4). 10. Sulla vaghezza del concetto di mana e i relativi problemi interpretati vi a partire dalla "scoperta" di Codrington, Pignato (2.001, pp. 59-62.). l!. Un terminus non necessariamente deve essere una pietra; puo trattarsi anche di un pezzo di legno, di un semplice stipes dejòssus in agro; cfr. Ovidio, Fasti II, 641-642.: Termine, sive lapis sive es dejòssus in agro l stipes, ab antiquis tu quoque numen habes; Lattanzio, Divinae institutiones l, 2.0, 41: et huic ergo pubblice supplicatur quasi custodi finium deo, qui non tantum lapis, sed etiam stipes interdum est; Igino, De generibus controversiarum, in Gromatici Veteres, pp. 12.6-7 Lachmann, precisa che il materiale può essere estremamente vario: qua/es sint termini, considerandum est. Solent plerique lapidei esse: at vide equo lapide, quoniam quique consuetudines jere per regiones suas habet. A/ii ponunt siliceos, alii Tiburtinos, a/ii enchorios, alii peregrinos, alii autem politos et scribtos, alii aut robureos aut ex certa materia ligneos, quidam etiam hos quos sacrifica/es vocant.

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sa dell'oggetto che lo ha prodotto. Se dovessimo collocarlo all'interno della tassonomia dei segni elaborata dal padre della semiotica, Charles Sanders Peirce (1903, pp. 291-2), diremmo che la nozione di indicium corrisponde, non soltanto da un punto di vista linguistico, a quella di "indice". «An Index», scrive Peirce, « is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue ofbeing really affected by the object [... ].In so far as the Index is affected by the Object, it necessarily has some Quality in common with the Object, and it is in respect to these that it refers to rhe Object». In altre parole, ciò che distingue gli "indici" dalle altre tipologie di segno ("simboli" e "icone") è il fatto di essere in un rapporto di contiguità naturale con il loro oggetto, ragione per cui gli "indici" funzionano come spie, manifestazioni dell'oggetto denotato: il sintomo ad esempio è "indice" della malattia, il fumo è "indice" del fatto che qualcosa sta bruciando, il movimento della banderuola è "indice" della direzione del vento, e così via. Nel caso del terminus la questione però è più complessa. Il cippo di confine, infatti, non è realmente un prodotto o un effetto di T erminus, ma viene pensato come se lo fosse. La sua natura di oggetto culturale viene costantemente rimossa, o per meglio dire camuffata dalla sua iconicità, dal suo essere costruito ad immagine e somiglianza della divinità. Ancor prima di essere un "indice", il terminus è, infatti, un'"icona", una immagine che riproduce alcune caratteristiche dell'oggetto rappresentato, nel nostro caso l'effige del dio. Pertanto, un terminus è sempre anche un ritratto, appunto un'"icona" di Terminus, una sua rappresentazione in miniatura. Vi è poi l'idea, diffusa in molte culture e alla base di numerosi racconti, che una immagine possa in qualche modo riprodurre anche alcune qualità intrinseche dell'oggetto raffigurato, che la similarità comporti la contiguità tra la copia e il modello (Bettini, 1992). Come dice la Laodamia di Ovidio, «una immagine è più di quello che sembra» n. Ci sono persino immagini che non si limitano a rimpiazzare il proprio referente assente, ma riescono, in virtù dell'uso che se ne fa, del modo in cui ci si comporta nei loro confronti, a sostituirsi compiutamente a lui: Non basta dire che le immagini stanno a "rappresentare" qualcosa, con le immagini "si fa" anche qualche cosa: l'essere rappresentazioni di oggetti fuori di loro non impedisce alle immagini di diventare, a loro volta, oggetto (o anche soggetto) di intenzioni o pratiche che le coinvolgono. Questo vale tanto per la persona che tiene in tasca la fotografia di qualcuno e non sa distaccarsene quanto per il denso apparato simbolico che accompagna il racconto di Admeto e del simulacro nell'Alcesti di Euripide (i vi, p. 6o ).

In altre parole, la pragmatica culturale è in grado di trasformare ciò che nasce come rappresentazione dell'oggetto nell'oggetto stesso della rappresentazione, ma pern. Ovidio, Heroides 13, 153: crede mihi, plus est, quam quod videatur, imago.

LA LOGICA DEL CONFINE

ché questo avvenga è necessario innanzi tutto che l'immagine sia "icona" dell' oggetto rappresentato. Un alto grado di iconicità (si pensi ad un certo tipo di ritratti o, come suggeriva lo stesso Peirce, alle fotografie) genera naturalmente l'idea di un contatto, di una relazione fisica, organica fra il segno e il suo referente. In questo senso possiamo dire che alcune "icone" possiedono una "capacità indicale", la quale fa sì che esse possano diventare a tutti gli effetti "indici" della cosa rappresentata e aspirare, se così possiamo dire, ad assumerne l'identità. Tornando a noi, il terminus può essere pensato come un "indice", una proiezione di Terminus, innanzitutto perché è una "icona" di Terminus; una "icona" evidentemente molto potente, che non si limita a riprodurre la forma del suo referente divino, ma ne ha in qualche modo ereditato anche il carattere, la personalità, la forza. Ma perché questa "icona" è così speciale in confronto alla altre? Cosa è che la rende così diversa rispetto ad una comune statua della divinità? Crediamo che la risposta sia da ricercare ancora una volta nella pragmatica culturale, nell'uso che si fa del terminus e nell'insieme delle relazioni che lo vedono coinvolto. Qui abbiamo infatti a che fare con un'immagine che, oltre a rappresentare qualcosa, fa anche qualcosa di molto concreto, o meglio viene impiegata per fare qualcosa di molto concreto, vale a dire il confine. Si tratta, dunque, di una "icona" che possiede un alto valore performativo. Se la funzione di una statua cultuale è quella di rappresentare la divinità che vi è stata effigiata, nel terminus rappresentazione e funzione coincidono. Ancor meglio diremo che il ferminus rappresenta esattamente la sua funzione. Ecco dove risiede il numen di cui parla Ovidio, non nell'oggetto - nel qual caso ricadremmo in una lettura animistica della religione romana - ma nella capacità dell'oggetto di "presentifìcare" Terminus attraverso la sua performatività. Quel che intende dire il poeta è che qualunque tronco o pietra che sia stato chiamato a svolgere la funzione di segno di confine è, in quanto tale, una manifestazione del dio T erminus, un'espressione della sua potenza (numen ). N o n dobbiamo dimenticare che gli dèi degli antichi non sono delle "persone", con una identità precisa, quanto piuttosto delle "potenze" capaci di manifestarsi in una pluralità di forme e sotto una pluralità di segni, e che tuttavia non si identificano mai completamente con nessuna delle loro manifestazioni panicolari (Vernant, 19 6 sb, pp. 369-72) 'l. 2.3

Confini e passaggi I termini non sono, pertanto, delle mere copie morfologiche di Terminus' 4 • In quanto "indici" e al tempo stesso "icone" della divinità essi sono destinati a ripro13· Sul "linguaggio" del politeismo greco si veda l'ottima sintesi di Gabriella Pironti 14. Come il dispositivo Legba-Fa-Kpoli, studiato da Augé (1988, p. 134).

(201 1).

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durne anche il comportamento. Come Terminus, o per meglio dire il suo simulacro, era rimasto immobile, e dunque impassibile, di fronte all'avvento di Giove, così anche i singoli termini sarebbero dovuti rimanere fermi alloro posto e vegliare sul rispetto dei confini a loro assegnati. I Romani non solo credevano che l' immobilitas di Terminus si trasmettesse automaticamente ai suoi indicia, ma anche che essa fosse a sua volta segno di fermezza morale, imparzialità, e senso di giustizia. È questo, per altro, come già detto, un carattere fisiologico che il terminus esprime direttamente attraverso la propria materialità. Una pietra o un pezzo di legno non possono per loro natura essere sensibili all' aurum, né all' ambitio, come lo sono invece gli esseri umani, dotati di sentimenti, passioni e desideri. La pietra in particolare rappresenta il massimo di inflessibilità che si possa trovare in natura, è l'inerte per eccellenza, è pura inorganicità' 1; ma è proprio questa sua estrema alterità rispetto all'umano a farne il garante ideale dellafides tra i confinanti' 6 • Chi, o cosa meglio di una pietra ruvida e inespressiva, imparziale persino nella sostanza, avrebbe potuto assicurare il diritto e il rispetto delle regole nelle relazioni tra i vicini? Come ha mostrato Maurizio Bettini (1992, p. 161), tra i poteri che hanno le immagini, e in particolare le statue, vi è quello di far rispettare le leggi. L'inorganico milita dalla parte della giustizia: «Dove la giustizia umana non arriva - perché ignora, perché inadeguata o corrotta - una superiore giustizia si desta in ciò che è rigido e inanimato». Ma cosa ci si aspettava concretamente da un terminus? Come esercitava il suo mestiere di arbitro? In che modo esso riusciva a garantire il diritto e la lealtà tra i vicini? Saremmo sorpresi a questo punto di scoprire che da un punto di vista etimologico terminus sembra rimandare ad un'idea molto lontana da quella di immobilità. Esso deriva, infatti, come i suoi corrispondenti greci térmon e térma, dalla radice indoeuropea •ter- che rimanda all'area se m antica dell'attraversamento, 15. Estremamente interessanti su questo punto le riflessioni di Augé (1988, pp. 2.7 ss.), riguardanti però le divinità feticce africane; cfr. ad esempio p. 2.8: «Ciò che fa problema è l'inerte, la materia bruca. Fa problema e oppone resistenza. Di qui le collere infantili (agli inizi l'organico non opponeva resistenza) e le metafore abituali ("volontà di ferro", "cuore di pietra", "restare di ghiaccio"). L'impensabile, e in un certo modo, la potenza sono dalla parte dell'inerzia bruta, della pura materialità. Il naturale è dunque la vita, e quesw lascia pensare che il soprannaturale sia dalla parte dell'inerte. Da questo punto di vista sono molto importanti le rappresentazioni dei "feticci" africani, tutte vicine alla materia bruta. Il loro antropomorfismo è appena abbozzato, come un'allusione alla necessità di comprendere qualcosa e, simultaneamente, all'impossibilità di riuscirei: come se si trattasse di anima· re "al punto giusw" per comprendere l'inanimaw,l'inflessibile, l'inesorabile, il già là. È proprio la materia bruta ad essere difficilmente pensabile ». Sulla percezione e le rappresentazioni dei minerali nel mondo antico, cfr. il bel libro di Sonia Macrì (2.009). 16. Ovidio, Fasti Il, 661-662.. Il concetw difides, come si sa, è uno dei cardini portanti del pensiero religioso-politico romano. Ed è particolarmente interessante il fatto che Terminus e Fides compaiano insieme in un paragrafo di una vita plutarchea, su cui wrneremo fra breve, come culti coevi e ideologicamente connessi.

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LA LOGICA DEL CONFINE

dell'andar al di là. Da questa stessa radice proviene, infatti, la preposizione latina

trans, le forme osche teremenniu «finisci, porta a termine» e teremnattens «finirono, portarono a termine», l' ittita tarmaizzi «finisce, compie, porta a termine», il sanscrito tdrati «egli attraversa» (ma anche sutdrman «che passa dall'altra parte»), e l'avestico tar- «aprirsi un passaggio» 17 • Insomma, la nozione espressa da questa famiglia di parole rimanda ad un concetto e ad una funzione del confine che non ci saremmo aspettati di trovare: quello di passaggio/attraversamento, ben diverso dalla nozione fissità/inamovibilità che è emersa dal mito e dai dati cultuali fin qui analizzati. Si tratta però, come vedremo, di una contraddizione solo apparente. Tanto per cominciare, la linea dei termini non delimita un confine oltre il quale non si può andare, ma piuttosto l'esistenza di un confine che è tendenzialmente possibile attraversare (Pucci, I996, p. 303); un confine che potremmo definire "liquido", che divide ma al tempo stesso mette in comunicazione, che afferma l'esistenza della frontiera e contemporaneamente la possibilità di varcarla 18 . Itermini sono appunto delle "marche di confine" e, in quanto tali, non possono che essere fisse, stabili, ferme. Questa stabilità è tuttavia funzionale all' attraversamento, perché ne pone le condizioni. Quanto più i confini sono stabili e certi, tanto più stabili e certe sono le direzioni, ma anche le condizioni di chi si muove nello spazio. Ancora prima di dividere lo spazio il confine, infatti, lo crea, gli conferisce una misura e una forma. Tracciare una linea sul terreno, per quanto incredibile possa sembrare, è un'operazione che concerne la stessa costruzione dell'identità culturale. Se, come ci rammenta Francesco Remotti (I993, p. 47), la cultura è fatta di «incisioni, tagli, pressioni, abbattimenti, scavi, perforazioni» che hanno per oggetto luoghi e corpi, tutti questi segni, reali o simbolici che siano, non possono che essere netti, chiari, certi. Ogni società umana ha bisogno di linee di confine che l'attraversino e la scompongano, di un frazionamento interno, di un'articolazione dello spazio controllata in grado di sostenere le disuguaglianze e favorire legami di solidarietà tra i suoi membri. La coesione interna di una società è direttemente proporzionale alla solidità di queste demarcazioni; in altre parole, essa dipende dalla capacità di tenuta dei suoi confini, materiali e simbolici, e in definitiva dali' energia delle forze sociali impegnate a far sì che questi confini vengano rispettati. I Romani, come abbiamo avuto modo di vedere, scelsero la via della "divinizzazione"; una sorta di assicurazione se consideriamo che il confine ha un carattere

17. Ernout-Meillet (1932, p. 686); Milani (1987, p. u); de Vaan (wo8, p. 216) considera questa etimologia « unattractive » e suggerisce, pur senza troppa convinzione, una relazione con la radice •terh 1 che rimanderebbe all'idea di «sfregamento». 18. Sui simboli e i feticci che affermano e al tempo stesso negano la frontiera, perché contengono in sé la possibilità del passaggio, cfr. ancora una volta Augé (1988, p. q6).

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arbitrario e pertanto è esposto, come lo sono in genere tutte le convenzioni, i patti, le scelte operate dagli uomini, all'eventualità della rimozione, della revocabilità o della negazione. Deificare un confine, farne un dio, significa, infatti, assicurarlo contro il rischio dell'alterazione, sottrar! o alla possibilità della manipolazione da parte dell'altro, in sostanza rende do indiscutibile. In questo senso la divinizzazione può essere considerata una forma di "reificazione", termine con il quale si designa in antropologia il processo di oggettivizzazione dei fenomeni sociali. Lo scopo di ogni "reificazione" è nascondere «la base convenzionale del pensiero», occultarla, fingere che non sia convenzionale, ma autonoma e indipendente dall'uomo (ivi, p. 129). In questo modo «il tessuto lieve, inconsistente, fuggevole dei simboli condivisi>> si trasforma in qualcosa che ha «peso, resistenza, durata» (Remotti 1990, pp. 159-61). Si tratta ovviamente di una "finzione", cioè di qualcosa che, come esprime la radice stessa della parola, viene effettivamente "finto", plasmato, creato dall'uomo; ma è una "finzione" necessaria e indispensabile alla vita comunitaria. È grazie a queste "finzioni", infatti, che gli uomini possono unirsi e vivere insieme. L'unità sociale è il frutto di una serie di reificazioni, e dunque di "finzioni", erette dalle culture per difendersi dagli effetti destrutturanti del tempo del cambiamento del "flusso" ai quali tutte sono inevitabilmente esposte'9. Nella cultura romana, come abbiamo appena visto, il patto che riguarda il confine non si limita ad essere materializzato tramite un cippo piantato nel terreno, ma viene addirittura divinizzato, trasformato in un dio. Alla fine del paragrafo dedicato all'istituzione del culto dei termini, Dionigi di Alicarnasso svolge su questo tema una considerazione estremamente interessante: Ma [i Romani] dovrebbero anche ricordarsi per quale ragione Numa volle che le pietre terminali fossero considerate delle divinità [ou xtiptv 8eoùç ÈV6fLl> (Vernant, 1965a, p. 357 ). Insomma, il segno è costruito e agito dall'uomo in ottemperanza a certi bisogni; e il rito è il meccanismo che "carica" l'oggetto di significato, che lo trasforma appunto in segno religioso, che gli conferisce una forza particolare. L'esistenza di molte culture tradizionali poggia su questo coinvolgimento del mondo sovrannaturale, sulla capacità di interagire, attraverso il rito, con le potenze invisibili, di materializzarne la presenza in tempi e luoghi determinati, per assicurare il buon funzionamento dell'ordine sociale. 2.6. Sul rapporto tra gli dèi e le loro rappresentazioni, cfr. Feeney (1998, pp. 134-40). 2.7. Siculo Fiacco, De condicione ag;rorum, in Gromatici Veteres, p. 141 Lachmann.

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come terminus e non come altro. Per questa ragione le pietre terminali recano un'iscrizione o una marca che le identifica come parte di una serie e impedisce che possano essere confuse con dei comuni oggetti del paesaggio naturale (Pucci, I996)~ 8 • Se infatti dal punto di vista religioso un terminus è indice (indicium) della presenza del dio Terminus, dal punto di vista semiotico esso è indice della presenza di unfinis, che può essere quello di un ager privatus, dell'agerpublicus, delpomerium e così via~9. Del resto, secondo l'etimologia più accreditatajìnis deriva dal verbo figere «conficcare», «piantare» (Ernout-Meillet, 19 32, pp. 236-7); finis sarebbe dunque in origine l'oggetto con cui veniva marcato il confine, che può essere una pietra, un pezzo di legno3°, o anche un albero3 1 • Il suo carattere materiale sembra fuori discussione: espressioni come facere fines, statuerefin es dimostrano chefinis è qualcosa che va «posto», «collocato a terra», o se prestiamo fede alla derivazione dafigere, addirittura «piantato» 3 ~. In ogni caso unfinis è dato dall'insieme degli elementi materiali che lo compongono. La nozione di "insieme", tuttavia, rende solo in parte la complessità della relazione fra terminus e finis. Sarebbe più appropriato in effetti parlare di "sistema". A differenza di quanto accade in un insieme, gli elementi costitutivi di un sistema, infatti, non sono autonomi gli uni 2.8. Ad esempio i termini che si trovano all'incrocio dei limites (gli assi ortogonali che scandiscono la suddivisione di un territorio sottoposto a limitatio) recano inscritte delle lettere e dei numeri che fungono da coordinate spaziali e indicano con estrema precisione la loro posizione all'interno della scacchiera (Pucci, I996, p. 2.97); sul rito della centuriazione, cfr. Gargola (2.004). 2.9. Sulla nozione di finis, lsidoro di Siviglia, Etymologiae XV, I4, 3: Termini dicti quod terrae mensuras distinguunt atque declarant. His enim testimonia finium intelleguntur, e Ti bullo, Carmina I, 3, 43-44: non fixus in agris, l qui regeret certisfinibus arva, lapis. La funzione del terminus, dunque, è quella di materializzare ifines. 30. Ovidio, Fasti 11, 64I-642.; Lattanzio, Divinae institutiones J, 2.0, 41. 3I. Varrone, De lingua Latina VII, 9. afferma che «quando si costruisce un templum (lo spazio in cui gli auguri prendono gli auspici), gli alberi costituiscono ifines>> (in hoc tempio fociundo arbores constituifines apparet). Su altre tipologie di termini cfr. Pucci (I996, p. 2.97 ). 32.. Come è noto, in latino finis non indica solo il confine, ma anche ciò che esso contiene, cioè il suo interno; Cesare, ad esempio, utilizza il pluralefines tanto nel senso di «confini>>, «frontiere>> (De bello Gallico J, I, 6: Belgae ab extremis Galliaefinibus oriuntur), quanto in quello di «territorio>>, «regione>>, «paese>> (De bello Gallico J, I, 4: cum aut suis finibus eos prohibent, aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt). Ma finis assume ben presto u_n significato astratto: dalla nozione di «confine concreto>>, visibile e tangibile, si passa a quella di «confine immateriale>>, di «limite>>; cfr. ad esempio Virgilio, Aeneis I, 2.78: His ego nec metas rerum nec tempora pono; l imperium sine fine dedi. Il confine insomma è un elemento (naturale o artificiale) che distingue due spazi eterogenei: può essere un punto (concreto) o una linea (immaginaria), ma in ogni caso rappresenta la fine del mio spazio e l'inizio di quello di un altro. Da questa idea di estremità nasce la nozione filosofica di «fine>>, «scopo>>, dove il fine non è altro che l'obiettivo da conseguire, il termine ultimo che segnala il compimento morale e spirituale di chi si è messo in viaggio per raggiungere il proprio scopo. Non a caso i latini sentivano finis come un equivalente del greco télos, che significa appunto «compimento>>, «termine>>, risultato>>. È in questa accezione che lo utilizza, ad esempio, Cicerone nel De finibus.

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rispetto agli altri, ma legati fra loro da relazioni funzionali, per cui l' identità-funzione di ciascuno è determinata dall'identità-funzione degli altri. Nel nostro caso il terminus è un codice spaziale incardinato in una precisa sequenza sistemica (il jìnis di cui fa parte); il suo significato specifico è determinato dalla posizione che esso occupa ali' interno della linea di confine. Ogni terminus, dunque, contiene in sé, nel suo essere precisamente in qualche posto, l'indicazione necessaria per cercare intorno i suoi coreferenti, gli altri termini facenti parte dello stesso jìnis. In altre parole, un terminus in attività è "toposensitivo" e funziona solo se collegato ad una semiotica che di fatto risulta essere altamente complessa (Pucci, 1996, p. 302.).

2.5

Il sacrificio come processo di animazione Ora, dal momento che è attraverso il dispositivo rituale che una pietra qualunque si trasforma in un produttore segnico, converrà rivolgere la nostra attenzione alle pratiche rituali che investono l'oggetto del nostro discorso. Quello che si faceva durante i Terminalia era una sorta di ripetizione di quanto era stato fatto durante la cerimonia di installazione di un nuovo terminus: Nelle buche in cui sarebbero stati infissi i nuovi cippi di confine, dopo aver compiuto un sacrificio, immolata la vittima e bruciatala su un fuoco acceso, facevano stillare il sangue nella fossa e poi vi gettavano sopra grani d'incenso e messi. Depositavano nella fossa anche fave, vino e quante altre cose era consuetudine consacrare a Terminus. Dopo che tutte le vivande erano state consumate dal fuoco, sopra i resti ancora ardenti collocavano le pietre e poi con la massima attenzione le fissavano al suolo. Dopo aver aggiunto alcuni frammenti di sassi, premevano intorno, perché stessero più fermi. I padroni facevano tale sacrificio fra i campi che separavanoll,

Il sacrificio sembra, dunque, essere uno strumento necessario tanto alla costruzione quanto alla manutenzione del confine 34 • L'identità cultuale di un terminus è defi-

33- Siculo Fiacco, De condicione agrorum, in Gromatici Veteres, p. 141 Lachmann: In jòssis autem i n qui bus eos posituri erant, sacrificio.focto hostiaque immolata atque incensa.focibus ardentibus, in fossa

woperti sanguinem instillabant, eoque tura etJruges iactabant. Favos quoque et vinum, aliaque quibus (onsuetudo est Termini sacrum fieri, in jòssis adiciebant. Consumptisque igne omnibus dapibus super (alentes reliquias lapides conlocabant atque ita diligenti cura confirmabant. Adiectis sa.xdorum Jragminibus, circum calcabant, quo firmius starent. Tale ergo sacriflcium domini inter quosfines dirimebantur jàcebant. Su questo testo e i problemi di ordine agrimensorio che esso pone, cfr. l'ampia disamina di Massimiliano Vinci (2004, pp. 2.04·9, con bibliografia). 34· A proposito di Terminus, Frazer (192.9, p. 483), notava: «The sacrifìce annually offered at thc boundary stone may be regarded as a repetition of the sacrifìce that was originally offered at the

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nita da un particolare dispositivo rituale che, fra le altre cose, prevede il contatto diretto fra la pietra terminale e il sangue dell' hostia immolata31 • Si tratta di una procedura sacrificale anomala per il sistema religioso romano. A differenza di ciò che accade negli altri sacrifici, in cui le divinità si nutrono solo di riflesso, attraverso il fumo delle carni che vengono bruciate per loro sugli altari- una sorta di pasto simbolico -in quelli che hanno per oggetto un terminus,la divinità è materialmente presente e direttamente messa in contatto con la sostanza sacrificale. In questo caso, infatti, l'altare del sacrificio coincide con il simulacro del dio,la pietra confinaria, che viene cosparsa del sangue della vittima sacrificale. Come detto, Terminus si identifica con il suo insediamento locale, con il terminus che emerge dal terreno. La sua esistenza dipende quindi dalle attenzioni cultuali che la comunità umana è disposta ad offrire. Un terminus divelto, sradicato, o privato dei debiti sacrifici annuali equivale ad un significante senza significato, scade al rango di fossile, diventa una mera reliquia. Tutto ciò ci obbliga ad interrogarci ancora una volta sui processi di sacralizzazione e desacralizzazione, sulla logica del "come se", sul senso profondo della "finzione" che anima i riti religiosi. "Fingere" che un segno di confine sia una divinità offre, come detto, innumerevoli vantaggi dal punto di vista politico e sociale. Il problema è che questa "finzione" può funzionare proprio perché non tutti sanno o credono che essa sia una finzione. Se non vogliamo credere alla teoria secondo cui ad un certo punto qualcuno inventa di sana pianta le credenze religiose per farvi credere gli altri, ricavandone evidenti benefici in seno alla comunità, dovremmo ammattere che la radice di tali credenze non può essere esclusivamente di natura sociale, come credeva Durkheim. Se siamo così potentemente predisposti a credere nel sovrannaturale, negli dèi, negli spiriti, nella possibilità di una vita dopo la morte, evidentemente ciò dipende, almeno in parte, dal modo in cui funziona la nostra mente. « The explanation for religious beliefs and behaviours» scrive Pascal Boyer (wor, p. l) «is to be found in che way all human minds work. I really mean all human minds, not just che minds of religious people or of some of them. I am talking about human minds because what matters here are properties of minds that are found in all members of our species with normal brains». Le credenze, dunque, non nascono per far funzionare meglio la società - questo è l'effetto, non la causa - ma perché la società, o

erection of the stone. lt was no doubt intended to strengthen the divine stone or its indwelling divinity for his task of maintaining the boundary against ali attempts to schift the landmarks, probably also against trespassers an d poachers ». 3S· Sul problema delle offerte sacrifìcali a Terminus, originariamente inorganiche e solo in un secondo momento divenute cruente, Piccaluga (1974a, pp. 17-2.4).

so

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meglio gli uomini che la compongono, non possono fare a meno di leggere, pensare e interpretare la realtà secondo un certo tipo di schemi, che sono diretta espessione del modus operandi del loro cervello. Secondo l'approccio dell'antropologia cognitivista che qui stiamo seguendo, «le credenze sovrannaturalistiche affondano le loro radici in alcuni meccanismi, quelli della psicologia intuitiva, che sono parte integrante dei nostri normali processi cognitivi; che sono anzi così importanti da definire la natura stessa della nostra umanità» (Girotta, Pievani, Vallortigara, 2008, p. 97 ). Con questo non intendiamo dire che il culto delle pietre sia universale perché innato, ma piuttosto perché si propone - e questo vale anche per molte altre credenze - come soluzione di un problema di interesse universale, comune a tutte le culture umane (ivi, p. 136) 36 • Il problema di cui stiamo parlando riguarda l'interpretazione del mondo e l'urgenza di "dare senso" ai diversi elementi che lo compongono. La mente umana è stata forgiata dalla selezione naturale a pensare in termini teleologici. Ciò dipende dal fatto che l'uomo, come già aveva riconosciuto Aristotele, è un animale sociale; talmente sociale che sembra non poter fare a meno di attribuire stati mentali non solo agli altri animali, ma persino agli oggetti e alle entità inanimate. Nel suo studio dedicato al culto degli dèi vudu e in particolare al dio Legba, Mare Augé (1988, p. 132) ha posto l'attenzione sulla necessità da parte della culture tradizionali di pensare l' «inorganico», di comprendere intellettivamente il «completamente inerte». L'unica possibilità, secondo l'antropologo francese, è quella di conferirgli attraverso la pratica rituale un barlume di vita, assimilandolo così all'umano: «L'impensabile è la materia pura, l'omogeneità minerale. È necessario animarle per comprenderle, per cominciare a pensarle. I "feticisti", si diceva con stupore, adorano "il legno e la pietra". Non hanno scelta: pensano» 37 • Animare l' inanimato è, dunque, un modo per renderlo pensabile, comprensibile e stabilirvi t]uindi una qualche tipo di relazione. Se il sacrificio, come ci hanno insegnato a suo tempo Henri Hubert e Marcel Mauss (1898, soprattutto p. 76), è una forma di comunicazione tra l'uomo e la divinità, nel caso in cui esso sia rivolto ad oggetti inanimati, è innanzitutto un tentativo di animazionel 8•

16. Come aveva scricto a suo tempo Cari Gustav Jung, citato da Bettini (2.014, p. 12), quello che l' Liomo moderno ha superato sono «soltanto i fantasmi delle parole, non i fotti psichici che foro no rc>. . 37. Va detto comunque che quest'idea presenta non poche affinità con il pensiero di Mircea Uiadc; cfr. ad esempio Eliade (1943, pp. 79-90). 18. In quest'octica si muove anche Assmann (2.007, pp. ll·l).

SI

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Attraversamenti e divinità della soglia

3·1

Soglie I Romani avevano una specie di ossessione per gli attraversamenti. Inciampare sulla soglia al momento di uscire di casa era considerato un auspicium ex diris, vale a dire un segno di cattivo augurio. Tiberio Sempronio Gracco, il famoso tribuno della plebe, uscendo di casa il giorno in cui fu assassinato, aveva urtato il piede talmente forte contro la soglia da fratturarsi l'alluce, ma decise, disgraziatamente per lui, di ignorare l'avvertimento 1• Varcare la soglia della casa o della città implicava, dunque, una certa cautela. Poiché, secondo la tradizione, i 306 Fabii che furono sterminati presso il fiume Cremera dai Veienti erano usciti da Roma passando attraverso il fornice destro della porta Carmen tale, in ragione del tragico epilogo che proprio da lì aveva simbolicamente preso le mosse, quella stessa porta fu poi ribattezzata Scelerata 2 • Ancora in età augustea Ovidio raccomandava ai suoi lettori di evitare quel passaggio: Vi è una strada vicina ali' arcata destra della porta Carmentale chiunque tu sia, non passare di lì, è di malaugurio [omen habet]. Si dice che da lì uscirono i trecento Fabi. Non è colpa della porta [porta vacat culpa], ma tuttavia è di malaugurio [omen habet] 3•

La soglia, illimen, era anche al centro di una curiosa cerimonia notturna di cui abbiamo testimonianza da Varrone, citato da Agostino: 1. Giulio Ossequente, Prodigiorum liber 27a: Proditum est memoria Tiberium Gracchum, quo die periit, tristia neglexisse omina, cum domi et in Capito/io sacrificanti dira portenderentur, domoque exiens sinistro ad limen offinso pede decusserit pollicem, et corvi fragmentum tegulae ante pedes eius proiecerint ex stillicidio. Cfr. anche Giulio Paride, Vàlerii Maximi epitome I, 4, 2.. 2.. L'episodio è narrato da Livio, Ab Urbe condita libri II, 49 e Ovidio, Fasti II, 195-2.42.. Sulla porta Scelerata, Festo, De verborum significatu, s. v. Scelerata porta, p. 450 Lindsay, e Servi o, Ad Aeneidem VIII, 337: est autem iuxta portam, quae primo a Carmente Carmentalis dieta est, post scelerata a Fabiis CCCVI, qui per ipsam in bellum proftcti, non sunt reversi. 3· Ovidio, Fasti II, 2.01-2.04: Carmentis portae dextro est via proxima iano: l ire per hanc noli, quisquis es; amen habet. l Il/a Jàma refert Fabios exisse trecentos: l porta vacat culpa, sed tamen amen habet.

52.

3· ATTRAVERSAMENTI E DIVINITÀ DELLA SOGLIA

Egli [Varrone l ricorda che a guardia di una puerpera dopo il parto si utilizzano tre divinità per impedire che il dio Silvano possa entrare e usarle violenza e che per rappresentare questi guardiani di notte tre uomini girano intorno alla casa [circuire limina domus l. prima colpendo la soglia [limen l con una scure, poi con un pestello, e infine spazzandola con una scopa. perché attraverso questi simboli dell'agricoltura [his datis culturae signis l si impedisca a Silvano di entrare; gli alberi infatti non si possono tagliare, né potare senza la scure, la farina non si può fare senza il pestello e le messi non si possono ammassare senza le scope. Da questi oggetti prendono il nome tre divinità: lntercidona dal taglio della scure [a securis intercisionel, Pilumnus dal pestello [a pilo l e Deverra dalle scope [ab scopisl. La puerpera è protetta dalla violenza di Silvano da queste divinità custodi. Contro le cattiverie di un dio pericoloso infatti non varrebbe il patrocinio di dèi buoni se non fossero molti contro uno solo e non lo respingessero per mezzo dei simboli della cultura opposti [signis culturae contrariis l a lui, violento, orribile e selvaggio, in quanto abitante delle selve 4 •

Lo scopo del rito descritto qui da Varrone era quello di proibire l'ingresso di Silvano richiamando intorno ai limina domus Intercidona, Pilumnus e Deverra, personificazioni divine rispettivamente della scure, del pestello e della scopa, vale a dire di tre oggetti antropologicamente significativi per la cultura romana arcaica, che subito dopo vengono definiti signa culturael. Evidentemente, la soglia, dove le tre divinità erano chiamate ad operare, era considerata un luogo particolarmente sensibile dal punto di vista religioso. Del resto, stando alla testimonianza di Tertulliano e Agostino, essa era sotto la protezione del dio Limentinus, il quale operava in associazione con la dea Cardea e il dio Forculus, rispettivamente custodi del cardine (cardo) e della porta (fores) 6• A questi dèi minuti, che tanto facevano sorridere gli apologisti cristiani, dobbiamo aggiungere Giano, dio degli inizi e dei passaggi (spaziali e temporali)?, e il misterioso Portunus, definito da Varrone deus portuum 4· Agostino, De civitate Dei VI, 9. 2.: [Varro} mulieri fetae post partum tres deos custodes commemora/ adhiberi, ne Silvanus deus per noctem ingrediatur et vexet, eorumque custodum significandorum > del confine e l'idea, evidentemente correlata, per cui il confine politico debba allargarsi fino a coincidere con i confini del mondo, si ritrova anche nella titolatura dei re assiri ed egiziani; si veda in proposito Liverani (1994, pp. 43-9). 12.. Sul rapporto scalare tra pomerium e confini dell'impero, Bettini (2.011, pp. 84-5): «Clearly this "scalar" relationship between pomoerium and conquered lands- in conjunction with the circular shape (orbisÀ amibuted to the city- forms the background to the numerous declarations according to which ti/e Roman Urbs is explicirly identified with the orbis (terrarum)». 13. Gellio, Noctes Atticae XIII, 14. 14. Seneca, De brevitate vitae 13, 8. Verso questa seconda iporesi ci indirizzano sia il passo di Tacito (et pomerium urbis auxit Caesar, more prisco, quo iis qui protulere imperium etiam terminos urbis propagare datur. Nec tamen duces Romani, quamquam magnis nationibus subactis, usurpaverant nisi L. Sulla et divus Augustus ), in cui lo storico ricorda l'ampliamento del pomerio promosso dali' imperatore Claudio tra il 49 e il so d.C. (Anna/es XII, 2.3), sia la formula auctis populi romani finibus pomerium ampliavit terminavitque che campeggia sugli stessi cippi pomeriali riposizionati in seguito 11.

4· ANTROPOLOGIA DEL CONFINE

In ogni caso, quel che è importante mettere in evidenza ai fini del nostro discorso è la mobilità dei cippi terminali costituenti il pomerium e i fines populi romani in opposizione alla resistenza del grande terminus capitolino. Alla staticità del deus limitum, identificato con il suo simulacro sul Campidoglio, si contrappone la dinamicità dei suoi indicia che, propagati (prolati), moltiplicano la presenza e il dominio stesso di Roma all'infinito. N o n stupisce allora che nei versi finali della sezione dedicata ai T erminalia, l'estensione spaziale dell' Urbs sia fatta coincidere idealmente da Ovidio con quella del mondo intero: Gentibus est aliis tellus data limite certo: l Romanae spatium est Urbis et orbis idem 11 • Del resto, la storia di Cipus, il generale romano che, reduce da una fortunata campagna militare, vede spuntarsi improvvisamente sulla testa un paio di corna e a causa di tale prodigio non può far ritorno a Roma per timore di divenirne il re, dimostra, data l' identificazione fra il personaggio e il segno di confine (il cippus è una tipologia di terminus ), che i confini di Roma possono muovere soltanto in una direzione. Poiché un terminus dello Stato romano è una rappresentazione concreta dell' imperium di Roma, esso non può che spingersi verso l'esterno, alla conquista di nuove terre. Il suo scopo, se così possiamo dire, è quello di allargare lo spazio del mondo romano; un terminus che facesse il contrario, che invece di andare avanti tornasse indietro e ripiegasse verso l'interno, costituirebbe un evento paradossale, contro natura, triste prefigurazione dell'avvento di una nuova monarchia a Roma16 •

4·3

Confini e giuramenti Nelle pagine che seguono muoveremo qualche passo in un campo per così dire attiguo al nostro percorso di indagine; cosa che forse potrà dare l'impressione di uno sconfinamento (le deviazioni sono parte integrante del "giro più lungo"), ma che, come vedremo, si rivelerà estremamente funzionale ai fini del nostro discorso. Le cerimonie in onore di Terminus ricordano molto da vicino quelle di cui sono oggetto i betili nel mondo siro-arabo 17 • Basti pensare al dio Dusares onorato

a tale ampliamento (ci L VI, 31537 = ILS 2.13). Sulla discussa questione riguardante lo ius di allargare il pomerio, Giardina (1997. pp. 15-7. 117-38). 15. Ovidio, Fasti Il, 683-684. 16. Ovidio, Metamorphoseon libri xv, s6s-62.1; Valerio Massimo, Factorum et dictorum memora{;ifium libri v, 6, 3; per un'analisi storico-letteraria di questo racconto, cfr. Galinsky (1967, pp. 181-91), c Barchiesi (1994, pp. 2.51-2.); sui significati storico-religiosi, Piccaluga (1974a, pp. 2.13-2.7). 17. Sul culto dei betili, cfr. Lenormant (1881), Eissfeldt (1930), e più recentemente Durand (2oos, in pare. pp. 1-58).

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LA LOGICA DEL CONFINE

dai Nabatei, da identificare molto probabilmente con la pietra informe (infonnem lapidem) anticamente venerata dagli Arabi di cui parla Arnobio 18 • Anche Dusares, come Terminus, aveva i suoi infiniti doppi. Uno dei betili più noti era quello venerato a Bostra, a nord di Petra, dove il dio era chiamato anche A 'ra,l' « Unto» 19 ; epiteto, questo, forse dovuto alla pratica di ungere le pietre con il sangue delle vittime che erano sacrificate al dio (Vattioni, 1987, pp. 54-64). La pietra e il sangue sono elementi costitutivi anche di un'altra pratica religiosa diffusa nel mondo del vicino oriente antico: quella del giuramento. Erodoto, da buon etnografo, ha registrato la liturgia prevista nella stipula degli accordi privati in uso presso le antiche popolazioni della penisola arabica: Quando due individui vogliono concludere un patto, un terzo posto in mezzo fra loro con una pietra appuntita [À[9cv o;é1] scalfisce superficialmente il palmo della mano in prossimità dei pollici di coloro che prestano il giuramento e poi, dopo aver preso dal mantello di ciascuno un pezzo di lana, unge con il sangue sette pietre poste nel mezzo e facendo questo invoca Dioniso e Urania'0 •

Come dimostra la documentazione raccolta già a suo tempo da François Lenormant, l'uso rituale del sangue nel giuramento con il betilo era particolarmente vivo nel mondo arabo di tradizione preislamicau. In questo tipo di procedure la pietra compare in due ruoli distinti: il simulacro del dio che viene unto con il sangue, e lo strumento per mezzo del quale viene concluso il giuramento, il Àl9oç ò;uç che taglia il palmo della mano dei due contraenti. Riti di questo genere erano praticati anche a Roma. L'antichissimo giuramento per Iovem Lapidem, che i Romani avrebbero utilizzato, secondo Polibio,

18. Arnobio, Adversus nationes VI, 11-9: Ridetis temporibus priscis Persas jluvios coluisse, memoralia ut indicant scripta, informem Arabas lapidem. Sul culto di Dusares, soprattutto Lacerenza (1989 ), dove è raccolta sia la documentazione antica che la bibliografìa moderna. 19. Probabilmente in origine DUfara e A'ra erano due divinità diverse, più tardi idemifìcatesi per via della grande influenza nabatea. Questa ipotesi e stata formulata su base epigrafìca da SavignacStarcky (1957, p. 2.14), e poi confermata dalle ricerche di Lacerenza (1989, p. 79). 2.0. Erodoto, Historiae III, 8, 1-2.: :re~ovTat ÒÈ i\pa~tot nicrnç civ9pwnwv Of!Ota Toicn flliÀuna, 7rOIEUVTlll ÒÈ athàç Tp07r'IJ TOtciJÒE· TWV ~OllÀOf!EVWV Tà mcnà 7r01EECT9at &ÀÀoç civ~ p. clflcj>OTEpwv alÌTWV ÈV flECT'IJ ECTTEWç, Ài9'1J ò!;et TÒ lfw TWV XE1pwv napà TOÙç ÒaKTUÀOllç TOÙç flE')'aÀovç ÈmTaflVEI TWV 7r01Ellf!EVWV Tàç nicrnç, KaÌ enma Àa~wv ÈK Toii lfltlTlov EKaTepov tpòv lCilÌ 7rÀ~pEç È7rl9UfLIWV 7r11p11VOfLWV, 6py~ç aÀ6you, 9UfLOU ~lalou, ÀELTCET/11 Tolç ao~Àolç cj>6~otç lCI:lÌ Tft TOll:lÙTn TPIZY'!JOL~ Tà 7rÀ~9)] O"UVÈXEIV. t.l6mp ol7raÀI110Ì OOlCOUO"L fLOI Tàç 7rEpÌ 9Ewv Èvvo{aç lCI:lÌ Tàç imÈp TWV Èv ~oou 01/:lÀ~'fEiç OÙlC EÌ1Cft 1CI1Ì wç huxEv Elç Tà 7rÀ~9)j 7r11puaayayElv, 7rOÀÙ OÈ fLiiÀÀov ol viiv EÌ1Cft lCI:lÌ aÀ6ywç ÈlC~aÀÀEIV l:lÙTa. Secondo Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae Il, 63, 2., nella Roma di Numa vi erano più culti che in qualunque altra città greca o barbara. Sulla "teatralità" della religione romana, Walbank (1957, p. 742.) e Dorrie (1974, pp. 2.6}-4). 2.5. Sulle idee religiose di Polibio, cfr. soprattutto Pédech (1965) e Van Hooff(1977). 2.6. Poli bio, Historiae VI, 56. 1}-14! Tolyapoiiv xwpìç TWV li.ÀÀwv oi Tèt lCOIVèt XEipi~OVTEç 7r11pà fLÈV Tolç "EÀÀ)]O"IV, èàv TaÀaVTOU fLOVOV 7rlO"TEu9waiV, aVTiypacj>Elç exovTEç OÉlC/1 1CI1Ì acj>payloaç TOO"I:lUTI:lç lCI:lÌ fl'*pTupaç omÀaa{ouç où OUV/:lVT/11 T)jpElv T~V 7rlO"TIV' 7r11pà OÈ 'PwfLI:llOiç lCIXTct TE Tètç apxàç lCIXÌ 7rpEO'~Elctç 7rOÀÙ Tl7rÀ~9oç XP)]fUXTWV XEipÌ~OVTEç 01' IXÙT~ç T~ç lCIXTèt TÒV oplCOV 7rlO"TEWç T'l]poiial TÒ 1Cct9~1COV.

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ma invece diventa un vero e proprio collante sociale, capace di rendere i suoi cittadini più giusti, e dunque più meritevoli del comando, degli altri' 7• Secondo la tradizione le origini di questo tema antropologico risalirebbero ancora una volta al saggio governo di N urna. Se Romolo, come scrive Livio, aveva fondato la città sul culto della forza e delle armi (condita vi et armis), il suo successore la rifondò sul rispetto del diritto (iure), delle leggi (ligibus) e dei costumi (morbus): Numa, temendo che quegli animi che il timore dei nemici e la disciplina militare [metus hostium disciplinaque militaris] avevano tenuto a freno si infiacchissero nell'ozio, pensò anzitutto che si doveva ispirare in essi il timore degli dèi [deorum metu m], mezzo di grande efficacia su un popolo ignorante e rozzo quale esso era in quei tempi. E poiché questo rimore non poteva penetrare negli animi senza qualche finzione miracolosa [sine aliquo commento miraculi]. finge di avere degli incontri notturni con la ninfa Egeria e che per suo consiglio egli doveva istituire le cerimonie sacre più gradire agli dèi e a ciascuno degli dèi preporre particolari sacerdori' 8•

Secondo Livio, dunque, Numa avrebbe fatto un uso che oggi non esiteremmo a definire strumentale della religione: il timore degli dèi doveva tenere vigili gli animi che avrebbero potuto illanguidirsi (luxuriarent otio) lontano dalle armi e dalle guerre a cui li aveva abituati Romolo'9. Tanto pragmatismo e disincanto non deve stupirei. Riempire il mondo di dèi è considerata, almeno da una parte del pensiero filosofico antico, se non proprio una necessità, quantomeno una buona strategia politica. Cicerone, per esempio, rivendicava l'utilità della pietas e della religio per la città, citando le vecchie tesi di Talete e Pitagora secondo cui gli uomini sarebbero assai più casti se considerassero che «ogni cosa è piena di dèi » Jo. N o n vi è dubbio tuttavia che questa interpretazione della figura e dell'operato

l7. Sul passo di Polibio e in particolare sul rapporti tra ÒetcrtÒcUfLOVLa e 7ltO'Tlç, cfr. Monteleone (wo6-o7, pp. 44-so). l8. Livio, Ab Urbe condita libri l, 19, 4-s: [... }ne luxuriarent otio animi quos metus hostium disciplinaque militaris continuerai, omnium primum, rem ad multitudinem imperitam et illis saeculis rudem e./ficacissimam, deorum metum iniciendum ratus est. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non posset, simular sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu quae acceptissima dis essen! sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum praeficere. l9. Il risultato, almeno nel ricordo degli stessi Romani, fu davvero straordinario; cfr. Livio, Ab Urbe condita libri l, li, I-l. 30. Cicerone, De legibis n, u: Melius Graii atque nostri, qui ut augerent pietatem in deos, easdem illos urbes quas nos incolere voluerunt. Adftrt enim haec opinio religionem utilem civitatibus, si quidem et illud bene dictum est a Pythagora doctissimo viro, « tum maxume et pietatem et religionem versari in a nimis, cum rebus divinis operam daremus» et, quod Thales qui sapientissimus in septemJuit, «homines existimare oportere omnia quae cernerent deorum esse piena», fieri enim omnis castiores, veluti quom in jànis essent, et maxime religiosos. Est enim quadam opinione species deorum in oculis, non solum in mentibus.

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di N urna sia stata fortemente condizionata dal clima promosso dalla restaurazione religiosa di età augusteajl. Si tratta cioè di una ricostruzione, dello sguardo che un'epoca successiva rivolge retrospettivamente al proprio passato, e che in quanto tale, non può che osservare questo passato attraverso il filtro del proprio presente. Bisogna, dunque, distinguere l'informazione dalla spiegazione, nel caso specifico la fondazione di un culto religioso, dalla funzione che le fonti gli attribuiscono. In altre parole, è opportuno da un punto di vista storiografico resistere alla tentazione offertaci dai nostri "informatori locali" di considerare le istituzioni religiose attribuite a Numa come dei meri espedienti politici, come se agli albori della storia romana qualunque legge o norma avesse bisogno del puntello del timore religioso per ottenere credibilità e rispetto presso i cittadini. Gli studiosi di diritto romano hanno dimostrato da tempo che la sfera del diritto e quella della religione erano in età arcaica spazi contigui, sovrapposti, solo in parte distinguibili. Se è vero che nelle società antiche l'economico è «ingabbiato» (embeddetf) nel politico3>, è altrettanto vero che il politico è a sua volta «ingabbiato» nel religioso. Questo vale in particolare nel mondo romano, dove «il sacro primeggia sul politico, lo precede e lo fonda, tracciando la forma in cui il "politico" si dischiude» (Scheid, 1983, p. s8) 33 • A Roma non c'è discontinuità tra pratiche religiose e atti politici. I magistrati, solo per fare un esempio, sono anche dei sacerdoti, assumono cioè funzioni di carattere sacerdotale; a loro volta i sacerdoti sono anche dei magistrati, poiché attraverso i loro uffici sono in grado di decidere, o quanto meno di condizionare, la prassi politica34 • Numa, come è stato suggerito più volte dalla critica moderna, appare effettivamente più come un sacerdote che un sovrano; è un pontifex più che un rex. È superfluo qui ricordare quanto sia stato determinante il ruolo giocato da questi individui, i pontijìces, nella definizione dei moduli mentali e dei comportamenti collettivi (Schiavone, 1989, p. 86) 31 . In questo senso i culti gemelli di T ermi-

31. Si pensi ad esempio al riordinamento augusteo dello spazio urbano e in particolare alla celebrazione dei ludi compita/ici, che presentano alcune significative somiglianze (funzionali e ideologiche) con il culto dei termini organizzato da Numa. Sulla riorganizzazione dello spatio urbis da parte di Augusto, si veda in particolare Fraschetti (1990, pp. 2.04 ss.). 3~- Sul concetto di embeddedness, Polanyi (1957); sul carattere "bloccato" dell'economia nel mondo romano, Schiavone (1996, pp. 47-9 e 6o-1); per una rilettura in chiave antropologica del pensiero di Polanyi, cfr. Viglierri (~011, pp. 39-4~). 33· Sull'argomento Scheid è tornato di recente nel suo ultimo libro, in buona parte dedicato per l'appunto alla funzione politica della religione romana (Scheid 2013, soprattutto, pp. 9s-ao). 34. Il paziente lavoro di raccolta e discussione della documentazione svolto da Fiori (1996, pp. 168 ss.), su un tema tanto dibattuto ci consente di rinviare ancora una volta a questo lavoro per la relativa bibliografia. 3S· Sulle funzioni e il ruolo dei pontiflces nella vita religiosa e politica romana, si veda, oltre al classico lavoro di Bouché-Leclercq (1871),lo studio estremamente dettagliato di Rinolfi (wos).

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nus e Fides rappresentano bene lo spirito della più antica religiosità romana. Le due divinità, anzi, possono essere considerate a buon diritto le "icone" più rappresentative del nuovo corso inaugurato da Numa, espressioni teologiche di una medesima costruzione sociale, fondata su norme che sono, almeno in origine, religiose e giuridiche allo stesso tempo.

5·4 La profezia vegoica e la morte di Turno L'ultimo tassello della nostra ricognizione su Terminus è costituito da una pagina famosa dei Gromatici Veteres, conservata dai codici Palatinus (f. u8) e Gudianus (f. 151), e nota come «frammento di Vegoia», dal nome della ninfa Vegoia alla quale la tradizione lo attribuisce: Questo è quanto disse Vegoia ad Arrunte Veltimno: Sappi che il mare è stato separato dalla terra. Quando Giove rivendicò a sé la terra etrusca, decise e ordinò che i campi e i terreni fossero misurati e segnati. Conoscendo l'avarizia degli uomini e l'avidità dei terreni, volle che tutto fosse conosciuto attraverso cippi terminali. Ma alcuni uomini, a causa dell'avarizia dell'ottavo secolo che si avvicina, con perfidi inganni li violeranno, toccheranno esposteranno e [con essi] le proprietà che gli sono state concesse. Chi li avrà toccati e spostati, ingrandendo la sua proprietà e riducendo quella degli altri, per questo crimine sarà punito dagli dèi. Se lo faranno i servi, le condizioni della loro servitù peggioreranno. Se questo avverrà con la connivenza dei padroni, la casa del padrone verrà sradicata dalle fondamenta e tutta la sua gente morirà. Inoltre coloro che rimuoveranno i cippi saranno colpiti da tremende malattie e infermità e debilitati nelle membra. Allora anche la terra sarà scossa da tempeste, fulmini e molte calamità. I frutti spesso saranno danneggiati e distrutti dalla pioggia e dalla grandine, verranno disfatti dal caldo torrido, annientati dalla ruggine. Molti contrasti sorgeranno fra il popolo. Sappi che rutto questo avverrà quando saranno commessi questi crimini. Non essere né bugiardo, né ingannevole. Riponi questo insegnamento nel tuo cuorel 6•

36. Gromatici Veteres, p. 350 Lachmann: Idem Vegoiae Arrunti Veftymno. Scias mare ex aethera remotum. Cum autem luppiter terram Aetruriae sibi vindicavit, constitui iussitque metiri campos signarique agros. Sciens hominum avaritiam ve/ terrenum cupidinem, terminis omnia scita esse voluit. Quos quandoque quis ob avaritiam prope novissimi octavi saeculi data sibi homines malo dolo violabunt contigentque atque movebunt. Sed qui contigerit moveritque, possessionem promovendo suam, alterius minuendo, ob hoc scelus damnabitur a diis. Si servi fociant, dominio mutabuntur in deterius. Sed si wnscientia dominica jìet, caelerius domus extirpabitur, gensque eius omnis interiet. Motores autem pessimis morbis et vulneribus elficientur membrisque suis debilitabuntur. Tum etiam terra a tempestatibus ve{Julminibus plerumque /ab e movebitur. Fructus saepe ledentur decutienturque imbribus atque grandine, caniculis interieret, robigine occidentur. Multae dissentiones in populo. Fieri haec scitote, cum talia scelera committuntur. Propterea neque follax neque bilinguis sis. Disciplinam pone in corde tuo. Per un

LA LOGICA DEL CONFINE

Non esiste forse nessun altro testo nel panorama della letteratura classica che documenti in maniera così evidente la relazione che il pensiero religioso degli antichi popoli italici aveva istituito fra l'idea di ordine e quella di limitazione3 7• Limitazione è il concetto chiave della profezia vegoica: qui i termini non si limitano a fare da confine, ma appaiono come gli assi che tengono stretto il mondo, gli strumenti attraverso cui la divinità ha reso possibile non solo la conoscenza delle cose umane, ma più in generale dell'intero universo sensibile (terminis omnia scita esse voluit), e la cui rimozione determinerebbe lo sfaldamento dell'intero ordine cosmico e il ritorno ad una originaria condizione di caos: «Si arriverebbe addirittura - tramite questa serie di passaggi pericolosamente degradanti dalla sfera degli interessi sociali ed economici del gruppo a quella più angusta della famiglia e del singolo individuo, e da questa allivello della m era cosmicità - ad un rovinoso franare ali' indietro verso lo stato di natura, di tutto ciò che, quale progressiva conquista culturale, se ne era volutamente staccato» (Piccaluga, I974a, p. I49 ) 38 • Smuovere i termini, insomma, significherebbe disarticolare la realtà, scardinarla, restituirla a quella condizione di instabilità e incertezza che essa possedeva prima della terminatio compiuta da Giove. In effetti, chi smuove o annulla un confine, annulla le distinzioni, azzera le differenze; in parole povere distrugge la cultura, reinserendo al suo posto la natura, proprio come fa chi viola le regole della parentela. Per questo motivo la punizione non può che essere inflitta dalla divinità: perché il crimine non riguarda soltanto la messa in discussione di quel principio fondamentale che regola la vita comunitaria (lafides ), ma, come mostrano le conseguenze dell'atto, concerne la natura stessa delle cose, il mondo, il tempo, lo spazio 39. Il tipo di castigo appare poi strettamente connesso con la sostanza del reato. Si tratta di una specie di contrappasso. Tanto per cominciare agli esecutori materiali, cioè a coloro che vanno sul posto e manomettono i termini, è riservata una sorte ben diversa rispetto a quella che attende invece il mandante. Mentre quest'ultimo, infatti, subirà un peggioramento di stato che riguarderà la sfera sociale, economica e affettiva - se servus, finirà al servizio di commento puntuale al cesto, Piccaluga (1974b), in cui è raccolta e discussa la bibliografia precedente, da Mommsen a Dilke. 37· È evidente, come ha sottolineato Mazzarino (1957, p. 2.77 ), che la funzione qui attribuita alle pietre terminali è un riflesso della fondamentale importanza che ha la limitazione nella sociologia del mondo etrusco. Sulla terminatio etrusca, cfr. sopraccucco Lambrechcs (1970, pp. 81-90) e EdlundBerry (2.009). Per un centantivo di datazione del cesto, Heurgon (1959. pp. 41-s) e Harris (1971, pp. 31-40); sul luogo della genesi e in particolare sulle "finalità politiche", Rawson (1978), e sopraccucco Valvo (1987; 1988). 38. Cfr. anche Piccaluga (1974b, p. 138). Sull'importanza dei confini nella costituzione dell'ordinamento spaziale romano, MacCormack (1979), Gladigow (1992.), Walser (2.012.) e De Sanctis (2.014). 39· Sulla nozione di illecito "cosmico", si veda Sabbacucci (1981).

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S· QUI TERMINUM EXARASSET. ..

un padrone peggiore, se dominus, vedrà la sua casa cadere in rovina e tutta la sua gente morire -, i motores invece verranno colpiti "biologicamente", a partire dal momento stesso della rimozione: saranno affetti da terribili malattie e sofferenze e saranno debilitati nelle membra (motores autem pessimis morbis et vulneribus efficientur membrisque suis debilitabuntur) 40 • Una simile punizione dovrebbe suonarci familiare. In effetti, abbiamo incontrato, proprio all'inizio del nostro discorso, un motor, un violatore di termini, anche se, forse, del tutto inconsapevole: si tratta dello sfortunato avversario di Enea. Siamo così tornati all'aphormé offertaci dal testo virgiliano, al duello tra i due eroi e al «lancio del masso». Il giro che abbiamo fatto, un giro piuttosto lungo secondo i precetti dell'antropologia di Kluckhohn, ci permette ora di comprendere meglio il senso di questo episodio. Il saxum sradicato da Turno non è un masso qualunque, ma un grosso terminus. Ma smuovere un terminus significa penetrare nello strato più profondo del tessuto culturale e sociale del mondo romano, disarticolando lo stesso principio costitutivo della vita civile. Considerata la gravità del reato, non c'è da stupirsi che il diritto romano prevedesse per l' eventuale trasgressore la consacrazione al dio Terminus, o che in ambiente etruscoitalico circolasse l'idea di un castigo direttamente inflitto dalla divinità. Ovviamente con ciò non intendiamo dire che Virgilio avesse letto o sia stato suggestionato dalla profezia della ninfa etrusca; ma più semplicemente che sia il poeta latino, sia l'anonimo autore del testo conservato nei Gromatici Veteres hanno utilizzato il medesimo tema culturale: quello della violazione del segno di confine; un motivo che, come abbiamo cercato di mostrare, trova espressione sia nei testi letterari, che nelle forme del diritto, che nella tradizione popolare e folclorica. Evidentemente, per i Romani, e ancor prima per gli Etruschi, rimuovere una pietra terminale era considerato un atto sacrilego che richiamava sul colpevole la punizione del dio. Per questa ragione, una volta divelto il grande masso, Turno non è più soltanto l'antagonista di Enea, ma anche e soprattutto un ribelle all'ordinamento di Giove, di cui il terminus è un rappresentante (Huskey, 1999, p. ?9) 4 '. Ecco perché cio che segue più che un vero e proprio duello assomiglia piuttosto ad una esecuzione 42 • Se, sradicando il grande masso, Turno intendeva sfogare la propria ira, o forse semplicemente impressionare il suo avversario con una dimostra40. Per quel che riguarda le effettive sanzioni previste per il crimen de termino moto in età repubblicana e imperiale, cfr. Massimiliano Vinci (2004, pp. 87-107). 41. L'autore però sembra considerare l'infrazione di Turno volontaria e cosciente. 42. È significativo che parte della lettaratura anglosassone abbia invece attribuito interamente ad Enea il merito della vittoria, sottovalutando, di conseguenza, il contributo delle forze divine presenti sulla scena; in questo modo, facendo "giustiziare" ad Enea il sacrilego Turno, Virgilio avrebbe ddìnitivamente conferito al protagonista del poema i tratti caratteristici dell'eroe religioso (così

LA LOGICA DEL CONFINE

zio ne di forza - secondo un modello ben documentato nei poemi omerici -, l' effetto che ne ottiene è invece tutt'altro: utilizzare un terminus come arma significa porsi al di fuori della cultura, non riconoscerne i principi, dichiarare la propria estraneità al mondo ordinato e pacifico voluto da Giove. Attraverso quell'atto Turno compie insomma il suo ultimo crimine e scivola senza accorgersene nel mondo del "sacro", soggiogato dal terribile morbo che attende i profanatori dei cippi terminali.

Fowler, 1919, p. 62; Hornsby, 1970, p. 13S), o quelli del campione di virtù morali (Williams, 19S2, p. 355; Petter, 1994, p. SI; Huskey 1999. p. So).

Parte seconda Delimitare e punire

6

Storia di un delitto e delle sue interpretazioni

lo non mi interrogo su come siano andate realmente le cose: mi domando in che modo le cose vengono ricordate e collocate nell'autorappresentazione storica o, più precisamente, nella se manti ca storica di una determinata cultura. Jan Assmann, Non avrai altro dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, il Mulino, Bologna 2.007, p. 53

6.1

Gli acerba fata del popolo romano In uno studio ancora oggi fondamentale, pubblicato agli inizi del Novecento, Arnold Van Gennep ha mostrato quanto sia imporrante per le culture tradizionali curare i passaggi materiali, gli attraversamenti, e più in generale i mutamenti di stato. Per questo tipo di società «passare» da un luogo ad un altro - la forma più elementare dei riti di passaggio dalla cui struttura dipendono quelle culturalmente più elaborate- è un'azione tutt'altro che banale, di ordine puramente simbolico o psicologico. Si tratta invece di un atto rilevante per la vita del singolo e del gruppo, che si connota spesso di valenze religiose o magico-religiose, e richiede pertanto un cerro grado di attenzione (Van Gennep, 1909, pp. 14-l1). Perché il passaggio venga effettuato correttamente è opportuno agire secondo le regole; vale a dire utilizzando formule appropriate e comportamenti rituali che «non hanno soltanto lo scopo di neutralizzare l'impurità o di attirare su di sé i malefici, ma anche di servire realmente da ponte, da catena, da legame, in breve, di facilitare i mutamenti di stato senza scosse violente per la società, né bruschi arresti della vita individuale e collettiva» (i vi, p. 41 ). Sulla morbosità dei Romani nei confronti di questo genere di pratiche, molto si è già detto a proposito di Terminus e dell'ordinamento spaziale a cui egli è preposto. In questa seconda parre vedremo come l'idea del confine e del suo attraversamento siano letteralmente "al centro" del mito di fondazione. Secondo il racconto tradizionale, infatti, Roma sarebbe sorta con la morte di 93

LA LOGICA DEL CONFINE

Remo - qualcuno sostiene, come vedremo fra poco, dalla morte di Remo - che aveva oltrepassato il limite ancora in fieri del nuovo insediamento e lì era stato ucciso da Romolo. Renato Oniga (1990, pp. 87-109), in uno studio dedicato ad un episodio etnografico registrato da Sallustio nel Bellum lugurthinum, ha dimostrato che la morte sul confine è un mitema diffuso anche al di fuori della cultura romana; solo che in questo caso la vittima non è un individuo da poco, un uomo qualunque, un semplice personaggio-funzione, ma il fratello gemello del nuovo sovrano, in sostanza un "doppio" del re. Al centro del mito di fondazione di Roma si intersecano, dunque, due motivi antropologici "forti": da un lato la morte sul confine, dall'altro il tema della gemellarità 1• Gli antichi avevano riflettuto a lungo sul fatto di sangue che diede avvio alla storia della loro città2 • Orazio, ad esempio, vedeva nel fratricidio primordiale una sorta di mitica premonizione di quanto sarebbe avvenuto al tempo delle guerre civili: è così: tremendi destini agitano i Romani e il delitto di un fratello, da quando il sangue di Remo innocente irrorò la terra, maledetto per i suoi discedentil.

La decadenza della res publica, che Cicerone e Sallustio avevano imputato alla degenerazione degli antichi mores\ al giovane Orazio appariva piuttosto come il frutto di uno scelus ancestrale che aveva macchiato ab origine ifota del popolo romano: era inevitabile che una città sorta da una caedes tra fratelli si disgregasse un giorno a causa di una caedes fra cittadini>. Ma quale sarebbe stato il motivo o il pretesto del fratricidio? Le alternative che emergono dal groviglio delle tradizioni antiche, nonostante differenze marginali, sono sostanzialmente due, che chiameremo per comodità versione A e versione B. Nella prima (A) Remo viene ucciso da Romolo o da uno

1. Su questo punto, oltre a Poucet (1985, pp. 238-43), si vedano gli studi di Alain Meurant (1997, 1999. 2000 e 2003). 2. Una ricca rassegna dei passi relativi al mito è in Wiseman (1995). 3· Orazio, Epodi 7, 17-20: sic est: acerba jàta Romanos agunt / scelusque fraternae necis, / ut

immerentis fluxit in terram Remi/ sacer nepotibus cruor. 4· Sull'idea di decadenza dello Stato romano negli storici e intellettuali dd II e 1 secolo a.C., cfr. Mazzarino (1988, pp. 17-32). 5· Dal leggere il fratricidio come aition delle guerre civili che avevano dilaniato l'antica Repubblica e condotto al Principato, al vedervi, come hanno farro alcuni, una sorta di peccato originale finalmente espiato da Otraviano Augusto, il cui regime doveva apparire conseguenza e allo stesso tempo espiazione necessaria delle guerre fratricide, il passo è stato breve: su questa linea, cfr. Zilienski (1939), Wagenvoort (1948), Benabou (1984) eJohner (1991).

94

6. STORIA DI UN DELITTO E DELLE SUE INTERPRETAZIONI

dei suoi seguaci nella mischia determinata dali' esito incerto della contesa augurale;

(B) Romolo, o uno dei suoi seguaci, uccide Remo quando quest'ultimo, per schernire il fratello o nella più completa ingenuità, salta il solco/muro nella seconda

- anche sulla natura del confine violato, come vedremo, le fonti divergono - del nuovo abitato. Livio, seppur brevemente, riferisce entrambe le versioni: Si dice che a Remo per primo siano apparsi sei avvoltoi come segno augurale; e dal momento che, quando ormai l'augurio era stato annunciato, un numero doppio si era mostrato a Romolo, entrambi furono proclamati re dalle rispettive schiere: questi reclamavano il regno in base alla precedenza temporale, gli altri in base al numero degli uccelli. [A] Così, una volta incontratisi per discutere, dalla contesa delle ire furono condotti alla strage. Qui Remo cadde colpito nella mischia. [B] È più nota la tradizione secondo cui Remo per scherno nei confronti del fratello avrebbe oltrepassato le nuove mura; perciò fu ucciso dall'irato Rom olo, che avrebbe aggiunto gridando queste parole: «Così chiunque altro scavalcherà le mie mura» [ «sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea» ]. In questo modo Romolo si impadronì da solo del comando; la città una volta fondata, prese il nome dal suo fondatoré. Dionigi segue il medesimo schema: dopo aver riportato la versione secondo cui Remo sarebbe caduto nella mischia seguita alla contesa augurale 7, versione che egli ritiene la piÙ attendibile (6 fLÈV OÌIV ·m6ctVWTctToç TWV À6ywv rrepÌ rijç 'PWfLOU TEÀEUT* OÙTOç elvcti fLOl OOICEt), riferisce, se p pure piÙ SUCcintamente, anche l'altra, quella in cui Remo viene ucciso lungo

il confine della nuova fondazione:

Alcuni dicono che [Remo], dopo aver ceduto il comando a Romolo, irritato e sdegnato per l'inganno subito, mentre veniva costruito il muro, per dimostrare la sua inutilità, esclamò: «Facilmente un nemico potrebbe scavalcare il vostro muro, come me!>> e subito saltò al di là. Ma Celere, uno di quelli che era salito sul muro e dirigeva i lavori, esclamando: «Facilmente, però uno di noi potrebbe respingerlo>>, lo colpì con una vanga sulla testa e lo uccise sul colpo. Così si dice sia finita la discordia fra i gemelli 8•

6. Livio, Ab Urbe condita libri l, 6, 1-3: Priori Remo augurium venisse firtur, sex voltures; iwv TOLOiiTo ÀÉymu yevèa9cxt. La versione B risultava "favolosa" anche a Servi o, Ad Aeneidem VI, 779:jabulosum enim est quod a jratre propter muros dicitur interemptus. 9· Diodoro Siculo, Bibliotheca historica VIII, 6: ''OTt ò 'PwfLÒÀoç KTI~wv T~v 'PWfL"r]V Tpov neptÉ~cxÀE Tcj> ncxÀc:tTLCfl KCXTIÌ 0"7rOUÒ~V, fL~ TLVEç TWV 7rEplOLKWV Èm~ciÀWVTCXL KWÀUELV CXUTOii T~V npocx[pEO"LV. '0 ÒÈ 'PèfLoç ~cxpèwç cj>epwv enì Tcj> Òteacj>ciÀ9cxt Twv npwnlwv,cj>Sovwv òè T~ç EuTUxlcxç Tcj> ciÒeÀcj>cj>, npoatwv Toiç epyc:t~OfLÉvOlç e~Àcxacjl~fLEl' amcj>~VCXTO yil.p O"TEV~V ElvcxL T~V Tcicj>pov, KCXÌ èmcrcj>cxÀ~ EO"E0"9c:tt T~V 7rÒÀLV, TWV 7rOÀEfLLWV pq.Ò[wç CXUT~V Ù7rEp~c:tlVÒVTWV. 'O Òè 'PWfLUÀoç wpylO"fLÉvOç ecj>"l]. napayyeÀw 7rciO"L Toiç 7rOÀLTCXLç .XfLUVc:ta9cxt TÒV Ù7rEp~cxlvELV emxetpoiiVTc:t. Kcxì nciÀLV ò 'PEfLoç Toiç èpycx~OfLEVOLç OVELÒL~WV Ecj>"r] O"TEV~V KCXTCXO"KEUcl~ELV T~V Tcicj>pov· EÙXEpwçyÌI.p Ù7rEp~~O"Ea9c:tl TOÙç 7rOÀEfLLOuç• KCXÌ y!Ìp CXÙTÒç pq.Ò[wç TOUTO 7rpclTIELV' KCXÌ lifLCX TCXUTCX Àeywv ÙnEp~ÀCXTO. 'Hv ÒÉ TLç KiÀepoç, Elç TWV Èpycx~OfLÈVWV, oç ÙnoÀa~wv, 'Eyw ÒÉ,cj>"r]O"LV, lifLUVOUfLCXL TÒV Ù7rEp7r"I]ÒWVTCX KCXTIÌ TÒ 7rpÒO"TCXYfLCX TOU ~CXO"LÀÈwç, KCXÌ lifLCX TCXUTCX ÀÈywv aVETELVE TÒ O"Kc:tcj>EiOV KCXÌ 7rc:tTci;cxç T~V KEcj>c:tÀ~V a7rÉKTELVE TÒV 'PEfLOV. IO. Plutarco, Romulus IO, 1·2.: 'Emi ò' eyvw T~V cinciT"I]V 6 'PèfLOç, excxÀÉ7rc:tlVE, Kc:tl TOii 'PWfLUÀOU Tcicj>pov 6puTTOVToç TÒ nixoç EfLEÀÀE KUKÀoiia9c:tl, TIÌ fLÈv ÈXÀEUCX~E TWV epywv, Toiç ò' ÈfL7rOÒwv eyÉYETO. TiÀoç ÒÈ ÒtcxÀÀ6fLEVov cxuTÒv o! fLÈV cxùToii 'PwfLl>Àou naTa;anoç, ol ÒÈ Twv hcxlpwv Ttvòç KD-epoç, ÈVTcxii9cx neaeiv ÀÉyouatv.

n

6. STORIA DI

UN DELITTO E DELLE SUE INTERPRETAZIONI

mente cieca e indiscriminata. Tuttavia, se facessimo della verosimiglianza storica e delle ragioni psicologiche i criteri guida della nostra analisi, tratteremmo questo racconto come se fosse una cosa vera, come un delitto realmente accaduto in un luogo e in un tempo precisi. Qui invece si tratta di indagare su un mito, anzi su una serie di riscritture di un mito, e sui suoi possibili significati culturali. Perciò quello su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione è proprio l'elemento discrepante, l'anomalia, ciò che allontana irrimediabilmente il nostro racconto da un fatto di cronaca nera e gli conferisce invece la fisionomia di una fabula, vale a dire il "motivo del salto lungo il confine". D'altra parte, se questa è la vulgatiorfama, impostasi tanto nella tradizione storiografìca successiva (da Floro e Giustino fino ad O rosi o)", quanto in quella poetica (Ovidio, Tibullo, Properzio)'>, evidentemente è in questa versione (B), e non nell'altra (A), quella più "logica" e "verosimile", che i Romani trovavano un senso. Si tratta ora di vedere quale fosse.

6.2 Il bello dei miti: interpretazioni di interpretazioni Quello che dobbiamo chiederci, in altre parole, non è come siano andate realmente le cose, ma piuttosto perché le cose siano state ricordate in questo modo; perché nello specifico la versione secondo cui Romolo uccise il fratello in seguito al salto del fosso/muro della nuova fondazione si è imposta sulle altre, e infine che senso può avere un simile racconto nell'autorappresentazione storica che i Romani diedero di sé. Quello che qui si prospetta dunque non è propriamente una ricerca storica, bensì, mnemostorica. La mnemostoria, come ci spiegaJan Assmann (I998, pp. 33-4), a differenza della storia, non si prefigge di scoprire quale sia la verità di una determinata tradizione, ma di studiare tale tradizione in quanto fenomeno della memoria culturale: Nella sua qualità di patrimonio individuale e collettivo la memoria non è semplicemente l'accumulo e il deposito di avvenimenti passati, ma il lavoro ininterrotto dd!' immaginazione ricostruttiva. Il passato, in altre parole, non può essere immagazzinato, ma deve essere continuamente assimilato e trasmesso. Questa trasmissione dipende dalle esigenze e dalle strutture semantiche di un dato individuo o di un dato gruppo sociale all'interno di un determinato presente. Se «siamo ciò che ricordiamo>>, allora la verità di una memoria sta

11. Floro, Epitome de T. Li vio bellorum omnium annorum DCC libri duo l, I, 8; Giustino, Historicarum Philippicarum T. Pompeii Trogi libri XLIV in epitomen redacti XXVIII, 2., 8· IO; O rosi o, Histori,ze adversus paganos II, 4, 3· I2.. Ovidio, Fasti IV, 837-844; Properzio, Elegiae III, 9, ;o; Tibullo, Carmina II,;, 2.3-2.4.

97

LA LOGICA DEL CONFINE

nell'identità stessa che la forma. Tale verità è soggetta al tempo, tanto da trasformarsi con ogni nuova identità e ogni nuovo presente. È nella scoria, non come si è svolta, ma come continua a vivere e a dispiegarsi nella memoria collettiva. Se «siamo ciò che ricordiamo», allora siamo le storie che sappiamo raccontare su di noi.

Ora, le storie delle società studiate dagli antropologi sono i miti, ossia racconti tradizionali che, per quanto incredibili, possiedono un'efficacia culturale che spesso trascende il mero interesse storiografico. Essi non sono né veri, né falsi, ma questo non impoverisce affatto l'importanza che essi rivestono all'interno della comunità (Veyne, 1983, in part. pp. 55-70 ). Livio, che pure si dichiara piuttosto scettico circa l'attendibilità degli antichi racconti sui primordia urbis, e anzi li definisce decora che si addicono più alle Jabulae poeticae che agli incorrupta rerum gestarum monumenta'l, non per questo vi rinuncia, né esita nel corso della sua opera a dedicare loro ampio spazio. Egli, infatti, non si propone di scrivere un'opera storica secondo i canoni storiografici moderni, ma piuttosto di rintracciare e mettere in evidenza i significati morali della narrazione storica. In quest'ottica lefabulae, più degli incorrupta monumenta rerum gestarum, in virtù del loro carattere esemplare si rivelano dei formidabili strumenti pedagogici, poiché traducono in immagini narrative le virtù e i vizi che hanno segnato i primi secoli della storia romana e attraverso le azioni dei loro protagonisti dimostrano ciò che deve essere imitato, perché moralmente utile per il singolo individuo e per lo Stato, e ciò che invece deve essere scartato in quanto Joedum' 4 • Non è importante, dunque, come queste storie vengano giudicate, se vere o false, quel che conta non è la loro attendibilità, ma piuttosto la loro «significatività», ossia il peso straordinario che esse hanno avuto nella costruzione dell'identità culturale del popolo romano (Bettini, 2010, pp. xnXIV)'5. In questo senso si può dire che i miti facciano la storia di un popolo, né più e né meno degli avvenimenti realmente accaduti e che nascondano verità non meno importanti dei fatti. Ovviamente, una prospettiva del genere non può dispensarci dal tener conto dei risultati emersi dallo studio di altre fonti, come ad esempio la documentazione archeologica. Può essere utile a questo punto distinguere, con Assmann (2007, p. 54), le fonti a disposizione dello storico in tre diverse categorie: tracce, messaggi e

'3· Li vi o, praefotio 6: Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decora Jabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adjìrmare nec rejeffere in animo est. 14. lvi, 10: Hoc if!ud est praecipue in cognitione rerum salubre ac ftugifèrum. Omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, in de foedum inceptu foedum exitu quod vites. 15. Sull'importanza delle fabula nella cultura romana, cfr. Ferro (z.oos-o6; 2.ou); sulle jàbulae liviane, in particolare Forsyrhe (1999, pp. 40-51) e Viglierri (z.ou, pp. 72.-6).

6. STORIA DI UN DELITTO E DELLE SUE INTERPRETAZIONI

ricordi. Le tracce sono le testimonianze materiali che risalgono ali' epoca che intendiamo studiare, ciò che concretamente rimane di quel mondo, potremmo dire i suoi "resti corporei". I messaggi sono le fonti testuali coeve al periodo preso in esame, il cui scopo era informare i contemporanei e i posteri sui fatti accaduti. Infine, i ricordi sono gli sguardi che le epoche successive rivolgono retrospettivamente al passato, dunque, le riscritture del passato. Per quanto riguarda il nostro oggetto di studio, abbiamo a che fare con tracce e poi principalmente, anzi quasi esclusivamente, con ricordi. Mentre infatti possiamo contare su una certa quantità di materiali (strutture murarie, resti di edifici templari, suppellettili ecc.) relativi al contesto della fondazione, non abbiamo alcun testo che risalga tanto indietro nel tempo e la maggior parte delle informazioni di cui disponiamo sono riflessioni e ricerche storiche e antiquarie compiute da intellettuali greci e romani distanti ormai secoli dali' evento che si propongono di raccontare. In sostanza le versioni confluite in Livi o, Diodoro, Dionigi, Plutarco e gli altri appartengono al genere dei ricordi, anche se è probabile che nelle loro narrazioni siano confluiti echi di messaggi, provenienti ad esempio dal patrimonio della tradizione orale (Schiavo ne, 2.005, p. 4 7 ). Pertanto, conviene confessarlo subito, la nostra interpretazione non può che essere un'interpretazione di un'interpretazione.

6.3

Ricostruzioni moderne Là dove la natura e la quantità delle fonti lasciano ampi spazi alle possibilità esegetiche della ricerca, possono fiorire veri e propri gineprai di ipotesi, teorie e ricostruzioni più o meno articolate. Pochi temi della storia europea sono stati studiati con tanta energia e ardore come la leggenda relativa alla fondazione di Roma. Si può dire che non ci sia stato nessuno tra i grandi storici di Roma antica che non si sia posto il problema, a cominciare da Barthold Georg Niebuhr (I873l, pp. I70 ss.) che vedeva nella saga dei gemelli la prova dell'esistenza originaria di due comunità geograficamente e culturalmente vicine, ma al tempo stesso rivali, per cui l'assassinio di Remo da parte del fratello non avrebbe altro significato se non quello di ricordare la definitiva sconfitta del villaggio di Remuria ad opera di quello del Palatino. Albert Schwegler (I853, pp. 434 ss.), poco convinto dell'interpretazione simbolica proposta da Niebuhr, considerava i gemelli fondatori delle figure eroiche costruite sul modello dei Lares Praestites, gli dèi protettori di Roma, e la morte di Remo un vero e proprio aition, il cui scopo era spiegare l'origine della inviolabilità delle mura. Theodor Mommsen (I88I), che pure trovava difficile spiegarsi la morte di Remo (un elemento «disarmonico» nel complesso della storia), vedeva invece nel mito 99

LA LOGICA DEL CONFINE

dei gemelli il modello della collegialità magistratuale di epoca repubblicana 16• Ettore Pais (192.6, pp. 317-8, n. IX) non dava molto peso al problema del fratricidio: «Tralasciamo di esaminare vari elementi di minore importanza che, come ad esempio, quelli relativi alla morte di Remo, rivelano soltanto il desiderio di dare origine storica a tutti i particolari delle cerimonie religiose e civili dello stato». In quegli stessi anni gli studi sulla storia dell'onomastica latina portarono invece Wilhelm Schulze (1904, pp. 2.19, 368, 579-81) a ipotizzare che Romolo e Remo fossero in origine gli eponimi di due famiglie provenienti dal vicino mondo etrusco in competizione fra loro: lagens Romilia da rumlnas, e lagens Remnia o Remmia da remne. Le ipotesi di Kretschmer (1909)- Remo, il greco Rhomos, unico fondatore originale, e Romolo, l'Altellus di Verrio Placco, inserzione posteriore - e Rosenberg (1914) -una tradizione indigena incentrata sulla figura di Romolo mescolata intorno al v sec. a.C. con una versione greca in cui il fondatore sarebbe stato Rhomos- sono in fondo varianti più o meno ingegnose delle tesi di Schulze; nessuna di esse tuttavia si preoccupa di spiegare adeguatamente l'enigma del fratricidio 17. L'attenzione per gli aspetti linguistici della questione scomparve nei lavori successivi a vantaggio di interpretazioni che tornavano a privilegiare ragioni di carattere storico-politico. Secondo la complicata ipotesi diJérome Carcopino (192.5, pp. 6o75) la storia dei gemelli sarebbe sorta intorno alla metà del IV sec. a.C., più precisamente all'epoca della federazione romano-campana, per simboleggiare l'alleanza fra Roma e Capua, entrambe figlie della lupa. Poi la defezione di Capua in favore di Annibale nel2.16 avrebbe reso necessaria l'eliminazione di uno dei due fondatori 18 • Tra i moderni non sono mancati neppure gli apologeti di Romolo: per ripulire la memoria culturale dei Romani dali' inquietante presenza di fratricidio bastava considerare la morte di Remo un episodio della saga creato ad arte in ambienti ostili alla dominazione romana, allo scopo di screditare le origini della civiltà che era da poco divenuta signora del Mediterraneo (Strasburger, 1968, pp. 35 ss.). Tuttavia oggi si ritiene, quasi unanimemente, che questo fosse un elemento originario, poi recuperato e sfruttato al momento opportuno dalla propaganda internazionale antiromana 19 • D'altra parte, soltanto considerando il

16. Secondo Classen (1963), che pure riconduceva l'origine della leggenda all'epoca repubblicana, il simbolo della gemellarità sarebbe stato di natura diametralmente opposta rispetto a quella individuata da Mommsen, poiché la figura e la morte di Remo avrebbe in realtà adombrato l'esclusività del potere monarchico da poco abbattuto. 17. Per una discussione più dettagliata sulle tesi di Schulze, Kretschmer e Rosenberg, si veda l'ampia disamina di Wiseman (1995, pp. 87-90). 18. Carcopino vede nella lupa l'animale totem dei sabini e nei gemelli il simbolo originario dei due popoli (Sabini e Latini). 19. Nell'antichità della tradizione credono Alfoldi (1974, pp. 69 ss.) e Cornei! (1975). Entrambi IOO

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fratricidio come un elemento costitutivo della leggenda sarebbe possibile spiegare la versione che attribuisce l'assassinio a Celere 10 • L'esistenza di questa variante, infatti, è per lo più intesa dalla critica storica moderna come un tardo espediente narrativo costruito al fine di riabilitare la figura del fondatore, scagionandola dalla responsabilità diretta della morte del fratello 11 . Per lo stesso ordine di motivi risultano sospette sia la versione in cui l'imbarazzante uccisione del fratello è rimpiazzata da una diarchia ugualitaria e pacifica'>, sia quella ritengono che la leggenda di fondazione sia l'espressione di una duplicità primordiale dello Stato romano che si riflette non soltanto nel mito, ma anche nei culti (due gruppi di Luperci, due gruppi di Salii, i due Lares Praestites ). z.o. Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae l, 87, 4; Plutarco, Romulus 10, 2.-3; cfr. anche De Viris illustribus r, 4; Diodoro Siculo, Bibliotheca historica VIII, 6, 3; in Girolamo, Chronicon p. 152. Fotheringham, Remus a rutro pastorali a Fabio Romuli duce occisus; tuttavia è in Ovidio, Fasti IV, 837862., che la riabilitazione del fondatore sembra davvero completa: in questo caso l'uccisione di Remo da parte di Celere si presenta come una diretta conseguenza del comando impartito da Romolo di uccidere chiunque avesse osato scavalcare la cima muraria; per questo Ovidio raffigura il fondatore straziato dalla morte del fratello ma allo stesso tempo incapace di condannare il gesto di Celere: Haec ubi rex didicit, lacrimas introrsus obortas l devorat et clausum pectore volnus habet. l Fiere palam non volt, exemplaque fortia servat: l «Sicque meos muros transeat hostis!» ait. l Dat tamen exsequias, nec iam suspenderejletum l sustinet, et pietas dissimulata patet (lv, 845-850 ). In questo caso Romolo fini· rebbe in quella schiera di personaggi del mito tristemente famosi per essere stati involontariamente responsabili della morte di un proprio congiunto. Del resto, questa immagine è perfettamente corrispondente a quella costruita nel v libro, dove l'autore si sofferma a descrivere l'origine della festa dei defunti, i Lemuria (anticamente Remuria): qui è il fantasma di Remo che nel richiedere a Faustolo ed Acca (v, 455 ss.) che venga istituita una festività in suo onore accusa esplicitamente della sua morte Celere, scagionando così il fratello: Saeve Caeler, crudelem animam per volnera reddas, l utque ego, sub terras sanguinulentus eas. l Noluit hocJrater, pietas aequalis in ilio est: l quod potuit, lacrimas in mea .fota dedit (v, 468-472.). Nonostante l'opinione di Kramer (1965, p. 367) e di Porte (1985, p. Ioi), secondo cui nei Fasti il torbido conflitto fra i gemelli sarebbe stato risolco in una dimensione conciliante e tranquilla, anche qui, come ha mostrato Barchiesi (1994, pp. 148-53), è possibile trovare tracce della doppiezza e dissimulazione di Romolo: «Se Romolo ha affidato la protezione delle mura a uno che si chiama Celere, non c'è troppo da stupirsi quando le cose precipitano. Ignorare il potenziale dd nome, e scagionare anche Celere, comporta che Romolo - proprio nella versione che a prima vista lo favorisce di più -venga riportato in gioco: al posto del fratricidio rimosso, ecco una sfumatura non lontana dal concecco di mandante>> (ivi, p. 149). 2.1. Ampolo, Manfredini (1988, p. xxxvu); cfr. anche Benabou (1984, pp. 103-15). Già Binder (1971, p. 163, n. 68) aveva notato che la riabilitazione di Romolo era necessaria all'assimilazione di Augusto allo stesso Romolo. 2.2.. L'annalista Cassio Emina (fr. 14 Sancini = HRR, fr. u) riferisce che il popolo dei pastori al seguito dei gemelli fece in modo che il potere fosse egualmente diviso senza contese: Pastorum vulgus sin e contentione consentiendo praefecerunt aequaliter imperio Remum et Romulum ita ut de regno pararent inter se. A questa presunta doppia regalità accennano anche gli Scholia Bobiensia ad Ciceronis in Vatinium 2.3 e un famoso verso dd poema virgiliano in cui i gemelli sono raffigurati come i primi sovrani di Roma: Remus cum Jratre Q!tirino l iura dabunt (Aeneis l, 2.92.-2.93). Curiosamente una parre cospicua della storiografìa bizantina (cfr. in particolare il racconto di Giovanni Malalas, Chronographia, in CSHB, pp. 171-2., e quello del Chronicon Paschale, in CSHB, p. 2.14) ha ereditato questa IOI

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riferita dall'oscuro Egnatius, secondo cui Remo sarebbe sopravvissuto a Romolo13. Ovviamente un mito del genere non poteva non destare l'interesse degli storici delle religioni. Georges Dumézil (1974, pp. 229-31), il grande indoeuropeista francese, vedeva nella saga dei gemelli la forma propriamente romana assunta dall'antico teologema vedico e prevedico costituito dalla coppia dei Nasarya o Ashvin, gemelli tanto rappresentativi da ottenere il terzo posto nell'elenco canonico degli dèi delle tre funzioni: Micra-Varuna, Indra e appunto i due Nasarya. Tuttavia, nonostante le numerose concordanze rintracciate fra la storia di Ramolo e Remo e quella dei loro più antichi "prototipi" vedici, egli non riusciva a spiegarsi la necessità del conflitto finale fra i due 14. Secondo Jaan Puhvel (1975-76, pp. 146-57; 1987, pp. 290 ss.), autore di una analisi comparacivisca condotta sui "miei di creazione" norvegesi, germanici e vedici, dietro la storia dell'uccisione di Remo si celerebbe il sacrificio cosmogonico di un gemello primordiale; ricostruzione questa che deve molto alle suggestioni di Mircea Eliade, in particolare al "mito dell'eterno ritorno", ma che pare in ogni caso costretta a vertiginose acrobazie etimologiche e a pericolanti parallelismi etnografici1>. Se i risultati raggiunti dagli studi comparativisti non sono risolutivi, è perché, come ha avuto modo di dimostrare Tim Cornell (1995, pp. 61-3), la scoria dei gemelli è composta di mitemi comuni a culture anche molto lontane far loro: Ic is also clear chat che scory concains folk-cale elements which are echoed in mychs and legends from many societies chroughout che world. Well-known examples include Cyrus of Persia, Semiramis che founder of Babilonia, Sargon rh e founder of che Akkadian dynasty, variante del mito di fondazione, per cui soltanto dopo la costruzione monumentale dell' Urbs e un breve periodo di regno in comune sarebbe scoppiato l'odio che avrebbe condotto al fratricidio. Ma in queste versioni tarde il particolare più interessante è rappresentato dallo stratagemma della "statua d'oro" con il volto e le: sc:mbianze di Remo che Romolo avrebbe posto accanto a sé sul trono per porre fine alle guerre intestine: scoppiate in seguito al suo assassinio; in proposito, Fraschetti (2oo2, pp. 126-7 ). Sul significato antropologico di questa controfigura del defunto, costruita per ricomporre «surrettiziamente» la coppia gemellare, cfr. Bettini (1992, p. 118), con paralleli nella mitologia classica e nel folclore. l). Origo Gentis Romanae l), 6: Contra Egnatius libro I in ea contentione non modo Remum non esse occisus, sed etiam ulterius a Romulo vixisse tradit. 24. La tesi di Dumézil è poi ripresa e discussa con particolare attenzione da Wiseman (199s. pp. l)-8). lS- Più tardi, lo stesso Eliade (1976, vol. n, pp. III·)) accoglierà la tesi di Puhvd e vedrà nella morte di Remo il riflesso di un sacrificio primordiale, simile a quello di Parusa, Ymir o P'an-ku. Lo stesso anno in cui esce l'articolo di Puvhel, nello stesso numero della stessa rivista (" History of Religions", IS), compare anche un articolo di Bruce Lincoln, intitolato The lndo-European Myth oJCreation (pp. Ili·4s). che suggerisce allo stesso Puvhell'ipotesi dd parallelismo indoeuropeo. Per una critica a queste posizioni, cfr. Bremmer-Horsfall (1987, p. 37); ma anche Wiseman (199s. pp. 16-22). 102

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Ion che ancestior of che Ionians, che Trojan princes Paris an d Aeneas, che Greek heroes Perseus and Oedipus, che usurper Aegisthus (che murderer of Agamemnon), Cypselus the cyranc of Corinch, che Sassanian king Shapur, and Pope Gregory che Greac. le will be evidenc, moreover, chat the Christian nativicy story contains many of same mychical elements [... ]. The recurrence of che same mocifs in so many different concexcs cannot be explained by licerary or ora! diffusion, or by common inheritance wichin a parcicular echnic or linguistic family. The stories are noc characteriscically Indo-European or Semitic; they are manifescly boch, and more besides. Racher, chey must be seen as popular expressions of some universal human need or experience, occurring independencly in cimes and places chac are worlds aparc. Everyching suggests, cherefore, chat che legend of Romulus and Remus was both ancienc and indigenousl 6•

Insomma, avere a disposizione una serie pressoché infinita di paralleli etnologici, provenienti dalle aree e dalle epoche più disparate, è un po' come non averne nessuno. Come detto, l'efficacia della comparazione antropologica risiede nella sua capacità di mettere in risalto l'originalità delle culture comparate. Veniamo infine all'interpretazione proposta da Dominique Briquel ( 1980, pp. 294-300; 20oo) e Augusto Fraschetti (2002, pp. 33-4): poiché Remo, saltando il perimetro in fieri della nuova fondazione, mostra di non rispettare i significati

l6. D'altra parte, sebbene non manchino in Occidente miti di fondazione che hanno per protagonisti due ecisti o episodi che mostrano i due in conflitto,l'eliminazione di uno da parte dell'altro non è quasi mai attestata. I racconti costruiti sulle figure gemellari prevedono spesso infatti la prevaricazione di uno dei due fratelli sull'altro, ma difficilmente la storia si conclude con la morte del gemello sconfitto: nessuna variante del mito di Acrisio e Preto, a parte quella riferita da Ovidio, Metamorphoseon libri v, l36-l41, prevede un esito cruento: i due gemelli in un modo o nell'altro finiscono per regnare, l'uno su Argo,!' altro su Tirinto {Pausania, Descriptio Graeciae II, lS, 7; Apollodoro, Bibliotheca 11, l, 1); non differisce sostanzialmente da questo schema narrativo né la vicenda di Panopeo e Criso, fondatori eponimi delle città rivali di Panopea e Crisa {Pausania, Descriptio Graeciae x, 41; Scholia ad lliadem Il, SlO; Scholia in Euripidis Oresten 1645), né quella di Egitto e Danao (Apollodoro, Bibliotheca Il, 1, 4; Scholia ad Iliadem l, 4l; Igino, Fabulae 170; Pausania, Descriptio Graeciae VII, li, 6); né quella di Pelia e N eleo (Apollodoro, Bibliotheca l, 9, s). che secondo la vecchia tesi di Mommsen avrebbe costituito il modello per la storia di Romolo e Remo. Soltanto l'episodio biblico che ha per protagonisti Esaù e Giacobbe presenta effettivamente alcuni elementi in comune con la vicenda di Romolo e Remo ( Genesis lS-8 e n): in questo caso l'ostilità tra i due si manifesta addirittura nel grembo materno. Quando arriva il momento di dividere l'eredità del padre !sacco, Giacobbe lascia al fratello la possibilità di scegliere per primo fra beni mobili e beni immobili. Esaù sceglie i primi; Giacobbe gli impone allora di lasciare la Palestina. Esaù tuttavia, che non sa accontentarsi di questa divisione, rientra nella terra promessa ed assedia la fortezza in cui si trova il fratello. È allora che Giacobbe tende il suo arco e colpisce con una freccia il fratello ad una gamba. Così Esaù muore, un po' come Remo, mentre tenta di entrare nella cittadella del gemello. Su questo episodio ha insistito recentemente Carandini (lOoob, pp. 138-9). Più in generale sul tema della gemellarità si veda Mencacci (1996) e Bettini (1998, pp. 9-10), che riprende una suggestiva analisi di Claude LéviStrauss (1991), dedicata allo studio della gemellarità nella mitologia sudamericana, su cui torneremo fra poco.

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culturali che quella dicotomia presuppone, Romolo, uccidendolo o facendolo uccidere, non soltanto si libera di un ingombrante e pericoloso antagonista, ma allo stesso tempo respinge al di fuori della città il sistema valoriale che il suo gemello evidentemente impersonifica. Il nuovo ordine esige la netta distinzione dei due universi simbolicamente rappresentati dai gemelli 27 • Il solco/muro tracciato dal fondatore avrebbe, dunque, separato il vecchio mondo da cui essi provenivano (il mondo della natura, delle selve e dei boschi) dal nuovo mondo (quello della città e delle leggi) costruito su uno stile di vita del tutto antitetico. Il fondatore di una comunità è anche colui che le conferisce una identità precisa. Per avere la sua identità, Roma deve pertanto risalire ad un fondatore unico. Eliminando Remo (il gemello/natura) e facendo di Romolo l'unico fondatore, Roma dichiara il suo carattere univoco di prodotto della cultura. L'uccisione di Remo significa quindi l'esclusione di tutto ciò che si pone al di fuori dell'orizzonte civilizzato, di quelle pratiche e attitudini che si caratterizzano come selvagge, scomposte, proibite. Non si tratta però soltanto del rifiuto di uno spazio fisico (lo spazio di Fauno), ma anche di un tempo, vale a dire di quell'età caratterizzata dalla caccia, dalla suddivisione in bande, dalle corse, attività e pratiche queste tipiche degli iuvenes: Remo, quasi ormai assommasse nella sua persona e nel loro complesso le caratteristiche selvagge di entrambi, è come costretto ad uscire di scena: non può entrare nel mondo composto e ordinato della città, e pertanto ne viene espulso con la violenza, sia che ciò avvenga nella mischia che precede la fondazione sia che ciò avvenga dopo che il fratello ha tracciato le mura 28 •

Quello su cui forse la lettura simbolico-allegorica di Briquel e Fraschetti ha poco insistito è il luogo deputato allo scempiamento della gemellarità. Se l'eliminazione del "doppio" è un presupposto necessario alla fondazione, ciò significa che il passaggio dal mondo delle selve a quello della vita sociale organizzata è pensato come il risultato di una detrazione. In altri termini, se è vero che il racconto mitico parla per simboli allora vuol dire che i gemelli sono compatibili con il mondo caotico della natura, ma non con quello ordinato della città. Si potrebbe, dunque, utilizzare questa formula:

1.7. A questa stessa linea inrerpretativa può essere ricondono anche Schilling (1961), che individua nel consumo degli exta da pane di Remo (Ovidio, Fasti Il, 361-378) l'episodio che fa di quest'ultimo «le reprouvé» e di Romolo «l'élu>>. 1.8. Frascheni (2.001., pp. 33-4). In Eutropio, Breviarium l, 1, 1., Romolo cum inter pastores latrocinaretur, decem et octo annos natus urbem exiguam in Palatino monte constituit; Remo sarebbe, quindi, morro prima di compiere diciono anni, cioè prima di divenire adulto, durame quel periodo di separazione rituale che si trascorre fuori dal mondo e che prepara l'ingresso nella società. 104

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l :

disordine

= 1 : ordine.

In altre parole, per andare dali' altra parte, per entrare nel mondo civile della città, è necessario passare attraverso lo scempiamento della gemellarità, ridurre la dualità all'unità. Ed è questo per l'appunto che consente al mito romano di uscire dal quadro tradizionale dei confronti in tutta la sua specificità. Lungi dall'essere quell'enigma di cui parlano Bremmer e Horsfall (I987, p. 38) 29 , diremo invece che l'assassinio di Remo, indissolubilmente legato alla costruzione del confine, traduce in una forma narrativa assolutamente originale il passaggio dallo "stato di natura" allo "stato di cultura".

6.4 L'ipotesi Wiseman Ovviamente non pretendiamo con questo di aver esaurito i significati del racconto. Spiegare il fratricidio con la necessità da parte dell'eroe fondatore di liberarsi del suo "doppio" in vista della creazione di un nuovo ordine è un'interpretazione della funzione d eli' assassinio che non può soddisfare la polisemia del mito. Di qui l'esigenza di indagare la saga dei gemelli da altri punti di vista, di percorrere altre strade. Come ha fatto Timothy Peter Wiseman, che ha dedicato al personaggio di Remo un intero libro, contribuendo con Andrea Carandini a riportare in auge il grande dibattito sulle origini di Roma. Wiseman, partendo dall'etimologia offerta dall'autore dell' Origo gentis Romanae (Remus da remores, sostantivo collegato al verbo remorari, «ritardare»), considera la storia dei gemelli un'invenzione tarda, sorta nell'ambito del conflitto fra patrizi e plebei (tra il367 e il342): dal momento che i gemelli rappresenterebbero il simbolo della raggiunta uguaglianza nella suddivisione del potere, dietro la figura di «Remo il lento» si nasconderebbero le rivendicazioni della plebe, la cui partecipazione al potere fu effettivamente a lungo ritardata (Wiseman, I9% pp. 97-12.0 ). Sebbene poi il nucleo della leggenda poteva dirsi ormai solidificato verso la metà del IV secolo, i contesti storici e le motivazioni delle generazioni successive avrebbero continuato a produrre varianti e a sedimentare contenuti sempre differenti: «Nuove circostanze richiedono nuovi miti perché possano essere comprese» scrive Wiseman, che individua l'occasione per la riscrittura del mito di fondazione in seguito alla vittoria romana nella battaglia di Sentina:

29. « The murder of Remus remains very much an enigma».

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Durante la terribile crisi degli anni 2.96-2.95 a.C., le tensioni ideologiche erano ancora presenti, personificate nei due consoli che combatterono la battaglia di Sentina: Fabio Rulliano, il vincitore, e il plebeo Decio Mure, il cui sacrificio, a quanto si dice, modificò il corso della battaglia. Forse fu durante la dedica del tempio di Vittoria, nel 2.94, che la grande storia della morte di Remo venne presentata per la prima voltal 0 • L'ipotesi di Wiseman, dunque, è che la devotio di Publio Decio Mure a Sentina abbia di fatto prodotto una versione alternativa della storia dei due gemelli, più congeniale al clima politico e sociale di quegli anni: come il console del 2.95 si era sacrificato per la vittoria del suo esercito, la figura di Remo fu sacrificata al momento della fondazione per garantire all'impresa di Rom o lo successo e durata. Inoltre, prosegue Wiseman, una simile riscrittura del mito poteva essere suggerita dalla pratica rituale: da un lato egli, infatti, ipotizza la messa in atto in quegli anni (2.962.94 a.C.) di un reale sacrificio umano in risposta ad una serie di prodigi infausti, sacrificio che il racconto della morte di Remo avrebbe avuto lo scopo di "sublimare" e far dimenticare, dall'altro individua in alcune versioni di questo racconto (Floro e Properzio) la traccia di tale sacrificio: La leggenda di Remo potrebbe aver avuto, a mio parere, uno sviluppo di questo genere. Remo viene ucciso alla fondazione di Roma, mentre viene scavato il fossato o viene costruito il muro. Secondo Properzio le mura di Roma erano salde grazie all'assassinio di Remo; in Floro, leggiamo che Remo fu la prima vittima sacrificale che consacrò con il suo sangue le strutture difensive della nuova città. Queste descrizioni presuppongono, sicuramente, la conoscenza dell'esistenza di un sacrificio legato alla fondazione 3'. Insomma, secondo Wiseman, Floro e Properzio potrebbero aver conservato la versione originale della storia della morte di Remo, una storia evidentemente dimenticata, o modificata di proposito nelle altre fonti. 30. Wiseman (1995, p. 131). Altro aspetto rilevante della tesi di Wiseman (ivi, pp. 12.1-9) è che i primi annalisti avrebbero utilizzato il materiale narrativo delle praetextae di Nevi o, Ennio e Pomponio Secondo, che a loro volta dovevano avere a disposizione il testo orale risalente alle fasi più arcaiche della loro civiltà. Sarebbero state, quindi, le rappresentazioni sceniche a fornire gli argomenti e la forma drammatica alla prima storiografla e a portare in sé i motivi mitologici della memoria culturale romana. Questa tesi riprende sostanzialmente quella già sostenuta agli inizi del secolo scorso da Soltau (1909, pp. 39 ss., 93 ss.), che a sua volta sviluppava un'intuizione di Niebuhr, secondo cui i carmina convivialia avrebbero costituito il veicolo di trasmissione orale delle più antiche leggende romane. Si veda in proposito Momigliano (1957) e Bremmer, Horsfall (1987, p. 10). Sulle tesi di Wiseman, le osservazioni di Carandini (2.002., pp. 147-51; 2.006, pp. 2.3-32.). 31. Wiseman (1995, pp. 117-8); prima ad esempio Burkert (1984, p. 2.0); Briquel (1990, p. 172.); Oniga (1990, p. 91); Capdeville (1995. pp. 7s-6); Pailler (1997, p. S41 e n. 132.). Sull'atteggiamento dei Romani nei confronti dei sacrifici umani, per !imitarci solo ai contributi più recenti, cfr. Grottanelli (1999a), Di Fazio (2.001), Van Haeperen (2.0os; 2.008), Prescendi (2.007, pp. 169-2.51; 2.011) e Bonfante (2.012.).

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Dato il dibattito suscitato da questa tesi, sarà meglio osservare in dettaglio i due passi in questione. L'epitomatore di Livio descrive così il momento della fondazione: Sembrava sufficiente a proteggere la nuova città un vallo. Mentre Remo con un salto si faceva beffa della sue dimensioni, venne ucciso, è incerto se per ordine del fratello; senza dubbio fu la prima vittima e con il suo sangue consacrò le difese della nuova città [prima

certe victima fuit, munitionemque urbis novae sanguine suo consecravit]l>. Ora, poiché illessema victima e soprattutto l'espressione suo sanguine consecrare rimandano alla sfera del sacrificioll, Wiseman ne deduce che Floro intendesse dire che realmente Remo fu utilizzato come vittima sacrificale dal fratello per rendere sacre le mura della città. La sua tesi si fonda, dunque, su una interpretazione letterale del testo, un testo che, pur essendo un'epitome, sarebbe tuttavia in questo caso più attendibile dell'originale. Quanto a Properzio, i versi in questione si inseriscono all'interno di una sorta di "indice degli argomenti epici" che il poeta si ripromette di affrontare sotto la guida di Mecenate: Canterò l'alto Palatino, pascolo dei tori romani e le mura rese salde con l'uccisione di Remo [et caeso moenia firma Remo], i re gemelli nutriti dalle mammelle selvatiche e crescerà anche il mio talento sotto i tuoi comandP 4 •

In realtà già secondo Kretschmer (1909, p. 301) l'espressione caeso moenia firma Remo andava spiegata in relazione all'antica concezione per cui ogni fondazione di mura richiedeva un sacrificio. La morte di Remo sarebbe stata, dunque, necessaria perché il suo sangue avrebbe conferito perennità e inviolabilità alla cinta del nuovo insediamen tol>. 32.. Floro, Epitome de T. Livio bellorum omnium annorum DCC libri duo I, 1, 8: Ad tutelam novae urbis su.lficere vallum videbatur, cuius dum angustias Remus increpat sa/tu, dubium an iussu fratris, occisus est: prima certe victima fuit, munitionemque urbis novae sanguine suo consecravit. 33· Cospargere un oggetto con il sangue di una vittima sacrifìcale è un'operazione standard nei rituali di consacrazione. Lo scopo che ci si prefigge è quello di fare entrare quell'oggetto nel mondo del sacro, come avviene, ad esempio, nell'hatta'at ebraico celebrato il giorno del Kippur, quando i corni dell'altare dei profumi sono aspersi con il sangue del giovenco; cfr. in propositoLeviticus 4, 5-7 e r6-19. In Leviticus 17, 11 si dice espressamente che il sangue posto su li' altare rappresenta la vita della vittima consacrata. Sulle aspersioni di sangue nei rituali ebraici, oltre al lavoro di Hubert, Mauss (1898, pp. 2.37 ss.), cfr. Grottanelli (1988). 34· Properzio, Elegiae III, 9, so: Caelsaque Romanis decerpta Palatia tauris l ordiar et caeso moenia firma Remo, l eductosque pares silvestri ex ubere reges, l crescer et ingenium sub tua iussa meum. 3S· Così anche Butler (1912., p. 2.09). Il nesso eliminazione di Remo-mura forti ritorna anche in Ti bullo, Carmina 11, s. 2.3-2.4: Romulus aeternae nondum firmaverat urbis l moenia consorti non habi-

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LA LOGICA DEL CONFINE

Muovendo da questi presupposti Wiseman ritiene che dietro la tradizione relativa alla morte di Remo presso le mura si debba leggere l'eco di un antico sacrificio umano, celebrato in occasione della nascita della città. Ma poiché una simile pratica rituale risultava poco consonante con l' autorappresentazione che i Romani diedero di sé e della loro civiltà, essi ne avrebbero rimosso il ricordo, eliminandolo dalla propria memoria culturale, così come avrebbero fatto per altri casi di sacrifici umani (si pensi alle famose vivisepolture eseguite in diverse occasioni nel foro Boario, giudicate da Livio «sacrifici molto poco romani» )3 6. In altre parole Wiseman immagina che il fenomeno di estraniamento che dovette interessare alcuni sacra particolarmente cruenti, propri della religione romana arcaica, abbia in qualche modo operato anche nella trasmissione e continua riscrittura dei racconti mi t ici. Così la versione canonica del mito di fondazione, quella in cui Remo viene ucciso da Romolo sul confine ancora in fieri della città, altro non sarebbe che il risultato narrativo di un processo di rimozione collettivo, tra le cui pieghe, tuttavia, sarebbe ancora possibile scorgere le tracce di ciò che avvenne realmente, vale a dire un "sacrificio di fondazione".

tanda Remo. Ma la relazione che lega i due elementi del binomio, morte di Remo e forza delle mura, non sembra essere di tipo causale. Vi sono poi altri testi della letteratura antica relativi alla morte di Remo che, seppur contrassegnati dall'associazione muro-sangue, non hanno tuttavia alcuna valenza sacrificale; cfr. ad esempio Lucano, Bel!um civile l, 95-97:.fraterno primi maduerunt sanguine muri l nec pretium tanti tel!us pontusque Juroris l tunc erat: exiguum dominos commisit asylum; e Giustino, Historicarum Philippicarum T. Pompeii Trogi libri XLIV in epitomen redacti XXVIII, l, 8-Io: Q!tos autem homines Romanos esse? Nempte pastores, qui latrocinio iustis dominis ademptum solum teneant, qui uxores cum propter originis dehonestamenta non invenirent, vi publica rapuerint, qui denique urbem ipsam parricidio condiderint murorumque fundamenta fraterno sanguine adsperserint; più vicino a Floro e Properzio sembra Orosio, Historiae adversus paganos n, 4, 3, non citato però da Wiseman: ltaque Romulus, interjecto primum avo Numitore, dehinc Remo fratre, arripuit imperium. Urbemque constituit; regnum avi, muros fratris, templum soceri sanguine dedicavit. 36. Livio, Ab Urbe condita libri XXII, )7, 6: Interim ex fatali bus libris sacriflcia aliquot extraordinariaJacta, inter quae Gal!us et Galla, Graecus et Graeca in foro bovario sub terram vivi demissi sunt in locum saxo consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime Romano sacro, imbutum. Cfr. anche Plutarco, Quaestiones Romanae 83 e Marcellus 3, 4· Lo studio fondamentale su questi riti resta quello di Fraschetti (I98I, con bibliografia precedente). Tutte le testimonianze riguardo il minime romanum sacrum appartengono ad un'epoca in cui il sacrificio umano è considerato proprio dei soli barbari; difficile attribuire un valore cronologico preciso alla generica aetas in Plinio, Naturalis historia XXVIII, Il: Boario vero in foro Graecum Graecamque defossos aut aliarum gentium, cum quibus tum res esset, etiam nostra aetas vidit; che con questa espressione Plinio non intenda riferirsi alla sua generazione, ma evidentemente ad epoche remote della storia romana, mi pare dimostrato dalla notizia, riportata in Naturalis historia XXX, Il, secondo cui ancora fino al 97 a.C. si celebravano sacrifici mostruosi che prevedevano l'immolazione di vittime umane; ma anche dal ruolo orgogliosamente rivendicato da Plinio ai Romani nell'aver estirpato questo tipo di monstra dalla cultura druidica (xxx, 13). Sul senatoconsulto del97, Eckstein (198l, in part. P· 93, n. 59). Sul passo di Livio e la sua importanza nella definizione del concetto di terra Italia, si veda Mazzarino (1966, vol. n, pp. ll2.-3l). I08

7

Un sacrificio di fondazione alle origini della città?

].I

Il "sacrificio di fondazione" nella letteratura etnografica Prima di procedere oltre, è necessario delimitare più precisamente i confini di questa specifica tipologia di sacrificio. Parallelamente a ciò che accade nei sacrifici agrari, in cui la vittima viene "fissata" seminandone i pezzi\ nei "sacrifici di fondazione" che precedono o accompagnano l'edificazione di una casa, di un tempio o di un ponte, il corpo o una sua parte (più frequentemente la testa) viene sepolto o murato nelle fondamenta. L'effetto che ci si attende dal rito può essere ottenuto anche aspergendo le pietre di fondazione con il sangue della vittima. In qualche caso poi il sacrificio può essere incruento: è sufficiente seppellire nelle fondamenta qualcosa che abbia un valore (primizie o cibo di altro genere, denaro, pietre preziose ecc.) 1 • Il motivo è largamente attestato nella letteratura folclorica e in particolare nella tradizione popolare europea. A questo genere di credenze appartengono le ballate balcaniche studiate da Mircea Eliade (1943), che raccontano di capomastri impegnati nella costruzione di una casa o di un ponte che non riescono a portare a termine il lavoro fino a quando, nelle fondamenta della costruzione, non viene murata viva la sposa di uno di lorol. Particolarmente famoso è poi l'episodio narrato nella Vita di S. Columcille (san Colomba), monaco irlandese del VI secolo, in cui il santo, in occasione della fondazione della chiesa di Hy in Scozia (Isole Ebridi), non esitò a promuovere l' autosacrificio di uno dei suoi fedeli:

Per i sacrifici agrari, cfr. Huberr, Mauss (1898, pp. 2.73 ss.); Brelich (1966-67, pp. 77-86, 137). Thompson (1955-58, vol. v, p. 318): «S 261: Foundarion Sacrifice. A human being buried alive ar rhe foundarion ofbuildingor bridge»; sui "sacrifici di fondazione", Taylor (1871, pp. 94-7); Sarrori (1898); Eliade (1943); Cocchiara (1950); Brelich (1966-67, pp. 63-75); Seppilli (1977); Oniga (1990, pp. 87-109); Lombardi Sarriani (2.005, pp. 118-23). 3. Per una discussione sulla teoria eliadiana del sacrificio, cfr. Grorranelli (1999b, pp. 8-10, 105-7 ). 1.

2..

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LA LOGICA DEL CONFINE

Columcille said, rhen ro his people: «i t would be well for us that our roots should pass into the earth here». And he said ro rhem: «lt is permitted to you that some one ofyou go under the earth ofthis island to consecrate it». Odhran arose quickly, and rhus spoke: «If you accepr me, said he, I am ready for rhat». «0 Odhran>> said Columcille, «you shall receive rh e reward of rhis: no requesr shall be granred ro any o ne at my romb, unless ask of thee ». Odhran then wenr ro heaven. He (Colum) founded rhe church ofHy then 4 •

In questa auto immolazione si mescolano, come notava a suo tempo Anita Seppilli, ideologia pagana e cristiana. Gli esempi raccolti da Frazer (1911, p. 89) risultano a confronto certamente meno edificanti: In rh e mode m Greece when rhe foundation of a new building is being laid, ir is rhe cusrom ro kill a cock, a ram, or a lamb, and ro ler irs blood flow on rhe foundarion-srone, under which rh e animai is afterwards buried. The objecr of rh e sacrifìce is ro give strengrh and srabiliry ro rhe building. Bur somerimes, insread ofkilling an animai, rhe builder enrices a man ro rhe foundation-srone, secredy measures his body, or a part ofit, or his shadow, and buries rhe measure under rhe foundation-srone; or he lays rhe foundarion-srone upon rhe man's shadow. Ir is believed rhat rhe m an will die within rh e year.

Sacrifici del genere sono attestati in culture molto lontane sia dal punto di vista geografico che etnografico>. Lo stesso Frazer (192.9, p. 488), per fare un ultimo esempio, menziona tra i materiali raccolti a commento dei Terminalia un curioso cerimoniale in uso presso le tribù bantu dei Wachagga (Kilimangiaro), di cui aveva trovato notizia nell'opera del missionario tedesco Bruno Gutmann: With rhese sacrifìces ar boundaries [Terminalia] we may compare a sacrifìce which two chiefs of rhe same rribe (rhe Wachagga) are recorded ro have made ar the serding of rhe boundary berween rheir lands. A young giri and a lamb were buried alive ar rh e spor, and aver their bodies rhe rreary concerning rh e boundary was rarifìed and curses pronounced o n whosoever should violare ir.

Chiarita la morfologia del "sacrificio di fondazione", ci sono almeno due questioni che meritano di essere affrontate: lo scopo che ci si prefigge di ottenere con questo genere di pratiche rituali e la ragione per cui la vittima deve essere sepolta, viva in molti casi, nelle fondamenta della costruzione che si intende edificare. Edward Burnett Taylor (1871, p. 97) leggeva in questo genere di sacrifici la volontà da parte dei costruttori di trasformare l'anima della vittima sacrificata in uno spirito protet4· Reeves (1857, p. 2.03, corsivo nostro). L'episodio è citato da Westermarck (1906, p. 462.), Cocchiara (1950, p. 104) e Seppilli (1977. p. 2.38). 5· Si veda ad esempio la documentazione raccolta da Edmond Doutté per quel che riguarda il Nord Africa (1909, pp. 488-9). IlO

7· UN SACRIFICIO DI FONDAZIONE ALLE ORIGINI DELLA CITTÀ?

core ( «protecting demo n»). La tesi ebbe una certa fortuna sul finire dell'Ottocento. Secondo Henri Hubert e Marcel Mauss (I898, p. 27I, n. 376) 6 lo scopo era quello di creare uno spirito guardiano che rendesse stabile e duratura la nuova fondazione. L'idea di fondo è che questo genere di morte rende la consacrazione della vittima definitiva e irrevocabile, separandola per un verso dal mondo profano da cui essa proviene, dall'altro legando inesorabilmente il suo spirito al luogo della

consecratio. Il s'agi t réellement de la création d'une espèce de dieu auquel o n rendra plus tard un cui te. Il y a là un cas parallèle à celui du sacrifìce agraire. Ce t esprit sera vague ou précis, se confondra avec la force qui rende solide la construction, ou bien deviendra une sorte de dieu personnel, ou sera le deux à la fois. Mais toujours il sera rattaché par certains liens à la victime dont il sort et à la costruction dont il est le gardien et le protecteur; contre !es sorts, !es maladies, !es malheurs, inspirant à tous le respect du seui!, aux voleurs et aux habitants.

L'ipotesi formulata da Paul Sartori (I898) agli inizi del Novecento era di segno diametralmente opposto: i sacrifici edilizi non si prefiggono di creare degli "spiriti guardiani", quanto piuttosto di risarcire gli "spiriti del luogo" della violenza subita. La vittima sacrificale sarebbe donata alle divinità ctonie per placarne l'ira che inevitabilmente avrebbe suscitato l'intrusione di una comunità umana in un'area di loro dominio. Edward Westermarck (I906, p. 464), d'accordo con Sartori, trovava poco logica la spiegazione dello "spirito guardiano" di Hubert e Mauss, perché in questo caso l'anima della vittima sacrificata, evidentemente contro la propria volontà, avrebbe finito per trasformarsi in un demone protettore dei suoi stessi assassinF. Anche Angelo Brelich (I966-67, p. 66) può essere annoverato fra i sostenitori di questo linea interpretativa: Appropriandosi di un pezzo dello spazio ("naturale", "non umano") e volendolo destinare a fini suoi ("culrurali", "umani"), l'uomo- esattamente come appropriandosi di un alimenro, è spinto all'offerta primiziale- è portato a regolare, in qualche modo, i conti con il "non umano" da lui defraudato; per poterlo fare, deve avere di fronte a sé una contro parte personale; questa necessità crea gli "spiriti del luogo", esseri analoghi a quello romano antico delgenius loci; si tratta sempre ed esclusivamente del luogo che interessa in quanto è coinvolto nel!' azione umana. Ciò dimostra che l'azione (l'appropriarsi dello spazio) costituisce il prius rispetto al rito, e il rito (il "sacrificio") rispetto all'idea dell'essere sovrumano cui si rivolge.

Mircea Eliade, che dedicò uno dei suoi lavori giovanili a questo tema, valorizzava

6. Così anche Frazer (1911, p. 89) nel passo sopra citato. 7. Cfr. in questa prospettiva anche Seppilli (1977, p. 237, n. 11). III

LA LOGICA DEL CONFINE

invece l'aspetto della vivisepoltura. Seppellire viva la vittima nelle fondamenta della costruzione (ponte, fortezza, città), infatti, avrebbe lo scopo di conferire una "vita" al fabbricato e all'inorganico, a ciò che per sua natura vita non ha. In questo modo l'opera costruita avrebbe ricevuto stabilità e durata, perché sarebbe divenuta un essere animato, dotato di un'anima. Il significato primordiale di questi sacrifici sarebbe, dunque, quello di «promuovere la costruzione al rango delle "creature", delle esistenze durevoli, che devono perciò essere "animate" sia attraverso l'anima o il sangue della vittima sacrificata, sia attraverso la forza infusa da certe sostanze (oro, perle, alimenti) o effigi» (Eiiade, 1943, p. 49). Come si può notare, le spiegazioni addotte per rendere ragione dei "sacrifici di fondazione" non difettano di argomentazioni. Tuttavia forse non è necessario schierarsi a favore di una teoria piuttosto che un'altra. Per quanto ingegnosa, nessuna di esse, infatti, sembra in grado di poter spiegare tutte le occorrenze, indipendentemente dal contesto culturale di provenienza. Quello che è fuor di dubbio è che, al di là degli strumenti utilizzati e delle credenze sottese, spesso implicite, questo genere di sacrifici si propone di conferire una qualche "forza" al luogo o alla costruzione che sono chiamati a beneficiarne.

7-2

Talismani e reliquie Per questo motivo l'idea del "sacrificio di fondazione" è in qualche modo correlata al tema della "sepoltura talismanica dell'eroe". Si può citare a titolo di esempio la leggenda secondo cui le ceneri di Laomedonte, il mitico fondatore di Troia, sarebbero state sepolte nell'architrave della porta Scea, per cui ifata Troiana sarebbero stati sicuri (tuta) fin tanto che illimen superum di quella porta non fosse stato distrutto8. Per la stessa ragione i Tebani, in un imprecisato momento di difficoltà, avrebbero inviato una missione presso i discendenti dei Troiani per ottenere le ossa di Ettore e seppellirle fuori dalla porta Proetidia9 • Dobbiamo riconoscere tuttavia

8. P lauto, Bacchides 953-955: Ilio tria fuisse audivi fata quae illi jòrent exitio l signum ex arce si periisset; alterum etiamst Troili mors; l tertium, cum portae Phrygiae limen superum scinderetur; Servio, Ad Aeneidem II, 241: o patria versus Ennianus. Sane exclamatio eo pertinet, quod tanta foerat vis consecrationis in porta Troiana, ut etiam post profanationem ab ingressu hostes vetaret. Nam novimus integro sepulcro Laomedontis, quod super portam Scaeam fuerat, tuta fuisse fata Troiana. Divum domus vel quod eius muros Apollo et Neptunus fabricaverunt, ubi etiam Minerva per Palladium cufta est: vel propter Ganymedem, Dardanum, Tithonum. Inclita bello quia superavit Mysiam totam. Sulla origine e natura delle mura di Troia, Baistrocchi (1987, pp. 18-9). 9· Pausania, Descriptio Graeciae IX, 18, 5· II2

7· UN SACRIFICIO DI FONDAZIONE ALLE ORIGINI DELLA CITTÀ?

che nella maggior parte dei casi documentati per via letteraria non viene specificata la ragione per cui il corpo dell'eroe è stato seppellito presso le mura o le porte delle città: molto spesso il dato è fornito senza alcuna specificazione circa le cause o le finalità che lo hanno prodotto. Una notizia attidografica riferisce che Aglauro, figlia del re Cecrope, si gettò giù dalle mura dell'Acropoli per adempiere ad una profezia dell'oracolo di Apollo, secondo cui la guerra allora in corso contro Eumolpo sarebbe cessata se qualcuno fosse morto per la città. È presumibile che Aglauro sia stata seppellita nei pressi dei Propilei se lì sorgeva un suo tempio, dove erano soliti giurare gli efebi prima di partire per una campagna militare 10• Ma è lecito dedurre da questa scarna informazione che lo scopo del sacrificio di Aglauro fosse di assicurare forza e stabilità alle difese della città? Fu per questo motivo che Neottolemo venne sepolto sotto la soglia del tempio di Apollo a Delfi ?" O che la tomba di Etolo, figlio di Ossilo, fu collocata proprio all'interno della porta della città (ev cdrrft Tft m)Ài']) ?'> Non possiamo escludere a priori che entrassero in gioco anche altre motivazioni. Nell'Elena di Euripide, ad esempio, Teoclimeno dice di aver sepolto il padre Proteo ali' ingresso della propria abitazione per continuare ad averlo vicino e potergli rivolgere il saluto ogni volta che usciva o rientrava in casa' 3• Come dimostrano assai bene i casi registrati già a partire da Erwin Rohde in Psyche, era senza dubbio uso comune erigere le tombe degli eroi presso le porte delle case' 4 ; ma ciò non significa che lo scopo di queste sepoltura fosse esclusivamente di tipo apotropaico. D'altra parte, l'idea stessa che il corpo di un eroe dovesse proteggere la città che ne avesse accolto i resti, molto diffusa nel mondo greco, andrebbe distinta dalla logica sacrificale, a cui invece spesso è associata. In altre parole, se pure si credeva che i sepolcri degli eroi avessero virtù profilattiche, ciò non significa che quegli eroi siano stati uccisi o abbiano volontariamente cercato la morte a questo scopo, per essere trasformati o trasformarsi in reliquie protettrici. Quello di Edipo che, giunto a Colono, sceglie di lasciare in eredità a Teseo il proprio corpo perché divenga baluardo e difesa di Atene, è un caso isolato che non possiamo considerare la norma•s. Inoltre, il potere della reliquia è indipendente dalla natura della morte. Quando le città greche si impegnavano nella traslazione delle ossa degli eroi da un Scholia in Demosthenem 19, 303 = FGH 328, fr. IO). Scholia in Euripidem, Orestes 16;;; Scholia in Pindarum, Nemea 7, 47· 12. Pausania, Descriptio Graeciae v, 4• 4· La particolarità di questo caso risiede nella mancanza di uno statuto eroico da parte del protagonista. 13. Euripide, Elena u6;-u66. 14. Cfr. i casi raccolti da Rohde (1894, p. 167, n. 136). 1). Sofocle, Oedipus Coloneus 1)18-1))). Sulla "scomparsa" di Edipo a Colono, Fumagalli Beoni o Brocchieri, Guidorizzi (2012, pp. ;8-6o). 10.

11.

Il3

LA LOGICA DEL CONFINE

luogo ad un altro, era perché si riteneva che quei resti mortali fossero naturalmente dotati di virtù protettrici, non certo acquisite in virtù di un presunto sacrificio' 6• Questa credenza attraversa tutta l'antichità fino al Medioevo. Quello che un tempo ci si aspettava dalle ossa o dalle ceneri dei grandi eroi del mito, si sarebbe chiesto nell'era cristiana alla reliquie dei santi'7. Roma, ad esempio, in età tardoantica avrebbe trovato nelle spoglie di Pietro e Paolo, principes apostolorum, nuovi e inestimabili p ignora di fronte ali' approssimarsi delle orde barbariche: è sufficiente leggere in proposito i versi di Prudenzio in cui i due grandi discepoli di Cristo compaiono come obsidesfidissimi della speranza di salvezza' 8; o quelli di Venanzio Fortunato in cui le tombe degli apostoli sono definite duo propugnacula,fidei turres che Roma ostenta contro i nemici'9. Più interessante ai fini del nostro discorso, perché ritorna l'associazione mura-santo protettore, è una tradizione popolare riferita da Procopio, secondo cui durante l'assedio di Vitige (marzo del 537 d.C.) Belisario avrebbe voluto abbattere e poi ricostruire il "Muro rotto" presso la Porta P in ciana, ma dovette rinunciarvi per l'opposizione della popolazione cittadina, convinta che l'apostolo Pietro sarebbe accorso a difendere quel tratto di muro personalmente: I Romani distolsero Belisario dal proposito di abbattere questa parte del muro e di ricostruirla da capo, sostenendo con forza che l'apostolo Pietro aveva loro assicurato che lui stesso si sarebbe preso cura di difendere quelluogo 10•

Questa convizione diverrà, soprattutto a partire dal

VI

secolo, un topos centrale

16. Si ricordi in particolare la translazione delle ossa di Oreste da Tegea a Sparta (Erodoto, Historiae I, 67-68; Pausania, Descriptio Graeciae III, 3, 6) e queiLr delle ossa di Teseo da Sciro ad Atene (Piutarco, Cimon 8; Theseus 36; Pausania, Descriptio Graeciae III, 3, 7); altri esempi di questo tipo sono stati raccolti da Rohde (1894, pp. 137-43); cfr. ora Fumagalli Beonio Brocchieri, Guidorizzi (2.012, pp. 67-78). Anche a Roma sono note tombe di personaggi mitici poste in prossimità di porte. Basti pensare al sepulcrumAccae, situato secondo Varrone, De Lingua Latina VI 24, subito all'esterno della porta Romanula; alla tomba di Tarpea che la tradizione colloca presso una porta del Campidoglio (la porta Pandana?), o alla tomba di Orazia, situata lungo la via Appia immediatamente ali 'esterno della Porta Capena delle Mura Serviane. Secondo Carafa (2007-o8, p. 670 ), sarebbero da considerare sepolture con funzione protettiva anche i 27 sacraria degli Argei, che stando ad una variante del mito nota a Festo furono uccisi e quindi sepolti in ventisette luoghi diversi del centro protourbano (Paolo Diacono, Festi epitome, s.v. Argea, p. 18 Lindsay). 17. Sulla continuità del culto intorno ai «corpi gloriosi» degli eroi greci e santi cristiani, cfr. Fumagalli Beonio Brocchieri, Guidorizzi (2012). 18. Prudenzio, Peristephanon Il, 457-463. 19. Venanzio Fortunato, Carmina III, 7, 19-20, in MGH AA IV, I, p. S7· 20. Procopio, De Bello Gothico l, 23, s: TOUTO òè TÒ fLÉpoç I> inquit «iussus avibus hic in Palatio prima urbiJundamenta ieci>> 1 l. Riconducendo la scelta del luogo ad un volere sovrannaturale, questa invocazione aveva lo scopo di responsabilizzare il sovrano degli dèi in una situazione di grande difficoltà per i Romani. Tuttavia, il richiamo di Romolo dimostra che, almeno secondo una parte della tradizione, il sito della città non era stato scelto arbitrariamente dal nuovo sovrano, ma che questi aveva piuttosto seguito la volontà divina. 22. Livio, Ab Urbe condita libri l, 6, 4: Quoniam gemini essent nec aetatis verecundia discrimen }zcere posset, ut di quorum tutelae ea loca essent auguriis legerent qui nomen novae urbi daret, qui conditmn imperio regeret, Palatium Romulus, Remus Aventinum ad inaugurandum tempia capiunt. 23. Li vi o, Ab Urbe condita libri l, 12, 4·

I29

LA LOGICA DEL CONFINE

Dobbiamo parlare di "parte della tradizione", perché nei racconti di Dionigi e Plutarco la scelta del luogo viene attribuita ai contendenti e anzi costituisce il motivo principale della divergenza. Ecco il passo di Dionigi: Per qualche tempo la loro ambizione fu tenuta nascosta, ma poi esplose per questo motivo: essi non designarono lo stesso luogo per la fondazione della città, perché il parere di Romolo era di stanziarsi sul Pallantio, oltre che per altre considerazioni, per la fortuna che quel luogo aveva portato loro, perché qui erano stati salvati e allevati; invece Romos proponeva di insediarsi nel luogo che da lui avrebbe poi preso il nome di Remoria. [... ]Attraverso questa rivalità ebbe modo di manifestarsi il loro desiderio di potere, che non ammetteva divisione con altri. Chi avesse infatti ceduto allora, ugualmente in ogni altra cosa avrebbe ceduto al vincitore. Dal momento che, pur con il passare del tempo, questo stato di cose perdurava e la discordia non accennava a diminuire, decisero di comune accordo di chiedere consiglio al nonno materno e si recarono ad Alba. Costui propose loro che fossero gli dèi a decidere chi dei due dovesse dare il nome alla colonia e governar!a•4.

Qui la diversa opzione sulla scelta del luogo è una sorta di pretesto (np6~ctO'tç) che consente ali' antagonismo dei gemelli di manifestarsi e infine di risolversi. Il consiglio di Numitore di nominare arbitri gli dèi (9eoùç 7rOL~O'ct0'9ctt OL!CctO'Taç) aumenta di fatto il valore della posta in gioco, perché allora questi ultimi, nominati giudici, non si limiteranno ad indicare il luogo, ma anche chi dei due dovesse dare il nome alla città e governarla. Più stringata, e più problematica dal punto di visto storico-filologico, è invece la versione di Plutarco: Mentre si preparavano a fondare una sola città, fra loro subito sorse una contesa a proposito del luogo. Rom o lo infatti fondò [EICTLO'E ]la cosiddetta «Roma quadrata» che è tetragona e voleva rendere città [TCoÀ[~m] quel luogo; Remo invece un luogo forte dell'Aventino, quello che era chiamato Remoria e oggi Rignario. Alcuni dicono che dopo aver stabilito di risolvere la contesa attraverso uccelli augurali ed essersi disposti in luoghi differenti, a Remo apparvero sei avvoltoi e a Romolo il doppio; altri sostengono invece che Remo li avesse

24.

Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae l, Bs. s-6; l, 86, I: TÉwç fLÈv oùv ètq>ctv~ Tix

7rÀEOVE1CT~fLtlTtl tlÒTWV ~v. l7rEtTtl OÈ e;eppètyf] aùv TOl~Oe 7rpoq>ètaet. Tò xwplov h9ct lfLEÀÀov lòpòaetv T~V

7r6Àtv oò TÒ tlÒTÒ npeiTO ~lCètTEpoç. 'PwfLÒÀotl fLÈv yil:p ~v YVWfL'I] TÒ nctÀÀètvnov OÌlCL~ElV TWV TE .XÀÀwv EVE!Ctl Kctl T~ç TlÌX'IJç Toii T67rotl, ~ TÒ aw9~vctl TE ctòToiç KtlÌ Tpctq>~vctt 7rctpliaxe· 'PwfL'll oè lio6Ket T~v KctÀOUfLÈVfJV vii v CÌ7r · ÈKelvotl 'PefLoplctv oiKI~etv. [... ] 'EK oÈ T~ç q>tÀovetKictç TtlÒTf]ç ètKotVWVf]TOç eò9ùç il7rEOf]ÀoiiTo q>tÀctpxlct. T c!> yixp eL;ctvTt TÒ KpctT~actv eiç 1rètvTct 6fLOlwç èm9~aea9ctt EfLEÀÀev. Xp6vov ÒÉ Ttvoç èv ToÒT'lJ OtctyevofLÈvOtl, È7reto~ oòoèv ÈfLEtoiiTo TÒ T~ç aTètaewç, 06;ctv cifLq>oiv Te!> fLfJTpo7rètTopt èmTpÈ'fctt7rctp~actv elç T~v 1\À~ctv. ÒÈ ctòToiç TctiiTct ù7roTI9eTctt· 9eoùç 7rOt~acta9ctt otKctaTètç, Ò7roTÉpov XP~ T~v ci7rotKictv Àeyea9ctt lCtlÌ T~V ~'YEfLOVttlV e!Vctl.

·o

8. LA POSTA IN GIOCO

visti veramente e che Romolo avesse mentito, e che soltanto quando giunse Remo a quest'ultimo ne apparvero dodici 1 s.

Sulla «doppia fondazione» di Roma che il testo di Plutarco sembra suggerire (la «Roma quadrata» fondata intorno al Palatino e descritta succintamente nel capitolo 9. e quella circolare intorno al Comizio di cui si parla al capitolo I r), si è discusso e si continuerà a discutere a lungo 16 • Quello che qui più ci interessa è il fatto che anche in questo caso il conflitto nasce, si sviluppa e si consuma tutto intorno alla controversia riguardante il sito della fondazione. Mentre, dunque, in Livio il ricorso al verdetto divino ha lo scopo di dividere il destino dei gemelli, individuando chi dei due dovesse dare il nome alla città, fondarla e poi governarla, in Dionigi e Plutarco è la divergenza di opinioni circa la scelta del luogo ad innescare l'episodio della contesa augurale che si concluderà con la morte di Remo. La versione riferita negli Anna/es si caratterizza invece per l' assoluta predominanza dell'elemento divino su quello umano. In questo caso, infatti, gli dèi non si limitano ad indicare chi dei due dovesse regnare e dare il nome alla città ma, attraverso lo stesso segno, rivelano anche il sito della fondazione. Ora, se questa interpretazione del passo enniano è corretta, è ragionevole supporre, diversamente da quanto sostenuto da Magdelain, che Romolo, appena designato induperator, abbia avvertito la necessità di prendere nuovamente gli auspici, questa volta direttamente sul Pala tino, prima di cominciare a scavare il solco di fondazione e delineare così il profilo del nuovo insediamento. Le inaugurationes, che il complesso delle tradizioni tende a sovrapporre e confondere, sarebbero allora effettivamente due: la prima, descritta nel frammento enniano, designa il re, il nome della città e il luogo esatto in cui fondarla; l'altra, la seconda a cui accenna il solo Dionigi, risponde evidentemente allo scopo di «inaugurare» il Palatino 17 . È in seguito 25. Plutarco, Romulus 9, 4-s: 'Opfl~IJ"OCIJ"l ÒÈ 7rpòç TÒv 17UVOllCl17fLÒV ocùToiç eù9ùç ~v Ò!ocÉpoUO'LV OUTW TÒ iipoTpov, wç T~V èt.pOUfLÉVf]V 7rtlO'>, quasi fosse consacrato con il sangue79.

7S· Sancire viene da •sa-n·k-jo con ampliamento in -jo e inserzione dell'infìsso nasale -n- tipico dei verbi determinativi, ossia di quei verbi che indicano il raggiungimeno dello stato espresso dalla radice. Per la radice •sak-, cfr. Ernout, Meiller (1932, pp. s8s-7 ), Pokorny (19s9. vol. III, p. 878), Fugier (1963, p. m), Benveniste (1969, vol. II, p. 427), e Morani (1981). Di diverso parere Tucker (1931, p. 211 ), che per sacer e sanctus ipotizzava una radice •saq- con il signifìcato di « bind, restrict, enclose, prorect», mentre Lutzky (1993), propone invece la radice •sek-, che esprime l'idea del «tagliare». 76. Secondo Devoto (1937, p. 223), il valore originario di •sak- doveva essere simile a quello espresso dal radicale "pak- e cioè «fìssare», «rendere stabile»; per Fugier (1963, pp. 118, as, 181-3), che seguiva invece la teoria eliadiana del sacro, •sak- doveva indicare ciò che è «existant», «réel»; Fiori (1996, pp. 66-72), attraverso un ampio confronto con le altre lingue indoeuropee, propende per il signifìcato di «separazione», «distinzione>>, «diversità>>; sulla difficoltà di rintracciare l'originario valore semantico di questa radice, ampia discussione in Santi (2004, pp. 17-s8). 77· Ernour, Meillet (1932, p. s87 ): «L'érar desanctus est obrenu par un rite de caracrère religieux; sacer indique un état, sanctus le résultat d'un acre>>. Così anche Ben veniste (1969, vol. II, pp. 426-9 ), il quale, richiamandosi a Varrone, De re rustica III, 17, nora che mentre può esistere una res più sancta di un'altra- (p. 429)- al contrario non può esistere una res più sacra di un'altra; la mancanza di un comparativo proverebbe insomma che il termine sacer non ammette gradi; sulla stessa scia Fiori (1996, p. 67), secondo cui l'aggettivo sacer «defìnisce una realtà che sfugge ad ogni comparazione>> e «prescinde totalmente dall'umano>>,l'aggetivo sanctus invece «individua, per così dire, il confìne della disponibilità umana, perché defìnisce quel carattere del sacrum (e del religiosum) che vieta l'agire umano>>; il sancire, dunque, produrrebbe una «delimitazione>>, il sacrare una vera e propria «eiezione» dalla sfera umana. 78. Virgilio, Aeneis XII, 200. 79· Servio, Ad Aeneidem x n, 200: «Qui foedera fulmine sancit» confirmat, sancta essefacit, quia

cum fiuntJoedera, si coruscatioJuerit, confirmantur: ve/ certe, quia apud maiores arae non incendebantur, sed ignem divinum precibus eliciebant, qui incendebat altaria. «Sancire» autem proprie est sanctum

8. LA POSTA IN GIOCO

Le etimologie degli antichi sono sempre preziose, anche quando sono false, come in questo caso. Perché al di là del posticcio collegamento etimologico (sancire da sanguis), Servio ci da un'indicazione preziosa sul modo in cui si realizza l'atto del sancire: si sancisce qualcosa, lo si rende sanctum attraverso l'effusione del sangue di una vittima sacrificale: sanctum è, difatti, qualcosa che è stato sanguine fuso consecratum. Ciò significa che per creare una res sancta c'è bisogno di una hostia e del suo sangue. Questa interpretazione è confermata, o più probabilmente suggerita a Servio, dall'uso del sintagma sancire sanguine di uso frequente negli autori classici, in particolare in Livio e Cicerone. Vediamo qualche esempio. Dopo la battaglia di Canne, quando Annibale è a Capua, ospite dei Ninni Celeri, Stenio e Pacuvio, il figlio di quest'ultimo, il giovane Calavio, durante un banchetto in cui era presente lo stesso Annibale, di nascosto rivela al padre di essere ormai deciso a mettere in pratica un consilium che permetterà alloro popolo di riguadagnare il perdono e l'alleanza dei Romani: Al padre che gli chiedeva stupefatto quale fosse mai quel piano, il figlio, gettata indietro la toga dalle spalle e mostrato il fianco armato, «lo ora», disse, «consacrerò con il sangue di Annibale il patto con i Romani [sanguine Hannibalis sanciam Romanum jòedus ]. Ho voluto che tu lo sapessi prima, se per caso preferissi essere lontano mentre è portata a termine questa azione» 80 .

La stessa costellazione di parole (sanguis,foedus, sancire) viene utilizzata poco più avanti per descrivere il progetto di Flavio Lucano, capo della fazione lucana favorevole a Roma, improvvisamente passato dalla parte di Annibale: Costui, cambiato improvvisamente parere, nell'intento di guadagnarsi le grazie dei Cartaginesi, non si accontentò di tradire o di trascinare alla defezione i Lucani, ma volle sancire la nuova alleanza con i nemici di Roma con la testa e il sangue del comandante romano che era suo ospite e che ora avrebbe tradito [nisi imperatoris et eiusdem hospitis proditi capite ac

sanguinejòedus cum hostibus sanxisset]B'.

In Cicerone il sintagma sancire sanguine ricorre due volte ed è in entrambi i casi autoreferenziale. In un'orazione del 57 affermava: cum omnium provinciarum pacaliquid, id est consecratum, Jacere fuso sanguine hostiae: et dictum «sanctum», quasi sanguine consecratum. So. Livio, Ab Urbe condita libri XXIII, 8, IO-Il: Cum mirabundus pater quidnam id esset consilii quaereret, reiecta ab umero latus succinctum gladio nudat. «lam ego» inquit «sanguine Hannibalis sanciam Romanum joedus. Te id prius scire volui, si forte abesse, dum Jacinus patratur, malles». 81. Livio, Ab Urbe condita libri xxv, 16, 6: fs mutata repente voluntate locum gratiae apud Poenum quaerens, neque transire ipse neque trahere ad dejèctionem Lucanos satis habuit, nisi imperatoris et eiusdem hospitis proditi capite ac sanguineJoedus cum hostibus sanxisset.

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LA LOGICA DEL CONFINE

tiones, cum omnia cum omnibus Joedera reconciliationes gratiarum sanguine meo sancirentur.8 2 • Quella della vittima sacrificale era, evidentemente, un'immagine particolarmente gradita al Cicerone delle orazioni post reditum. Non mancò infatti di riutilizzarla ancora l'anno successivo, in occasione della difesa di Publio Sestio: Id autem Joedus meo sanguine ictum sanciri posse diceban~ 3 • Egli, insomma, aveva una così alta considerazione del valore politico del proprio sangue da credere che, agli occhi dei suoi nemici, esso fosse in grado di suggellare non un semplice foedus, ma tutte le pactiones, ifoedera e le riconciliationes possibili e immaginabili n eli' anno del turbolento tribunato clodiano. Come si può notare, in tutti gli esempi sopra riportati l'oggetto del sancire è unJoedus. L'espressione rimanda evidentemente ali' antico rituale feziale in base al quale ifoedera venivano stipulati attraverso il sacrificio di una scrofa 84 • Come abbiamo avuto modo di vedere in precedenza, infatti, la formula recitata dal pater patratus in occasione della stipula di un trattato era accompagnata dal colpo che lo stesso sacerdote infliggeva alla vittima sacrificale con una pietra di selce prelevata dal tempio di Giove Feretrio, sul Campidoglio 85. Date queste premesse, ossia l'equivalenza semantica tra sancire e consecrare, e la possibilità di sancire/consecrare un oggetto mediante un sacrificio, è allora possibile che con l'espressione suo sanguine consecravit Floro intendesse dire che il sangue di Remo era servito a «sancire», ossia a «rendere santa» la difesa (munitionem) della città, proprio come ifoedera conclusi secondo le regole del diritto internazionale. Con il "sacrificio" di Remo siamo di fronte alfoedus per eccellenza, al patto primordiale che stabilisce le condizioni di appartenenza ad una nuova forma di aggregazione che risponde al nome di urbs. Non dimentichiamo che le società sono anche grandi costruzioni morali. In questo senso possiamo dire che Floro e Properzio abbiano colto un aspetto sostanziale del mito di fondazione: Remo con la sua morte ha effettivamente "promosso" la nascita di Roma, poiché, non riconoscendo né l'autorità del re, né il valore sacrale del sulcus primigenius, ha mostrato, 82.. Cicerone, Cum populo gratias egit q. 83. Cicerone, Pro Sestio 2.4. 84. Varrone, De re rustica II, 4, 9: Ab sui/lo enim genere pecore immolandi initium primum sumptum videtur, cuius vestigia, quod initiis Ceris porci immolantur, et quod initiis pacis,foedus cum ftritur, porcus occiditur, et quod nuptiarum initio antiqui reges ac sublimes viri in Etruria in coniunctione nuptiali nova nupta et novus maritus primum porcum immolant. Virgilio, Aeneis VIII, 639-641: Post idem inter se posito certamine reges l armati lovis ante aram paterasque tenentes l stabant et caesa iungebant foedera porca. Cfr. anche Servi o, Ad Aeneidem I, 62.:joedus autem dictum ve/ aJètialibus, id est sacerdotibus per quos fiunt foedera, ve/ a porca foede, hoc est lapidibus occisa, ut ipse «et caesa iungebant foedera porca»; iv i, VIII, 641: « iungebant foedera porca» foedera, ut diximus supra, dieta sunt a porca foede et crude/iter occisa. In proposito, cfr. Luraschi (198s). 8s. Livio, Ab Urbe condita libri I, 24, 7-9.

8. LA POSTA IN GIOCO

seppure involontariamente, quali fossero le regole e i confini della città. Il suo corpo. dunque, costituisce davvero la pietra angolare della fondazione romulea; ma non nel senso che a questa espressione darebbe Wiseman: non si tratta, infatti, di un "sacrificio di fondazione", ma piuttosto della fondazione di una norma giuridica, e, come vedremo, di un intero sistema di valori.

8.] Sancire morte o abrogare impunitate Per comprendere meglio il rapporto che i Romani intravedevano tra il «dare la morte» e il «sancire», possiamo ricorrere al discorso pronunciato da Tito Manlio Torquato poco prima di far giustiziare il figlio disubbidiente. La storia è tristemente nota. Siamo nell'ambito della guerra Latina, alla vigilia della battaglia del Veseri, nel34o a.C. Il giovane Tito Manlio, uscito in ricognizione con alcuni suoi compagni, si imbatte in un manipolo di nemici; ripetutamente provocato da un cavaliere di Tuscolo di nome Gemino Mecio accetta di battersi, contravvenendo così all'ordine impartito dai consoli di non combattere contro il nemico fuori dalle fila 86 . Dopo aver ucciso il suo avversario e averne raccolte le spoglie, il ragazzo fa ritorno all'accampamento festeggiato dai suoi, e subito si dirige verso il praetorium, dal padre, non sapendo se dovesse aspettarsi per quella sua impresa una lode o una punizione (ignarus foti foturique, laus an poena merita esset): Affinché tutti, o padre, mi reputino veramente naro dal tuo sangue, ti porro queste spoglie equestri, colte ad un nemico che ho ucciso dopo essere stato provocato 87 •

Con queste parole, egli si riferiva senza dubbio alla famosa impresa che aveva fruttato a suo padre il cognomen di Torquatus, quando da giovane aveva affrontato e ucciso in duello un gigantesco guerriero gallico ( Torquatus dal torques strappato all'avversario) 88 . Suo figlio non aveva saputo scostarsi da questo modello: l'ira o la vergogna di rifiutare il combattimento, oppure la forza del destino, scrive Livio,lo avevano inesorabilmente spinto in quella direzione. Ebbene, dopo aver ascoltato le parole del giovane Manlio, il console fece convocare l'assemblea e una volta radunata, tenne questo discorso:

86. Li vi o, Ab Urbe condita libri VIII, 6, 16: edicunt consules ne quis extra ordinem in hostem pugnaret. 87. lvi, 7, 13: > (sanctus) o «indicato con un segno>> (significatus) dagli uccelli'\ quando cioè riceve un augurium positivo. Dal momento, dunque, che augustus equivale da un lato ad inauguratus, e dall'altro a sanctus, per la proprietà transitiva, anche sanctus ed inauguratus dovrebbero equi-

n

II. Così anche Catalano (1960. p. 293· n. 182; '978. p. 480). primo a formulare questa tesi, valorizzando la definizione liviana di pomerium (Livio, Ab Urbe condita libri I, ss). fu Valeton ( 1897· p. 109 ): «Pomerium erat locus inauguratus sanctus, hoc consilio costituto ut in eo murus aedifìcarentur qui sanctus inde fìeret»; secondo Smith, Tassi Scandone (2013, pp. 46s-6), la sanctitas delle mura deriverebbe dall' inauguratio non tanto del pomerium, quanto del sulcus primigenius, interpretato come un templum minus. 12. Ovidio, Fasti I, 609-612: Sancta vocant augusta patres, augusta vocantur l tempia sacerdotum rite dicata manu: l huius et augurium dependet origine verbi l et quodcumque sua Iuppiter auget ope. 13. Paolo Diacono, Festi epitome, s.v. Augustus, p. 2 Lindsay: Augustuslocus sanctus ab avium gestu, id est quia ab avibus significatus est, sic dictus; sive ab avium gustatu, quia aves pastae id ratum fècerunt. I 57

LA LOGICA DEL CONFINE

valersi' 4 • Per questo motivo, quando Virgilio definisce i moenia di Lavi n io augusta, Servi o parafrasa con moenia augurio consecrata, dove evidentemente il verbo consecrare equivale a.sancire' 1• Ciò non significa, tuttavia, che il valore originario di sanctus fosse inauguratus. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che sancire è un cernine generico, «rendere stabile», «fissare», che può assumere diversi significati a seconda dei contesti. Tutto dipende dagli oggetti che vengono impiegati per sancire: mentre sancire sanguine, come abbiamo visto, significa «consacrare>> - si tratta dunque di un sintagma che afferisce al lessico del sacrificio -,sancire augurio significa invece «inaugurare» ed è espressione tratta evidentemente dal linguaggio degli auguri. lnauguratus, dunque, è soltanto il valore semantico che sanctus assume nell'ambito della disciplina augurale, ma nulla consente di affermare con certezza che si trattasse del significato primario' 6 • Non c'è da stupirsi che questo gioco di specchi abbia disorientato i moderni. Fare ordine nella "giungla" del vocabolario religioso romano è un'impresa davvero ardua, e lo era persino per gli antichi, dai quali, di fatto, ereditiamo le incertezze e le contraddizioni. Quanto alla suddetta ipotesi, secondo cui il particolare statuto delle mura dipenderebbe dall'inauguratio delpomerium, all'interno del quale le stesse mura sarebbero state costruite, possiamo solo !imitarci ad osservare che essa contrasta con la struttura della città romana emersa dalla analisi dei riti di fondazione. Se, infatti, come abbiamo cercato di dimostrare altrove, il pomerium è un perimetro immateriale appena dietro il muro (post murum) che delimita l' Urbs inaugurata, e non uno spazio inaugurato che circonda l' Urbs non inaugurata, come sostenuto a suo tempo da Valeton (1897, pp. 109-22) e poi più tardi da Catalano (1960, pp. 292-304; 1978, pp. 48o-s) e Linderski (1986, in part. pp. 2156-7, n. 31), ne consegue che la sanctitas delle mura, che sorgono davanti e a protezione del pomerium, non ha nulla a che fare con l' inauguratio della zona intrapomeriale. Il sulcus primige-

14. Sull'equivalenza sanctus-(augustus)-inauguratus, Valeton (1892), secondo cui ciò che era inauguratus era anche sanctus, anche se la sanctitas non era esclusiva delle res inauguratae. Sul! 'evoluzione semantica di sanctus, cfr. Fugier (1963, pp. 180-97, 249-92), Seston (1966), e più recentemente Tassi Scandone (2013). 15. Servi o, AdAeneidem VII, 153: «Augusta ad moenia» augurio consecrata. Hinc paulo post illud est «tectum augustum, ingens». Et nisi in augusto loco consilium senatus habere non poterat: unde templum Vestae non foit augurio consecratum, ne illuc convenirei senatus, ubi erant virgines; nam haec juerat regia Numae Pompi/ii: ad atrium autem Vestae conveniebat, quod a tempio remotum juerat. 16. Per il significato più antico di sanctus come inauguratus, Fabbrini (1968, pp. 523-4); cfr. in proposito l'opinione di Catalano (1978, p. 477, n. 135) che preferisce parlare di «"significato tecnico" augurale, evitando così di introdurre un ordine cronologico tra i vari significati, che non risulta dalla fonti, e di irrigidire questo "significato tecnico" in un originario significato esclusivo>>; Smith, Tassi Scandone (2013, in part. pp. 465-9) ritengono che il significato primario di sanctus fosse «munito», «difeso>>, poiché, in quanto inauguratus, risultava essere protetto dalla divinità.

9.IPOTESI SULLA NATURA SACRALE DEL SULCUS PRIMIGEN/US

nius, infatti, viene tracciato solo in seguito ali' inauguratio dell' Urbs e intorno alle pietre terminali che delimitano il circolo pomeriale, quindi in un luogo ancora profano, nel mondo esterno, ai margini dello spazio appena colonizzato. Del resto, se la superficie dove il vomere viene alzato per costruire le porte mantiene, a detta di Plutarco, un carattere inrep~a-ròv xal ~É~YjÀOv funzionale agli interscambi con l' esterno 17 , significa che il solco veniva praticato su un'area non soggetta ad uno statuto giuridico-religioso particolare: lì dove il percorso dell'aratro veniva interrotto, la terra conservava una natura profana conveniente alle esigenze della comunità. Se invece l'intera superficie ali' interno della quale veniva praticato il sulcus primigenius fosse stata inaugurata e la sanctitas derivasse alle mura dal loro essere radicate all'interno di un locus inauguratus, anche le porte avrebbero dovuto essere soggette al medesimo statuto. Ma non è così: nella sintassi rituale descrittaci da Plutarco il carattere &~a-rov xaì iep6v del solco/muro si oppone irrimediabilmente a quello imep~ctTÒv xaì ~É~YjÀOv delle porte.

9·3

Sanctitas delle mura e ius delle porte Questa rappresentazione dicotomica del rapporto mura-porte sembra trovare conferma nella definizione festina dei libri rituales. Come dimostra il loro titolo, la materia di questi Libri era essenzialmente religiosa, poiché tutto ciò che riguarda la vita dello Stato e i suoi organismi (pubblici e privati) è soggetto alle meccaniche del rito, dalla fondazione della città al modo in cui deve essere compiuta la leva militare: I libri chiamati Rituali, sono quei libri Etruschi nei quali è prescritto in che modo si devono fondare le città, consacrare le are e gli altari, a quale sanctitas sono soggette le mura, a quale ius le porte, in che modo le tribù, le curie, le centurie vengono distribuite, l'esercito arruolato e ordinato, e altre cose di questo genere che sono pertinenti alla guerra e alla pace 18 •

Tuttavia, a partire dall'età severiana, non soltanto le mura, ma anche le porte sono considerate dei loci sancti19. Dobbiamo presumere, dunque, che ad un certo punto

17. Plutarco, Q!Jaestiones Romanae 17. 18. Festo, De verborum signifìcatu, s.v. Rituales, p. 358 Lindsay: Rituales nominantur Etrusco-

rum libri, in quibus perscribtum est, quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur, qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae distribuantur, exercitus constituant, ordinentur, cetera que eiusmodi ad bellum ac pacem pertinentia. Sui Libri rituales, oltre all'ormai classica monografia di Thulin (1909), si veda Dumézil (1974, pp. 561-5). 19. Gaio, lnstitutiones 1, 8-9: sanctae quoque res, veluti muri et portae, quodam modo divini iuris sunt. Quod autem divini iuris est, id nullius in bonis est; la stessa formula è ripresa da Giustiniano in

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LA LOGICA DEL CONFINE

della storia del diritto romano lo statuto delle porte sia stato equiparato a quello delle mura? Forse anche in questo caso non è indispensabile una soluzione evoluzionista. Le porte della città, infatti, erano degli iani, ossia dei «passaggi aperti» - transitiones perviae le definisce Cicerone - che, battuti in entrambi i sensi e sormontati da un trabeazione gettata da muro a muro fra due costruzioni dirimpetto, mettevano in comunicazione interno ed esterno10• In Plutarco, come abbiamo visto, il circuito &~ct­ TOV JCcttlEp6v delle mura si interrompe in prossimità delle porte, dove il vo m ere dell'aratro risparmia la terra e permette quindi il passaggio &vEv ÒELCTLÒtXLfWVictç. In realtà la continuità del solco veniva sospesa soltanto in modo apparente: il Òt!iÀELfLfUl costituisce una sorta di ponte fra due sponde del muro che verrano messe in comunicazione attraverso l'architrave e la soglia delle 7nJÀ.ctL. Una volta chiuse, infatti, il circolo delle fortificazioni non avrebbe conosciuto soluzione di continuità; e in effetti, una porta chiusa, almeno per quel che riguarda la sua funzione, non si distingue troppo da un muro. Dunque, l'opposizione è solo momentanea, transitoria, contingente: quando sono aperte le porte sono soggette allo ius; quando invece vengono chiuse diventano tutt'uno con le mura, ereditandone anche lo statuto giuridico>~. In altre parole, tra sanctitas delle mura e ius delle porte non vi è un'opposizione rigida, ma piuttosto una "oscillazione': alimentata dalla possibilità propria di queste ultime di essere aperte o chiuse. Di conseguenza esse possono risultare, a seconda delle circostanze, "profane" oppure "sante': È la funzione che vengono chiamate a svolgere che determina di volta in volta il loro statuto giuridico. Il muro separa, difende, esclude; la porta, almeno quando è aperta, fa esattamente il contrario, lega, unisce, include. Si tratta, insomma, di elementi architettonici complementari che conferiscono al confine quella staticitàfluidità che è necessaria alla sua stessa esistenza: se le mura esprimono per così dire la funzione protettiva del confine, le porte esprimono quella connettiva. Tuttavia, sorte entrambe dal rito dell'aratura primordiale, condividono la medesima "natura': una natura fondamentalmente religiosa». Ed è appunto in questo rito che vanno cercate le radici di quel "potere" che il salto di Remo renderà violentemente concreto.

lstitutiones II, I, 10: Sanctae quoque res, veluti muri et portae, quodammodo divini iuris sunt et ideo nullius in bonis sunt. Ideo autem muros sanctos dicimus, quia poena capitis constituta sit in eos, qui aliquid in muros deliquerint. Ideo et legum eas partes quibus poenas constituimus adversus eos qui contra leges ftcerint sanctiones vocamus; Ermogeniano, Digesta 43.6.l: In muris itemque portis et aliis sanctis locis aliquidJacere, ex quo damnum aut incommodum irrogetur, non permittitur. lO. Cicerone, De natura deorum Il, 67: Cumque in omnibus rebus vim haberent maxumam prima et extrema, principem in sacrifìcando Ianum esse voluerunt, quod ab eundo nomen est ductum, ex quo transitiones perviae ianiJòresque in liminibus profanarum aedium ianuae nominantur. li. In questa stessa prospettiva, Valeton (1895• pp. 7l-3), Baistrocchi (I987, pp. I75-6, n. 103), e ora Sisani (lOI4, p. 365, n. 3l). ll. Sulla sacralità delle porte urbiche, in particolare nel mondo etrusco, cfr. Camporeale (lOil).

r6o

9· IPOTESI SULLA NATURA SACRALE DEL SULCUS PRIMIGENIUS

9·4

Il potere del cerchio Dunque, ancor prima di essere "sancito" dalla morte di Remo, cioè prima ancora di guadagnarsi lo statuto di sanctus, al solco aperto dal vomere era riconosciuta una valenza sacrale, che tuttavia sembra sfuggire alle categorie linguistiche del vocabolario religioso romano. È per questo motivo che Magdelain ( 1976-77, p. 159) trovava assai logico far coincidere sulcus primigenius e pomerium: «Sans le rite de la charme, le pomerium perdrait sa valeur sacrale et ne serait plus qu'une ligne administrative». In realtà, come abbiamo cercato di dimostrare altrove, ilpomerium va tenuto distinto dal solco di fondazione (De Sanctis, 2007; 2.012.a). Si tratta, infatti, di strutture eterogenee, complementari, con funzioni e gradi di inviolabilità diversi: mentre il pomerium, appartiene ali 'universo del sacro- i cippi che lo costituiscono sono senza dubbio dei termini, ossia delle res sacrae -, il sulcus primigenius, da cui nascono invece le mura, non può dirsi "sacro" - non è consacrato, infatti, ad alcuna divinità-, ma neppure "santo" - non è ancora il muro della città; cionondimeno, esso possiede un qualche "potere" che attende un primo violato re per svelarsi e assumere una precisa identità giuridica. Per comprendere le radici di questo "potere", sarà opportuno riesaminare i diversi elementi che costituiscono la sintassi dell' Etruscus ritus. Abbiamo già detto dello status del fondatore e dell'indumento da lui indossato per l'occasione; ma anche l'aratro aveva qualcosa di speciale: il vomere utilizzato per fondare le urbes doveva essere, infatti, di bronzo, un materiale ritenuto particolarmente efficace nei contesti rituali 13 ; inoltre, secondo Giovanni Lido, un autore generalmente preso poco sul serio dagli storici della religione romana (Magdelain, 1976-77, p. r83), la posizione occupata dagli animali impiegati nel rito dell'aratura non era casuale, ma rispondeva ad un preciso significato simbolico: Dopo il rito in cui [Romolo] aveva dato il nome alla città, avendo aggiogato un toro e una vacca, tracciò intorno il muro, mantenendo l'animale maschio fuori, verso i campi, e la femmina verso la città, in modo che i loro uomini siano temuti dagli stranieri e le donne siano fertili a casa'4.

2.3. Plutarco, Romulus 11, 3; Macrobio, Saturnalia V, 19, 13: Sed Carminii viri curiosissimi et docti verba ponam, qui in libro de Italia secundo sic ait: «prius itaque invenio et Tuscos aeneo vomere uti m m conderentur urbes solitos, in Taegeticis eorum sacris invenio». Si vedano in proposito i modelli miniaturistici di aratri in bronzo ritrovati a Talamone e ad Arezzo con probabile destinazione votiva in Carafa (2.0ooa, p. 2.72., con bibliografia precedente). 2.4. Giovanni Lido, De mensibus IV, 73: METà oÈ T~v Ènì Tij ètvayopEVO"EL T~ç n6ÀEwç nÀET~v ~Ev~aç Taiipov flETà OIXfliÌÀEwç nEpL~À9E TÒ nixoç, Tòv flÈY iippEva ènì T~v Tou nEoiov nÀEvpàv ~Ev~aç, T~v oÈ

LA LOGICA DEL CONFINE

A partire da questa penetrazione nel grembo della terra lo spazio ha assunto una fisionomia dicotomica: da una parte, all'interno, le energie frugifere e feconde della terra, dall'altra, all'esterno, la guerra e la morte. È piuttosto facile proseguire sulla strada delle interpretazioni simboliche suggeriteci da Giovanni Lido: le mura che saranno costruite lungo il fossato costituiscono l'aspetto maschile, la forza protettiva eretta a baluardo contro i mali visibili e invisibili provenienti dall'esterno; la terra racchiusa al suo interno, dove sorgerà la città, esprime invece l'aspetto femminile, verginale e generativo, incarnato dal sacro fuoco di Vesta che brucia al centro dell'abitato. William Francis Jackson Knight (I967, pp. 2.38-44) si era spinto fino al punto di assimilare il sulcus primigenius con cui veniva "legata" la nuova fondazione al cingulus stretto il giorno delle nozze intorno alla vita della virgo e sciolto la notte seguente dallo sposo; ragion per cui nell'immaginario collettivo l'espugnazione di una città doveva equivalere allo stupro di una vergine. Non è necessario spingerei fino a questo punto, ma indubbiamente i Romani hanno impiegato immagini, metafore e pratiche rituali che rivelano una concezione organicistica della città. Servio ricorda che l'abitato che si intendeva distruggere doveva subire un rito opposto e speculare al rito di fondazione: «Infatti, per exaugurare e distruggere le città si utilizza l'aratro, affinché queste vengano distrutte con lo stesso rito con il quale erano state costruite» •s. Per abbattere una città era necessario insomma "dis-ararla", cancellarne le fondamenta religiose; in altre parole svellere il sulcus primigenius dal quale essa aveva avuto origine. E infatti, dopo aver abbattuto le mura, un hostile aratrum, quello del vincitore, doveva ripercorrere probabilmente in senso inverso, cioè in senso orario, il giro percorso dall'ecista al tempo della fondazione• 6. Come una città era stata costruita ritualmente e, nel contempo, le era stata riconosciuta o attribuita una natura quasi vivente ed una esistenza quasi trascendente il mero piano materiale, così la sua fìne era segnata soltanto quando nei suoi confronti veniva celebrata la distruzione rituale. Ciò spiega perché mai il condottiero vittorioso non si accontentasse di



9~Àeuxv hrì TÒ T~ç n6Àewç ftÉpoç, WO"TE ToÙç fth lippevtXç Toiç l~w y[vea-9tXl o~epol.iç, Tàç 9YJÀE[tXç Toiç lvoov yov[ftouç. 2.5. Servio, Ad Aeneidem IV, 2.12.: Nam ideo ad exaugurandas vel diruendas civitates aratrum adhibitum, ut eodem ritu, quo conditae, subvertantur. 2.6. Orazio, Carmina I, 17-2.1: Irae Thyesten exitio gravi l stra vere et altis urbibus ultimae l stetere causa e, cur perirem l Junditus inprimeretque muris l h ostile aratrum exercitus insolens. Che l' orientamento seguito dal fondatore nel tracciare il sulcus primigenius era antiorario si deduce dal fatto che il toro doveva trovarsi sulla destra e ali 'esterno rispetto all'andamento del moto (Servi o, Ad Aeneidem v, 755), mentre la vacca era sulla sinistra e all'interno (Varrone De lingua Latina v, 143; Servio, Ad Aeneidem IV, 2.a; Giovanni Lido, De mensibus IV, 73): eventualità questa che poteva verificarsi soltanto nel caso in cui il rito fosse stato effettuato in senso antiorario.

I62.

9· IPOTESI SULLA NATURA SACRALE DEL SULCUS PRJMIGENIUS

incendiare una città o di raderla al suolo, ma si ritenesse pago soltanto dopo averla «disfatta>>, organicamente «scomposta>> e ritualmente «uccisa>>l7.

Detto questo, l' inviolabilità del solco non può essere ridotta ad un effetto secondario del carattere sacrale degli strumenti utilizzati o spiegata in ragione dei significati simbolici che questi erano in grado di mettere in gioco. Vi è in effetti qualcos'altro che rende questo solco diverso da qualunque altro, ossia la sua forma e il modo in cui essa veniva realizzata. Secondo Festa laforma delle urbes è simillima alla curva di un uncino, per l'inclinazione del bure e del dente a cui è congiunto il vomerel 8. Dunque, l'aspetto delle urbes, la loro forma esteriore, dipende dal modo particolare in cui il fondatore ara, ossia dal fatto che egli tiene la stiva dell'aratro costantemente di sbieco. L'effetto, come detto, è duplice: se da un lato tutte le zolle vengono proiettate all'interno, dall'altro il tracciato del solco assume quel profilo circolare che costituisce laforma tipica delle urbes fondate Etrusco ritu; unaforma tale da giustificare la doppia etimologia di urbs, da urbum (manico dell'aratro) e da orbis (cerchio)l9. Evidentemente l' inviolabilità del sulcus primigenius risiedeva in questa sua particolare morfologia, nel suo essere fatto a forma di cerchio, nel suo essere orbis. In altre parole, essa aveva origine dall'atto stesso del circumagere: nel momento stesso in cui venivano prodotti, per il fatto stesso di essere stati prodotti in quel modo, la fossa e il murus assumevano un carattere sacro, &~aTov Kctllep6v, come dice Plutarco, mentre, là dove la terra restava intatta, nel luogo in cui sarebbero state costruite le porte, lo spazio manteneva invece un carattere profano, cioè inrep~ctTÒv Kctl ~E~YjÀov. Del resto, questo solco sembra riprodurre in forma plastica lo schema di una lustratio. In effetti, come abbiamo visto, lo scopo di queste cerimonie religiose, realizzate attraverso la circoambulazione delle vittime sacrificali intorno all'oggetto da proteggere, è creare una sorta di "cerchio magico", un argine capace di resistere e contrastare i pericoli, di qualunque natura essi siano, provenienti dallo spazio ester-

27. Baistrocchi (1987, p. IIO ). In questo universo di simboli l'assimilazione fondamentale da cui discendono tutte le altre è fra vomere dell'aratro e organo genitale maschile da una parte, e terra arata e organo genitale femminile dall'altra. Non si tratta di una simmetria antropocellurica esclusiva della cultura romana: in molte società tradizionali il lavoro agricolo è percepito come un atto generativo: basti ricordare il mito indiano di Si ca (Rdmdyana 66) e quello etrusco di Tages (Cicerone, De divinatione 11, 23; Ovidio, Metamorphoseon libri xv, 533-559; Paolo Diacono, Festi epitome, s. v. Tages, p. 492 Lindsay; Censorino, De die natali 4, 13), creature divine sorte dalla terra durante l'aratura. 28. Feste, De verbo rum signiflcatu, s. v. Urvat, p. 514 Lindsay: Urvat Ennius in Andromeda signifìcat circumdat, ab eo su/co, qui flt in urbe condenda urvo aratri, quaefit forma simillima uncini curvatione buris et dentis, cui praeflgitur vomer. Sugli aratri usati dai Romani, soprattutto Bettini (2oii, pp. 85-6, con bibliografia). 29. Sulle interrelazioni, non solo etimologiche, era urbum/urvum, orbis e urbs, Bettini (201I, specialmente pp. 83-9 ).

LA LOGICA DEL CONFINE

no 30• Inoltre, come la lustratio si conclude con il sacrificio dell'animale che ha compiuto la circoambulazione (del campo, della casa, o della città), così avviene anche in condendis urbibus, una volta che il sulcus primigenius è stato definito. Dionigi ricorda, infatti, che il fondatore, dopo aver tracciato l' cti!Àct~ Ol'I]VEJC~ç che doveva accogliere le mura, avrebbe dovuto sacrificare la coppia di buoi di cui si era servito per tirare l'aratro 3'. Anche se il sacrificio è di norma la sorte che spetta agli animali che prendono parte alla fondazionelL, in questo caso esso è determinato dalla necessità rituale di chiudere il cerchio tracciato dall'ecista con il suo aratroll. Il sacrificio è, insomma, parte integrante del rito di fondazione. Il fine ultimo dell' Etruscus ritus, dunque, non è tanto quello di separare due spazi eterogenei, quanto piuttosto difendere ciò che viene a qualificarsi come "interno" da ciò che diventa irrimediabilmente "esterno". Quando su questo stesso perimetro verranno erette le mura questa distinzione diverrà ancora più marcata, assumendo il carattere della separazione. Le mura protette dalla sanctitas proteggono a loro volta ciò che racchiudono: parte dell' ager, ma soprattutto l' Urbs in senso tecnico, il cuore della città, racchiusa dal pomeriuml4. La loro funzione come quella di ogni altra cosa che rientra nella categoria del sanctum è fondamentalmente difensivaH. 30. Sulla natura e il significato delle lustrationes nel mondo romano, cfr. Fowler (1908); Baudy (1998, in part. pp. 96-9); Zi6lkowski (1999); Troutier (1009, pp. 615-46; 1010); Linke (1011); sulla lustratio pagi, in particolare Stek (1009, pp. 177-8s). 31. Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae l, 88, 1. 31. Briquel (1987, p. 184, n. 8s) ricorda il sacrificio del toro che ha guidato i Sabini nel loro ver sacrum verso il Sannio (Strabone, Geograhica v, 1) e l'immolazione della scrofa bianca da parte di Enea lungo le rive del Tevere, poco prima di giungere da Evandro (Aeneis VIII, 8J·8s). 33· È difficile definire eventuali relazioni tra il nostro solco curvo e i solchi circolari che nell'Alto Medioevo venivano tracciati intorno ai villaggi a difesa apotropaica contro le invadenze stregoniche e demoniache, ai quali accenna l' lndiculus superstitionum et paganiarum del Concilio Liptinense dell'anno 8s8, con il solo titolo della rubrica De su/cis circa villas (MGH, Leges 1, Capitularia 1, 108, pp. 111-3), sui quali cfr. Heckscher (1930-31). 34· Il muro è sanctus, ma non lo spazio racchiuso dal muro: quest'area, che secondo il modello varroniano, doveva arrivare fin quasi sotto le mura, necessita una protezione a tutela della propria specificità giuridico-religiosa. Il pomerium non è, infatti, un confine di difesa, ma un limite augurale che ha esso stesso bisogno di una difesa. Si potrebbe dire quindi che le mura siano a difesa della zona intrapomeriale ( Urbs) e servano a conservarla ritualmente integra, isolandola da qualunque contatto con l'esterno (De Sanctis, 1007 ). Quanti credono nell'identificazione tra solco primordiale e pomerium vedono piuttosto nelle mura una «manifestazione fenomenica, priva di valore rituale», il che spiegherebbe in epoca storica l'allontananento spaziale dei due perimetri: «Come è ovvio, la logica delle mura, puramente pratica, permette sviluppi assai più liberi e rapidi di quella del pomerio, sostanzialmente giuridico-religiosa, e legata quindi a norme e a interdetti assai più vincolanti. Per questo un rapporto diretto, fisico tra i due potrà riscontrarsi solo all'origine» (Coarelli, 1988, p. 386). 35· Non a caso la nozione di sanctum fornita da Marciano poggia su due termini di ambito militare come dejensum e munitum. Non c'è da sorprendersi quindi che Georges Dumézil trovasse ragionevole abbinare lo statuto delle res sanctae alla "seconda funzione': quella guerriera (Dumézil, 1974, pp. 116-7 ).

Conclusioni Il confine al centro

Torniamo un'ultima volta sul luogo del delitto, poco prima dell'assassinio di Remo: Romolo e i suoi stanno tracciando il sulcus primigenius lungo le pendici del Palatino. Per il momento si tratta di poco più di un'impronta sul terreno, ma ben presto quel muricciolo di terra che segue pedissequamente il tracciato dellafossa diverrà il muro della città di Roma. Remo, che ha avuto la peggio nella contesa augurale, osserva indispettito i lavori: non sa darsi pace di essere stato sconfitto, forse pensa di essere stato ingannato e cova un fiero rancore nel petto, ma ormai i giochi sono fatti e i ruoli decisi. Non gli resta, dunque, che disprezzare a parole l'opera che vede compiersi pazientemente sotto i propri occhi. Ma neanche questo gli basta, vuole dimostrarne l'inefficienza difensiva, l'inutilità; e allora salta. Romolo, o chi per lui, afferra una vanga e lo colpisce sulla testa, uccidendolo sul colpo. Quello che possiamo dedurre da tutta questa storia - l'importante come detto non è se le cose siano andate più o meno in questo modo, ma che siano state ricordate così -è il fatto che per i Romani la costruzione del sulcus primigenius era un affare molto più serio di quanto potesse sembrare in apparenza. Questo perché non si trattava, come poteva credere il povero Remo, di un'opera meramente profana, ma piuttosto, come dice espressamente Varrone, di un ritus, ossia di un'azione codificata nella pratica religiosa con precisi presupposti e conseguenze, che nel caso specifico non si limita a simboleggiare il muro, ma pretende di realizzarlo concretamente. E tuttavia, poiché ci troviamo nei primi istanti di vita della città, e quindi anche della storia di Roma, c tutto deve essere ancora fondato, è necessaria una sorta di "prova" che dimostri non solo l'efficacia di quanto sta facendo Romolo, ma anche la pericolosità di quanto si appresta a fare suo fratello. In altre parole, è come se le mura in costruzione attendessero una prima vittima, qualcuno che ne facesse tragica esperienza e che con la sua morte rivelasse agli altri il terribile "potere" congenito nel loro essere moenia. Insomma, dobbiamo accordare alle religiones dei Romani una forza molto più concreta e vitale di quanto generalmente si sia disposti ad immaginare. Del resto su questo erano d'accordo anche i più disinibiti e intelligenti politici dell'ultima età repubblicana, come Cicerone. È sufficiente in proposito rileggere l'ultima pagina I6S

LA LOGICA DEL CONFINE

del De natura deorum,là dove Quinto Lucilio Balbo risponde così all'accademico Cotta e al suo discorso contro la teologia stoica: lo devo combattere con te in difesa delle are, dei focolari, dei templi, dei santuari degli dèi e delle mura della città, che voi pontefici definite sante e cingete la città più premurosamente con il timore religioso che con le stesse mura. Cose che io considero sacrilego abbandonare, almeno finché avrò vita'.

Evidentemente, la religio con cui i pontijìces avevano cinto la città doveva costituire una barriera assai più potente della vera e propria cinta muraria. Ovviamente il motivo religioso non è disgiunto dal motivo sociale: «Les notions religieuses, p arce qu 'elles sont crues, sont; elles existent objectivement, cornee faits sociaux» (Hubert, Mauss, 1898, p. 306). Il "sacrificio" del fratello, richiamando alla coscienza delle generazioni future la presenza di forze e principi più grandi dei vincoli familiari, ne alimenta, di fatto, il valore ideale. Letto in questa prospettiva, il personaggio di Romolo può essere considerato l'archetipo di un carattere severo e inflessibile, divenuto poi stereotipo nelle rappresentazioni e autorappresentazioni dell'uomo romano, e inserito, dunque, all'inizio di quella lunga galleria di exempla, forme esasperate con cui il mito è solito tradurre un modello culturale, in cui la virtus del civis Romanus si esplica nella scrupolosa osservanza delle regole (si pensi, solo per fare alcuni esempi, ai ritratti di Lucio Giunio Bruto o Tito Manlio T orquato, esempi di severità paterna nei confronti dei figli\ o all'Orazio, uccisore della sorella). La funzione paideutica di questi racconti è evidente: la salvaguardia della res publica e dei suoi valori deve essere anteposta all'amore filiale o fraterno, in sostanza, dunque, alla logica della consanguineità. Siamo evidentemente di fronte a forme di autorappresentazione il cui codice di comportamenti rivela la prevalenza della relazione sociale su quella familiare: si tratta di un primato della civitas sullagens, un primato che si realizza in quelle società fortemente solidali in cui, per usare un'espressione di Maurice Leenhardt (1942, p. roo), «un est une fraction de deux», dove cioè la relazione prevale sull'individuo e questi tende ad identificarsi con la collettività piuttosto che con il proprio iol. Questo per quanto riguarda gli effetti psicosociali del nostro racconto. Se m et-

1. Cicerone, De natura deorum III, 94: Est enim mihi tecum pro ariJ etfocis certamen et pro deorum templis atque delubris proque urbis muris, quos vos pontifìces sanctos esse dicitiJ diligentiusque urbem religione quam ipsis moenibus cingitis; quae deseri a me, dum quidem spirare potero, nefas iudico. 2. Sulla severità dei padri e lo schema comportamentale insiro nella catena di leggende che ha per protagonisti i Manli si veda Bettini (1986, pp. 18-21). Per la severità di Bruto, ivi (pp. 59 ss.). 3· L'espressione utilizzata da Leenhardt per descrivere il funzionamento di alcune società melanesiane fortemente solidali è stata ripresa recentemente da A ime (2002, p. vm).

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CONCLUSIONI

tiarno invece in primo piano la colpa che Romolo intende punire, allora la figura di Remo finisce per avvicinarsi - ma non certo per coincidere, come pure ritengono alcuni - a quella di T urno 4 . Entrambi concludono, infatti, la loro esistenza con un gesto, la violazione di un confine, che li connota irrimediabilmente come portatori di disordine. Tuttavia, mentre l'atto sacrilego compiuto da Turno, lo sradicamento di un grosso terminus, fa sì che egli scivoli nell'universo del "sacro", e sia, dunque, annientato non tanto da Enea, ma dalla stessa divinità nei confronti della quale si è reso colpevole, la trasgressione di Remo, ossia il tentativo di profanare il sulcus primigenius, è invece regolata all'interno della comunità umana: qui è il sovrano, non a caso il fratello - gli esempi sono migliori quanto più estremi-, che ha la responsabilità di punire il colpevole. Questi due racconti, le credenze e i culti ad essi sottesi dimostrano che l'inviolabilità del confine costituisce un principio fondamentale nella grammatica mentale del cittadino romanos. Del resto, non potrebbe essere altrimenti: la definizione dei confini è una questione che riguarda la stessa definizione dell'identità culturale. Se lo spazio non fosse inciso, impresso, lavorato, sia materialmente che concettualmente, «non vi sarebbe cultura» (Remotti, I993· p. 47). La cultura nasce in effetti da un atto di violenza nei confronti della natura, dall'esigenza di imprimere una forma allo spazio, di modificar! o secondo una qualche concezione, costruendo perimetri, varchi, recinzioni; è attraverso questo incessante lavorio della cultura, «questo esercizio culturale» (ibid. ), che ogni comunità definisce sé stessa, crea la propria immagine di sé e il proprio rapporto con il mondo esterno: La tradizione antropologica ha collegato la questione dell'alterità (o dell'identità) a quella dello spazio, perché i processi di simbolizzazione attuati dai gruppi sociali dovevano comprendere e dominare lo spazio per comprendere e organizzare se stessi. Questo legame non si esprime solo a livello politico del territorio o del villaggio. Influenza la stessa vita domestica ed è molto interessante trovare traccia, in società allontanate le une dalle altre dalla storia o dalla posizione geografica, di una necessità che le accomuna: necessità di sistemare spazi interni e di predisporre aperture sull'esterno, di simbolizzare il focolare e la soglia, ma

4· Cfr. p. 153, n. 1. 5· Sulla delimitazione dei confini come caratteristica costante della mentalità religiosa romana, Latte (1960, p. 41). Quella che potremmo definire !'"ossessione" per la costruzione e la difesa del confine non era certamente un'esclusiva dei Romani; si tratta più probabilmente di un carattere culturale dominante dell'antica koiné italica, comune tanto ai popoli dell'Etruria, ritenuti spesso i soli artefici in materia di riti di fondazione, quanto alle comunità del Lazio arcaico; sull'etruscità dei riti di fondazione, cfr. Briquel (wo8) e Giardina (2.012., pp. 2.93-4). Sull'importanza dei confini nel mondo etrusco, Lambrechts (1970, pp. 84-90); per un riscontro archeologico, cfr. Michetti (1.013, con ampia bibliografia).

LA LOGICA DEL CONFINE

contemporaneamente anche necessità di pensare l'identità e la relazione, il medesimo e

l' altro 6• Costruire un confine significa, dunque, recingersi, perimetrarsi, è un modo per definirsi e riferirsi agli altri. Il caso romano si rivela allora estremamente interessante per l'analisi antropologica, poiché dimostra che una delle strategie più efficaci per «comprendere e dominare lo spazio», e dunque solidificare la propria identità, consiste nella "sacralizzazione" dei confini. Confini che designano non solo fisicamente, ma anche simbolicamente, l'orizzonte della città romana, costituiscono l'espressione concreta e tangibile delle regole che bisogna seguire per rimanerne all'interno ed esserne protetti. In questo senso Remo si è dimostrato davvero poco prudente. Abitare un luogo esige la pratica e l'esperienza anche violenta dei suoi confini.

6. Augé (lOO?, p. 47). Sulla relazione fra spazio e identità nella cultura romana, cfr. ora De Sanctis (l014). Sull'attualità del concetto di confine, Mezzadra (lO IO) e Fornari (loii); per quel che riguarda gli effetti economici, sociali e politici della moltipliczione dei confini nel mondo globalizzato, Mezzadra, Neilson (lO q).

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